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MONASTICA

 

 

Ausculta o fili praecepta magistri...

(San Benedetto, Regola)

La Regola è un vero e proprio compendio della Sacra Scrittura. Il modello del monaco è Cristo stesso, e Benedetto intende formare l'uomo "delle beatitudini"; i monaci infatti altro non sono che cristiani desiderosi di attuare l'ideale di vita della prima comunità di Gerusalemme, così come descritto dagli Atti degli Apostoli.

Inoltre, Benedetto offre un mirabile esempio di sintesi tra spiritualità orientale e occidentale e ricorda anche a noi oggi, quanto sia indispensabile il contatto diretto con queste radici cristiane.

 Il Concilio Vaticano II ha riportato l'attenzione non soltanto dei "monaci" o dei religiosi, ma dei cristiani in genere, sull'importanza della conoscenza delle fonti orientali, di quei "santi Padri" dai quali Benedetto attinge, come egli stesso dichiara nell'ultimo capitolo della sua piccola Regola.

Dice infatti il Decreto sull'Ecumenismo:

"In oriente si trovano le ricchezze di quelle tradizioni spirituali che sono state espresse particolarmente dal monachesimo. Ivi infatti fin dai gloriosi tempi dei santi padri fiorì quella spiritualità monastica, che si estese poi all'Occidente e dalla quale, come da sua fonte, trasse origine la regola monastica dei latini e in seguito ricevette ripetutamente nuovo vigore. Perciò caldamente si raccomanda che i cattolici con maggior frequenza accedano a queste ricchezze dei padri orientali, le quali trasportano tutto l'uomo alla contemplazione delle cose divine" (n. 15).

Benedetto XVI, insignito da Cardinale del "Premio “San Benedetto per la promozione della vita e della famiglia in Europa”, conferitogli dalla Fondazione Sublacense “Vita e Famiglia”,  ha sottolineato recentemente un aspetto della spiritualità di San Benedetto:

 “Benedetto non fondò un’istituzione monastica finalizzata principalmente all’evangelizzazione dei popoli barbari, come altri grandi monaci missionari dell’epoca, ma indicò ai suoi seguaci come scopo fondamentale, anzi unico, dell’esistenza, la ricerca di Dio”.

“Egli sapeva, che quando il credente entra in relazione profonda con Dio non può accontentarsi di vivere in modo mediocre all’insegna di un’etica minimalistica e di una religiosità superficiale”.

Da questo punto di vista, ha spiegato il Papa, si comprende meglio l’espressione di San Benedetto: “Niente anteporre all’amore di Cristo”.

“In questo consiste la santità, proposta valida per ogni cristiano e diventata una vera urgenza pastorale in questa nostra epoca in cui si avverte il bisogno di ancorare la vita e la storia a saldi riferimenti spirituali”.

“Così Benedetto, come Abramo, diventò padre di molti popoli. Le raccomandazioni ai suoi monaci poste alla fine della sua regola, sono indicazioni che mostrano anche a noi la via che conduce in alto, fuori dalle crisi e dalle macerie”.

“Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo”.

 

Preghiamo

O Dio, che hai scelto san Benedetto abate e lo hai costituito maestro di coloro che dedicano la vita al tuo servizio,

concedi anche a noi di non anteporre nulla all'amore del Cristo

e di correre con cuore libero e ardente nella via dei tuoi precetti.

 

 


 

 

 

 

Per consultare l'intera Regola di san Benedetto

 

 

 

 

Per leggere la sua vita scritta da san Gregorio Magno

 

 

 

 

Per visionare il catalogo delle pubblicazioni di Scriptorium

 

 

 


 

 

SCRIPTORIUM MONASTICUM

 

 

IL NUOVO TESTO IN LAVORAZIONE

 

 

 

 

Dom Columba Marmion

Abate di Maredsous

 

CRISTO IDEALE DEL MONACO

CONFERENZE SPIRITUALI

 

 

 

Editrice Scritti Monastici - Abbazia di Praglia

 

 

PRESENTAZIONE

 

Dom Columba Marmion nacque a Dublino il 1 aprile 1858, e morì nell’abbazia di Maredsous il 30 gennaio 1923. Abate e monaco esemplare, profondamente innamorato di Dio e della sua vita monastica, ha speso gran parte della sua vita nella guida spirituale dei suoi monaci e di quanti ricorrevano a lui. Ha scritto moltissimo: libri, saggi, meditazioni personali, appunti minuziosi per conferenze, molti dei quali, raccolti in volumi dopo la sua morte, hanno trasmesso, e continuano a trasmettere ancora oggi al grande pubblico, quei consigli e quei paterni insegnamenti, che nella sua stessa esistenza hanno sempre trovato un coerente e scrupoloso riscontro.

La sua santità è stata riconosciuta ufficialmente anche dalla Chiesa: Papa Giovanni Paolo II lo beatificò con una solenne celebrazione in piazza san Pietro a Roma il 3 settembre 2000.

 

In CRISTO IDEALE DEL MONACO Dom Marmion traccia un modello di vita monastica incentrato totalmente sull'unione intima con Cristo, modello "sublime" di santità, l'alfa e l'omega di ogni azione e di ogni pensiero. Il motivo-guida dell'opera è "Mihi vivere Christus est".

In tutto e per tutto, in completo abbandono, in totale dipendenza, devo vivere Cristo. Una dipendenza che in dom Marmion è cercata, voluta, accettata in pieno, condivisa totalmente. E non solo in teoria, ma in pratica: prova nei sia la sua completa disponibilità a compiere, nell’osservanza scrupolosa dell'obbedienza, la volontà divina, in qualunque modo essa si manifestasse.

Senza questa assoluta aderenza al volere divino, le azioni più brillanti, quelle che possono abbagliare gli uomini, hanno ben poco valore davanti agli occhi di Dio: una vita così spesa non approda a nulla, non serve a niente; la vita invece acquista il suo autentico e pieno valore, vale la pena di essere vissuta, unicamente quando è vissuta alla presenza costante di Dio.

 

Dom Marmion fu un grande maestro di spiritualità. La sua vita fu uno studio continuo di questa disciplina, lasciando sull'argomento pagine bellissime, ricche di insegnamenti e di consigli. Egli, ad esempio, è sempre stato convinto sostenitore dell'importanza della direzione spirituale, della insostituibile figura di un padre spirituale, per coloro che mirano a intraprendere seriamente la via della perfezione.

Ecco allora che oggi, in tempi in cui di direzione spirituale se ne parla molto poco e ancor meno la si pratica, i suoi consigli acquistano un grande valore, diventano di innegabile attualità, soprattutto se si considera che proprio ai nostri giorni è in costante aumento il numero di quelle anime che percepiscono, anche se in maniera alquanto vaga, il bisogno di dedicarsi ad una sequela di Cristo seria ed impegnata.

 

Ci auguriamo allora che quanti avranno l’opportunità di avvicinarsi per la prima volta a queste pagine di Dom Columba Marmion, oppure a quanti le riscopriranno, trovino in esse un concreto aiuto in questo difficile cammino dell’andare verso Dio, sulle orme di Cristo.

È questo il risultato che lo stesso Dom Marmion si augura nella prefazione del libro: «Vorrei che queste pagine potessero far meglio conoscere a molte anime, che cosa sia la perfezione a cui Dio chiama molti; e accrescere nei chiamati la stima della vocazione religiosa, non conosciuta esattamente al tempo nostro; vorrei poter aiutare codesti eletti a svolgere in loro il divino appello, trionfando degli ostacoli frapposti dalle affezioni naturali o dalla frivolezza mondana. Ma sopratutto vorrei con queste pagine riaccendere il primo fervore in quei religiosi che si sentono stanchi per il lungo cammino; spingere i ferventi a salire sempre più in alto nella virtù; eccitando nei più generosi l’ambizione insaziabile della santità.»

 

L’opera è stata consegnata la prima volta alle stampe nell’Abbazia di Maredsous il 12 Luglio 1922, pochi mesi prima della morte del suo autore. incontrando immediatamente una grandissima diffusione, tanto da essere tradotta in numerose lingue.

La versione italiana che proponiamo, curata da Madre Maria Galli, dell’Istituto del Sacro Cuore, è stata pubblicata nel lontano 1942 dall’Editrice Scritti Monastici dell’Abbazia di Praglia. L'ultima ristampa, essendo raggiunta la quota delle 22 mila copie, risale al 1961.

Ai monaci e all'Abate Dom Norberto dell'Abbazia di Praglia, esprimiamo nuovamente il nostro ringraziamento per la concessione fattaci.

                                                                                                                                                                  (Mario Labio)

 

Dom Columba Marmion, Abate di Maredsous (Belgio)

 

 

NOTA DELLA TRADUTTRICE

Questo libro espone i fondamenti e le linee maestre di ogni vita religiosa, sia di contemplativi claustrali, o di religiosi dedicati alle opere di carità nella vita attiva, o di vita mista.

S. Benedetto raccolse la tradizione monastica orientale, quale fu vissuta dai Padri del deserto e dai primi monaci dell’Oriente; ed egli l’adattò all’Italia, all’Europa, come l’eco dell’esperienza già due volte secolare e la fonte da cui scaturirebbero tanti fiumi di santità e d’eroismo.
Da codesta tradizione, moderata da una mente romana, organizzatrice sapiente, che sa unire l’impulso più vigoroso alla giusta valutazione delle forze umane, gli Ordini che seguirono nella Chiesa dedussero il loro rito fecondo, innestandovi i nuovi indirizzi richiesti dai bisogni del loro tempo, e le norme più precise che richiedeva il genere d’apostolato o di forma speciale di vita da ognuno intrapresa.

Ma è sempre utile riudire la voce del Padre comune e riattingere alla primitiva sorgente: lo prova la grande diffusione che ebbe questo libro non solo nella famiglia benedettina, ma dappertutto, ormai tradotto in numerose lingue.
Per questo offriamo la nostra traduzione alle Case Religiose e a tutte le persone pie d’Italia, affinché ad esse pure giunga la parola del santo Abate di Maredsous, e vi susciti frutti copiosi di santità. (Madre Maria Galli)

 

 

 

 

 

Digitalizzazione testo on-line by Kenosis 2007

Si ringrazia l’editrice SCRITTI MONASTICI – ABBAZIA DI PRAGLIA

per la gentile concessione

 

 


 

 

SOMMARIO

 

Parte Prima

LA VITA MONASTICA IN GENERALE

Prefazione

Capitolo 1      Cerchiamo Dio

Capitolo 2      Seguiamo Gesù

Capitolo 3      Il superiore come Vicario di Gesù Cristo nel Monastero 

Capitolo 4      La società cenobitica  

Parte seconda

PUNTO DI PARTENZA E DUPLICE CARATTERE DELLA PERFEZIONE MONASTICA

Capitolo 5     Vinceremo il mondo con la fede

Capitolo 6     La professione monastica 

Capitolo 7     Gli strumenti delle buone opere

A. IL DISTACCO (Reliquimus omnia)

Capitolo 8      Compunzione di cuore

Capitolo 9      Rinunciamo a noi stessi

Capitolo 10    Povertà

Capitolo 11    Umiltà

Capitolo 12    Il gran bene dell’obbedienza

Capitolo 13    L’abbandono a Dio

B. VITA DI UNIONE CON GESÙ CRISTO  (...et secuti sumus te)

Capitolo 14    La lode di Dio

Capitolo 15    La recita dell’Uffizio come mezzo di unione con Dio

Capitolo 16.   L’orazione del religioso

Capitolo 17.   Zelo illuminato

Capitolo 18    La pace di Cristo

 

 


 

 

 

Parte Seconda

PUNTO DI PARTENZA E DUPLICE CARATTERE DELLA PERFEZIONE MONASTICA

 

A - IL DISTACCO

(Reliquimus omnia)

 


 

Capitolo 11

L’UMILTÀ

 

SOMMARIO: L’orgoglio, è uno dei maggiori ostacoli alle effusioni divine è levato via dall’umiltà. — I. L’umiltà è necessaria. — II. Come la considera S. Benedetto e quale posto principale le assegna nella vita interiore; Natura di cotesta virtù. — III. La radice dell’umiltà secondo S. Tommaso e S. Benedetto, è la riverenza verso Dio; unite, dice il santo Patriarca, alle più completa fiducia. — IV. Gradi dell’umiltà stabiliti da S. Benedetto; i due primi si riferiscono anche ai semplici cristiani. — V. Gli altri gradi sono strettamente monastici. — VI Umiltà esteriore; come sia necessaria; suoi gradi. — VII. Come si concilia con la verità e si associa alla fiducia. — VIII. Il più prezioso frutto di cotesta virtù è disporre principalmente l’anima alle effusioni abbondanti della carità perfetta. — IX. Mezzi con cui si perviene all’umiltà: preghiera, contemplazione delle perfezioni divine, meditazione delle umiliazioni di Gesù Cristo. — X. Egli associa l’anima umile alla sua celeste esaltazione.

 

Una delle maggiori rivelazioni che N. Signore fece nell’Incarnazione, è il suo ardente desiderio di comunicarsi a noi per renderci felici: Dio avrebbe potuto restar sempre nella feconda solitudine della divinità una e trina; non ha bisogno delle creature, perchè nulla manca a lui; che è la pienezza dell’essere e causa prima di tutto: «Bonorum meorum non eges» (Sal 15,2); ma siccome ha decretato, nella libertà assoluta e immutevole della sua sovrana volontà, dl darsi a noi, così desidera infinitamente dl farlo. A volte saremmo quasi tentati di creder che Dio possa essere indifferente circa la nostra salvezza, o che abbia solo un vago e inefficace desiderio; ma sono concetti umani, che ritraggono la debolezza della nostra natura, così instabile e impotente; Dio è atto puro; e ciò che nel nostro povero linguaggio diciamo: desiderio divino, è un atto che realmente non si distingue dalla sua essenza, ed è quindi infinito.

Non dobbiamo lasciarci guidare dall’immaginazione, ma seguire la Rivelazione divina: ascoltiamo Dio stesso se vogliamo conoscere la sua vita; rivolgiamoci al Cristo, il Figlio diletto, che è nel seno del Padre: «In sinu Patris» (Gv 1,18), e ci rivelò i divini segreti: «Ipse enarravit».

Ci ha rivelato che Dio ha tanto amato gli uomini da dar loro l’unico suo figlio; «Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenitum daret» (Ivi, 3,16); affinché divenisse la nostra giustizia, la nostra redenzione, la nostra santità. Il Cristo Gesù, per obbedire al Padre: «Sicut mandatum dedit mihi Pater» (Ivi, 14,31), accettò la morte di croce, si fece ostia per noi e nostro cibo: «in finem». Avrebbe Dio spinto l’amore a questi eccessi se non desiderasse infinitamente comunicarsi a noi? Insegna S. Tommaso che l’amor di Dio non è passivo; come causa prima di tutto non può nulla ricevere da altri, ed è amore efficace, efficiente per essenza [1]; e poichè Dio ci ama, desidera con illimitato amore e volontà efficace di comunicarsi a noi.

Ma — chiederete voi — e perchè allora non si dà sempre, ma ci sono anime alle quali non si comunica? Perchè in alcuni è così scarsa l’effusione dei doni di Dio; e chi dovrebbe sovrabbondare di grazia, è invece povero di beni celesti? Se studiamo l’opera della grazia nei cuori, saremo infatti stupiti di vedere effetti cosl differenti: in alcuni, la grazia si espande con lumi e doni abbondanti, e progrediscono rapidamente, come inondati di unzione divina e benefica, che si manifesta a tutti quelli che vivono con loro; in altri, invece, sterilità grande: i Sacramenti, le Messe, le pie letture, l’osservanza della Regola, tutti i mezzi che trasmettono la grazia divina, producono in loro scarsissimo frutto; e se poi esaminiamo davvicino coteste anime, non troveremo, a prima vista almeno, ragione alcuna per spiegare simile differenza. Perchè mai persone esteriormente regolari non godono la unione abituale con Dio e non fanno progressi?

Potremmo facilmente rispondere a questa domanda, se rileggessimo alcune pagine della conferenza precedente. Ci sono i ricchi nello spirito: «divites spiritu»; e i poveri nello spirito (Mt 5,3); solo a questi è dato il regno di Dio con beni sovrabbondanti: «Esurientes implevit bonis»; a quelli invece la nudità del loro nulla: «Divites dimisit inanes» (Lc 1,53).

Tutti abbiamo in noi ostacoli che c’impediscono l’unione con Dio; il peccato e le sue radici, con le perverse tendenze non combattute; e non c’è alleanza possibile, dice N. Signore, tra la luce e le tenebre. Le anime che rinunciano a tutto — a se stesse e alle creature — tolgono gli ostacoli, e aumentano la loro divina capacità; staccandosi da ciò che non è Dio, aspettano da lui il necessario; e abbassando se stesse, si affidano a Dio solo. Questi veri «pauperes spiritu» sono colmati di ogni bene; ma gli altri portano in sè una spaventosa tendenza che si oppone a Dio, l’orgoglio; tendenza radicalmente opposta alle comunicazioni divine; perchè Dio non può dar nulla a cotesti «divites spiritu» contenti di se medesimi. E ciò accade spesso.

Conosceremo quanto sia importante l’umiltà per la vita dell’anima, studiandola In modo più profondo; e vedremo con quanta ragione il B. Padre l’abbia messa a fondamento della vita monastica; poi ne preciseremo la natura e i caratteri. Esamineremo quindi i gradi di umiltà Indicati da 8. Benedetto, seguendo così i vari modi con cui la virtù si manifesta, e segnaleremo I mezzi efficaci per suscitarla nell’anima.

Domandiamo al Cristo Gesù, che ci proponiamo di seguire più davvicino, dopo aver abbandonato tutto per amor suo, di insegnarci l’umiltà. Nel Vangelo egli dice: «Imparate da me. — Discite a me» (Mt 11, 9).

Ma che cosa dobbiamo imparare così specialmente da lui? Forse che Egli è Dio, l’Essere supremo, onnipotente, sapientissimo? «Ciò che dobbiamo imparare da lui, dice S. Agostino, non è fare il mondo nè creare le cose visibili ed invisibili, non a far miracoli e risuscitare i morti - Discite a me non mundum fabricare, non cuncta visibilia et invisibilia creare, non in ipso mundo miracula facere et mortuos suscitare» [2]. Vuole bensì che impariamo da lui le virtù eroiche, che esercita obbedendo fino alla morte, e abbandonandosi pienamente al beneplacito del Padre e ardendo di bruciante zelo per la gloria di lui e la nostra salvezza; ce ne ha dato esempio in tutto di ammirabile perfezione; ma ciò che vuole che Impariamo prima di ogni altra cosa è la mitezza e l’umiltà del cuore; sono le sue virtù nascoste e silenziose, non vedute o disdegnate dagli uomini [3], ma che egli raccomanda così caldamente: «Discite a me quia mitis sum et humffls corde». Domandiamogli dunque la grazia di aver un cuore simile al suo; poichè la perfezione consiste nell’imitazione costante, per amore, del divino modello: «Hoc enim sentite in vobis quod et in Christo Jesu» (Fil 2,5).

 

I. L’umiltà è necessaria

La S. Scrittura, parlando degli orgogliosi nella loro relazione con Dio, adopera una singolare espressione: «Dio resiste ai superbi. — Deus superbis resistit» (1Pt 5,5 - Gc 4,6). È cosa terribile per la creatura essere da Dio abbandonata; che sarà dunque quando egli è contrario? Non si può pensarci senza spavento: Dio è l’unica sorgente della nostra santità, perchè autore di ogni grazia; ma che cosa potremo sperare da lui se non solo non si comunica alle anime nostre, ma ci è nemico e ci respinge?

Vediamo che cosa ci sia di così cattivo e contrario a Dio nell’orgoglioso, poichè egli lo ributta lontano da sè con tanto vigore. La ragione di cotesta opposizione proviene dalla stessa sua natura divina: Egli è il principio e la fine, l’alfa e l’omega (Ap 22,13) di ogni cosa; è causa prima di tutte le creature e sorgente di perfezione; ogni essere viene da lui, ogni bene da lui deriva; ma deve anche ritornare a lui, rendendogli gloria; perchè Dio opera solo per questo fine: «Universa propter semetipsum operatus est Dominus» (Prv 16,4). Per noi sarebbe egoismo e sregolatezza; ma in Dio è necessità che si fonda nella sua natura medesima; perché la santità di lui ha per essenza di far tutto per la propria gloria, altrimenti più non sarebbe l’Essere supremo, che ha per fine se stesso. Sentite ciò che scrive Isaia; come gli angeli cantano la santità di Dio, perchè la sua gloria riempie il cielo e la terra: «Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaot; plena est omnis terra gloria ejus (6,3)»; e anche S. Giovanni a Patmos vide gli eletti prostrarsi davanti al trono di Dio, e cantare: «Tu sei degno, o Signore, di ricever gloria, onore, «potenza, perchè ogni cosa ebbe da te l’essere e la vita» (Ap 4,11): Per questo Iddio dice per bocca di Isaia: «Non darò ad altri la mia gloria» (42,8); poichè nell’eterna contemplazione di se stesso, egli si vede degno di onore infinito, come pienezza di essere e oceano di perfezione; e non potrebbe senza cessare di essere Dio, santità per essenza, permettere che si attribuisca ad altri la gloria che gli è dovuta. Ci dà molte grazie, e persino lo stesso suo Figlio diletto: «Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenitum daret» (Gv 3,16) ce lo dà pienamente e per sempre, se vogliamo; e in lui e per lui ci dà ogni bene: «Cum illo omnia nobis donavit» (Rm 8,32); ci dà la felicità eterna e senza fine, bene massimo per noi; e ci apre l’adito all’intima vita della Trinità beata; ma c’è una cosa sola che non vuole e non può comunicare ad altri: la sua gloria: «Ego Dominus; gloriam meam alteri non dabo».

Che fa invece l’orgoglioso? Vuol togliere a Dio la gloria che gli è dovuta e di cui è geloso, per attribuirla a sè; innalza se stesso e si fa centro, glorificando la propria persona, esaltando le proprie perfezioni ed opere; ne vede il principio in sè e crede di non essere debitore ad altri, nemmeno a Dio; negandogli così l’attributo di primo principio ed ultimo fine. In teoria penserà che ha avuto ogni cosa da Dio; ma nella vita pratica fa come se avesse tutto da sè.

Dato quest’antagonismo tra l’uomo e Dio [4], è necessario che il Signore resista al superbo; lo deve respingere come un ingiusto aggressore: «Superbis resistit»; è grande il Signore, dice la Scrittura; si piega verso gli umili, ma guarda i superbi dall’alto. «Excelsus Dominus et humilia respicit, et alta a longe conosci» (Sal 137,7); e un antico dottore, commentando queste parole, scrive: «Dio guarda i superbi da lontano per abbassarli con maggiore vigore. — Alta, id est superba, de longe cognoscit ut deprimat» [5]. Ci può essere minaccia più spaventosa?

Il Divin Salvatore, così misericordioso e compassionevole, c’insegna la stessa verità nella parabola del Fariseo e del Pubblicano, e in modo da scuoterci fortemente. Guardate il Fariseo; come pieno di sè e sicuro, si mette in mostra con le parole e l’atteggiamento: eccolo là ritto e disinvolto, come chi conosce il proprio valore e le proprie perfezioni; come chi non deve niente a nessuno e non ha bisogno di nulla; racconta a Dio con compiacenza tutto i]. bene che fa; lo ringrazia, è vero; ma, osserva S. Bernardo, questo falso omaggio aggiunge la menzogna all’orgoglio; il Fariseo ha il cuore doppio, di cui parla il Salmista, e col disprezzare il Pubblicano, mostra di tenersi per dappiù di lui, dando a se stesso in realtà la gloria apparentemente tributata a Dio [6]. Non gli domanda nulla, perchè non crede di averne bisogno, egli basta a se stesso; invece chiede a Dio l’approvazione della sua condotta, e pare di sentirgli dire: «Mio Dio, come devi esser contento di me che sono irreprensibile? Non come gli altri uomini, nè come questo Pubblicano». È persuaso che ogni perfezione è cosa sua, e per questo leggiamo nel Vangelo, che N. Signore propose la parabola ad alcuni giudei, che confidavano nella loro propria giustizia.

Che fa invece l’altro attore della scena, il Pubblicano? Se ne sta in fondo, senza nemmeno osare di alzar gli occhi, perchè sa di essere miserabile. Non crede di aver titoli da far valere davanti a Dio; è persuaso di aver solo peccati: «... Mio Dio, pietà di me che sono peccatore...». Si affida solo alla misericordia divina, tutto sperando e attendendo da lei, ponendo in Dio ogni fiducia, ogni speranza. E come agisce Dio con loro? «In verità vi dico, dichiara Gesù, il pubblicano partì giustificato (Lc 18,14); ma non l’altro, il Fariseo; eppure quello era peccatore, e questi esteriormente almeno, un rigido osservante della legge, ma pieno di sè, che sprezzava il Pubblicano innalzandosi nel proprio cuore per le buone opere che compiva, e si metteva al posto di Dio; il Signore lo respinse: «Dispersit superbos mente cordis sui» (Magnificat). Al povero pubblicano che si umilia dà invece grazie abbondanti. «Humilibus autem dat gratiam» (Gc 4,6 – 1Pt 5,5). Terminando la parabola, Gesù ribadisce la legge fondamentale della nostra relazione con Dio, e mette in luce l’insegnamento che ne dobbiamo ricavare principalmente: «Chi si eleva sarà abbassato, e chi si umilia sarà esaltato. — Omnis qui se exaltat humiliabitur et qui se humiliat exaltabitur».

L’orgoglio impedisce l’unione dell’anima con Dio; non c’è in noi, scrive S. Tommaso, tendenza che maggiormente si opponga alle comunicazioni divine: «Per superbiam homines maxime a Deo avertuntur» (II - II, q. 47, a 6, concl.). Siccome Dio è principio di ogni grazia, la superbia è il pericolo più spaventoso per l’anima; e invece la via più sicura alla santità e all’unione con Dio è l’umiltà. La superbia impedisce a Dio di darsi a noi; se non fossimo orgogliosi, si comunicherebbe a noi con maggior abbondanza; e l’umiltà è davvero la virtù fondamentale, senza della quale le altre rovinano, dice l’abbate di Clairvaux: «Virtutum siquidem bonum quoddam ac stabile fundamentum humilitas. Nempe si mutet illa, vlrtutum aggregatio nonnisi ruina est» [7].

La nostra natura decaduta ha in sè ostacoli allo sviluppo della vita interiore; se non li togliamo, impediranno l’acquisto delle virtù; ma il più grande tra essi è la superbia, poichè si oppone radicalmente all’unione divina e alla grazia, di cui Dio solo è la sorgente e senza della quale non possiamo nulla. L’umiltà, dice ancora S. Bernardo, accoglie le altre virtù, le custodisce, le perfeziona: «Humilitas virtutes alias accipit, servat acceptas... servata consummat» [8]. Quindi, l’anima umile è capace di accogliere tutti i doni di Dio, perchè è vuota di sè, e aspetta da Dio tutto ciò che è necessario al suo perfezionamento, sentendosi povera e miserabile. Gli angeli, che non hanno miserie, cantano la santità di Dio; noi lodiamo la sua misericordia: «Misericordias Domini in aeternum cantabo» (Sal 88,2); perchè tutto ciò che Dio fece per noi dopo la caduta che ci travolse, è effetto della sua misericordia. Egli vide l’uomo degradato e impotente, soggetto alle tentazioni ed in balia di pericolose inclinazioni che variano secondo il tempo, la stagione, la salute, l’educazione, e il luogo in cui vive; e fu tocco da tanta miseria, come se fosse una debolezza sua; cotesto movimento divino che lo inclina verso di noi per soccorrerci, è la misericordia: «Quomodo miseretur Pater flliorum, misertus est Dominus timentibus se, quoniam ipse cognovit figmentum nostrum» (Sal 102,13-14).

La nostra miseria è così profonda da poter esser paragonata a un abisso che, a sua volta, richiama quello della divina misericordia: «Abyssus abyssum invocat» (Sal 41,8); ma l’attira soltanto allorchè è da noi ammessa e confessata; l’umiltà ci fa gettare il grido che implora: «Domine, miserere mei»; la confessione pratica e continua della nostra miseria attira lo sguardo di Dio. I cenci e le piaghe dei poveri chiedono per loro; essi non li nascondono davvero, anzi li scoprono per commuovere; e noi pure non dobbiamo farci valere presso Dio vantando i nostri meriti, ma attirarne la misericordia con confessare le nostre debolezze; perchè ognuno di noi ne ha un cumulo sufficiente ad attirare i suoi sguardi pietosi. Siamo come il povero viandante che giaceva sulla via di Gerico, nudo e coperto di ferite; il peccato originale ci ha spogliati della vita di grazia, e i peccati personali hanno piagato le anime nostre; ma Gesù è il buon Samaritano, venuto a guarirci, che versa sulle ferite il balsamo del suo prezioso sangue; ci raccoglie tra le sue braccia e ci confida alla Chiesa, che è tenera madre nostra e ci ama come lui.

Che ottima preghiera è mai il mostrare a Nostro Signore le miserie, le turpitudini che ci sfigurano: «Dio mio, guarda quest’anima che tu hai creata, riscattata; vedi com’è deforme, piena d’inclinazioni che ti dispiacciono; abbi pietà di lei!». È una preghiera che va dritto al cuore di Dio come quella del lebbroso di cui parla il Vangelo: «Jesu, praeceptor, miserere nostri» (Lc 17,13); egli ci guarisce.

Quando siamo persuasi di essere, da noi stessi deboli, poveri, miserabili, infermi, implicitamente esaltiamo la potenza, la sapienza, la santità, la bontà di Dio; e rendiamo alla sua divina pienezza un omaggio così gradito, che egli s’inchina verso l’anima umile per ricolmarla di beni. «Esurlentes implevit bonis». Lo diceva pur San Benedetto [9]: «Il nostro cuore è un vaso destinato a ricevere la grazia; ma perchè se ne possa riempire abbondantemente, deve prima vuotarsi dell’amor proprio e della vanagloria» [10]. Quando l’umiltà vi ha scavato un grande vuoto, la grazia vi irrompe, perchè c’è strettissima affinità tra l’umiltà e la grazia: «Semper solet esse gratiae divinae familiaris virtus humilitatis» [11]. Questa virtù è dunque la più efficace a meritare la grazia, a conservarla, o a ricuperarla se l’abbiamo perduta [12].

C’è un’altra ragione che spiega la liberalità dl Dio verso gli umili: Egli sa che costoro non trarranno mai compiacimento di vanagloria dai suoi doni; non li f aranno propri, come i superbi, ma ne ridaranno a lui tutta la gloria e l’onore; e perciò, — se ci è lecito così esprimerci — Dio non teme di versar in essi l’abbondanza del suoi favori, perchè sa che non ne abuseranno mai, e non li distrarranno dallo scopo a cui egli li destina; più dunque ci vogliamo accostare a Dio e più dobbiamo radicarci profondamente nell’umiltà; ben ce lo dimostra S. Agostino con una immagine familiare: «Vogliamo ottenere uno scopo grandissimo, perchè cerchiamo Dio, vogliamo arrivare a lui nel quale si trova ogni nostra beatitudine eterna; ma non vi possiamo giungere se non per mezzo dell’umiltà. Vuoi essere grande? comincia col rimpicciolirti. Vuoi costruire un edificio che salga al cielo? Fondalo sopra la umiltà. — Magnus esse vis? a minimo incipe. Cogitas magnam fabricam construere celsitudinis? de fundamento prius cogita humilitatis». Più la costruzione deve esser alta, continua il santo Dottore, più devono essere profondi i fondamenti; perché la povera nostra natura è terreno instabile, che slitta continuamente: «Ergo et fabrica ante celsitudinem humiliatur, et fastigium post humiliationem erigitur». Fino a quale altezza vuoi tu portare l’edificio spirituale? Fino alla visione di Dio: «Quo perventurum est cacumen aedificii? Cito dico; usque ad conspectum Dei». Vedete dunque, esclama egli, come deve esser sublime l’edificio, e quale eccelso scopo dovete raggiungere; ma non vi dimenticate che vi potrete arrivare solo per mezzo dell’umiltà. «Videtis quam excelsum est, quanta res conspicere Deum; non elatione sed humilitate attingitur» [13].

 

II. Natura di cotesta virtù

Si comprende allora facilmente perchè San Benedetto, che ci assegna come scopo di trovare Iddio, fondi la nostra vita spirituale sull’umiltà; si era troppo avvicinato a Dio, per ignorare che la umiltà sola ne attira la grazia, senza la quale nulla possiamo. L’ascesi di S. Benedetto si riduce a render l’anima umile, e quindi a farla vivere nell’obbedienza, che è la pratica espressione dell’umiltà; quindi sta per lei il segreto dell’unione intima con Dio [14]. Per il santo Patriarca, il capitolo sull’umiltà è come un sommario della vita spirituale tutta quanta; nel quale egli segna le tappe del cammino dell’anima a Dio, dalla rinuncia al peccato fino alla pienezza della carità; ed egli considera il cammino progressivo della perfezione come esercizio d’umiltà, in modo che cotesta virtù venga a comprendere nel suo sviluppo tutte le altre. Ma non è forse vero che la scala a Dio è fatta con gradi di pazienza, o da un seguito di grazie d’orazione: la discorsiva prima, l’orazione più semplice dopo, e in ultimo quella che unisce misticamente l’anima a Dio? Meglio ancora, non poteva egli darci una scala in cui si succedessero gradi di carità sempre più perfetti? Il Santo patriarca preferì invece questo suo concetto, perchè egli era predisposto, per naturale inclinazione e dono dl grazia, ad intendere le ascensioni dell’anima come una sottomissione sempre più profonda dell’uomo a Dio; in ciò traspare la sua anima essenzialmente religiosa e contemplativa [15].

Il Santo Legislatore tratta questo punto fondamentale in un lungo capitolo, e con un concetto sicuro e largo; non considera l’umiltà solo come una virtù speciale, che si rannoda alla temperanza [16]; ma come l’atteggiamento dell’anima davanti a Dio, in cui si raccolgono i sentimenti diversi che ci devono animare come creature e come figli adottivi; atteggiamento che deve durare per tutta la vita ed essere fondamento della spiritualità. Lo spiegheremo meglio andando avanti.

S. Benedetto comincia col ricordare la legge stabilita da Cristo come conclusione alla parabola del Fariseo e del Pubblicano; chi s’innalza sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato; perché, l’intimo sentimento della padronanza di Dio sulla vita umana fa si che l’uomo si abbassi e si sottometta; per cui anche si eleva e si stabilisce in Dio mediante la stessa sommessione. Quindi il senso profondo del pensiero di S. Benedetto è la proclamazione della verità evangelica che, più ci avanziamo nell’umiltà vera, e più siamo attirati da Dio, salendo verso le cime dell’unione [17] e la teoria dell’umiltà è per lui correlativa a quella della grazia; per cui i progressi dell’anima nella santità sono costituiti dai progressi di Dio in lei stessa. All’anima non resta da fare altro, con l’aiuto della grazia, che aprirsi all’azione divina, a Dio; quindi, ad ogni grado di ascensione, di progresso soprannaturale corrisponde un grado analogo di umiltà, che la schiude a Dio, distruggendo sempre più l’orgoglio; ed ecco come la scala negativa dell’umiltà, diventa in senso positivo quello della perfezione e della carità. Vi possiamo trovare, è vero, una certa parte convenzionale e ingegnosa; ma la base di cotesta scala ascendente è utilissima per ogni progresso nella vita soprannaturale.

Con l’immagine espressiva tolta dal Salmista, S. Benedetto paragona il superbo respinto da Dio al bambino troppo presto divezzato dal latte materno (Sal 130,2); lungi dalla fonte di vita, il bimbo è condannato a morire; ed ecco il pericolo più grave dell’anima: essere separata da Dio, unica sorgente di grazia. Dunque, continua il B. Padre, «se vogliamo raggiungere le cime della somma umiltà, e ottenere l’esaltazione celeste alla quale si perviene con l’umiltà della vita presente, bisogna drizzare questa scala, che apparve a Giacobbe, per la quale vedeva gli Angeli scendere e salire [18]. Il santo Legislatore paragona quindi i due lati di essa all’anima e al corpo; perchè questo pure deve aver parte alla virtù interiore; e la grazia divina tra questi due lati ha disposto i diversi gradi che dobbiamo salire.

Prima di percorrerli tutti, sotto la guida, diciamo in che consista l’umiltà. S. Benedetto non la definisce, ma ne espone le varie manifestazioni; noi prenderemo invece la definizione che ne dà S. Tommaso, il quale nella Somma Teologica commenta il capitolo di S. Benedetto e giustifica i gradi di umiltà da lui indicati [19]. Accade a volte che il Signore conceda a un’anima di primo acchito un alto grado di umiltà, come ad altri dà invece il dono d’orazione; ma solitamente vuole che noi vi cooperiamo, e poichè per noi la stima e il desiderio seguono la conoscenza, badiamo di capir bene che cosa sia cotesta virtù.

Si può definire l’umiltà una virtù morale che ci inclina, per riverenza a Dio, ad abbassarci, rimanendo nel posto che vediamo esser a noi dovuto. È una virtù; ossia una disposizione abituale; non dunque un atto particolare; perchè si potrebbe compierne parecchi anche senz’avere la virtù; questa è costituita dalla disposizione dell’animo, prontamente e facilmente manifestata; è il focolare da cui erompono gli atti, come le scintille sprizzano appena un soffio ne avviva la fiamma.

Come virtù morale, l’umiltà comincia dalla intelligenza, dal giudizio; ma non vi esiste formalmente, benchè ci siano autori che l’insegnano; con S. Tommaso noi diciamo che essenzialmente risiede nella volontà: «In ipso appetitu consistit humilitas essentialiter [20]; existit circa appetitum magis quam circa aestimationem [21]; e come il suo opposto, la superbia, presuppone e contiene il giudizio di sregolata stima di sè, ma consiste formalmente nella compiacenza (atteggiamento dell’animo) che segue il giudizio, anche nell’umiltà la volontà buona aiutata dalla grazia, s’inchina, si abbassa, per riverenza a Dio, spingendo l’intelligenza e tutto l’uomo a contentarsi del posto che gli è dovuto [22].

E qual’è questo posto? Consideriamo la cosa non cogli occhi del mondo, che stima solo ciò che appare e si lascia sedurre dalle false apparenze; ma con gli occhi della fede, come vede Dio, verità per essenza, che non ci inganna mai. Nell’ordine naturale, da me stesso, debbo confessare senza esagerazioni che non ho nulla, né vita, né santità, né forze fisiche, né ingegno: le tue mani, Signore, mi hanno plasmato interamente; «Manus tuae, Domine, fecerunt me totum in circuitu» (Gb 10,18); il mio essere esiste in te: «In Dio viviamo, operiamo, esistiamo. — In ipso vivlmus, movemur et sumus» (At 17,18).

La conservazione attiva delle cose è da parte di Dio una creazione continua; e se Egli ritirasse da me la sua mano, all’istante mi troverei senza vigore, senza volontà, senza ragione, senza vita: «Omnis caro foenum; exsiccatum est foenum et cecidit flos (Is 40,7). Possiedo, è vero, la sostanza della mia anima e del mio corpo, le loro facoltà ed energie; ma le ho avute da Dio. «Che cosa mai ti distingue? dice S. Paolo. Che cos’hai che tu non abbia ricevuto? E se l’hai avuto da altri, perchè te ne glorii come se venisse da te?» (1Cor 4,7).

Nell’ordine soprannaturale, per la grazia siamo figli di Dio, fratelli di Gesù, chiamati dal Padre ad assomigliargli: «Ego dixi: dii estis» (Sal 81,6) è ammirabile condizione, fine sublime, ma Dio vi ci ha chiamati gratuitamente: «Non ex operibus justitiae quae fecimus nos sed secundum suam misericordiam salvos nos fecit» (Tt 3,5-6). Non solo è dono divino e misericordioso, ma non possiamo servircene senza l’aiuto di Dio; è di fede, de fide, che da noi stessi, nell’ordine della grazia, non possiamo avere nemmeno un buon pensiero, meritorio per la vita eterna. Ce lo disse Gesù in termini generali: «Sine me nihil potestis facere» (Gv 15,5). Senza di me, della mia grazia, non potete far nulla; e S. Paolo aggiunge: «Non siamo da noi capaci di far qualcosa di buono, ma la nostra attitudine è da Dio — Non quod sufficientes simus cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis, sed sufficientia nostra ex Deo est» (2Cor 3,5). Altrove ci dice pure che non possiamo invocare il nome di Gesù in modo soprannaturale, se non per la grazia dello Spirito Santo (1Cor 12,3); vedete dunque come ogni bene ci vien da Dio; e il merito delle buone opere è veramente nostro, solo perchè Dio ci concede di acquistarlo [23].

Perciò il B. Padre ci dice di considerare il bene che vediamo in noi come opera di Dio, e non attribuircelo: «Bonum aliquid in se cum viderit, Deo applicet, non sibi» (Reg. c. 4); a noi invece imputiamo tutto il male che facciamo, sapendo che è da noi cagionato: «Malum vero semper a se factum sciat et sibi reputet». Il peccato solo non viene da Dio, ma è esclusivamente nostro; e se anche una volta sola avessimo offeso Dio mortalmente, avremmo giustamente meritato di diventare oggetto di ripugnanza e di odio agli occhi di lui, che è maestà e bontà essenziale; se allora la morte non ci colse per precipitarci nell’eterna dannazione, e invece Dio ci perdonò e ci ridonò la sua grazia e la sua amicizia, è stato un altro effetto della sua bontà: «Misericordia Domini quia non sumus consumpti» (Lam 3,22).

Questa è la condizione nostra, quale ce la dimostra il lume ineffabile della fede, allorchè osserviamo le cose secondo la verità divina. L’umiltà ci mantiene nell’atteggiamento che ne deve risultare per noi; e la volontà nostra, eccitata dalla grazia, ci fa rimanere nel posto che veramente possiamo dire a noi dovuto.

 

III. La radice dell’umiltà

La principale ragione di cotesto abbassamento è, secondo S. Tommaso, la riverenza verso Dio; «Ratio praecipua humilitatis sumitur ex reverentia divina, ex qua contigit ut homo non plus sibi attribuat quam sibi competat secundum gradum quem est a Deo sortitus» [24]. Il gran Dottore ricorda che S. Agostino rannoda l’umiltà al dono del timor di Dio, come fa per la virtù di religione: «Et propter hoc Augustinus humilitatem attribuit dono timoris, quo homo Deum reveretur». Qui sta il punto più profondo, la radice stessa della virtù; ed è importantissimo intenderlo bene.

Quando nell’operazione contempliamo le perfezioni e le opere di Dio; quando un raggio della sua luce ci illumina, il primo impulso dell’anima tocca dalla grazia è quello di abbassarsi, inabissandosi nell’adorazione, perchè è il solo atteggiamento che convenga alla creatura, come tale, in presenza di Dio. L’adorazione consiste nel riconoscere l’inferiorità nostra in confronto colle perfezioni di Dio e la nostra assoluta dipendenza da colui che solo è per se stesso pienezza di vita; consiste nell’omaggio sottomesso all’infinita sovranità. Se una creatura non si mantiene in coteste disposizioni, non è più nella verità; in cielo i beati sono uniti a Dio in un abbraccio che supera ogni sogno di amore più ardente; Dio li possiede ed essi lo possiedono nell’essenza dell’animo loro, perchè è tutto in essi; eppure continuano a sprofondarsi nella più intima riverenza, espressa dall’adorazione: «Timor Domini sanctus permanens in saeculum saeculi». Potremmo noi quaggiù avere altra legge? La fede, che è preludio alla visione beatifica, ci fa conoscere alcunchè delle inscrutabii perfezioni divine, e noi ci prostriamo subito adorando; l’anima, per una forte luce interna, si sente alla presenza di Dio, davanti a lui; e intuisce l’infinito contrasto dei due termini, che si respingono l’un l’altro; maestà e grandezza da un lato, piccolezza e bassezza dall’altro. Può anche l’anima fermarsi a considerare maggiormente uno; e se si porta verso Dio, tende all’adorazione; se invece considera se stessa, tende ad umiliarsi; nell’istante in cui ci annientiamo davanti alla maestà divina nasce in noi l’umiltà. La riverenza che inonda l’anima ne è la sorgente: «Humilitas causatur ex reverentia divina» [25]; se manca la causa, non può esistere l’effetto. Quindi l’umiltà è virtù profondamente religiosa, tutta compenetrata di religione, come è stato detto [26]; essenziaimente propria alla nostra condizione.

Per ottenerla importa dunque contemplare le perfezioni divine. Dio è onnipotente; con una parola fece l’universo, traendo dal nulla il creato; ma quest’opera stupenda, con le legioni di angeli, e tutte le nazioni umane così potenti, per quanto innumerevoli, sono davanti a lui come un atomo; anzi, come se non fossero: «Omnes gentes quasi non sint, sic sunt coram eo» (Is 40,17). Dio è eterno; ogni creatura passa o si trasforma, ma egli non muta nel pieno e sommo possesso dei suoi attributi; perfettissimo, non ha bisogno di nessun altro: «chi mai potè dargli consiglio?» (Ivi, 14). La sua infinita sapienza compie tutto ciò che si propone, con soavità e con forza; la sua giustizia adorabile è equità essenziale; la sua bontà e la sua potenza superano ogni nostro concetto: «Apre la mano e colma di benedizione ogni vivente» (Sal 144,16).

Ma con quali accenti loderemo le opere di Dio nell’ordine soprannaturale? Spesse volte abbiamo parlato del magnifico disegno col quale ci fa suoi figli, partecipandoci la figliolanza del suo Unigenito Gesù (Ef 1,5); e ci rende capaci di attingere la beatitudine perpetua alla sorgente stessa della sua divinità. Il capolavoro dell’eterna idea che è Cristo, negli ammirabii misteri dell’Incarnazione, della Passione e della Risurrezione; l’istituzione della Chiesa coi Sacramenti, la grazia, le virtù, i doni dello Spirito Santo; tutto il meraviglioso complesso che costituisce l’ordine soprannaturale, è conseguenza dell’impulso che muove il Cuore divino a farci figli suoi: «Ut adoptionem filiorum reciperemus» (Gal 4,5). Quest’ordine ammirabile è opera di potenza, di sapienza e d’amore; nel contemplarlo S. Paolo era rapito d’ammirazione, e quando noi pure lo consideriamo, non come potrebbe fare astrattamente un filosofo, con freddo e arido studio, ma nell’orazione, Iddio ci riscalda con la sua luce, ogni grandezza terrena scompare, ogni perfezione creata è come nulla e svanisce quasi fumo. Pensando all’onniscienza divina, alla sovrana sapienza, alla potenza assoluta, alla santità augusta, alla giustizia che non ammette il più lieve impulso di passione, alla bontà illimitata, alla tenerezza e misericordia che non si esauriscono mai, — l’anima nostra esclama: «Chi è come te, Signore? — Quis sicut Dominus Deus noster, qui in altis habitat?» (Sal 112,5). Come sono eccelsi i tuoi pensieri! Ci sentiamo allora compresi da intima e profonda riverenza, inabissandoci nel nostro nulla: che cosa sono io, che cosa sono gli spiriti celesti, e gli uomini tutti in presenza di tanta sapienza e santità, di tanta illimitata potenza, di una eternità incommensurabile? «Omnes gentes quasi non sint, sic sunt coram eo».

Ma questo sentimento di riverenza, per quanto vivo e reale, non si separa mai dalla confidenza e dall’amore [27] perchè l’umiltà non li distrugge; dobbiamo contemplare Iddio in tutte le sue perfezioni e le sue opere, perchè è Signore e Padre e noi siamo le sue cerature, ma siamo anche i suoi figli adottivi; per cui contemplando l’onnipotenza del Supremo Signore unita alla bontà del Padre tenerissimo, sentiamo nascere in noi la riverenza, che è radice dell’umiltà.

Son io riuscito a farvi comprendere bene ed esattamente che cos’è umiltà, secondo l’idea che ne dà S. Benedetto? È molto più ampia di quella che si è venuta precisando dai moralisti, ma non li contraddice; l’umiltà è per lui e per tutti la virtù che frena la sregolata tendenza al sentire altamente di sè; ma egli la considera, specialmente nel Prologo della Regola, nella sua affinità con la virtù di religione, e la completa con l’amore e la confidenza dei figli. La riverenza verso Dio sprofonda l’anima nel proprio abbassamento, ma per ciò stesso la rende capace di adempiere totalmente e amorosamente i desideri del Padre celeste; e l’umiltà è più specialmente, nel pensiero del N. B. Padre, un atteggiamento abituale dell’anima per cui il monaco si tiene davanti a Dio nella verità, riconoscendosi per quello che è, creatura peccatrice e figlio adottivo [28]: e se, dimentichi del vostro nulla, vi presentate a Dio fiduciosi, ma poco riverenti; o se al contrario siete penetrati di timore ma con poca fiducia, voi non fate come dovreste fare. L’abbassamento della creatura non deve nuocere alla fiducia del figlio; nè la qualità di figlio ci deve far dimenticare la nostra condizione di creature e di peccatori; così intesa, l’umiltà penetra tutto il nostro essere; e si capisce come S. Benedetto si sia indotto a caratterizzare la vita spirituale con quest’atteggiamento dell’anima, preciso e comprensivo. Non possiamo intender bene la dottrina del santo Patriarca, se prima non abbiamo capito che radice dell’umiltà è la profonda riverenza di Dio, quale nasce dalla contemplazione di ciò che egli ha fatto per noi, come Signore e come Padre; riverenza che mantiene l’anima nell’abbassamento che le conviene, come creatura macchiata dal peccato; ma in pari tempo la schiude fiduciosa e riconoscente ai voleri del Padre celeste.

Ne consegue che dobbiamo provare la stessa riverenza per tutto ciò che è di Dio, che lo rappresenta o lo annuncia: l’umanità di Cristo e tutti i membri del suo mistico corpo. «Dobbiamo, dice S. Tommaso, non solo aver «rispetto a Dio in lui stesso, ma anche in ogni uomo riverire ciò che è di Dio, benchè con altro rispetto; e quindi dobbiamo per umiltà sottostare a tutti i nostri simili per Iddio. — Non debemus solum Deum revereri in seipso, sed etiam id quod est ejus, debemus revereri in quolibet; non tamen eo modo reverentiae quo reveremur Deum. Et ideo per humilitatem debemus nos subiicere omnibus proximis propter Deum» [29]. Compresi di profonda riverenza verso Dio, rispetteremo anche ciò che è suo nelle creature; e non potendo annientarci completamente davanti a lui, per amor suo ci prostreremo ai piedi delle creature: prima di tutto avremo profondo rispetto alla santa Umanità di Cristo, che merita il culto di adorazione che si deve a Dio, perchè unita personalmente al Verbo; e vedendo Gesù in croce, coperto di sangue, fatto ludibrio della moltitudine (Is 53,3), ci inginocchieremo ad adorarlo, perchè è Dio. Con le debite proporzioni, onoreremo nello stesso modo i membri del suo mistico corpo; perchè mediante l’umanità di Cristo, Iddio si è unito alla natura umana; se profondamente riveriamo il Creatore, ne vedremo l’immagine in ogni uomo; e ci consacreremo a servirlo; perchè, o in un modo o nell’altro, in essa considereremo Iddio. Questo è il concetto del B. Padre quando ci comanda di chinare il capo o di presentarci davanti agli ospiti, quando arrivano o partono, per adorare in essi il Cristo adombrato dalle loro persone «Omnibus venientibus vel discedentibus hospitibus inclinato capite vel prostrato omni corpore in terra, Christus in eis adoretur qui et suscipitur» (Reg. c. 53). È l’atteggiamento dell’umiltà: ci prostriamo davanti agli altri e li serviamo sottomessi, perché riveriamo in loro questo o quell’attributo divino; come la potenza in coloro che hanno l’autorità; il vero motivo dell’obbedienza ad ogni autorità creata sta nella riverenza ai pieni diritti di Dio (D. Lottin, op. cit.).

Concludiamo: l’umiltà, della quale S. Benedetto parla con tanto compiacimento, è un’abituale disposizione dell’anima in presenza di Dio; che nasce dalla luce con cui egli la illumina, e suscita in lei grande riverenza, temperata da una fiducia non meno illimitata; essa dà alla pietà monastica il suo aspetto caratteristico di grandezza, e il suo particolare splendore. Lo Spirito Santo armonizza il sentimento del timore con la pietà filiale, per cui l’anima che si annienta davanti a Dio e al prossimo, è nondimeno sicura della grazia divina in Cristo, e in lui trova tutto ciò che le manca: quest’invincibile sicurezza le comunica la potenza stessa di Dio, e rende feconda la sua vita. Sa che senza il Cristo essa non può nulla: «Sine me nihil potestis facere (Gv 15,5); ma ripete con la stessa certezza che può tutto se si appoggia a lui: «Omnia possum in eo qui me confortat» (Fil 4,13); nell’umiltà è il segreto della forza e della vitalità.

 

IV. Gradi dell’umiltà stabiliti da S. Benedetto: i primi due anche per i semplici cristiani

Dobbiamo ora percorrere, guidati dal Santo Patriarca, i gradi di cotesta virtù; poi ne indicheremo i benefici effetti e i mezzi con cui stabiirla in noi.

Il Dottor Angelico [30] ha approvato l’ordine generale dei gradi d’umiltà come li ha disposti S. Benedetto; prima egli tratta della virtù interiore, mettendo a fondamento la riverenza verso Dio; e con molta ragione; poichè dice S. Tommaso, egli ha considerato la virtù secondo la sua stessa natura; «secundum ipsam naturam rei» [31]. «Gli atti esteriori devono derivare dalla disposizione interna; ma nella stessa umiltà interna bisogna stabilir bene il principio, la radice, ossia la riverenza verso Dio. — Ex interiori autem dispositione humilitatis procedunt quaedam exteriora signa [32]. Principium et radix humiitatis est reverentia quam quis habet ad Deum» [33]. Il timor di Dio ne è dunque il primo grado; senza dl esso l’umiltà non può nascere né durare; e dal timor filiale rampolleranno gli altri gradi della virtù interna, la quale produrrà gli atti esteriori.

Punto di partenza è dunque il rispetto che dobbiamo a Dio. «Il primo grado di umiltà consiste nell’aver sempre davanti agli occhi il timor di Dio, e non dimenticarsene mai. — Si timorem Dei sibi ante oculos semper ponens, oblivionem omnino fugiat» [34]. Di quale timore vuol parlare il santo Patriarca? Non di timor servile, che ha paura del castigo, ed è proprio dello schiavo, perchè impedisce l’amore e la fiducia, ma di quel timore imperfetto che contiene l’amore e si perfeziona poi nel timore reverenziale; anche N. Signore ci raccomanda di temere colui che può condannarci anima e corpo all’inferno: «in gehennam»; è un timore che ci spinge continuamente ad evitare il peccato, per non dispiacere a Dio che punisce il male: «Custodiens se omni hora a peccatis et vitiis»; e questo timore è buono. La Scrittura c’insegna questa preghiera: «Trafiggi o Signore, col tuo timore le mie ossa e la mia carne. — Confige timore tuo carnes meas» (Sal 118,120); e il Salvatore lo intima a coloro che si è degnato di chiamare amici: «Dico autem vobis amicis meis» (Lc 12,4) per questo il B. Padre, che ci insegna un fine spirituale così elevato e vuol condurci a così sublime perfezione, incomincia coll’ispirarci il timor di Dio, come insegna il Vangelo.

Col progredire dell’anima nelle vie spirituali, al timore succede, come movente abituale, l’amore; ma non dobbiamo mai lasciarlo estinguere totalmente, perchè è un’arma da tener in serbo per le ore di combattimento, quando l’amor di Dio sta per essere sopraffatto dalla passione. Sarebbe una pietà sentimentale quella che non volesse altro fondamento che l’amore; una pietà presuntuosa ed esposta a molti pericoli; il Concilio di Trento insegna ripetutamente, che non siamo certi mai di avere la perseveranza finale; e siccome la vita presente è una continua prova di fede, non dobbiamo mai gettare l’arma difensiva, il timor di Dio; ma trasformare abitualmente il sentimento imperfetto nel timore reverenziale, che ha per termine ultimo l’adorazione amante. Dice il Salmista: «Timor Domini sanctus, permanens in saeculum saeculi» (Sal 18,10); il timore del Signore è santo e dura in eterno; perchè è la riverenza che penetra ogni creatura che scorge la pienezza delle perfezioni divine, anche se è diventata figlia di Dio e ammessa al regno dei cieli; gli stessi Angeli, spiriti purissimi, si velano la faccia davanti allo splendore della divina Maestà: «Adorant dominationes, tremunt potestates» (Prefazio della Messa); riverenza che inonda persino l’Umanità di Cristo: «Et replebit eum spiritus timoris Domini» (Is 11,3).

Quando il nostro grande Patriarca nel Prologo ci chiama alla sua scuola, si propone d’insegnarci, come a figli, il timor di Dio: «Venite, filii, ... timorem Domini docebo vos» (Sal 33,12). Dio è un Padre benevolo, e ne dobbiamo ascoltare gli insegnamenti con l’orecchio del cuore, ossia con una disposizione d’amore; perchè ci ha preparato un’eredità di gloria immortale e di eterna beatitudine; ma S. Benedetto ci raccomanda di non stancare con le nostre colpe (Prologo) la bontà di lui che ci aspetta: «quia pius est»; e che, nel suo grande amore, predestina coloro che lo temono all’ineffabile partecipazione della sua stessa vita: «Et vita aeterna quae timentibus Deum praeparata est». Il timore riverenziale verso Dio, Padre di immensa maestà, «Patrem immensae maiestatis» (Te Deum), dev’essere abituale e costante, perchè è una virtù, una disposizione abituale; non basta un singolo atto: «Animo suo semper evolvat»; e da esso, come da vivo ceppo, il B. Padre fa derivare tutti gli altri gradi di umiltà; ciascuno dei quali è un passo all’adorazione profonda di Dio, che è il termine finale della nostra riverenza. Se abbiamo davvero questo rispetto, gli sottometteremo anche la volontà; e ciò costituisce il secondo grado; il vero timor di Dio fa sì che l’uomo voglia conoscere ciò che egli comanda, perchè il trascurar di saper quello che ci prescrive è mancanza di rispetto; la volontà di Dio s’immedesima con lui stesso; se lo temiamo, compiremo ogni suo precetto: «Beatus vir qui timet Dominum, in mandatis ejus volet nimis» (Sal 111,1). Se avremo verso Dio grande riverenza preferiremo sempre la volontà sua alla nostra; e gli immoleremo quel proprio volere che in molti casi è per noi un idolo interno, al quale offriamo incenso continuamente; l’anima umile che conosce i supremi diritti di Dio, quali a lui provengono dalla pienezza del suo essere e dalle infinite sue perfezioni, conosce anche il suo nulla e la sua dipendenza; quindi cerca nella volontà di Dio, e non in sè, la ragione della propria attività; sacrifica il suo volere a quello di Dio; accetta le disposizioni della Provvidenza a suo riguardo; e non si eleva in sé, perchè Dio solo, santo e onnipotente, merita l’adorazione e la sottomissione: «Humilitas proprie respicit reverentiam qua homo Deo subjicitur... [35]. Per hoc quod Deum reveremur et honoramus, mens nostra ei subijcitur».

 

V. Gli altri gradi sono strettamente monastici

Questi due primi gradi non sono propri dei monaci, obbligando anche i semplici fedeli; ma S. Benedetto ce li ricorda perchè la perfezione monastica è per lui il Cristianesimo pienamente vissuto. Il terzo grado invece è più alto, e propriamente monastico: «Ognuno si sottometta in tutto al superiore — Omni oboedientia se subdat majori». Quando l’anima è piena di riverenza verso Dio e la sua volontà, poco importa che egli le manifesti i suoi voleri per la voce di un uomo: «pro Dei amore», obbedirà, come dice S. Benedetto. Il secondo grado, sottomettersi a Dio, è relativamente facile ma obbedire a un uomo in tutto e per la vita intera, è molto più difficile; richiede maggior spirito di fede e una più profonda riverenza a Dio per riconoscerlo nell’uomo che ne fa le veci. Dio vuole che dopo averlo adorato in se stesso, gli rendiamo omaggio di sottomissione in colui che egli ha destinato a dirigerci; costui, per quanto imperfetto in sè, fa le veci di Dio, e partecipa mediante l’autorità all’attributo divino della potenza; per questo motivo l’anima che crede si abbandona a colui, al quale Dio ha comunicato la sua sovranità. Come dice la B. Angela da Foligno, l’anima legge sull’uomo il nome di Dio, perchè lo rappresenta [36]; e risponde a Dio: Sei così grande, ed io tanto poca cosa davanti a te, che per tuo amore e riverenza, accetto di obbedire per tutta la vita a un uomo debole come son io, ma che ti rappresenta: «Humilitas secundum quod est specialis virtus, praecipue respicit subjectionem hominis ad Deum, propter quem etiam aliis humiliando se subjicit» [37].

Col quarto grado aumentano l’abbassamento e l’adorazione dell’anima a Dio: il monaco umile non solo accetta di essere guidato da un suo simile, debole e imperfetto; ma si conserva fedele in questa sottomissione, per quante difficoltà provi; per quante ingiurie, disprezzi e affronti debba tollerare nell’esercizio dell’obbedienza; e tutto ciò senza mormorare, neppure internamente: «Tacita conscientia». L’umiltà si perfeziona qui nell’eroica pazienza; e quale contrasto coll’uomo superbo, che, persuaso di essere perfetto e sicuro della sua importanza, non ammette rimproveri né osservazioni; ma subito irresistibilmente prorompe in parole di giustificazione!

Quando facemmo professione della Regola benedettina, giurammo di praticare questo grado di umiltà; e se ora ci sembra difficile perseverare in così ammirabile pazienza, guardiamo il divino modello nella Passione. È Dio onnipotente, possiede ogni perfezione: eppure gli sputano addosso, ed egli non distoglie il viso: «Faciem meam non averti ab increpantibus et conspuentibus in me» (Is 50,6); tace davanti ad Erode che lo tratta da stolto; «At ipse nihil illi respondebat» (Lc 23,9); si sottomette a Pilato che lo condanna a morte disonorevole, perchè in lui, pagano, ma governatore della Giudea, egli riconosce l’autorità che deriva da Dio: «Non haberes potestatem adversum me ullam, nisi tibi datum esset desuper» (Gv 19,31). Gesù sofferse senza lamento tutti questi oltraggi per riverenza ed amore al Padre suo, che aveva preordinate le circostanze della Passione; «Sicut mandatum dedit mihi Pater (Gv 14,31).

Altrettanto fa, in minori proporzioni, l’umile monaco: accetta ogni abbassamento per la riverenza che porta a Dio; là dove vede il riflesso della maestà divina, egli dà onore; e quando Dio si presenta a lui, qualunque sia la forma con cui si vela, egli si sottomette. E per mostrare che il fedele servitore deve sopportare per amor di Dio ogni cosa contraria, la Scrittura fa dire a quelli che soffrono: «Per te, Signore, siamo dati a morte ogni «giorno... — Et ostendens fidelem pro Domino universa etiam contraria sustinere debere, dicit: Propter te morte adficimur tota die».

Ma in queste circostanze così penose alla natura, l’animo del religioso è sostenuto anche dall’amore e dalla confidenza; se resiste, e non cede nè indietreggia: «Sustinens, non lassescat vel discedat», lo fa per ferma speranza, piena d’amore e di gioia spirituale, che ne inonda l’animo e gli fa dire: «È per lui che mi ha amato, che mi rende vittorioso in ogni incontro. — Et securi de spe retributionis divinae subsequuntur gaudentes et dicentes: sed in his omnibus superamus propter eum qui dilexit nos». Ecco: il B. Padre dall’umiltà mai non disgiunge la fiducia filiale; per la grazia di Cristo speriamo invincibilmente nella bontà del Padre, ma proviamo la riverenza della creatura per il Creatore.

La sottomissione monastica arriva persino a farci svelare al superiore lo stato dell’anima nostra: è il quinto grado d’umiltà. La superbia ci spinge ad innalzarci e a voler la stima altrui; è dunque un grande atto di umiltà scoprire volontariamente a un altro uomo il vero stato dell’anima propria [38] e lo possiamo fare perchè in lui rivedremo Iddio: «Revela Domino viam tuam, et spera in eo» (Sal 36,5). Badate al testo scelto da S. Benedetto: sveliamo l’anima nostra al Signore, Domino, come la fede ce lo fa riconoscere nel superiore; certi che se noi ci comportiamo come figli, Dio sarà per noi Padre amoroso: «Et spera in eo». Qui sta il frutto di cotesto grado di umiltà: Dio ci conduce per una via sicura, nella quale non possiamo errare.

Ma per raggiungerlo davvero, bisogna essere molto sinceri con noi stessi, davanti a Dio ed a colui che ce lo rappresenta; badiamo bene ai moti dell’anima nostra, afflnché non ci sfugga una menzogna, anche nell’atteggiamento o nel modo di fare; si deve poter dire di noi: «Qui loquitur veritatem in corde suo» (Sal 14,3); dobbiamo essere veraci nell’intimo santuario di noi stessi davanti a Dio, e anche con colui al quale apriamo il cuore per amore di Dio: «Veritatem ex corde et ore proferre» (Reg. c. 6), dice il B. Padre. È un grave dovere; né mai ci dobbiamo lasciar sfuggire la minima falsità con noi stessi, perché sarebbe mettere un intonaco sulla coscienza; e se lo facciamo spesso finiremo col confonderla e accecarla. Allora N. Signore non potrà più dimorare nelle anime nostre come in un giardino prediletto, perchè noi non gli mostriamo il cuore come è davvero; ci mancherà quel lume dell’umiltà che ci dimostra il poco che siamo davanti a Dio.

Gli ultimi gradi dell’umiltà interna sono elevatissimi. Consci di aver offeso un Dio così grande e pieno di maestà, e di aver meritato per le nostre colpe di star sotto i piedi dei demoni, ci contentiamo del posto più vile; e in questo pure ci stimiamo «servi inutili e indegni», secondo lo spirito del Vangelo (Lc 17,10).

Siamo così poca cosa davanti a Dio, le nostre azioni per se stesse, son così difettose, che noi non siamo atti a nulla di buono, senza la grazia di Gesù Cristo, la quale avvalora le nostre azioni; se invece siamo persuasi di far molto da noi stessi, e che ci debbano stimare per aver compiuto questo o quello, non siamo arrivati a questo grado di umiltà; e S. Benedetto, che conosce le anime, ha severe minacce contro coloro che persistono nell’orgoglio. «Se, dice egli, fra coloro che esercitano qualche arte nel monastero ci fosse alcuno che s’insuperbisse per la scienza dell’arte sua e perchè gli paia di essere utile, questi sia levato da quell’arte» (Reg. c. 57), per non esporre le anime al pericolo.

Il settimo grado costituisce il fastigio della virtù: credersi sinceramente, nell’intimo del cuore, l’ultimo di tutti: «Si omnlbus se inferiorem et viliorem intimo cordis credat affectu». Ce lo consiglia anche S. Paolo: «In humiitate superiores sibi invicem arbitrantes» (Fil 2,3). Pochi arrivano a questa cima e vi possono dimorare stabilmente; è davvero un dono di Dio e richiede un lume dello Spirito Santo che dia all’anima un intenso sguardo sulle perfezioni divine, per cui si annienta nel più profondo di sé; riconoscendo in se stessa il proprio nulla; e considerando negli altri i doni di Dio, si prostra interiormente ai piedi di tutti [39]; quelli che tendono a questo grado, badino bene di non stimarsi migliori degli altri in nessun caso, e di non giudicarli severamente; perchè se Dio fosse stato rigoroso con noi e ci avesse trattati con stretta giustizia, che cosa ci sarebbe accaduto? Colui che oggi sembra meritare il nostro disprezzo forse sarà presto migliore di noi; e noi domani saremo di lui peggiori; siamo sicuri appena del momento presente, perchè c’è in noi, povere creature, un principio d’instabilità e di deficenza da combattere sempre con l’aiuto della grazia e coll’esercizio dell’umiltà.

Si degni Iddio di permetterci un pò di riposo, almeno col desiderio e col pensiero, sull’eccelsa vetta di cui S. Benedetto ci indicò il sentiero e le tappe: durante questa sosta, nello splendore dell’ideale, ci convinceremo che siamo nulla, e che abbiamo bisogno costante, essenziale, del divino aiuto.

 

VI. Umiltà esteriore; come sia necessaria; suoi gradi

Dell’umiltà interiore, esposta da S. Benedetto nei suoi gradi ascendenti, derivano gli atti esterni; ma la virtù risiede principalmente nell’anima: «Humiltas praecipue interius in anima consistit» [40]; e perciò il S. Patriarca insiste prima sull’umiltà dell’animo. Chi vuol apparire esteriormente umile quando non è, o non si sforza di acquistare la virtù interna, è simulatore farisaico; e S. Benedetto ci comanda di non farlo [41], perchè sarebbe grande orgoglio, insegnano S. Tommaso e S. Agostino [42]. Prima attendiamo ad acquistare la virtù interiore; e quando l’avremo davvero, sincera, viva, radicata nell’intimo di noi stessi, la manifesteremo spontaneamente, con facilità e senza pretese; perché quando c’è l’umiltà di cuore, anche il corpo, per l’unità sostanziale del nostro essere, si atteggia come richiede la riverenza da cui è penetrata l’anima davanti a Dio. L’umiltà esteriore vale solo quand’è verace espressione del sentimento interno, o è mezzo per suscitarlo; l’uomo deve acquistare ed esprimere l’umiltà con tutti gli atteggiamenti dell’anima e del corpo. Esercitiamoci dunque negli atti esterni, quantunque non siamo ancora giunti all’alto grado della virtù interiore; perché ogni atto ripetuto spesso, come battersi il petto, tenere gli occhi bassi, inginocchiarsi per compiere le soddisfazioni o penitenze, ha effetto anche sull’anima e influisce necessariamente sulla vita interna. «Quando, dice S. Agostino, ci prostriamo ai piedi dei fratelli, anche nel cuore si suscita o si rinsalda un movimento di umiltà» [43]. Il corpo dunque si abbassa per promuovere l’acquisto o il rinsaldamento della virtù; altrimenti sarebbe il farisaismo di chi vuoi parere umile agli occhi degli umili, mentre nel cuore cova la superbia. Bisogna però usare un po’ di discrezione su questo punto, e specialmente agli inizi della vita religiosa: l’umiltà non si può acquistar in un giorno, e i novizi non possono pretendere di passar subito dal modo di fare spigliato del collegiale a quello del monaco estatico; badiamo all’umiltà interiore, che è la più importante; ed esercitiamoci con discrezione e fedeltà nei gradi esteriori.

Per un’altra ragione è necessaria la pratica esterna dell’umiltà, perchè fa conoscere se la virtù interna è sincera, o se invece siamo animati da segreto orgoglio; e se ci sarà dato di scoprire il nemico nascosto, faremo un gran passo verso la virtù sincera, col persuaderci che non la possediamo ancora.

Chiediamo a un superbo se pensa altamente di sè; risponderà spesso negativamente; peraltro in pratica lo lascia capire senza nemmeno accorgersene, perchè dalla segreta superbia sgorgano, come istintivamente, certi atti che la manifestano: perché si crede uomo di vaglia, si metterà avanti, comanderà, farà diverso dagli altri [44] e vorrà distinguersi da loro, se pure non li disprezza, anche nelle cose piccole; tiene in gran conto se stesso, le sue idee, i suoi modi di fare; e come i Farisei dice: Io faccio questo, io faccio quello; io non sono come gli altri. «Non sum sicut caeteri hominum» (Lc 18,12). Appena si comincia una discussione egli vi mette bocca; alza la voce, non sa resistere al prurito di parlare e di parlar sempre, senza tollerare contraddizioni; anzi impone silenzio agli altri in tono perentorio: sono manifestazioni d’orgoglio, perchè la parola è lo specchio dell’animo.

Anche il modo di ridere manifesta le disposizioni interne. Ma come mai il riso, caratteristico dell’uomo, può essere opposto all’umiltà? Il B. Padre non lo condanna per sé; un monaco sempre triste e burbero dimostrerebbe «di non correre nella via dei comandamenti col cuore dilatato per dolcezza d’amore» (Prologo), come dice S. Benedetto dei monaci fedeli; ma egli proscrive, — ed è naturale — il riso volgare che sgorga dal fondo grossolano della nostra natura; il riso beffardo, che malignamente accenna ai difetti e alle ridicolaggini altrui: è contrario allo spirito cristiano, e non è degno delle anime che cercano Dio e vogliono essere tempio dello Spirito Santo. S. Benedetto poi condanna anche la tendenza a rider subito, rumorosamente, per la minima cagione e sempre; cioè l’abituale tendenza alla burla; se abbiamo capito bene come l’umiltà ha radice nella riverenza a Dio, sempre a noi presente, comprenderemo anche perchè il santo Patriarca escluda la burla, che fa svaporare il raccoglimento interno (Reg. c. 6).

Ma cotesto difetto non si trova nel monaco umile, che ha l’animo pieno di riverenza per la maestà divina a lui sempre presente; non ci tiene punto a mostrarsi singolare; e considerando nella Regola l’espressione della volontà divina, non se ne scosta mai; non parla ad ogni momento, sa custodire il silenzio, che è l’atmosfera propria al raccoglimento, e non parla se non è interrogato; se ride, non alza la voce, come lo stolto [45]; perchè la riverenza a Dio si oppone, non alla gioia, ma alla leggerezza, alla dissipazione, al tono burlesco. L’uomo umile parla con la gravità e la sobrietà del savio; nel suo contegno, nel suo camminare, da tutto il suo modo di fare irradia senza affettazione l’umiltà interna, e l’azione di Dio che dimora in lui; per rispetto dell’ospite divino egli tiene la testa china e gli occhi bassi [46].

Ma perchè mai S. Benedetto vuole che il monaco, ormai giunto per vari gradi alla soda umiltà, si mantenga nell’atteggiamento di un colpevole; perchè il Santo, sempre così ponderato nel prescrivere, gli pone costantemente, «semper», nel cuore e sulle labbra le parole del Pubblicano: «Mio Dio, non son degno di alzare gli occhi al cielo?...». Ecco la ragione: Dio ha concesso al monaco nell’orazione una vivida luce nella quale ha conosciuto le divine perfezioni e il suo nulla, le sue minime colpe che gli appaiono come macchie intollerabili; il raggio divino l’ha sfolgorato, e in qualunque luogo si trovi, o coi suoi fratelli, o solo, o in orazione, nella cella, o in giardino, sempre è certo che lo sguardo del supremo Signore lo penetra fin nelle intime pieghe del cuore; vive adorando, il suo atteggiamento lo manifesta. «Il sentimento profondo di Dio nell’anima, ispira umiltà e confusione, e fa ricordare di esser peccatore. Con la conzolazione e la gioia divina, l’anima riceve anche la sapienza e la gravità» [47]; e basta veder un monaco veramente umile per comprendere che l’abituale presenza divina gli ispira riverenza, e che ha un profondo sentimento della gravità conveniente all’unione divina.

Questi particolari ritraggono veramente il nostro B. Padre; il suo primo biografo S. Gregorio Magno dice che nella sua vita egli praticò fedelmente la Regola: «Lo spirito di giustizia ne inondava l’anima»; ma ci sono virtù che più specialmente lo caratterizzano, tra cui lo straordinario spirito d’adorazione e di riverenza a Dio [48]. Leggete la santa Regola; è tutta impregnata di sentimento religioso: sia che tratti dell’ufficio Divino, della lettura del Vangelo, del Gloria che segue a ogni Salmo, sempre S. Benedetto inculca la riverenza a Dio; e così pure allorchè parla delle relazioni coi fratelli, cogli ospiti; fino nell’uso degli arnesi del monastero, casa di Dio; per il nostro B. Padre, la vita monastica è penetrata di rispetto soprannaturale.

Ciò che vuole dai figli, egli per il primo eseguì: e basta leggere il ritratto del monaco umile, da lui tracciato nel c. 7, per riconoscerlo. La sua santa anima, unita a Dio, così cara a lui da ottenerne tanti splendidi miracoli e la visione del mondo come tutto raccolto in un raggio della sua luce, era inondata di celeste chiarezza; e in questo lume soprannaturale conosceva il nulla delle creature: «Videnti Creatorem angusta est creatura» [49]; vedeva Dio come sola fonte di ogni bene, solo degno di gloria; e sapendo che tutto vien da Dio, a lui fedeimente ogni gloria rimandava.

 

VII. Come si concilia con la verità e si associa alla fiducia

Arriviamo ora ad un punto capitale: l’umiltà è la verità.

Ci sono alcuni che credono di dover negare in sè i doni di Dio o le grazie che ci accorda, per fare atto di umiltà; ma lo attesta anche S. Teresa che non è dare onore a Dio: «Intendiamolo bene, — continua la Santa, e dice la verità schietta — Dio ci accorda cotesti doni senza che noi li meritiamo». Che cosa dunque dobbiamo fare? Riconoscere che Dio solo ne è autore e principio: «Omne donum perfectum desursum est, descendens a Patre luminum» (Gc 1,17); e poi ringraziarlo. «Se il dono ricevuto non ci fosse noto, come potrebbe suscitarci amore? Senza dubbio, più ci vedremo ricchi, sapendo d’altronde che per noi stessi siamo poveri, e più profitteremo nella virtù e nell’umiltà vera... Ma bisogna che siamo sinceri con Dio, desiderando di piacere a lui e non agli uomini» [50].

La vera umiltà non si inganna: non nega i doni di Dio; li adopera, e ne rende gloria a lui solo, che glieli ha dati; come fece la Vergine Maria, scelta fra tutte le donne per essere la madre del Verbo incarnato. Nessuna creatura — dopo l’umanità di Cristo — ebbe tante grazie quanto lei: «Ave, gratia plena»; è certo che ella lo sapeva; ma quando Elisabetta si congratulò con lei per la divina maternità, la Madonna non negò l’immenso dono ricevuto: lo riconobbe anzi come privilegio unico, come «una cosa grande», e così meravigliosa che tutte le genti la chiamerebbero beata; non nasconde le grazie ricevute, ma non se ne gloria; tutto l’onore tributa a Dio, all’onnipotente che le ha fatte in lei. «Magnificat anima mea Dominum». Così fa l’anima veramente umile.

Così ci insegna il B. Padre: «Il bene che ognuno vede in sé deve far risalire a Dio, senza che ce lo attribuiamo. — Bonum aliquod in se cum viderit Deo applicet, non sibi» (Reg. c. 4); possiamo riconoscere di aver avuto doni divini; egli non ci consiglia di dissimularli, anzi ammette che li vediamo: «cum viderit»; così ci sentiremo spinti ad impiegarli, quando se ne presenta l’occasione, in servizio di colui che li ha dati: «Ei [Domino] omni tempore de bonis suis in nobis parendum est» (Prologo).

Non dobbiamo credere di averci diritto ma ringraziare Iddio; e più esplicitamente il S. Patriarca ci dice ancora: «Coloro che cercano Dio, temono il Signore (qui è la radice dell’umiltà); non si levano in superbia per la loro osservanza; i beni che vedono in sè, non credono da sé poter esser fatti, ma venire da Dio, e magnificano in sé la sua opera dicendo col Profeta: Non a noi, Signore, non a noi, ma al nome tuo dà gloria: — Operantem in se Dominum magnificans. Così pure l’Apostolo S. Paolo non attribuì a sè il buono successo della sua predicazione, perchè diceva: Per la grazia di Dio sono quello che sono (1Cor 15,10); e altrove: Chi si vuol dar gloria, si glorii nel Signore (2Cor 10,17)».

L’esempio di S. Paolo, citato da S. Benedetto, è scelto molto bene, perchè il grande Apostolo ha spiegato la dottrina dell’umiltà in modo ammirabile. Era stato convertito ed istruito da Gesù medesimo come un vaso di elezione da lui scelto per evangelizzare gli infedeli; era stato rapito al terzo cielo e poteva attestare che nulla mai lo separerebbe da Cristo; leggete la stupenda apologia che fa di sè nella lettera ai Corinti; egli si difende dai falsi apostoli, suoi avversari; più di tutti è ministro di Cristo, più di tutti ha sofferto per lui; traccia un quadro vivacissimo delle sue sofferenze e del suoi travagli.

Parla anche delle visioni avute, nelle quali intese «parole ineffabili che non è dato rivelare», ma dopo aver esposto questi suoi titoli d’onore, l’Apostolo rintuzza il pungolo della vanagloria, che umanamente poteva stimolarlo: «Potrei gloriarmi di ciò, esclama egli; ma preferisco invece gloriarmi della mia bassezza, affinchè sia in me la forza di Cristo» (Ivi, 11,12). Ecco la parola dell’umiltà: l’Apostolo non si glorifica nelle molteplici opere, nei patimenti sofferti, nei lavori compiuti, nei doni ricevuti; ma nelle infermità e debolezze; non nega le buone opere, anzi ne delinea il quadro con mano maestra, ma ne dà a Dio tutta la gloria: «La grazia di Dio ha lavorato in me, e non invano; ma senza di essa nulla avrei potuto fare. — Gratia Dei sum id quod sum» (1Cor 15,10). Non si cura forse dei doni di Dio? Oh no! «Quanto a noi, dice egli, abbiamo ricevuto lo Spirito che viene da Dio, afflnchè possiamo apprezzare i doni che egli ci ha fatto, per grazia sua: Ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis» (Ivi, 11,12); li conosce questi doni, ma ne rende grazie a Dio e a suo Figlio Gesù; dal Cristo egli tutto aspetta; nella di lui grazia fa consistere ogni sua gloria, sperandone la forza, l’appoggio di cui ha bisogno: «Affinché la virtù di Cristo abiti in me. — Ut inhabitet in me virtus Christi» (2Cor 12,9). La sua stessa debolezza gli è motivo per commuovere il cuore di Dio; e più la sente in sé, più confida nella potenza della grazia; è l’atteggiamento dell’uomo veramente umile: «Cum infirmor tunc potens sum» (Ivi, 10).

Nutriamo noi pure gli stessi sentimenti: glorifichiamoci nelle nostre infermità, perchè ci danno diritto alla misericordia di Dio. Questa è umiltà: far valere davanti a Dio la nostra miseria e debolezza, e perciò riconoscerla, svelarla a lui; avremo così diritto alle divine elargizioni. Se potessimo, con la grazia di Cristo, ottenere questo lume all’intelligenza, vedremmo allora come ci dobbiamo contenere davanti a Dio perfettissimo; e se in pari tempo, animati da grande fiducia nella sua misericordia, ci getteremo fra le sue braccia, egli dimenticherà la nostra indegnità, si unirà a noi perchè non troverà più ostacolo nell’anima vuota di sé; e la doterà di ogni dono, la farà ricca, con le infinite ricchezze del Figlio suo. L’umiltà dilata l’abisso della nostra debolezza, affinché possa accogliere la grazia di Cristo.

Vedete dunque che la dottrina dell’umiltà non porta allo scoraggiamento, ma ravviva la fiducia. «È contrario all’umiltà, osserva S. Tommaso, tendere a cose troppo elevate per baldanza nelle proprie forze; ma allorché mettiamo la nostra fiducia in Dio, si possono intraprendere grandi cose e difficili senza superbia; specialmente se consideriamo che tanto più c’innalzeremo a lui, quanto più ci sottometteremo profondamente con l’umiliarci» [51].

Anche stavolta il Dottor angelico è l’eco fedele di S. Benedetto; quando il B. Padre accenna alle cose impossibili che l’obbedienza ci potrebbe imporre, comanda di ricevere l’ingiunzione con sommessione e mitezza; e se, dopo aver ponderato le cose, le vedessimo eccedere le nostre forze, lo diremo al prelato, pazientemente, rispettosamente, senza resistere né contraddire; se poi il superiore tien fermo il comando, sappia l’inferiore obbedire confidando in Dio: persuaso che così gli conviene e gli è utile: «Et ex cantate confidens de adjutorio Dei obediat» (Reg. c. 68).

Altrettanto si dica delle cariche e degli uffici a cui fossimo designati dall’autorità; il presuntuoso, anche senza le attitudini necessarie, pretende ai posti più alti e più cospicui; chi ha falsa umiltà ricusa tutti gli uffici, anche quelli che è capace di disimpegnare. Sono i due eccessi; raccomanda invece il B. Padre di accettare le cariche per riverenza e amor di Dio; di aver fiducia in lui solo, senza nulla omettere tuttavia di ciò che richiede da parte nostra l’impegno assunto; perché Dio respinge colui che si leva in alto da sé: «qui se exaltat humiliabitur» (Lc 14, 2) ma è largo dl aiuto a colui che conosce la propria miseria, e confida in lui.

«Altro è, dice S. Agostino, elevarsi a Dio, e altro elevarsi contro Dio; egli solleva colui che si prostra a lui avanti; ma abbatte chi gli si drizza contro» [52].

 

VIII. Il più prezioso frutto di cotesta virtù

Il frutto principale dell’umiltà consiste nel renderci così cari a Dio, che la sua grazia, non incontrando più ostacoli, sovrabbonda in noi, e ci fa sicuri di essergli uniti per l’amore; è lo stato di perfetta carità.

Spiegati i diversi gradi di umiltà, S. Benedetto conchiude con una breve frase che sembra poco notevole, ma che è molto profonda e merita riflessione. «Il monaco, dopo aver percorso cotesti gradi perverrà immantinente — notatelo bene, mox — alla perfetta Carità di Dio, la quale esclude il timore —. Ergo his omnibus humilitatis gradibus ascensis, monachus mox ad caritatem Dei perveniet illam quae perfecta foris mittit timorem». Gli autori spirituali a volte hanno contraddizioni o titubanze quando devono stabilire la gerarchia delle virtù; ma è sicuro per tutti che la carità è la regina; ora essa non può sussistere in un’anima senza l’umiltà, che ne costituisce l’indispensabile condizione, per il nostro stato di natura decaduta. La perfezione, consiste nell’amor di carità, che ci mantiene uniti a Dio e alla sua volontà per Gesù Cristo; l’umiltà — come insegna S. Tommaso, — è una disposizione che facilita all’anima l’acquisto dei beni spirituali e divini —. Est quaedam dispositio ad liberum accessum hominis in spiritualia et divina bona» [53]. La carità è virtù più alta, perchè è una perfezione dello stato, sempre superiore a ciò che vi dispone; ma l’umiltà che allontana gli ostacoli all’unione divina, è principale sotto questo aspetto e come tale, dice S. Tommaso, «è il fondamento dell’edificio spirituale; è la disposizione che immediatamente precede la carità perfetta; e senza di lei e dell’opera sua, non può sussistere lo stato di carità, d’unione perfetta con Dio, meno ancora può permanere» [54].

Quantunque l’umiltà sia in un certo senso disposizione negativa, pure è così necessaria e così infallibilmente conduce alla carità perfetta, che, l’edificio spirituale, se vi mancasse, sarebbe sempre esposto a rovina; mentre colui che la possiede arriverà sicuramente all’unione con Dio. Così diceva il Blosio, versatissimo nella scienza dei Santi: «Quanto più uno è umile, tanto più è vicino a Dio ed esimio nella perfezione evangelica. — Quanto quis humilior existit, tanto Deo vicinior, et in perfectione evangelica excellentior est» [55]. La sublime ricompensa dell’umiltà sta appunto nel preparar l’anima, più d’ogni altra virtù, alle divine effusioni che assicurano l’unione perfetta con Dio «mox ad caritatem Dei illam quae perfecta est perveniet». «Non c’è eccellenza maggiore della via unitiva, dice S. Agostino, ma solo gli umili vi possono camminare. — Nihil excelsius via caritatis, et non in illa ambulant nisi humiles» [56]; non si arriva a Dio innalzandosi, ma umiliandosi: «Non elatione sed humilitate attingitur».

Diamo ora uno sguardo indietro, per giudicare quanto sia semplice, sicura e ben fondata la via che indica il Santo Patriarca per arrivare a Dio. Per mezzo dell’umiltà, che proviene dal rispetto, il monaco finisce di distruggere gli ostacoli che gli impedivano l’unione con Dio; e quando essa domina in noi, l’azione dello Spirito Santo non trova più impedimenti nel peccato, nell’affezione al peccato e alla creatura; per cui può mostrarsi potente e feconda. È da notare come, dopo averci fatto salire questi gradi d’umiltà, lo scopo è raggiunto, per S. Benedetto; egli non dà altri ammonimenti ai suoi figli; abbandonando per dir così il discepolo al soffio dello Spirito Santo; perché, una volta radicato nel timor di Dio, nell’umile attesa di ogni aiuto dall’alto, è sicuramente aperto alle effusioni divine. Felice, tre volte felice l’anima che è giunta a questo stato! Dio liberamente opera in lei, e la conduce come per mano alle cime della più alta perfezione e della contemplazione; perchè egli ci vuole santi, e per natura tende a diffondersi, a patto di non trovare ostacoli ai suoi doni e al suo operare; ora è l’umiltà che così ci dispone. Si degni il Signore per opera dello Spirito Santo di condurci a questo felice stato della carità perfetta, dopo che, ascesi i vari gradi d’umiltà, avremo purificato l’anima nostra da ogni vizio e peccato: «Quae Dominus jam in operarium suum mundum a peccatis et vitiis Spiritu Sancto dignabitur demonstrare».

È la conclusione giusta e profonda dell’ammirabile capitolo che tratta dell’umiltà.

 

IX. Mezzi con cui si perviene all’umiltà

Non resta ormai altro che indicare alcuni mezzi per ottenere questa virtù indispensabile.

Primo di tutti, è la preghiera: «Primo quidem et principaliter per gratiae donum» [57]; perchè un elevato grado di umiltà è dono di Dio, come quello d’adorazione. «Nostro Signore stesso, scrive S. Teresa, lo mette in noi, e le nostre povere riflessioni non riuscirebbero a nulla; che paragone si può fare tra queste riflessioni e l’umiltà vera, luminosa che Dio stesso insegna all’anima e per cui questa si abbassa nel suo nulla?» [58]. Dio, che desidera infinitamente comunicarsi a noi, non respingerà la preghiera, con cui gli domandiamo di rimuovere da noi il principale ostacolo delle sue divine effusioni; quindi, chiediamo spesso a Dio lo spirito di riverenza, che è la radice dell’umiltà e una delle più cospicue note dello spirito benedettino: «Confige timore tuo carnes meas» [59]. Supplichiamolo di farci conoscere, col lume della sua grazia, come egli sia tutto, e noi siamo nulla; un raggio di luce divina sarà più efficace di ogni ragionamento; l’umiltà potrebbe essere chiamata il pratico effetto dei nostri trattenimenti con Dio; e chi non si avvicina spesso a lui nell’orazione, non può averla in alto grado. Se per una volta sola Dio si degnasse di farci scorgere, al lume della sua ineffabile presenza, qualcosa almeno delle sue grandezze, ci sentiremmo ripieni di profonda riverenza verso di lui; avremmo acquistato il principio dell’umiltà e basterebbe custodirlo fedelmente, perchè la virtù si possa sviluppare in noi e rimanga duratura.

Contempliamo dunque spesso le divine perfezioni; non come il filosofo che cerca soddisfazione allo spirito, ma pregando e meditando: «Credete a me, dice S. Teresa, avremo una virtù molto migliore (la santa parla dell’umiltà) se meditiamo la grandezza di Dio invece di impegolarci solo nel nostro fango. Contemplando le sue perfezioni scopriremo la nostra bassezza; guardando la purezza sua infinita discerneremo le nostre macchie» [60]. È tanto vero! A considerare la nostra miseria possiamo provare un movimento passeggero dell’umiltà; ma non avremo la virtù, che è disposizione abituale, la quale nasce solo dalla riverenza a Dio; qui sta la vera causa che può generarla in noi e renderla costante [61].

Noi monaci abbiamo nella liturgia un prezioso mezzo di conoscere le divine perfezioni; sono enunciate dallo Spirito Santo nei Salmi, che formano la parte principale dell’Ufficio divino; e sono dispiegate agli occhi dell’anima con incomparabile splendore di espressioni. Ad ogni istante, ci invitano ad ammirare la grandezza e la pienezza di Dio; e se recitiamo bene l’ufficio, l’anima a poco a poco si assimila le parole del Divino Spirito sulle perfezioni dell’Essere infinito; per cui nasce in lei e vi cresce continuamente, alla luce suprema, la riverenza verso la sovrana maestà, dalla quale sgorgherà poi l’umiltà.

Ma uno dei mezzi più importanti è la contemplazione dell’umanità di Cristo, e l’unione per la fede alle disposizioni del suo Cuore sacratissimo: non ci dice egli d’imparare da lui, che è mite e umile di cuore?

Il venerabile Blosio scrive che «cotesta contemplazione è il mezzo più efficace per guarire le piaghe della superbia» [62]. «Quando vidi lo stato a cui fu ridotto Gesù nella sua Umanità — esclamava la Beata Angela da Foligno — cominciai per la prima volta ad intravvedere l’enormità del mio orgoglio» [63]. Più volte, nel capitolo sull’umiltà, S. Benedetto richiama gli esempi di Cristo; e ci raccomanda di osservarlo per trovare un perfetto modello della virtù. Contempliamo anche noi il Salvatore: in lui l’umiltà nasceva dalla riverenza verso il Padre; perchè la sua anima, immersa nella luce celeste vedeva pienamente le divine perfezioni, e da ciò ne proveniva riverenza intensa e perfetta. Isaia disse che lo Spirito del Signore si riposerebbe nel Cristo (Is 11,2-3) e N. Signore applicò a se stesso questo passo del Profeta: «Et requiescet super eum Spiritus Domini»; ma parlando del timor di Dio, il profeta adopera parole anche più espressive: «Et replebit eum Spiritus timoris Domini. — Lo spirito di timore lo riempirà». Quale timore poteva così inondare l’anima di Cristo? Non il terrore, perchè sapeva di non dover paventare i castighi; e, nemmeno l’incertezza di poter offendere Iddio, perchè, godendo la visione beatifica, era impeccabile; non poteva esser altro che il timore riverenziale, l’adorazione della Maestà divina; e anche ora, benchè regnante in gloria Patris, l’Umanità di Gesù rimane inabissata nella più profonda riverenza; egli è ancora il grande e il solo perfetto adoratore della Trinità. Qui stava per lui la sorgente dell’umiltà; perchè, badate bene, egli non aveva difetti morali o imperfezioni da cui trarre motivo di abbassarsi; tutt’altro!

Era unito a Dio: «Non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo» (Fil 2,6); nella sua Umanità sono raccolti tutti i tesori della sapienza e della scienza, perchè la Divinità corporalmente vi inabita; è ammirabilmente perfetto, e non solo non si potè mai convincere Gesù di peccato alcuno, ma egli attesta con verità di aver sempre fatto ciò che era gradito al Padre. Ci potrà mai essere altra perfezione umana che si avvicini alla sua? È il pontefice santo, immacolato, più alto del cielo nella santità; e in lui non si trova nessuna debolezza morale.

Ma era pure un’umanità creata; e in quanto creatura si annientava davanti a Dio con infinita riverenza; per riconoscere i sovrani diritti del Padre si offriva a lui con sommissione così perfetta da accettare anche la morte: «Exinanivit semetipsum factus oboediens usque ad mortem» (Ivi, 7). Subì per noi tutte le umiliazioni; i giudei lo dissero indemoniato (Gv 8,48ss); fu accusato di far miracoli per potere di Beelzebub, principe delle tenebre (Lc 11,15); tentarono di lapidarlo; e giunto il momento della Passione, egli che è l’Eterno, Dio da Dio, Onnipotenza e Sapienza infinita, fu saziato di obbrobri: «Saturabitur opprobriis» (Lam 3,30). Legato come un malfattore, accusato da falsi testimoni, schiaffeggiato da un servo del tribunale e coperto di sputi, fu condotto ad Erode, venne rivestito con un abito da burla, e dato in mano alla soldatesca grossolana e brutale, mentre il re lo disprezzava: «Sprevit illum» (Lc 23,11); chi avrebbe potuto immaginare tanta umiliazione? Il Dio che governa il cielo e la terra con la sua potenza e sapienza, è trattato da pazzo, da re da burla, e tutti se ne beffano! Se a noi toccasse la minima dl queste umiliazioni, che cosa diremmo? Avremmo l’animo grande tanto — come vuole S. Benedetto — da tollerare con pazienza e in silenzio? «Tacita conscientia patientiam amplectatur»? Nello scrivere queste parole il S. Patriarca pensava certo a Gesù, abbeverato di insulti durante la Passione: «Jesus autem tacebat»; egli esteriormente non parlava; ma col cuore ripeteva le parole profetiche del Salmista: «Non son più uomo, ma un verme della terra: l’obbrobrio del popolo e il rifiuto della plebe. — Ego autem sum vermis et non homo; opprobrium hominum et abjectio plebis» (Sal 21,7).

Perchè tutte queste umiliazioni? perchè scendere in tale abisso? Per espiare la nostra superbia e il nostro amor proprio; per darci esempio di umiltà: «Gesù non dice: Imparate l’umiltà dagli apostoli, dagli angeli; no: imparatela da me: è così alta la mia maestà che l’umiltà mia può discendere in fondo all’abisso» [64].

 

X. Gesù associa l’anima umile alla sua celeste esaltazione

Se contempliamo spesso Gesù Cristo appassionato, e ci uniamo a lui con la fede, egli ci farà partecipare ai suoi sentimenti di umiltà, di riverenza al Padre, di abbandono alle sue volontà.

Non dimentichiamo nemmeno ciò che già è stato detto: l’umanità santa non poteva agire se non nel Verbo, al quale era unita; nessun impulso traeva mai da sè, ma sempre lo riceveva dalla divinità; e benchè le azioni derivassero veramente da lei, come natura umana perfetta, avevano valore solo per l’unione col Verbo; e alla di lui persona divina l’umanità di Cristo rimandava tutta la gloria delle sue azioni, ammirabilmente sante. Così dev’essere per noi, nell’attività spirituale; poichè non possiamo nulla da noi stessi, abbassiamoci con grande riverenza davanti alle perfezioni divine; e poi confidiamo nella nostra unione con Gesù nella fede e nell’amore. In lui, con lui, per lui siamo figli del Padre celeste; qui sta la sorgente della nostra fiducia, che viene a controbilanciare l’abbassamento, affinchè non si degradi in umiltà imperfetta e sia causa di scoraggiamento. Se pensassimo che, anche uniti al Cristo, siamo incapaci di far del bene, disconosceremmo i suoi meriti infiniti, e apriremmo la via alla diffidenza e alla disperazione, che son frutti infernali: l’umiltà vera non ci ispirerà fiducia in noi, come da noi: «Non quod sufficientes simus cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis»; la nostra capacità viene da Dio, che nell’ordine naturale e soprannaturale, ci dà l’essere, la vita, il moto: «Sed sufficientia nostra ex Deo est» (2Cor 3,5). «In ipso enim vivimus, movemur et sumus» (At 17,28). Cotesta potenza si estende a tutto, perciò anche la nostra fiducia è immensa e illimitata nei meriti del nostro capo divino Cristo Gesù; «omnia possum». San Paolo non nega di sentirsi forte, possente; ma confessa che il suo vigore gli viene da Cristo: «In eo qui me confortat» (Fil 4,13). Qui sta appunto la gloria di Cristo, nel cambiare in potenza la nostra fragilità, a onor suo: «Sufficit tibi gratia mea; nam virtus in infirmitate perficitur» (2Cor 12,9). Più ci sentiamo miseri, e più la grazia può agevolmente fare e manifestarsi in noi; perchè essa è tanto più possente, quanto più l’uomo è convinto di non esser capace di nulla da solo; e per questo S. Paolo, che voleva soprattutto esaltare il Cristo, si gloriava delle sue infermità e debolezze, affinchè la grazia di Dio apparisse più cospicua, maggiormente splendesse il suo trionfo, e l’onore fosse reso tutto a colui che è il nostro Dio: «In laudem gloriae gratiae suae» (Ef 1,6).

Gli orgogliosi, che vogliono trovare in se stessi la loro capacità, commettono il peccato di Lucifero, che diceva: «Mi innalzerò e porrò il mio trono nei cieli, sarò simile all’Altissimo»; e come Lucifero saranno atterrati e precipitati nell’abisso: «Qui se exaltat humiliabitur». Che diremo noi dunque? Confesseremo di non esser buoni a nulla senza il Cristo, com’egli stesso dichiarò: «Sine me nihil potestis facere»; ma, dichiareremo che per Gesù, con Gesù possiamo diventar santi ed entrare in cielo. Gli diremo: «Maestro, sono povero, miserabile, nudo, infermo, me ne convinco sempre più ogni giorno; e se a certi momenti tu mi avessi trattato come meritavo, sarei ora sotto i piedi dei demoni; ma so che tu sei ineffabilmente potente, grande e buono; so che in te stanno tutti i tesori di santità che gli uomini possono desiderare; so anche che tu non respingi quelli che vengono a te. Perciò, mentre ti adoro dal più profondo dell’anima, ho fiducia nei tuoi meriti e nelle tue soddisfazioni; e sono certo che per quanto miserabile sia, tu puoi con la tua grazia arricchirmi, innalzarmi fino a Dio, per rendermi somigliante a te e farmi partecipe della tua divina beatitudine!».

Cotesti sentimenti ravvivano l’anima annientata, la spingono a darsi tutta, con amore, fervore e gioia, al Cristo, per fare ciò che vuole; e quando vengono dall’intimo del cuore, glorificano Dio, perché per essi si riconosce e si proclama la pienezza di potenza, che il Padre ha dato al Figlio diletto, Gesù Cristo: «Omnia dedit in manu ejus» (Gv 3,35). Non ce ne dimentichiamo: è massimo desiderio del Padre che il Figlio sia glorificato: «Clarificavi et iterum clarificabo» (Ivi, 12,28); ma il miglior mezzo di glorificare N. Signore consiste nel riconoscere con tutto il nostro potere, che egli è l’unico fonte della grazia, il solo santo, il solo Salvatore, il solo mediatore, al quale va data la gloria e l’onore col Padre e lo Spirito Santo.

La vera umiltà sola può dare a Dio e a Gesù questo omaggio, perchè soltanto le anime umili sentono il bisogno dei meriti di Cristo e vi credono; mentre la superbia e la falsa umiltà non possono nutrire tali sentimenti; il superbo, che tutto aspetta da sè, non sente bisogno di ricorrere a Cristo; e la falsa umiltà che si dice incapace di tutto anche aiutata dalla grazia, fa ingiuria ai meriti di Gesù; indebolisce l’anima e non dà gloria a Dio.

Gesù Cristo disse: «Ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum» (Gv 12,32): Quando sarò elevato da terra, in croce, trarrò a me tutti quelli che in me hanno fede. Chi guardava il serpente di bronzo nel deserto, era guarito; e così quelli che mi guarderanno con fede e amore, io li attirerò a me, ad onta delle loro colpe, delle loro ferite e indegnità; e li innalzerò fino al cielo. Io, che sono Dio, consentii per amor vostro ad essere sospeso in croce come un maledetto; e in compenso di tanta umiliazione, ho il potere di sollevare con me i credenti fino agli splendori del cielo, da cui sono disceso. Venni dal cielo e vi ritorno; ma condurrò meco tutti coloro che sperano in me; e la mia grazia è potente così da unirmeli indissolubiimente; in modo che nessuno mai possa strapparmi di mano quelli che il Padre mi ha dato e che io, per pura misericordia, ho riscattato col mio prezioso sangue (Gv 10,29).

Che consolazione per l’anima umile la sicurezza di aver parte un giorno all’esaltazione dl Gesù, per effetto dei meriti di lui! S. Paolo ci parla in termini sublimi della suprema elevazione di Gesù, contrapposta ai suoi abbassamenti: «Il Cristo si annientò... e perciò Iddio lo innalzò sopra tutto, dandogli un nome superiore ad ogni altro, afflnchè tutte le ginocchia si flettano davanti a Gesù, sulla terra, nel cielo e nell’inferno; ed ogni lingua confessi ch’egli è ora nella gloria del Padre. — «Semetipsum exinanivit... propter quod et Deus exaltavit illum» (Fil 2,7-9). Badiamo a queste parole: propter quod; Gesù è stato esaltato perchè si umiliò, si abbassò fino ad accettar l’ignominia di una morte maledetta; e Dio ne esaltò il nome nel più alto del cieli. D’ora in poi non ci sarà altro nome di salvezza per gli uomini (At 4,12); è un nome unico; l’uomo-Dio, che siede alla destra del Padre negli splendori della gloria, ha potenza sublime e onori sovrani. Gli eletti si prostrano davanti a lui nell’adorazione più profonda, e cantano incessantemente: «Tu ci hai riscattati da ogni popolo, nazione e tribù: a te onore e gloria, lode e potenza, o Cristo Gesù» (Ap 5,9; 7,12) questo incomparabile trionfo è il frutto della di lui immensa umiltà.

Ritroviamo qui il complesso della dottrina di S. Benedetto: egli pure ci insegna che per giungere a codesta exaltatio coelestis nella quale l’anima si perde in Dio, ci dobbiamo abbassare nella umiltà. Quaggiù essa ci guida dalla rinuncia al peccato, fino alla pienezza della carità; «mox ad caritatem perfectam perveniet»; via via che l’anima progredisce nell’umile sottomissione, si innalza all’unione divina, e anche verso la gloria celeste. La legge ricordata da S. Benedetto al principio del capitolo, è stata emanata dal Cristo medesimo, nostro modello, e ammirabilmente si è in lui verificata; ma essa vale anche per tutti i membri di cui è il capo. Gesù prepara il posto nel suo regno soltanto a quelli che sulla terra hanno partecipato ai suoi divini abbassamenti: «Qui se humiliat exaltabitur».

 

NOTE

[1] I-II, q. CX, a. 1.

[2] S. Agostino, Sermo 10 de Verbis Domini. P. L. Sermo 69, N. 2.

[3] Vedi l’Enciclica Testeirs benevolentlae (22 gennaio 1899) sull’Americanismo, di Leone xm.

[4] Vedi S. Tommaso II-II q. CLXII a. 6. Utrum superbia sit gravissimum peccatorum.

[5] Sermo 2. de Ascens. Domini. 177 de tempore. N. 2 (Appendice alle opere di S. Agostino).

[6] «Quia gratias agendo probas te tibi nihil tribuere, sed Dei esse dona tua merita prudenter agnoscere, certe caeteros aspernendo, prodis te, quod in corde et corde locutus sis, altero commodans linguam mendacio, altero veritatis usurpans gloriam. Non enim judicares publicanum contemnendum prae te, si non prae illo te honorandum censeres». S. Bernardo, Sermo 13 in cantica, P. P. CLXXXII, 1302.

[7] De consideratione, lib. V. c. XIV, 32.

[8] Tractatus de moribus et officio episcop. c. V, 17.

[9] P. Pourrat: La spiritualité chrétienne; II. Le Moyen Age, p. 43.

[10] In annunt. B. V. M. Sermo III. 9 - Conf. Epist. CCCXIII, 23.

[11] Super Missus est, homil. IV, 9 - Vedi anche: in cantica, Sermo XXXIV.

[12] In Cantica, Sermo LIV, 9 - Vedi: Epist. CCLXXII, Sermo XLVI, de diversis.

(13) Sermo 10, de Verbis Domini.

[14] Humilitas... praebet hominem subditum et patulum ad suscipiendum influxum divinae gratiae. Vedi S. Tommaso II-II, q. CLXI, a 5, ad 2.

[15] D. I. Ryelandt, Essai sur le caractère ou la physionomie morale de S. Benoit, d’après sa Règle, in: Revue liturgique et monastique, 1921, pp. 207-208.

[16] Vedi S. Tommaso II-XI, p. CLVI, a. 4.

[17] D. I. Ryelandt, 1. c.

[18] Regola c. 7. Il pensiero viene forse da S. Girolamo; ma il S. Dottore parla dell’ascensione interna nell’esercizio di tutte le virtù. Scalam... per quam diversis virtutum gradibus ad superna conscenditur (Epist. 58, 3); e S. Benedetto si restringe alla pratica dell’umiltà. Si aggiunga che nel VI secolo S. Giovanni Climaco scriveva la celebre scala paradisi, la scala che conduce al cielo, di 30 gradi, per ricordare i trent’anni di vita nascosta del Salvatore.

[19] XI-IX, q. CLXI a. 6; e q. CLXXI, art, 4, ad 4. Ma San Tommaso segue l’ordine inverso, cominciando dall’ultimo grado. Nel corso dell’articolo invece, ricomincia l’esposizione del 1° grado: la riverenza che dobbiamo a Dio. È noto che S. Tommaso fu oblato benedettino a Montecassino per nove anni; ma dovette lasciar la badia per torbidi politici, suscitati da Federico II; il quale, dopo la scomunica di Gregorio IX, cacciò via i monaci. Durante il soggiorno a Montecassino, il giovinetto studiò il testo della Regola benedettina. «Gli scritti del futuro dottore - scrive il più recente dei biografi, P. Mandonnet O. P. - mostrano che conosce bene la grande opera legislativa di S. Benedetto». E nel termine del suo studio su S. Tommaso, oblato benedettino, il Mandonnet conclude: «Tommaso d’Aquino dovette abbandonare l’asilo de’ suoi giovani anni con doloroso rimpianto: e la sua anima profondamente religiosa dovette soffrire come se vedesse disseccarsi per lui la più profonda sorgente di vita. E invece, per avvenimenti che gli sembravano disastrosi, egli portava seco nell’esilio le ricche spoglie: non solo aveva passato l’infanzi al sicuro nel più illustre monastero dell’antichità, ma si era informato ad un modello che gli impresse un’incacellabile tipo; il che fu per lui un grande beneficio. Dovrà alla religione e alla pietà benedettina la robustezza e la sincerità dell’anima; la vita monastica col suo calmo succedersi di giorni uguali, assicurò l’equilibrio mirabile del suo temperamento e delle sue facoltà; l’isolamento della vita d’oblato, nella grandiosa natura che lo circondava, svegliarono e forse maturarono in lui la profonda potenza di raccoglimento. Revue des jeunes; 25 mai 1919, pp. 241-42; anche il 10 maggio a p. 145 e seg.

[20] II-II, p. CLXI, a. 2, c.

[21] Ivi.

[22] Il S. Dottore aggiunge, naturalmente, che l’unità si fonda, sul conoscere come su norma direttiva; per la quale noi non ci stimiamo da più di quello che siamo davvero (Ivi, a. 2 e 6): Applicazione, ad un caso particolare, del mutuo scambio di causalità, che tutti i psicologi e moralisti conoscono e che avviene tra la ragione e la volontà.

[23] Àbsit ut christianus homo in se ipso vel confidat vel glorietur et non in Domino; cujus tanta est erga omnes homines bonitas ut eorum velit esse merita quae sunt ipsius dona. (Conc. di Trento, Sess. VI, o. 16).

[24] II-II, q. CLXI, a. 2, ad. 3. Vedi a. 1, ad 5: Humilitas praecipue respicit subjiectionem hominis ad Deum. Humilitas proprie respicit reverentiam qua homo Deo subjicitur.

[25] II-II, q. CLXI, a. 4, ad 1.

[26] D. O. Lottin, nell’opera L’âme du culte, la vertu de religion (Lovanio 1920, p. 40 e seg.). In quest’opuscoletto, denso di dottrina, l’autore che è un teologo acuto, dimostra come dopo aver rannodata l’umiltà alla temperanza, e l’obbedienza all’osservanza, S. Tommaso fu indotto dall’evidenza della cosa a riportarle entrambe alla virtù di religione. C’è tra loro relazione innegabile e fu avvertita dagli antichi asceti: la regola di S. Benedetto, non contiene mai la parola religione, ma è imbevuta profondamente di cotesto spirito; si leggano i Cap. 5-7 sull’obbedienza, lo spirito di silenzio e d’umiltà (p. 49).

[27] Vedi D. Destrée: La mère Deleloë, moniale bénédictine, p. 57.

[28] «I dodici gradi di umiltà esposti da S. Benedetto formano un complesso mirabilmente penetrante e armonico: in cui è chiaramente mostrata la compenetrazione di timore e di fiducia, di obbedienza e di fortezza, di raccoglimento e di carità che deve costituire l’atteggiamento del monaco, il quale progredisce nella vita spirituale». D. Ryelandt 1. c.

[29] II-II, q. CLXI, ar. 3, ad. 1. S. Tommaso aggiunge con molta opportunità: Humilitas proprie respicit reverentiam qua homo subjicitur, et ideo quilibet homo secundum id quod suum est, debet se cuilibet proximo subjicere quantum ad quod est Dei in ipso (art. 3 in corpore). Vedi anche a. 1, art 5.

[30] II -, q. CLXI, a. 6.

[31] Ivi, a. 6., ad. 5.

[32] Ivi, a. 6.

[33] Ivi.

[34] Regola, c. 7: dallo stesso capitolo sono presi tutti gli altri testi citati in questa Conferenza.

[35] II -, q. CLXI, a. 4; e anche: q. LXXXI, a. 7; II-II, q. XIX, a. 2

[36] Il libro della Mirabile Visione; c. 63; ed. cit.

[37] XI-II, q. CLXI, a. 1, ad. 5.

[38] La legislazione ecclesiastica attuale proibisce ai Superiori religiosi di spingere i sudditi a svelar loro la propria coscienza; ma non vieta a questi di farlo liberamente; anzi, dice il Codice di Diritto Canonico, sarà molto utile al religioso andar dal Superiore con filiale confidenza; e se egli fosse anche Sacerdote, esporgli i dubbi e le angoscie della propria coscienza, Can. 530.

[39] S. Tommaso, XI - II, q. CLXI, a. 3, ad 2.

[40] Ivi, a. 3, ad 3. Vedi a. 1, ad 2: e a. 6. S. Tommaso ne deduce che un superiore può avere in grado prefetto la virtù dell’umiltà, senza compiere esternamente quegli atti che non si addicono alla sua dignità.

[41] «Non velle dici sanctum antequam sit, sed prius esse quo verius dicatur», Regola, c. 4.

[42] II-II, q. CLXI, a. 1, ad. 2.

[43] «Cum enim ad pedes fratris inclinatur corpus, etiam in corde ipso vel excitatur, ud si iam inerat, confirmatur humilitatis affectus». V. Tract. In loan. 58.

[44] Vedi P. I. C. IV: La società cenobitica; s’è parlato della singolarità, che si oppone alla vita cenobitica.

[45] «Ubi timor et tremor est, ibi non vocis elatio sed animus flebilis, et lacrymosa dejectio» (S. Girolamo, Ep. 13, Virginitatis laus. P. L. XXX, col. 175).

[46] «Extollentia oculorum est quoddam signum superbiae in quantum excludit reverentiam et timorem» (S. Tommaso, op. cit., art. 2 ad. 1).

[47] B. Angela da Foligno: Il libro della mirabile visione, c. 27: L’ineffabile.

[48] La gravità di S. Benedetto è essenzialmente religiosa; perché risulta dall’abituale e profondo sentimento della divina presenza e della responsabilità della vita presente che arrischia l’eternità. L’amore di Cristo, il divino giudizio, gli stanno sempre dinanzi e la sua vita interiore tende a un grave raccoglimento dell’animo, che riluce nell’atteggiamento esterno e nella condotta; per lui, lo sguardo rivolto a Dio e il senso dell’intimo rapporto con lui, impediscono la leggerezza della vita, e cosi pure il dilettantismo; producono invece gravità mite ed umile. D. L. Ryelandt. 1. c.

[49] S. Greg., Dial. l. II, c. XXXV.

[50] Vita scritta da lei stessa, c. 10. - Vedi anche S. Francesco di Sales, Introduzione alla vita divota; 3. part. c. 5.

[51] II., q. CLXI, a. 2, ad. 2.

[52] «Aliud est se levare ad Deum, aliud est se levare contra Deum. Qui ante illum se projicit ab illo erigitur; qui adversus illum se erigit ab illo projicitur». - Sermo 361, De utilitate poenitentiae.

[53] II – II, q. CLXI, a. 5, ad. 4.

[54] «Primum. in aquisitione virtutum potest accipi dupliciter; uno modo per modum removentis prohibens, et sic humilitas primum locum tenet, in quantum scilicet expellit superbiam, cui Deus resistit, et praebet hominem subditum et patulum ad suscipiendum influxum divinae gratiae, in quantum evacuat inflationem superbiae. Et secundum hoc, humilitas dicitur spiritualis aedificii fundamentum» (a. 5, ad. 2). Il S. Dottore dimostra poi in qual senso la fede può esser detta la prima delle virtù. Vedi nell’opera: Cristo vita dell’anima, il capitolo che tratta della fede come fondamento della vita cristiana; e in questo volume la Conferenza V. Vedi anche nel I. paragrafo di questa Conferenza la dottrina di S. Bernardo sull’umiltà; egli dice press’a poco le stesse cose di S. Benedetto: Oh quanto è grande la virtù dell’umiltà, alla quale la maestà di Dio così facilmente s’inclina. Come presto sa trasformare il rispetto in amicizia, e far sì che Dio, lontano da noi ci sia d’appresso: Cito reverentiae nomen in vocabulum amicitiae mutatum est; et qui longe erat, in brevi factus est prope (In Cantica, XLITX, n. 1). Come S. Benedetto scrive mox, tosto: così S. Bernardo in brevi et cito: presto.

[55] Canon vitae spiritualis, c. 7.

[56] Enarr. in Psalm. CXLI, c. 7.

[57] S. Tomm. Ivi, a. 6, ad 2.

[58] Vita scritta da lei stessa, c. XV.

[59] Vedi quanto si è detto più sopra, sul carattere religioso della spiritualità benedettina.

[60] Castello interiore, prime dimore c. 2, Opere complete della Santa.

[61] Per mantenere l’anima nell’abbassamento dell’umiltà è certo utile considerare che cosa siamo: vedendo la nostra miseria, e le tante deficienze e colpe, siamo condotti a comprendere la subordinazione e la verità. Ma la considerazione di Dio e delle sue perfezioni è fonte più limpida e copiosa per alimentare l’umiltà (D. Lottin: L’âme du culte; la vertu de religion, p. 43).

[62] «Nullo alio efficaciori remedio ulceribus superbiae medeberis quam si humilitatem Salvatoris tibi ob oculos animi ponas; neque enim ipse sine causa dixit: “Discite a me quia mitis sum et humilis corde”». (Canon vitae spiritualis, c. 7). S. Teresa diceva altrettanto considerando la sua umiltà, conosceremo quanto poco noi siamo umili (1. c.). V. anche S. Bernardo. In Epiphania, Sermo I. 7.

[63] Il libro della mirabile visione, l. I, c. 30, Gesù Cristo.

[64] B. Angela da Foligno, al cap. 63; interessantissimo tutto quanto.

 

 

                                                                                                                                                            Segue...

 

 

 

 

 

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