Gerusalemme? Una "folgorazione profonda e unica" Appunti sparsi sul mio pellegrinaggio nella Terra di Gesù
PRIMA PUNTATA Considerazioni introduttive e inizio del viaggio.
Mi sono aggregato al gruppo della Parrocchia di Santa Maria del Carmelo in Roma che ha effettuato il pellegrinaggio dal 5 al 12 settembre 2008, guidati, sotto il profilo spirituale dal Parroco Padre Giuseppe Midili, come al solito efficacissimo, e sotto quello organizzativo, storico, archeologico e religioso, da una formidabile Enza Lisi. Gli amici cui avevo confidato questa mia decisione, mi ripetevano unanimi, con martellante monotonia: “Vedrai… sarà un’esperienza unica, indimenticabile, inimmaginabile… potrai toccare il divino con le tue mani… sentirai attuale e presente un Gesù Figlio di Dio, calato nella sua realtà storica di oltre duemila anni fa… lo sentirai palpitare nel tuo cuore…”: espressioni che ritenevo frutto di una certa “sindrome da Terra Santa”, certamente condivisibili e razionalmente giustificabili ma, pensavo, difficilmente realizzabili se non in presenza di una smisurata e convinta fede personale. Quantomeno tale da smuovere le montagne. E invece no: mi sbagliavo… Anche a me, tiepido operaio nella Vigna del Signore, il contatto fisico con quei luoghi santi è stato elettrizzante, dirompente, senza precedenti. Hai voglia tu di studiare sui testi, di documentarti scrupolosamente su tutto, di affrontare tutte le più impensabili argomentazioni proposte dalla critica letteraria, da esegeti di grido, da anni e anni di pubblicazioni storiche, archeologiche, scientifiche, letterarie, spirituali, mistiche… niente, nulla può entusiasmarti e coinvolgerti quanto un semplice “essere lì”, nulla è paragonabile all’emozione che provi prostrandoti in preghiera, anche se per pochi istanti (la calca incombe) sui quei luoghi, toccarli con mano, vivendoli in un intenso e commovente “flash back” con Gesù, accompagnandolo passo passo nel suo peregrinare per le “sue” strade, noi peccatori, ignoranti, ottusi come Simone e gli altri, ma anche noi folgorati dalla sua voce suadente, dai suoi insegnamenti, dalla sua bontà, annichiliti da tutto ciò che Egli ha dovuto sopportare per noi… Credetemi, dopo tale esperienza, nulla può rimanere invariato. Ogni nome, ogni luogo, ogni situazione che udremo nelle assemblee domenicali della Parola, non saranno, non potranno più essere le stesse, non scivoleranno più nell’indifferenza e nell’ignoranza. Ora sappiamo, ora abbiamo visto, ora abbiamo toccato con mano. Tutto ora ha un valore aggiunto, scolpito nel nostro cuore, innegabile, indistruttibile, determinante. Certo, la fede. Circola un detto a questo proposito: per fare un viaggio in Terra Santa (vedi foto) bisogna rifornirsi di tre borse: una piena di fede, l'altra di soldi, e la terza di… pazienza! Se per la seconda e la terza mi ero sufficientemente fornito, per la prima nutrivo qualche trepidazione… Un dilemma mi lacerava interiormente: la mia fede di “studioso” (perdonate la presunzione!), abituato a familiarizzare quotidianamente col Testo Sacro e quindi con una radicata “prosopopea del saputello”, sarebbe stata in grado di restituirmi uno sguardo semplice, puro e innocente, da servo ignorante ma innamorato, per poter cogliere e gustare a fondo emozioni così vitali ma anche così veloci e incalzanti? Ebbene, amici, ora posso dirvi di sì: perché dove non può l’uomo, dove i limiti umani sembrano invalicabili, proprio lì la grazia di Dio è sempre pronta ad intervenire, a sopperire alla debolezza di quanti umilmente ne fanno richiesta. Provare per credere! Io ho provato, ho vissuto, ho capito, ho amato, provando l’irrefrenabile commozione di sentirmi riamato: tutto ciò che vedevo, che toccavo, testimoniava concretamente l’amore immenso di Gesù, sì per l’umanità intera, ma in particolare per me, proprio per me, per la mia insipida, indegna e ingrata persona… Ma andiamo per gradi. Il dipanarsi dei miei ricordi non seguirà qui la reale sequenza cronologica del viaggio. Essi passeranno da un luogo all’altro, da un momento all’altro, da un’emozione all’altra, senza rispondere ad uno schema prestabilito. Il “rewinding” delle immagini è puramente casuale, emotivo; sono proiettate così come emergono dall’archivio della mia memoria, di getto, impetuose e prepotenti. Nessuna velleità narrativa o turistica in tutto ciò; ma l’unica intenzione che mi ha spinto a queste note è di testimoniare, di condividere con chi ha già vissuto o sogna di viverle, le emozioni di un appassionato (e perché no, struggente) viaggio nella Terra di Gesù. La Terra Santa è grande e piccola. Grande per i fatti che vi sono accaduti cioè che un Dio si sia fatto uomo con tutto quello che n’è conseguito. Piccola perché tutto è a dimensione d’uomo e si può percorrere da cima a fondo in una giornata di macchina, comprese soste per il pranzo e per il caffé. Grande perché è un patrimonio religioso universale e per la sua fama mondiale. Piccola perché è contesa metro per metro e in alcuni casi, come al s. Sepolcro, centimetro per centimetro, da Ebrei, Mussulmani e Cristiani di ogni confessione. Nessuno dei luoghi santi (tranne il Lago di Tiberiade) è rimasto come ai tempi di Gesù. I primi cristiani cominciarono a venerarli e ad usarli come case-chiese. Finché l’Imperatore Adriano nel 135 distrusse tutto. Mise nei punti più importanti statue di divinità pagane. Ma non aveva fatto i conti con i disegni di Dio. Infatti proprio quelle statue permisero all’Imperatore Costantino, dopo il 313, di risalire ai punti esatti legati alla vita di Gesù, facendo erigere sugli stessi sontuose basiliche le cui fondamenta sono visibili ancora oggi. In seguito quello che non distrussero e saccheggiarono Persiani e Turchi lo fecero incendi e terremoti e gli stessi abitanti del posto. Poi vennero i Crociati, intorno al 1100, e provvidero a ricostruire. Altri poi continuarono a distruggere. Infine i Frati Francescani, presenti in qualche modo, spesso rocambolesco, fin dal 1390, ma stabilmente dal 1620, custodirono ed edificarono le meraviglie che oggi ammiriamo. Questa, in soldoni, la storia di questa terra sacra. Ma per i particolari ritornerò più avanti.
L’inizio del viaggio Da Fiumicino a Tel Aviv, con la Mistral Air (nella foto il Boeing 737), è una volata di non più di duemila chilometri (3 ore circa di volo), ma seminati entro tante ore interminabili di attesa (ore 4 partenza da Mostacciano, ore 5 incontro al Desk ORP, ore 8, imbarco) tanti controlli di sicurezza, tanto frastuono in mezzo a migliaia di turisti d'ogni razza e colore, alle più svariate fogge di vestito e libertà d'atteggiamenti; qualcuno, più esperto, riesce anche a raccogliersi: legge qualcosa, appunta qualche nota, e si prepara a non sciupare questa grande grazia di Dio: come Mosè, sa di doversi "togliere i sandali, perché il luogo dove ti trovi è Terra Santa!" (Es 3,5). Se siamo giunti fin qui, proprio noi e non altri, è perché il Signore ha qualcosa da comunicarci; e come il piccolo Samuele, c’è da ripetersi: "Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta" (1Sam 3,9). Nel fascicolo che trovo "nella tasca della poltrona posta davanti a voi", noto una preghiera scritta in ebraico e inglese; è una benedizione biblica per chi compie il viaggio nella Santa Città: «O Signore eterno, Dio nostro e Dio dei nostri padri, fa' che questo viaggio sia tutto secondo la tua santa volontà, per poter fare il nostro cammino in tutta serenità e giungere al traguardo in pace, in buona salute e gioia. Preservaci, Signore, da ogni malore e da ogni disgrazia. Sii lodato, o Eterno, che ascolti la nostra preghiera. Che l'Eterno ci benedica e ci custodisca! Che il Signore faccia risplendere il suo volto su di noi e ci accordi la sua grazia. Che Dio eterno ci doni la sua pace. Amen». "Evenu shalom...". "Shalom" (pace), è il "ciao" che qui in Israele ognuno si scambia familiarmente per strada; e "shalom" è il saluto che ci ha accolti all’aeroporto Ben Gurion (vedi foto più sotto). Il disbrigo delle formalità è velocissimo, e siamo subito tra la gente di questo paese: sono Ebrei o Arabi? Quante facce diverse, e quanti modi di vestire! So che qui vivono circa sette milioni di persone, di cui circa il 76% di Ebrei, provenienti da tutte le parti del mondo, divisi tra loro per cultura e civiltà: gli occidentali, chiamati "Askenaziti", e gli orientali, i più poveri, chiamati "Sefarditi"; il resto è composto da arabi che, mescolati nello Stato d'Israele inaugurato il 14 maggio 1948, hanno accettato di vivere con gli ebrei come cittadini di questo paese. A fianco, circa un milione e duecentomila Palestinesi vivono nei territori di Palestina, Giordania, Gaza, con una propria autonomia ma in crescente lotta tra di loro: un partito nazionalista moderato, che cerca un’alleanza con Israele per combattere contro l’ala estremista palestinese guidata dal comune “nemico” Hamas. Un quadro politico allarmante, in continua evoluzione ed ebollizione. Ma lascio agli esperti la valutazione politica di questo martoriato paese: a me quello che interessa è di ben altra natura. All’aeroporto ci aspetta un pullman per il trasferimento al nord, verso la Galilea, a Nazareth, dove faremo sosta le prime tre notti. Israele, come dicevo, non è grande: è lungo da nord a sud, ("da Dan fino a Bersabea", come dice la Bibbia) non più di 250 chilometri; e largo un'ottantina, dal Mediterraneo alla fossa del Giordano. Ha caratteristiche di paesaggio e di clima molto varie, tanto che ogni giorno ci si imbatte in ambienti diversi. Anche oggi, come ai tempi di Gesù, tutto il territorio si divide in tre fette: Galilea al nord, Samaria al centro, Giudea al sud. La pianura costiera di Sharom è invasa da migliaia di ettari di agrumeti ben coltivati, i famosi pompelmi di Giaffa, irrigata dall'acqua che viene dal nord e dai primi esperimenti di desalinazione del mare; le vallate della Galilea, Esdrelon, Zabulon… sono un tappeto unico di cereali in inverno e di cotone d'estate; il lago di Tiberiade è un occhio azzurro in mezzo a colline verdi che si coronano di nevi scintillanti al confine col Libano col monte Ermon; la valle del Giordano corre in una fossa sotto il livello del mare: inizia piena di frutti tropicali e finisce nell'immoto mar Morto; le montagne di Samaria salgono gradualmente fino ai mille metri della Giudea e sono tutte uno spettacolo di terrazze coltivate a ulivo e vigna; infine il deserto di Giuda e quello del Negheb costituiscono una sorpresa indimenticabile per il visitatore che viene per la prima volta. Storicamente una cosa è certa: questo lembo di terra fu dal terzo millennio corridoio di transito obbligato di popoli d'ogni razza, cultura e religione, collegando i grandi imperi dell'ovest, l'Egitto dei Faraoni, a quelli dell'est, le civiltà mesopotamiche, Sumeri, Babilonesi, Assiri... Forse per questo Dio trovò qui opportuno "inclinare il cielo e discendere", secondo la bella immagine del salmo 18,10.
L'esperienza religiosa Corriamo verso il nord lungo strade sorvegliate da filari di eucaliptus, sotto un sole cocente, che ci controlla implacabilmente anche durante la frettolosa consumazione di un sedicente “pranzo”, in realtà un “monastico” panino, una mela verde e una bottiglietta d’acqua, che abbiamo consumato in pochi istanti, fermi in una piazzola di sosta a lato della strada (vedi foto). Ma non voglio indulgere in queste note: mi sono impegnato a una rigida regola: "Cercate prima il regno di Dio e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù". Tutto il resto è appunto l'aspetto turistico, le comodità alberghiere, i pasti ecc… tutte cose che non sono state certo prive di un loro “fascino” e di impreviste “sorprese”, ma che devono essere considerate solo "superfluo", rispetto ad una profonda esperienza spirituale che costituiva il motivo primario da perseguire. Sapevo già che il pellegrinaggio normalmente si articola su tre livelli, tre piste di lavoro con tre diversi risultati da raggiungere. Anzitutto il livello della storia della salvezza: si viene qui per radicare in coordinate storico-geografiche, ben precise e documentate, i fatti che costituiscono la radice della nostra fede: sono gli interventi di un Dio personale nella storia di Israele, la sua incarnazione in Gesù di Nazareth. Fatti che hanno cambiato il corso della storia e il destino dell'uomo e che la Bibbia si è incaricata di riferire come storia di salvezza; la fede poi ce li fa vedere significativi e decisivi anche per ciascuno di noi, per la nostra vita spirituale. Quindi il secondo livello, quello biblico: leggere cioè la Bibbia in ogni posto, per cogliere tutto quello che Dio ha fatto per l'uomo e imparare a interpretare anche i nostri fatti di oggi come storia del Dio che salva. Si tratta in particolare di ripercorrere quegli stessi itinerari "dove Gesù è passato", con il Vangelo sempre in mano, per rivivere con Lui la sua vicenda umana e illuminare qualcosa della nostra vicenda personale. Un taglio "pastorale", da intenso corso d'esercizi spirituali, che nel nostro caso è stato brillantemente assolto da Padre Giuseppe. Ma non è tutto; s’impone il terzo e più importante livello: perché quei fatti rievocati divengano efficaci per noi, è necessaria la mediazione del mistero o sacramento, l'opera cioè di Cristo vivo nostro contemporaneo che applica a noi i frutti dei suoi gesti tramite l'azione dello Spirito Santo. Di qui l'enorme importanza data alla celebrazione eucaristica giornaliera (con rinnovo delle promesse matrimoniali a Cana, lavanda dei piedi al “Cenacolino”) e al clima di preghiera (rinnovo delle promesse battesimali sul Giordano a Cesarea di Filippo, rosari, canti mariani, via Crucis lungo la “Via dolorosa”) che ha scandito tutto il pellegrinaggio. Ogni luogo evangelico visitato doveva divenire un contatto vitale ed efficace con quel Gesù che lì ha vissuto e ora vive e opera nella sua Chiesa! Ma vedo che sto divagando e anticipando confusamente notizie legate a determinati luoghi.
Sono già passate oltre due ore di pullman e non me ne sono accorto, tanto sono concentrato sulla prima tappa: il Monte Carmelo, teatro delle gesta del profeta Elia, luogo che ha visto i natali dell’ordine carmelitano, alla cui spiritualità è strettamente legata la nostra Parrocchia. Penso intensamente: potrò finalmente vedere i ruderi della primitiva “Stella Maris”, la Chiesa in onore della Madonna che un nutrito gruppo di monaci e di pellegrini occidentali, (giunti al seguito di Bernardo nella catastrofica seconda crociata, chiamati poi i “fratres monti Carmeli”), avevano costruito al centro delle loro grotte da eremiti, in cui cercavano quella “beata solitudo et sola beatitudo” monastica con cui erano abituati a servire Dio in patria. Per la verità, la mia ansia di avvicinare le vestigia della vita anacoretica, fiorita tra le asperità e la solitudine del Monte Carmelo, si è infranta di fronte alla triste realtà odierna di un piccolo santuario (vedi foto più in alto a destra), quasi invisibile, incuneato tra moderne costruzioni, svilito da un traffico caotico e da un baccano dissacrante: neppure l’incantevole placida visione del vicino golfo di Haifa riusciva ad attenuare in me tale contrasto. Sicuramente il "vero" Carmelo era più in alto, in zone impervie che il poco tempo a nostra disposizione non ci ha concesso di ammirare... luoghi forse più fedeli, come paesaggio, a quelli dell'epoca delle crociate, intorno al 1160, in cui le cose dovevano essere sicuramente diverse! Ma questa è la civiltà contemporanea che incombe. In ogni caso la nostra prima Eucaristia in Terra santa è stata proprio qui, in una cappella interna del convento carmelitano, a fianco della Grotta di Elia. È stato significativo che il nostro viaggio prendesse forma sotto il motto di Elia: "Zelo zelatus sum pro Domino Deo exercituum...". Anche noi, o Signore, "ardiamo di zelo", di entusiasmo, di incontenibile gioia per venirti a trovare nella tua terra...". Riprendiamo il nostro percorso e finalmente, dopo un tortuoso saliscendi montano, tra gole e colline cosparse di minuscoli villaggi arabi, là in fondo spunta l’agglomerato luminoso della città di Nazareth (vedi foto qui sopra), adagiata su una collina e baciata dagli ultimi raggi del sole. Il nome di Nazareth provoca un risveglio del cuore, e subito il pensiero e la preghiera corrono alla "piccola fanciulla di Nazareth": «Ti affido, o Maria, il mio pellegrinare di questi giorni: tu che girando per queste strade "custodivi gelosamente il ricordo di questi fatti meditandoli dentro di te" (Lc 2,19), fa' che io non sciupi nessun istante di quel che il Signore mi farà intuire in questo "ritorno alle mie sorgenti" (Sal 86) di fede e di identità culturale. L’Hotel Hagalil (Galilea) è abbastanza centrale: la camera passabile, la cena abbondante. La stanchezza miete le prime vittime, ma un guizzo d’orgoglio finale, mi mette al seguito di alcuni volonterosi che vogliono anticipare la visita alla Basilica dell’Annunciazione (dista pochissimo). E qui ho incassato il primo, violento, colpo: entrare nella basilica semivuota e buia e poter sostare davanti alla grotta (vedi foto a lato) nella quale Maria ha ricevuto la visita dell’angelo che gli annunciava la sua prossima maternità, vi assicuro, è stato veramente emozionante. E non è retorica, garantito! Ho cercato di pregare, di balbettare, di formulare qualche pensiero, ma il primo vero, autentico impatto con il sacro mi ha completamente ammutolito… e mentre odo la metallica e assordante voce del muezzin che invita gli islamici alla preghiera nella piazza adiacente, seduto per terra, lascio che il mio cuore si abbandoni ad un canto che soltanto io percepisco: «Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus…».
SECONDA PUNTATA In Galilea
Nonostante la stanchezza e un letto confortevole, la prima notte in Galilea (vedi un paesaggio nella foto), come del resto anche tutte le altre notti, non è stata così riposante come speravo; pur avendo tenuto in debito conto la concomitanza del ramadan con i giorni festivi del venerdì (per i musulmani) e del sabato (per gli ebrei) il chiasso, il traffico, le grida, la nenia dei canti e suoni della festa sono andati ben oltre ogni più generosa previsione: in pratica non hanno avuto la benché minima tregua. Sono le tre e trenta e mi affaccio alla finestra: il cielo è ancora buio ma nella sottostante via principale le luci scintillanti e colorate dei numerosi festoni decorativi, la veloce intermittenza dei fari delle numerose vetture in transito, si fondono in un bailamme di ostinati colpi di clacson, di voci gutturali e concitate dei nottanbuli senza fretta; il panorama che si stende ai piedi della collina di Nazareth è ancora impenetrabile, avvolto in una fitta coltre di umida nebbia che offre a tutto l’insieme un aspetto ancor più surreale. Dove sono capitato? La voce del muezzin si alza improvvisa, vicinissima, e con la sua tipica nenia cantilenante chiama i musulmani alla preghiera: "Allah è grande. Alzatevi: è meglio venire alla preghiera che poltrire nel letto!". Si comincia bene! Mi rimetto a letto. Poi alle 6 in punto un raglio d'asino legato lì fuori anticipa il suono della sveglia: una nuova giornata si apre con tutte le sue incognite, ma con la gioiosa consapevolezza di trovarmi a due passi dal luogo fisico in cui Dio ha preso contatto con l'umanità: il cuore e il corpo di Maria, nella sua casa di Nazareth che sta proprio qui a due passi. Ma rimandiamo queste emozioni a dopo pranzo, al ritorno dalla visita dei dintorni...
Cana di Galilea Fin dal primo mattino Nazareth (tanto per cambiare!) straripa di gente: dal suk (mercato) vengono suoni e profumi, per la strada colori esaltati dal sole già imperioso, mentre ancora un venticello frizzante ti dà una carica primaverile. Dopo colazione, saliamo in pullman avendo in programma per la mattinata uno sguardo alla Galilea occidentale. Purtroppo siamo orfani dell’assistenza di Padre Giuseppe, rimasto in camera a causa di un improvviso malessere che gli ha portato anche un po’ di febbre. Nulla di grave ma la prudenza e il riposo in questi casi sono d’obbligo. Sotto il profilo spirituale tuttavia siamo egregiamente supportati anche dai due suoi confratelli carmelitani che partecipano al nostro pellegrinaggio (Padre Pippo da Messina e Padre Salvatore da Sorrento). Partiamo, iniziando la nostra giornata con la recita dell’angelus e con la lettura del “pensiero del giorno“: un “proverbio” o un detto efficace, studiato per ogni singola giornata, di cui Enza ci distribuisce copia a nostra edificazione. Uscendo dall’abitato, il panorama si apre immediatamente: dolcissime colline ondulano tutto il paesaggio: in cima vi si aggrappano villaggi arabi tutti uguali, con le case a "palafitte" per cogliere di sera ogni alito di brezza ristoratrice, appollaiate a macchia attorno al minareto e alla immancabile moschea dalla cupola verde; il tutto immerso in un mare di olivi, di fichi d'india, di melograni. Dietro una curva ecco che appare improvviso, pigramente sdraiato su tutta la collina, il villaggio di Cana, Kefr Kanna, dove Gesù trasformò l'acqua in vino alle nozze cui aveva partecipato con Maria sua madre. Camminando a piedi per il viottolo che raggiunge la Chiesa, si sente ancor oggi quel clima modesto di un piccolo agglomerato agricolo, dove la gioia di una famiglia è la festa di tutto il paese. Qui una chiesa francescana (vedi foto) d'inizio secolo, cara a papa Giovanni perché vi venne col suo vescovo di Bergamo a consacrarvi l'altare, ricorda la casa dello sposo "che ha saputo conservare il vino buono fino alla fine" (Gv 2,10). L'evangelista vi legge il "primo dei segni" compiuti da Gesù: finalmente l'atteso e promesso sposalizio tra umanità e divinità si celebra, lo Sposo è qui (cfr. Mt 9,15) e dà il vino buono dei beni messianici a tutti i commensali, trasformando la nostra labile umanità nella robusta qualità della vita divina. Non senza la mediazione di Maria! A Nazareth l'evento, a Cana la prima proclamazione! Gente buona già allora, questa di Cana. Di Natanaele, Gesù, scopertolo sotto l'albero di fico, dirà: "Questo è un vero israelita, un uomo senza inganno" (Gv 1,47); e lo aggregherà ai Dodici "per vedere cose ben più grandi!" (Gv 1,50). Anche oggi dalle case modeste, dalle improvvisate rivendite di "vino di Cana", la gente saluta, i bambini sorridono; in fondo alla via una piccola scuola tenuta da suore cattoliche brilla di pulizia, di oleandri e del... risuonare di voci italiane. Qui, in questa chiesetta, tutte le coppie di sposi partecipanti al nostro gruppo hanno fatto corona all’altare rinnovando comunitariamente dopo l’Eucaristia le loro promesse matrimoniali. Una cerimonia molto semplice, significativa e direi quasi commovente, visto che per tutti si trattava di rivivere l’emozione di un giorno ormai lontano, sepolto nella routine di anni e anni di convivenza. Particolarmente gradita è stata poi la “pergamena” ricordo, che Padre Pippo ha offerto in regalo a ciascuna coppia.
Il Tabor Si riparte quindi in direzione del Monte Tabor. Risaliamo le pendici, cariche ora di vigneti e ulivi, ricche di colori e frutti; infiorate multicolori, ampie cascate di buganvillee dagli intensi color violetto, rosa, bianco; rigogliose palme, datteri e banane, sono le vistose decorazioni di questa zona. Ed infine ecco il Tabor. Un grosso cono che sovrasta la stupenda e ricchissima vallata di Esdrelon, alto 600 m sul livello del mare, coperto di verde; un panettone che si alza maestoso, ai cui piedi, come greggi a riposo, si trovano tre villaggi “biblici” dalle bianche case a terrazza. Si tratta di Daburiya (Dabereth), nel cui nome è ancora il ricordo della profetessa Debora, che proprio sul monte Tabor raccolse un esercito guidato da Barak per sconfiggere Sisara coi suoi 900 carri armati. Fu una vittoria di Jahvè perché al torrente Kison, in fondo alla vallata di Esdrelon, quei carri pesanti si impantanarono. Il generale nemico fuggi, si riparò nella tenda di Eber il Kenita, e la moglie Giaele, dopo averlo ristorato e fatto addormentare, «tolse un picchetto dalla tenda, prese in mano un martello e si avvicinò a Sisara senza far rumore. Gli conficcò nelle tempie il picchetto, ma così forte che rimase piantato anche in terra. Sisara passò dal sonno alla morte. Quel giorno il Signore stroncò davanti ad Israele la prepotenza di Jabin, re di Canaan» (Gdc 4-5). Episodi molto crudi e incisivi, non c'è che dire. Ma nella rilettura dell'epoca stanno a significare il decisivo e provvidenziale intervento di Jahweh a favore del suo popolo. Si tratta poi di Nain il villaggio in cui un giorno Gesù «incontrò un funerale: veniva portato alla sepoltura l'unico figlio di una vedova, e molti abitanti di quel villaggio erano con lei. Appena la vide, il Signore ne ebbe compassione e le disse: Non piangere. Poi si avvicinò alla bara e la toccò; quelli che la portavano si fermarono. Allora Gesù disse: Ragazzo, te lo dico io: alzati! Il morto si alzò e cominciò a parlare. Gesù allora lo restituì a sua madre» (Lc 7,11-16). Si tratta infine del villaggio di Endor (Ain Dur), piccola città cananea dove Saul, prima di ingaggiare battaglia contro i Filistei sui monti di Gelboe (che chiudono a sud la pianura di Esdrelon), abbandonato da Dio, venne a cercare la pitonessa perché gli evocasse lo spirito di Samuele, dal quale apprese la triste sorte che gli era riservata (1Sam 28,4-25). È proprio vero: qui ogni angolo di paese trasuda di pagine bibliche! Arriviamo col pullman fino a mezza costa, dove ci aspettano dei taxi per salire in cima al Tabor. Oltrepassata la "porta dei venti", residuo crociato, si entra in uno spiazzo chiuso a fortezza, al cui centro domina la recente basilica (vedi foto esterno e interno), ultimata nel 1924 dall'arch. Barluzzi, con la facciata a tre cappelle per richiamare le tre tende di cui parla san Pietro. Intorno alla basilica sono visibili i resti dell'antico monastero benedettino crociato, dalle spesse mura, nonché i ruderi delle originarie tre chiese bizantine del VI secolo, delle quali sono riconoscibili l’abside e l’altare. Sono manufatti piuttosto tardivi, ma già dall'inizio del III secolo Origene identificava il Tabor come il monte della Trasfigurazione. «Gesù dunque prese con sé tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni, e li condusse su un alto monte, in un luogo solitario. Là, di fronte a loro, cambiò aspetto: il suo volto si fece splendente come il sole e i suoi abiti diventarono bianchissimi, come luce. Poi i discepoli videro anche Mosè e il profeta Elia: essi stavano accanto a Gesù e parlavano con lui. Allora Pietro disse a Gesù: Signore, è bello per noi stare qui. Se vuoi, preparerò tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia. Stava ancora parlando, quando apparve una nube luminosa che li avvolse con la sua ombra. Poi dalla nube venne una voce che diceva: Questi è il Figlio mio, che io amo. Io l'ho mandato. Ascoltatelo!» (Mt 17,1-9). Dalla “teofania” del battesimo nel Giordano a quella di qui, sul Tabor, e da qui alla risurrezione, l'evangelista Marco scandisce due spazi temporali uguali, forse di un anno e mezzo; la Trasfigurazione è la conferma della prima manifestazione e l'anticipo dell'ultima, la definitiva manifestazione di Cristo glorioso e risorto. Pietro, Giacomo e Giovanni saranno gli stessi testimoni anche della sua agonia; ma ora si trovano in questo luogo solitario, dove Gesù, come al Getsemani, si immerge in un colloquio intimo col Padre e quindi nella esperienza "mistica"; e come già per Mosè, non solo il volto, ma tutta la persona di Gesù emanava poi luce. Il destino di Cristo, come dei suoi discepoli, passa dunque dalla passione e morte per arrivare alla risurrezione. Un paradigma di vita difficile da capire e accettare. Pietro stesso capirà solo alla fine cosa significasse questa esperienza che l'aveva tanto affascinato: «Non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: Questo è il mio figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Questa voce noi l'abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18). È la stessa esperienza di fede di cui anche noi abbiamo assoluto bisogno. Ed è la grazia che chiediamo in questo luogo santo, qui sul "santo monte". Vivere cioè la certezza che il nostro destino finale non è la sofferenza e la morte, ma il passo ulteriore, la risurrezione e la vita. Che anche la nostra vita cammina - oggi per la "grazia" e poi per la "gloria" - verso una progressiva trasfigurazione, o divinizzazione, così che alla fine «quel medesimo Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti darà vita anche ai vostri corpi mortali, mediante il suo Spirito che abita in voi» (Rm 8, 11). Un sentimento che penso condiviso da tutti, questo che ci accompagna durante la discesa dal monte e il ritorno in hotel per il pranzo.
Nazareth, il villaggio di Maria Subito dopo il pranzo, è prevista la visita a piedi del villaggio di Nazareth (vedi foto). È rimasto ben poco dell'ambiente contemporaneo a Maria; le manipolazioni di secoli hanno stravolto questo piccolo centro, ma su una cosa si è stati sempre certi: che qui c’era la casa della Madonna. Ma per meglio cogliere il messaggio di questa cittadina, è necessario intuire qualcosa della Nazareth del tempo di Gesù, e quindi delle sue condizioni di vita. Si trattava di un piccolissimo villaggio adagiato su uno sperone di collina, al centro di un anfiteatro aperto solo verso est: poche grotte scavate nella roccia viva, lungo il pendio che saliva, rifinite sul davanti con pergolati e cortiletti; all'interno piccoli silos sotterranei, anche a più livelli, collegati con scalette e cunicoli, per il deposito delle derrate; fossette rotonde come pressoi, e depositi di giare per olio e vino; nicchie per lucerne; anfratti destinati a "mangiatoie" per il riparo delle bestie; cisterne (con gradini) per l'acqua; all'esterno un piccolo forno casalingo per il pane quotidiano. In cima al villaggio l'unica sorgente, ancor oggi garrula; al centro la modesta sinagoga. Appena più in là la zona cimiteriale: lo spazio abitato stava quindi tra le due attuali chiese, la "Casa di Maria" a sud e la "Casa di Giuseppe" a nord. Sulla prima, oggi si erge il santuario dell’Annunciazione. «Qui il Verbo di Dio si fece carne», è scritto in latino sotto il piccolo altare eretto al centro della grotta sottostante la Basilica. Già dal II secolo la grotta è un luogo di culto: intonaci, graffiti con invocazioni a Maria, e, poco più tardi, mosaici con l'emblema di Cristo, ci attestano che i "parenti" di Gesù trasformarono fin dall'inizio questa casa in una "domus ecclesia", una casa cioè nella quale si raccoglievano i primi Giudei divenuti cristiani. Nel III secolo poi vi svilupparono attorno delle piccole grotte per il culto ai loro martiri, con propri battisteri, con caratteristiche tipiche della simbologia giudaica (sette scalini, il torrentello che ricorda il Giordano, i sei cori angelici...). Nel IV secolo, esattamente nel 352, si inaugurò quindi una basilica costantiniana con annesso un piccolo monastero. Distrutta dall'orda barbarica dei Persiani di Cosroe II nel 614, essa fu ricostruita più sontuosa da Tancredi, nel 1105 al tempo delle Crociate: era una bella basilica con 64 capitelli istoriati, raccolti oggi nel vicino Museo francescano. Distrutta anche questa nel 1263, soltanto nel 1620 i Francescani furono in grado di sovrapporvi nuovamente una piccola chiesa; divenuta però fatiscente col tempo, nel 1955 fu demolita per lasciare spazio alla costruzione della Basilica attuale (vedi foto esterno e cripta), che venne solennemente consacrata e aperta al culto il 25 marzo 1969. Essa è opera dell’architetto Giovanni Muzio ed è stata eretta con il contributo di tutto il mondo cattolico. La "Casa di Giuseppe" invece, su cui fu costruita nel 1914 l’attuale Chiesa, già nel VI secolo veniva chiamata anche Casa della Nutrizione, casa cioè in cui visse la Sacra Famiglia dopo il ritorno dall’Egitto. Gesù dunque ha abitato qui a Nazareth per trent'anni. Nei paesi vicini si diceva: «Può mai venire qualcosa di buono da Nazareth?» (Gv 1,46)Nulla quindi di straordinario: Egli visse una vita normale e povera: «Non è egli il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria, e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda?» (Mt 13,55); Gesù e Giuseppe lavoravano il legno, forse facevano aratri e gioghi per i lavori di campagna. È certo comunque che qui «secondo il suo solito» (Lc 4,16), Gesù ogni sabato frequentava la sinagoga per la preghiera, e ogni giorno la piccola scuola annessa, in cui sicuramente ha imparato a memoria la Bibbia e l'uso della preghiera quotidiana, come tutti i bambini ebrei del suo tempo. È questo certamente un mistero e per molti oggetto di scandalo: gli stessi compaesani di Gesù, si aspettavano un Messia potente! Un giorno Gesù, ormai più che trentenne, ritornò qui a Nazareth, «il villaggio nel quale era cresciuto. Era sabato. Come al solito entrò nella sinagoga e si alzò per fare la lettura della Bibbia. Gli diedero il libro del profeta Isaia, ed egli, aprendolo, trovò questa profezia: "Il Signore ha mandato il suo Spirito su di me. Egli mi ha scelto per portare il lieto messaggio ai poveri, per proclamare la liberazione ai prigionieri, il dono della vista ai ciechi, per liberare gli oppressi e annunciare il tempo nel quale il Signore sarà favorevole". Quando ebbe finito di leggere, Gesù chiuse il libro, lo restituì all'inserviente e si sedette. La gente che era nella sinagoga teneva gli occhi fissi su di lui. Allora egli cominciò a dire: Oggi si avvera per voi che mi ascoltate questa profezia» (Lc 4,16-21). Immaginate? Sorpresa, sconcerto: «Ma non è il figlio di Giuseppe?». «E' proprio vero - conclude Gesù - nessun profeta ha fortuna in patria». E proprio qui, a Nazareth, quella volta la scampò bella: volevano addirittura buttarlo giù da un precipizio! Anche oggi di quanti pregiudizi è segnata la vita degli uomini che si credono liberi... Quanti adattamenti soggettivi, quanti distinguo, quanti stiracchiamenti costituiscono il contenuto di fede di chi si crede più cristiano degli altri! Non per nulla Gesù ha detto: «Queste cose, o Padre, le hai nascoste ai grandi e ai sapienti e le hai fatte conoscere ai piccoli» (Lc 10,21). Altre due costruzioni interessanti hanno coronato la nostra insaziabile curiosità: il piccolissimo santuario di "Santa Maria del Tremore" che si trova sulla destra entrando in città dalla piana di Esdrelon, su uno spiazzo rialzato, coltivato a ulivi e cipressi: ricorda la paura, il “tremore” della Madonna, quando seppe che i suoi concittadini volevano gettare Gesù da uno sperone roccioso, giù nel precipizio. L'altra è la "Fontana della Vergine", l’unica fonte pubblica esistente nella Nazareth vecchia, che si trova ai limiti del paese sulla strada in direzione di Cana. Qui veniva ad attingere acqua la Sacra Famiglia, e anche il giovane Gesù avrà sicuramente portato sulle spalle pesanti giare. Infine, due concomitanze degne di nota: nel pomeriggio la presa di possesso della sua sede patriarcale da parte del nuovo Patriarca cattolico latino di Gerusalemme, mons. Fouad Twal, succeduto a Mons. Sabbah nel marzo di quest’anno. Tutta la popolazione cristiana cattolica era in festa per tributare al nuovo presule il saluto di benvenuto. Una folla variopinta di fedeli, scolaresche in divisa, bande e autorità civili e religiose hanno dapprima sfilato processionalmente per le vie principali della città, per radunarsi poi nella Basilica (vedi foto) dove si è conclusa la cerimonia. Altro evento molto toccante è stato, la sera, il s. Rosario recitato e cantato dai numerosissimi fedeli nelle loro lingue (inglese, italiano, ebraico, arabo e spagnolo); la processione, partita dal sagrato della Basilica superiore, costeggiando in discesa l’intero complesso, si è snodata sotto le arcate del chiostro adiacente la Basilica inferiore, per entrare quindi in chiesa e radunarsi davanti alla Grotta dell’Annunciazione per la benedizione finale. Una massa di luci tremolanti, uno spettacolo suggestivo, reso ancor più pittoresco dal buio fitto di un cielo tetro carico di nubi minacciose, che però ci hanno risparmiato la pioggia (data per incombente) con grande sollievo di tutti. La materna sollecitudine di Maria aveva vigilato anche su questo!
Banjas, alle sorgenti del Giordano Siamo al terzo giorno. Ci vorrebbe la morbida tecnica del pastello per descrivere i paesaggi e le località visitate in questa giornata: un vero tuffo nell'ambiente naturale - rimasto pressoché tale e quale - in cui il trentenne Gesù visse i suoi primi mesi di apostolato: Banjas, le sorgenti del Giordano, e poi Cafarnao, la casa di Pietro, il Monte delle Beatitudini, Tabga (primato di Pietro), per finire con l'attraversata del lago di Genezaret o di Tiberiade. Quadri dai colori tenui, ma densi di emozioni e ricordi. Al primo mattino ci dirigiamo velocemente verso Banjas (vedi foto). Risaliamo tutto il territorio della Galilea, a nord di Nazareth, fino ai confini col Libano. Filippo (4-34 d.C.), tetrarca della Gaulanitide e della Traconitide, aveva costruito qui la sua capitale, Cesarea (detta appunto di Filippo, per non confonderla con l’altra Cesarea, quella Marittima, vicina ad Haifa ai piedi del Monte Carmelo). E qui un giorno passò anche Gesù, e fermatosi per un momento di ristoro proprio davanti all'imponente parete da cui ancor oggi scaturisce l'acqua abbondante del Giordano, disse a Pietro: «Tu sei Pietro, e su di te, come su una pietra, io costruirò la mia Chiesa» (Mt 16,18). Siamo ai piedi del Monte Hermon: il fiume, un iniziale rivoletto, prende immediatamente vita lento e solenne, d'un color verde smeraldo, sotto la vibrante frescura di eucaliptus secolari. È tradizione recente lavarsi nelle acque del Giordano sette volte, come Naaman il Siro che da lebbroso riebbe «la sua pelle come quella di un bambino» (2Re 5,1-19). La nostra lebbra, che è il peccato, l'abbiamo lasciata nell'acqua del battesimo; per questo oggi siamo venuti qui per ricordare il Battesimo di Gesù e il nostro battesimo. Giovanni battezzava verso la fine del Giordano, appena fuori Gerico; oggi quel territorio è zona militare interdetta ai turisti. Gesù quel giorno si incolonnò dietro la schiera dei peccatori che aspettavano l'avvento di una salvezza. Era per esprimere la sua disponibilità piena al progetto di Dio. E Dio l'accetta, consacrandolo, proprio al Giordano, con l'effusione dello Spirito Santo, suo Messia: «Questi è il mio Figlio, che io amo. Io l'ho mandato» (Mt 3,13-17). Anche noi, in queste stesse acque, rinnoviamo la nostra disponibilità del battesimo a ricevere consacrazione e missione di discepoli di Cristo nel mondo: e qui Padre Giuseppe (vedi foto), con una solenne, vigorosa e abbondante aspersione, senza il minimo timore che l'acqua finisse, suggella questo nostro proposito. Noi qui non ci lasciamo coinvolgere in scene suggestive (e perché no? abbastanza melodrammatiche!) di immersione totale: il nostro è un gesto interiore, intimo e riservato, ma non per questo meno entusiasta: le parole ripetute migliaia di volte cantando, qui acquistano per noi una loro particolare valenza: «Tu sei la mia vita, altro io non ho; tu sei la mia strada, la mia verità. Tu sei la mia forza, tu sei la mia pace, la mia libertà. Tu da mille strade ci raduni in unità, e per mille strade poi dove tu vorrai, noi saremo il seme di Dio». Parole note, semplici, che comunque esprimono il significato di questo nostro gesto, simbolico sì, ma estremamente significativo e vincolante. Terra santa, il Giordano: è un ritorno alle origini, che per noi sono pur sempre il nostro battesimo.
Cafarnao Da Cesarea costeggiando il Golan, scendiamo verso la piana di Genezaret, verso la città di Cafarnao (vedi foto). Un tracciato di strade che, attraverso colli, vallate e campi seminati, conduce a est entro la fossa del lago di Tiberiade. Per questi sentieri passava il Predicatore col grappolo dei suoi discepoli e, tra una sosta e l'altra, prendeva facile spunto dalla natura per chiarire a quei zucconi il suo messaggio: «Un contadino uscì a seminare, e mentre seminava alcuni semi andarono a cadere sulla strada, ... altri sulle pietre, con poca terra, ... altri tra le spine, ... altri su terra buona» (Mt 13,3-8). Il terreno qui è molto ondulato e pietroso: dove appena s'allarga uno spiazzo, viene ripulito dai sassi, si attinge all'humus fertile, si stria appena con l'aratro, fidando tutto nella rugiada notturna. È la difficile speranza di cui vivono ancor oggi moltissimi arabi senza altra risorsa che quella della dura fatica del rubare terreno buono ai sassi e ai rovi. Poi, in prossimità del lago, il colore si ammorbidisce: tonalità che scorrono dal celeste-cielo del lago, al verde-olivo delle colline occidentali, fino a sfumare nell'ocra-rosata del Golan. La rievocazione storica è casalinga, perché qui sono i primi passi del vangelo vissuto in paese, nel gruppo degli amici "discepoli", tra le case e la vita quotidiana di un ambiente rurale e semplice. «Maestro, dove abiti?». «Venite e vedrete». «Videro dove Gesù abitava e rimasero con lui il resto della giornata» (Gv 1,38-39). «Subito dopo uscirono dalla sinagoga e andarono a casa di Simone. La suocera di Simone era a letto con la febbre. Egli si avvicinò alla donna, la prese per mano e la fece alzare. La febbre sparì ed essa si mise a servirli» (Mc 1,29-3 1). Anzi qui, proprio sulle rive del lago, Cafarnao divenne la sua casa (Mc 2,1). Qui correva la grande via internazionale chiamata Via Maris, che salendo al Golan giungeva a Damasco e proseguiva verso la Mesopotamia. Sempre qui, al cambio della “tetrarchia”, almeno al tempo di Gesù, era posto di dogana: infatti più a nord, come abbiamo visto, c'erano i territori di Filippo. Cafarnao era dunque un villaggio di confine, e quindi di sosta obbligata: forse anche per questo Gesù la scelse come sua "parrocchia", perché la buona novella del Regno corresse più velocemente anche sulle vie consolari romane. Quando alla fine del secolo scorso i Francescani arrivarono qui, era tutto un ammasso di terra e sassi; il lavoro paziente di anni di scavi, portati avanti da P. Corbo, ha messo in luce la struttura essenziale di una cittadina a pianta romana, i resti architettonici della Sinagoga e un ottagono in mosaico della Chiesa bizantina costruita sull'originaria casa di san Pietro. Mentre le altre case del villaggio rimasero quasi immutate per secoli, il piccolo vano abitato da Pietro, e quindi da Gesù, subì, già dagli anni 60, numerose trasformazioni, proprio per l'attenzione e il culto ivi praticato. I muri furono intonacati, poveramente e ingenuamente affrescati, le ruvide massicciate del pavimento furono ricoperte in battuto di calce. Su queste pareti furono incisi dei graffiti con invocazioni a Pietro e a Gesù. Tra i calcinacci che più tardi formarono il fondo dei mosaici bizantini si ritrovarono ceramiche di epoca erodiana. Nel IV secolo tutta l'area fu delimitata da un muro; la casa di Pietro subì modifiche per poter accogliere un afflusso più numeroso di devoti; finché nel V secolo si costruì una basilica ottagonale, i cui muri e mosaici sono ancora oggi visibili al riparo di una recente costruzione di cemento armato a forma di barca, come "memoriale". Poco più in là è stata ricostruita in parte la sinagoga del VI secolo che in tempi di prosperità gli Ebrei cacciati da Gerusalemme avevano costruito proprio sopra l'antica sinagoga del tempo di Gesù, più modesta, oggi messa appunto in luce da minuziosi scavi e analisi. Va ancora detto che qui a Cafarnao siamo in un luogo sacro tra i più fortunati e sicuri a livello di documentazione archeologica, in grado di riportarci con assoluta verosimiglianza alla situazione di estrema povertà in cui “il Figlio dell'uomo”, il Figlio di Dio, ha scelto di venire a vivere tra noi. L'evangelista Marco descrive giornate intere passate qui da Gesù: «Verso sera dopo il tramonto del sole la gente portò a Gesù tutti quelli che erano malati e posseduti dal demonio. Tutti gli abitanti della città si erano radunati davanti alla porta di casa. Gesù guarì molti. Il giorno dopo si alzò molto presto, quando ancora era notte fonda, e usci fuori. Se ne andò in un luogo isolato, e là si mise a pregare. Ma Simone e i suoi compagni si misero a cercarlo, e quando lo trovarono gli dissero: Tutti ti cercano» (Mc 1,32-34). Alle molte guarigioni - compresa quella del servo di un ufficiale della guarnigione romana che qui aveva sede, uomo tanto amato che aveva fatto costruire la sinagoga del posto (Lc 7,1-10), e quella della donna malata di perdita di sangue - Gesù aggiunge anche una risurrezione da morte: «Talità kum, fanciulla, alzati!» dirà alla figlia del capo della stessa sinagoga, Giairo, ridonandogli la ragazza dodicenne viva (Mc 5,21-43). È qui che chiama a divenire suo apostolo il doganiere Matteo (Mt 9,9-13); e soprattutto qui si proclama autorizzato a perdonare i peccati provando la sua missione divina con la guarigione di un paralitico portato sulla stuoia da quattro amici (Mc 2,1-12). Cafarnao dapprima gli riservò accoglienza e successo: spesso si parla di folle e di gente che sembra lo capisse, tanto da identificare in essa la sua nuova famiglia («Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Poi si guardò attorno, e osservando la gente seduta in cerchio vicina a lui disse: Guardate, sono questi mia madre e i miei fratelli», Mc 3,33-34). Ma dopo il grande discorso sul pane di vita (Gv 6), «molti discepoli, sentendo Gesù parlare così, dissero: Adesso esagera! Chi può ascoltare cose simili?. Da quel momento, molti discepoli di Gesù si tirarono indietro e non andavano più con lui. Allora Gesù domandò ai Dodici: Forse volete andarvene anche voi? - Simone gli rispose: Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,60-71). Seduto all'ombra degli eucaliptus del giardino, rimango assorto a pensare a quella che doveva essere la delusione di Gesù, scontrandosi con l'ignoranza e l'incomprensione dei discepoli. Ma penso anche alla meravigliosa e quasi disperata risposta di Pietro, una autentica professione di fede: "Ma da chi vuoi che vada anch'io o Signore... tu solo mi capisci, tu mi consoli, tu mi guidi, tu ha sempre per me parole misericordiose, parole d'amore, parole di vita eterna.... Signore, quanto ho ricevuto da te nella mia vita.... e quanto poco ho corrisposto ai tuoi ripetuti inviti! Spero soltanto che anche per me non valgano le tue tremende parole pronunciate su Cafarnao: «E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché, se in Sodoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora esisterebbe! Ebbene io vi dico: Nel giorno del giudizio [Sodoma] avrà una sorte meno dura della tua» (Mt 11,23-24).
Il Monte delle Beatitudini Ci affrettiamo verso la collina che sovrasta il Lago, a nord della strada che da Cafarnao conduce al villaggio di Tiberiade. La più antica pellegrina di Terra Santa, la monaca Egeria, scrive nel suo diario del 395: «Non lontano da Cafarnao si vedono i gradini di pietra, sopra i quali stette il Signore. Ivi pure, sopra il mare, vi è un campo erboso coperto di molte erbe e palmizi e, presso di essi, sette fonti emettono ciascuna acqua abbondantissima: in questo campo il Signore saziò il popolo con cinque pani e due pesci. La pietra poi, sopra la quale il Signore stette, è diventata altare... Inoltre sul monte vicino vi è una grotta, salendo alla quale il Signore pronunciò le Beatitudini...». Su questa collina, nel 1935, i Francescani rinvennero le rovine di una cappella, ornata di fini mosaici riconducibili ai secoli IV e VI, che si ergeva su uno sperone di roccia, sul quale Gesù, secondo Egeria, avrebbe pronunciato il “Discorso della montagna” che inizia appunto con le “Beatitudini”. Più in alto, sulla sommità della collina, accanto ad una casa accoglienza retta dalle Suore Francescane s’innalza il Santuario delle Beatitudini, nel quale era programmata la celebrazione dell’Eucaristia: ma il ritardo di 10 minuti rispetto all'orario previsto (organizzazione millimetrica!), ci relega per la celebrazione ad una cappella all’aperto, sotto l’ombra di una tenda, posta su un terrapieno panoramico, dal quale la visione di un cielo azzurro, si fonde con il verde smeraldo delle acque del lago sottostante: momenti di particolare spiritualità, con lo sguardo che si perde su quelle acque tanto care a Gesù. Più prosaico è invece il successivo pranzo, imbanditoci nella Casa del Pellegrino, in cui il famoso “pesce di san Pietro” costituisce la portata più ambita.
Tabga Proprio a Tabga (da Heptapegon, sette sorgenti) c'è stata la sosta più deliziosa sul lago, su una piccola scogliera, che forse faceva da porto naturale a quelle quattro barche di pescatori ai quali Gesù aveva posto la sua particolare attenzione. È il luogo del cosiddetto “primato di Pietro”. Scriveva dunque la pellegrina Egeria: «Non lontano si vedono dei gradini di pietra sopra i quali stette il Signore…». Sembrano proprio quei gradini posti all'esterno della chiesetta (vedi foto più sotto). Pietro in questo luogo fa un salto di qualità: Mi fido, sulla tua parola rischio la mia vita. E Gesù non lo delude. Anzi, gli apre la vita ad una missione ben più grande, quella di pescatore di uomini! "E lasciato tutto, lo segue". Pietro infatti, sanguigno come al solito, ne è entusiasta: diviene discepolo di Gesù con tutta la carica emotiva del suo cuore sincero. Ma un giorno si ritrovò ancora qui, deluso e sconfortato, e con lui i suoi compagni. «Simon Pietro disse: Io vado a pescare. - Gli altri risposero: Veniamo anche noi». L'aver lasciato le reti e abbandonato tutto era stato un bel sogno giovanile. Ora tutto è finito: Gesù è morto, l'hanno messo nella tomba. Bisogna ritornare alle barche, arrangiarsi con le proprie mani e il proprio mestiere. Altro che fidarsi dell'utopista predicatore di Galilea! «Uscirono e salirono sulla barca. Ma quella notte non presero nulla». Gesù l'aveva detto più volte: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). L’antica pesca miracolosa fatta all'inizio della loro avventura se l'erano scordata. Gesù allora riprende nuovamente la lezione: «Gettate la rete dal lato destro della barca, e troverete pesce». I discepoli calarono la rete. Quando cercarono di tirarla su non ci riuscivano per la gran quantità di pesci che conteneva. Allora il discepolo prediletto di Gesù disse a Pietro: E' il Signore!. Pur titubanti - era solo la terza volta che lo vedevano risorto - lo riconoscono e riprendono fiducia. È a questo punto che «Gesù disse a Simon Pietro: Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di questi altri? - Sì, Signore, tu lo sai che ti voglio bene. - Pasci i miei agnelli» (Gv 21,1-17). Altra pesca, altro atto di fiducia, altro regalo più grande: pasci le mie pecore! Ora siamo al cuore della sequela: “Se mi ami... pasci!”. La Chiesetta, che i Francescani hanno costruito nel 1933 a ricordo del “mandato pietrino” sulla riva del Lago, copre anche i resti di edifici che emergevano dalle rocce, in particolare di una, denominata “mensa Domini”. Su questa roccia (vedi foto qui sopra) sarebbe avvenuto il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, come affermato da Egeria: «Ivi pure, sopra il mare, vi è un campo erboso con molto fieno e molte palme, presso le quali sette fonti emettono ciascuna acqua abbondante. Fu in questo campo che il Signore saziò il popolo con cinque pani e due pesci». Siamo quindi in un posto di grande "concentrazione evangelica": primato di Pietro e moltiplicazione dei pani e dei pesci. Alla testimonianza letteraria del Vangelo corrispondono infatti, perfettamente, le scoperte archeologiche. Ci raccogliamo tutti in gruppo, nelle panche poste a fianco della cappella per meditare, sotto la guida di Padre Giuseppe, sull'importanza del mandato pastorale ricevuto dal Papa, successore di Pietro, dai vescovi e, a cascata, dai nostri preti; e di riflesso sul nostro personale impegno non solo di seguire Gesù a parole, ma soprattutto di testimoniare questa nostra sequela a tutto tondo con una vita vissuta coerentemente. “Se ami..., pasci!”: la mia mente continua a divagare, e si spinge ancora più in là: come sarebbe bello se tutti i nostri preti, i nostri pastori, bruciassero di questo amore unico per Gesù! E dal mio cuore cerco di innalzare una preghiera: “Signore Gesù, sacerdote e pastore, ti prego per i nostri preti… A Pietro è stato detto: "Se mi ami.... pasci!". Questa è la fonte e la risorsa unica del prete: l'amore appassionato a te, o Gesù. Dona loro una sempre più viva esperienza dell'amore di Dio, perché vi sappiano corrispondere con amore totale. A Paolo è stato detto: "Ti basta la mia grazia!", perché non soffrisse delle incomprensioni e della solitudine dal mondo. Diventare prete è rinunciare al successo, e forse anche alla accoglienza... ! Fa', o Signore, che i nostri preti non vadano mai a mendicare consolazioni, ma sappiano accettare la propria "debolezza" perché in loro prevalga la "potenza di Cristo". A Maria, giovane madre, è stato detto: "Nulla è impossibile a Dio!"; ed è giunta fino ai piedi della croce la sua corsa! E' proprio questa la certezza di cui i sacerdoti hanno bisogno: di operare per una causa vincente, anzi l'unica necessaria, anche quando, come Cirenei speciali, dovranno portare la tua croce di Redentore: è per mezzo di essa però che tu hai vinto il mondo! Amen.” Mi accorgo che il gruppo si è già incamminato al pullman: la prossima meta è direttamente sul lago.
Il lago di Tiberiade Sono le ore più calde del dopo pranzo, il sole allo zenit, un’afa debilitante: ci fermiamo boccheggianti sul molo in attesa che arrivi il battello che ci porterà al largo, mentre i rari sprazzi d’ombra vengono conquistati e occupati con la massima velocità. Per fortuna una lieve brezza, impietosita da tanta sofferenza, si alza dalle acque e ci accompagna nelle operazioni di imbarco. Finalmente il battello si stacca lentamente dalla riva per portarci al centro di quel “mare” che Gesù tante volte aveva attraversato. Improvvisamente il cicaleccio del gruppo si attenua fino a scomparire: un lungo silenzio si impadronisce della scena. Tutti noi pellegrini guardiamo dal largo la sponda che abbiamo lasciato: là la piana di Genezaret, un po' più in qua Tabga, le Beatitudini, e dietro a noi Cafarnao. Sembra quasi che Gesù faccia parte del nostro gruppo e veda quella stessa scena che si apre ai nostri occhi: parole e gesti suoi, ci sembrano oggi ancor più vivi e attuali, compiuti apposta per noi. Mentre il battello è ferma al centro, la brezza che prima ci aveva confortato, ora improvvisamente acquista energia, si ingrossa, solleva delle onde che s’infrangono sul lato della barca, con ritmato sciabordio, in mille spruzzi… sembra quasi di rivivere la scena di Gesù che dorme, nel bel mezzo della burrasca: «Gesù disse ai suoi discepoli: Andiamo all'altra riva del lago. E partirono. Mentre navigavano Gesù si addormentò. A un certo punto, sul lago il vento si mise a soffiare tanto forte che la barca si riempiva di acqua ed essi erano in pericolo. Allora i discepoli svegliarono Gesù e gli dissero: Maestro, maestro, affondiamo! Gesù si svegliò, sgridò il vento e le onde. Essi cessarono, e ci fu una grande calma. Poi Gesù disse ai suoi discepoli: Dov'è la vostra fede?» (Lc 8,22-25). L'eco del testo evangelico, letto da Padre Giuseppe, si spegne... e nel silenzio che segue, mi accorgo di pensare proprio a questo: quando il mare della mia esistenza incomincia ad agitarsi e Dio mi sembra latitante, come mi è facile dire: “Dio dorme, Dio non c'è ... !”. Dov'è allora la mia fede? Non capisco nulla... perché no! «non dorme il tuo custode; non sonnecchia il custode d'Israele» (Sal 120,4-5). Dio sa; ha solo bisogno che sia io a chiamarlo, perché Egli rispetta la mia libertà; la preghiera è appunto la chiave che apre l'agibilità di Dio in me!... Riprendiamo la navigazione e facciamo rotta verso Tiberiade: è una città tutta adagiata sulla sponda occidentale del lago, oggi piena di alberghi dove Ebrei americani vengono a svernare, ma già centro termale dai tempi di Erode Antipa che la costruì in onore di Tiberio negli anni 20 d.C. Appena all'entrata ci si imbatte nel cartello del "livello del mare": il lago di Genezaret è a 212 metri sotto il livello del Mediterraneo, in una fossa geologica che si sprofonda fino a 400 metri a livello del mar Morto più a sud. «Dio fece sette mari, ma quello di Genezaret è la sua gioia», dice un detto rabbinico; ed è gioia anche per noi! È bello e spiritualmente riposante solcare le acque di questo bacino, teatro di mille episodi della vita di Gesù e degli apostoli, lungo 21 km e largo 12, profondo una cinquantina di metri soltanto, con una forma di arpa (in ebraico: kinnor) rovesciata: una pupilla azzurra in un'iride verde, tanto le sue acque sono risorsa di vita per tutte le sue coste, occidentali e orientali; i dolci declivi, le minuscole spiagge con la risacca, le scogliere sassose, le barche che dondolano al sole in attesa della pesca. Tutti particolari che ci riportano esattamente a quel giorno in cui «Gesù si trovava sulla riva. Stava in piedi e la folla si stringeva attorno per poter ascoltare la parola di Dio. Vide allora sulla riva due barche vuote: i pescatori erano scesi e stavano lavando le reti. Gesù salì su una di esse, quella che apparteneva a Simone, e lo pregò di riprendere i remi e allontanarsi un po' dalla riva. Poi si sedette sulla barca e si mise ad insegnare alla folla» (Lc 5,1-3). Sembra di vederlo lì vivo, Gesù; vederlo camminare lungo tutta la costiera che va da Magdala a Cafarnao. Il sole è già a tre quarti del suo corso, il giorno volge alla conclusione, come pure la nostra escursione: ma c'è ancora tempo sufficiente per una visita estemporanea nel regno della gastronomia e dei prodotti tipici di questa terra. Sostiamo alla “Kinneret Farm”, un kibbutz che coltiva queste terre con stile industriale, e che ci ha aperto le porte di un supermarket con ogni ben di Dio. Kibbutz significa "gruppo": è il villaggio nato dall'ideale sionista di trasformare questa terra e di realizzare una comunità umana completamente egualitaria (comunismo) in uno stile di volontarismo profetico che supera gli schemi della proprietà individuale e sviluppa al massimo l'aspetto sociale e comunitario. Ma penso che a nessuno, arrivato fino a qui, interessi più di tanto il significato politico di kibbutz… visto che il gruppo nella sua totalità è impegnato in abbondanti e ripetute degustazioni delle varie leccornie che fanno bella mostra di sé sugli scaffali (personalmente ricordo con piacere la marmellata di datteri e noci, “Nut et dates spread”... una vera catastrofe per la mia dieta!). Per fortuna la misericordia di Dio, alla fine, è accorsa in aiuto nostro e del negozio, facendoci ritrovare il senno del "basta!" e la strada di ritorno a Nazareth.
Partenza da Nazareth per Gerusalemme Quarto giorno. «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, Gesù si diresse decisamente verso Gerusalemme» (Lc 9,51). Da metà vangelo in poi Luca ordina tutti i fatti e i detti di Gesù come una grande salita a Gerusalemme: è il vertice della sua missione, come pure del nostro pellegrinaggio. Anche noi questa sera potremo finalmente cantare: «E ora i nostri piedi stanno alle tue porte, Gerusalemme!» (Sal 121). Ci sentiamo gli ultimi, ma non meno entusiasti, fra quei milioni di pellegrini, antichi e nuovi, che vengono in questa città a vedere il loro “registro” di cittadinanza, dove sta scritto: «Là costui è nato, perché di Sion si dirà: ogni popolo ha qui la sua patria; e si canterà danzando: sono in te tutte le mie sorgenti» (Sal 86). Per i Galilei di allora due erano gli itinerari per Gerusalemme: o la carovaniera dei monti (vedi foto in primo piano), molto impervia, o la strada del Giordano, piana e scorrevole (sul fondo della foto). Noi abbiamo seguito questa seconda possibilità. Oggi il Giordano segna la linea di confine tra Israele e Giordania. Partiamo presto da Nazareth per scendere nella vallata di Esdrelon. Il nome le deriva da Yizre'el, dove il re Acab aveva la sua residenza: qui Gezabele, sua moglie, usurpò la vigna di Nabot il povero, attirando la maledizione di Elia sulla sua dinastia (1Re 21). Qui lo stesso Acab aveva una fortezza che controllava a sud l'entrata nella valle sulla "Via Maris": era la fortezza di Meghiddo. La valle è stata sempre abitata, fin da epoca antichissima, e ancora oggi è il principale granaio di Israele.
Qumran Nel nostro trasferimento verso Gerusalemme sono previste due tappe importanti: una di carattere religioso storico (Qumran) e la seconda di carattere turistico vacanziero (il Mar Morto con relativo bagno per gli amanti del genere). Per il mio “dna” poco incline a mari, spiagge e quant’altro, mi sento ovviamente più interessato alla prima tappa, e nell’attesa di raggiungerla, faccio appello a tutte le reminiscenze scolastiche che ho del luogo, anche a quelle più remote e recalcitranti. Il risultato è appena passabile. Eccolo. A metà strada tra Gerico e Betlemme, sulle rive del Mar Morto, nella località di Khirbet Qumran (dall'arabo khirba, khirbet, "rudere"), nel 1947 un ragazzo beduino, nell'inseguire una pecora dispersa, scoprì in una grotta alcune giare piene di pergamene. Erano sette rotoli con il testo di quasi tutta la Bibbia, in particolare tutto il rotolo di Isaia, risalenti al I sec. a.C. È stata una delle scoperte più importanti per quel che concerne il testo biblico: fino ad allora avevamo testi manoscritti che non risalivano oltre il IX secolo; questa scoperta ci ha riportato indietro di mille anni; cioè ad una redazione della Bibbia molto vicina a quella originale e quindi a un testo meno sospettabile di errori di trascrizione. Il confronto ha poi confermato la sostanziale identità dei testi, e quindi la certezza che la Bibbia è stata trasmessa con molto scrupolo e fedeltà. Come mai quegli scritti si trovavano lì? Perché proprio Qumran? Le scoperte archeologiche, assieme alle abbondanti informazioni di Giuseppe Flavio, e all'analisi di molti altri scritti ritrovati in grotte vicine, che documentano la vita interna di una comunità “monastica”, ci danno un quadro abbastanza preciso di che cosa fosse realmente Qumran. Siamo nel periodo post-maccabaico, circa il 150 a.C.: a Gerusalemme l'influsso ellenista indebolisce la tensione religiosa del Giudaismo. In particolare, il cambio di Calendario e una illegittima usurpazione sacerdotale al tempio, fa' scattare una reazione da parte dei più "puri", detti Esseni, che si ritirano da Gerusalemme e fondano qui nel deserto e altrove delle comunità di forte tensione religiosa e messianico-escatologica. Nasce quindi a Qumran un grosso monastero di cui oggi si vedono ancora tracce e planimetria: con sale, cucina, articolato sistema idrico, cisterne per abluzioni sacre e bagni, forno per ceramica, scrittoio... Un grosso monastero in piena regola, con disciplina e gerarchia, con momenti di lavoro, studio, preghiera; con forte tensione a vivere l'amore a Dio e al prossimo, nell'obbedienza, povertà e castità. Si sviluppa nel primo secolo a.C. fino a un presumibile terremoto del 31 a.C.; e poi, dopo la morte di Erode, fino all'invasione romana del 70, che disperde e distrugge tutto. È appunto all'arrivo dei Romani che i monaci nascondono nelle giare i loro scritti. Un "maestro di giustizia" aveva redatto anche una "regola della comunità", e un libro dal titolo "Guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre": se ne ricava una grande attesa messianica in prospettiva di Giudice finale che viene a risolvere le deviazioni, soprattutto di culto e spiritualità giudaica. Contatti con il cristianesimo nascente sono evidenti in alcuni temi e aspetti dell'organizzazione della comunità primitiva (es. la comunione dei beni); quasi sicuramente Giovanni Battista era uno di loro. Certo Gesù ha un altro respiro, più universalistico e più libero di fronte alla concezione giudaica della Legge; ma ci sono stati sicuramente dei contatti, almeno a considerare l'uso comune di linguaggio e immagini (luce-tenebre, poveri-umili). La mia mente continua imperterrita a macinare informazioni: appare evidente che il mio interesse personale per questo luogo, per i suoi reperti, per il suo messaggio spirituale, è notevole, anche per il fatto che essi sono stati in più occasioni oggetto di attento studio, di conferenze e di lezioni. Oggi il materiale qui ritrovato è esposto al Museo del Libro a Gerusalemme (che emozione poter contemplare da vicino, nella successiva visita, il completo “Rotolo di Isaia”!). Tutto ciò per me è estremamente affascinante, innegabile! Ma a che servono tutti questi miei ghirigori mentali? Cui prodest? Ecco, ad una cosa almeno servono: che, cristiani o no, questi Esseni ci insegnano un amore viscerale per la Bibbia! Questo è il punto focale, il souvenir, il fermo proposito che posso portarmi via da questo angolo di Terra Santa: leggere, studiare, assimilare la Bibbia, pregare con la Bibbia, pensare con la Bibbia; in conclusione, una full immersion biblica costante, che mi consenta non solo di vivere la Parola ma anche di trasmetterne agli altri il suo incantevole messaggio. Lo scossone di fermata del pullman mi distoglie dalle mie elucubrazioni: incurante del solleone desertico, percorro con grande ammirazione, con rispetto e autentico coinvolgimento l’intero percorso archeologico. Mamma mia! Dalla partenza da Roma ad oggi ho immagazzinato nella mia mente migliaia di particolari… di notizie, di immagini, di emozioni… Spero solo che l’hard disk del mio cervello non stia qui per andare in tilt, anche perché il bello, il top, il sublime, la “sancta Jerusalem”, deve ancora venire!!
Il Mar Morto La fedeltà e compiutezza espositiva non mi consente di omettere un breve cenno anche alla tappa, eminentemente ricreativa, del Mar Morto, nelle cui acque brodose i più intraprendenti hanno potuto provare l’ebbrezza di un tuffo (si fa per dire!). Si tratta della depressione geologica più profonda conosciuta sulla terra, a circa 400 m. sotto il livello del mare. Lungo circa 85 Km, largo circa 17, ha una profondità massima di circa 400 m., raggiungendo così nel fondale un dislivello di 800 m. sul livello del mare "nostrum". La sua principale caratteristica consiste nell’intensa concentrazione salina che raggiunge il 26%, quando gli altri mari e oceani raggiungono al massimo un 6%. Per questo le sue acque non permettono alcun genere di vita (morto!): i bagnanti però, con tutte le precauzioni del caso, ripetute a iosa da Enza (non bevete, non bagnate gli occhi, attenzione alle ferite ecc.), hanno comunque potuto sperimentare la sua, forse unica, benefica proprietà: spalmandosi sul corpo il fango vischioso e nero del fondo, si ottiene “ipso facto” (così hanno poi unanimemente assicurato!) una pelle giovanile, fresca e vellutata!
Gerico Così, rifocillate e ringiovanite nel Mar Morto le stanche e vetuste membra, abbiamo preso la direzione di Gerico. Oggi Gerico è una modesta cittadina di confine, in quanto il vicino ponte di Allemby è l'unico punto di passaggio per civili e merci tra Israele e Giordania. Siamo a 300 m. sotto il livello del mare, nella città più in basso della terra. Attraversando la cittadina possiamo ammirare enormi banchi pieni di agrumi e frutti tropicali, banane, papaie, kiwi, ogni tipo di cocomeri... e, più avanti, datteri dolcissimi! Gerico d'estate, e anche oggi, è un inferno di caldo; d'inverno però e a primavera, la temperatura non scende mai sotto i 15 gradi. A gennaio si può mangiare sotto i limoni in frutto! Qui, in una Chiesetta francescana con annessa scuola cattolica, celebriamo l’Eucaristia. È molto bello entrare in contatto con i bimbi della scuola, tutti in divisa, che giocano in cortile; e anche con gli altri bimbi, quelli della strada, che a frotte ci circondano mentre saliamo in pullman, cercando insistentemente più che di vendere semplici oggetti, di rimediare qualche soldo: ma spesso si devono accontentare di una carezza, di una buona e affettuosa parola… anche ai tempi di Gesù nugoli di pargoli insistenti dovevano circondarlo lungo il suo peregrinare, ed ora si capisce meglio quando dice ai discepoli che li sgridavano: «lasciate che i bambini vengano a me e non li ostacolate, perché di quelli come loro è il regno dei cieli» (Mc 10,14). Per rimanere sempre in tema di banchetto (questa volta decisamente meno eucaristico), nel modernissimo centro commerciale dell’Oasi vicina, con annesso ristorante self-service, abbiamo consumato (letteralmente!) il pranzo e tutte le numerose portate ivi esposte. Poi, per le vie di Gerico abbiamo potuto soddisfare un’altra curiosità: abbiamo potuto farci un’idea di quel che doveva essere il “sicomoro” sul quale Zaccheo salì per vedere Gesù che passava per le vie della città: una massa straordinaria, un tronco enorme con rami massicci, mille diramazioni coperte da folto fogliame; certo, l’esemplare che abbiamo visto non era quello di Zaccheo… ma era sicuramente pluricentenario e ci ha restituito perfettamente quella che doveva essere la situazione al tempo di Gesù: «Entrato nella città di Gerico, la stava attraversando. Quand’ecco un uomo di nome Zaccheo, che era capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi fosse Gesù, ma non ci riusciva; c’era infatti molta gente e lui era troppo piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, si arrampicò sopra un sicomoro, perché Gesù doveva passare di là» (Lc 19,1-4). Quanti sicomori ci servirebbero anche nella nostra bella città, in cui pullulano i troppo piccoli, i troppo restii, i troppo “miseri”, i troppo “corti”! Gesù avrebbe il suo bel daffare per accontentare tutti andando a pranzo a casa loro! Ma… non divaghiamo! Lasciamo Gerico ricordando un'altra pagina evangelica molto bella: «Gesù e i suoi discepoli erano a Gerico. Mentre stavano uscendo dalla città, seguiti da molta folla, un mendicante cieco era seduto sul bordo della strada. Si chiamava Bartimeo ed era figlio di un certo Timeo. Quando sentì dire che passava Gesù il Nazareno, cominciò a gridare: Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!. Molti si misero a sgridarlo per farlo tacere, ma quello gridava ancora più forte: Figlio di Davide, abbi pietà di me!. Gesù si fermò e disse: Chiamatelo qua. Allora alcuni andarono a chiamarlo e gli dissero: Coraggio, alzati! Ti vuol parlare. Il cieco buttò via il mantello, balzò in piedi e andò vicino a Gesù. Gesù gli domandò: Che cosa vuoi che io faccia per te?. Il cieco rispose: Maestro, fa' che io possa vederci di nuovo!. Gesù gli disse: Vai, la tua fede ti ha salvato. Subito il cieco ricuperò la vista e si mise a seguire Gesù lungo la via» (Mc 10,46-52). La forza della fede, la costanza della preghiera! C'è di che pensare... Oltrepassato il Monte delle Tentazioni, il rumore continuo e attutito del motore ci acquieta: una sonnolenta siesta ci sommerge, accompagnandoci lungo tutto il percorso verso Gerusalemme. La strada sale: il paesaggio si fa gradualmente più rupestre, passando tra gole e strettoie dove sassi e rocce la fanno da austeri custodi. Uno scrittore d'Israele ne ha dato una stupenda spiegazione. Scrive il profeta Ezechiele: «Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36,26). Ecco: questi sassi che si infittiscono attorno a Gerusalemme sono appunto il cuore di pietra che milioni di pellegrini sono venuti a lasciare nella santa città, cambiandolo con un cuore di carne! È l'augurio che ci facciamo l'un l'altro mentre le prime esclamazioni di gioia di alcuni per l'imminente apparizione della città santa scuotono definitivamente dal torpore anche i più restii: ci prepariamo pertanto all'incontro con la grande Gerusalemme.
Betania Giunti in prossimità di Gerusalemme, dopo averne ammirato di sfuggita e da lontano le sue attraenti bellezze, sostiamo a Betania, piccolo villaggio alle falde del monte degli Ulivi, patria di Lazzaro, Marta e Maria, amici di Gesù; facciamo visita proprio alla loro casa, un rifugio tanto caro a Gesù, durante le sue ultime settimane di vita trascorse a Gerusalemme, quando sentiva addensarsi l'odio dei Capi e quindi il pericolo di un imminente arresto. Egli veniva qui, in questa casa di Marta, Maria e Lazzaro (vedi foto), dove trovava accoglienza e amicizia. «Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella Maria e a Lazzaro» (Gv 11,5). Altre volte, quando saliva da Gerico, si fermava per ristorarsi. «Una donna di nome Marta lo ospitò in casa sua, e si mise subito a preparare, ed era molto affaccendata. Sua sorella invece, che si chiamava Maria, si era seduta ai piedi del Signore e stava ad ascoltare quel che diceva. Allora Marta si fece avanti e disse: Signore, non vedi che mia sorella mi ha lasciata da sola a servire? Dille di aiutarmi!» (Lc 10,38-41). La confidenza di Marta svela quanto Gesù fosse ormai di famiglia. Maria però, più attenta alle confidenze di Gesù, ne coglieva il mistero, tanto che un giorno «prese un vaso di nardo purissimo, unguento profumato di grande valore, lo versò sui piedi di Gesù; poi li asciugò con i suoi capelli, e il profumo si diffuse per tutta la casa» (Gv 12,1-1 1). Era certo un gesto di tenerezza; ma Gesù disse: «Lo ha fatto per il giorno della mia sepoltura»; forse le aveva già confidato i suoi timori di morte. È in questo contesto che Gesù compie il segno più vistoso e decisivo: la risurrezione dell'amico Lazzaro (Gv 11,1-44), per dare la certezza che la morte non è l'ultima parola, dacché Dio interviene per mezzo del suo Cristo: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; anzi chi vive e crede in me non morrà in eterno». Il racconto di Giovanni raccoglie tutte le obiezioni di fronte alla morte: «Lui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva fare in modo che Lazzaro non morisse?». Lui che gli era così amico: «Guarda come gli voleva bene!», disse la gente quando Gesù scoppiò in pianto. Perché è rimasto via e ha lasciato consumare la tragedia? Gesù non è venuto ad alterare il ciclo biologico della vita, anzi vi si rende partecipe nelle reazioni affettive che provoca; ma è venuto a dare alla morte un nuovo significato. Il cuore del problema è in quella professione di fede fatta da Marta: «Signore, sì! Io credo che tu sei il Messia, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo». E il Dio che noi conosciamo è il Dio dei vivi, non dei morti! L’attuale santuario è di recentissima costruzione (1952-53), opera dell’arch. Barluzzi, innalzato sopra i ruderi delle antiche costruzioni risalenti al IV secolo. Il tempo non ci consente di visitare anche la Tomba di Lazzaro situata nelle vicinanze. Ma usciti dal giardinetto ombroso e pieno di ogni tipo di piante (compresi dei peperoncini che facevano invidia a quelli del nostro sud) una pazzia collettiva ci ha comunque invaso: un cammello faceva bella mostra di sé, in attesa che i turisti più coraggiosi lo cavalcassero per le rituali foto ricordo; detto fatto! una ressa impensabile, dai più giovani ai più anziani, dagli smilzi ai più in carne, tutti, dico tutti compreso Padre Giuseppe (vedi foto), hanno voluto provare il brivido dei beduini (beh, eccetto il sottoscritto e pochi altri ignavi al par mio). La parentesi ludica ci ha iniettato nuovo vigore e così abbiamo potuto ammirare, svegli e adrenalinici, le immagini ormai vicine della santa Gerusalemme. Non ci siamo comunque fermati: abbiamo proseguito direttamente per Betlemme, punto di appoggio per questa seconda parte del nostro pellegrinaggio. Giunti all’hotel Paradise, una tonificante doccia e la successiva cena hanno contribuito a cancellare la stanchezza accumulata in questo susseguirsi di tappe lungo il percorso di trasferimento dalla Galilea alla Giudea, attraverso la Samaria. Siamo nuovamente reattivi, e per finire in bellezza, senza particolari coinvolgimenti emotivi, un negozio di Souvenirs ci aspetta a braccia aperte, per propinarci ogni possibile varietà di oggetti sacri e non, da riportare a casa. Finalmente, dopo animate contrattazioni, riusciamo a raggiungere nuovamente l'albergo: qui, uno scambio di impressioni ormai troppo insonnolite convincono definitivamente anche i più dinamici e riottosi a desistere da ogni ulteriore iniziativa, rimandando decisamente all’indomani le residue velleità.
TERZA PUNTATA In Giudea
Siamo dunque in Giudea: “La Giudea consiste in un'area quadrangolare che è inclusa a nord tra Tel Aviv e il Mar Morto e a sud tra Gaza ed En Gedi. È frazionata in una pianura costiera (Shefela) a Occidente, in una zona montuosa al centro (Har Yehuda) e nel Deserto Giudaico a Oriente. I punti più alti della Giudea (vedi foto) sono i Monti Betel, che arrivano fino a 1016 m, e la zona di Hebron. Le stirpi ebraiche di Giuda e Beniamino intorno al 1200 a.C. vivevano sulle montagne e furono congiunte da Davide in un unico regno. Alla morte di Salomone tuttavia le tribù si divisero, formando a nord il regno d'Israele e a sud quello di Giuda, conquistato dai Babilonesi nel 586, l'anno che diede inizio alla cattività babilonese. In epoca romana - a partire dal 63 a.C. - regnarono su Giudea, Galilea e Samaria, Ircano II ed Erode il Grande, cui succedettero governatori romani. La distruzione di Gerusalemme del 70 d.C. diede inizio alla diaspora e in seguito alla cristianizzazione (culminata nel IV secolo) e all'islamizzazione (VII secolo) del Paese. Piccole comunità ebraiche continuarono tuttavia a vivere a Gerusalemme e a Hebron. Nel 1948-49 la parte ovest della Giudea fu data a Israele e quella est alla Giordania. Nel 1967 - con la Guerra dei Sei Giorni - la parte giordana, insieme a Gerusalemme Est, fu conquistata militarmente dagli Israeliani.” Fin qui le notizie concise e asettiche fornite da una delle tante pubblicazioni turistiche in commercio. Ma a noi cristiani la Giudea interessa soprattutto per due cose fondamentali: perché in Betlemme ha dato i natali a Gesù, e perché nella sua capitale, Gerusalemme, si è conclusa la sua esistenza terrena. L’inizio e la fine della parentesi terrena del Figlio Dio: i primi anni della sua vita, gli ultimi della sua missione.
Betlemme Quinto giorno. Questa mattina ci siamo svegliati a Betlemme: anche qui, come già in Galilea, la notte è stata intercalata dal canto del muezzin, ma la nenia sgangherata proveniente dagli altoparlanti a tromba dei minareti musulmani ora non disturba più di tanto: sono ormai entrati nella routine ma, alle due e trenta in punto, ho voluto comunque verificare (ahimé!) dove materialmente fosse qui posizionata una delle cause più responsabili delle mie notti insonni. In effetti è proprio qui vicino, a circa 100 metri. Dalla finestra della camera al quinto piano del “Paradise”, cessato il gracidio inopportuno, posso finalmente cogliere il silenzio vero, profondo, immobile, in uno scenario veramente toccante: un cielo avvolto ancora nell’oscurità, ma vivo nell'aurora nascente, ancora vibrante di stelle scintillanti; il lamento lontano di un cane… il quieto vibrare di insetti e uccelli notturni… tutto l’insieme assopito in una pace serena, che mi richiama al cuore e alla memoria una ambientazione molto simile a quella misteriosa notte in cui gli angeli svegliarono i pastori: «Gloria a Dio e pace in terra». Spontaneamente, in un groppo di commozione, mi assale il ricordo del nostro canto natalizio: «Tu scendi dalle stelle...», mentre pochi metri più in là spiccano minacciose, illuminate dal giallo violento dei riflettori (cruda realtà contemporanea!), le mura di demarcazione del territorio israeliano dalla zona palestinese in cui ci troviamo. Il posto di blocco militare posto sul varco, sta ancora controllando il transito di un pullman ritardatario… Ma poi la stanchezza questa volta ha finalmente la meglio e il sonno ristoratore gradualmente confonde realtà e fantasia… Betlemme: in ebraico “Casa del pane”, in arabo “Casa della carne”; è il significato di questo nome, con chiara allusione a Chi vi è nato! È la patria di Davide, e del “figlio di Davide”, Gesù. Davide ebbe molto a cuore il suo villaggio natio: qui visse da pastorello quando venne scelto da Samuele e unto re (1Sam 16,1ss); dell'acqua della sua fontana ebbe nostalgia anche da vecchio (2Sam 23,15). Di Betlemme parla anche il profeta Michea: «E tu Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore di Israele» (Mic 5,1ss). Gesù nasce qui verso l'anno 6 avanti l'era cristiana, in una grotta con mangiatoia. La zona rupestre sullo sperone est della cittadina è oggi sovraccarica delle recenti costruzioni: ma qualcosa di allora è ancora rimasto: un insieme di grotte naturali, adattate ad abitazione nel IV secolo da san Girolamo, che per la grande devozione alla Natività venne a viverci qui con alcuni amici, in forma monastica. Vi dimorò per 36 anni nella preghiera e nella traduzione della Bibbia dall'ebraico (sua è la “Vulgata”, rimasta testo ufficiale della Chiesa latina fino al Concilio Vaticano II); il suo rigore scientifico e critico ci dà estrema garanzia che la grotta da lui indicata sia proprio quella della Natività.
Il Campo dei pastori Dopo colazione ci inoltriamo tra conche e radure stupendamente coltivate a cereali: siamo nei “campi di Booz” dove è ambientato il bellissimo libro di Ruth, che tanto amò la suocera Noemi da venire, lei straniera, ad abitare presso la sua casa a Betlemme. Siamo esattamente a Beit Sahur, un quartiere di Betlemme, chiamato dai cristiani “Campo dei pastori”. Veramente s'è visto poco di greggi venendo qui a quest'ora mattutina; ma ci dicono essere una zona molto frequentata da pastori che si muovono a frotte con i loro greggi su queste colline; verso il tramonto si vedono ritornare ai loro ovili invisibili, costituiti da anfratti rocciosi e da grotte, sul tipo di questa che stiamo per visitare; qui (vedi foto) i Francescani perpetuano il ricordo di quei pastori, menzionati nel Vangelo: «In quella stessa regione c'erano anche alcuni pastori. Essi passavano la notte all'aperto per fare la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro, e la gloria del Signore li avvolse dì luce, così che essi ebbero una grande paura. L'angelo disse: Non temete! lo vi porto una bella notizia che procurerà una grande gioia a tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato il vostro Salvatore, il Cristo, il Signore. Lo riconoscerete così: troverete un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia - Subito apparvero e si unirono a lui molti altri angeli. Essi lodavano Dio con questo canto: Gloria a Dio in cielo e pace in terra agli uomini che egli ama. Poi gli angeli si allontanarono dai pastori e se ne tornarono in cielo. Intanto i pastori dicevano gli uni gli altri: Andiamo fino a Betlemme per vedere quel che è accaduto e che il Signore ci ha fatto sapere. Giunsero in fretta a Betlemme e lì trovarono Maria, Giuseppe e il bambino che dormiva nella mangiatoia. Dopo averlo visto, dissero in giro ciò che avevano sentito di questo bambino. Tutti quelli che ascoltarono i pastori si meravigliarono delle cose che essi raccontavano. Maria, da parte sua, custodiva gelosamente il ricordo di tutti questi fatti e li meditava dentro di sé. I pastori, sulla via del ritorno, lodavano Dio e lo ringraziavano per quel che avevano sentito e visto, perché tutto era avvenuto come l'angelo aveva loro detto» (Lc 2,8-20). L'ambiente è dei più sereni, tra olivi, sempreverdi, palme, e il dolce suono di una cornamusa che, come ci assicurano gli esperti, a volte il Francescano custode diffonde con disco per salutare i pellegrini. Qui, in questa angusta grotta, sostiamo anche noi per celebrare la Messa del nostro Natale (vedi foto). All'interno, su un pavimento di mosaico bizantino un po' primitivo, già dal IV secolo si venerava questo posto con un monastero, è eretto un altare di sasso: alle spalle, entro anfratti, un piccolo presepio dì legno d'ulivo, sullo sfondo della grotta un piccolo gregge, la greppia, gli attrezzi d'una stalla. I canti di gioia si susseguono: “Gloria a Dio nell'alto dei cieli…”! Sì, gloria a Dio, perché qui è apparsa la bontà e la benevolenza del nostro Dio a riscatto della nostra povera condizione di uomini. «Oggi vi è nato nella città di Davide un go'el, cioè un riscattatore». A quei poveri pastori, come ai poveri beduini di oggi, come a noi uomini occidentali all'apparenza tanto sapienti e ricchi ma interiormente non meno fragili e incerti quando ci interroghiamo sul senso del vivere e sul nostro destino, Dio si propone come l'uomo-Dio che dilata dalla terra al cielo il progetto di una umanità riuscita: dacché Dio s'è fatto uomo, l'uomo ha infatti saputo del suo traguardo divino. A Betlemme appare senza fronzoli il prototipo di uomo, la verità dell'uomo, ben oltre i suoi sogni e le sue aspirazioni: «Riconosci allora, o cristiano, la tua dignità», diceva san Leone Magno. Quel bambino, «nato da donna», è in realtà Dio che vuol ripercorrere tutta la vicenda dell'uomo, dalla nascita alla morte, per indicare e trascinare l'uomo oltre il suo tratto terreno in una avventura divina, gratuita e grande, che si configura nella condizione di figlio di Dio: «quel che Gesù è per natura, noi lo diveniamo per grazia, figli ed eredi di Dio! E se figli di uno stesso Padre, fratelli tra noi». Quindi… “…pace in terra agli uomini...”! È una delle Messe più intime e commoventi dell’intero pellegrinaggio: la grotta della Natività doveva essere molto simile a questa, tra le molte che punteggiano questo declivio est di Betlemme. Sopra la grotta i Francescani hanno costruito un santuarietto a forma di tenda da pastore (vedi foto), con una cupola a volo d'angeli che si innalzano verso il cielo stellato. Ecco, allora anche noi come i pastori, ci diciamo: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere!». Del resto siamo soltanto a tre km dal centro città, e vi giungiamo in un batter d’occhio.
La Basilica della Natività È ritenuta la chiesa più antica del mondo. L'edificio originale del IV secolo fu commissionato dall'imperatrice Elena, madre di Costantino, che, come dice lo storico Eusebio, su una delle “tre mistiche grotte” nel 326 fece costruire una grande basilica a cinque navate che l'imperatore Giustiniano abbellì nel 540. Questa struttura della chiesa corrisponde a quella odierna (vedi foto), se si escludono il tetto e il pavimento che sono stati rifatti molte volte. Fu l'unica basilica rispettata dai Persiani nel 614, forse perché vi trovarono dipinti i Re Magi; così pure ne ebbero rispetto i Musulmani, perché dedicata a Maria, "madre del profeta Gesù". I Crociati nel 1169 attuarono abbellimenti e decorazioni senza apportare cambiamenti nel tracciato della costruzione. Bellissima è la porta in legno che immette nell'interno, scolpita da un abile artista armeno nel 1227. Ai lati del coro, passando attraverso due porte in bronzo che risalgono all'epoca crociata, si scende nella Grotta della Natività, lunga all'incirca 12 metri e larga 3. Ed è qui, sotto l'altare della Natività, che una stella d'argento fissata su una lastra di marmo con la scritta in latino «Qui dalla Vergine Maria è nato Gesù Cristo», (vedi foto) indica il luogo esatto in cui è avvenuta la nascita di Gesù. La visita alla Grotta ci offre, come prevedibile, un momento di grande emozione: tutti, in silenzio, ci inginocchiamo a baciare la stella d'argento, mentre il ricordo di quanto è accaduto riemerge attraverso la pagina del vangelo: «In quel tempo l'imperatore Augusto con un decreto ordinò il censimento di tutti gli abitanti dell'impero romano. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a far scrivere il loro nome nei registri, e ciascuno nel proprio luogo d'origine. Anche Giuseppe parti da Nazareth, in Galilea, e salì a Betlemme, la città del re Davide, in Giudea. Andò là perché era discendente diretto del re Davide, e Maria sua sposa, che era incinta, andò con lui. Mentre si trovavano a Betlemme, giunse per Maria il tempo di partorire, ed essa diede alla luce un figlio, il suo primogenito. Lo avvolse in fasce e lo mise a dormire nella mangiatoia di una stalla, perché non avevano trovato altro posto» (Lc 2,1-7). La grotta per la verità è molto malandata per incendi, fumo e cedimenti, dovuti alle vicissitudini di millenni di storia. Ma anche oggi, nel silenzio, ciascuno vive qui il suo Natale: dalle ingenue capanne dei nostri presepi, a questa semplice grotta con, in un angolo, la mangiatoia; una misera grotta che però segna il passaggio (forse per molti soltanto ora in età adulta) da una favola dell'infanzia a una realtà storica ben più grande e più vera, che coinvolge seriamente la vita e la fede di ciascuno! Mentre qualcuno accenna sottovoce il canto natalizio: “Astro del ciel...”, io vado ripetendomi come preghiera le pagine di Isaia che hanno sognato questo momento e questo luogo: «Stillate, o cieli, dall'alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza... Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo Spirito del Signore... In quel giorno il germoglio del Signore crescerà in onore e gloria per gli scampati di Israele... La radice di Jesse si leverà a vessillo per i popoli, le genti la cercheranno con ansia. Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse... : un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre» (Is 45,8; 11,1 s; 4,2; 11,10; 9,1S). Usciamo attraversando il chiostro dei Francescani (nella foto), sul quale è stata realizzata recentemente una modernissima e accogliente "Casa Nova". È mezzogiorno: approfittiamo dell’ora per partecipare alla solenne processione guidata dai frati che ogni giorno alle 12 parte dall’attigua Chiesa di santa Caterina, si snoda lungo il chiostro, attraversa la Basilica e scende nella Grotta della Natività, dove sosta in preghiera alcuni minuti. Sapevo già che l'interno della Basilica della Natività è diviso tra Francescani, Armeni e Greco-ortodossi: ma non sapevo che l’osservanza di tali confini fosse così ferrea e intransigente, al punto che, mentre cantavo in coro le antifone mariane, fermo sotto l'architrave da cui scendono i gradini di accesso, poiché la grotta era strapiena di fedeli, (e quindi mi trovavo in territorio armeno) venivo zittito da uno dei custodi perché “disturbavo” la preghiera dei fedeli armeni. Ora capisco meglio quanto siano realistiche notizie come quella apparsa sul Corriere della sera del 27 dicembre scorso che diceva letteralmente: «Sono volate le mani, ma anche scope e pietre, fra preti greco-ortodossi e armeni intenti a fare le pulizie all’interno della Chiesa della Natività a Betlemme. La zuffa è scoppiata mentre i religiosi stavano tirando a lucido la chiesa per le prossime celebrazioni del Natale ortodosso e armeno, all’inizio di gennaio. Pomo della discordia, lo “sconfinamento” di alcuni ortodossi nella parte armena della basilica…». Che dire... una cosa veramente triste e per noi cattolici molto imbarazzante… Ci rifacciamo visitando le cappelle sotterranee dedicate una asan Girolamo (vedi foto), in cui il santo avrebbe materialmente vissuto per tradurre la Bibbia , una a san Giuseppe, altre ai Santi Innocenti, a sant’Eusebio di Cremona e alle sante matrone romane Paola ed Eustochio. All’uscita, la piazza assolata e luminosa, dominata dal grande minareto, rigurgita di gente che s'affretta a casa dal mercato. Si dice che Betlemme abbia le donne più belle della zona... ma non ho elementi per confermare tale affermazione. E non so neppure se qualcun altro più attento di me e con diottrie di 10/10 abbia avuto modo di verificarlo. Il pranzo in albergo spezza in ogni caso il dilemma e l’incantesimo magico di questo luogo santo.
Ain Karem Il tempo incalza. Abbiamo appena il tempo per una rapida sosta fisiologica: altri luoghi importanti ci aspettano. Racconta il Vangelo: «Maria in quei giorni si mise in viaggio e raggiunse in fretta un villaggio che si trovava nella parte montagnosa della Giudea». Per seguirla sui suoi passi usciamo anche noi e prendiamo la strada che si inerpica verso ovest: sullo sfondo si intravede la mole del famoso ospedale Hadassa, nella cui sinagoga Marc Chagall ha istoriato le vetrate; sulla destra la collina dedicata alla memoria dell'Olocausto ebraico in Germania; superato il fondovalle da un lato la Chiesa della Visitazione (vedi foto a lato) e dall'altro la "Chiesa di Giovannino" (vedi foto in basso). Il luogo è Ain Karem, la patria di Giovanni Battista. La strada prende a salire sul versante di una collina fino al santuario posto “in montana”, dove la tradizione già dal IV secolo fissa il luogo del “Magnificat”. È una vicenda a cui Luca dedica ampio spazio: «Al tempo di Erode, re della Giudea, c'era un sacerdote che si chiamava Zaccaria e apparteneva all'ordine sacerdotale di Abia. Anche sua moglie, Elisabetta, era di famiglia sacerdotale: discendeva infatti dalla famiglia di Aronne. Essi vivevano rettamente di fronte a Dio, e nessuno poteva dir niente contro di loro perché ubbidivano ai comandamenti e alle leggi del Signore. Erano senza figli perché Elisabetta non poteva averne, e tutti e due ormai erano troppo vecchi» (Lc 1,5-7). Anche qui si riprende il tema già trattato con Abramo e Sara: una sterilità resa feconda da un intervento divino: «Non temere, Zaccaria! Dio ha ascoltato la tua preghiera. Tua moglie ti darà un figlio e tu lo chiamerai Giovanni» (Lc 1,13). Uno stesso filo conduttore corre lungo tutta la Bibbia, da Sara, alla madre di Sansone, da Anna, mamma di Samuele, ad Elisabetta fino a Maria: Dio segna con un suo intervento speciale la nascita dei suoi uomini; ecco perché alla fine si capirà meglio anche il salto di qualità per quel che concerne la maternità verginale di Maria. Dunque: «Dopo un po' di tempo, sua moglie Elisabetta si accorse di aspettare un figlio, e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: Ecco che cosa ha fatto per me il Signore! Finalmente ha tolto la mia vergogna di fronte agli uomini» (Lc 1,24-25). Forse proprio vicino al pozzo che ancora rimane, qui sulla collina, lontana dal paese, Elisabetta si preparò al parto, e proprio qui incontrò Maria: «Dio ti ha benedetta più di tutte le altre donne, e benedetto è il bambino che avrai! Che grande cosa per me! Perché la madre del mio Signore viene a farmi visita? Appena ho sentito il tuo saluto, il bambino si è mosso in me per la gioia. Beata te che hai avuto fiducia nel Signore e hai creduto che egli può compiere ciò che ti ha annunciato» (Lc 1,42-45). Il santuario della Visitazione oggi è a due piani : sotto, la cripta bizantina (da notare la cisterna casalinga e la scaletta che portava al piano superiore della casa), sopra, tra i bastioni di una costruzione crociata, l'agile chiesa che celebra le glorie di Maria. Anche noi ci raccogliamo in preghiera e meditazione, prima di cantare con voce spiegata il “Magnificat”. Il Signore - dice Maria - ha guardato a me, gratuitamente, e attraverso me ha fatto grandi cose per tutti. Attraverso me Dio ha visitato il suo popolo, donando al nuovo Israele il Messia Salvatore. E questo nonostante io fossi l’ultima delle tue serve. Dio fa sempre così con quelli che si affidano a lui: fa meraviglie, abbassa i superbi e innalza gli umili; basta vedere quel che ha cominciato a fare a Israele suo popolo! Da questa zona montana, si sono sprigionate le prime note di uno degli inni più belli e conosciuti del cristianesimo, e da questo umile dimora si sono propagate in tutto il mondo: "Magnificat anima mea Dominum, et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo...". Il panorama che possiamo ammirare seduti sul muretto che delimita il piazzale, è tra i più incantevoli della regione (vedi foto in alto). Tira una brezza leggera di mezza collina, tra una ricca vegetazione di fiori, fichi e ulivi. Il mosaico della facciata riflette al sole i suoi ori, mentre le maioliche sulla parete di fronte cantano in molteplici lingue la lode di Maria. Il campanile agile e svettante, ricostruito nel 1939 da A. Barluzzi, ci riporta l’immagine delle nostre chiesette di montagna. Qui pensiamo bene di fare la nostra prima foto di gruppo (vedi qui sopra). Ripreso quindi fiato e pareggiato il debito d’ossigeno contratto nella salita con cuore e polmoni, riprendiamo la via della discesa, forse più impegnativa della salita per il pericolo costante di scivolate e relativi ruzzoloni. Scesi poi a valle, ci inerpichiamo nuovamente, questa volta in modo molto più dolce, sulla viuzza che si erge di fronte per raggiungere la Chiesa di San Giovanni Battista (vedi foto a lato) dove, nella grotta sottostante, la tradizione pone la nascita del precursore (ecco perché è chiamata simpaticamente anche "Chiesa di san Giovannino"). E qui cantiamo il “Benedictus”, altro inno meraviglioso che si libra nell’aria come il suono di uno stormo di campane. Il ritorno leggermente anticipato in hotel, ci consente qualche minuto di riposo prima della cena: dopo la quale facciamo visita al negozio “The Bedouin Store” dell’arabo Majdi Ata Amro, rinominato da questa sera più comunemente con “Vittorio”, con il quale si instaurerà un simpatico rapporto di stima reciproca; la visita al suo negozio diventerà una costante fissa: più che di shopping e opportunità di spesa, il nostro diventerà infatti, sera dopo sera, l’occasione per qualche minuto di relax collettivo bevendo dell’ottimo the bollente (preparato all’istante e servito gratuitamente), tra uno scambio di battute, ilarità e fraterna amicizia.
QUARTA PUNTATA Gerusalemme città di Dio
La meta tanto agognata è finalmente giunta: ora i ricordi vanno rivissuti con calma, momento per momento. Se mi fermo e chiudo gli occhi, improvvisa, nitida, prorompente mi si affaccia la visione di questa splendida città, con tutto il suo fascino, distesa maestosamente come una regina sul suo trono.
«Rallegrati, Gerusalemme, accogli i tuoi figli fra le tue mura. Esultai quando mi dissero: Andiamo alla casa del Signore. E ora stanno i nostri piedi alle tue porte, Gerusalemme! A lodare il nome del Signore, là sono salite le tribù, le tribù del Signore. Chiedete pace per Gerusalemme, sia sicuro chi ti ama, sia pace nelle tue mura. Rallegrati, Gerusalemme, accogli i tuoi figli fra le tue mura»(Sal 121). Dall'alto della collina si può ammirare la santa città, cinta da alte mura, che si stringe a nord attorno alla spianata del tempio, su cui domina la cupola d'oro della moschea di Omar, e a ovest, intorno alla grande rotonda del Santo Sepolcro, cuore cristiano della vecchia città.
A sinistra la difende il monte degli Ulivi, a sud il monte detto del “cattivo consiglio”, a ovest il colle occidentale è scavalcato da tutto il dilagare della città nuova che si adagia da ogni parte su ampie colline; ai piedi del monte Scopus, la spaccatura del torrente Cedron con il Getsemani. La pietra bianca con cui ogni casa è rivestita sembra coprire d'un velo luminoso tutta la città che si apre linda e spirituale a riflettere un azzurro primaverile. «Come è dolce la tua casa, o Signore delle schiere! L'anima mia desidera e si strugge per gli atri del Signore. Anche l'uccello trova una casa, la rondine un suo nido, dove deponga i suoi piccoli, presso i tuoi altari» (Sal 83). Gerusalemme è Scrittura, è Parola, è vita: impossibile descriverla, impossibile restituire le emozioni che essa trasmette, impossibile svelarla intimamente. Va soltanto vista, studiata, visitata, amata, rispettata. Ognuno deve entrare personalmente in sintonia con lei: non accetta intermediari, interposte persone. È diretta, unica. Per questo il compito di riportare i momenti di grande interiorità, di grandi emozioni, vissuti tra le sue braccia, è impresa molto ardua; mi rendo conto che il mio è un tentativo audace: per questo mi si perdoni l’inadeguatezza…
Cenni di storia È nell’anno mille a.C. che Davide riesce con uno stratagemma a conquistare questa roccaforte dei Gebusei e farne la “sua città”. Per la tradizione sacerdotale era la città di Melchisedech (Gn 14,18). Ne fa subito il centro politico e religioso portandovi l’Arca dell’Alleanza, per la quale suo figlio Salomone costruirà il primo tempio. È con costui che Gerusalemme raggiungerà il suo massimo splendore (970-930). Per tre secoli, ridotta a capitale delle sole tribù di Beniamino e Giuda, Gerusalemme è oggetto di attacchi da parte di Filistei, Egiziani e Assiri. Nel 701 rimane miracolosamente illesa da Sennacherib, mentre la sua disfatta definitiva avviene per mano dei Babilonesi: nel 586 Nabucodonosor la cinge d’assedio, distrugge il tempio, deporta tutti gli abitanti. È la schiavitù di Babilonia. Ma Dio suscita Ciro, persiano, che conquistata Babilonia (538 a.C.), lascia liberi i deportati di ritornare a Gerusalemme e ricostruire il tempio con Zorobabel, e nel 445 le mura, con Neemia. È il periodo della dominazione persiana, in cui poté svilupparsi più una autonomia religiosa che politica: è la nascita del Giudaismo. Nel 331 Gerusalemme è occupata da Alessandro Magno, e quindi messa sotto la dominazione dapprima dei Tolomei e poi dei Seleucidi: è il periodo ellenista, con forte pressione culturale pianificatrice di ogni realtà locale. Nel 168 Antioco IV Epifane saccheggia e profana il tempio, sovrapponendovi una divinità pagana. È la scintilla che fa scoppiare la reazione partigiana dei Maccabei, che per circa 100 anni riescono a salvare l’indipendenza. Rivalità interne alla dinastia degli Asmonei, discesa da loro, provocano l’arrivo dei Romani, con Pompeo nel 63 a.C. Siamo alle porte del Nuovo Testamento: la cultura ellenista ha ormai unificato tutto il bacino del Mediterraneo con l’uso di una sola lingua ufficiale, commerciale e diplomatica, la koiné. I Romani nel 37 a.C. mettono sul trono Erode il Grande, che muore nel 4 a.C. Gerusalemme è abbellita da costruzioni nuove, e soprattutto dal nuovo grandioso tempio, che sarà quello frequentato da Gesù. Dopo Erode, e un breve periodo del figlio Archelao, Gerusalemme passa sotto il governo diretto della occupazione militare romana con un procuratore. Ponzio Pilato tiene il decennio 26-36 d.C. Ma gli Ebrei non stanno sotto il giogo: continue sollevazioni e attentati provocano la prima reazione di Roma. Nel 70 Vespasiano e Tito distruggono la città e il tempio, proseguendo poi a conquistare le ultime sacche di resistenza fino a Masada. I cristiani della città fuggono a Pella, in Giordania; ritornati, riprendono la loro dimora presso i luoghi sacri, Cenacolo, Calvario e Santo Sepolcro. Sono i giudeo-cristiani, chiamati Nazareni. Nel 135 una seconda rivolta guidata da Bar Kokebà convince l’imperatore Adriano a risolvere definitivamente il problema ebraico: distrugge la città di Gerusalemme, le cambia faccia e nome, e le dà una configurazione tutta romana col nome di Aelia Capitolina. I Giudei sono tutti espulsi dalla città; mentre i cristiani, già provenienti dal paganesimo, vengono in parte risparmiati. Ma Calvario e Sepolcro sono cancellati sotto i terrapieni costruiti per il mercato; anzi, proprio al di sopra, vengono collocati due tempietti in onore di Venere e Giove. La vita cristiana di quei secoli si sviluppa quindi lontano da Gerusalemme, a Cesarea Marittima, dove nel 253 Origene fonda una importante scuola teologica. È sotto Costantino che la vita cristiana rinasce nell’impero, con l’Editto di Milano del 313. Nel 325 si convoca il Concilio di Nicea. Il vescovo di Aelia Capitolina, Macario, parla con Elena, la madre dell’imperatore, e riesce ad instillarle un grande amore per la Terra Santa. Elena viene a Gerusalemme e vi costruisce le grandi basiliche del Santo Sepolcro (inaugurato il 13 settembre 335), della Natività a Betlemme e del Monte degli Ulivi. Si apre così il periodo detto “bizantino”, per il suo riferimento a Bisanzio-Costantinopoli, nuova capitale dell’impero. È tempo di monasteri, basiliche, mosaici, anacoretismo entro il deserto di Giuda, di primi pellegrini (Egeria nel 380), e di uomini che si innamorano di questa terra (san Girolamo vi soggiorna per 36 anni). Nel V secolo pare che a Gerusalemme vi siano oltre 200 monasteri. Con Teodosio (379-395) il cristianesimo diviene religione di Stato, e quindi iniziano intolleranze e persecuzioni verso Ebrei ed eretici. Con Giustiniano (527-565) la Palestina rifiorisce in costruzioni e rifacimenti (Santa Caterina al Sinai). Nel 614 Cosroe II, con orde persiane, dilaga in questo paese con odio anticristiano, distruggendo basiliche, facendo martiri, profanando reliquie; risparmia solo la basilica di Betlemme. Quindi l’imperatore Eraclio riporta la pace e la ricostruzione. Ma per poco: nel 638 Gerusalemme è conquistata dagli Arabi musulmani. Il movimento religioso-politico di Maometto inizia nel 622 con la sua fuga dalla Mecca a Medina. Nel 630 è già capo indiscusso di uno stato teocratico che unisce le varie tribù dell’Arabia - politeiste e pagane - elevando il tono religioso col trasmettere loro un monoteismo rigido e messianico. Si sente interprete della vera religione di Abramo e di Gesù, come ultimo profeta di Allah tra gli uomini. Dapprima tolleranti, i musulmani si instaurano sulla spianata del tempio e vi costruiscono le loro moschee, facendo di Gerusalemme la terza città santa dell’Islam. Ancora oggi gli Arabi chiamano Gerusalemme “el-Quts”, la Santa. Sotto il controllo di diverse dinastie islamiche la presenza cristiana in Gerusalemme diviene sempre più difficile: saccheggi, incendi, persecuzioni. Nel 1009 il califfo “pazzo” al-Hakim fa distruggere ogni tempio cristiano: il 15 agosto di quell’anno il Santo Sepolcro viene distrutto a colpi di piccone. La reazione in Occidente a questo punto si fa sentire: si muovono le Crociate. Motivi di fede - con la predicazione di Pietro l’Eremita e san Bernardo, e la benedizione dei Papi - uniti a spirito d’avventura e interessi commerciali, muovono ben otto spedizioni verso l’Oriente per conquistare Gerusalemme. Iniziano nel 1099 con la conquista della Città Santa e la creazione del Regno Latino con a capo Goffredo di Buglione. La città rivive gli splendori di una capitale, con chiese, palazzi e ordini cavallereschi, coi loro ospizi per i pellegrini. L’anno 1187, durante la terza Crociata, Saladino sconfigge i Crociati ai Corni di Hattin, costringendo Riccardo Cuor di Leone a chiudersi in Akko. Le altre Crociate non sono che infruttuosi tentativi di riprendere Gerusalemme. In questo clima si ricorda la visita di san Francesco d’Assisi (1219) al Sultano per “convertirlo”; e la partecipazione di san Luigi IX re di Francia alle ultime due Crociate, dove alla fine trova la morte per peste. Dal 1291 si apre l’epoca dei Mamelucchi, principi egiziani, che abbelliscono Gerusalemme di mura e moschee, abbastanza tolleranti con cristiani ed Ebrei, tanto che questi - con l’inizio dell’Inquisizione - ritornano in molti nella loro terra, facendo di Safed il loro centro religioso. Nel 1516 arrivano i Turchi Ottomani. Sotto Solimano il Magnifico Gerusalemme ottiene le mura attuali e la porta di Damasco (1542) e un periodo di prosperità. Ma alla sua morte iniziano decadenza e abbandono, corruzione e spopolamento che caratterizzeranno secoli di miseria della Palestina fino alla prima guerra mondiale. Verso la fine del secolo scorso, 1897, inizia il movimento Sionista di Teodoro Herzl, con lo scopo di favorire il ritorno degli Ebrei alla patria dei loro padri. I primi a ritornare sono Ebrei di Russia e Polonia, pionieri che costruiscono i primi kibbutzim (Tel Aviv nel 1909 e Degania l'anno successivo). Nel 1917 i Turchi vengono sconfitti dagli Inglesi, i quali ottengono sulla Palestina un Mandato protettivo. Favoriscono finalmente, con la dichiarazione di Balfour, il ritorno degli Ebrei a un loro focolare nazionale. Ma intanto nascono le persecuzioni naziste in Europa, e quindi le fughe clandestine verso Israele. La presenza sempre più massiccia e organizzata anche militarmente nei kibbutzim incomincia a preoccupare gli Arabi, e nascono le prime scaramucce. Il 14 maggio 1948, allo scadere del Mandato britannico, vi è la proclamazione dello Stato d’Israele, e la prima guerra arabo-israeliana. Molti Ebrei che abitano nelle regioni arabe devono necessariamente rifugiarsi in Israele. In questi 60 anni altre guerre: nel 1956 la campagna del Sinai; nel 1967 la guerra dei sei giorni e la conquista di Gerusalemme unificata; nel 1973 quella del Kippur. Recentemente le difficoltà coi Palestinesi del Libano. Il resto è storia dei nostri giorni.
Gerusalemme e la Bibbia Scrive Rabano Mauro, autore medievale: “Gerusalemme secondo la storia designa la nazione dei giudei; secondo l’allegoria è la santa Chiesa; secondo l’analogia è la patria celeste”. Radicato nella sua storia, il mistero di Gerusalemme si proietta nel futuro come profezia. Nella prospettiva messianica Gerusalemme diviene il centro di unità spirituale di tutta l’umanità rinnovata (Ez 40-46): «Cammineranno i popoli alla tua luce. Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. Uno stuolo di cammelli ti invaderà dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando la gloria del Signore. Le tue porte resteranno sempre aperte, non saranno chiuse né di notte né di giorno per far entrare, uno dopo l’altro, i re delle nazioni con i loro tesori. Ormai non avrai più bisogno della luce del sole durante il giorno, né di quella della luna durante la notte. Infatti, io, il Signore, tuo Dio, ti illuminerò per sempre con il mio splendore» (Is 60,1-22). Il nuovo popolo della “nuova ed eterna Alleanza” finalmente si raccoglie attorno alla nuova “dimora” di Dio tra gli uomini, in quel «Verbo che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14), che proprio in Gerusalemme, col dono del suo Spirito, fa convocazione (cioè ekklesía) di tutti i popoli «nella Gerusalemme di lassù che è libera ed è nostra madre» (Gal 4,26), ossia la Chiesa, autentica erede delle promesse e delle benedizioni, nuovo Israele. «Voi vi siete accostati al monte Sion e alla santa città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste» (Eb 12,22). È in questa comunità che Gesù promette presenza definitiva: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20); e anche: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni». È questa Gerusalemme-Chiesa la città di cui tutti gli uomini si sentono cittadini: «Di conseguenza, ora voi non siete stranieri, né ospiti. Ma voi, insieme con gli altri, appartenete al popolo e alla famiglia di Dio. Siete parte di quell’edificio che ha come fondamento gli apostoli e i profeti, e come pietra principale lo stesso Gesù Cristo» (Ef 2,19-20). Ma è una nuova Gerusalemme che è appena agli inizi del suo destino: «Come stranieri e pellegrini sopra la terra aspettiamo la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Eb 11,10). È come una fidanzata che aspetta di diventare “donna” con l’incontro definitivo col suo sposo: «Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello. L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli di Israele. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. Non vidi alcun tempio in essa, perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza.. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni”. In mezzo alla piazza della città si trova un albero di vita...» (Ap 21,9-26) È la trasfigurazione di questa grande città nella nuova città del cielo, definitiva, perenne, piena della ricchezza di Dio, della sua presenza, dell’albero della vita... Questi due capitoli (21 e 22) dell’Apocalisse sono stati in qualche modo il filtro col quale leggere quanto ho visto in questa città.
Scusate queste divagazioni piuttosto tecniche, ma era il mio tributo, assolutamente da pagare alla Città Santa, perché anche quanti non sufficientemente informati sulle sue peripezie, potessero seguirmi, con pari coinvolgimento, nella paziente lettura di queste note. Perché, vedete, qui a Gerusalemme tutto è segno, tutto è richiamo. Più precisamente, qui tutto è memoriale: cioè ricordo del passato e tipo, anticipo, presagio, per il futuro. Ogni cosa diviene sacramento, segno del nostro incontro con Dio, oggi “nella speranza e nel mistero”, domani nella pienezza della luce e del possesso! Le due giornate di mercoledì e di giovedì sono tutte dedicate a seguire i momenti estremi della vita di Gesù proprio qui a Gerusalemme, negli stessi luoghi: alla Piscina Probatica, al Calvario e al Santo Sepolcro, percorrendo la “Via dolorosa”, fermandoci al “Gallicantu”, al Cenacolo, alla Chiesa della Dormizione, al Monte dell’Ascensione, alle Chiese del “Pater Noster”, del “Dominus flevit”, dell’Agonia al Getsemani. Personalmente devo confessarvi di aver avuto un supplemento di fortuna nella stessa giornata di martedì. Come? È presto detto. Rientrando da Ein Karem, il pullman ha lasciato me e Padre Giuseppe su un vialone di accesso alla città di Gerusalemme: un autobus di linea ci stava aspettando ad una fermata, preavvertito telefonicamente in ciò dal nostro autista del pullman, per condurci in prossimità della Porta di Giaffa, luogo dell’incontro improvvisato con un mio ex Professore di Sacra Scrittura, residente in Terra Santa. Espletati velocemente i convenevoli, ci siamo diretti al Santo Sepolcro, dove ho potuto godermi, ripeto “godermi”, in tutta tranquillità, la visita del Santo Sepolcro, sostare a lungo sia sul Golgota che nella grotta del sepolcro, senza pressioni, senza solleciti, con pochissime persone attorno, stante l’ora tarda e l’imminente chiusura della Basilica. Una emozione che non so qui tradurvi, (o non voglio?) perché forse la svilirei, quand'anche mi servissi delle espressioni più eccelse e ricercate.... Capitemi! Poi, giacché eravamo sul posto, abbiamo approfittato per assistere anche alla pittoresca cerimonia di “chiusura” del portone (vedi foto): alla presenza dei vari rappresentanti delle proprietà (armeni, greco-ortodossi, cattolici) l’operaio incaricato, dopo averlo sbarrato dall’esterno con chiavistelli e lucchetti vari, provvedeva a riconsegnare all’interno la scaletta utilizzata, introducendola attraverso l'esigua finestrella visibile in basso sulla destra. I tesori della cristianità venivano così preclusi a tutti e restituiti al silenzio tombale della notte. Ma al di là di questi particolari folcloristici, quello ovviamente che mi rimarrà scolpito per sempre nella memoria e nel cuore è l’emozione, decisamente intraducibile lo ripeto, provata al contatto fisico con quelle sante reliquie. Più tardi, il viaggio di ritorno a Betlemme a bordo di un taxi, anche se rocambolesco (il conducente ha voluto evitare il check point) e per certi aspetti anche temerario (eravamo solo noi due, io e Giuseppe, nel buio della notte incipiente), non è riuscito minimamente a turbare il mio stato di torpore spirituale in cui ero caduto a seguito di questo mio primo contatto diretto e solitario con i luoghi della sofferenza di Gesù.
Alla Piscina probatica Siamo dunque al sesto giorno. Di buon mattino ci incamminiamo verso la “Via dolorosa”: strada facendo ci fermiamo brevemente a visitare la Piscina Probatica (detta anche Betzaetà, Bethesda o Bethsaida), e la contigua Chiesa di S. Anna, costruita sul luogo dove la tradizione colloca la casa di Gioacchino ed Anna, i genitori della Madonna. Il Vangelo di Giovanni ricorda la guarigione di un uomo malato da 38 anni: «V’è a Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, una piscina, chiamata in ebraico Betzaetà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Un angelo infatti in certi momenti discendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo ad entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua guariva da qualsiasi malattia fosse affetto. Si trovava là un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù vedendolo disteso e, sapendo che da molto tempo stava così, gli disse: Vuoi guarire?. Gli rispose il malato: Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me. Gesù gli disse: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina. E sull’istante quell’uomo guarì e, preso il suo lettuccio, cominciò a camminare» (Gv 5,2-9). Successe proprio qui, alla Piscina Probatica (vedi foto), alle cui acque una credenza giudaica attribuiva poteri terapeutici. Originariamente era a cinque portici. Gli scavi hanno messo in luce l'antica piscina, fatta a due vasche trapezoidali divisa da un muro (e quindi portico); Adriano la trasformò in bagni pubblici con tempio al dio Esculapio; i bizantini, a ricordo dell'episodio evangelico, vi fecero una basilica a tre navate; i Crociati ne fecero una anche loro più modesta; in compenso ne costruirono un'altra a fianco, dedicata appunto a sant'Anna perché una antica tradizione indicava qui in alcune grotte la casa di san Gioacchino. È il luogo che venera la nascita dì Maria. La chiesa è l'unica conservata ancora oggi dal periodo medievale: ispira semplicità di linee e austera spiritualità, con una buona acustica, tanto che spesso si incontrano qui gruppi polifonici.
La “Via dolorosa” «Ti adoriamo, Cristo, e ti benediciamo, perché con la tua santa Croce hai redento il mondo». Signore, sono qui oggi a ripercorrere la tua stessa Via Crucis (vedi foto), concreta e reale, sui luoghi che ti hanno visto soffrire, i luoghi più sacri della mia fede. Sono venuto a Gerusalemme proprio per questo, per salire con te al Calvario e toccare con mano il sepolcro vuoto della tua risurrezione. “Santa Madre, deh voi fate che le piaghe del Signore siano impresse nel mio cuore!”. È con spirito di preghiera che affronto questo itinerario; ovviamente ciò mi suggerisce anche il massimo di impegno culturale, storico e archeologico, per non rimanere deluso da quel che incontrerò; anch’io infatti, come tanti, mi ero fatto - da lontano – una mia immagine oleografica di questi luoghi tanto cari alla mia vita di cristiano, effettivamente molto diversa da come erano in realtà al tempo di Gesù, e da come oggi si ritrovano. Già dal IV secolo la notte tra il giovedì e il venerdì santo la comunità cristiana di Gerusalemme percorreva pressappoco la “via dolorosa” ancora oggi tracciata tra le bancarelle del suk arabo che sale al Calvario. È una tradizione millenaria che va rispettata e conosciuta. Sull’angolo nord-ovest della spianata del tempio era stata costruita da Erode la fortezza “Antonia”, come postazione militare di controllo soprattutto nei giorni di maggior afflusso di pellegrini al tempio durante le feste pasquali. Durante quella Pasqua di Gesù, sabato 8 aprile dell’anno 30, a Gerusalemme governava Ponzio Pilato, procuratore di Roma. Di solito abitava a Cesarea, ma in occasioni speciali era a Gerusalemme, qui alla fortezza Antonia, o nel palazzo di Erode presso la Cittadella, oppure nell'aula ufficiale, vicina al Sinedrio, dove teneva i processi: esattamente quel “Lithóstrotos” citato da Giovanni (“sedette su una tribuna nel luogo detto Lithóstrotos, in ebraico Gabbata”, Gv 19,13). Ma come fu frettoloso e sommario il processo religioso (incombeva il giorno festivo del sabato), così fu altrettanto sbrigativo e superficiale anche quello civile, con una condanna frutto più di pressioni della folla che di una seduta processuale formale. Il fatto poi che durante lo stesso processo Gesù sia stato flagellato, fa pensare più a una guarnigione militare che non a un’aula giudiziaria o a un palazzo residenziale. Quindi è dalla “Torre Antonia” che sembra sia iniziata la via dolorosa di Gesù. Di quella costruzione (distrutta nel 69 da Tito) è rimasta solo una grossa cisterna e un pezzo di cortile lastricato in larghe pietre di granito rosso (vedi foto). Queste pietre, rimosse da Adriano per fare una piazza più grande e coprire la cisterna quando ristrutturò la città nel 135, provengono presumibilmente proprio dalla caserma “Antonia”, cioè dal cortile interno di quella fortezza militare, e quindi pietre calpestate anche da Gesù. Quello poi che oggi viene detto “Ecce homo”, altro non è che un arco di epoca romana (presunto reperto del luogo da cui Pilato avrebbe mostrato alla folla un Gesù martoriato e insanguinato), per la cui costruzione sarebbero stati utilizzati anche qui i materiali dell’antico insediamento della Torre Antonia. Di fronte all'Ecce homo vi è oggi la cappella del Convento “della Flagellazione” (vedi foto sotto), sede dello Studium Biblicum Franciscanum, l’università di studi biblici e archeologia dei Francescani della Custodia di Terra Santa, il cui rettore è il caro amico Padre Claudio Bottini, che non ho potuto salutare, stante la sua assenza da Gerusalemme. Hanno qui un bel museo dove sono raccolti i risultati delle ricerche e degli scavi di questi ultimi 50 anni. Ed è merito di questa loro ricerca se oggi possiamo documentarci un poco di più su quello che verosimilmente c’era all’epoca di Gesù. Da qui noi iniziamo la nostra Via Crucis: “Santa Madre, deh voi fate che le piaghe del Signore siano impresse nel mio cuore!”. All’epoca di Gesù, uscendo dunque dalla Torre Antonia, il percorso dei condannati costeggiava pressappoco le antiche mura nord, dette dagli storici il “secondo muro”. Verso ovest dapprima scendeva leggermente entro l’avvallamento del Tiropeion e del Cedron, per salire poi verso la collina occidentale, all’incirca verso l’attuale porta di Giaffa. Il vangelo parla di una porta frequentata; fuori di questa, verso nord-ovest si usciva in una zona semi abbandonata: il Golgota, che era stato già all’epoca dei Re una cava di pietre per costruzioni, ormai esaurita; vi era rimasto soltanto un piccolo rialzo roccioso, a forma di arco, circondato da un prato: era il luogo scelto per le esecuzioni, perché fuori dalla città (il terzo muro fu costruito solo nel 44 d.C.), ma al tempo stesso vicino perché fosse un monito per tutti. Sul sasso più alto vi erano piantati perennemente alcuni pali verticali, ai quali di volta in volta veniva direttamente fissato, con corde e chiodi, il legno orizzontale che gli stessi condannati portavano sulle spalle durante il tragitto del loro martirio. Tutta la folla lungo la strada era indifferente o ostile: anche Gesù portava al collo la motivazione della condanna; la sua diceva: il re dei Giudei! «Quando finirono di insultarlo, gli tolsero la veste rossa e lo rivestirono dei suoi abiti. Poi lo portarono via per crocifiggerlo. Mentre uscivano incontrarono un certo Simone, originario di Cirene, e lo obbligarono a portare la croce di Gesù» (Mt 27,31-32). C’era anche chi aveva compassione di lui: «Erano in molti a seguire Gesù: una gran folla di popolo e un gruppo di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Gesù si voltò verso di loro e disse: “Donne di Gerusalemme, non piangete per me. Piangete piuttosto per voi e per i vostri figli. Perché se si tratta così il legno verde, che ne sarà di quello secco?. Insieme con Gesù venivano condotti a morte anche due malfattori» (Lc 23,27-32). Anche oggi nel ripercorrere questo sacro itinerario si incontra una totale indifferenza, se non addirittura qualche accenno di insofferenza e di ostilità. Si attraversa infatti il vivacissimo mercato arabo, pieno di merci, odori, clamori, folla che va e viene e bada ai propri affari, non sempre ben disposta al passaggio di continui gruppi oranti che in qualche modo intralciano il loro commercio. Noi cristiani, che veniamo da lontano per vivere in questi luoghi momenti intensissimi, proviamo dolore e scandalo per questo comportamento così irriverente nei confronti della nostra fede. Nonostante ciò, lungo tutto il percorso, anni e anni di devozione hanno costruito alcune edicole e cappelle per contrassegnare le tradizionali stazioni della Via Crucis.
Il Calvario Sbuchiamo sulla piazzetta della Basilica del Santo Sepolcro: numerosi gruppi di pellegrini convergono qui da tutto il mondo: una confluenza di idiomi, di fogge, di razze, di religioni. Il parlottio che ci ha afflitti lungo tutto il percorso della Via Crucis, lo ritroviamo identico anche in questa pittoresca “sala d’attesa”. Per compattare i vari ritardatari, accettiamo da un sedicente “fotografo del Papa” di posare per la foto ricordo, assiepati sulla scalinata posta a lato dell’ingresso. Ho capito che è lo scotto che tutti devono qui pagare. In ogni caso, prima di entrare nella basilica del S. Sepolcro, nella quale è custodito anche quel che rimane del Calvario, è opportuno anche qui acquisire una buona informazione storica di quello che è capitato lungo i secoli. E quindi la paziente Enza riesce a zittirci e a trasmetterci le notizie più importanti: il suo, come sempre, è un intervento completo, sicuro e abbondante: un mare di nozioni che mi accingo ora, “a posteriori”, di condensare. Partiamo dal tempo di Gesù. Quel che oggi rimane del Golgota è una roccia alta una decina di metri (dei quali 6 metri sporgono dal pavimento), larga circa 7, a forma di “s” o di arco. Ma c’è da tener presente che lungo i secoli molto le è stato sottratto in reliquie devozionali: a Gerusalemme stessa esiste infatti la documentazione di pezzi di Calvario, muniti di originali sigilli di autenticazione di epoca bizantina, con la scritta: “Pietra del Santo Golgota”. È facilmente intuibile quindi cosa possa essere successo più tardi nel Medioevo! Questa roccia, come ci dice il Vangelo, assomigliava a un “cranio”; e i primissimi cristiani di origine giudeo-cristiana furono subito molto affezionati e devoti ad esso: risale infatti a loro l'antica tradizione di collocare in questo luogo anche la tomba di Adamo, dando una indicazione teologica molto preziosa per esprimere l’universalità della redenzione di Cristo. Nel 135 Adriano ricoprì completamente questi luoghi santi, Calvario e Sepolcro, e costruì sopra di essi il foro di Aelia Capitolina; e per cancellare ogni ricordo o richiamo cristiano vi realizzò un tempio dedicato alla dea Fortuna. Questo fatto fu comunque provvidenziale in quanto il luogo non subì ulteriori manipolazioni. Costantino più tardi provvide a ripulire tutto il sito realizzando grandi lavori di sistemazione: la roccia del Calvario viene messa a nudo, raccolta entro un quadriportico che ricopre anche il prato antistante; sopra il Sepolcro, ritagliato nella zona di tombe poste alle sue spalle, erige un mausoleo rotondo; sul davanti, verso est, una basilica a cinque navate chiamata “Martyrion”. Sul Calvario poi, Teodosio II nel 428 pone una croce d’oro, circondandolo con una cancellata protettiva e una cupoletta. Successivamente, per salvarlo da ulteriori rovine, fu imprigionato da pareti, coperto da robusti archi, fino ad essere definitivamente inglobato dai crociati all'interno della basilica, nel punto e nel modo ancor oggi visibile (o... invisibile!). Lo si intravede appena infatti attraverso una vetrina nella parte nord; in una finestrella a ovest all'interno della cappella di Adamo; e sopra, nel punto più alto, in una vasta finestra, dove si può anche toccare per devozione. Oggi entrando nella basilica, subito a destra si sale una ripida scala, per raggiungere il piano a livello della cima del Golgota: vi sono due cappelle (vedi foto), quella di destra dei latini che ricorda la crocifissione di Gesù, con un ricco altare in bronzo argentato, dono del granduca di Toscana Ferdinando dei Medici; l’altra, quella di sinistra, dei Greci ortodossi, con l’altare che poggia su quella stessa roccia (che si può vedere e toccare in una lunetta sotto l’altare) su cui venne innalzata la croce di Gesù. È il luogo della sua morte. A fianco dell’altare la roccia mostra, ben visibile attraverso un vetro protettivo, la fenditura che si produsse al momento della morte di Gesù. Tra le due cappelle, il piccolo altare latino della Vergine dei Dolori, che ricorda la deposizione del corpo di Gesù dalla croce nelle braccia della Madre. Lentamente arriviamo anche noi, per sostare in meditazione e preghiera, riandando con la memoria alle pagine evangeliche: «Allora le guardie presero Gesù e lo fecero andare fuori della città costringendolo a portare la croce sulle spalle; giunsero al posto chiamato “Cranio”, che in ebraico si dice “Golgota”, e lo inchiodarono alla croce. Con lui crocifissero altri due, uno da una parte e uno dall’altra. Gesù era in mezzo. Pilato scrisse il cartello e lo fece mettere sulla croce. C’era scritto: Gesù di Nazareth, il re dei Giudei. Molti lessero il cartello, perché il posto dove avevano crocifisso Gesù era vicino a Gerusalemme; e il cartello era scritto in tre lingue: in ebraico, in latino e in greco. I soldati che avevano crocifisso Gesù presero i suoi vestiti e ne fecero quattro parti, una per ciascuno. Poi presero la tunica, che era tessuta d’un pezzo solo da cima a fondo e dissero: Non dividiamola! Tiriamo a sorte a chi tocca!» (Gv 19,17-24). «Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la regione, fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre Gesù gridò molto forte: Eli, Elì, lemà sabactàni, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?. Alcuni presenti udirono e dissero: Chiama il profeta Elia» (Mt 27,45-47). «A questo punto Gesù, sapendo che tutto era compiuto, disse: Ho sete. C’era lì un’anfora piena di aceto: bagnarono una spugna, la misero in cima a un ramo d’issopo e l’accostarono alla sua bocca. Gesù prese l’aceto e poi disse: E’ compiuto» (Gv 19,28-30). «Poi gridò a gran voce: Padre, nelle tue mani affido la mia vita. Dopo queste parole, morì» (Lc 23,46). Ecco, è questo il mistero: solo un Dio non inventato da noi, ma quello vero, poteva escogitare di rivelarsi a noi non come potenza, ma come dono totale di sé, «perché Dio è amore» (1Gv 4,8), e «non c’è amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici» (Gv 15,13). Più che riflettere, qui c’è da contemplare, ammirare, aderire, pregare. “Ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo, perché morendo sulla croce hai redento il mondo”. “Stabat mater dolorosa... O Madre, sorgente di amore, fa’ che unisca il mio pianto al tuo: mio vivo desiderio è restare con te presso la croce, condividendo il tuo martirio, o Maria”. I Greco-ortodossi hanno tanta devozione per questo momento della deposizione dalla croce: venerano qui, davanti l’ingresso della basilica, la “pietra dell’unzione”, dove sarebbe stato posto il corpo di Gesù per essere "unto" prima della sepoltura. Una folla di pellegrini si prostra letteralmente bocconi su questa lastra di marmo. Noi pensiamo più volentieri alla “Pietà”, cioè a Maria che accoglie tra le sue braccia Gesù morto; quale momento tremendo di prova per la sua fede! È la prova del sabato santo, quando tutto sembra fallito e finito, anche Dio è nella tomba! Mai come qui, pensando alle mie prove, mi sento di invocare la Madonna: “Fa’, o Maria, che io non disperi mai della vittoria del bene sul male, della vita sulla morte, di Dio sul mondo! E lo proclami, e ne contagi gli uomini assetati di speranza! Come te, o Vergine, che io porti Cristo, luce del mondo, per essere lampada che rischiara il cammino mio e dei miei fratelli, in questa valle d’esilio, verso la patria eterna. Amen”.
Il Santo Sepolcro Proseguendo attraverso la Basilica arriviamo davanti al S. Sepolcro. Oggi appare come un gran catafalco - mi si perdoni l’espressione (documentata dalla foto più in basso) - pesante di marmi, eretto nel 1810 in stile russo, in sostituzione di un’edicola più agile fatta dai Crociati e bruciata due anni prima. È esattamente la tomba giudaica a due stanze, atrio e loculo con banco rialzato, che Giuseppe d’Arimatea possedeva qui sul lato ovest di quella cava di pietra ormai trasformata in giardino, di cui faceva parte anche il Calvario. La chiusura era costituita da una pietra-macina da mulino che veniva rotolata davanti alla bassa apertura: «Giuseppe comprò un lenzuolo, tolse Gesù dalla croce, lo avvolse nel lenzuolo e lo mise in una tomba scavata nella roccia. Poi fece rotolare una grossa pietra davanti alla porta della tomba» (Mc 15,46). Mentre attendo pazientemente di entrare nella tomba, in coda ad una interminabile fila, anticipo mentalmente gli eventi successivi così come li ricordo dai vangeli: «Passato il sabato, Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo, e Salòme comprarono olio e profumi per andare a ungere il corpo di Gesù. E la mattina presto del primo giorno della settimana, al levar del sole, andarono alla tomba. Mentre andavano dicevano tra loro: Chi ci farà rotolar via la pietra che è davanti la porta? Ma quando arrivarono, guardarono, e videro che la grossa pietra, molto pesante, era stata già spostata. Allora entrarono nella tomba. Piene di spavento, videro, a destra, un giovane seduto, vestito di una veste bianca. Ma il giovane disse: Non spaventatevi. Voi cercate Gesù di Nazareth, quello che hanno crocifisso. È risuscitato, non è qui. Ecco, questo è il posto dove lo hanno messo. Ora andate e dite ai suoi discepoli e a Pietro, che Gesù vi aspetta in Galilea» (Mc 16,1-7).«Allora Pietro e l’altro discepolo uscirono e andarono verso la tomba. Andarono tutti e due di corsa, ma l’altro discepolo corse più in fretta di Pietro e arrivò alla tomba per primo. Si chinò a guardare le bende che erano in terra, ma non entrò. Pietro lo seguiva. Arrivò anche lui ed entrò nella tomba: guardò le bende in terra e il lenzuolo che prima copriva la testa. Questo non era in terra con le bende, ma stava da una parte, piegato. Poi entrò anche l’altro discepolo che era arrivato per primo alla tomba, vide e credette» (Gv 20,3-8). Siamo evidentemente davanti a un racconto autobiografico, preciso e decisivo: vide e credette! Anch'io al termine dell'attesa mi accingo a entrare ancora una volta nella tomba vuota di Gesù, per vedere e per credere! In quell’attimo, dopo il bacio del marmo che copre il banco rialzato di roccia (vedi foto), mi ritorna spontanea, come già ieri sera, sempre e solo una preghiera: «Credo, Signore, aumenta la mia fede: fammi un testimone appassionato della tua risurrezione!». Oltre le colonne della rotonda, nel transetto nord, si trova l’altare dedicato a santa Maria Maddalena: la prima apparizione del Risorto è infatti a una donna! «Maria era rimasta a piangere vicino alla tomba. A un tratto, chinandosi verso il sepolcro, vide due angeli vestiti di bianco. Gli angeli le dissero: Donna perché piangi?. Maria rispose: Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno messo. Mentre parlava si voltò e vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era lui. Gesù le disse: Perché piangi? Chi cerchi?. Maria pensò che era il giardiniere e gli disse: Signore, se tu l’hai portato via dimmi dove l’hai messo, e io andrò a prenderlo. Gesù le disse: Maria!. Lei subito si voltò e disse: Rabbunì!» (Gv 19,11-18). Maria! - Maestro! Un filo d’amore li lega, «perché molto ha amato» (Lc 7,47). «Non mi trattenere..., va’ e di’ ai miei fratelli: Io torno al Padre mio e vostro, al Dio mio e vostro. Andò e disse: Ho visto il Signore!» (Gv 20,17-18). Una cappella posta in fondo al transetto è dedicata all’apparizione di Gesù a sua madre, Maria. Il Vangelo non ne parla, ma chi prima e più di Maria ha amato Gesù? A questo punto, sempre nel mio cuore, sento vibrare l'antichissimo cantico di lode e di gioia per Maria, tante volte udito elevarsi dal coro dei monaci: «Godi, o vergine Madre di Cristo: Egli, che piangesti condannato a morte è risorto, come aveva detto! Esulta, o fulgida stella: Egli, che contemplasti inchiodato a una croce, è risorto come aveva detto! Rallegrati, o immenso mare di pianto: Egli, che vedesti morire, è risorto, come aveva detto! Gioisci, o fiore dal profumo soave: Egli, che piangesti sepolto, è risorto, come aveva detto! Godi, o divina Madre di Cristo: Egli, che ti apparve glorioso, è risorto, come aveva detto! Alleluia! Alleluia! Alleluia». La basilica, avvicinandosi l’ora del pranzo, lentamente va svuotandosi e si fa così più raccolta: i vari gruppi di confessione cristiana (Armeni, Latini, Ortodossi, Copti e Abissini) che hanno in condominio questo centro nevralgico della fede cristiana, incominciano a scemare dalle rispettive cappelle. La divisione qui è sofferta in modo vistoso, soprattutto quando capita il contemporaneo sovrapporsi di più celebrazioni solenni... Ciascuna confessione ha alle spalle una storia dalla quale attinge diritti e contrasti. Forse è l’immagine reale del “Corpo di Cristo”, che non ha ancora raggiunto “la statura ottimale del Capo”, e aspetta, anche da questo ritorno alle sorgenti, il superamento di incrostazioni politico-dottrinali, per arrivare a identificarsi nell’unico progetto di Cristo, che ha voluto la sua Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. All’uscita dalla basilica, sul piazzale, il muezzin chiama alla preghiera del mezzogiorno; una decina di preti ortodossi fa da contorno al loro nuovo Patriarca, recatosi in visita ai loro territori (il vecchio Patriarca che non ha accettato questo cambio al vertice si è arroccato nella sua residenza, presidiata dall’esercito, per scongiurare possibili “rappresaglie” religiose); alcuni Ebrei ortodossi osservanti ci sorpassano frettolosi per scendere al “muro occidentale”. Mi viene da pensare: anche fuori del cristianesimo, ci sono tante vie diverse che portano a Dio! Ma allora Cristo, suo figlio, non è morto qui in croce per tutti? Non è Lui l’unico mediatore tra Dio e gli uomini? Chi è nel giusto? Chi in buona fede? Chi si salva? Mah!... non si finisce mai di pensare. Ancora sotto l’emozione dell'esperienza appena vissuta, ognuno ritira con entusiasmo la sua foto ricordo (5 €); poi, come sempre non troppo ordinatamente, ritorniamo al pullman per raggiungere An-Nabi Schuaib Street, dove un ristorante arabo ci ammannisce un riso con intingoli e salse varie e, alla fine, il più colorato ma anche il più insapore cocomero che ci sia mai capitato di mangiare. Ma è un inconveniente che superiamo con un sorriso di magnanima bontà nei suoi confronti! Del resto vi sono cose ben più importanti: il pellegrinaggio in Terra Santa per molti è una scoperta, per parecchi una conversione, per tutti è un incontro con un Cristo più vero: un Cristo che per ciascuno ha un dono e una richiesta personalizzata da fare. Di fronte a ciò, cosa vuoi che conti un cocomero melenso e semiguasto?
Al Gallicantu Nel pomeriggio risaliamo una strada ripida: qui correvano le mura occidentali della piccola antica “città di Davide”, triangolo racchiuso tra l’attuale spianata del tempio, la valle del Cedron, e la punta della piscina di Siloe. Siamo nel più antico nucleo della città. Giriamo a ovest per salire al “Monte Sion”, dove è posto il Cenacolo. Una previa sosta d’obbligo è alla chiesa del “Gallicantu” (vedi foto), costruita a fianco di una scalinata d’epoca romana (vedi foto più in basso) sulla quale ci fermiamo in una ventilata e ristoratrice riflessione. Qui era il quartiere residenziale nobile, e quindi certamente le case dei sommi sacerdoti Anna e Caifa; di Anna si diceva fosse il più ricco di Gerusalemme. Scavi recenti hanno infatti messo in luce diverse case patrizie con grandi sale, cortili lastricati, e scantinati a forma di carceri. Se ne sono trovate nel quartiere armeno più a nord, un cortile lastricato subito a fianco della chiesa della Dormizione, nel cimitero armeno; e anche qui, sotto la chiesa del Gallicantu ("al canto del Gallo"), dove in particolare dal IV secolo vi era una chiesa che ricordava il rinnegamento di Pietro, sorta quindi molto probabilmente proprio sulla casa di Caifa. Di certo c’è questa scalinata, rimasta intatta dal tempo di Gesù: su questa scala, che congiungeva il quartiere alto con il basso Cedron, Gesù sicuramente è passato scendendo il giovedì santo dopo l’ultima Cena, per raggiungere il Getsemani; e ne risalì già legato in mezzo agli uomini del Sinedrio che lo avevano arrestato per portarlo qui alla casa di Caifa. Era notte, una notte solenne di clima pasquale: non c’era in giro nessuno; in modo informale si raccolsero qui nella casa privata del Sommo Sacerdote un gruppo di Anziani e Sinedriti per l’interrogatorio e la decisione di morte. Poi Gesù fu consegnato fino al mattino ai soldati. Ma anche qui seguiamo il testo del Vangelo: «Portarono Gesù alla casa del sommo sacerdote e là si riunirono i capi dei sacerdoti, i maestri della legge e le altre autorità. Pietro lo seguiva da lontano. Entrò anche nel cortile della casa e andò a sedersi in mezzo ai servi che si scaldavano vicino al fuoco. Intanto i capi dei sacerdoti e gli altri del tribunale cercavano una accusa contro Gesù per poterlo condannare a morte, ma non la trovavano. Molte persone infatti, portavano false accuse contro Gesù, ma dicevano uno il contrario dell’altro. Infine si alzarono alcuni con un’altra accusa falsa. Dicevano: Noi l’abbiamo sentito dire: io distruggerò questo tempio fatto dagli uomini e in tre giorni ne costruirò un altro non fatto dagli uomini. Ma anche su questo punto quelli che parlavano non erano d’accordo. Allora si alzò il sommo sacerdote e interrogò Gesù: Non rispondi nulla? Che cosa sono queste accuse contro di te?. Ma Gesù rimaneva zitto e non rispondeva nulla. Il sommo sacerdote gli fece ancora una domanda: Sei tu il Messia, il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?. Gesù rispose: Sì, sono io. E voi vedrete il Figlio dell’uomo seduto accanto a Dio Onnipotente. Egli verrà tra le nubi del cielo!. Allora il sommo sacerdote, scandalizzato, si strappò la veste e disse: Non c’è più bisogno di testimoni ormai! Avete sentito le sue bestemmie. Qual è il vostro parere?. E tutti decisero che Gesù doveva essere condannato a morte. Alcuni dei presenti cominciarono a sputargli addosso. Gli coprirono la faccia, poi gli davano pugni e gli dicevano: Indovina chi è stato!. Anche le guardie lo prendevano a schiaffi» (Mc 14,53-65). Siamo al momento ufficiale: Gesù si dichiara Messia, Figlio di Dio. Era bestemmia inconcepibile per i Giudei, che si aspettavano un Messia trionfante scendere dal cielo! «È reo di morte!». Ancor oggi lo scandalo che contraddistingue i cristiani rispetto ai pagani è questo: credere che Gesù di Nazareth sia non soltanto un profeta o un grande umanitarista, ma Dio stesso, apparso come salvatore decisivo per l’umanità. «Pietro intanto era ancora giù nel cortile a scaldarsi. A un certo punto passò di là una serva del sommo sacerdote, lo vide, lo osservò bene e disse: Anche tu stavi con quell’uomo di Nazareth, con Gesù. Ma Pietro negò e disse: Non so proprio che cosa vuoi dire, non ti capisco. Poi se ne andò fuori dal cortile, nell’ingresso (e intanto il gallo cantò). Quella serva lo vide e di nuovo cominciò a dire alle persone vicine: Anche lui è uno di quelli!. Ma Pietro negò di nuovo. Poco dopo alcuni dei presenti gli dissero ancora: Certamente tu sei uno di quelli, perché vieni dalla Galilea. Ma Pietro cominciò a giurare e a spergiurare che non era vero: Io neppure lo conosco quell’uomo che voi dite. Subito dopo un gallo cantò per la seconda volta. In quel momento Pietro si ricordò di ciò che gli aveva detto Gesù: Prima che il gallo abbia cantato due volte, già tre volte tu avrai dichiarato che non mi conosci. Allora scappò via e si mise a piangere» (Mc 14,66-72). Su quel pianto di Pietro cala un lungo silenzio di meditazione e preghiera.
Al Cenacolo Il “Monte Sion” nella tradizione biblica era l’antica collina orientale, sede del tempio; passò poi a significare l’intera città santa come centro del regno messianico. I primi cristiani, che ebbero coscienza di essere il nuovo e vero Israele, chiamarono Sion questa parte sud del colle occidentale, luogo delle loro prime riunioni proprio qui al Cenacolo (vedi foto dell'esterno). La Chiesa è nata qui: dall’Eucaristia, dall’istituzione del sacerdozio, dal comandamento dell’amore con la lavanda dei piedi; con l’apparizione di Gesù risorto; con l’effusione dello Spirito Santo. Qui - identificata forse con le attuali mura della “Tomba di Davide” proprio sotto il Cenacolo - era la prima chiesa-sinagoga di questi apostoli giudeo-cristiani. Epifanio attesta che non fu toccato niente al tempo della distruzione di Gerusalemme nel 70. Il vescovo Giovanni II alla fine del IV secolo vi costruì la basilica chiamata “Santa Sion”, madre di tutte le chiese. Distrutta nel 614 dai Persiani, non risorse gloriosa se non al tempo Crociato, con una grandiosa chiesa che a sud conservava la “sala superiore” e a nord il ricordo della casa della Madonna (attuale chiesa della Dormizione). Distrutta dopo i Crociati, si attese l’arrivo dei Francescani (1335) che qui fecero il loro primo convento; ristrutturarono il Cenacolo in stile gotico, ed è quello che ancor oggi è visibile! Il Cenacolo, che come ho detto è sicuramente uno dei luoghi più sacri per noi cristiani, è anche il luogo più squallido che veniamo a visitare. Recentemente, su pressioni internazionali e per iniziativa italiana si è un po’ ripulito e sistemato (vedi foto dell'interno); ma ancora oggi dimostra i segni di un pressoché totale abbandono a intemperie, venti, gatti, con finestre slabbrate... Paolo VI quando venne, nel ‘64, non poté che inginocchiarsi a pregare e a piangere. Qui non è possibile nessun atto di culto. Unico segno cristiano rimasto è un capitello grazioso, del tempo crociato, che raffigura il pellicano, simbolo di Cristo che dà la vita per i suoi. Questo Cenacolo probabilmente era la casa di Marco, l’evangelista (At 12,12), dove si raccoglieva la Chiesa primitiva (At 1,12-26). In questa casa Gesù chiese di celebrare la sua ultima cena. “Il primo giorno degli Azimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli domandarono a Gesù: “Dove vuoi che andiamo a prepararti la cena di Pasqua?”. Gesù mandò due discepoli con queste istruzioni: “Andate in città. Là incontrerete un uomo che porta una brocca d’acqua. Seguitelo nella casa dove entrerà e li parlate con il padrone. Gli direte: Il Maestro desidera fare la cena pasquale con i suoi discepoli, e ti chiede la sala. Allora egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala già pronta con i tappeti. In quella sala preparate per noi la cena”. I discepoli partirono e andarono in città. Trovarono tutto come Gesù aveva detto e prepararono la cena pasquale. Quando fu sera venne con i dodici discepoli” (Mc 14,12-17). “Allora si alzò da tavola, si tolse la veste e si legò un asciugamano intorno ai fianchi, versò l’acqua in un catino, e cominciò a lavare i piedi ai suoi discepoli. Poi li asciugava con il panno che aveva intorno ai fianchi... Terminato di lavare i piedi ai discepoli, riprese la sua veste e si mise di nuovo a tavola. Poi disse: “Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate Maestro e Signore, e fate bene perché lo sono. Dunque, se io, Signore e Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Io vi ho dato un esempio perché facciate anche voi come ho fatto io” (Gv 13,4-15). Era un segno di quel che stava per fare: servire e amare i suoi fratelli fino al dono della sua vita in croce. E perché di questo dono di sé rimanesse memoria lungo i secoli compì un gesto significativo ed efficace: “Mentre stava mangiando, Gesù prese il pane, fece la preghiera di benedizione, spezzò il pane, lo diede ai discepoli e disse: “Prendete, questo è il mio corpo” - Poi prese la coppa del vino, fece la preghiera di ringraziamento, la diede ai discepoli e tutti ne bevvero. Gesù disse: “Questo è il mio sangue, offerto per tutti gli uomini. Con questo sangue Dio conferma la sua Alleanza”“ (Mc 14,22-24). Come a dire: la mia vita sarà spezzata sulla croce come questo pane, e il mio sangue, come quello d’un agnello, sarà sparso per la purificazione di tutti; mangiatene e bevetene, cioè approfittate di questo gesto salvifico, perché questo dell’Eucaristia inizia, richiama, contiene e comunica, come in una sintesi, quell’atto che compirò domani in croce. Sarà un dono di sé, perché ormai si è arrivati al vertice della comunicazione di Dio agli uomini: Gesù lo spiega nei lunghi colloqui registrati nei capitoli 14-17 del Vangelo di Giovanni. Si tratta di una comunione piena di vita tra Cristo e i suoi, tramite il dono dello Spirito Santo. La sua partenza, cioè la sua morte, è solo un andare al Padre, presso il quale sarà glorificato e preparerà un posto (Gv 14,2-3): “Io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno” (Lc 22,29-30). Ma poi ritornerà, con la risurrezione, per stare sempre con i suoi. Questo stare sarà molto personalizzato attraverso il dono del Paraclito: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi sempre... Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi” (Gv 14,16-18). Sarà una dimora di Dio nel cuore del credente: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23. Gesù a questo punto si preoccupa di definire ulteriormente questo legame: è l’immagine della vite e dei tralci, con la quale dice tutta l’immanenza attiva della vitalità divina nella esperienza del credente (Gv 15, 1 ss): lui, Gesù, è la vite buona che fa frutti; solo chi è legato a lui può fare altrettanti frutti buoni: “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto” (Gv 15,5). Il frutto primo è l’amore, che è sostanza della vitalità divina: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore... Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,9-10.12). In contrapposizione a una vita d’amore, sta l’odio del mondo: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me” (Gv 15,18). Lo stile di Cristo e del cristiano dà fastidio al mondo. Ma non si spaventino: “Io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). In questa somma intimità del Cenacolo Gesù prende commiato con una lunga preghiera per la sua Chiesa, per quanti si aggregheranno ad essa lungo i secoli, perché alla fine tutti raggiungano l’unità nel focolare stesso del Padre da cui Gesù era partito per la sua missione. “Padre, voglio che dove sono io siano anch’essi con me, perché contemplino la mia gloria che tu mi hai dato, perché mi hai amato prima della creazione del mondo. Che tutti siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola, io in essi e tu in me” (Gv 17,20-24). Non è semplice farci carico di tutta la concentrazione misterica che possiede il Cenacolo. Durante l'Eucaristia che celebriamo presso la cappella attigua alla sala antica, il Cenacolino (vedi foto sopra), riprendiamo i temi della Cena, della tavola, simbolo della intimità e comunione di vita a cui Dio chiama, nonché il gesto di carità connesso con la lavanda dei piedi: padre Giuseppe sviluppa egregiamente questi temi e provvede a lavare i piedi a quanti lo desiderano. Momenti di fraternità che ci fanno seriamente meditare sul nostro vissuto quotidiano, su come troppo spesso ci dimentichiamo del mandato e dell’esempio di Gesù: “Amatevi gli uni gli altri…”. Scendiamo al piano inferiore del Cenacolo, dove nel II e III secolo fu eretto un edificio absidale, diviso in due scompartimenti, dedicati uno alla lavanda dei piedi e l'altro alle apparizioni di Gesù risorto. Vi viene oggi commemorata dagli Ebrei la Tomba di David (vedi foto), il cui monumento sepolcrale non ha alcuna base storica, ma solo simbolica ed archeologica. Passiamo quindi alla Chiesa della Dormizione. Situata anch’essa sul Monte Sion, è una chiesa cattolica, costruita dai Tedeschi (1906-1910) sul luogo dove, secondo una tradizione del II secolo, Maria cadde nel sonno eterno (da questo evento deriva il nome latino Dormitio Sanctae Mariae). La chiesa e il monastero adiacente sono affidati all'Ordine Benedettino Tedesco affiliato al monastero di Beuron . L'interno della chiesa è molto ampio e l'abside è decorata da immagini dei profeti, con sopra le figure di Gesù e Maria. Nel pavimento a mosaico sono raffigurati tre cerchi che rappresentano la Trinità: e intorno sono raffigurati i profeti, i mostri dell'Apocalisse, i dodici apostoli e lo zodiaco. In una cripta sotterranea è custodita una statua di Maria in legno di ciliegio e in avorio(vedi foto). Il campanile della chiesa, alto e imponente, viene soprannominato la “sentinella delle mura”, perché il tetto arrotondato fa pensare all'elmetto di un soldato. A questo punto la giornata ha raggiunto il suo massimo livello di concentrazione: incamerare di più sarebbe problematico per tutti. Il ritorno in pullman ci vede quasi tutti impegnati in mille pensieri più o meno profondi, sui quali prende il sopravvento un certo cedimento fisico e una sempre più invadente sonnolenza. Giunti in albergo, rifocillati da una salutare doccia e da una abbondante cena, troviamo comunque lo sprint finale per un giro turistico di Gerusalemme “by night”. All’inizio l’evento non ci coinvolge più di tanto: dai nostri posti non si riesce a vedere granché. Poi, dall’alto dello Scopus, il panorama si apre in una visione d’incanto. Davanti a noi Gerusalemme (vedi foto). È come sostare davanti al presepe dei nostri sogni infantili: la sua profonda maestosità fiocamente illuminata da minuscole luci multicolori, il risplendere dei suoi tesori architettonici illuminati a giorno, un cielo buio costellato di luminosissime stelle, ci lasciano estasiati. Fino a tanto che un vento freddo… ci riporta a più miti consigli: risaliamo in pullman e ci inoltriamo, sul lato opposto, nel quartiere ghetto degli Ebrei ortodossi osservanti, chiamato “Mea Shearim”. E’ impressionante: strade strette, costruzioni d’inizio secolo, ogni casa un balcone, negozi pieni di oggetti di culto, strade tutte affollate di uomini in nero, bambini con kippa e ricciolini, donne a capo coperto, sinagoghe ad ogni angolo di strada, accese di luci, da cui proviene un cantilenare di preghiera. Povertà proclamata, essenzialità nel vivere, certamente rifiuto d’ogni superfluo consumistico e pubblicitario, enfasi del familiare, del domestico, del religioso, del tradizionale... E che altro? E’ difficile giudicare. L’Ebreo è un mistero, soprattutto questo Ebreo che crede e vive profondamente il rapporto col mistero di Dio. Quel che ci ha fatto capire san Paolo è questo: la loro adesione a Dio passa attraverso l’obbedienza a infinite regole di vita (la Torah), osservando le quali sentono di esprimere l’amore e la fedeltà al loro Dio. Noi cristiani, per la libertà dataci da Cristo, amiamo Dio a partire dalla radice stessa, cioè dalla sincerità del cuore, la cui unica regola e misura è la creatività senza misura che suggerisce l’amore.... Nella notte ormai avanzata lasciamo Gerusalemme, la sua brezza fredda, il suo cielo intenso sempre più cupo, le stelle a portata di mano. Ritorniamo in albergo. Dopo l’ultimo richiamo del muezzin, tutto si placa. Domani un altro cammino ci aspetta, un ulteriore tuffo nel mistero di questa città che ad ogni suo angolo ha ancora moltissimo da dire alla nostra vita.
Chiesa dell’Ascensione Settimo giorno. Siamo al mattino del giovedì. Il peregrinare di oggi ci porterà a toccare altri siti importantissimi. La notte mi ha ridato forza e rinnovato entusiasmo per tuffarmi nella prospettiva eccitante dell’oggi. Nell’attesa del pullman, familiarizzo con i soliti bimbi che sostano davanti all’albergo, in attesa più che di vendere le loro poche cianfrusaglie, di rimediare qualche spicciolo: per farli tutti contenti ci vorrebbe una valigia di monetine… ma a volte basta anche un sorriso e una carezza per far addolcire quei loro sguardi acerbi e tristi, privi di quel caldo raggio di gioia e di fiduciosa serenità che l’infanzia dovrebbe assicurare anche a loro. Iniziamo il nostro tour dalla sommità del Monte degli Ulivi, esattamente dalla Chiesa dell’Ascensione. A piedi percorriamo l’ultimo tratto del sentiero che sale sul monte: in cima domina un lungo campanile di un monastero ortodosso, chiamato “Viri Galilaei” a ricordo dell’Ascensione avvenuta proprio qui in questa cima (sono le prime parole dell’antifona di ingresso che la Liturgia prevede proprio per l’Ascensione: «Viri Galilaei, quid statis aspicientes in coelum? Uomini di Galilea che cosa state scrutando nel cielo? Come l’avete visto salire in cielo, così il Signore ritornerà»). E appunto dell’Imbomon (“sulla vetta”) si chiamava la chiesa circolare costruita nel 378 dalla matrona romana Pomenia; aveva un diametro di circa 32 metri e al centro di essa c’era la “roccia sacra” (vedi foto), sulla quale, secondo la tradizione, Gesù avrebbe posato i piedi quando si elevò in cielo. Nel 438 la monaca Melania la Giovane vi costruì a fianco un monastero; il tutto fu distrutto nel 614. I Crociati ripresero la prima chiesa, costruendone una ottagonale, le cui pareti sono ancora oggi visibili. Al centro posero una edicola aperta a colonnine; questa, col ritorno dei musulmani nel 1187, fu trasformata in moschea, dopo aver murato gli archi, e averla ricoperta con una orribile cupola (vedi foto in alto). Qui dentro ricordiamo il mistero dell’Ascensione, come ci è descritto da Luca. «Gesù condusse i suoi discepoli verso il villaggio di Betania. Alzò le mani sopra di loro e li benedisse. Mentre li benediceva si separò da loro e fu portato verso il cielo. I suoi discepoli lo adorarono» (Lc 24,50-52). «Poi venne una nube ed essi non lo videro più. Mentre avevano ancora gli occhi fissi verso il cielo, dove Gesù era salito, due uomini, vestiti di bianco, si avvicinarono loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché ve ne state li a guardare il cielo? Questo Gesù che vi ha lasciato per salire in cielo, un giorno ritornerà come lo avete visto partire» (At 1,9-11). Poco prima Gesù aveva loro promesso: «E sappiate che io sarò sempre con voi, tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Nello stesso modo realistico con cui lo hanno sperimentato vivo dopo la morte, toccandolo, mangiando con lui..., gli apostoli vivono qui il suo definitivo commiato, con promessa di ritorno e diversa presenza: «Non allontanatevi da Gerusalemme, ma aspettate il dono che il Padre ha promesso e del quale io vi ho parlato. Giovanni infatti ha battezzato con acqua; voi, invece, fra pochi giorni sarete battezzati con lo Spirito Santo» (At 1,4-5). Gesù ha dato qui appuntamento alla sua Chiesa: «Vado a prepararvi un posto...». Stretti nella piccola edicola anche noi in silenzio, come è detto degli apostoli, adoriamo qui il Signore (Lc 24,52), perché il mistero dell’Ascensione significa appunto la sua intronizzazione divina, la glorificazione dell’uomo Gesù, rapito dentro la divinità, “ove siede alla destra del Padre”.
La grotta del Pater Dicono che nel IV secolo il monte degli Ulivi fosse tutto coperto di chiese e monasteri. Ne sono rimasti parecchi anche oggi; quello delle Carmelitane scalze raccoglie una delle reliquie più sacre di questo monte: è la grotta detta del Pater. Secondo lo storico Eusebio di Cesarea tre “mistiche grotte” erano venerate al tempo di Costantino, sulle quali sant’Elena costruì le prime basiliche: quella della Natività a Betlemme, quella del S. Sepolcro, e infine quella “dove Gesù iniziò i suoi discepoli ai sacri misteri”, cioè qui a metà monte, dove fu costruita la basilica detta “in Eleona”, ossia dell’Oliveto. Come avveniva in Galilea, anche a Gerusalemme Gesù si ritirava “in luoghi solitari” (Lc 5,16; 9,8) a pregare. È rimasta visibile una grotta, nella quale anche noi ci raccogliamo per imparare da Gesù la preghiera: “Signore, insegnaci a pregare». "Padre nostro che sei nei cieli..." La novità assoluta sta in quel “Padre”, o meglio “Abbà, papà!” (Mc 14,36): un uomo ora chiama Dio Creatore col termine confidenziale con cui un bambino chiama il suo babbo! L’atteggiamento di fondo nei confronti di Dio deve essere quindi quello della confidenza e della fiducia: «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono» (Lc 11,11-13). «Perciò io vi dico: Chiedete e riceverete! Cercate e troverete! Bussate e la porta vi sarà aperta. Perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova; a chi bussa sarà aperto» (Lc 11,9-11). Una fiducia insistente (Lc 11,5-8) e perseverante: “Gesù raccontò una parabola per insegnare ai discepoli che bisogna pregare sempre, senza stancarsi mai. Disse: C’era una volta in una città un giudice che non rispettava nessuno: né Dio né gli uomini. Nella stessa città viveva anche una vedova. Essa andava sempre da quel giudice e gli chiedeva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un po’ di tempo il giudice non volle intervenire, ma alla fine pensò: Di Dio non me ne importa niente e degli uomini non me ne curo; tuttavia farò giustizia a questa vedova perché mi dà ai nervi. Così non verrà più a stancarmi con le sue richieste. Poi il Signore continuò: Fate bene attenzione a ciò che ha detto quel giudice ingiusto. Se fa così lui, volete che Dio non faccia giustizia ai suoi figli che lo invocano giorno e notte? Ma quando il Figlio dell’uomo tornerà sulla terra troverà ancora fede?” (Lc 18,1-8). Ecco, la condizione è la fede: «Tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete» (Mt 21,22). Con fede, significa fare spazio a Dio, convinti della nostra debolezza; o più precisamente fidarci di lui. Io uso definire la fede così: credere che Dio vede e vuole il mio bene più di quello che vedo e voglio io stesso. In altre parole il disegno di Dio su di me è più grande non solo di ogni mio merito o di ogni mia conquista, ma addirittura di ogni mio desiderio. Allora sarei stolto se tentassi di ridurre, con le mie richieste, il progetto di Dio al mio, sarebbe renderlo più meschino. Allora la vera preghiera è quella insegnataci da Gesù: «Padre nostro… venga il tuo Regno… sia fatta la tua volontà»; non la mia ma la tua volontà; “mio cibo è fare la volontà del Padre; ...tutto è compiuto”. Cioè: Signore, fa’ tu, secondo il tuo disegno, e mi sta benissimo! Come Maria, fa che io sappia sempre dire: “Sono la serva, il servo del Signore, si faccia di me quel che lui vuole...”, perché è vero, “lui fa grandi cose”. Dopo aver meditato ci uniamo con le mani per cantare con commozione tutti insieme il Padre nostro. Più avanti ci attende, per rimirarlo ancora una volta e imprimercelo nella mente, uno degli spettacoli più belli, la visione di Gerusalemme entro le mura. Dal monte degli Ulivi la città si mostra con la grande cornice della spianata del tempio lungo la parete est di circa 600 metri. La Porta d’oro, murata, ne è il ricamo medievale più vistoso. Al centro brilla al sole la grande moschea di Omar, con l’oro della cupola e gli azzurri delle sue maioliche. Ai suoi piedi il grande cimitero ebraico, dove qua e là si vedono gruppi di Giudei in preghiera sopra una tomba. Sulla sinistra il Sion cristiano dominato dalla “Dormizione”; più sotto ancora il variopinto villaggio di Siloe; all’interno il nuovo quartiere ebraico e, tra la moschea El Aqsa e quella di Omar, l’ammasso del quartiere musulmano. Là in alto, sullo sfondo, i campanili del quartiere cristiano con la cupola del S. Sepolcro, la mole squadrata del campanile della Chiesa luterana, e l’indice più alto puntato verso il cielo che è il campanile di S. Salvatore, centro direzionale della Custodia di Terra Santa. Come fondale, gli alti alberghi della città nuova. A destra la città si innesta con i quartieri diplomatici del monte Scopus fino alla grande Università. Questo "belvedere", del resto, è la sosta turistica d’obbligo per le foto classiche della Santa Città.
Tomba della Vergine Racconta una versione siriaca del “Transitus B.M. Virginis”, databile addirittura al II secolo, forse parte della liturgia locale: «Prendi la Vergine Maria questa mattina - ordina Gesù a Pietro - ed esci da Gerusalemme sulla strada che porta all’inizio della valle ai piedi del monte degli Ulivi. Lì ci sono tre caverne, una larga esteriore, una seconda all’interno e una terza più piccola ancora più all’interno. Sulla parete orientale di quest’ultima vi è un banco rialzato. Entra e deponi la Benedetta su quel banco». Quella piccola grotta c’è ancora, tagliata dalla viva roccia dalla restante zona cimiteriale, e quel banco rialzato, pur bucherellato dai devoti, è lì ancora tale e quale alla venerazione dopo le numerose ripuliture e risistemazioni. A fianco della grotta del Getsemani c’era fin dall’inizio questa chiesa rupestre antichissima; nel IV secolo, Teodosio vi fece una basilica, ristrutturata nel VI; l’attuale sistemazione con lunga scalinata che scende (vedi foto) è di epoca crociata. Nelle feste della Madonna, ci dicono, questa scalinata buia brilla di mille candeline accese appoggiate in fila sugli scalini: è come il vibrare di tutte le anime devote di Maria che qui la venerano nel suo più bel mistero dell’Assunzione al cielo. Maria è modello e primizia di ogni credente: la sua risurrezione ed esaltazione è garanzia e indicazione per un medesimo nostro destino. Se la morte è entrata nel mondo con il peccato, Maria senza peccato ha avuto immediato il transito dalla condizione terrestre a quella celeste. Con Gesù siede nella gloria come prima tra i risorti, regina del nuovo regno dei viventi, e madre che ci prepara un posto. «Ti penso, o Vergine Maria, nell’istante della tua entrata in paradiso. Tu sei la Madonna dell’Assunzione! Chiusi gli occhi alla vita terrena, l’istante della tua morte è stato il velo che s’è squarciato sull’eternità, e tu sei stata subito nella gloria! Il tuo corpo, immacolato, non subì corruzione di carne; trasfigurato come quello di Gesù in una risurrezione simile alla sua, sei diventata nuova Eva, madre e modello dei veri viventi che aspirano, con la risurrezione della carne, alla vita eterna! Sei andata ad occupare il tuo posto di Regina! Regina perché prima dei redenti, prima “tra coloro che ascoltano la parola e la mettono in pratica”, prima tra i risorti, prima nel Cenacolo e premurosa per il “corpo mistico” di Cristo: primizia e madre della Chiesa! Gesù ci ha promesso che lì ci sono molti posti: ci sarà anche il mio! Tu sei andata innanzi, come madre, a tenermelo. Fa’, o Maria, che a quel mio posto possa arrivare a sedermi, dopo questo pellegrinaggio della vita, che voglio vivere come te e con te, o Regina Assunta in cielo. Amen».
Dominus flevit Proprio qui, o appena più sotto, anche Gesù si fermò estatico a contemplare la sua città, in quella luce luminosa che te la fa pensare quasi immortale. Con lui c’erano i discepoli: “Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!”. E Gesù: “Non rimarrà pietra su pietra che non sia distrutta” (Mc 13,1-2). «E Gesù si mise a piangere per lei. Diceva: Gerusalemme, se tu capissi, almeno oggi, quel che occorre alla tua pace! Ma non riesci a vederlo! Ecco, Gerusalemme, per te verrà un tempo nel quale i tuoi nemici ti circonderanno di trincee. Ti assedieranno e premeranno su di te da ogni parte. Distruggeranno te e i tuoi abitanti e sarai rasa al suolo, perché tu non hai saputo riconoscere il tempo nel quale Dio è venuto a salvarti» (Lc 19,4-44). «Gerusalemme! Gerusalemme! Tu che metti a morte i profeti e uccidi a colpi di pietra quelli che Dio ti manda! Quante volte ho voluto riunire i tuoi abitanti attorno a me, come una gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali! Ma voi non avete voluto. Ebbene la vostra casa sarà abbandonata» (Mt 23,37-38). È un lamento e un richiamo che Gesù in quei giorni andava ripetendo spesso, con immagini trasparenti: «Ascoltate un’altra parabola: C’era un proprietario che piantò una vigna, la circondò con siepe, scavò una buca per il torchio dell’uva e costruì una torretta di guardia; poi affittò la vigna ad alcuni contadini e andò lontano. Quando fu vicino il tempo della vendemmia, mandò dai contadini i suoi servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo colpirono con le pietre. Il padrone mandò di nuovo altri servi più numerosi dei primi, ma quei contadini li trattarono allo stesso modo. Alla fine mandò suo figlio, pensando: Avranno rispetto di mio figlio! Ma i contadini, vedendo il figlio, dissero tra loro: Ecco, costui sarà un giorno il padrone della vigna. Coraggio, uccidiamolo e l’eredità l’avremo noi!. Così lo presero, lo gettarono fuori della vigna e lo uccisero. A questo punto Gesù domandò: Quando verrà il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?. Risposero i presenti: Ucciderà senza pietà quegli uomini malvagi e darà in affitto la vigna ad altri contadini che, alla stagione giusta, gli consegneranno i frutti. Disse Gesù: Non avete mai letto quello che dice la Bibbia? La pietra che i costruttori hanno rifiutato è diventata la pietra più importante. Questo è opera del Signore ed è una meraviglia per i nostri occhi. Per questo vi assicuro che il regno di Dio sarà tolto a voi e sarà dato a gente che farà crescere i suoi frutti» (Mt 21,33-34). Qui Gesù ha pianto sul destino di questa città: e in questo luogo oggi esiste un grazioso santuarietto, ricostruito recentemente sull’antica Chiesa del VII secolo, della quale si conservano ancora oggi mosaici e reperti vari. Tutto il contesto, dallo stile architettonico ai dipinti e alle varie decorazioni, richiamano questo pianto di Gesù. Sempre qui i cristiani, col desiderio di sentirsi “scelti”, costruirono il loro primo cimitero; recenti scavi hanno infatti messo in luce tombe e ossari.
Getsemani Sul Monte degli Ulivi, di fronte al Getsemani, ci siamo fermati per la celebrazione Eucaristica. All’aperto, sotto un sole ormai alto, con la città di Gerusalemme, scintillante e luminosa, che ci fa da abside: una “location” che, venuta meno la disponibilità della cappella prenotata, ci ha comunque rapiti ed edificati. Lasciamo questo angolo con un panorama tra i più suggestivi del monte Oliveto, per passare al Getsemani. Attraversiamo il viottolo che corre tra due muriccioli: da una parte quello del monastero russo di S. Maria Maddalena, una costruzione singolare coronata di cuspidi dorate che spiccano sul cielo azzurro entro alti cipressi e sempreverdi; dall’altra quello che delimita le ultime tombe del cimitero giudaico (ora si vedono bene: ogni tomba invece che crisantemi ha delle piccole pietre, segno di vita!), e l’abside della moderna basilica dell’Agonia. Siamo in uno dei luoghi più documentati della storia, archeologicamente e letterariamente tra i più intensi e precisi anche nelle pagine evangeliche. Il Getsemani, al momento della passione di Gesù, era un podere con olivi ai piedi del monte degli Ulivi, appena attraversato il torrente Cedron. All’inizio del podere si trovava una grotta di riparo per gli attrezzi, entro la quale vi era un “frantoio per le olive” (tale è il significato di Getsemani) - Qui Gesù veniva spesso, «come al solito» (Lc 22,39). «Anche Giuda, il traditore, conosceva quel posto, perché Gesù vi si ritirava spesso con i suoi discepoli» (Gv 18,2). Probabilmente era proprietà di qualche famiglia amica, perché fin dall’inizio fu frequentato dalla comunità cristiana che lo trasformò in chiesa rupestre. La grotta è del tutto naturale, ed è rimasta tale e quale da allora, segnata con molti graffiti e disegni devozionali. Il pavimento musivo fu rovinato nel V-VI secolo quando i cristiani vi vollero collocare le loro tombe. È detta grotta degli Apostoli e del bacio di Giuda. Seguiamo il Vangelo di Marco, il più realistico e drammatico: «Intanto raggiunsero un luogo detto Getsemani. Gesù disse ai suoi discepoli: Restate qui, mentre io pregherò. Si fece accompagnare da Pietro, Giacomo e Giovanni. Poi cominciò ad aver paura e angoscia, e disse ai tre discepoli: Una tristezza mortale mi opprime. Fermatevi qui e state svegli» (Mc 14,32-35). È tutto il dramma psicologico di un uomo di fronte all’imminente ingiustizia e tragedia che prevede lucidamente: vi si sente come schiacciato! «Mentre andava più avanti, cadeva a terra», quasi barcolla sotto il peso e non sa reggersi, «e pregava. Chiedeva a Dio, se era possibile, di evitare quel terribile momento. Diceva: Abbà, Padre mio, tu puoi tutto. Allontana da me questo calice di dolore!» (Mc 14,35-36). È un dialogo sconvolgente e al tempo stesso confidente col Padre, col suo “babbo”, al quale grida la paura e la fiducia, come un bambino impotente. In sostanza dice: non me la sento, se devi salvare il mondo, fallo senza di me! È il vertice della tentazione, quando Dio diventa esigente e totalitario. Gesù ha voluto arrivare fin qui! Ma, questo è il punto, il grido d’angoscia e d’impotenza non è chiuso in se stesso, ma in un dialogo di fiducia e di abbandono al Padre: è nella preghiera che si risolve! «Però, non fare quel che voglio io, ma quello che vuoi tu». Nello scontro (Luca 22,44 usa il termine “agonia”, da “agone atletico”, fino a sudare sangue: «Entrato in agonia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra»), prevale non l’orgoglio dell’uomo, ma l’affidamento leale in colui che è più grande e vuole sinceramente e sicuramente, anche se “assurdamente” secondo noi, il nostro bene. La preghiera è la confidenza di chi ha fiducia, nonostante tutto. Per questo Gesù qui raccomandò: «State svegli e pregate per resistere nel momento della prova; lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mc 14,38). La scena, accuratamente descritta nei suoi risvolti interiori dagli evangelisti, si svolge a due tratti più in là di questa grotta. «Egli disse: Restate qui mentre io vado là a pregare. Si fece accompagnare da Pietro e dai due figli di Zebedeo» (Mt 26,36-37); poi «andò un po’ avanti, si gettò con la faccia a terra e si mise a pregare» (Mt 26,39). Proprio su questo posto, su una roccia recuperata nei recenti scavi dalla prima basilica bizantina che l’aveva già posta al centro della devozione, è sorta l’attuale basilica “dell’Agonia”. Fu Teodosio (379-393) a costruire qui la prima chiesa, distrutta poi dai Persiani; era ricordata dai pellegrini come la “chiesa elegante”; ne rimangono mosaici, ripresi, come disegno, nell’attuale pavimento. I Crociati ne costruirono un’altra, con asse un po’ spostato a sud; distrutta anche quella, non rimase che un grande olivo venerato per secoli. Ora, attorno alla basilica sono raccolti nel recinto francescano dei vecchissimi ulivi. Danno un’idea di quel che fosse l’orto al tempo di Gesù, anche se sono databili all’epoca delle Crociate. La basilica contiene mosaici per la contemplazione e la preghiera, tutta avvolta da una luce filtrata da alabastro color violetto. Il vangelo ricorda il sonno, l’indifferenza e la fuga dei discepoli: «Così non avete potuto vegliare con me nemmeno un’ora?» (Mt 26,40); «Allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono» (Mt 26,56). Poi ricorda l’arrivo degli uomini “armati di spade e bastoni” con Giuda: «Il traditore si era messo d’accordo con loro. Aveva stabilito un segno e aveva detto: Quello che bacerò è lui. Voi prendetelo e portatelo via con decisione. Subito Giuda si avvicinò a Gesù e disse: Maestro!. Poi lo baciò» (Mc 14,44-45). Sottolinea la non violenza di Gesù: «Quelli che erano con Gesù, appena si accorsero di ciò che stava per accadere, dissero: Signore, usiamo la spada?. E in quel momento uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne e disse: Non fate così! Basta!» (Lc 22,49-51). «Bisogna che io beva il calice di dolore che il Padre mi ha preparato» (Gv 18,11). È lo spazio che Dio permette al male: «Ma questa è l’ora vostra: ora si scatena il potere delle tenebre» (Lc 22,53). Al Getsemani si condensa tutto il mistero dell’uomo, del suo dolore, del suo male, del suo peccato ... ; ma anche del suo riscatto, della salvezza che gli viene dall’obbedienza e dall’abbandono di questo uomo Gesù alla volontà del Padre. Ma qui, questo scontro decisivo tra peccato e salvezza, avviene in un modo drammatico sulla pelle di un uomo, qui è vissuto il momento psicologico di questa battaglia, che lascerà permanenti i segni delle sue cicatrici anche nel Cristo risorto che Tommaso ha toccato! È il ruolo giocato dalla sua libertà, e quindi della nostra, che qui ci interessa. L’agonia di Gesù rappresenta il momento vertice del dramma che vive ogni uomo: quello dello scontro e della scelta tra la propria autonomia e l’abbandonarsi a Dio. In questo sta proprio il nocciolo di ciò che chiamiamo peccato originale: quello di crederci autosufficienti, costruttori unici ed efficaci della nostra felicità, testardi sognatori di una città terrestre pienamente saziante, e quindi paurosi di Dio, che sembra limitarci, che sembra invadere la nostra proprietà, che ci appare avversario della nostra libertà, che al massimo per interesse possiamo propiziarci! Per di più l’esperienza del dolore, del fallimento, della delusione, lungi dal farci ravvedere, ci insospettisce ulteriormente nei confronti di un Dio che stentiamo ancora a credere buono e paterno. È per questo che il “si” deve essere detto non a parole, ma coi fatti: i fatti dell’obbedienza, dell’accettazione “oscura” e “assurda” della sofferenza e della morte: credere cioè - come Gesù qui al Getsemani - che Dio vuole ancora il nostro bene, nonostante la vita ci provi con la sofferenza e ci conduca alla morte... La sofferenza e la morte sono ora il campo su cui si gioca il nostro sì, e quindi il nostro riscatto, di fronte a Dio e alla vita! Ne deriva anche un grosso corollario pratico: non tutti hanno paura della morte; tutti invece abbiamo paura della sofferenza, principalmente perché timorosi di non farcela, di non farcela anche nella fede, e quindi di ribellarci a Dio! Ebbene: proprio per questo Cristo ha sofferto al Getsemani ed è morto in croce, per darci la grazia sufficiente per dire il nostro sì; e Dio non fa mai cose inefficaci! Certamente anch'io ce la farò, alla sola condizione di soffrire con lui e come lui, cioè con quel suo spirito di obbedienza che mi comunica la sua grazia! Signore, quando toccherà anche a me... fa’ che sappia pregare come certamente hai pregato tu, qui al Getsemani: «Salvami, o Dio: l’acqua mi arriva alla gola. Affondo in un mare di fango, non ho più un punto d’appoggio; sono caduto in acque profonde, la corrente mi trascina via! Sono sfinito a forza di gridare, ho la gola in fiamme; i miei occhi si sono consumati nell’attesa del mio Dio. Sono più dei capelli del mio capo quelli che mi odiano senza motivo; sono potenti i miei persecutori, i miei bugiardi nemici. Per amor tuo ho subito umiliazioni, il mio volto s’è coperto di vergogna. Per i miei fratelli sono diventato un estraneo, un forestiero per i miei familiari. Ma io rivolgo a te la mia preghiera: sia questo, Signore, il tempo del tuo favore. Strappami dal fango, non lasciarmi affondare, liberami da chi mi odia e dalle acque profonde! Fedele è la tua bontà, rispondimi, Signore; grande è la tua misericordia: vieni in mio aiuto. Non nascondermi il tuo volto: sono il tuo servo; rispondimi presto, sono all’estremo. Prenditi cura della mia liberazione, riscattami dai miei nemici. Tu sai come m’insultano, Signore; attendevo conforto, ma invano, un po’ di pietà, e non l’ho trovata. Nel mio cibo hanno messo veleno, avevo sete, mi hanno offerto aceto. Io sono povero e afflitto, la tua salvezza, Dio, mi renda forte. Allora loderò nei canti il nome di Dio, esalterò e canterò la sua grandezza». (Sal 69)
Il muro del pianto Usciamo assorti e trasfigurati da questa lunga meditazione, mentre ci dirigiamo ad un altro appuntamento che a Gerusalemme è d’obbligo: il “Muro Occidentale” (o muro del pianto: vedi foto). Arriviamo velocemente al posto di blocco dell’entrata: il “muro occidentale” è la parete-terrapieno di sostegno della spianata del tempio fatto da Erode. Dopo che gli Ebrei persero il tempio con la distruzione del 70 d.C. e la loro dispersione (diaspora) ad opera di Adriano nel 135, non rimase che questo piccolo angolo di muro, il più vicino al luogo dove era il tempio, su cui ora troneggia la moschea di Omar. Per essi divenne il luogo più sacro dove raccogliersi a pregare Jahweh perché restituisca vita e prestigio al suo popolo. Frotte di Ebrei ortodossi osservanti si affrettano da ogni parte della città: sono famiglie intere, coi bambini, tutti vestiti degli abiti solenni della festa religiosa, con fogge diverse a seconda delle tradizioni di famiglia più antiche: chi in nero, chi in grigio, chi a righe verticali, chi coi cappelli a tesa larga, i bambini ricciuti, gli uomini con i loro cappotti, i giacconi coi “filattèri”, ossia delle piccole "custodie" cubiche di cuoio contenenti rotolini di pergamena che recano scritti alcuni passi della Torah, il loro libro sacro, fissate con cinghie alla parte superiore del braccio e della fronte. Non importa se c’è il solleone. Nelle loro palandrane pesanti sono impassibili. Si lavano le mani e poi vanno a baciare il Muro, prendono il loro libro di preghiera, si mettono in gruppo e pregano e cantano Salmi e il Cantico dei cantici. Qualcuno si distacca e in disparte, agitandosi con grande fede con tutto il corpo, apre il suo cuore con personale confidenza a Jahweh, lasciando a volte negli anfratti del muro dei bigliettini con le sue richieste. Le donne vanno in un settore a parte, portano il capo coperto da un foulard, e più degli uomini sembrano confidare a Dio pene e problemi. Chiunque si avvicini al Muro, ebreo e non, credente e non, deve avere il capo coperto. Se non ha il cappello, si deve coprire con una sorta di zucchetto detto “kippah”, che gli ebrei più devoti portano costantemente come segno della presenza di Dio. Quanti sono sprovvisti di filatteri o kippah li ritirano da un chioschetto posto nello spiazzo antistante. Accanto c'è una fonte a cui è possibile fare le abluzioni purificatrici prima della preghiera. Dopo essermi coperto con il kippah (ho messo il cappellino in tasca), mi avvicino e anch’io tocco il Muro, sostando qualche attimo in raccoglimento; anch’io ripeto quel gesto di pietà consegnando ad esso i miei desideri e le mia preghiera. Si: la mia preghiera, affinché tutti i popoli della terra, diversi per razze, religioni, fedi, si sentano finalmente “unum”, figli e fratelli, di uno stesso Padre. Oggi molti bambini festeggiano con i parenti il loro “bar mizvah” (la cerimonia che segna il passaggio alla maturità religiosa): pittoreschi gruppi di parenti (tassativamente al maschile) attorniamo il bimbo che, sotto la guida del suo presentatore, si allena a leggere il passo della Torah che dovrà ripetere all’interno della Sinagoga posta a lato. Sbircio all’interno: processionalmente i “maturandi” vengono introdotti e, rivolti verso il pubblico, vengono abilitati ufficialmente alla lettura del Testo sacro nelle riunioni sinagogali. All’uscita, si recano raggianti verso la recinzione che delimita la zona riservata alle donne, per ricevere dalle madri, sorelle, amiche, rimaste al di fuori dell’area “sacra”, il lancio di caramelle, in segno di festa e di gioiosa partecipazione. L’ora tarda ci affretta per il pranzo. Questa volta è prenotato presso il Pontificio Istituto di Notre Dame (vedi foto), un lussuoso albergo al centro di Gerusalemme, sede di convegni internazionali e base operativa dell’Opera Romana Pellegrinaggi. È un’oasi di eleganza esclusiva, un giardino curatissimo con alberi d’alto fusto e costruzioni raffinate. Una annotazione pettegola del critico di turno: il pranzo, pur se ottimo, non è stato comunque all’altezza del livello cui le premesse architettoniche avevano fatto supporre. Ma, bisogna riconoscere sinceramente: è stato senza dubbio più che all’altezza, se lo rapportiamo al canone complessivo da noi pagato per il viaggio: che vogliamo di più? Un caffé “italiota” (abbastanza simile ma non uguale all’espresso italiano) ci ha poi accorpati sull’ombrosa terrazza prospiciente l’ingresso, dove ognuno ha dato sfogo alle sue impressioni entusiastiche e qualcuno anche alle inevitabili “doléances” (quanta pazienza, cara Enza!). Ripreso il tour, abbiamo avuto la fortuna di entrare all’Israel Museum, dove abbiamo potuto ammirare l’enorme plastico che riproduce in scala l’intera città di Gerusalemme, in tutti i suoi particolari, e di accedere anche alla cupola antisismica e antinucleare della Sezione del Libro, in cui è conservato, esposto all'ammirazione dei visitatori, l’intero rotolo di Isaia, ritrovato a Qumran. Una emozionante visione, che custodirò gelosamente nella memoria. A questo punto una democratica votazione stabilisce sul da farsi: i soliti indistruttibili optano per continuare una visita di Gerusalemme, del Cardo Maximus e del quartiere ebraico, a piedi. Gli altri invece preferiscono rientrare a Betlemme per qualche ora di riposo, in vista della levataccia dell’indomani, giorno di partenza.
Conclusione del pellegrinaggio Ottavo giorno. Siamo purtroppo giunti all’ultimo giorno di permanenza in Terra Santa. Di primo mattino scendiamo dalle camere con le valigie stracariche dei souvenirs e delle varie cianfrusaglie raccolte lungo tutto il nostro percorso. Salutiamo Betlemme e ci incamminiamo alla volta di Emmaus. Al posto di blocco assistiamo all’affollatissimo e frettoloso passaggio dei palestinesi che lavorano in città e che ogni giorno devono trasbordare da un mezzo di trasporto “palestinese”, percorrere i cento metri del check point a piedi, per riprendere poi un altro veicolo “israeliano” che li attende oltre confine e che li conduce in città. Imbocchiamo la nuovissima arteria a doppia carreggiata che s’inoltra verso l’ampia collina che chiude a ovest la città, chiamata “Monte della gioia”, perché di qui i pellegrini medievali che salivano da Giaffa o da Cesarea davano il primo saluto alla Santa Città. Dall’alto domina il piccolo santuario musulmano di Nabi Samwil, la tomba del profeta Samuele. Fino a due anni fa era una vallata verde e rocciosa: ora è un autentico mare di cemento, migliaia e migliaia di appartamenti che dilagano giù dalla collina a perdita d’occhio... Sono tutti investimenti di Ebrei americani - dicono qui - dacché la città di Gerusalemme fu proclamata capitale unica e indivisibile. Oltre il colle di Nabi Samwil si aprono le ampie vallate di Aialon e Gabaon, le zone della prima conquista al tempo di Giosuè. È qui che Giosuè pronunciò la famosa frase: «Fermati, o sole, su Gabaon e tu, o luna, sulla valle di Aialon» (Gs 10,12), a chiusura di una giornata di vittoria che si voleva non finisse mai! Ora su queste dolci colline, tra poveri villaggi arabi, crescono lottizzazioni ebraiche, villette a schiera e piccole cittadine residenziali, certamente seconda casa di moltissimi gerosolimitani. Un indice puntato verso il cielo, a sud, sta a indicare il villaggio arabo di El-Kubeibeh: è, secondo la teoria e la documentazione più aggiornata, l’antico posto della Emmaus evangelica. Mentre lasciamo la superstrada e ci caliamo su un viottolo montagnoso, stretto e accidentato, mi tornano in mente le scene del film “7 Km da Gerusalemme”: altro scenario il nostro, meno desertico, ma altrettanto abbandonato e fatiscente. «Quello stesso giorno, due discepoli stavano andando verso Emmaus, un villaggio lontano circa undici chilometri da Gerusalemme. Lungo la via parlavano tra loro di quel che era accaduto in Gerusalemme in quei giorni». Probabilmente percorrevano anch’essi la strada che da Gerusalemme portava al mare, le cui tracce, con a fianco botteghe e case medievali, i Francescani hanno messo in luce proprio qui a Emmaus, a fianco di questa chiesa che ricorda l’episodio di Luca 24, sorta sui ruderi della casa di Cleopa, il discepolo che ospitò Gesù per la cena. La chiesa (vedi foto) non è bella, ma è a noi cara perché la consacrò il card. Ferrari nel 1902 durante il primo pellegrinaggio italiano venuto in Terra Santa. «Mentre parlavano e discutevano, Gesù si avvicinò e si mise a camminare con loro. Essi però non lo riconobbero, perché i loro occhi erano come accecati. Gesù domandò loro: Di che cosa state discutendo tra voi mentre camminate?. Essi allora si fermarono, tristi. Uno di loro, un certo Cleopa, disse a Gesù: Sei tu l’unico a Gerusalemme a non sapere quel che è successo in questi ultimi giorni?. Gesù domandò: Che cosa è successo?. Quelli risposero: Il caso di Gesù, il Nazareno! Era un profeta potente davanti a Dio e agli uomini, sia per quel che faceva che per quel che diceva. Ma i capi dei sacerdoti e il popolo l’hanno condannato a morte e l’hanno fatto crocifiggere. Noi speravamo che fosse lui a liberare il popolo d’Israele! Ma siamo già al terzo giorno da quando sono accaduti questi fatti. Una cosa però ci ha sconvolto: alcune donne del nostro gruppo sono andate di buon mattino al sepolcro di Gesù ma non hanno trovato il suo corpo. Allora sono tornate indietro e ci hanno detto di aver avuto una visione: alcuni angeli le hanno assicurate che Gesù è vivo. Poi sono andati al sepolcro altri del nostro gruppo e hanno trovato tutto come avevano detto le donne, ma lui, Gesù, non l’hanno visto. Allora Gesù disse: Voi capite poco davvero; come siete lenti a credere quel che i profeti hanno scritto! Il Messia non doveva forse soffrire queste cose prima di entrare nella sua gloria?. Quindi Gesù spiegò ai due discepoli i passi della Bibbia che lo riguardavano. Cominciò dai libri di Mosè fino agli scritti di tutti i profeti. Intanto arrivarono al villaggio dove erano diretti, e Gesù fece finta di voler continuare il viaggio. Ma quei due discepoli lo trattennero dicendo: Resta con noi perché il sole ormai tramonta». Siamo arrivati anche noi al tramonto del nostro viaggio: tra i rami d’ulivo che arricchiscono questo ampio convento francescano, sotto una magnifica cascata di buganvillee rosso-rosa, ci siamo accomodati in Chiesa per l’ultima celebrazione eucaristica in Terra Santa. «Resta con noi, Signore...», il testo del Vangelo risuona qui con un particolare accento emotivo, con un tocco di nostalgia, ora che il nostro pellegrinaggio è alla fine. Anche noi sapevamo qualcosa dei fatti della vita di Gesù, e siamo venuti qui pieni di speranza. Egli ha camminato invisibile con noi in questi giorni; ci ha parlato un po’ delle Scritture e di se stesso. Il cuore si è riscaldato anche in noi... E ora? Tutto finisce? «Resta con noi, Signore!». «Perciò Gesù entrò nel villaggio per rimanere con loro. Poi si mise a tavola con loro, prese il pane e pronunciò la preghiera di benedizione; lo spezzò e cominciò a distribuirlo. In quel momento gli occhi dei due discepoli si aprirono e riconobbero Gesù, ma lui sparì dalla loro vista. Si dissero l’un l’altro: Noi sentivamo come un fuoco nel cuore, quando egli lungo la via ci parlava e ci spiegava la Bibbia!. Quindi si alzarono e ritornarono subito a Gerusalemme. Là, trovarono gli undici discepoli riuniti con i loro compagni. Questi dicevano: Il Signore è risuscitato veramente ed è apparso a Simone. A loro volta i due discepoli raccontarono quel che era loro accaduto lungo il cammino, e dicevano che lo avevano riconosciuto mentre spezzava il pane» (Lc 24,13-35). Ecco quel che manca: l’incontro con lui vivo! Se già la lettura della Bibbia apre il cuore alla comprensione del mistero di Cristo, è però solo l’esperienza di lui risorto e vivo che ci cambia il cuore e ci fa suoi testimoni e missionari. Ora, ci dice Luca, lui vivo lo si incontra “allo spezzare del pane”, come era chiamata la Messa nella Chiesa apostolica. È nel Sacramento, nel Mistero liturgico, nella presenza vivificante del suo Spirito che oggi noi percepiamo qualcosa di Dio e di Cristo. Siamo venuti in Terra Santa con una certa conoscenza e un certo desiderio di Gesù. Qui ne abbiamo accertato dati e fatti; la lettura della Bibbia ci ha riscaldato il cuore; ma alla fine è l’incontro con lui vivo nel mistero che si celebra lungo l’anno nella nostra Comunità e Chiesa a far scattare la fede e la passione per lui! Non è tutto finito, quando lasciamo questa Terra; il pellegrinaggio è stato premessa; ora tutto inizia a casa, con una celebrazione diversa e più ricca della Liturgia! «Resta con noi, Signore, la sera, e avremo la pace; non ci lasciar, la notte mai più scenderà! Voglio donarti queste mie mani, voglio donarti questo mio cuore. Resta con noi! Ti porteremo ai nostri fratelli, ti porteremo lungo le strade. Resta con noi, non ci lasciar, la notte mai più scenderà». Il nostro viaggio è proprio agli sgoccioli: arriviamo al Ben Gurion e passiamo indenni (salvo una mia valigia che, contenendo due vasetti di marmellata, è stata sezionata scrupolosamente e a più riprese dalla dogana). Giunti alla porta d’imbarco, ci giunge notizia di un notevole ritardo dell'aereo rispetto all’orario previsto, causa ritardi accumulati a Fiumicino prima della sua partenza (eravamo nel pieno caso Alitalia). Ma ringraziando Dio, tutto si è risolto abbastanza velocemente. Quando l’aereo si è staccato dal suolo per riportarci a Roma, un piccolo frammento del mio cuore è rimasto a terra, artigliato a questi luoghi. Il viaggio prosegue senza ulteriori problemi: mi abbandono sul sedile e cerco di riordinare il flusso impetuoso e disordinato dei miei pensieri e delle mie emozioni, elaborando una sequenza logica che poi avrei dovuto concretizzare nella stesura di queste note. Ecco: credo che alla fine di questo viaggio, la sensazione più immediata sia quella di aver fatto una scoperta: una meravigliosa scoperta; o quantomeno di averne preso una più intima coscienza. Questa: che ciascuno di noi siamo oggetto dell’amore gratuito e fedele di un Dio che s’è innamorato di noi! È l’esperienza che fonda la fede. Noi non siamo nessuno; spesso siamo insoddisfatti (anche la persona più amata ha sempre la sensazione che gli manchi qualcosa). È Dio che ci ha fatti per lui e niente in noi s’acquieta se non riposiamo in lui. Solo quando ci sentiamo amati da lui sentiamo sazietà, e abbiamo il coraggio di fronte a tutti di alzare il capo. L’amore di Dio l’abbiamo conosciuto leggendo i profeti: Dio è innamorato come un fidanzato e uno sposo; l’amore di Dio l’abbiamo conosciuto coi fatti capitati sul Calvario, un amore fino alla morte, un amore che è misericordia e perdono, anzi riscatto! «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10); «Egli ci ha amati per primo» (1Gv 4,19); «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). Altra sorprendente scoperta di questo viaggio: entro questo amore si concretizza un progetto su di noi che è enormemente più grande di ogni nostro sogno e desiderio: è il progetto di un uomo - come è capitato a Gesù - che viene rapito entro la divinità, partecipe per sempre della condizione divina. È il progetto dello “sposalizio” scoperto a Nazareth nel mistero dell’incarnazione, reso visibile nel prototipo di uomo apparso a Betlemme, chiarito e garantito da quell’invito a cena che dal Cenacolo si semina ora in ogni Messa, per divenire «commensali di casa Trinità», e Dio «nostro inserviente»! La fede è credere che Dio vede e vuole il mio bene più di quello che vedo e voglio io stesso. È la scoperta della verità più vera di noi stessi, la scoperta che è la verità più grande di ogni altra proposta umana! Atterriamo a Roma, ma il mio enorme cumulo di impressioni, informazioni, emozioni non si tacita... mi domando: non è troppo? Riuscirò a decodificare tanto stoccaggio di belle e grandi cose? Ho provato mettendo insieme queste righe. La comunicazione nella fede è uno degli esercizi più faticosi, ma più utili, perché lo Spirito parla a ognuno; attraverso la lettura di questa rievocazione più o meno condivisibile, lungo le giornate nuovamente immerse nella routine quotidiana, spero che ciascuno possa rivivere le sue esperienze, anche se da angolature e da profondità diverse: ma sono certo: le rivivrà. E questa è la mia piccola provocazione. Grazie, Signore, per l’esperienza di Chiesa che abbiamo fatto, seguendoti lungo le strade della tua terra.
Un grazie...
* a Padre Giuseppe Midili, parroco e nostra guida spirituale, per i suoi interventi e le sue omelie, provocatori e mirati come sempre; * a Enza Lisi, impareggiabile guida, per la sua disponibilità e la grande quantità di emozioni che ha suscitato in ciascuno di noi; * a Don Romeo Maggioni, profondo conoscitore della Terra Santa, per avermi illuminato nella stesura di queste note.
A quando la prossima volta?
Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia mano; la mia lingua si incolli al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non ti metto al di sopra di ogni mia gioia, Gerusalemme! (Sal 137,5-6)
(Mario Labio, Roma ottobre 2008)
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