APPROFONDIMENTI

ANNO 2006

 

 

 

IL cammino della Bibbia nella vita della Chiesa

(31 dicembre 2006)

 

Secondo un recente sondaggio dell’Eurisko «la Bibbia è presente in poco meno del 70% delle case degli italiani, percentuale che sale all’86% tra i cattolici praticanti, ma solo il 4% la legge regolarmente al di fuori delle funzioni religiose mentre il 30% dichiara di non leggerla mai» [1]. E una recente inchiesta in tre paesi europei di antica tradizione cristiana (Italia, Francia e Spagna) riporta che l’80% dei cattolici praticanti accosta il testo biblico solo durante la messa domenicale. Segnala, inoltre, l’ignoranza circa la Bibbia: il 40% ritiene che san Paolo abbia scritto un vangelo e il 26% lo afferma pure per l’apostolo Pietro. Ciò che appare evidente, poi, è che la maggior parte dei cristiani non avverte la Sacra Scrittura come il libro che possa dar senso alla propria vita e fondamento alle scelte del quotidiano. Sembra pertanto ancora attuale l’affermazione di Paul Claudel: «Il rispetto per la Sacra Scrittura è senza limiti: esso si manifesta soprattutto con lo starne lontani!».

Eppure, la situazione – almeno nella chiesa italiana – non appare oggi così disastrosa. Molti passi positivi sono stati fatti in questi ultimi quarant’anni e ci sono segni positivi che fanno guardare con speranza al futuro. Vediamo sinteticamente il cammino percorso e ciò verso cui si sta andando.

1. La Sacra Scrittura: dall’esilio alla sua intronizzazione

a. La Parola in esilio

È ormai entrata nel gergo comune l’espressione del priore della Comunità monastica di Bose, Enzo Bianchi, «l’esilio della Parola», per designare il luogo specifico in cui – almeno dal concilio di Trento – è stata confinata la Sacra Scrittura all’interno della chiesa cattolica. Probabilmente non era questa l’intenzione dei Padri conciliari che nelle loro deliberazioni desideravano solo porre un limite al sola Scriptura di Martin Lutero, ma gli effetti provocati dalla paura di altre «riforme protestanti» sono stati disastrosi: la Bibbia è stata tolta dalle mani dei cristiani cattolici e consegnata al solo clero o ai laici più istruiti che potevano accostarla sempre sotto l’occhio vigile del magistero. Così i singoli fedeli hanno dovuto ripiegare sulle forme di devozione (rosario, coroncina al sacro Cuore, via crucis, Massime eterne, pietà popolare verso la Vergine Maria e i santi, ecc.) per sostenere la loro fede in Cristo e incrementare il cammino di spiritualità cristiana.

Si è venuta a creare progressivamente non solo una contrapposizione, più storica che teologica, tra Bibbia e magistero della chiesa cattolica quanto anche una frattura tra Sacra Scrittura e vita cristiana. La parola di Dio scritta non è più la fonte cui si abbevera il popolo di Dio per dare solide fondamenta alla propria scelta di fede, per trarne motivazioni forti che sostengano l’agire nell’ambito della storia e della carità, per guardare il cammino personale, ecclesiale e sociale con lo sguardo fiducioso di Dio.

b. Il «risveglio biblico» e la Dei Verbum

Dall’esilio la Parola [2] è ritornata un po’ alla volta e con passi lenti all’interno della chiesa cattolica grazie ai vari «risvegli» (come quello liturgico, quello patristico e soprattutto quello biblico) che hanno preparato e animato il concilio Vaticano II (1962-1965). Si deve, infatti, a tale evento ecclesiale se la Parola è stata riportata all’interno delle comunità cristiane cattoliche, fino a essere «intronizzata» quale nuova regina che occupa il posto d’onore nelle assemblee comunitarie.

Per la verità, nel contesto della chiesa italiana, il risveglio più che di tipo «biblico» è stato prevalentemente «esegetico»: si è cercato di studiare il testo sacro ricorrendo ai vari metodi storico-critici e a divulgarne le acquisizioni, sempre però sotto l’occhio vigile dei pastori.

Certo, non è mai stato negato il valore fondamentale della Scrittura per la vita del cristiano, ma essa veniva filtrata, comunicata solo tramite il magistero della chiesa: la pretesa di molti cristiani di ricorrervi direttamente e di riceverne ispirazione di vita era vista con una certa diffidenza. In pratica, se la Scrittura era la fonte fondamentale per la dottrina della chiesa, era assai meno una fonte di vita spirituale [3].

È grazie all’azione coraggiosa di alcuni «buoni samaritani» che la Sacra Scrittura ha ritrovato un po’ alla volta il posto che le è proprio nella vita della chiesa intera e di ogni credente. Tra questi certamente il beato Giovanni XXIII che già quand’era cardinale di Venezia aveva avuto il coraggio di attestare che «la Bibbia deve fare sempre questo percorso: nella mano, nella mente, nel cuore e sulle labbra» di ogni cristiano cattolico. Deve essere, cioè accessibile a tutti («nella mano»), va interpretata con sapiente intelligenza («nella mente»), si deve ascoltare con «amore orante» («nel cuore») perché possa essere testimoniata con le parole e con le opere («sulle labbra»). Effettivamente, la chiesa cattolica – in quella «grande grazia di cui […] ha beneficiato nel secolo XX» [4], vale a dire il concilio ecumenico Vaticano II – ha accolto e venerato finalmente la Bibbia «come ha fatto per il corpo stesso del Signore», considerandola «insieme con la sacra tradizione […] come la regola suprema della propria fede», tanto «da costituire per la Chiesa sostegno e vigore, e per i figli della Chiesa saldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale» (DV 21).

Dopo le affermazioni della Sacrosanctum concilium che ridavano spessore e importanza alla «liturgia della Parola» nell’ambito delle celebrazioni liturgiche (cf. SC 24-25; 33-35; 51-52; 56), è la Dei Verbum a garantire la giusta centralità alla parola di Dio nella vita della chiesa indicando ad essa l’atteggiamento da assumere: «In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia» (DV 1). Ed è in modo particolare nel capitolo VI (La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa) che tutta la vita ecclesiale viene ancorata alla parola di Dio:

La parola di Dio e il popolo di Dio ritrovano finalmente la loro nativa relazione, una relazione nuziale, di cui la Bibbia è come l’anello che Dio restituisce al suo popolo dopo anni di oscuramento e oblio [5].

c. La «prima primavera» della Sacra Scrittura nella chiesa italiana

La chiesa italiana – specie nei suoi convegni decennali in cui si è proposta di «confermare e rafforzare quella centralità e priorità dell’evangelizzazione che già costituiva l’intento fondamentale del concilio Vaticano II» [6] – si è adoperata a realizzare il sogno dei padri conciliari:

Come dall’assidua frequenza al ministero eucaristico prende vigore la vita della Chiesa, così è lecito sperare nuovo impulso di vita spirituale dall’accresciuta venerazione della parola di Dio (DV 26).

Nei primi trent’anni circa del post-concilio, infatti, si è visto un fiorire di iniziative dette «di pastorale biblica». Esse hanno portato – grazie anche alla riforma liturgica per la quale «massima è l’importanza della Sacra Scrittura» tanto da chiedere «che venga promossa» una «soave e viva conoscenza» di essa (SC 24) – a una sempre maggior presenza della Bibbia nella vita delle comunità cristiane e dei singoli fedeli. Non solo è radicalmente cambiato l’insegnamento dell’esegesi biblica all’interno dei seminari nel tentativo di fare della Sacra Scrittura «come l’anima della teologia» (DV 24), ma si sono attivati – sia presso le Scuole di formazione teologica per laici sorte in quasi tutte le diocesi, sia presso singole comunità parrocchiali – corsi specifici di approfondimento del testo sacro, valorizzando la preparazione scientifica e pastorale dei biblisti italiani. Anche gli ordini religiosi di antica fondazione, le società di vita apostolica e gli istituti secolari si sono adeguati al nuovo «clima religioso», attivando percorsi formativi di «pastorale biblica». È, questa, la nuova espressione che – ripetuta in modo a volte ossessivo e quasi magico – ha aperto fiduciosamente la chiesa italiana nella speranza di riuscire a offrire «con frutto al popolo di Dio l’alimento delle Scritture, che illumini la mente, corrobori le volontà, accenda i cuori degli uomini all’amore di Dio» (DV 23). Per questo motivo la CEI ha dato avvio (siamo nel 1988) al «Settore per l’Apostolato biblico» (SAB), «settore non evidentemente della pastorale (la Bibbia non può costituire un settore) ma Settore dell’Ufficio catechistico nazionale!» (L. Chiarinelli).

Bisogna riconoscere, però, che la «primavera biblica» non è stata uniforme né costante: spesso ha coinvolto singole persone che lodevolmente si sono impegnate ad approfondire il testo biblico; altre volte sono stati i centri di spiritualità a farsi punto di irradiazione dell’ascolto della Parola (cf. Spello, Bose, Monteveglio, ecc.); altre ancora ha visto movimenti ecclesiali di recente fondazione prendere in mano la Bibbia per collocarla alla base del loro cammino (cf. Movimento dei focolari e Cammino neocatecumenale). Un po’ alla volta però la stanchezza si è fatta sentire e ha portato a una «sfioritura» della pastorale biblica, relegata spesso a esperienza riservata a delle élites (singoli appassionati, gruppi biblici specifici, movimenti ecclesiali, ecc.) o agli «esperti del settore» (esegeti di professione, cultori delle scienze bibliche, iniziative laicali…). In qualche caso, poi, si è assistito anche a una crisi di «rigetto biblico»: molti gruppi biblici hanno cessato di esistere per mancanza di passione autentica verso la Parola o per mancanza di vitalità interna; parecchi pastori e catechisti si sono trovati a disagio di fronte a certe pagine difficili della Bibbia, mancando di competenza esegetica e di creatività nell’attualizzazione; qualche vescovo si è allarmato per l’uso che determinati gruppi o movimenti ecclesiali facevano della Bibbia.

d. La «seconda primavera» della Sacra Scrittura nella chiesa italiana

Quando la «sfioritura» sembrava destinata a rimandare nuovamente in esilio la Sacra Scrittura, ecco sbocciare una «nuova primavera biblica». Tra le altre cause che possono averla favorita, certamente l’uscita provvidenziale di due documenti e la presa di posizione degli stessi vescovi italiani.

A livello di documenti, prima di tutto quello della Pontificia Commissione biblica L’interpretazione della Bibbia nella chiesa del 1993, e poi – per quel che riguarda la chiesa italiana – la Nota pastorale CEI La Parola del Signore si diffonda e sia glorificata (2Ts 3,1). La Bibbia nella vita della chiesa, del 1995, a trent’anni dalla costituzione conciliare sulla divina rivelazione, la Dei Verbum [7]. A questo bisogna aggiungere tutto il lavoro – a volte nascosto eppure efficace – di molti biblisti e cultori della scienza biblica che hanno continuato non solo l’insegnamento serio, ma hanno anche divulgato il testo sacro attraverso scritti e proposte specifiche per varie fasce di credenti.

Inoltre, nuovo impulso all’accostamento della Sacra Scrittura viene dalla decisione di avviare – all’interno dell’Ufficio catechistico di ogni diocesi – il «Settore Apostolato biblico» e dalla maturata consapevolezza dell’importanza della parola di Dio scritta per l’evangelizzazione da parte dei vescovi italiani, come appare dalla loro XLIII Assemblea generale (Roma, 19-23 maggio 1997) [8]. Questo ha indotto molti pastori ad animare in prima persona percorsi biblici e scuole della Parola nelle loro diocesi o a favorire cammini di crescita nella fede a partire dall’accostamento della Sacra Scrittura. Possiamo dire che una seria «catechesi per adulti», fondata sull’ascolto della Parola, ha iniziato a dare i suoi frutti. Uno di questi è l’introduzione – in molte comunità ecclesiali – della figura «ministeriale» dell’«animatore biblico», di chi cioè non presta un qualsiasi servizio biblico, ma si impegna con competenza e professionalità a farsi testimone della Parola ascoltata e educatore capace di iniziare altri a accostare con serietà e profondità la sacra Bibbia [9].

La nuova espressione corrente non è più «pastorale biblica» quanto «animazione biblica della pastorale», così descritta dalla Nota pastorale CEI:

La Bibbia e la vita pastorale che la serve entrano in tutta la vita della chiesa, come linfa per ogni servizio della fede: nel cammino di annuncio e di catechesi, nella celebrazione della liturgia, nella preghiera e riflessione spirituale, sia personale che comunitaria, nella testimonianza della carità, nell’impegno ecumenico e nel dialogo interreligioso. La pastorale biblica dovrà dunque permeare l’intera pastorale della chiesa. Suo scopo ultimo e unificante sarà di iniziare alla vita di fede e all’esperienza ecclesiale con il dono delle Scritture [10].

2. Dalla conoscenza della Bibbia all’ascolto della Parola

Il ricupero dell’intuizione che per secoli – nella cosiddetta «epoca patristica» – aveva guidato l’azione pastorale della chiesa sia d’Oriente che d’Occidente sta un po’ alla volta obbligando tutti a considerare la Sacra Scrittura non semplicemente «un» libro da collocare tra altri (come, per esempio, il catechismo) quanto piuttosto «il» libro per eccellenza su cui si fonda la vita stessa della chiesa. «Animazione biblica della pastorale» e dell’intera vita ecclesiale significa, pertanto, considerare la Bibbia come «documento di fondazione» della chiesa stessa e della sua vita, resa tale e dinamicizzata proprio dal «colloquio continuo, silenzioso ma non meno ardente che la chiesa intesse con il suo Signore». Al primo posto dell’esperienza cristiana viene collocato, pertanto,

l’annuncio e l’ascolto della Parola, cui è indissolubilmente legata la celebrazione della Parola nel sacramento; l’ascolto e la celebrazione si traducono poi necessariamente in esperienza di vita secondo la Parola, con la testimonianza, il servizio e la carità. Infine, la Parola termina la sua corsa quando si fa missionaria [11].

Trova consistenza, in questo modo, quanto espresso dai padri conciliari in DV 25: prima di tutto che i ministri della Parola abbiano un «contatto continuo con le Scritture, mediante una lettura spirituale assidua e uno studio accurato». In secondo luogo, che «tutti i fedeli cristiani, soprattutto i religiosi» possano imparare «“la sublime conoscenza di Gesù Cristo” (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture», ricordando «che la lettura della sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo».

Non è sufficiente, pertanto, conoscere la Bibbia magari utilizzando in modo corretto i più sofisticati metodi di lettura di un testo antico e distante dal mondo del lettore d’oggi. È necessario mettersi – singolarmente e come comunità ecclesiale – in ascolto della Parola, o meglio, di colui che parla ancora attraverso il testo ispirato.

a. Una «spiritualità dell’ascolto» per comunicare il vangelo

A incamminare con più decisione la vita della chiesa verso queste indicazioni conciliari sono anche alcuni recenti documenti del magistero. A livello di chiesa universale abbiamo Novo millennio ineunte che ai nn. 39-40 parla della necessità che (per la nuova evangelizzazione) tutti i cristiani tornino a farsi «uditori della Parola» per poter essere poi suoi «servitori» mediante l’annuncio. Pure in ambito italiano, gli orientamenti pastorali per il primo decennio del 2000, Comunicare il vangelo in un mondo che cambia (29 giugno 2001 = CiV), insistono sulla necessità di coltivare «l’assiduo contatto, personale e comunitario, con la Bibbia, diffondendone il testo, promuovendone la conoscenza, anche con incontri e gruppi biblici, sostenendone una lettura sapienziale, aiutando a pregare con la Bibbia soprattutto nelle famiglie» (n. 49).

Un dato emerge da questi documenti e fa sempre più capolino nel vissuto della chiesa italiana, e cioè la necessità di maturare un’autentica «spiritualità dell’ascolto» della Parola per poter proporre «una vera e propria pedagogia della santità, che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone» e condurle alla «“misura alta” della vita cristiana ordinaria» indicata da Giovanni Paolo II come «santità» (NMI 30). Senza una vita ecclesiale fondata sull’ascolto della Parola sembra difficile avviare una pastorale di «prima evangelizzazione» nelle nostre terre, e appare problematico prospettare cammini di ri-evangelizzazione per chi manifesta il desiderio di riaccostarsi alla fede cristiana e alla chiesa dopo anni di allontanamento e di indifferenza. La «priorità per la chiesa all’inizio del nuovo millennio» nell’impegno dell’evangelizzazione, infatti, viene indicata con lo slogan: «Nutrirci della Parola, per essere “servi della Parola”» (NMI 40). E i nostri vescovi fanno eco alle affermazioni del papa con queste espressioni:

La parola di Dio, che è capace di farci apostoli, ci chiede anzitutto di essere discepoli. I cristiani maturi dovrebbero essere dei «rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23). Così nasce la chiesa e così vive e si espande. Va dunque attentamente meditato il fatto che essa è chiamata a essere il luogo nel quale si riuniscono coloro che anzitutto vengono evangelizzati. Sarebbe assurdo pretendere di evangelizzare, se per primi non si desiderasse costantemente di essere evangelizzati. Dovremmo nutrirci della parola di Dio «bramandola», come il bambino cerca il latte di sua madre (cf. 1Pt 2,2): per la vitalità della chiesa, questa è un’esperienza essenziale (CiV 47).

b. Un «nuovo entusiasmo» per la parola di Dio attraverso la pratica della lectio divina?

Nell’omelia tenuta in occasione della presa di possesso di San Giovanni in Laterano come vescovo di Roma, il beato Giovanni XXIII così si esprimeva:

Se tutte le sollecitudini del ministero pastorale ci sono care e ne avvertiamo l’urgenza, soprattutto sentiamo di dover sollevare da per tutto e con continuità di azione l’entusiasmo per ogni manifestazione del libro divino, che è fatto per illuminare dall’infanzia alla più tarda età del cammino.

È per suscitare oggi tale entusiasmo per la parola di Dio che possiamo accogliere l’esortazione di Giovanni Paolo II: «Chiesa in Europa, entra nel nuovo millennio con il libro del Vangelo!» (Ecclesia in Europa, 65). Nel nuovo millennio siamo entrati; l’Europa – e in essa l’Italia – attende che i cristiani riprendano in mano non solo il vangelo quanto l’intera Sacra Scrittura!

È in questo orizzonte che possiamo collocare i ripetuti interventi in proposito di papa Benedetto XVI. Nel discorso ai partecipanti al Congresso internazionale «La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa» nel 40° della promulgazione della Dei Verbum (Roma, 14-18 settembre 2005) così si è espresso:

La chiesa non vive di se stessa ma del Vangelo e dal Vangelo sempre e nuovamente trae orientamento per il suo cammino. È una annotazione che ogni cristiano deve raccogliere e applicare a se stesso: solo chi si pone innanzitutto in ascolto della Parola può poi diventarne annunciatore. Egli infatti non deve insegnare una sua propria sapienza, ma la sapienza di Dio, che spesso appare stoltezza agli occhi del mondo (cf. 1Cor 1,23).

E come esperienza concreta per realizzare questo indica la lectio divina:

In questo contesto, vorrei soprattutto evocare e raccomandare l’antica tradizione della lectio divina: l’assidua lettura della Sacra Scrittura accompagnata dalla preghiera realizza quell’intimo colloquio in cui, leggendo, si ascolta Dio che parla e, pregando, gli si risponde con fiduciosa apertura del cuore (cf. DV 25). Questa prassi, se efficacemente promossa, recherà alla chiesa – ne sono convinto – una nuova primavera spirituale. Quale punto fermo della pastorale biblica, la lectio divina va perciò ulteriormente incoraggiata, mediante l’utilizzo anche di metodi nuovi, attentamente ponderati, al passo con i tempi. Mai si deve dimenticare che la parola di Dio è lampada per i nostri passi e luce sul nostro cammino (cf. Sal 118/119, 105).

Benedetto XVI torna su questo tema nell’Angelus del 6 novembre 2006 ma soprattutto – ed è una sorpresa per tutti! – nel suo messaggio per la XXI Giornata mondiale della gioventù (9 aprile 2006):

Cari giovani, vi esorto ad acquistare dimestichezza con la Bibbia, a tenerla a portata di mano, perché sia per voi come una bussola che indica la strada da seguire. Leggendola, imparerete a conoscere Cristo. Osserva in proposito san Girolamo: «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (PL 24,17; cf. DV 25). Una via ben collaudata per approfondire e gustare la parola di Dio è la lectio divina, che costituisce un vero e proprio itinerario spirituale a tappe.

3. Verso una conclusione aperta

Belle e incoraggianti parole, quelle del papa! Bisogna tener presente, infatti, che esiste anche una contestazione silenziosa all’interno della chiesa italiana che si chiama «indifferenza»: molti pastori in cura d’anime (da vescovi a sacerdoti) e molte persone consacrate semplicemente ignorano non solo la lectio divina, ma anche le altre modalità di accostamento della Sacra Scrittura. Sembrano, pertanto, più preoccupati dei sacramenti e della gestione della comunità ecclesiale che dell’evangelizzazione e soprattutto della spiritualità cristiana. La domanda, infatti, a cui dare risposta è: quale spiritualità si desidera coltivare e favorire nelle comunità cristiane del nuovo millennio se si vuol almeno tentare di avviare un cammino che porti a «riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall’ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste»? Per vivere una «nuova evangelizzazione» «occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani» (NMI 40). Non si tratta più di delegare a singoli volonterosi l’evangelizzazione, ma di viverla e sostenerla da parte dell’intera comunità ecclesiale: a partire da quale esperienza risulta possibile ciò, se non favorendo una «spiritualità dell’ascolto» perché non un singolo «gruppo biblico», ma tutta la comunità sia «gruppo biblico»?

Inoltre, ci sono carenze su cui riflettere e dalle quali partire per migliorare l’ascolto della Parola all’interno delle nostre comunità ecclesiali. Ne segnalo solo alcune, tra le più vistose [12].

a) Un’evidente mancanza di attenzione alla dimensione dell’ascolto della Parola da parte di più di qualche pastore d’anime o di responsabili di associazioni, movimenti, gruppi ecclesiali.

b) Un certo elitarismo che tende a volte a sequestrare l’ascolto della Sacra Scrittura all’interno di gruppi scelti, impedendo alla maggioranza di usufruire di esperienze significative, e altre volte a delegare al solito «gruppo di patiti» la pratica della lectio divina o, in generale, dell’ascolto della Parola in forme continuative nel tempo.

c) La tendenza a un esagerato «biblicismo» che – senza volerlo – riproduce il sola Scriptura protestante, tralasciando (in ambito cattolico) l’apporto della tradizione della chiesa, dell’approfondimento teologico di determinate tematiche della vita cristiana, della riflessione catechistica che cerca una mediazione con la concretezza della vita. In altre parole, si rischia una separazione tra parola di Dio, tradizione e teologia, pastorale e celebrazione liturgica.

d) La tentazione di un certo spiritualismo che – come conseguenza della frattura sopra segnalata tra i diversi ambiti della vita ecclesiale – porta ad accostare il testo biblico «con una certa propensione estetizzante che fa della Bibbia e della preghiera oggetti di una fruizione tutta interiore, non il principio di una esistenza nuova, anche dal punto di vista delle relazioni e dei comportamenti» [13].

Alla luce di quanto detto mi sembra importante che – al di là della modalità di accostamento della parola di Dio contenuta nella Scrittura – si operino, con costanza, alcune «conversioni pastorali». Ne ricordo quattro, tra le tante possibili e necessarie.

a) Favorire con coraggio e fantasia pastorale l’ascolto comunitario di Dio che parla nella Bibbia da lui ispirata e affidata a tutti i suoi fedeli. Questo per fare delle nostre comunità autentiche «comunità di ascolto».

b) Passare dal «procedere in ordine sparso» a livello – per esempio – di organismi diocesani, al costruire autentici itinerari di fondamento e di crescita nella fede, come suggerito da CiV che raccomanda di «configurare la pastorale secondo il modello dell’iniziazione cristiana» (n. 59), precisato ora nelle tre recenti Note che cercano di rendere operativo il Rito per l’iniziazione cristiana degli adulti.

c) Incoraggiare, poi, il passaggio dalla semplice «lettura del testo biblico» all’ascolto e annuncio del kerygma il cui nucleo centrale è «il mistero di Cristo, fondamento assoluto di ogni nostra azione pastorale» (NMI 15).

d) Approdare, infine, alla liturgia come «fonte e culmine» di ogni ascolto personale e comunitario, nella consapevolezza che «l’economia e il dono della salvezza che la parola di Dio continuamente richiama e comunica, proprio nell’azione liturgica raggiunge la pienezza del suo significato; così la celebrazione liturgica diventa una continua, piena ed efficace proclamazione della parola di Dio» [14]. (Credere Oggi,  Gianni Cappelletto, 156/2006)

 

NOTE:

[1]C. Uguccioni, Quella sete della Parola, in «Jesus» 38 (5/2006) 50.

[2] Si tenga presente che l’espressione «parola di Dio» è più ampia del testo sacro che la contiene (cf. DV 24). La Sacra Scrittura è attestazione storica privilegiata della rivelazione, di quella Parola che si è fatta evento e si è comunicata agli uomini attraverso molteplici parole e particolarmente in Gesù, con la sua vita e i suoi insegnamenti. Qui intendiamo parlare proprio della parola di Dio contenuta nella Bibbia.

[3] G. Butterini, Il risveglio biblico prima e dopo il Vaticano II, in «CredereOggi» 6 (6/1981) 11.

[4] Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte (6.12.2001) (= NMI), n. 57.

[5] C. Bissoli, La Sacra Scrittura nella vita della chiesa, in «CredereOggi» 82 (4/1994) 83 (il corsivo è nell’originale).

[6] Conferenza episcopale italiana (= CEI), Evangelizzazione e testimonianza della carità. Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per gli anni ’90 (8.12.1990), n. 7.

[7] Il testo integrale dei due documenti si trova in B. Maggioni (ed.), La Sacra Scrittura. I documenti ufficiali della chiesa, Massimo, Milano 1996, pp. 109-230; 251-290.

[8] Cf. Ufficio catechistico nazionale-SAB, La Bibbia nel magistero dei vescovi italiani. Documenti della XLIII Assemblea generale della CEI (Roma, 19-23 maggio 1997), LDC, Leumann (TO) 1998.

[9] Per questo oggi si preferisce parlare di «“ministro della Parola”, secondo quanto compare nella stessa DV 23. Non per un gioco di nomi, ma per il riconoscimento di un ministero vero e proprio, con ciò che ne consegue nella vita e nella guida della chiesa» (C. Bissoli, Apostolato biblico: a che punto siamo?, in «Settimana» 6 [12 febbraio 2006] 16).

[10] CEI, Nota pastorale La Parola del Signore si diffonda e sia glorificata (2Ts 3,1). La Bibbia nella vita della chiesa (18.11.1995), n. 20, anche n. 28.

[11] Ibid., n. 19.

[12] Altre sono segnalate da C. Biscontin, Dalla Parola annunciata e celebrata alla vita vissuta, in «CredereOggi» 150 (6/2005) 37-46.

[13] G. Angelini, La fede, altrove? Lo spiritualismo, un’insidia per il cattolicesimo oggi, in «La Rivista del Clero Italiano» 85 (2/2004) 87-105.

[14] Lezionario, Introduzione, n. 4.

 

 

 

 


 

La nuova biografia di Papa Giovanni XXIII

smentisce numerosi luoghi comuni

 (Domenica 24 dicembre 2006)

 

La storia del Beato Pontefice Giovanni XXIII è ancora al centro di un intenso dibattito e di numerosi luoghi comuni che ne deformano la figura intellettuale e spirituale.

Per far chiarezza sull’intera vicenda, Marco Roncalli ha pubblicato in questi giorni il libro dal titolo : “Giovanni XXIII - Angelo Giuseppe Roncalli. Una vita nella storia” (Milano, Mondadori 2006, pagine 791, Euro 26).

L'autore è pronipote del Papa Giovanni XXIII, di cui ha tra l'altro curato il carteggio (1933-1962) tra Loris Francesco Capovilla, Giuseppe De Luca e Angelo Giuseppe Roncalli, pubblicato quest'anno dalle Edizioni di Storia e Letteratura.

Per approfondire l’intera parabola umana e spirituale di Angelo Giuseppe Roncalli ed esplorare le reali aspettative del Papa circa i problemi della fede e dell’annuncio del Vangelo,  ecco l'intervista all'autore.

 Quali sono i luoghi comuni che intende sconfessare circa la vicenda umana e spirituale del Beato e amatissimo Pontefice Giovanni XXIII?

Marco Roncalli: Direi che sono molti. Emergono con chiarezza se si vagliano con attenzione tutte le fonti roncalliane, in particolare quelle inedite: penso a certi quaderni giovanili, alle agende o diari, ad alcuni epistolari od omeliari, ma mi riferisco anche a documentazione che riguarda la sua figura emersa da vari archivi e conosciuta da pochi specialisti nei convegni più recenti. E possiamo cominciare da lontano. Pensiamo al logoro cliché di un Roncalli contadino quasi depositario di una sapienza ancestrale. E’ vero le radici sono importanti, la sua famiglia pure, ma non dimentichiamoci che è entrato da bambino in seminario e quella è stata subito la sua nuova famiglia. Il seminario ha formato l’uomo e l’uomo di Chiesa.

Insomma l’estrazione sociale di Roncalli non è un fatto secondario (sebbene comune a larga parte del clero settentrionale all’inizio del Novecento): derivano probabilmente da lì certa tenacia e costanza, unite a un forte senso pratico e al rispetto dei tempi necessari a ogni ciclo (emblematicamente il momento della “semina” e quello del “raccolto” o la “fedeltà alla terra”), tutti elementi del suo carattere. E da lì deriva anche una certa armonia tra natura e sopranatura, un modo di vivere il presente guardando il futuro con una fiducia incondizionata nella provvidenza di Dio. Però, ripeto, il cliché del Roncalli prodotto esclusivo di una cultura contadina, o del figlio della campagna diventato Papa che non dimentica gli “ultimi”, come se appunto le radici di Roncalli sic et simpliciter potessero spiegarci tutto, non regge da solo. E’ invece a cominciare dagli anni di seminario, che senza rompere o attenuare il legame con i suoi e la sua terra, matura presto in lui la coscienza di essere membro della Chiesa universale. Eletto Papa disse subito che la sua famiglia era il mondo.

Altro clichè quello di un Roncalli semplice semplice, mentre chi studia la sua vita ha davanti non solo una figura complessa, ma una figura dove la cultura ha avuto un ruolo importante, gli studi, gli incontri con scrittori, filosofi, teologi, eccetera, lungo tutta la vita. Così, esplorando gli archivi, troviamo un giovanissimo Roncalli che è sì quello sin qui noto del “Giornale dell’anima”, il suo zibaldone spirituale, ma anche quello di un seminarista molto sensibile, attento agli orizzonti più vasti della cultura del suo tempo. Eccolo all’alba del Novecento ben consapevole del rapporto problematico tra tradizione e rinnovamento, della necessità di una progressiva attenzione della Chiesa alle nuove istanze culturali. Chi ad esempio sfoglia un suo quaderno di appunti inediti da lui intitolato “Ad omnia”, lo vede interrogarsi non solo sul fenomeno del “modernismo”, una tempesta attraverso la quale passa anche lui, ma anche sull’ “americanismo: monsignor John Spalding, John Ireland, il Cardinal James Gibbons, con le loro ipotesi ecclesiologiche, la loro concezione del confronto ineludibile tra il cristianesimo e la modernità.

Altro punto: spesso si è fatto passare Papa Giovanni per un Papa debole, che subiva. Invece, se proprio non si vogliono pesare in modo corretto i suoi gesti, basta leggere le sue agende o diari per rendersi conto di quanto sapesse muoversi con piglio. Alcuni biografi hanno detto che Giovanni XXIII leggeva all’ultimo minuto testi preparati da altri. Niente di più falso. Diverse note diaristiche documentano giornate tutte occupate a preparare di suo pugno discorsi. Scrive ad esempio il 28 giugno 1962: “Giornata di vigilia di S. Pietro: tutta occupata a preparare il discorso a S. Pietro dopo i Vespri. Mi costò un poco il combinarlo, parola per parola come faccio, e tutto da me in queste circostanze. Ma infine anche se non sempre sono incantato di me stesso, sono contento di compiere una funzione, e di trasfondere nel clero, e nei fedeli un sentimento che è tutto mio. Papa lo sono per volontà del Signore che mi è buon testimonio: ma di essere pappagallo che ripete a memoria il pensiero e la voce altrui, proprio mi mortifica”.

Certo probabilmente era nato – usando uno slogan – “per benedire e non per condannare”, ma il suo essere umile o gentile non equivaleva a essere debole o accomodante. Certo meno decisionista del suo predecessore tuttavia lasciava la mitezza quando diventava un alibi per gli altri. Penso al maggio del ’62, perdurando la cosiddetta crisi dell’esegesi biblica, e vista la latitanza dell’omonima commissione, per non dire degli attriti nei confronti del lavoro del Cardinale Agostino Bea, sempre più attivo nella preparazione del Concilio, scrisse al Cardinale Eugenio Tisserant una lettera che pare un ultimatum: “O la commissione biblica intende muoversi, lavorare e provvedere, suggerendo al Santo Padre apprestamenti opportuni alle esigenze dell’ora attuale; o val la pena che si sciolga e l’autorità superiore provveda in Domino ad una ricostituzione di questo organismo. Ma occorre assolutamente togliere l’impressione circa le incertezze che circolano qua e là, e non fanno onore a nessuno, di timori circa posizioni nette che conviene prendere circa indirizzi di persone e di scuole [...] Sarebbe motivo di grande consolazione se colla preparazione del concilio ecumenico si potesse riuscire ad una commissione biblica di tale risonanza e dignità da divenire punto di richiamo e di rispetto per tutti i nostri fratelli separati che, abbandonando la Chiesa cattolica, si rifugiarono come a scampo e a salvezza sotto le ombre del Libro sacro, variamente letto ed interpretato”.

Questo dato emerge anche nei rapporti con i suoi collaboratori. Quando qualcuno faceva qualcosa di non gradito pur attento a salvaguardare i rapporti non temeva di farlo capire ai suoi interlocutori. E’ accaduto specialmente con il Cardinale Alfredo Ottaviani, ma anche con il Cardinale Angelo Dell’Acqua. Un esempio? Quest’ultimo – all’indomani della crisi ministeriale dell’inverno 1961 che aveva avuto al centro Fanfani – si era accorto che il Papa era piuttosto freddo con lui. Motivo? Si era venuti a sapere che il Sostituto della Segreteria di Stato Dell’Acqua aveva mangiato a casa Fanfani e la cena familiare era diventata grazie al passaparola in Curia un incontro per la definizione della squadra di governo con il ruolo rilevante di Dell’Acqua. La pronta chiarificazione del Sostituto fu occasione per sentire dal Papa parole di smarcamento dalle questioni politiche italiane: “Mi avevano detto altrimenti e mi dispiace! Noi non possiamo occuparci in questioni che riguardano esclusivamente lo Stato italiano; non siamo noi che dobbiamo intervenire in questa materia, compilare la lista! Ero però pronto a toglierle l’amicizia”. Gli esempi con Ottaviani sono più numerosi. E così Giovanni XXIII interviene direttamente su Ottaviani, quando è preoccupato dell’identità del Sant’Uffizio che rischia di essere non più come scrive sul suo diario quel “monastero di strettissima clausura lasciato al suo compito, severo certamente ma riservatissimo, in quanto concerne la vigilanza, la custodia, la difesa della dottrina e dei precetti del Signore”, non più la “Suprema Congregazione della quale è il Papa il vero Superiore” e “dalla cui autorità tutto deve dipendere e di diritto e di fatto dipende, almeno negli affari più importanti e significativi”, ma il “baluardo” attorno al quale, pur nella prospettiva di difendere i valori cristiani, si finisce per fare politica spicciola…

Anche recentemente si è parlato di un Papa ingenuo davanti a Kruscev. Leggiamo cosa scrive Giovanni XXIII sul diario il 20 settembre 1961, dopo che per la prima volta – commentando il radiomessaggio papale del 10 settembre – il leader sovietico parlava bene del Papa. Questo il suo commento più intimo: “A sera alla Tv c’è la comunicazione di Kruscev, il despota della Russia, alle mie invocazioni agli uomini di stato per la pace: rispettose, calme, comprensibili. Credo sia la prima volta che le parole invitatrici alla pace del Papa siano state trattate con rispetto. Quanto alla sincerità delle intenzioni di chi tiene a professarsi ateo e materialista, anche quando dice bene dalla parola del Papa, il crederci proprio è tutta un’altra cosa. Intanto meglio questo che il silenzio o il disprezzo. Deus vertat monstra in bonum”. Può bastare?

Quali erano le reali attese del Pontefice in merito al Concilio Vaticano II?

Marco Roncalli: Leggendo gli ultimi quattro capitoli del libro vedrà come allargo spesso lo zoom proprio sul Concilio. Anche sulla base di nuove fonti racconto come è germinata quest’idea, come è stata recepita, seguo l’avventura del Vaticano II nello sprigionarsi della prima idea, nella fase antepreparatoria, in quella preparatoria, sino all’avvio dando conto anche di un confronto libero –quello che il Papa chiamava la santa libertà dei figli di Dio – vista in tutto il mondo. E mi fermo sulle ansietà e le consolazioni del Papa che ogni giorno pensa al Concilio.

Il Concilio non era una sua invenzione: era lo strumento prezioso collaudato in quella storia della Chiesa a lui ben nota. Lo strumento che gli avrebbe consentito d’interpretare nel solco della tradizione, ma aperto all’aggiornamento, il ruolo al quale era stato chiamato: uno strumento che gli avrebbe permesso di far avanzare la Chiesa nel suo cammino al passo con il mondo, interrogando tutto l’episcopato coinvolto nell’esercizio della collegialità in una dilatata riflessione “universale”. Ma torniamo all’inizio di tutto. L’idea del Concilio: come avrebbe dichiarato non era maturata dentro di lui “come il frutto di una prolungata meditazione, ma come il fiore spontaneo di una primavera insperata”. Avrebbe dunque applicato a sé quella regola spirituale assai familiare “dell’assoluta semplicità ad accogliere le ispirazioni divine e d’una pronta sottomissione alle esigenze apostoliche dell’ora”. “Per l’annuncio del Concilio Ecumenico Noi abbiamo ascoltato una ispirazione; Noi ne abbiamo considerato la spontaneità, nell’umiltà della nostra anima”, disse in un messaggio al clero veneziano. Certo, ebbe il plauso del Segretario di Stato Domenico Tardini, come documenta il diario di quest’ultimo, e restano le dichiarazioni del Cardinale Ruffini e di altri che sostengono – fatto plausibile di aver suggerito al Papa l’idea di un Concilio – un’idea che del resto, secondo diverse deposizioni univoche e concordanti, Roncalli aveva pure già esternato ripetutamente negli anni della delegazione di Istanbul a monsignor Righi, della Nunziatura parigina a Jacquin dell’Institut Catholique, del patriarcato veneziano a monsignor Bortignon e persino al nipote Privato Roncalli, mio padre. E va sottolineato che la convocazione di un Concilio era stata già considerata almeno due volte nel Novecento, da parte di Pio XI nel 1923 (che poi lasciò cadere il tutto nell’attesa di veder risolta la “questione romana”), e da parte di Pio XII (al quale proprio Ruffini e Ottaviani avevano preparato un memorandum che elencava le ragioni per una convocazione). Si trattava di due abbozzi tenuti a lungo rigidamente segreti, per il secondo dei quali responsabile generale di tutti i lavori preparatori era stato nominato monsignor Francesco Borgoncini Duca, un amico di Roncalli che pure potrebbe averne parlato con lui, ma prima del 1954 anno in cui morì. E non è tutto. A sostenere da tempo come “necessità” o come “auspicio” un Concilio sono stati in passato anche altri prelati come monsignor Celso Costantini, autore di un lungo dossier datato 15 febbraio 1939 e raccolto sotto il titolo“Il Concilio. Sulla convenienza di convocare un Concilio Ecumenico”, e persino scrittori come Giovanni Papini che sul Corriere della Sera una settimana dopo le riflessioni di Costantini scrive: “Ci piace immaginare che il nuovo Pontefice, provvederà a riaprire il Concilio Vaticano che il 20 ottobre 1870 fu sospeso (…) Ora che al Papa furono restituite l’indipendenza e l’autorità di sovrano, una ripresa del Concilio, da settant’anni interrotto, avverrebbe in un clima più pacato e sarebbe accolta con grandissima gioia dai cattolici di tutto il mondo”.

E qui arriviamo al punto: intendersi sul significato che Giovanni XXIII voleva dare quantomeno nell’impostazione al “suo” Concilio: qualcosa che all’inizio non era ancora definito in modo assoluto, ma probabilmente più pastorale che dogmatico, ma pastorale non in senso riduttivo. Ci sarebbe stato spazio per valutare tutto. Papa Roncalli, come ha testimoniato monsignor Dell’Acqua: “Mai pensò di aprire e chiudere il Concilio Ecumenico. Chi pensasse questo è fuori della verità. Ripetute volte Papa Giovanni mi disse: ‘quello che importa è cominciare: il resto lasciamolo al Signore’; in quante altre circostanze un Papa cominciò un Concilio concluso da un altro Papa. Non era quindi nelle sue intenzioni affrettare le cose”. Quando lo annuncia per la prima volta, si badi bene, scrive sul testo originale di suo pugno che invita ciascuno a pregare per “un buon inizio, continuazione e felice successo di questi propositi di forte lavoro, a lume, a edificazione e letizia di tutto il popolo cristiano, ad amabile e rinnovato invito per i nostri fratelli delle Chiese separate a partecipare con noi a questo convito di grazia e di fraternità”. E tuttavia – persino oltre le sue decisioni e la sua recezione – l’evento stesso del Concilio voluto da Giovanni XXIII, nel solco delle prospettive precedenti e aperto al soffio dello Spirito, avrebbe manifestato alla Chiesa e al mondo la santa libertà dei figli di Dio, nel segno di una visione generale della vita meno difensiva, ripiegata su se stessa, più aperta alla fiducia, al rispetto, al confronto, alla corresponsabilità, ai “segni dei tempi”.

Era anche, a ben guardare una scelta coraggiosa. Consapevole della sua età avrebbe potuto stare tranquillo tra benedizioni e canonizzazioni, attività ordinaria e qualche documento lasciando ai suoi successori tutti i problemi che Cardinali e Vescovi gli rovesciavano sul tavolo di lavoro e soprassedendo innanzi a situazioni in continua evoluzione. Invece no. Avrebbe affrontato tutto, e non da solo. Era la sua sensibilità, erano i suoi studi storici: “Ci vuole un Concilio”. Al suo Segretario infine la confidenza anche di una “base biblica” alla sua idea: “Gesù parlò mai con Pietro da solo? No, gli altri discepoli erano sempre presenti”.

In quali ambiti Papa Giovanni XXIII fu profetico?

Marco Roncalli: Basta rileggersi il discorso dell’11 ottobre con cui inaugurava appunto il Concilio Vaticano II, testo memorabile per ampiezza di orizzonte e afflato profetico. Non vi si legge in nuce la forza di una religione che unisce? Compito profetico di Papa Giovanni fu però quello di indicare il traguardo della pace: urgente, inderogabile … Si pensi alla sua Enciclica testamento: appunto la “Pacem in terris”…E’ lui che scrive, parlando di sé in questo testo “come vicario – benché tanto umile ed indegno – di colui che il profetico annuncio chiama il Principe della pace, (cf. Is 9,6) abbiamo il dovere di spendere tutte le nostre energie per il rafforzamento di questo bene. Ma la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà”. Ed è stato poi Giovanni Paolo II a ricordare un altro aspetto profetico dell’Enciclica, la necessità che si attivasse al più presto un’autorità pubblica internazionale, stabilita con il consenso delle Nazioni, capace di promuovere il “bene comune universale”. Certo l’organismo indicato da Giovanni XXIII, le Nazioni Unite, hanno parecchia strada ancora da fare. Ma non si può dire che non fu intuizione positiva. Giorgio Napoletano, quand’era Presidente della Commissione affari costituzionali del Parlamento europeo ha detto: “Il valore profetico della Pacem in terris appare in piena luce – io credo – se ne rileggiamo e ne riconsideriamo i grandi principi e le concrete indicazioni guardando all’esperienza del processo di integrazione europea. Un processo che nel 1963 aveva già superato le sue prime tappe ma era ancora ben lontano dall’esprimere tutte le sue potenzialità. Solo se si è capaci di un ‘giudizio etico’ sul modo di gestire il potere si potrà progredire verso la pace”.

Quali erano, a suo avviso, i grandi carismi di Angelo Giuseppe Roncalli?

Marco Roncalli: Non so se carisma sia la parola adatta e, tuttavia, leggendo la mole smisurata delle fonti con cui mi sono confrontato, continua a stupirmi – oltre ogni scoperta che arricchisce la conoscenza, provenga essa da archivi ecclesiastici o diplomatici, politici o persino delle attività di ‘intelligence’ – la serie continua di conferme sulla “cifra” di un servizio che, soprattutto sulla Cattedra di Pietro, resta primariamente servizio sacerdotale: interpretato con attenzione responsabile ai bisogni della Chiesa e dell’umanità. Così come continua a stupirmi un percorso esistenziale segnato più dalla normalità – anche nelle virtù, pubbliche e private –, che dalla straordinarietà con la quale si continua a connotare ogni pensiero e azione dei successori di Pietro, quasi che la grandezza sia la categoria cristiana per eccellenza. Certo parlerei volentieri di Papa della bontà se il rischio del mito del Papa Buono – come se gli altri fossero stati cattivi – non fosse lì in agguato. Però fanno riflettere quegli striscioni che alla parrocchia di San Tarcisio al Quarto Miglio il 7 aprile presero il posto di tutti i manifesti elettorali fatti togliere per comporre quell’inno passato alla storia: “viva il Papa Buono”. Fu un atto del tutto spontaneo: nessuna regia. Sono ancora in molti, tra i più anziani, a ricordare le sue ultime uscite tra folle schiacciate contro transenne, bambini vocianti, drappi festosi ai balconi di case popolari.. Erano gli ultimi discorsi, anche improvvisati. Abbracci che sembravano addii.

Perché la gente non smetteva di accorrere al suo arrivo? Perché le celebrazioni penitenziali diventavano quasi feste popolari? Quale fu il segreto di quell’uomo malato, capace di dire alla gente che gli si accalcava addosso: “Si sarebbe indotti, a prima vista, a soffermarci in amare riflessioni sulla vita moderna che tende quasi a schiacciare, distruggere tanti valori dell’anima. È vero: c’è del male nel mondo; c’è fiacchezza in molti, ed abbondano le tentazioni per distrarre o allontanare dalla virtù. Nondimeno, grazie al Signore, molte sono ancora le anime rette, zelanti, generose”. Giovanni XXIII si lasciava portare dal Padre. Ribadiva che il suo unico intento era di “proseguire con ogni mezzo possibile nell’annuncio della verità e del vangelo di nostro Signore”. E a chi già parlava di un suo eccessivo ottimismo rispondeva: “Qualcuno afferma che il pontefice è troppo ottimista, l’ho sentito anch’io; uno che prende le cose sotto l’aspetto migliore. Dico che io non so distaccarmi dall’esempio del Signore, il quale ha diffuso attorno a sé pensieri di pace ed ha insistito più che sul no, sul sì, cioè sugli aspetti positivi. In ciò è giustizia, sollievo e pace per tutti”. Parole liberanti, pronunciate il 31 marzo 1963, alla fine di un mese intenso durante il quale l’attesa per la realizzazione di quanto gli stava a cuore – il Concilio – si coniugava, a tratti visibile a tratti invisibile, con la sofferenza del male che la sua forte fibra riusciva ancora a sopportare.  (Zenit 17-19 dicembre 2006)

 

 

 


 

Né accanimento né eutanasia

(Domenica 17 dicembre 2006)

 

Una settimana di convegni per dire no all’eutanasia e no all’accanimento terapeutico, per promuovere le cure palliative e per denunciare le ambiguità strumentali dei cosiddetti “testamenti di vita”. Questa la campagna lanciata dall’Associazione Scienza e vita, che ha avuto inizio martedì 28 novembre e si è conclusa martedì 5 dicembre, a Roma, dopo la realizzazione di oltre 50 convegni su tutto il territorio nazionale, oltre ad incontri e conferenze più ristretti diretti alle scuole, alle organizzazioni, ai gruppi e alle parrocchie.

Scienza e vita, dunque, torna a farsi sentire con forza, con i metodi che le sono propri, ovvero la formazione capillare e l’azione socio-culturale, l’informazione veritiera e l’attento approfondimento scientifico. A supportare l’iniziativa sono stati predisposti alcuni strumenti: oltre ai volantini informativi, un manifesto tematico, già diffuso dalla associazione nel mese di settembre; una scheda in sei punti su Cosa pensa Scienza e vita dell’eutanasia; un Quaderno – il primo di una collana – dal titolo Né accanimento né eutanasia; una lettera di esortazione a rinnovare l’impegno in favore della vita umana da parte dei presidenti nazionali Maria Luisa Di Pietro e Bruno Dalla Piccola, da leggere in apertura di ogni convegno.

Le associazioni Scienza e vita locali – per quanto ancora in fase di riorganizzazione – hanno risposto con generosità e solerzia, mobilitandosi per pubblicizzare gli eventi e per convogliare la gente a riflettere su argomenti che interessano proprio tutti, e la cui analisi è divenuta assolutamente ineludibile per la martellante pressione esercitata di recente dai movimenti pro-eutanasia e dai politici compiacenti.

Tale pressione, come è ovvio, è caratterizzata in larga parte dal metodo improprio della disinformazione, attraverso la quale si sceglie di enfatizzare determinati argomenti e motivazioni a favore dell’eutanasia, lasciando meticolosamente in ombra gli aspetti contraddittori e in definitiva la verità sull’uomo. Come afferma nell’introduzione del Quaderno la vice-presidente di Scienza e vita, Lucetta Scaraffia, occorre “un approfondimento che permetta di uscire dalla logica dei ‘casi disperati’ a cui indulgono i media, che vogliono indurre gli ascoltatori e i lettori a una scelta buonista, determinata da superficiali emozioni”.

E così, ad esempio, si enfatizza a dismisura il timore dell’accanimento terapeutico, che – secondo i profeti della dolce morte – richiederebbe con urgenza la necessità di redigere dettagliate dichiarazioni anticipate di trattamento, con cui scongiurare il grave pericolo. In realtà, la mole di medici che si accaniscono impietosamente sui pazienti sottoponendoli a trattamenti sproporzionati, inutili, dannosi e gravosi si sbriciola non appena si esamini più attentamente quel che accade nella relazione terapeutica.

Perché mai il medico dovrebbe “accanirsi”? Se svolge con competenza e onestà la sua professione, capisce quando è giunto, con evidenza, il momento in cui le terapie disponibili o intraprese sono divenute del tutto futili, e non rappresentano in alcun modo un bene per il paziente, in quanto non raggiungono lo scopo per cui vengono attivate. Lo stesso si dica per i mezzi di sostegno vitale. Un paziente a cui il respiratore non fornisca più alcun reale sollievo alla dispnea, non avrà motivo di continuare ad utilizzare tale strumento. Al contrario, ad un paziente che ne tragga beneficio sarà applicato.

Le cure normali, poi, non andranno mai sospese, in quanto misure che hanno unicamente lo scopo di mantenere la vita – non di prolungare inutilmente l’agonia – , evitando al malato disagi ulteriori quali le piaghe da decubito, i sintomi da disidratazione e malnutrizione, infezioni, e così via. Un paziente che non riesca ad alimentarsi e a bere per via orale, dunque, si gioverà dell’apporto dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, evitando così i gravi danni della disidratazione.

Un medico che sia realmente tale non può che ragionare a agire in questi termini. Le ragioni difensive, sperimentali, economiche o politiche per cui un medico sceglierebbe di persistere in trattamenti inutili e gravosi, che intenzionalmente prolungano l’agonia nel modo più doloroso - invece di aiutare il morente ad affrontare il trapasso nel modo più sereno – non cambiano il quadro. Tali abusi medici equivalgono ad una pratica clinica distorta e volontariamente interessata ad aspetti che non hanno nulla a che fare con il bene del paziente, e che pertanto non dovrebbero nemmeno costituire oggetto di dibattito.

La paura dell’accanimento terapeutico ha la sua origine nella sfiducia che l’era dell’autonomia ha introdotto nel rapporto medico-paziente, una sfiducia nella professionalità e nella missione del medico che viene visto non più come colui che si adopera per sostenere la vita con la terapia o con la cura, ma come colui che persegue attraverso la medicina obiettivi personali. In questo senso, il medico diverrebbe colui che usa la medicina per dispiegare un potere sugli altri, per “fare il proprio interesse”, o addirittura per proporre una sua visione del mondo, eventualmente segnata da pesanti barriere ideologiche o politiche. Tragicamente, in qualche caso è proprio così. E tuttavia, lo sconfortante esempio di quei pochi medici tecnocrati e tanatocrati che rinnegano nei fatti il loro compito precipuo e dispensano giudizi di valore sulla vita dei pazienti, non deve far perdere di vista il medico normale, che ancora – e in amplissima misura – lavora a beneficio delle persone.

Quali? Tutte quelle che gli capitano. I pazienti, infatti, non si scelgono. Arrivano. Giungono all’attenzione del medico che li accoglie e fa tutto il possibile per curarli, pur sapendo perfettamente che la medicina non è onnipotente, che ha dei limiti, e che con questi limiti, un giorno, ogni paziente – ogni uomo – dovrà fare i conti. Dunque, la valutazione di accanimento “terapeutico” – ma il termine terapia non dovrebbe nemmeno comparire in questa espressione – si effettua relativamente ad un particolare trattamento di cui si evince con certezza o con evidenza l’inefficacia.

È cioè il giudizio su un trattamento in una situazione concreta, e non sul valore di una vita in stato terminale. Il motivo per cui il trattamento non si inizia oppure si sospende lecitamente non è il fatto che in una data situazione “è inutile prolungare la vita”. Il giudizio sull’utilità o inutilità della vita, infatti, esula completamente dal dominio della scienza, della medicina, e finanche dallo spazio delle decisioni personali, poiché travalica gli stessi confini della libertà umana.

Il trattamento non si inizia oppure si sospende perché tale trattamento non è proporzionato nella situazione specifica, e apporterebbe un danno ulteriore invece di un beneficio, sia pure limitato e momentaneo. È inoltre assolutamente fondamentale precisare che il giudizio di accanimento deve pronunciarlo il medico. Non può mai essere una valutazione del paziente o della sua famiglia, e dunque non equivale al fatto che qualcuno (il paziente o un familiare) chiedono la sospensione di un trattamento. In altre parole, non si ha l’accanimento terapeutico quando un medico si “ostina” a curare anche quando il paziente o chi per lui non vogliono, dal momento che la responsabilità di tale valutazione spetta ultimamente al medico.

In tal senso, può ben essere vero che il medico, somministrando un determinato trattamento, persegua obiettivi diversi da quelli del paziente. È il caso appunto di un paziente che non vuole una terapia o una cura proposta dal medico (in scienza e coscienza). La volontà del paziente potrà qui essere utile al medico per bilanciare meglio i costi e i benefici di un intervento, oppure potrà essere un ostacolo insormontabile all’applicazione del trattamento prescelto, come accade nei casi in cui un paziente rifiuta insistentemente e liberamente la terapia. Non potrà tuttavia snaturare il ruolo del medico al punto da trasformarlo da agente di cura ad agente di morte, costringendolo a compiere gesti contrari alla sua deontologia professionale, come rimuovere un tubo di alimentazione o staccare un respiratore, allo scopo di esaudire il desiderio suicida del malato.

Tutte queste considerazioni chiariscono i motivi per cui le dichiarazioni anticipate di volontà non possono avere un valore legale e vincolante per il medico. La maggior parte di questi documenti si basano infatti proprio sull’ambigua definizione di accanimento terapeutico, inteso come l’insistenza in trattamenti che il paziente non vuole, e per converso sull’illusione che il rispetto di tale (presunta) volontà “testamentaria” possa meglio riflettere le decisioni individuali, ovvero la libertà.

In realtà, la libertà dell’uomo non è qualche cosa di astratto, ma si esplica sempre in atti concreti, situati, hic et nunc. L’insuperabile inattualità del contenuto “testamentario” rende impossibile affermare con certezza che, nel momento in cui l’incoscienza sopravviene, il volere del paziente sia ancora correttamente espresso dal “testamento”. E anche qualora tale certezza potesse sussistere, resta il principio – laico – dell’indisponibilità della vita umana, che vincola tutti, anche i soggetti nei riguardi della loro vita.

La parte di Italia che ha seguito i convegni di Scienza e Vita condivide tale impostazione, e annuncia con decisione che lotterà perché il nostro paese non sprofondi nella palude di inciviltà che avvolge ormai molte società del benessere, così avide di piaceri e di guadagni eppure così povere di amore e compassione autentici. (Claudia Navarini, docente presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Zenit, 10 dicembre 2006)

 

 

 


 

I pacs sono già legge

(Domenica 10 dicembre 2006)

 

Padova, giunta rossa, è la prima città italiana nella quale le coppie conviventi, sia etero che omosessuali, potranno ottenere il riconoscimento anagrafico. Se un bel numero di città seguirà il suo esempio (e lo seguirà, statene certi), quanto ci metterà il Parlamento a maggioranza sinistrorsa (sia pure risicata) a dire che bisogna mettersi all'altezza?... meno di quanto si possa immaginare...

Ormai è dimostrato: Padova, giunta rossa, sindaco Flavio Zanonato, è la città dei muri. Erige quello di via Anelli e abbatte quello delle coppie di fatto. Complimenti, signor primo cittadino, e anche lei, signor Alessandro Zan, consigliere diessino, presidente dell'Arcigay del Veneto e vera anima del blitz padovano: da ieri, i Pacs in Italia sono diventati un dato di fatto. Grillini e compagni comunisti possono pure gioire. E se vogliono possono anche andarsene in ferie o in pensione: missione compiuta. Breve riassunto della puntata precedente. La scorsa notte, in Consiglio comunale, con ventisei voti a favore (tutto il centrosinistra esclusi i Verdi che non sono in giunta), sette contrari e un astenuto, su proposta di Alessandro Zan è stata approvata una mozione che impegna il sindaco e la giunta ad «istruire l'Ufficio comunale affinché rilasci, su richiesta degli interessati, l'attestazione di famiglia anagrafica basata su legami affettivi». Traduzione dal linguaggio burocratico: Padova è la prima città italiana nella quale le coppie conviventi, siano esse etero o omosessuali, potranno ottenere il riconoscimento anagrafico. Non è un matrimonio, ovviamente. Grosso modo, però, nel bene o nel male (giudicate voi), è proprio quella coppia di cui si parla da mesi e mesi, quella che è stata al centro della campagna elettorale, quella che lacera il centrosinistra come sempre diviso tra moderati e massimalisti, quella che probabilmente in Parlamento non avrebbe mai ottenuto il riconoscimento e che ora, grazie alla giunta di Padova, esiste anche sui registri. La tecnica del "dai e dai"

Vecchia, intramontabile e sofisticata tecnica sinistrorsa: dài e dài, a furia di mozioni o di spallate, di dichiarazioni o girotondi, anche l'irrealizzabile, il campato in aria o semplicemente l'inesistente prima o poi diventa realtà. Facciamo un esempio, tanto per rendere l'idea. Ricordate le sfilate arcobaleno? Quei signori sembravano sul serio pacifisti convinti, gente tutta cuore e sentimenti buoni. Poi abbiamo scoperto che sfilavano soprattutto per fregare Berlusconi. Intanto, sfilavano. E sfilata dopo sfilata hanno convinto l'Italia (buona parte dell'Italia) che loro davvero erano per la pace. Così Padova. Domanda: aperta la strada dalla giunta Zanonato, quanto tempo impiegheranno le altre giunte rosse o rosa ad adeguarsi e ad approvare mozioni, provvedimenti e regolamenti comunali che regolarizzeranno le coppie di fatto? E una volta che dieci o venti o cento o più città italiane avranno la loro anagrafe non si potrà dire che l'anagrafe stessa vale per l'intera Italia? Di più. Fate attenzione: se un bel numero di città seguirà l'esempio di Padova (e lo seguirà, statene certi), quanto ci metterà il Parlamento a maggioranza sinistrorsa (sia pure risicata) a dire che bisogna mettersi all'altezza? Ve lo diciamo noi: meno di quanto si possa immaginare. Tant'è vero che già ieri, all'indomani del blitz padovano, la sinistra ha mosso i primi passi in questa direzione. Franco Grillini, deputato dell'Ulivo e già presidente dell'Arcigay: «È una pagina importante per il riconoscimento dei gay». Abbastanza esplicito. Comunque, se non lo fosse, ecco, a dargli man forte e a rendere ancora più chiaro il ragionamento, Fausto Bertinotti, presidente della Camera: «Su questo argomento si hanno opinioni diverse, le mie sono note. Ma se un Comune diventa protagonista, nel rispetto dell'ordinamento e delle leggi, producendo una sollecitazione, è un buon atteggiamento. Significa che bisogna prestare attenzione, senza demonizzare e senza magari neanche mitizzare. Semplicemente, c'è una iniziativa in corso, prendiamola in considerazione». Il miracolo è servito

Mica stupido il compagno Fausto: visto che un Comune si è mosso, noi parlamentari non possiamo far finta di niente. Padova traccia il solco, Bertinotti lo difende e il Parlamento, mettiamola così, è chiamato a nazionalizzarlo. Solo ipotesi? Assolutamente no. Cartina di tornasole: quando a Fausto Bertinotti è stato fatto notare che, al di là di tutte le chiacchiere e le polemiche, i Pacs non sono nel programma dell'Unione o lo sono in forma estremamente vaga, il presidente della Camera, neppure tanto sibillino, ha risposto: «Pacta sunt servanda». E lo saranno, anche grazie a Padova, città del Santo che ha fatto il miracolo. Laico e, secondo molti esponenti del centrodestra, anche un po' blasfemo. Ma siamo in epoca di sinistra al governo. Cos'altro vi aspettavate? A proposito, ieri le agenzie di stampa hanno diffuso una dichiarazione. È di Gianluca Quadrana, consigliere comunale romano della Rosa nel Pugno. Poche righe: «È auspicabile che presto anche Roma abbia il suo registro per le unioni di fatto. Noi abbiamo presentato già da qualche mese una delibera di iniziativa consiliare a questo scopo. È stata firmata da tutti, compreso l'Ulivo ed escluso l'Udeur. Fra poco dovrebbe approdare in Aula. Speriamo che questa sia finalmente la volta buona». Come volevasi dimostrare.

L'APPROVAZIONE. Padova è la prima città italiana nella quale le coppie conviventi, sia etero che omosessuali, potranno ottenere il riconoscimento anagrafico come famiglia fondata su vincoli affettivi. Lo prevede una mozione approvata l'altra notte dal consiglio comunale con 26 voti a favore (tutto il centrosinistra, esclusi i Verdi, non in giunta), 7 contrari e un astenuto.

I VINCOLI AFFETTIVI. Si tratta di un provvedimento diverso dal registro delle coppie di fatto (da creare al di fuori della sfera anagrafica). In sostanza, la mozione, proposta dal consigliere Ds Alessandro Zan (presidente dell'Arcigay Veneto), impegna il sindaco e la giunta a istruire l'Ufficio comunale perché rilasci, su richiesta degli interessati, l'attestazione di famiglia anagrafica basata su legami affettivi. (Mattias Mainiero, Libero, 6 dicembre 2006)

«Distruggono la famiglia, peggio di Zapatero».

L’azzurro Lupi: la mozione approvata è «grave e pericolosa». La Lega: «Che ne pensa Prodi?» Non piace al centrodestra ma neppure alle famiglie.

«Qualsiasi coppia, omosessuale o eterosessuale che sia, potrà di fatto autoproclamarsi famiglia se e quando vuole, e accedere ai sostegni e alle agevolazioni previste dalla legge come riconoscimento del ruolo sociale e della funzione pubblica della famiglia. Neppure Zapatero ha mai osato tanto», attacca il Forum delle famiglie. E la mozione approvata a Padova per il riconoscimento delle coppie conviventi, etero e omo, viene decisamente respinta anche dall’opposizione.

Il presidente di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, si limita ad un secco «non condivido questa iniziativa» mentre sempre da An si leva la voce di Riccardo Pedrizzi, responsabile nazionale per le politiche della famiglia. Pedrizzi giudica la mozione incostituzionale «poiché equipara, dal punto di vista giuridico, la famiglia fondata sul matrimonio a una fantomatica famiglia basata su vincoli affettivi, elevando a dignità tale da meritare la formalizzazione anagrafica, pubblica, alla pari della registrazione del matrimonio, un dato meramente privato e fattuale, costituito appunto dalla convivenza».

Per l’azzurro Maurizio Lupi «l’iniziativa assunta dal Consiglio comunale di Padova è molto grave e pericolosa perché vuole introdurre una legittimazione, non prevista dalle attuali normative, delle coppie di fatto, minando in questo modo il principio fondamentale della famiglia sul quale si basa la nostra società». Lupi giudica «assurdo e provocatorio che qualche esponente dell’Unione proponga addirittura una legge nazionale che andrebbe a calpestare i valori incarnati dalla famiglia e dalla persona».

La deputata padovana della Lega Nord, Paola Goisis, chiede «che cosa ne pensi il premier Romano Prodi» sia della mozione sia del plauso giunto da molti ministri del suo governo ad un provvedimento che sancisce «il riconoscimento delle coppie di fatto, etero e omosessuali, a Padova». Per la Goisis si tratta di una forzatura «provocatoria nei confronti dei cittadini che in campagna elettorale avevano avuto l’assicurazione che la famiglia omosessuale non era un punto del programma di governo. Si tratta di un vero e proprio attacco alla famiglia, intesa come unione di un uomo e di una donna fondata sul matrimonio, legalmente riconosciuta, fulcro della società, che noi della Lega Nord intendiamo difendere contro la deriva zapaterista della sinistra al governo». (Il Giornale n. 288 del 06-12-06 pagina 15)

 

 

 


 

Augias-Pesce:

Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo.

Un libro inchiesta che non risolve il suo vero mistero

(domenica 3 dicembre 2006)

 

Della situazione “drammatica per la fede”, che ha mosso Benedetto XVI a scrivere il suo libro su Gesù, è prova anche un volume recentemente uscito in Italia, con grande successo di pubblico, intitolato: “Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo”.

Gli autori del volume sono Corrado Augias, giornalista e scrittore, editorialista del grande quotidiano liberal “la Repubblica”, agnostico, e Mauro Pesce, professore di storia della Chiesa all’Università di Bologna, specialista dei vangeli apocrifi, cattolico, almeno per formazione.

Questo libro non ha nulla da spartire con il famigerato “Codice da Vinci”. Ha autori competenti, si è avvalso della collaborazione di studiosi autorevoli, si fonda su solide fonti e respinge l’idea che le Chiese cristiane abbiano volutamente contraffatto il “vero” Gesù.

Tuttavia approda, su Gesù, proprio a quell’esito “drammatico per la fede” da cui Benedetto XVI mette in guardia.

È quanto ha messo in evidenza una lunga recensione critica di questo libro scritta dal cappuccino Raniero Cantalamessa, 72 anni, specialista in storia delle origini cristiane e dal 1980 predicatore della casa pontificia, ossia colui che detta le prediche di Avvento e di Quaresima al papa e alla curia vaticana.

Padre Cantalamessa ha pubblicato questa sua recensione su due pagine intere di “Avvenire”, il quotidiano della conferenza episcopale italiana.

È quindi una recensione importante sia per la persona che l’ha scritta sia per il giornale su cui è apparsa.

Eccola qui di seguito, integrale:

Un’inchiesta su Gesù che non risolve il suo vero mistero. Di Raniero Cantalamessa.

Il ciclone “Il Codice da Vinci” di Dan Brown non è passato invano. Sulla sua scia stanno fiorendo, come sempre avviene in questi casi, nuovi studi sulla figura di Gesù di Nazareth, con l’intenzione di svelarne il vero volto ricoperto finora sotto la coltre dell’ortodossia ecclesiastica. Anche chi, a parole, prende le distanze da questa intenzione, se ne mostra per più versi influenzato.

A tale filone mi pare appartenga il libro di Corrado Augias e Mauro Pesce, “Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo”. Vi sono, come è naturale, differenze tra l’uno e l’altro autore, tra il giornalista e lo storico. Ma non voglio cadere io stesso nell’errore che più di ogni altro compromette a mio parere questa “inchiesta” su Gesù : quello di tener conto solo e sempre delle differenze tra gli evangelisti, mai delle convergenze. Parto perciò da ciò che è comune ai due autori, Augias e Pesce.

La tesi di fondo: il Gesù autentico non è quello della Chiesa

Si può riassumere così: Sono esistiti, all’inizio, non uno ma diversi cristianesimi. Una delle sue versioni ha preso il sopravvento sulle altre; ha stabilito, secondo il proprio punto di vista, il canone delle Sacre Scritture e si è imposta come ortodossia, relegando le altre al rango di eresie e cancellandone il ricordo. Noi possiamo però oggi, grazie a nuove scoperte di testi e a una rigorosa applicazione del metodo storico, ristabilire la verità e presentare finalmente Gesù di Nazareth per quello che fu veramente e che egli stesso intese essere, cioè una cosa totalmente diversa da quello che le varie Chiese cristiane hanno finora preteso che fosse.

Nessuno contesta il diritto di accostarsi alla figura di Cristo da storici, prescindendo dalla fede della Chiesa. È quello che la critica, credente e non credente, va facendo da almeno tre secoli con gli strumenti più raffinati. La domanda è se la presente “inchiesta” su Gesù raccoglie davvero, per quanto in forma divulgativa e accessibile al gran pubblico, il frutto di questo lavoro, o se invece opera in partenza una scelta drastica all’interno di esso, finendo per essere una ricostruzione di parte.

Io credo che, purtroppo, questo secondo è il caso. Il filone scelto è quello che va da Reimarus a Voltaire, a Renan, a Brandon, a Hengel, e oggi a critici letterari e “professori di umanità” quali Harold Bloom ed Elaine Pagels. Del tutto assente l’apporto della grande esegesi biblica, protestante e cattolica, sviluppatasi dopo la seconda guerra mondiale in reazione alle tesi di Rudolf Bultmann: esegesi molto più positiva circa la possibilità di attingere, attraverso i Vangeli, il Gesù della storia.

Sui racconti della passione e morte di Gesù, per fare un esempio, nel 1998 è stata pubblicata da Raymond Brown (“il più distinto tra gli studiosi americani del Nuovo Testamento, con pochi rivali a livello mondiale”, secondo il “New York Times”), un’opera di 1608 pagine. Essa è stata definita dagli specialisti del settore “il metro in base al quale ogni futuro studio della Passione sarà misurato”, ma di tale studio non c’è traccia nel capitolo dedicato ai motivi della condanna e della morte di Cristo, né esso figura nella bibliografia finale che pure riporta diversi titoli di opere in inglese.

All’uso selettivo degli studi corrisponde un uso altrettanto selettivo delle fonti. I racconti evangelici sono giudicati adattamenti posteriori quando smentiscono la tesi di Augias e Pesce, sono storici quando si accordano con essa. Anche la risurrezione di Lazzaro, benché attestata dal solo Giovanni, viene presa in considerazione se serve a fondare la tesi della motivazione politica e di ordine pubblico dell’arresto di Gesù.

I vangeli apocrifi, fonte alternativa

Ma veniamo alla discussione più diretta della tesi di fondo del libro. Anzitutto a proposito delle scoperte di nuovi testi che avrebbero modificato il quadro storico sulle origini cristiane.

Tali scoperte sono essenzialmente alcuni vangeli apocrifi rinvenuti in Egitto a metà del secolo scorso, soprattutto i codici di Nag Hammadi. Su di essi viene fatta da Augias e Pesce un’operazione assai sottile: ritardare il più possibile la data di composizione dei vangeli canonici e anticipare il più possibile la data di composizione degli apocrifi, in modo da poterli usare come valide fonti alternative ai primi.

Ma qui si urta contro un muro non facilmente scavalcabile: nessun vangelo canonico (neppure quello di Giovanni, secondo la critica moderna) si lascia datare dopo l’anno 100 dopo Cristo e nessun apocrifo si lascia datare prima di tale anno (i più arditi arrivano, con congetture, a datarli all’inizio del III o a metà del II secolo). Tutti gli apocrifi attingono o suppongono i vangeli canonici; nessun vangelo canonico attinge o suppone un vangelo apocrifo.

Per fare l’esempio oggi più in voga, quello dei 114 detti di Cristo nel Vangelo di Tommaso, 79 hanno un parallelo nei tre Sinottici (Matteo, Marco, Luca), 11 sono varianti delle parabole sinottiche. Solo tre parabole non sono attestate altrove. Augias, sulla scia di Elaine Pagels, crede di poter superare questo scarto cronologico tra i vangeli canonici e il Vangelo di Tommaso, ed è istruttivo vedere in che modo. Nel Vangelo di Giovanni si assiste, secondo Augias, a un chiaro tentativo di screditare l’apostolo Tommaso, una vera persecuzione nei suoi confronti, paragonabile a quella contro Giuda. Prova: l’insistenza sulla incredulità di Tommaso. Ipotesi: l’autore del Quarto Vangelo non vuole per caso screditare le dottrine che già a suo tempo circolavano sotto il nome dell’apostolo Tommaso e che confluiranno in seguito nel Vangelo che porta il suo nome?

Così è superato lo scarto cronologico. Si dimentica, in questo modo, che l’evangelista Giovanni mette proprio sulla bocca di Tommaso la più commovente dichiarazione di amore a Cristo (“Andiamo anche noi a morire con lui”) e la più solenne professione di fede in lui: “Mio Signore e mio Dio!” che, a detta di molti esegeti, costituisce il coronamento di tutto il Quarto Vangelo. Se Tommaso è un perseguitato dai vangeli canonici, che dire del povero Pietro con tutto quello che riferiscono sul suo conto! A meno che ciò non sia avvenuto, anche nel suo caso, per screditare i futuri apocrifi che portano il suo nome…

Ma il punto che più contraddice le tesi di Augias e Pesce non è neppure quello della data dei vangeli apocrifi, è quello dei loro contenuti. Essi dicono esattamente il contrario di quello per cui si invoca la loro autorità.

I due autori sostengono la tesi di un Gesù pienamente inserito nell’ebraismo, che non ha inteso innovare in nulla rispetto ad esso. Ma i vangeli apocrifi professano tutti, chi più chi meno, una rottura violenta con l’Antico Testamento, facendo di Gesù il rivelatore di un Dio diverso e superiore.

La rivalutazione della figura di Giuda nell’omonimo vangelo apocrifo si spiega in questa logica: con il suo tradimento, egli aiuterà Gesù a liberarsi dell’ultimo residuo del Dio creatore, il corpo! Gli eroi positivi dell’Antico Testamento diventano negativi, per tali vangeli; e quelli negativi, come Caino, positivi. Gesù è presentato nel libro di Augias e Pesce come un uomo che solo la Chiesa posteriore ha elevato al rango di Dio; i vangeli apocrifi al contrario presentano un Gesù che è vero Dio, ma non vero uomo, avendo rivestito solo l’apparenza di un corpo (docetismo).

Per i vangeli aprocrifi, ciò che fa difficoltà non è la divinità di Cristo ma la sua umanità. Si è disposti a seguirli su questo loro terreno?

Si potrebbe allungare la lista degli equivoci nell’uso dei vangeli apocrifi. Dan Brown, nel “Codice da Vinci”, si basa su di essi per avallare l’idea di un Gesù che esalta il principio femminile, non ha problemi con il sesso, sposa la Maddalena… E per provare questo si appoggia al Vangelo di Tommaso, dove invece si dice che, se vuole salvarsi, la donna deve cessare di essere donna e diventare uomo!

Il fatto è che i vangeli apocrifi, in particolare quelli di matrice gnostica, non sono stati scritti con l’intento di narrare fatti o detti storici su Gesù, ma per veicolare una certa visione di Dio, di se stessi e del mondo, di natura esoterica. Fondarsi su di essi per ricostruire la storia di Gesù è come fondarsi su “Così parlò Zarathustra” non per conoscere il pensiero di Nietzsche, ma quello di Zarathustra.

Per questo in passato, pur essendo essi quasi tutti già noti, almeno in ampi stralci, nessuno aveva mai pensato di potere usare i vangeli apocrifi come fonti di informazioni storiche su Gesù. Solo la nostra era mediatica, alla ricerca esasperata di scoop commerciali, lo sta facendo.

Ci sono certo fonti storiche su Gesù al di fuori dei vangeli canonici, ed è strano che esse siano lasciate praticamente fuori da questa “inchiesta”. La principale è Paolo, che scrive meno di trent’anni dopo la scomparsa di Cristo e dopo essere stato un suo fiero oppositore. La sua testimonianza viene solo discussa a proposito della risurrezione, ma per essere screditata.

Eppure, cosa c’è di essenziale nella fede e nei “dogmi” del cristianesimo che non si trovi già attestato (nella sua sostanza se non nella forma) in Paolo? Si può, per esempio, definire non storico e frutto della preoccupazione posteriore di non allarmare l’autorità romana il contrasto tra Gesù e i farisei e la stessa mentalità legalistica di un gruppo di essi, senza tener conto di quello che dice Paolo che era stato uno di essi e che proprio per questo aveva perseguitato accanitamente i cristiani? Ma su questo tornerò più avanti parlando della Passione.

L’ebreo Gesù non ha fondato nessun cristianesimo

Vengo ora al punto principale della tesi dei due autori: Gesù è stato un ebreo, non un cristiano; non ha inteso fondare nessuna nuova religione; si è considerato mandato solo per gli ebrei, non anche per i pagani; “Gesù è molto più vicino agli ebrei religiosi di oggi che non ai sacerdoti cristiani”; il cristianesimo “nasce nella seconda metà del II secolo”.

Come conciliare quest’ultima affermazione con la notizia degli Atti degli apostoli (11, 26) secondo cui, non più di sette anni dopo la morte di Cristo, circa l’anno 37, “ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani”?

Plinio il Giovane (una fonte non sospetta!), tra il 111 e il 113 parla ripetutamente dei “cristiani”, di cui descrive la vita, il culto e la fede in Cristo “come in un Dio”.

Intorno agli stessi anni, Ignazio d’Antiochia parla per ben cinque volte di cristianesimo come distinto dal giudaismo, scrivendo: “Non è il cristianesimo che ha creduto nel giudaismo, ma il giudaismo che ha creduto nel cristianesimo” (Lettera ai Magnesiani, 10, 3). In Ignazio, cioè all’inizio del II secolo, non troviamo attestati solo i nomi “cristiano” e “cristianesimo”, ma anche il contenuto di essi: fede nella piena umanità e divinità di Cristo, struttura gerarchica della Chiesa (vescovi, presbiteri, diaconi), perfino un primo chiaro accenno al primato del vescovo di Roma, “chiamato a presiedere nella carità”.

Prima ancora, del resto, che il nome di cristiani entrasse nell’uso comune, i discepoli erano coscienti della identità propria e la esprimevano con termini come “i credenti in Cristo”, “quelli della via”, o “quelli che invocano il nome del Signore Gesù”.

Ma tra le affermazioni di Augias e Pesce che ho appena riportate ce n’è una che merita di essere presa sul serio e discussa a parte: “Gesù non ha inteso fondare nessuna nuova religione. Era ed è rimasto ebreo”.

Verissimo. Difatti neanche la Chiesa, a rigore, considera il cristianesimo una “nuova” religione. Essa si considera insieme con Israele (una volta si diceva a torto “al posto di Israele”) l’erede della religione monoteistica dell’Antico Testamento, adoratori dello stesso Dio “di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”. Dopo il Concilio Vaticano II il dialogo con l’ebraismo non è portato avanti dall’organismo vaticano che si occupa del dialogo tra le religioni, ma di quello che si occupa dell’unità dei cristiani.

Il Nuovo Testamento non è un inizio assoluto, è il “compimento” (categoria fondamentale) dell’Antico. Del resto, nessuna religione è nata perché qualcuno ha inteso “fondarla”. Forse Mosè aveva inteso fondare la religione d’Israele o Buddha il buddhismo? Le religioni nascono e prendono coscienza di sé come tali in seguito, da coloro che hanno raccolto il pensiero di un Maestro e ne hanno fatto ragione di vita.

Ma fatta questa precisazione, si può davvero dire che nei Vangeli non c’è nulla che faccia pensare alla convinzione di Gesù di essere portatore di un messaggio nuovo? E le sue antitesi: “Avete inteso che fu detto…, ma io vi dico” con le quali reinterpreta perfino i dieci comandamenti e si pone sullo stesso piano di Mosè? Esse riempiono tutta una sezione del Vangelo di Matteo (5, 21-48), cioè di quel medesimo evangelista su cui si fa leva, nel libro, per affermare la piena ebraicità di Cristo!

Gesù aveva l’intenzione di dare vita a una sua comunità e prevedeva che la sua vita e il suo insegnamento avrebbero avuto un seguito: il fatto indiscutibile dell’elezione dei dodici apostoli sembra proprio confermarlo. Anche lasciando da parte il grande mandato: “Andate in tutto il mondo, predicate il vangelo ad ogni creatura” (qualcuno potrebbe attribuirlo, nella sua formulazione, alla comunità post-pasquale), non si spiegano diversamente tutte quelle parabole, il cui nucleo originario contiene proprio la prospettiva di un allargamento alle genti. Si pensi alla parabola dei vignaioli omicidi, degli operai nella vigna, al detto sugli ultimi che saranno i primi, sui molti che “verranno dall’oriente e dall’occidente per sedersi a mensa con Abramo”, mentre altri ne saranno esclusi, e innumerevoli altri detti…

Durante la sua vita Gesù non è uscito dalla terra d’Israele, eccetto qualche breve puntata nei territori pagani del Nord, ma questo si spiega con la sua convinzione di essere mandato anzitutto per Israele, per poi spingerlo, una volta convertito, ad accogliere nel suo seno tutte le genti, secondo le prospettive universalistiche annunciate dai profeti.

È molto curioso: c’è tutto un filone del pensiero ebraico moderno (F. Rosenzweig, H. J. Schoeps, W. Herberg) secondo cui Gesù non sarebbe venuto per gli ebrei, ma solo per le altre genti, i gentili; secondo Augias e Pesce, invece, egli sarebbe venuto solo per gli ebrei, e non per i gentili.

Va dato merito a Pesce che egli non accetta di liquidare la storicità dell’istituzione dell’eucaristia e la sua importanza nella primitiva comunità. Questo è uno dei punti dove più emerge l’inconveniente segnalato all’inizio: di tener conto solo delle differenze, e non delle convergenze. I tre Sinottici e Paolo unanimemente attestano il fatto quasi con le stesse parole, ma per Augias questo conta meno del fatto che l’istituzione dell’eucaristia è taciuta da Giovanni e che, nel riferirla, Matteo e Marco abbiano “Questo è il mio sangue”, mentre Paolo e Luca hanno “Questo è il calice della nuova alleanza nel mio sangue”. La parola di Cristo: “Fate questo in memoria di me”, pronunciata in tale occasione, si richiama a Esodo 12, 14 e mostra l’intenzione di dare al “memoriale” della Pasqua un nuovo contenuto. Non per nulla di lì a poco Paolo parlerà della “nostra Pasqua” (1 Corinzi, 5, 7), distinta da quella dei giudei.

Se all’eucaristia e alla Pasqua si aggiunge il fatto incontrovertibile dell’esistenza di un battesimo cristiano fin dall’indomani della Pasqua, che progressivamente sostituisce la circoncisione, abbiamo gli elementi essenziali per parlare, se non di una nuova religione, di un modo nuovo di vivere la religione d’Israele.

Quanto al canone delle Scritture, è vero ciò che afferma Pesce, che l’elenco definitivo degli attuali ventisette libri del Nuovo Testamento viene fissato solo con Atanasio nel 367, ma non si dovrebbe tacere il fatto che il suo nucleo essenziale, composto dai quattro Vangeli più tredici lettere paoline, è molto più antico. Si è formato verso l’anno 130. E alla fine del II secolo gode ormai della stessa autorità dell’Antico Testamento, come è attestato dal frammento detto Muratoriano.

Si sostiene nel libro di Augias e Pesce: “Anche Paolo, come Gesù, non è un cristiano, ma un ebreo che rimane nell’ebraismo”. Anche questo è vero. Non dice forse egli stesso: “Sono ebrei? Anch’io! Anzi io più di loro!”? Ma questo non fa che confermare ciò che ho appena rilevato sulla fede in Cristo come “compimento” della legge. Per un verso Paolo si sente nel cuore stesso di Israele (del “resto di Israele”, preciserà egli stesso), per l’altro si distacca da esso (dall’ebraismo del suo tempo) con il suo atteggiamento verso la legge e la sua dottrina della giustificazione mediante la grazia. Sulla tesi di un Paolo “ebreo e non cristiano”, sarebbe interessante sentire cosa ne pensano gli stessi ebrei…

Gesù ucciso per ragioni politiche, dai romani

Merita una discussione a parte il capitolo del libro di Augias e Pesce sul processo e la condanna di Cristo. La tesi da loro sostenuta non è nuova; ha cominciato a circolare in seguito alla tragedia della Shoah ed è stata adottata da quelli che propugnavano negli anni Sessanta e Settanta del Novecento la tesi di un Gesù zelota e rivoluzionario.

Secondo tale tesi, la responsabilità della morte di Cristo ricade principalmente, anzi forse esclusivamente, su Pilato e l’autorità romana, il che indica che la sua motivazione è più di ordine politico che religioso. I Vangeli hanno scagionato Pilato e accusato di essa i capi dell’ebraismo per tranquillizzare le autorità romane sul loro conto e farsele amiche.

Questa tesi è nata da una preoccupazione giusta che tutti oggi condividiamo: togliere fin dalla radice ogni pretesto all’antisemitismo che tanto male ha procurato al popolo ebraico da parte dei cristiani. Ma il torto più grave che si può fare a una causa giusta è quello di difenderla con argomenti sbagliati. La lotta all’antisemitismo va posta su un fondamento più solido che una discutibile (e discussa) interpretazione dei racconti della Passione.

L’estraneità del popolo ebraico, in quanto tale, alla responsabilità della morte di Cristo riposa su una certezza biblica che i cristiani hanno in comune con gli ebrei, ma che purtroppo per tanti secoli è stata dimenticata: “Colui che ha peccato deve morire. Il figlio non sconta l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio” (Ezechiele, 18, 20). La dottrina della Chiesa conosce un solo peccato che si trasmette per eredità di padre in figlio, il peccato originale, nessun altro.

Messo al sicuro il rifiuto dell’antisemitismo, vorrei spiegare perché non si può accettare la tesi della totale estraneità delle autorità ebraiche alla morte di Cristo e quindi della natura essenzialmente politica di essa.

Paolo, nella più antica delle sue lettere, scritta intorno all’anno 50, dà, della condanna di Cristo, la stessa fondamentale versione dei Vangeli. Dice che i “giudei hanno messo a morte Gesù” (1 Tessalonicesi, 2, 15), e sui fatti accaduti a Gerusalemme poco tempo prima del suo arrivo in città egli doveva essere informato meglio di noi moderni, avendo, un tempo, approvato e difeso “accanitamente” la condanna del Nazareno.

Durante questa fase più antica il cristianesimo si considerava ancora destinato principalmente a Israele; le comunità nelle quali si erano formate le prime tradizioni orali confluite in seguito nei Vangeli erano costituite in maggioranza da giudei convertiti; Matteo, come notano anche Augias e Pesce, è preoccupato di mostrare che Gesù è venuto a compiere, non ad abolire, la legge. Se c’era dunque una preoccupazione apologetica, questa avrebbe dovuto indurre a presentare la condanna di Gesù come opera piuttosto dei pagani che delle autorità ebraiche, al fine di rassicurare i giudei di Palestina e della diaspora sul conto dei cristiani.

D’altra parte, quando Marco e, sicuramente, gli altri evangelisti scrivono il loro Vangelo c’è già stata la persecuzione di Nerone; ciò avrebbe dovuto spingere a vedere in Gesù la prima vittima del potere romano e nei martiri cristiani coloro che avevano subito la stessa sorte del Maestro. Se ne ha una conferma nell’Apocalisse, scritta dopo la persecuzione di Domiziano, dove Roma è fatta oggetto di una invettiva feroce (“Babilonia”, la “Bestia”, la “prostituta”) a causa del sangue dei martiri (cfr. Apocalisse, 13 ss.).

Pesce ha ragione di scorgere una “tendenza antiromana” nel Vangelo di Giovanni, ma Giovanni è anche quello che più accentua la responsabilità del Sinedrio e dei capi ebrei nel processo a Cristo: come si concilia la cosa? Non si possono leggere i racconti della Passione ignorando tutto ciò che li precede. I quattro Vangeli attestano, si può dire a ogni pagina, un contrasto religioso crescente tra Gesù e un gruppo influente di giudei (farisei, dottori della legge, scribi) sull’osservanza del sabato, sull’atteggiamento verso i peccatori e i pubblicani, sul puro e sull’impuro. Joachim Jeremias ha dimostrato la motivazione antifarisaica presente in quasi tutte le parabole di Gesù.

Il dato evangelico è tanto più credibile in quanto il contrasto con i farisei non è affatto pregiudiziale e generale. Gesù ha degli amici tra di loro (uno è Nicodemo); lo troviamo a volte a pranzo in casa di qualcuno di loro; essi accettano almeno di discutere con lui e di prenderlo sul serio, a differenza dei sadducei. Pur non escludendo dunque che la situazione posteriore abbia influito a calcare ulteriormente le tinte, è impossibile eliminare ogni contrasto tra Gesù e una parte influente della leadership ebraica del suo tempo, senza disintegrare completamente i Vangeli e renderli storicamente incomprensibili. L’accanimento del fariseo Saulo contro i cristiani non era nato dal nulla e non se l’era portato dietro da Tarso!

Una volta però dimostrata l’esistenza di questo contrasto, come si può pensare che esso non abbia giocato alcun ruolo al momento della resa finale dei conti e che le autorità ebraiche si siano decise a denunziare Gesù a Pilato unicamente per paura di un intervento armato dei romani, quasi a malincuore? Pilato non era certo una persona sensibile a ragioni di giustizia, tale da preoccuparsi della sorte di un ignoto giudeo; era un tipo duro e crudele, pronto a stroncare nel sangue ogni minimo indizio di rivolta. Tutto ciò è verissimo. Egli però non tenta di salvare Gesù per compassione verso la vittima, ma solo per un puntiglio contro i suoi accusatori, con i quali era in atto una guerra sorda fin dal suo arrivo in Giudea. Naturalmente, questo non diminuisce affatto la responsabilità di Pilato nella condanna di Cristo, che ricade su di lui non meno che sui capi ebrei.

Non è il caso, oltre tutto, di volere essere “più ebrei degli ebrei”. Dalle notizie sulla morte di Gesù, presenti nel Talmud e in altre fonti giudaiche (per quanto tardive e storicamente contraddittorie), emerge una cosa: la tradizione ebraica non ha mai negato una partecipazione delle autorità religiose del tempo alla condanna di Cristo. Non ha fondato la propria difesa negando il fatto, ma semmai negando che il fatto, dal punto di vista ebraico, costituisse reato e che la sua condanna sia stata una condanna ingiusta. Una versione, questa, compatibile con quella delle fonti neotestamentarie che, mentre, da una parte, mettono in luce la partecipazione delle autorità ebraiche (dei sadducei forse più ancora che dei farisei) alla condanna di Cristo, dall’altra spesso la scusano, attribuendola a ignoranza (cfr. Luca, 23, 34; Atti degli apostoli, 3, 17; 1 Corinzi, 2, 8). È il risultato a cui giunge anche Raymond Brown, nel suo libro di 1608 pagine su “La morte del Messia”.

Gesù e la guerra

Una nota a margine va fatta su un punto assai delicato. Secondo Augias, Luca attribuisce a Gesù le parole: “E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me” (Luca, 19, 27) e commenta dicendo che: “È a frasi come queste che si rifanno i sostenitori della ‘guerra santa’ e della lotta armata contro i regimi ingiusti”.

Va precisato che Luca non attribuisce tali parole a Gesù, ma al re della parabola che sta narrando e si sa che non si possono trasferire di peso dalla parabola alla realtà tutti i dettagli del racconto parabolico, e in ogni caso essi vanno trasferiti dal piano ma teriale a quello spirituale. Il senso metaforico di quelle parole è che accettare o rifiutare Gesù non è senza conseguenze; è una questione di vita o di morte, ma vita e morte spirituale, non fisica. La guerra santa non c’entra proprio.

Gesù e il sesso

Termino questa mia lettura critica con qualche riflessione conclusiva. Io non condivido molte risposte di Pesce, ma le rispetto riconoscendo ad esse pieno diritto di cittadinanza in una ricerca storica. Molte di esse (sull’atteggiamento di Gesù verso la politica, i poveri, i bambini, l’importanza della preghiera nella sua vita) sono anzi illuminanti. Alcuni dei problemi sollevati – il luogo di nascita di Gesù, la questione dei fratelli e delle sorelle di lui, il parto verginale – sono oggettivi e discussi anche tra gli storici credenti (l’ultimo non tra i cattolici), ma non sono i problemi su cui sta o cade il cristianesimo della Chiesa.

Meno giustificata in una “inchiesta” storica su Gesù mi sembra la cura con cui Augias raccoglie tutte le insinuazioni su presunti legami omosessuali esistenti tra i discepoli, o tra lui stesso e “il discepolo che egli amava” (ma non doveva essere innamorato della Maddalena?), come pure la dettagliata descrizione delle vicende scabrose di alcune donne presenti nella genealogia di Cristo. Dall’inchiesta su Gesù si ha l’impressione che si passi a volte al pettegolezzo su Gesù.

Il fenomeno ha però una spiegazione. È sempre esistita la tendenza a rivestire Cristo dei panni della propria epoca o della propria ideologia. In passato, per quanto discutibili, erano cause serie e di grande respiro: il Cristo idealista, socialista, rivoluzionario… La nostra epoca, ossessionata dal sesso, non riesce a pensarlo che alle prese con problemi sentimentali. Io credo che il fatto di aver messo insieme una visione di taglio giornalistico dichiaratamente alternativa con una visione storica anch’essa radicale e minimalista ha portato a un risultato d’insieme inaccettabile, non solo per l’uomo di fede, ma anche per lo storico.

Un mistero in più su “l’uomo che ha cambiato il mondo”

A lettura ultimata uno si pone la domanda: come ha fatto Gesù, che non ha portato assolutamente nulla di nuovo rispetto all’ebraismo, che non ha voluto fondare nessuna religione, che non ha fatto nessun miracolo e non è risorto se non nella mente alterata dei suoi seguaci, come ha fatto, ripeto, a diventare “l’uomo che ha cambiato il mondo”?

Una certa critica parte con l’intenzione di dissolvere i vestiti messi addosso a Gesù di Nazareth dalla tradizione ecclesiastica, ma alla fine il trattamento si rivela così corrosivo da dissolvere anche la persona che c’è sotto di essi.

A forza di dissipare i “misteri” su Gesù per ridurlo a un uomo ordinario, si finisce per creare un mistero ancora più inspiegabile.

Un grande esegeta inglese, Charles H. Dodd, parlando della risurrezione di Cristo dice: “L’idea che l’imponente edificio della storia del cristianesimo sia come un’enorme piramide posta in bilico su un fatto insignificante è certamente meno credibile dell’affermazione che l’intero evento – e cioè il fatto più il significato a esso inerente – abbia realmente occupato un posto nella storia paragonabile a quello che gli attribuisce il Nuovo Testamento”.

La fede condiziona la ricerca storica? Innegabilmente, almeno in una certa misura. Ma io credo che l’incredulità la condiziona enormemente di più. Se uno si accosta alla figura di Cristo e ai Vangeli da non credente (è il caso, sembra di capire, almeno di Augias) l’essenziale è già deciso in partenza: la nascita verginale non potrà che essere un mito, i miracoli frutto di suggestione, la risurrezione prodotto di uno “stato alterato della coscienza” e così via.

Una cosa tuttavia ci consola e ci permette di continuare a rispettarci a vicenda e a proseguire il dialogo: se ci divide la fede, ci accomuna in compenso “la buona fede”. In essa i due autori dichiarano di aver scritto il libro e in essa io assicuro di averlo letto e discusso.

 

 

 


 

La schiavitù: chi tace e chi acconsente

(Domenica 26 novembre 2006)

 

Ci sono nel mondo, oggi, circa 27 milioni di schiavi. Un numero tre volte superiore alla quantità totale di schiavi deportati dall'Africa in Occidente nel periodo dal 1450 al 1900 (circa 11 milioni e 698 mila esseri umani). La cosa incredibile è che neanche ce ne rendiamo conto. Inorridiamo quando vediamo film sulla tratta di schiavi del passato e non ci accorgiamo che sotto i nostri occhi, attualmente, la situazione è di gran lunga più grave quanto a numero delle vittime (e non solo). La cifra agghiacciante di 27 milioni di schiavi è emersa in questi giorni al primo convegno internazionale della Famiglia Mercedaria, l'ordine della Beata Vergine Maria della Mercede fondato nel 1218 dal giovane mercante Pietro Nolasco per liberare i cristiani fatti schiavi dai musulmani in Spagna.

Il Nolasco spese tutto il suo patrimonio per ridare la libertà a quei poveretti: i padri mercedari liberavano schiavi cristiani anche dando in cambio se stessi, prendendo il loro posto. La cifra di 27 milioni di esseri umani è enorme. È più dell'intera popolazione del Canada, equivale a metà della popolazione italiana, ma è un decimo rispetto alle vere dimensioni della tragedia. Probabilmente 27 milioni sono soltanto le vittime della schiavitù in senso ristretto e tradizionale. Infatti le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie quantificano come vittime della schiavitù addirittura 200 milioni di persone: circa 4 volte la popolazione italiana. Su scala planetaria un essere umano ogni 30.

Attività criminale

Giancarlo Giojelli nel pamphlet "Gli schiavi invisibili" c'informa che l'Onu e l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) giudicano il traffico di esseri umani come la terza attività criminale più redditizia del mondo (dopo il traffico di armi e di droga). Ogni vittima rappresenta un guadagno fra i 4 mila e i 50 mila dollari. Il ricavato complessivo di questa infame industria è stimato circa in 12,5 miliardi di dollari l'anno. La schiavitù - per così dire - antica è ancora presente in certi Paesi africani come il Sudan dove le bande arabo-islamiche del Nord fanno razzia nei villaggi cristiani del Sud, catturando e poi vendendo donne e bambini neri ai ricchi mercanti arabi (spesso le vittime sono islamizzate a forza e sottoposte a violenze, sfruttamento e crudeltà inimmaginabili). Si calcola che siano 200mila gli schiavi nel nord di quel Paese.

Alcune organizzazioni umanitarie cercano di liberarli spesso ricomprandoli dai loro padroni. Padre Damaso Masabo, dei Mercedari, ha dichiarato che proprio in questi giorni stanno raccogliendo fondi per liberare in Sudan 200 bambini schiavi. Nel mondo islamico la schiavitù è sempre stata fiorente e l'Occidente, che giustamente si autofustiga per i suoi crimini, dimentica il ruolo degli arabi in quel commercio. Jean-François Revel scriveva: "La memoria storica ha dimenticato il crimine dello schiavismo del mondo arabo, i 20 milioni di neri che furono strappati ai loro villaggi e trasportati a forza nel mondo musulmano, tra il VII e il XX secolo. Si dimentica che, ad esempio, a Zanzibar alla fine del XIX secolo c'erano 200mila schiavi su 300mila abitanti. E si dimentica che, in un Paese islamico come la Mauritania, nel 1981 la schiavitù era ancora legale. Formalmente abolita nel 1982, in realtà - lì come altrove - continua indisturbata".

Si potrebbe credere che si tratti di un orrore del passato, destinato a sparire con l'avanzare della modernità. Invece è vero il contrario. Padre Masabo cita uno studio recente e afferma: "La schiavitù è un business in espansione e il numero degli schiavi è in aumento". Tanto è vero che le Nazioni Unite hanno dato vita a un Comitato che lavora a Ginevra per monitorare tutte le nuove forme di schiavismo. Di solito legate al fenomeno colossale delle migrazioni che coinvolgono centinaia di milioni di persone in tutto il globo. L'Onu sostiene che ogni anno circa 4 milioni di donne vengono vendute e costrette a prostituirsi come schiave o sottomesse al matrimonio forzato (si ritiene che negli ultimi 30 anni circa 30 milioni di donne asiatiche siano state vittime di questo commercio di esseri umani).

Ma i dati ancora più terrificanti sono quelli relativi ai fanciulli: 2 milioni di minori tra 5 e 15 anni, perlopiù bimbe, sono merce del businnes sessuale. Secondo Amnesty International inoltre sono 300mila i "bambini soldato" (con un retroterra di violenze e orrori subìti inimmaginabile). Varie inchieste giornalistiche hanno denunciato l'esistenza di un mercato degli organi per trapianti che avrebbe come vittime principalmente bambini del Terzo Mondo trattati come banche di organi.

Ne parlano però anche fonti ufficiali come un documento del Parlamento europeo e anche il Rapporto 2001 sulla criminalità organizzata della Direzione nazionale antimafia e della Dia (studio a cui ha collaborato l'Università Bocconi di Milano). Non solo. Secondo il rapporto Ilo 2006 sono 246 milioni i ragazzi fra i 5 e i 17 anni che si trovano costretti a lavorare. L'arco temporale di questa statistica sembra francamente discutibile perché una cosa è un bimbo di 5 anni e un'altra un giovane di 17. Ma il fenomeno è aberrante anche per le condizioni di sfruttamento brutale e schiavistico e per le spaventose condizioni igieniche di questo lavoro minorile (oltre alla costrizione, alla fame e al furto di ogni diritto all'educazione e al rispetto). Del resto 5,7 milioni di bambini sono letteralmente ridotti in schiavitù e costretti ai lavori forzati. Vi sono infine 140 milioni di fanciulle e ragazze che hanno subìto mutilazioni sessuali (praticate in oltre 28 paesi a bimbe fra i 4 e gli 8 anni).

La prostituzione

Il fenomeno "schiavistico" è globale. È sotto i nostri stessi occhi, sulle nostre strade. Ogni anno in Europa occidentale giungono circa 700 mila donne destinate al commercio sessuale. A Milano sono straniere l'80% delle prostitute. "Il prezzo di una giovane che arriva in Italia" scrive Giojelli "può raggiungere i 10 mila dollari". Tra il 1996 e il 2000 secondo la Dia il commercio di esseri umani in Italia ha riguardato 30 mila persone, in gran parte donne. Al 31 maggio 2004 erano stati aperti 2.930 procedimenti per traffico e sfruttamento di esseri umani in 26 Procure distrettuali antimafia. In particolare: 740 procedimenti per riduzione in schiavitù, 399 per tratta e commercio di schiavi, 95 per vendita o acquisto.

Le persone, di varia nazionalità, coinvolte nelle indagini sono state 7.582. È stupefacente come si vogliano tenere gli occhi chiusi su una barbarie di queste dimensioni. Ed è incredibile che siano soprattutto coloro che fanno della giustizia e dei diritti la loro bandiera - penso alla sinistra e ai sindacati - a voler ignorare questa situazione e ad opporsi alle politiche di contrasto all'immigrazione clandestina tentate dal centrodestra. È ovvio che proprio l'immigrazione clandestina, con tutti i traffici che contiene, sia il grande affare di queste mafie spesso ignorate, la cui pericolosità non è certo inferiore a quelle nostrane.

Il commercio schiavistico - insieme al traffico di armi e droga fanno della criminalità internazionale oggi una colossale potenza economica. Il suo giro di affari, secondo le Nazioni Unite e la Banca Mondiale, equivale addirittura all'8-10 per cento del Pil mondiale. Il governo italiano ha intenzione di fare qualcosa o intende solo abbattere le (già minime) barriere all'immigrazione  illegale? (Antonio Socci, Libero, 12 nov. 2006)

 

 

 


 

Quando arriva sorella Morte…

(Domenica 19 Novembre 2006)

 

Nella nostra società, la fine della vita è diventato un tabù. Nella comunità cristiana, invece, dovrebbe essere uno dei luoghi teologici e pastorali privilegiati per l’annuncio. Ma, in concreto, come viene affrontato questo momento dai pastori? E quale tipo di accompagnamento spirituale viene offerto ai morenti e alle loro famiglie?

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La morte, così presente nella Rivelazione biblica e nello scorrere quotidiano dei nostri avi, è ormai diventata il vero tabù della nostra società, banalizzata nei media, ospedalizzata e marginalizzata nella città dell’uomo. Sulla questione della "fine della vita", la Chiesa ha molto da dire, anzi l’occasione di un decesso o di una malattia grave può rappresentare uno dei luoghi teologici e pastorali privilegiati per l’annunzio della Pasqua di Cristo, come sottolinea in maniera articolata la recente Nota pastorale della Commissione episcopale per il servizio della carità e della salute, intitolata «Predicate il Vangelo e curate i malati». La comunità cristiana e la pastorale della salute.

Ma come viene colta, concretamente, questa opportunità dai pastori d’anime? Quali problemi incontrano nell’accompagnare i malati terminali e le loro famiglie, prima e dopo il decesso del paziente? Quali strutture ecclesiali se ne occupano?

Ne parliamo con monsignor Sergio Pintor, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della sanità della Cei fino al 29 settembre scorso, quando è stato nominato vescovo di Ozieri, che ci offre una panoramica completa della situazione italiana: «Dobbiamo molto al compianto monsignor Ugo Donato Bianchi, già presidente della Consulta nazionale per la pastorale della salute e vero maestro dell’apostolato verso i sofferenti. A livello organizzativo, oltre al nostro servizio centrale di coordinamento, abbiamo cercato di favorire l’avvio di uffici diocesani per la pastorale della salute, o almeno di referenti locali competenti, aiutati dalla Consulta nazionale e da quelle regionali. In generale il campo della pastorale della salute è popolato da tante persone di buona volontà che necessitano però di maggiore coordinamento».

Obiettivo primario dell’animazione è il territorio e, in esso, la famiglia. Essa, prosegue Pintor, «è una sorta di "ospedale nascosto", visto il carico che sopporta durante la malattia. Cerchiamo di tener conto delle difficoltà proprie di questo tempo nel vivere la morte, nell’attenderla, nel darle senso. Questo vale tanto più per noi preti che non possiamo esserne i semplici "funzionari", magari freddi e distanti per non lasciarci coinvolgere, evitando di entrare nella sofferenza della famiglia colpita da un lutto. Come preti siamo infatti molto impegnati nella pastorale ordinaria, ma rischiamo di tralasciare la dimensione della "prossimità" che, insieme alla dimensione della "fragilità", soprattutto laddove si è toccati dalla morte, è la realtà centrale per noi, è il luogo dove si celebra la Pasqua, soprattutto con l’Eucaristia. Se ci lasciamo coinvolgere capiamo che più che parole può servire prendere fra le nostre la mano della persona colpita: vale il silenzio, una preghiera recitata insieme. Così come è importante il momento omiletico durante un funerale, che può toccare anche il cuore di un non credente».

Sono molte le iniziative che i sacerdoti possono intraprendere. Essi, ci dice Pintor, «debbono puntare in particolare sulla catechesi, anche giovanile, presentando il tema della morte alla luce della vita in Dio. Ma si devono anche coinvolgere laici formati, come i ministri straordinari dell’Eucaristia, nel ministero della visitazione ai malati e ai morenti. Infine è necessario coordinare meglio tutti gli operatori sanitari in ambito ecclesiale, dall’Unitalsi all’Aipas (Associazione italiana di pastorale sanitaria, che riunisce tutti i cappellani ospedalieri), anche per una migliore circolazione delle informazioni».

Occorre poi, continua Pintor, «lavorare sul terreno della formazione specifica e di quella permanente, su cui siamo un po’ indietro, promuovendo incontri finalizzati a far riflettere sul proprio rapporto personale con la morte e la malattia».

In questo campo il cappuccino Leonardo Di Taranto, cappellano al Policlinico di Bari e direttore dell’Ufficio per la pastorale della salute dell’arcidiocesi di Bari-Bitonto, lavora in prima linea: «Il punto di partenza della riflessione teologica oggi è effettivamente la sofferenza e la morte, perché sono dimensioni che interpellano fortemente l’uomo nella sua realtà di vita e nella sua fede. Alcuni segni di interesse sono, ad esempio, i corsi sulla pastorale della salute attivati in molte facoltà teologiche e seminari, i gruppi di autoaiuto per l’elaborazione del lutto sorti in alcuni contesti ecclesiali, come è accaduto nella nostra arcidiocesi, oltre ai tanti corsi di formazione a livello locale e centrale per sacerdoti e laici».

Non mancano tuttavia evidenti segni di fatica: «Vi è una scarsa partecipazione del clero ai corsi di formazione», denuncia il religioso. «Non per cattiva volontà ma perché siamo molto occupati dagli ambiti tradizionali della pastorale. Capita così che, mentre i seminaristi mostrano generalmente molto interesse al corso di pastorale sanitaria, intuendone le enormi potenzialità per l’annuncio, appena sono inseriti in parrocchia faticano ad applicare quanto imparato in seminario. Ad allontanare i parroci dalla morte è certamente l’ospedalizzazione del malato terminale, e per di più i parenti spesso preferiscono, dopo la morte del loro caro, far celebrare il funerale nella cappella dell’ospedale e non in parrocchia».

Non è sempre facile anche per i preti reggere il confronto diretto con la morte. «Psicologicamente seguire un malato terminale e la sua famiglia è molto impegnativo. Richiede che l’uomo prete abbia elaborato in qualche modo la propria morte. Spesso questo non succede e, magari per difendersi, cerca rifugio dietro al proprio ruolo», con queste parole fa autocritica don Luigi Corciulo, giovane sacerdote diocesano attualmente cappellano all’ospedale Umberto I di Siracusa e molto attivo in diocesi sul fronte dei gruppi di mutuo aiuto per l’elaborazione del lutto. Continua: «Noi preti a volte frapponiamo tra noi e la gente quasi una barriera, data dall’abito, magari dagli aspetti liturgici, e rischiamo così di non offrire i canali giusti per aprirci completamente alle persone colpite da una malattia o un lutto. Occorre anche riscoprire la dimensione e il valore della tenerezza, della fragilità, e credo che in questo i giovani che si affacciano al ministero ordinato stiano facendo notevoli progressi. Certo non ci aiuta l’eccessiva burocratizzazione delle nostre realtà parrocchiali, che uccide la spontaneità e non favorisce la crescita di comunità vive, dove ci si fa carico dei pesi gli uni degli altri».

E sul fronte della formazione, quali concrete opportunità sono offerte agli operatori pastorali? Padre Arnaldo Pangrazzi, camilliano, ne conduce in varie diocesi e tiene un corso specifico sull’elaborazione del lutto all’Istituto internazionale di Teologia pastorale sanitaria "Camillianum" di Roma, dove si preparano gli studenti a un approccio globale e interdisciplinare alla pastorale della salute.

Pangrazzi è autore, tra i tanti da lui pubblicati, di un recente libro sul mutuo aiuto nel lutto corredato, alla fine di ciascun capitolo, da una serie di racconti popolari che possono tornare utili anche per meditazioni e omelie (Aiutami a dire addio, Erickson, pp. 142, H 14,50). «Nel mio corso», ci dice, «cerco di offrire tutti i fondamentali utili, di tipo spirituale, antropologico, psicologico e sociologico, per chi segue e sostiene i morenti e i loro familiari. Scopo del corso è preparare gli allievi a cosa sia opportuno dire o non dire quando ci si trova con persone colpite da un lutto; cosa ci si può aspettare a seconda delle varie circostanze concrete che si affrontano, ad esempio in caso di suicidio; ad aiutare insomma le persone a elaborare il lutto. Vista l’importanza della dimensione spirituale, li si informa poi degli accorgimenti da prendere in caso di morte di una persona di un’altra religione al fine di rispettarne, in un momento così delicato, le scelte e la cultura di origine».

Oggi come accompagna i morenti la comunità cristiana? «La Chiesa è presente soprattutto nell’ambito tradizionale della liturgia», risponde Pangrazzi. «Ma rito delle esequie e Messe di suffragio, anche per il gran numero di funerali che il parroco deve celebrare, rischiano di diventare o almeno di essere percepiti come routine. Al contrario la famiglia che sperimenta per la prima volta un lutto si aspetta un’attenzione privilegiata e personale, in grado tra l’altro di offrirci l’occasione di conoscere meglio la persona del defunto, anche in vista dell’omelia, che dovrebbe – senza lungaggini – essere capace di rievocare, da un lato, il dolore per la morte e, dall’altro, quella speranza tutta cristiana data dalla Risurrezione di Cristo».

La liturgia non basta. È necessario un impegno maggiore sul versante della diaconia a beneficio delle famiglie provate dal lutto. Come accade in Uganda, dove alcune parrocchie hanno costituito i cosiddetti "gruppi di consolazione", persone a cui il parroco ha affidato il delicato ministero di alleviare il dolore dei parenti attraverso l’ascolto e il ricordo del defunto. «La diaconia poi», precisa Pangrazzi, «si può esplicitare in momenti liturgici particolari, ad esempio con le vedove della parrocchia, preparati da momenti di catechesi o attraverso gruppi di supporto per persone in lutto guidati dallo stesso sacerdote o da persone che abbiano già elaborato positivamente il loro dolore».

Si impone l’integrazione della dimensione simbolica e sacramentale con quella umana. Ma, in Italia, precisa Pangrazzi, «la formazione dei preti, a differenza degli Stati Uniti, tende a privilegiare la dimensione teologica e tralascia quella umana. Occorrerebbe forse avere più pastori come docenti in seminario affinché aiutino gli studenti a gestire i sentimenti dei malati, come la rabbia, la ribellione, la colpa. A livello di formazione permanente, poi, si dovrebbe, a mio avviso, fare molto di più all’interno delle diocesi».

Tra i religiosi impegnati in prima linea nell’accompagnamento dei morenti assai significativa è l’esperienza di suor Caterina de Nicola, entrata nelle suore di Maria Bambina dopo essere diventata medico. Dopo una lunga esperienza nel campo delle cure palliative in due hospice di Milano, suor Caterina ora opera al Policlinico Gemelli di Roma. «Le cure palliative, che stanno sviluppandosi notevolmente in questi ultimi anni, hanno un approccio clinico, psicologico, sociologico e anche pastorale notevole», esordisce la religiosa, che sulle strutture sanitarie aggiunge: «Anche quando a Milano curavo maggiormente l’aspetto medico, non dimenticavo quello spirituale, tanto più importante nella fase terminale della malattia delle persone, e che richiede una presenza ancora più significativa a fianco dei parenti, dopo la morte del loro congiunto. L’esperienza delle cure palliative mi fa dire che la persona che sta morendo è consapevole della sua morte imminente, ma non lo dice per paura di contristare i parenti: è lì che serve una presenza».

Psicoterapeuta, Livia Crozzoli è presidente dell’associazione Gruppo Eventi, che da dieci anni si occupa con molte attività e iniziative di elaborazione del lutto, fungendo anche da coordinamento nazionale per chi voglia saperne di più (sito web: www.gruppoeventi.it). «Se per spiritualità s’intende la ricerca del significato della vita, indipendentemente da una fede specifica», afferma, «si può dire che il dolore aiuta certamente a vivere con maggiore profondità la vita. La fede nel Dio cristiano, peraltro, sostiene in modo significativo la persona nel cammino di elaborazione del lutto, perché fornisce un orizzonte di senso trascendente e una riserva di speranza notevole. D’altronde penso che la Chiesa, almeno a livello simbolico, offra una potenzialità notevole: la comunità. Spesso purtroppo non è sfruttata e, invece, sarebbe bello se tali gruppi si sviluppassero con maggiore regolarità proprio nel contesto parrocchiale».

È proprio nella parrocchia, sottolinea Livia, che dovrebbe essere maggiormente sviluppata l’esperienza di crescita personale attraverso il cordoglio e la ricerca del senso della vita, anche solo come "anticamera" a un discorso di fede. «Tanto più», precisa la dottoressa Crozzoli, «in una società che non parla della morte e non accetta défaillances da chi subisce un lutto: si pensi che la licenza in caso di un parente stretto è di soli 3 giorni. Per quanto ne so, è una materia su cui esiste generalmente poca sensibilità, con il risultato che si rischia di lasciare sole tante persone. Al contrario, dopo la morte di un caro e la conseguente chiusura verso il mondo, si rinasce alla vita e agli altri solo attraverso la capacità di ascoltare, di condividere il dolore, di godere della solidarietà di amici e conoscenti, cosa che i gruppi di mutuo aiuto cercano proprio di fare. Il dolore, anche se superato, resta, ma in qualche modo cambia, si impara a conviverci e obbliga a riorientare la propria vita interiore e relazionale». (Stefano Stimamiglio, Jesus, 18 novembre 2006)

 

 

 


 

Il jihad trova uno strano avvocato: “La Civiltà Cattolica”

(Domenica 12 novembre 2006)

 

L’ultimo numero di ottobre della “Civiltà Cattolica” – l’autorevole rivista dei gesuiti di Roma stampata con il controllo e l’autorizzazione delle autorità vaticane – apre con un editoriale sull’islam che lascia allibiti.

L’editoriale fornisce una descrizione molto dettagliata e allarmante dell’islam fondamentalista e terrorista, dietro il quale “ci sono grandi e potenti stati islamici” : un islam proiettato alla conquista del mondo e nutrito di violenza “per la causa di Allah”. Ma lo fa senza un solo cenno di critica a questo nesso tra la violenza e la fede. E come se questo nesso fosse un dato ineluttabile, contro il quale l’Occidente e la Chiesa poco o niente dovrebbero fare: poco sul terreno pratico – basti vedere la pochezza delle misure antiterroristiche suggerite -  e niente su quello teorico. Soprattutto, è come se Benedetto XVI non avesse neppure pronunciato, il 12 settembre scorso, la sua lezione di Ratisbona.

In essa papa Joseph Ratzinger mirava proprio a liberare la fede – ogni fede – dal legame con la violenza e a unirla invece indissolubilmente alla ragione: ai fini di un dialogo positivo e costruttivo tra il cristianesimo e le altre culture e religioni, islam compreso.

L’editoriale della “Civiltà Cattolica” appare invece come un manifesto delle teorie multiculturali: l’islam è fatto così e va accettato per quello che è.

Ma vediamo più in dettaglio che cosa scrive “La Civiltà Cattolica” nel suo editoriale non firmato dal titolo “Quale lotta al terrorismo? Cinque anni dopo l’11 settembre 2001”.

* * *

L’editoriale registra che dopo l’11 settembre 2001 “gli atti di terrorismo si sono moltiplicati”.

Questa “recrudescenza” del terrorismo islamista – a giudizio della “Civiltà Cattolica” – è principalmente una “conseguenza” della guerra mossa dagli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq.

Che la guerra in Iraq fosse considerata sbagliata dalla Santa Sede è risaputo. Ma l’editoriale della “Civiltà Cattolica” arriva a fissare una regola generale. Scrive che ogni guerra a “paesi che ospitano gruppi terroristi, li finanziano e li addestrano” è sempre un “grave errore politico”.

E così spiega il suo assunto:

“Il motivo è semplice: l’invasione militare di un paese islamico, come l’Afghanistan o l’Iraq, è considerata da tutta l’umma islamica come un’offesa grave ad Allah, perché è una negazione dei suoi diritti e un’usurpazione della sua autorità, la quale si esprime nella sharia.

“Di qui la necessità, per l’islam fondamentalista, della ‘lotta armata’ (al-jihad bi-l-saif) contro coloro che aggrediscono uno stato islamico col pretesto di farne uno stato ‘democratico’: lo stato islamico, secondo l’interpretazione radicale, è per sua natura ‘teocratico’, cioè retto soltanto dal Corano e dalla Sunna, e quindi, secondo gli estremisti, non può essere ‘democratico’ e tanto meno ‘laico’, né può non dichiarare l’islam ‘religione dello stato’. È detto nella Dichiarazione Islamica universale, approvata nel 1980 dal Consiglio Islamico d’Europa: ‘L’assoggettamento dei popoli musulmani e l’occupazione delle loro terre in alcune parti del mondo è per noi materia di grave preoccupazione. La più penosa di queste è l’usurpazione e l’occupazione della santa città di Gerusalemme (al-Quds). È sacro dovere della umma mobilitare tutte le sue forze e combattere senza sosta per liberare Gerusalemme e tutte le altre terre musulmane. I paesi musulmani considerano l’aggressione contro uno di essi come un’aggressione contro l’intero mondo musulmano’.

“Si comprende perciò come l’’aggressione’ di due paesi musulmani – Afghanistan e Iraq – abbia mobilitato i movimenti radicali islamici spingendoli a intraprendere ‘la militanza armata per la causa di Allah’ (jihad fi sabil Allah), che gli occidentali ‘crociati’ chiamano ‘terrorismo’, ma che, per i musulmani radicali, è un’azione doverosa di difesa dei diritti di Dio e della ‘Casa dell’islam’ (Dar al-islam). Tale difesa è un ‘dovere’ individuale, di cui ogni musulmano deve farsi carico, fino al sacrificio della vita, quando un paese islamico è aggredito dagli ebrei e dai ‘crociati’; può esigere anche la propria morte, che, subita per la ‘causa di Allah’ e per la difesa dei suoi diritti, è propriamente un ‘martirio’, che apre le porte del paradiso (sure 3, 140 e 191; 9, 111; 61, 12-13).

“Bisogna infine rendersi conto che, per i movimenti radicali islamici, l’Occidente con i suoi stili di vita libertari e edonistici esercita un fortissimo richiamo sulle masse islamiche e, in particolare, sui giovani. Perciò, il loro timore è che l’Occidente contamini l’islam e lo renda ‘miscredente’ e ‘corrotto’. L’Occidente rappresenta per i movimenti islamici radicali un pericolo gravissimo, mortale, per la stessa sopravvivenza dell’islam. Di qui lo sforzo sia per ‘re-islamizzare’ i musulmani emigrati nei paesi occidentali e impedire che essi si integrino nelle società occidentali, assorbendone l’ideologia contraria alla lettera e allo spirito dell’islam, sia per combattere i paesi islamici ‘amici’ degli Stati Uniti e dell’Europa”.

* * *

Più avanti l’editoriale della “Civiltà Cattolica” precisa che l’ideologia sopra descritta “non è di tutti i musulmani e neppure della grande maggioranza di essi”. Ma ne sottolinea comunque la grande influenza:

“Da una parte, dietro le ideologie terroriste, che si ispirano ai Fratelli Musulmani di al-Banna e di al-Qutb, alla Jama’at-i-Islami di Mawdudi e alla Salafiyya, ci sono grandi e potenti stati islamici, che hanno interesse a combattere l’Occidente e, dall’altra, c’è una forte avversione contro l’Occidente.

“Non va dimenticato che, secondo il pensiero dei musulmani, l’Occidente, nei secoli XIX e XX, si è impadronito dei territori musulmani, sfruttandone le ricchezze; soprattutto ha cercato di diffondere tra i popoli islamici la propria religione, le proprie istituzioni politiche e i propri stili di vita a scapito della religione islamica e della sua istituzione politica, il califfato. Ciò ha costituito per i popoli dell’islam una fitna (una tentazione, una prova) per la loro fede, che dev’essere cancellata, secondo i fondamentalisti, con la lotta con tro l’Occidente e con la sua sottomissione all’islam”.

Forti di questa loro ideologia religiosa – nota ancora “La Civiltà cattolica” – le organizzazioni terroristiche islamiche “riescono a reclutare molti giovani di condizione culturalmente e socialmente elevata e di profonda fede religiosa e ad avviarli alla ‘militanza armata per la causa di Dio’ e a farne ‘combattenti per Dio’ (mujahidin) fino al sacrificio della vita”.

* * *

In conclusione, l’editoriale della “Civiltà Cattolica” fissa in cinque punti il “che fare per combattere efficacemente il terrorismo”, una volta esclusa la guerra.

Primo: “intessere [con l’islam] legami di amicizia e di collaborazione per la soluzione dei grandi problemi di oggi e instaurare un dialogo interculturale sereno e leale”.

Secondo: “evitare gesti politici e militari che possano apparire come azioni dirette a combattere, umiliare e irridere i popoli islamici. In particolare, bisogna cercare di trovare una soluzione equa alla questione conflittuale israelo-palestinese, che, secondo il pensiero comune a tutto il mondo islamico, è una grave ferita, perché l’Occidente ha sottratto un territorio islamico, e quindi ‘sacro’ ad Allah e di proprietà islamica ‘per diritto divino’ fino alla fine dei tempi, per darlo agli ebrei. È vero che una parte dell’autorità e del popolo palestinese sono disposti ad accettare l’esistenza dello stato di Israele, ma si può ricordare che lo statuto di Hamas, del 18 agosto 1988, dice all’articolo 15: ‘Quando i nemici usurpano un pezzo di terra islamica, il jihad diventa un obbligo individuale (cioè personale, a cui non è possibile sottrarsi) per ogni musulmano. Di fronte all’usurpazione della Palestina da parte degli ebrei dobbiamo in nalzare la bandiera del jihad’. Questo può esigere non il suicidio – che è proibito dall’islam – ma il ‘martirio’ che, a differenza del suicidio, ritenuto un gesto egoistico, è un gesto altruistico, compiuto per difendere l’onore di Allah e i diritti, conculcati, dell’islam: è un gesto ‘religioso’ che Allah compensa col paradiso”.

Terzo: “abbandonare l’idea d’imporre ai popoli islamici la democrazia, intesa in senso occidentale, perché, in quanto è fondata sul suffragio popolare, come fonte dell’autorità, nega, secondo i fondamentalisti, l’autorità assoluta di Allah sui ‘credenti’ e fa del consenso popolare la forza delle leggi: per l’islam Allah è la fonte delle leggi, che sono leggi divine, rivelate a Maometto e codificate nella sharia. Si può certo auspicare che nei paesi islamici si diffonda il sistema democratico, ma ciò deve avvenire con il consenso e per iniziativa degli stessi popoli islamici, nel rispetto della loro cultura e dei loro valori”.

Quarto: “privilegiare le misure di polizia e soprattutto di intelligence”.

Quinto: privare il terrorismo “dei grandi finanziamenti di cui gode attualmente: finanziamenti che provengono sia da grandi banche islamiche, sia dall’elemosina rituale (zakat) raccolta nelle moschee, sia da alcune compagnie petrolifere, sia da ONG islamiche”.

* * *

Fin qui l’editoriale della “Civiltà Cattolica” su come contrastare l’offensiva islamica.

Se per sconfiggere un nemico occorre innanzi tutto conoscerlo, l’editoriale è perfetto: descrive la logica di violenza presente nell’islam – sia quello terrorista e fondamentalista, sia quello della intera umma – con una precisione scientifica.

Ma descrive così bene tale logica di violenza da darle praticamente ragione su tutto. Fino a sconfessare chi, tra i musulmani, si discosti dalla dottrina ortodossa. I paragrafi su Israele sono esemplari: quei palestinesi che ne accettano l’esistenza sappiano che “il pensiero comune a tutto il mondo islamico” è opposto e che Hamas e i suoi “martiri” lo rappresentano molto più coerentemente; Israele va estirpato da una terra che è “di proprietà islamica ‘per diritto divino’ fino alla fine dei tempi”.

I passaggi sulla democrazia sono anch’essi indicativi. “La Civiltà Cattolica” rifiuta che la si imponga ai popoli islamici, ma “auspica” che essi se la diano di loro iniziativa. In un altro passaggio lo stesso editoriale sostiene però che la democrazia è incompatibile con l’islam. Un precedente editoriale del 2 febbraio 2004 la definiva addirittura “offensiva per la comunità islamica”.

Contraddittorio appare anche l’auspicio di tagliare i finanziamenti alle formazioni terroristiche. Dopo aver argomentato, per pagine e pagine, che il mondo musulmano è un tutto inviolabile e non va toccato, non si capisce come nelle ultime righe “La Civiltà Cattolica” proponga di intervenire con la forza nelle moschee e nelle associazioni caritative della mezzaluna, da cui proverrebbero i finanziamenti.

Ma la contraddizione più lampante è nel primo dei cinque punti finali: là dove “La Civiltà Cattolica” invoca “un dialogo interculturale sereno e leale” con l’islam.

Se un esempio di dialogo è dato da questo editoriale, in realtà esso ne è la negazione.

In nove pagine non una sola riga, non una sola parola sottopongono a critica “secondo ragione” l’impressionante plesso tra fede e violenza descritto come presente nell’islam d’oggi.

A Ratisbona Benedetto XVI questo ha fatto, con raro coraggio.

“La Civiltà Cattolica” – che per statuto dovrebbe riflettere il pensiero del papa e farne l’apologia – non l’ha nemmeno citato.

Né poteva farlo, in un editoriale che nel mondo islamico può esser letto solo come un atto di resa. (Sandro Magister, www.chiesa)

 

 

 


 

Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica:

genesi, gestazione e nascita del testo attuale

Domenica 5 novembre 2006

 

1. Il Compendio, libro di due papi

Il Compendio è il frutto del Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) (CCC), che, pubblicato nel 1992, era stato accolto favorevolmente dai pastori e dai fedeli, come testo sicuro sia per l’insegnamento della dottrina cattolica, sia per l’elaborazione dei catechismi locali. A dieci anni dalla pubblicazione, durante il Congresso catechistico internazionale, svoltosi in Vaticano nel 2002 (8-11 ottobre), fu richiesto insistentemente un Compendio del grande Catechismo. Pastori ed esperti di catechesi, provenienti da tutti i continenti, espressero l’esigenza di un testo più conciso e maneggevole, che fosse disponibile sia per l’immediata consultazione, per dare una prima risposta alle tante domande che si pongono alla nostra fede, sia per una eventuale memorizzazione di alcune sue parti significative.

Giovanni Paolo II accolse l’idea e formò subito una Commissione speciale, con a capo il card. Joseph Ratzinger [1]. Nella lettera del 2 febbraio 2003, inviata all’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Giovanni Paolo II parla esplicitamente dell’ampia e sentita esigenza «di un breve compendio, che contenga tutti gli elementi fondamentali della fede e della morale cattolica formulati in maniera semplice e chiara» [2].

a) L’attività della Commissione speciale si protrasse per un intero biennio (2003-2005), articolandosi in quattro fasi. La prima di impostazione; la seconda di elaborazione; la terza di consultazione; la quarta di revisione definitiva.

Nella prima fase la Commissione speciale, coadiuvata da un comitato di redazione, elaborò alcune linee guida per la concreta realizzazione del progetto. Si trattava di preparare un testo che rispecchiasse fedelmente il CCC, quanto agli aspetti essenziali della fede e della morale cristiana. Più concretamente, Giovanni Paolo II affermava nella già citata lettera del 2 febbraio 2003:

Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica dovrà contenere, in modo conciso, i contenuti essenziali e fondamentali della fede della chiesa, rispettandone la completezza e l’integrità dottrinale, sì da costituire una sorta di «vademecum» che consenta alle persone, credenti e non, di abbracciare, in uno sguardo d’insieme, l’intero panorama della fede cattolica [3].

L’impresa racchiudeva numerose difficoltà ed esigeva grande coraggio. Se il CCC era una maestosa cattedrale a più navate, che aveva suscitato stupore e ammirazione, il Compendio non poteva essere da meno. Pur presentandosi come una piccola cappella, non poteva, però, essere meno nobile e bello della grande chiesa. Una questione di fondo fu la scelta del genere letterario: riassunto del grande Catechismo oppure impostazione dialogica con domande e risposte? Si preferì il genere dialogico, perché più favorevole alla sintesi e anche perché più coinvolgente, nel senso che il lettore è sollecitato, di domanda in domanda, a proseguire nella scoperta delle verità della propria fede. Tale genere – come dimostra anche la storia dei catechismi a domande e risposte –, favorisce la memorizzazione del testo. Altri problemi riguardarono l’integrità dottrinale, la completezza, il livello della sintesi nei confronti del grande Catechismo, il linguaggio, la presentazione grafica.

b) La seconda fase portò alla elaborazione di un progetto di Compendio in forma dialogica, i cui destinatari erano gli stessi del grande Catechismo, ma con una particolare preferenza per i semplici fedeli, per i giovani e anche per i non cattolici. La Commissione aveva ben in mente che non si trattava di un qualsiasi compendio della fede cattolica, ma del compendio del CCC. Giovanni Paolo II nella lettera del 2 febbraio 2003 affermava che tale compendio:

avrà come fonte, modello e punto di riferimento costante l’attuale Catechismo della Chiesa Cattolica, che, mantenendo intatta la sua autorevolezza e importanza, potrà trovare, in tale sintesi, uno stimolo ad essere meglio approfondito, e, più in generale, un ulteriore strumento di educazione alla fede.

La Commissione, dopo aver individuato i criteri fondamentali e le linee-guida da seguire nell’elaborazione del Compendio, prese in esame in diverse riunioni il Progetto di testo preparato dal Comitato di redazione [4]. Questo progetto fu valutato come pienamente fedele al CCC per quanto riguarda sia i contenuti, sia la loro articolazione, sia la proporzione, sia il linguaggio. Questa corrispondenza puntuale e reale era importante dal momento che il CCC doveva continuare a essere il costante punto di riferimento del Compendio, evitando di perdere in importanza e in autorevolezza. Nel testo del Progetto doveva emergere la stretta dipendenza dal grande Catechismo, al quale continuamente e concretamente rimandava mediante i numeri di riferimento posti ai margini esterni delle sue pagine.

c) La terza fase fu quella della consultazione. All’inizio del 2004 il Progetto – il cosiddetto Libro verde, dal colore della copertina – fu inviato per la sua valutazione e approvazione a tutti i cardinali e a tutti i presidenti delle Conferenze episcopali della chiesa. Il testo era accompagnato da schede di risposta sia ai quesiti generali di esame dell’intero testo sia ai quesiti particolari di analisi delle singole parti e dei singoli paragrafi. I quesiti generali riguardavano i seguenti punti: esame complessivo del testo e valutazione della sua fedeltà e integrità dottrinale; della sua brevità ed essenzialità; delle sue caratteristiche redazionali. Si chiedevano anche proposte e suggerimenti per la recezione e la diffusione del testo definitivo del Progetto.

Il testo ebbe un riscontro altamente favorevole. Il Comitato di redazione si mise subito al lavoro per l’inserimento delle proposte di miglioramento del testo e, nell’autunno del 2004, concluse la sua lodevole partecipazione con l’elaborazione di un duplice testo rivisto secondo le indicazioni pervenute dalla consultazione.

d) Nella riunione del 29-30 novembre 2004, la Commissione speciale pontificia decide di affidare a un gruppo di esperti l’elaborazione finale, nel più breve tempo possibile, di un testo unico [5]. In generale gli esperti curarono una più precisa corrispondenza tra domande e risposte; lo sviluppo organico e logico delle risposte; la soppressione di ripetizioni e di ridondanze; una maggiore scorrevolezza del testo e la riformulazione di qualche passo per una sua maggiore chiarezza e precisione teologica e catechistica.

Dopo una settimana intensa di lavoro collegiale (3-8 gennaio 2005), gli esperti misero a punto il progetto del Compendio per l’esame definitivo da parte della Commissione speciale, che rivide ulteriormente il testo in altre due sedute (24-26 gennaio e 14-15 marzo 2005). Intanto, il 10 marzo, giungeva al card. Ratzinger una lettera di papa Giovanni Paolo II, già ricoverato al Policlinico Gemelli, in cui il Santo Padre esprimeva soddisfazione per il lavoro compiuto e prevedeva nel contempo anche i tempi di pubblicazione del Compendio. Riportiamo integralmente le parole del Pontefice, che evidenziano l’importanza che egli attribuiva all’iniziativa:

Ho appreso con vivo compiacimento che la Speciale Commissione incaricata di elaborare il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, da Lei presieduta, è giunta a preparare un suo quasi definitivo progetto, frutto della consultazione di tutti i Cardinali e i Presidenti delle Conferenze Episcopali.

Nell’esprimerLe il mio compiacimento per questo ulteriore passo compiuto, desidero far giungere, attraverso di Lei, Signor Cardinale, il mio incoraggiamento all’intera Commissione, con l’augurio che il testo, secondo il progetto, possa essere presentato al pubblico nella prossima solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e distribuito, nelle varie lingue, ai giovani partecipanti alla XX Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia.

Dopo la morte di Giovanni Paolo II (2 aprile 2005) e con l’elezione del card. J. Ratzinger a Sommo Pontefice col nome di Benedetto XVI (19 aprile 2005), il Compendio, il libro dei due papi, poteva considerarsi pronto per essere donato alla chiesa intera. Si concludeva così la fase finale della sua redazione.

 2. L’originalità del Compendio

Il Compendio, pur essendo una sintesi fedele del grande Catechismo, presenta, però, alcune sue precise e originali caratteristiche, come, ad esempio, il genere dialogico a domande e risposte – genere letterario usato sin dall’antichità in filosofia, in teologia e anche nell’insegnamento catechistico –; il corredo di immagini, che fanno parte integrante del testo; un’appendice con preghiere e formule della tradizione cattolica. Mi soffermo brevemente sul tema della fedeltà al CCC e sull’uso delle illustrazioni.

a) La fedeltà al Catechismo si evince sia dall’articolazione quadripartita del Compendio – fede professata con la spiegazione del Credo; fede celebrata, con l’illustrazione dei sacramenti; fede vissuta, con il commento ai comandamenti; fede pregata, con l’interpretazione del Padre nostro – sia soprattutto dal linguaggio e dai numeri di riferimento posti ai margini di ogni domanda. Forse si potrebbe far notare che, in un solo caso, il Compendio, invece di un riassunto, ripropone per intero un paragrafo del Catechismo. Si tratta del n. 88, in cui la Commissione speciale ha voluto riportare la formulazione più ampia della definizione calcedonese, perché catecheticamente più comprensibile e quindi più chiara:

Il concilio di Calcedonia insegna a confessare «un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità; vero Dio e vero uomo, composto di anima razionale e di corpo; consostanziale al Padre per la divinità, consostanziale a noi per l’umanità, «simile in tutto a noi, fuorché nel peccato» (Eb 4,15); generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità e, in questi ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza, nato da Maria Vergine e Madre di Dio, secondo l’umanità [6].

In ogni caso, il Compendio costituisce un rilancio del grande Catechismo, dove il fedele e lo stesso catechista può sempre trovare motivazioni più ampie ed esaurienti alle sue domande. Il Compendio, inoltre, non rappresenta una minaccia per i catechismi delle varie chiese locali, dal momento che essi mantengono intatta la loro importanza. Esso è solo un sussidio utilissimo per offrire al fedele, grande e piccolo che sia, e anche al non cristiano, uno sguardo d’insieme della fede cristiana. Nessuno può negare l’indispensabilità di uno strumento, che offre alla chiesa intera un linguaggio semplice ed estremamente comprensibile in Occidente come in Oriente. La richiesta fatta nel 2002 e la quasi unanimità emersa dalla consultazione del 2004 sono un indizio chiaro, che, letto senza pregiudizi ideologici, il Compendio viene incontro a una reale esigenza del cristiano di oggi, estremamente bisognoso, in una cultura dalle mille opinioni, di avere un riscontro immediato ai dubbi e alle domande circa la sua fede.

Del resto, già nel II sec., il grande scrittore e vescovo Ireneo di Lione scriveva per il suo amico Marciano la Dimostrazione della predicazione apostolica, che è un vero e proprio compendio della fede cristiana a carattere catechetico:

Conosco, caro Marciano, la tua diligenza a camminare nella via della pietà, che sola conduce l’uomo alla vita eterna [...]. Poiché ora siamo fisicamente lontani l’uno dall’altro, abbiamo deciso, nei limiti del possibile, di intrattenerci per iscritto con te e di esporti brevemente la predicazione della verità per consolidarti nella fede. Quello che ti inviamo è una serie di annotazioni su punti fondamentali, cosicché in poche pagine tu possa trovare molta materia avendo raggruppato in breve le linee fondamentali del corpo della verità e con questo compendio tu abbia in mano le prove delle realtà divine. Così il risultato sarà non solo la tua salvezza, ma anche la confutazione di coloro che coltivano false opinioni e, a chi lo vuole conoscere, esporrai con sicurezza il nostro insegnamento nella sua integrità e purezza [7].

Il Compendio costituisce, quindi, uno strumento per la formazione permanente, per l’evangelizzazione dei non cristiani e per la confutazione di opinioni erronee.

b) Il Compendio presenta anche le novità delle immagini. Il testo, infatti, è arricchito da quattordici immagini, che non sono semplici tavole fuori testo, ma fanno parte integrante del Compendio:

Esse proclamano lo stesso messaggio evangelico che la Sacra Scrittura trasmette attraverso la parola, e aiutano a risvegliare e a nutrire la fede dei credenti [8].

Le immagini, cioè, non hanno una pura funzione cosmetica, di abbellimento del testo, ma assolvono a un vero servizio di annuncio evangelico, dal momento che, oltre alla tradizione scritta e orale, c’è anche la parola dipinta, che con la sua bellezza artistica parla all’intelligenza e al cuore del fedele.

Il VII concilio ecumenico, quello di Nicea II (787 d.C.), nella sua definizione afferma di voler custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni ecclesiastiche, sia scritte che non scritte: «Una di queste, in accordo con la predicazione evangelica, è la pittura delle immagini» [9]. Fortunatamente nella chiesa cattolica, sia in Oriente che in Occidente, l’arte ha dato un contributo straordinario alla predicazione del vangelo e alla formazione dei fedeli. L’azione catechistica – soprattutto nell’era delle immagini, come la nostra – non può disattendere questo tesoro, in cui lo splendore della verità si sposa con la gloria della bellezza. Le ricche didascalie che accompagnano le immagini, oltre a dare significato alle varie parti e sezioni, possono anche essere paradigmatiche per riscoprire l’anima evangelica delle numerose e straordinarie testimonianze dell’arte cristiana presenti nella chiesa intera.

3. La recezione ecclesiale del Compendio

Un’ulteriore novità è stata anche la modalità della promulgazione del Compendio, il giorno 28 giugno, festa di sant’Ireneo, grande difensore e testimone della fede cattolica. Invece della consueta conferenza stampa con i giornalisti, c’è stata la celebrazione dell’ora sesta nella Sala Clementina, alla presenza di una scelta rappresentanza di pastori e di fedeli (religiosi, catechisti, coniugi, giovani, bambini). Ed è stato il Santo Padre a consegnare personalmente il Compendio a ognuno. Questo gesto simbolico aveva un triplice significato.

a) Anzitutto stava a indicare che liturgia e catechesi sono inseparabili. La liturgia è la professione e la celebrazione dei misteri della fede e quindi è una continua catechesi e formazione alla fede.

b) In secondo luogo il papa intendeva rilevare che il Compendio era un «suo» dono alla chiesa intera e all’umanità. Nel Motu proprio di approvazione e pubblicazione, il Santo Padre affermava:

Affido con fiducia questo Compendio – disse il papa – anzitutto alla chiesa intera e ad ogni cristiano in particolare, perché grazie ad esso possa ritrovare, in questo terzo millennio, nuovo slancio nel rinnovato impegno di evangelizzazione e di educazione alla fede, che deve caratterizzare ogni comunità ecclesiale e ogni credente in Cristo a qualunque età e nazione appartenga [10].

E Benedetto XVI riaffermava questa sua convinzione gioiosa nell’omelia di presentazione del Compendio:

Oggi, in questa vigilia della Solennità dei SS. Pietro e Paolo, a quarant’anni dalla conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II, provo grande gioia nel consegnare questo Compendio, da me approvato, non solo a tutti i membri della chiesa, qui significativamente rappresentati, nelle varie componenti, da tutti Voi che partecipate a questo solenne incontro. Ma, attraverso di Voi – Venerati Fratelli Cardinali, Vescovi, sacerdoti, catechisti e fedeli laici – desidero consegnare idealmente questo Compendio anche ad ogni persona di buona volontà, che desideri conoscere le insondabili ricchezze del mistero salvifico di Gesù Cristo.

A questo dono del magistero il fedele ha il compito di rispondere con sentimenti di gratitudine e con atteggiamento di docile accoglienza, come insegna il grande Catechismo:

I fedeli, memori della parola di Cristo ai suoi Apostoli: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Lc 10,16), accolgono con docilità gli insegnamenti e le direttive che vengono loro dati, sotto varie forme, dai Pastori [11].

Non si può provare tristezza – come qualcuno ha detto – ma solo gioia alla lettura di questo piccolo catechismo. È la gioia dei figli che accolgono con entusiasmo la parola di Gesù, comunicata mediante la voce del magistero della chiesa. Il Compendio – così come il CCC – non è altro che la testimonianza della fede degli apostoli trasmessa ai fedeli del terzo millennio. Inoltre, esso non intende togliere al singolo fedele adulto la capacità di interiorizzare, motivare e sviluppare in modo personale e profondo la propria fede. Al contrario, vuole solo essere un vademecum elementare, che la chiesa, madre misericordiosa e attenta, offre ai suoi figli perché ricordino e vivano le meraviglie che il Signore ha fatto per loro. E di fronte alla parola di Dio tutti noi siamo come bambini, che non dimenticano mai le lezioni apprese da piccoli. Charles Péguy diceva che la sua fede era tutta intera nel catechismo dei piccoli della sua parrocchia natale ed Étienne Gilson aggiungeva che quello di cui aveva bisogno nella sua vita lo aveva appreso dal catechismo.

Il card. Christoph Schönborn affermava: Rispetto al catechismo, il bambino e il professore rimangono sempre allo stesso livello, perché davanti ai misteri della fede siamo sempre bambini [12].

c) In terzo luogo la pubblicazione del Compendio più che evento mediatico della durata di un giorno, era da intendersi come evento ecclesiale, la cui efficacia doveva perdurare nel tempo mediante una recezione cordiale e duratura. Il Compendio, infatti, così come il grande Catechismo, è un libro di consultazione continua. Il susseguirsi di domande brevi e di risposte altrettanto brevi permette al fedele di avere a disposizione un agile strumento di formazione permanente. L’esperienza fatta non solo da catechisti ma anche da insegnanti di religione, mostra la sua grande carica educativa, che permette al giovane di assimilare gradualmente i contenuti della propria fede. Del resto, è un fatto inequivocabile che in Italia il Compendio ha avuto un successo straordinario, superando a tutt’oggi di gran lunga i due milioni di copie [13]. A dimostrazione che c’era estremo bisogno di un sussidio catechistico leggibile, sintetico e di grande maneggevolezza.

4. Benedetto XVI, catechista

Esaudendo il desiderio di Giovanni Paolo II e pubblicando il Compendio, Benedetto XVI conferma la sua indole di uomo dalla fede profonda e serena. Da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede era solito dire che il suo compito era difendere la fede dei semplici dalle dottrine ambigue ed erronee dei cosiddetti sapienti di questo mondo.

L’elaborazione e la pubblicazione del Compendio sottolineano la grande attenzione catechistica del «teologo» Ratzinger. Il genere letterario a domande e risposte, da lui voluto, evidenza anche la sua grande disponibilità all’educazione dei fedeli mediante il dialogo tra discepolo e maestro. Ne sono aperta testimonianza i colloqui improvvisati con i sacerdoti, i seminaristi, i giovani e perfino con i bambini. In una indimenticabile serata d’ottobre del 2005 sul sagrato della Basilica di San Pietro, gremito di bambini, alla piccola Livia, che gli chiedeva «perché confessarsi quando si fanno sempre gli stessi peccati?», il papa rispondeva:

È vero, di solito, i peccati sono sempre gli stessi, ma come puliamo regolarmente le nostre abitazioni per non far accumulare la sporcizia, così non bisogna trascurare la pulizia dell’anima.

Certo il Compendio, con le sue 598 domande e risposte, non esaurisce l’annuncio del vangelo né il prezioso tesoro della tradizione cristiana. Ma rimane pur sempre un catechismo breve che invita a esplorare le ricchezze dell’opera maggiore e a contemplare nelle immagini la bellezza della verità, più eloquente e incisiva della stessa parola. (mons. Angelo Amato, Credere Oggi, n. 153/2006)

NOTE

[1]La Commissione speciale era formata, oltre che dal card. Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, dai cardinali Jorge A. Medina Estévez, prefetto emerito della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti; Jan Pieter Schotte, CICM, segretario del Sinodo dei vescovi (deceduto poi agli inizi del 2005); Darío Castrillón Hoyos, prefetto della Congregazione per il clero; Christoph Schönborn, OP, arcivescovo di Vienna; Tarcisio Bertone, SDB, arcivescovo di Genova; e dal segretario della Congregazione per la dottrina della fede, estensore di queste note. Il segretario tecnico era mons. Raffaello Martinelli.

[2] Giovanni Paolo II, Lettera al card. Joseph Ratzinger (2 febbraio 2003).

[3] Ivi.

[4] Guidato da mons. R. Martinelli, capouffico alla Congregazione per la dottrina della fede, il Comitato era formato anche da padre Louis Menvielle, addetto di segreteria della Congregazione del clero, e dalla dott. Dagny Kjaergaard, collaboratrice presso la Curia arcivescovile di Vienna.

[5] Il gruppo, coordinato da don Enrico dal Covolo, SDB, era composto da mons. Fernando Ocáriz, mons. Angel Rodríguez Luño, mons. Antonio Miralles, mons. Giovanni Carrù e da padre Cándido Pozo, SJ.

[6] Compendio, n. 88; cf. CCC 467.

[7] Ireneo di Lione, Dimostrazione della predicazione apostolica, Prologo, 1.

[8] Compendio, n. 240.

[9] Mansi XIII, coll. 377BC; versione italiana in G. Alberigo (ed.), Decisioni dei concili ecumenici, UTET, Torino 1978, p. 203.

[10] Benedetto XVI, Motu proprio per l’approvazione e la pubblicazione del Compendio del Catechismo della chiesa Cattolica (28 giugno 2005).

[11] CCC 87.

[12] G. Valente, Intervista a Schönborn sul Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, in «30Giorni» 7-8 (2005).

[13] Edito dalla LEV e dalla San Paolo, il Compendio ha avuto anche la promozione personale del Santo Padre con una lettera alle famiglia pubblicata su «Famiglia cristiana», nel numero di Natale (52/2005).

 

 

 


 

IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona (16-20 ottobre 2006):

Domenica 29 ottobre 2006

 

Dopo Verona. Come “restituire piena cittadinanza alla fede cristiana”

Papa Ratzinger e il suo vicario Ruini vedono nell’Italia “un terreno assai favorevole” per la rinascita pubblica del cristianesimo anche in Europa e nel mondo. Ma molti non accettano la loro visione. E l’arcivescovo di Milano, Tettamanzi, si è messo alla testa degli oppositori…

Dopo le cinque giornate di Verona, l’eccezionalità della Chiesa italiana diventerà invidiatissima materia di studio nei vescovadi d’Europa e d’America, specie là dove la cristianità è più in declino. A Verona, dal 16 al 20 ottobre, la Chiesa italiana ha riunito i suoi stati generali: vescovi, preti, fedeli. E lì il papa tedesco ha scommesso proprio su ciò che distingue l’Italia cristiana: il suo essere Chiesa non di minoranza ma di popolo, “molto viva e capillarmente presente in mezzo alla gente di ogni età e condizione”.

Per Benedetto XVI questa eccezionalità dell’Italia non è residuale, ma antesignana della rinascita cristiana dell’Occidente, da lui così intensamente sperata. Ai cattolici italiani egli ha dettato un programma molto esigente. Se “sapremo attuarlo”, ha detto, “la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa nazione, ma anche all’Europa e al mondo”.

Intanto, però, larghi strati dell’apparato di questa stessa Chiesa italiana guardano al programma di Benedetto XVI con timore e stupore. Hanno salutato cortesi l’arrivo del papa a Verona giovedì 19, hanno punteggiato di applausi il suo monumentale discorso, ma non ne sono stati conquistati. Dei 2700 delegati un buon terzo hanno tenuto le braccia conserte, gli stessi che il giorno dopo hanno negato l’applauso al cardinale Camillo Ruini, da più di quindici anni ininterrottamente alla guida della conferenza episcopale italiana per mandato di questo e del penultimo papa.

Ruini, 75 anni compiuti, è per ragioni d’età alla fine della sua lunga premiership. È stato l’uomo prescelto da Giovanni Paolo II, nel 1985, agli stati generali della Chiesa italiana convocati quell’anno a Loreto, per restituire a tale Chiesa “un ruolo guida e un’efficacia trainante” che lui, Karol Wojtyla, vedeva invece sminuiti e negati dalla “scelta religiosa” che era la parola d’ordine dei capi di Chiesa dell’epoca, in testa il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano e presidente del comitato organizzativo di quella assise.

La “scelta religiosa” era sinonimo di una Chiesa mite e amichevole con la modernità, silenziosamente mescolata alle forze del progresso, invisibile come “lievito nella pasta”, concentrata sullo spirituale e sul primato della coscienza individua. Scelta inaccettabile per un papa venuto dal combattuto e combattivo cattolicesimo popolare polacco: un papa, in effetti, giudicato “barbaro” da larga parte dell’intellettualità cattolica italiana dell’epoca.

Di quei giudizi su papa Wojtyla fa testo un libro autorevole: l’intervista a don Giuseppe Dossetti raccolta e pubblicata postuma per l’editrice il Mulino da Pietro Scoppola e Leopoldo Elia. Oggi il professor Scoppola, commentando l’assise di Verona, salva Benedetto XVI da critiche analoghe, ma lo fa attribuendo impropriamente al papa regnante proprio quella “logica religiosa” e quello spirito “conciliare” che continuano a essere il sogno e il linguaggio dei delusi dalla “restaurazione” di Wojtyla e Ruini.

A Verona, ad accarezzare questo sogno è stato il successore di Martini sulla cattedra di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi. A lui spettava, come presidente del comitato preparatorio del convegno, il discorso inaugurale. E puntualmente Tettamanzi ne ha fatto un discorso di successione e di opposizione a Ruini.

A quelli che pensano (come lo storico della Chiesa Alberto Melloni nel libro “Chiesa madre chiesa matrigna”) che il lungo, teatrale pontificato di Giovanni Paolo II abbia semplicemente occultato i problemi veri della Chiesa che sono rimasti gli stessi di quarant’anni fa – nuovi ministeri per laici e donne, nuova morale sessuale, eccetera: le questioni elencate dal cardinale Martini nel 1999 invocando un nuovo Concilio – Tettamanzi ha promesso un ritorno alle origini, allo spirito “volutamente ottimista” con cui negli anni Sessanta il Concilio Vaticano II guardava al mondo moderno, e “invece di deprimenti diagnosi” seminava “incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia”.

Circa l’interpretazione dello stesso Concilio, Tettamanzi ha incorniciato una frase di Paolo VI del 1965, ma ha taciuto del tutto le tesi illustrate da Benedetto XVI in uno dei suoi discorsi capitali, quello del 22 dicembre 2005 alla curia romana, criticissimo dell’idea del Vaticano II come “nuovo inizio” per l’intera storia della Chiesa.

A quelli che prediligono “una Chiesa che ascolti prima di parlare” (vedi il libretto “La differenza cristiana” del priore di Bose, Enzo Bianchi) l’arcivescovo di Milano ha sostenuto che “è meglio essere cristiani senza dirlo che proclamarlo senza esserlo”. L’indomani i maggiori quotidiani nazionali hanno interpretato queste parole come una bocciatura degli “atei devoti” tipo Oriana Fallaci o Giuliano Ferrara, estranei alla fede eppure fortissimamente schierati a difesa della civiltà cristiana e grandi estimatori di papa Benedetto XVI. Tettamanzi, interpellato, s’è guardato bene dal respingere tale interpretazione, ma in realtà il suo sguardo era più dentro la Chiesa che fuori. Non importa che il vero autore della frase, il santo vescovo e martire del II secolo Ignazio di Antiochia, fosse un cristiano tutt’altro che taciturno, anzi, proclamasse la sua fede a voce così alta da andare incontro al martirio.

L’intreccio tra cristianesimo e modernità caro a Tettamanzi non è pura teoria. È messo in pratica da anni nel cuore stesso della sua arcidiocesi di Milano, nella chiesa cattedrale, il celebre Duomo.

Alla messa da Requiem per Gianni Versace, nel 1997, Elton John suonò e cantò al centro del Duomo “Candle in the wind”.

Sulla “cattedra dei non credenti” inventata dal cardinale Martini si sono avvicendati spiriti laici richiestissimi non per lodare il cristianesimo ma per risvegliare anche nei cristiani “il non credente che è in noi”.

In Quaresima, per meditare sulle “ultime parole di Cristo in croce” si sono letti in Duomo non i quattro Vangeli ma pagine scelte di Oscar Wilde, Marguerite Yourcenar, Pier Paolo Pasolini, Jack Kerouac, col pubblico che dando le spalle all’altare contemplava dei video proiettati sulla controfacciata interna della chiesa, con sottostante palco musicale.

A Pentecoste si sono declamati brani del filosofo Baruch Spinoza, con una prima esecuzione musicale di Karlheinz Stockhausen e proiezioni dell’artista astratto giapponese Tatsuo Miyajima.

Infine nella cripta sotto l’altare maggiore, accanto alle reliquie di san Carlo Borromeo che assieme a sant’Ambrogio è uno dei due patroni di Milano, è stato allestito un box intitolato “Via dolorosa” dentro il quale, al buio, si può assistere per 18 minuti alla proiezione di immagini mute e nella quasi totalità nere. Obiettivo dichiarato: “portare il visitatore nella nube dell’inconoscenza, nella quale egli sia finalmente di fronte alla sua libera scelta, quella di credere oppure no”.

Nei primi tre giorni, a Verona, l’effetto Tettamanzi ha fatto alone. Assente Benedetto XVI e silenzioso il cardinale Ruini, le parole dominanti tra i delegati, divisi in decine di gruppi di discussione paralleli, erano “accoglienza”, “ascolto”, “dialogo”, “oblazione”: parole intrise più di passione che di analisi degli epocali cambiamenti intervenuti nel mondo e nella Chiesa negli ultimi vent’anni. Il papa era quasi ignorato anche dai relatori ufficiali. Una sola volta è stata citata la sua lezione di Ratisbona: dal rettore dell’Università Cattolica di Milano, Lorenzo Ornaghi, ruiniano a tutto tondo.

Finché è arrivato lui, Benedetto XVI, a polverizzare ciò che fin lì aveva occupato la scena. “L’Osservatore Romano”, cogliendo per una volta nel segno, ha riportato il discorso papale sotto il titolo a tutta pagina: “Restituire piena cittadinanza alla fede cristiana”. Cittadinanza pubblica, laicamente alla pari, di cristiani capaci di dire dei no (e il papa non ne ha omesso alcuno di quelli che ritiene d’obbligo per difendere la vita umana dal concepimento alla morte naturale, la famiglia, la libertà d’educazione) ma soprattutto di pronunciare dei sì “a tutto ciò che di giusto, vero e puro vi è nelle culture e nelle civiltà”, insomma “quel grande sì che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo”. È questo in sostanza – ha affermato il papa – il “progetto culturale” ideato e attuato per la Chiesa italiana dal cardinale Ruini.

A quelli che contrappongono la purezza nascosta del cristianesimo dei primi secoli al ruolo visibile che la Chiesa d’oggi vuole assegnato alla fede, Benedetto XVI ha ribattuto che “il cristianesimo e la Chiesa fin dall’inizio hanno avuto una dimensione e una valenza anche pubblica” e che la “strada maestra” dell’espansione missionaria del cristianesimo rimane oggi la stessa di allora: “una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti”, ma nello stesso tempo “una fede amica dell’intelligenza”. Ossia una Chiesa “sempre pronta a dare risposta a chiunque domandi ragione della nostra speranza”.

Forte del sigillo papale, la mattina dopo, venerdì 20 ottobre, un Ruini raggiante ha ripassato punto per punto le molte cose fatte nei suoi anni di presidente della CEI e le tante ancora da fare. A queste provvederà il successore, che sarà probabilmente un cardinale e forse il cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia. La nomina spetta al papa.

Il primo degli esclusi, Tettamanzi, potrà sempre farsi forte di quel ceto cattolico di sentimenti “conciliari”, fatto di qualche vescovo, di molti preti e di tanti laici d’apparato, che a Verona era largamente presente e che ha tra i suoi maestri Scoppola, Bianchi e Melloni.

Ma la Chiesa di popolo su cui Benedetto XVI e Ruini hanno scommesso non è lì. Da teologo, Joseph Ratzinger diceva di voler difendere “la fede dei semplici”. I veri ratzingeriani, in Italia, sono tra i cattolici comuni, tra gli ascoltatori di Radio Maria, tra i sostenitori del Movimento per la Vita, tra i milioni di fedeli che vanno a messa la domenica e a questo papa non chiedono di tacere ma di parlare come sa. (Sandro Magister, www.chiesa.it, 26 ottobre 2006)

 

 

 


 

Chiesa di popolo o Chiesa di élite? Il dilemma di Verona  (15 ottobre 2006)

La trasmissione della fede e la cura della sua “qualità” al centro di un grande convegno dei cattolici italiani. Momento clou l’intervento del papa. La polemica sulla “differenza cristiana”

 ROMA, 13 ottobre 2006 – La prossima settimana, a Verona,  si riuniscono gli stati generali della Chiesa italiana, vescovi, preti, fedeli, con un totale di 2700 delegati.

È il quarto incontro del genere in trent’anni, dopo Roma nel 1976, Loreto nel 1985 e Palermo nel 1995.

Il suo momento clou sarà anche questa volta l’intervento del papa. Benedetto XVI arriverà a Verona la mattina di giovedì 19 ottobre, terrà un discorso e nel pomeriggio celebrerà la messa.

Ciò che accadrà a Verona orienterà il percorso della Chiesa italiana nei prossimi anni, ma avrà effetto anche sulla Chiesa mondiale grazie al legame dell’Italia con la sede di Pietro.

Sia il titolo dell’incontro – “Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo” – sia uno dei cinque temi su cui si articolerà la discussione hanno al centro la “tradizione”: ossia l’annuncio, la testimonianza, la trasmissione della fede cristiana alle generazioni di oggi e di domani.

Ma, naturalmente, su come far “tradizione” l’accordo non è unanime, dentro la Chiesa italiana.

Alla linea dominante impersonata da Benedetto XVI, dal suo predecessore Giovanni Paolo II e dal loro cardinale vicario Camillo Ruini, da molti anni numero uno della conferenza episcopale, si contrappone una linea che ha il suo leader nel cardinale Carlo Maria Martini, gesuita ed ex arcivescovo di Milano, oggi in ritiro a Gerusalemme ma non uscito di scena.

L’ultimo manifesto di questa seconda tendenza è un piccolo libro scritto da un monaco, il priore di Bose, Enzo Bianchi, intitolato “La differenza cristiana”.

Per Bianchi, la trasmissione della fede “non significa imporre all’Italia e all’Europa il vangelo e l’appartenenza alla chiesa”.

Al contrario:

“La via kenotica, dell’umile abbassamento, percorsa da Cristo è l’esempio che i singoli cristiani e le chiese sono chiamati a seguire [...] Una chiesa che ascolti prima di parlare, che accolga prima di giudicare, che si nutra di creatività piuttosto che di paura, che sappia annunciare profeticamente piuttosto che accusare”.

Un’indiretta risposta a questa tesi è venuta da Benedetto XVI mercoledì 11 ottobre, nell’ultima sua udienza generale prima del convegno di Verona:

“Certo, la via dell'indulgenza e del dialogo, che il Concilio Vaticano II ha felicemente intrapreso, va sicuramente proseguita con ferma costanza. Ma questa via del dialogo, così necessaria, non deve far dimenticare il dovere di ripensare e di evidenziare sempre con altrettanta forza le linee maestre e irrinunciabili della nostra identità cristiana. D'altra parte, occorre avere ben presente che questa nostra identità richiede forza, chiarezza e coraggio davanti alle contraddizioni del mondo in cui viviamo”.

 * * *

 Trasmettere la fede è dunque anche curare “la qualità della fede” – scrive il documento preparatorio al convegno di Verona – in particolare nell’amministrazione dei sacramenti.

Anche su questo punto si confrontano due linee opposte, nella Chiesa italiana.

Il cardinale Ruini le ha esplicitate nel discorso che ha letto il 7 luglio 2006 in Spagna, a Valencia, in occasione dell’incontro mondiale delle famiglie al quale ha preso parte anche il papa:

“In questi ultimi anni si è cominciato a dedicare specifica attenzione alla catechesi delle famiglie i cui bambini vengono battezzati, non solo per prepararle al battesimo ma anche per accompagnarle dopo il battesimo, in modo che anche quelle tante famiglie che da sole sono assai poco in grado di dare una formazione cristiana ai propri figli siano aiutate a farlo, e i loro bambini, dopo essere stati battezzati, sotto il profilo dell’educazione alla fede non rimangano abbandonati a se stessi. [...] Questo tipo di catechesi consente di offrire un’alternativa alla tentazione, pastoralmente distruttiva ma comunque presente in una certa aliquota del clero romano, di non ammettere al battesimo i bambini di famiglie – o di coppie irregolari – che non diano alcuna garanzia di offrire ai loro figli una formazione cristiana”.

La “tentazione pastoralmente distruttiva” denunciata da Ruini – quella di negare il battesimo ai bambini i cui genitori e padrini sono ritenuti di poca o nessuna fede – è in effetti largamente condivisa.

Ne è prova una lettera riguardante il convegno di Verona scritta al quotidiano della conferenza episcopale italiana, “Avvenire”, da Giorgio Campanini, un laico cattolico tra i più in vista:

“Sembra indubbio che si sia di fronte a un evidente sbilanciamento in direzione dell'amministrazione dei sacramenti. Un caso emblematico è quello del sacramento del battesimo, in ordine al quale componenti tradizionali, rituali, a volte quasi magiche sembrano avere di gran lunga la prevalenza sulla proposta di fede. In che misura il battesimo, quale è amministrato oggi, è realmente un annunzio, una proposta di fede? Che ne è della figura dei padrini e delle madrine, ipotetici ‘garanti’ della fede del piccolo battezzato, in una società largamente secolarizzata come l'attuale? C’è da domandarsi se l'attuale prassi – quella di non negare a nessuno, credente o non credente, il battesimo – sia proprio quella più ecclesiasticamente corretta e se si possa consentire anche per il futuro un battesimo senza catechesi dei genitori, dei familiari e dei padrini”.

* * *

Lo scontro tra queste due linee – rigorista quella espressa da Campanini, “di popolo” quella di Ruini – è una costante nella storia della Chiesa.

In un suo libro del 1965, “La preghiera problema politico”, il grande teologo e futuro cardinale Jean Daniélou rimproverava i rigoristi di volere una Chiesa “pura”, simile a “una confraternita degli iniziati”, e con ciò di perdere proprio quei “poveri” che a loro starebbero tanto a cuore: i poveri “nel senso dell’immensa marea umana” fatta anche di “quei numerosi battezzati per i quali il cristianesimo non è altro che una pratica esteriore”.

Per Daniélou la Chiesa non dev’essere “svincolata dalla civiltà in cui si teme possa compromettersi”. Al contrario, è essenziale che “si impegni nella civiltà, perché un popolo cristiano è impossibile in una civiltà che gli sia contraria”. Di qui la difesa che egli fece di Costantino, l’imperatore romano che per primo consentì al cristianesimo di diventare una religione di massa:

“Questa estensione del cristianesimo a un immenso popolo, che rientra nella sua essenza, era stata ostacolata durante i primi secoli dal fatto che andava sviluppandosi all’interno di una società ostile. L’appartenenza al cristianesimo richiedeva quindi una forza di carattere di cui la maggior parte degli uomini è incapace. La conversione di Costantino, eliminando questi ostacoli, ha reso il Vangelo accessibile ai poveri, cioè proprio a quelli che non fanno parte delle élite, all’uomo della strada. Lungi dal falsare il cristianesimo, gli ha permesso di perfezionarsi nella sua natura di popolo”.

Oggi l’accusa che i rigoristi e i fautori del cristianesimo “kenotico” rivolgono sistematicamente a Ruini, a Benedetto XVI e prima di lui a Giovanni Paolo II è proprio quella di ridurre la fede a “religione civile”, “remissiva e accomodante” con i poteri mondani, moderna versione della Chiesa “costantiniana”.

Non importa che la vera “differenza cristiana” risplenda – a caro prezzo! – in un discorso come quello pronunciato da Benedetto XVI all’Università di Ratisbona. E sparisca invece nei cortesi – ed applauditi – dialoghi con la modernità invocati dai suoi detrattori.

Al convegno di Verona questa polarità sarà nel fuoco del dibattito. (Sandro Magister)

 

Ma per tornare alla questione del battesimo dei bambini, ecco qui di seguito un appunto del professor Pietro De Marco, in replica a quanto scritto – vedi sopra– da Giorgio Campanini:

«A proposito del “tradizionale” battesimo dei bambini

Stando a quanto scrive Giorgio Campanini sarebbe prevalente nell’opinione ecclesiale qualificata un orientamento pastorale neorigorista, rivolto a negare il battesimo quando non sia preceduto da un’adeguata catechesi dei genitori e padrini.

A questo orientamento egli teme che non facciano seguito decisioni ufficiali che lo confermino.

Ma Campanini e i pastoralisti cui fa riferimento ritengono davvero che l’amministrazione del battesimo, in un contesto catechetico debole, sia o diventi un fatto “tradizionale, rituale, quasi magico”? Ossia che l’efficacia del sacramento del battesimo sia vincolata al grado di maggiore o minore consapevolezza nella fede di genitori e padrini?

Non credo lo pensino, e non solo perché anche i laici di generazione non giovane hanno sentito parlare di “ex opere operato”. La formula significa che il sacramento produce i suoi effetti per il fatto stesso di essere amministrato, secondo la potenza e la promessa di Cristo. Decenni fa si amava chiosare che l’”ex opere operato” è un “ex opere operantis Christi”: quindi a maggior ragione efficace di per sé, poiché l’atto redentivo ed eternamente attuale di Cristo, da cui il battesimo prende origine, ci sovrasta e trascende proprio perché è per noi e ci trasforma.

Se non si ama il linguaggio di scuola, ci è di modello la cura che la cristianità antica ebbe per la catechesi, in direzione opposta a ogni svalutazione del sacramento. Il compimento battesimale dell’iniziazione cristiana non costituiva certo, nei primi secoli, un evento secondario rispetto a una conoscenza che sarebbe stata essa stessa salvifica. Quest’ultima, semmai, era la convinzione degli gnostici. Era vero il contrario: “comunicare la fede” includeva istruire il catecumeno sulla potenza trasformante del rito sacramentale. Il rito è parola santa – del Santo – non solo comunicata ma in atto. Da qui anche l’unità di “lex orandi” e “lex credendi”, di rito e dottrina.

Il vero ostacolo all’efficacia del sacramento è – secondo dottrina – la negazione esplicita e consapevole dei doni di grazia da parte del battezzando. Ma come possiamo attribuire una tale negazione non dico all’infante ma all’adulto che chiede per sé o per altri il battesimo? O come possiamo confondere con una negazione la presunta poca fede?

Non è un buon segno che si proponga come esempio di pratica da consolidare nella Chiesa italiana una soluzione pastorale così delicata e controvertibile come quella dell’esteso rifiuto dei sacramenti ai richiedenti ritenuti non “idonei”: ovvero alla maggior parte dei credenti marginali o esterni alla pratica stabile, che sono però una parte cospicua di coloro che si dichiarano, comunque, cattolici.

Niente giustifica la mancanza di catechesi nei loro confronti, ovviamente. Ma sarebbe un paradosso che per far fronte alle insufficienze della “fides quae creditur” – cioé delle verità di fede credute – nella maggioranza dei battezzati, la Chiesa rinunciasse a testimoniare la propria fede originaria nella potenza del battesimo.

Certo, per dirla con deliberata ironia, avremmo risolto un problema pastorale. Rinunciando a battezzare non avremmo più da curare alcuna catechesi battesimale se non per pochi eletti, con un conseguente restringimento elitario delle nostre comunità, che ne sono già abbastanza tentate.

Ma l’equivoco non sorprende: il rigorismo – più moralistico che teologico – di tanti intellettuali di Chiesa conduce frequentemente a ridurre la fede alla sola “fides qua creditur”, cioè alla modalità personale dell’assenso. Dovremmo invece preoccuparci della crescente irrilevanza – nella catechesi come nelle omelie – del “credendum”: delle verità di fede in cui credere.

La perdita di oggettività del “credendum” è parallela a quella dell’oggettività dei sacramenti. Al loro posto avanza la magmatica sentimentalizzazione della fede delle nostre comunità. Il “per amore, solo per amore” di tanta predicazione e carta stampata ne è lo stucchevole Leitmotiv.

L’esito di questa deriva è sotto i nostri occhi in altre regioni d’Europa. Antiche e grandi “Chiese di popolo” sono quasi scomparse, dopo essersi smarrite tra la prevaricazione intellettualistica dei pochi e la fede informe dei più.

L’esempio addotto da Campanini mostra dunque, contro le sue migliori intenzioni, con quanta cautela la Chiesa docente debba accogliere ciò che da preti e da laici sia eventualmente ritenuto una pratica valida. Su tali questioni un’assise responsabile verso la fede – come la prossima di Verona – ha il compito di portare alla luce e vagliare, non certo di decidere a maggioranza.»

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Pietro De Marco, esperto in geopolitica religiosa, è professore all'Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell'Italia Centrale.

 

 

 


 

L'irragionevole guerra dell'Islam contro Benedetto XVI   

(8 ottobre 2006)

 

A Ratisbona, il papa aveva offerto come terreno di dialogo tra cristiani e musulmani l'”agire secondo ragione”. Ma il mondo islamico l'ha aggredito stravolgendo il suo pensiero: con ciò confermando che il rifiuto della ragione reca con sé intolleranza e violenza. Le incognite del viaggio in Turchia
 Alcune considerazioni a mente fredda.

Appena ritornato dal suo viaggio in Baviera, come da programma, Benedetto XVI ha insediato il cardinale Tarcisio Bertone alla testa della segreteria di stato e ha promosso l'arcivescovo Dominique Mamberti a nuovo ministro degli esteri della Santa Sede.
Contemporaneamente si è trovato ad affrontare un'ondata di proteste senza precedenti da parte del mondo musulmano. Per le cose da lui dette all'Università di Ratisbona il 12 settembre.
I due fatti non sono tra loro slegati. Bertone non è un diplomatico di carriera ma un uomo di dottrina e un pastore d'anime. Più che segretario di stato – ha detto – vorrà essere segretario “di Chiesa”. Insediandolo, il papa ha confermato che dalla segreteria di stato e dalle rappresentanze pontificie nel mondo si aspetta collaborazione anzitutto nel compito che gli spetta come successore di Pietro: “confermare i fratelli nella fede”.
Anche in Baviera Benedetto XVI era andato a far questo, e non altro. Come ha sottolineato al termine del viaggio:
“Sono venuto in Germania, in Baviera, per riproporre le eterne verità del Vangelo come verità e forza attuali e confermare i credenti nell'adesione a Cristo, Figlio di Dio fattosi uomo per la nostra salvezza. Sono convinto nella fede che in Lui, nella sua parola, si trova la via non solo per raggiungere la felicità eterna, ma anche per costruire un futuro degno dell'uomo già su questa nostra terra”.
Meno diplomazia e più Vangelo: è questa la rotta che Joseph Ratzinger assegna al governo centrale della Chiesa. Anche nella scelta dell'arcivescovo Mamberti come ministro degli esteri il papa ha tenuto conto, più che della sua competenza diplomatica, della sua conoscenza diretta del mondo musulmano e delle connesse questioni di fede e di civiltà. Nato a Marrakesh, francese della Corsica, Mamberti è stato rappresentante pontificio, oltre che in Cile e alle Nazioni Unite, in Algeria, Libano, Kuwait, Arabia Saudita, e da ultimo in Sudan, Eritrea e Somalia.
Ed è ancora questo – meno diplomazia e più Vangelo – il criterio che ha portato il papa, nel corso del suo viaggio in Germania, a dire parole così politicamente scorrette. E potenzialmente così esplosive.
Qualsiasi esperto nelle arti diplomatiche e cultore del “realismo” nelle relazioni internazionali avrebbe sicuramente censurato, come inopportuni e pericolosi, numerosi passaggi delle omelie e dei discorsi tenuti da Benedetto XVI in Germania.
Ma questo non è un papa che si assoggetti a simili censure o autocensure, che egli giudica, esse sì, inopportune e pericolose quando toccano i capisaldi della sua predicazione. Nel suo viaggio in Germania si era prefisso di far risplendere davanti all'uomo moderno cristiano, agnostico o di altra fede, dell'Europa come dell'Africa o dell'Asia, quella verità semplice e suprema che è l'altra faccia dell'affermazione alla quale ha dedicato l'enciclica “Deus Caritas Est”. Dio è amore ma è anche ragione, è “Logos”. Per cui la ragione, se si separa da Dio, si chiude in se stessa. E viceversa la fede in un Dio “irragionevole”, arbitrio assoluto, può generare violenza. Ogni religione, cultura, civiltà è esposta a questo doppio errore. Non solo l'islam ma anche il cristianesimo, al quale il papa ha peraltro rivolto la quasi totalità della sua predicazione.
Due giorni prima della lezione all'Università di Ratisbona sulla quale si è avventata la protesta di governanti e opinion-maker musulmani, Benedetto XVI aveva esposto questa verità nell'omelia della messa di domenica 10 settembre a Monaco di Baviera, con accenti che l'avevano fatto passare, in qualche commento sui media, addirittura per filoislamista.
Aveva detto il papa:
“Le popolazioni dell'Africa e dell'Asia ammirano, sì, le prestazioni tecniche dell’Occidente e la nostra scienza, ma si spaventano di fronte ad un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell'uomo, ritenendo questa la forma più sublime della ragione, da insegnare anche alle loro culture. La vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l'utilità a supremo criterio per i futuri successi della ricerca. Cari amici, questo cinismo non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti noi desideriamo! La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno comprende il timor di Dio – il rispetto di ciò che per l’altro è cosa sacra. Ma questo rispetto per ciò che gli altri ritengono sacro presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor di Dio. Questo senso di rispetto può essere rigenerato nel mondo occidentale soltanto se cresce di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente per noi ed in noi. La nostra fede non la imponiamo a nessuno...”.
Ma poi è arrivata la lezione di Ratisbona, e la lettura che ne hanno dato i leader del mondo musulmano – mufti, predicatori, opinionisti, uomini di governo, con un propagarsi e un ingigantirsi dell'offensiva simili a quelli di qualche mese fa contro le vignette blasfeme – è stata diametralmente opposta. Le accuse muovevano da un clamoroso capovolgimento delle tesi esposte da Benedetto XVI ed esulavano proprio da quell'esercizio della ragione invocato dal papa come il terreno proprio di un vero dialogo tra le religioni e le civiltà.
Bene ha fatto, pertanto, il nuovo ministro degli esteri vaticano, Mamberti, a replicare non annunciando impensabili ritrattazioni da parte del papa, ma rinviando semplicemente a una lettura “diretta” e completa della lezione da lui tenuta a Ratisbona.
Il 16 settembre, il neosegretario di stato Bertone ha emesso una nota ufficiale riaffermando le posizioni “inequivocabili” del papa, il suo rincrescimento per interpretazioni del suo pensiero impropriamente ritenute offensive, e l'augurio che “coloro che professano l’islam siano aiutati a comprendere nel loro giusto senso le sue parole”.
E all'Angelus di domenica 17, lo stesso Benedetto XVI ha così puntualizzato:
“Sono vivamente rammaricato per le reazioni suscitate da un breve passo del mio discorso nell’Università di Ratisbona, ritenuto offensivo per la sensibilità dei credenti musulmani, mentre si trattava di una citazione di un testo medioevale che non esprime in nessun modo il mio pensiero personale. Ieri il signor cardinale segretario di stato ha reso pubblica, a questo proposito, una dichiarazione in cui ha spiegato l’autentico senso delle mie parole. Spero che questo valga a placare gli animi e a chiarire il vero significato del mio discorso, il quale nella sua totalità era ed è un invito al dialogo franco e sincero, con grande rispetto reciproco”.

Ciò non toglie che la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona – integralmente rilanciata da www.chiesa, in italiano e in inglese, un'ora dopo che era stata pronunciata – è stata davvero audacemente impolitica.
Il papa ha preso spunto da un dialogo intercorso nel 1391 tra l'allora imperatore di Costantinopoli, Manuele II Paleologo, e un dotto musulmano della Persia circa l'irragionevolezza della diffusione della fede mediante la violenza.
Quel dialogo non era un esercizio accademico. Quel poco che restava dell'Impero Romano d'Oriente era sotto l'attacco finale delle armate ottomane. Una sessantina d'anni dopo, nel 1453, Costantinopoli sarebbe caduta sotto il dominio musulmano e la basilica di Santa Sofia sarebbe stata trasformata in moschea.
Ebbene, il prossimo viaggio che Benedetto XVI ha in programma, alla fine di novembre, è proprio a Istanbul, nome corrente di Costantinopoli, con arrivo ad Ankara, capitale della Turchia, e tappa ad Efeso, in quella che tradizionalmente è chiamata la “Casa della Madonna”.
A invitare il papa, alla metà del 2005, era stato il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I. Benedetto XVI aveva accolto immediatamente l'invito, senza aspettare che fosse confermato da un pari invito da parte delle autorità turche. E già questo era bastato a irritare il governo di Ankara, che non riconosce a Bartolomeo I il ruolo di patriarca ma lo tratta da semplice cittadino. Nella Turchia di oggi i cristiani sono poche decine di migliaia, per lo più appartenenti alla Chiesa armena. I fedeli del patriarcato di Costantinopoli sono 3-4 mila. E poche migliaia sono anche i cattolici.

Il governo turco ha invitato formalmente il papa lo scorso febbraio. Ma poco prima, il 5 di quel mese, c'era stata l'uccisione in una chiesa di Trebisonda, sul Mar Nero, di un sacerdote italiano, don Andrea Santoro. Successivamente altri preti sono stati presi di mira da minacce e attentati. Da alcuni mesi vari esponenti della Chiesa cattolica in Turchia vivono protetti da ufficiali di polizia in borghese e senz'armi. Le loro telefonate sono controllate e la loro posta è spesso consegnata aperta. Più che protetti, hanno la sensazione di essere controllati.
Lo scorso giugno è stato in visita in Turchia un altro importante capo di Chiesa, il “Catholicos” degli armeni Karekin II. Un riferimento che egli ha fatto allo sterminio di armeni compiuto dall'Impero Ottomano nella sua fase finale gli è valso una procedura penale per offese alla Turchia avviata dalla magistratura di Istanbul.
La libertà religiosa è largamente carente, in Turchia: anche per i musulmani non sunniti, gli aleviti. Il presidente dell'ufficio che controlla l'islam turco per conto del governo, Ali Bardakoglu, è inflessibile nel respingere la richiesta degli aleviti di essere riconosciuti come comunità musulmana distinta. I loro luoghi di culto continuano a essere declassati a “centri culturali”.
Ed è stato proprio Ali Bardakoglu, tra le autorità turche, il primo a reagire alla lezione di Benedetto XVI a Ratisbona. Così:
“Il suo è un discorso molto provocatorio, ostile e pregiudiziale. Spero che non rifletta un'ostilità albergata nel mondo interiore del papa che rivela un atteggiamento presuntuoso, viziato ed arrogante, di chi sa di avere dietro di sé il potere economico dell'Occidente. Se un uomo di religione o uno scienziato critica la storia di una religione o i membri di quella religione, possiamo discuterne. Ma quando si mette bocca sulle cose sacre, sul Libro sacro e sul suo Profeta è segno di arroganza, di ostilità e dà luogo a una maldicenza che attizza la lotta di religione. Il mondo musulmano deve guardare con preoccupazione al prossimo viaggio di Benedetto XVI in Turchia. Aspettiamo che ritiri le sue parole e chieda scusa al mondo dell'islam”.
Se questo è il benvenuto a Benedetto XVI da parte di chi sovrintende all'islam in Turchia, le prospettive non sono incoraggianti.
Va notato che ad occuparsi del viaggio del papa – come anche degli affari delle minoranze religiose cristiane, considerate come straniere agli effetti civili – è in Turchia il ministero degli esteri, di tendenza più laicista, controllato dal “governo invisibile” erede della rivoluzione anti-islamista di Kemal Atatürk. Ma questa corrente è oggi più debole che in passato.
In regresso sembrano anche le correnti favorevoli a un'entrata della Turchia nell'Unione Europea. I negoziati preliminari con la UE segnano il passo su due questioni insolute. Il riconoscimento da parte della Turchia dello stato di Cipro con capitale Nicosia e, appunto, la libertà religiosa.
Viceversa, è in crescendo nei media turchi l'ostilità a tutto ciò che è occidentale, europeo e cristiano. L'opinione laica è soverchiata da quella d'impronta islamista, sempre più battagliera. Un mediocrissimo libro di fantapolitica scritto da un giornalista specializzato in intrighi, Yücel Kaya, pubblicato a fine agosto in Turchia, ha avuto uno spettacolare successo di vendite. Il titolo dice tutto: “Attentato al papa. Chi ucciderà Benedetto XVI a Istanbul?”.
Il capitolo Turchia è il primo sul quale il nuovo ministro degli esteri vaticano, Mamberti, dovrà misurarsi.
Quanto a Benedetto XVI, sa di non aver agevolato il suo viaggio in Turchia. Ma è convinzione fermissima del papa che una visita preparata e compiuta sotto lo scudo di reticenze, silenzi, dialoghi puramente cerimoniali, sottomissioni avrebbe fatto più male che bene. Alla Chiesa come anche al mondo musulmano.
Se invece tutti prendessero in mano seriamente, e leggessero da capo a fondo, l'inno alla ragione che egli ha elevato a Ratisbona... Perché in fondo, a giudizio di Benedetto XVI, il cuore della questione è sempre il medesimo che discussero nel 1391 l'imperatore di Costantinopoli e il suo dotto contraddittore persiano: “Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. (Sandro Magister)

 

 

 


 

Cattolici in stato confusionale 

(25 giugno 2006)

 

Il disagio della Chiesa di fronte alle sortite che contestano apertamente il Magistero. Ecco come riconoscere alcuni fra gli errori più diffusi, anche fra i credenti. Per evitare di fare "naufragio nella fede".

Ogni tanto capita, con la stessa ripetitività delle stagioni. Una personalità del mondo cattolico rilascia un'intervista nella quale prende le distanze dall'insegnamento della Chiesa. A questo punto i giornali - giustamente - rilanciano con grande fragore la notizia, gli intellettuali discutono, il mondo cattolico ufficiale soffre in silenzio per non alimentare scandali. E il popolo dei fedeli rimane disorientato, stordito. Come un gregge nel quale qualche pecora si mettesse a contestare l'affidabilità del pastore.

In realtà, questi episodi hanno alcuni elementi fra loro comuni, che permettono di smascherarli per quello che sono: l'espressione dell'antica e mai sopita ambizione dell'uomo di essere norma a sé stesso. L'adesione alla Chiesa è un atto insieme di libertà e di sottomissione: fede e ragione si sostengono, ma l'atteggiamento richiesto al cuore dell'uomo è innanzitutto l'umiltà. Dio, e non l'uomo, è l'artefice della Creazione. E dunque, Dio e non l'uomo è il Legislatore. Dunque, la verità è stata affidata da Cristo alla Chiesa. Spetta al Papa custodirla, in conformità alla Tradizione e in comunione con i vescovi. I teologi, gli intellettuali, i sinodi, i convegni ecclesiali, e perfino i singoli vescovi sono voci senza dubbio interessanti; ma non sono la Chiesa.

Ora, basta rileggere alcuni esempi di queste "voci fuori dal coro" del Magistero, per riconoscere che esse mettono a repentaglio la salvezza stessa delle anime. Ricordiamo che, per l'uomo, il rischio più grande è fare "naufragio nella fede", e perdere così la vita eterna, come San Paolo ricorda con toni accorati a Timoteo. Ecco una sintesi dei principali errori che si ritrovano in queste sortite, compiute da cattolici in stato confusionale.

1. L'importante è dialogare: meglio evitare divisioni che dire la verità. Il cattolico "dialogante" ritiene che affermare delle verità oggettive, insegnate dalla Chiesa e confermate dalla ragione umana, sia un atto di prevaricazione, frutto di preconcetti e di posizioni pregiudiziali. La Chiesa deve scendere dalla sua scomoda cattedra, per lasciare il suo posto ai non credenti, che assumono il compito di insegnare la (loro) verità ai cattolici, che brancolano nel buio. Questo tipo umano sogna un Papa che si affacci dalla sua finestra solo per benedire e salutare in molte lingue. Ma che sia muto ogni volta che ci sia di affermare verità scomode e impopolari sulla dottrina della fede e della morale. L'importante è evitare affermazioni apodittiche. E siccome i dieci comandamenti sono quanto di più apodittico si possa immaginare, ecco che si propone di ritirare dal mercato il decalogo, almeno nelle sue prescrizioni più contestate.

2. La verità forse esiste, ma l'uomo non può conoscerla. Per questo cattolico, la Chiesa non può dirimere sempre ogni controversia morale, perché esistono delle "zone grigie", delle aree nebbiose dove la verità non si distingue, e dove la cosa migliore è aprire un dibattito. Quali sono queste zone grigie? Quelle nelle quali si manifesta una diversità di opinioni nella società. Dunque, in una società pluralista e relativista, tutta la vita morale può diventare una sconfinata "zona grigia", riducendo l'autorità della Chiesa al silenzio praticamente su tutto. Saranno da evitare in particolare pronunciamenti su divorzio, aborto, fecondazione artificiale, eutanasia.

3. La verità è un prodotto del dialogo. Per questo genere di cattolici, la verità non preesiste alla discussione. Non è una realtà che c'è, e che l'uomo ha il compito di scoprire con l'auto della Chiesa. No: la verità si rinnova continuamente, grazie alla dialettica: le "parti" esprimono rispettosamente delle posizioni, e così si raggiunge un punto di mediazioni (provvisorio) che costituisce la verità accettabile da tutti in quel momento. Se, ad esempio, uno dice che l'aborto è lecito, e un altro dice che non è lecito, la verità prodotta sarà che l'aborto è un po' lecito: si può fare in certi casi.

4. Anche se sei ignorante, dialoga lo stesso. Per discutere, è buona regola sapere ciò di cui si parla. Ma la foga di dialogare è così forte, in alcuni cattolici, che si va al confronto senza essere preparati. Il tuo interlocutore dice, ad esempio, che l'ootide non è un essere umano? Prendi subito per buona questa solenne corbelleria. Mentre dovresti sapere che dal primo momento della fecondazione in poi il nuovo organismo vivente (anche con due pronuclei, cioè allo stadio di ootide) è caratterizzato da uno sviluppo coordinato, continuo e graduale, che permette di qualificarlo appunto come individuo (umano) e come vivo (A. Serra e R. Colombo, Identità e statuto dell'embrione umano: il contributo della biologia in Pontificia Accademia Pro Vita, Identità e statuto dell'embrione umano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998). All'ignoranza scientifica si accompagna talvolta un'imbarazzante impreparazione morale: potrà così accadere che si giustifichi l'aborto facendo leva sul principio della legittima difesa; tesi assurda, che implicherebbe attribuire al concepito il ruolo di "ingiusto aggressore"!

5. Bisogna inventare un "cattolicesimo sostenibile". Il cattolicesimo oggi è diventato impresentabile di fronte alla modernità: bisogna aggiornarne gli elementi più scomodi per renderlo sostenibile, un po' come affermano gli ambientalisti di fronte allo sviluppo. La prima regola per questo lifting è astenersi dal giudicare frettolosamente: meglio discutere serenamente per non creare inutili divisioni, e far derivare le regole da ciò che i più pensano e fanno. La sociologia sostituisce la riflessione morale e soppianta la legge naturale. La prassi genera la norma. Per cui, se la gente chiede la fecondazione artificiale, noi gliela dobbiamo dare.

6. Il male non si combatte: si regolamenta. Secondo questo falso cattolicesimo, si può anche riconoscere che una certa condotta sia cattiva. Ma - in base al principio assoluto che si deve dialogare con tutti - bisogna in un certo senso dialogare anche con il male. E scendere a patti con esso. Quindi, le leggi dello Stato non vieteranno l'aborto. Se lo facessero, si creerebbero inutili divisioni. Meglio regolamentare il fenomeno. Così, il male non consiste più nell'atto dell'uccidere il concepito. Il male è l'aborto clandestino (che minaccia la vita delle donne) mentre l'aborto legale diventa "buono", perché fatto secondo le norme dello Stato. Verranno uccisi molti innocenti, è vero; ma sarà salva la pace sociale e il dialogo permanente con tutti i sopravvissuti.

7. Chi compie il male va capito e giustificato. La Chiesa insegna una dottrina esigente e offre insieme un perdono senza limiti da parte di Dio. Invece, per il cattolico del dissenso (dal Papa) il perdono sostituisce la dottrina. Siccome chi commette un male può agire in circostanze molto difficili, allora occorre sospendere il giudizio sulla sua condotta, ed evitare ogni condanna. Questo approccio non ha solo valenze morali - potremmo dire "da confessionale" - ma pretende di avere conseguenze giuridiche e politiche. Esempio: una donna abortisce. Peccato, ma poiché ha vissuto un dramma, come può la società prevedere una pena, anche lieve, per la sua condotta? E ancora: un uomo elimina con l'eutanasia sua moglie. Non è bello. Però, vista sua sofferenza, quale giudice potrà dichiararlo colpevole? Questo criterio potrà essere applicato ad altre infinite "zone grigie": un uomo scopre che la moglie lo tradisce, e la uccide. Ma in quest'ultimo caso, il cattolico politicamente corretto si dichiarerà inflessibile e per nulla comprensivo, nonostante le "terribili circostanze" in cui il delitto è avvenuto.

Come si vede, quello che alla fine ci resta in mano è soltanto un pallido ricordo del cattolicesimo. Un corpo freddo e morto, che ha perso per strada l'amore per la Verità e la certezza della presenza viva e reale di Cristo in mezzo alla Chiesa. Un cattolicesimo senza croce e senza testimonianza, in fuga di fronte al martirio quotidiano dell'incomprensione del mondo. Non rimane che aiutare questi fratelli con l'apostolato della verità. E pregare per loro, perché grande è il pericolo che rappresentano per la salvezza di molte anime. A cominciare dalla loro. (Mario Palmaro, il Timone, n. 54, giugno 2006).

 

 

 


 

A proposito dei pacs   

(18 giugno 2006)

I Pacs ed il riconoscimento giuridico delle convivenze omosessuali:

le riflessioni del Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, Francesco D’Agostino

(Osservatore Romano, 14 gennaio 2006, titolo: “Riconoscere le convivenze. Le scorciatoie delle provocazioni”.

 

Riconoscere le convivenze? Riconoscerle per legge (introducendo nel nostro codice - in analogia con quanto è avvenuto in Francia - un nuovo istituto, il PACS, cioè il patto civile di solidarietà)? Riconoscerle, indipendentemente dal fatto che i partner siano di sesso diverso o dello stesso sesso? Ammetterle all'adozione? Queste, ed altre domande, stanno crescendo nell'opinione pubblica italiana e diventeranno, con ogni probabilità, questioni non marginali nel prossimo corso politico. Di fughe in avanti, chiaramente volte a predisporre l'accettazione psicologico-sociale dell'"evento", ne percepiamo ormai molte. Alcuni Comuni italiani hanno già istituito pubblici registri per le coppie di conviventi (si è però prestata ben poca attenzione al fatto che, indipendentemente dall'irrilevanza giuridica di simili registri, le conseguenti registrazioni sono state numericamente irrisorie).

A Roma, uno dei Municipi della capitale ha tentato (ma per ora il progetto è fallito) di fare lo stesso. Ma soprattutto è sul piano delle provocazioni che sembra che il dibattito si stia collocando: è tipica la convocazione, in una centralissima piazza di Roma, di una manifestazione per "benedire laicamente" le unioni di fatto di personaggi, più o meno mediaticamente conosciuti, da parte di altri personaggi dotati di un carisma fornito loro dalla carica istituzionale di cui sono portatori...

In una società democratica la battaglia delle idee non può che essere sempre benvenuta, perché della società democratica il dibattito e il confronto costituiscono l'essenza più preziosa. A condizione, però, che di dibattito e di confronto davvero si tratti. Quando invece al posto delle idee fioccano gli slogan; quando il ragionamento, soprattutto il ragionamento lucido e pacato, viene sostituito da cortei e da invettive; quando si operano assurdi corto-circuiti, appiattendo uno sull'altro clericalismo e difesa del matrimonio e chiamando a raccolta gli anticlericali, come se la lotta a favore del PACS sia una lotta per i diritti civili, oppressi dall'oscurantismo religioso, della democrazia e del suo spirito più autentico non ne rimane più nemmeno l'ombra. Siamo ancora in attesa di un argomento, di un solo argomento consistente, a favore del riconoscimento legale dei PACS. Un breve ragionamento, assolutamente laico, potrà convincerci di quanto appena detto.

Le coppie di fatto si dividono in due categorie: quelle che non vogliono e quelle che non possono sposarsi. Delle prime, ragionando in linea di stretto principio, non solo è opportuno, ma è doveroso che il diritto non si occupi: l'intenzione dei conviventi (apprezzabile o meno che sia sul piano strettamente morale) è proprio quella - pur potendolo fare - di non legarsi giuridicamente e non si vede proprio perché la legge dovrebbe far loro la "violenza" di considerarle comunque legate, sia pure attraverso un labile PACS, contro la loro volontà. Si osserva: ma queste coppie escludono solo il matrimonio "tradizionale", non altre forme di riconoscimento giuridico; se chiedono l'istituzione del PACS è proprio perché vorrebbero usufruire di alcuni diritti (in genere di carattere economico), che non sono attualmente riconosciuti se non alle coppie sposate. Ma la ragione per la quale tali diritti non sono loro riconosciuti è che esse non hanno l'intenzione di assumere quei doveri che sono parte essenziale dell'istituto matrimoniale. Non si può, in buona sostanza, non valutare se non come parassitaria e quindi indebita l'intenzione di coloro che pretendono un riconoscimento pubblico della loro convivenza per ottenere diritti senza doveri.

Peraltro, i giuristi ben sanno che praticamente tutti quei diritti al cui riconoscimento aspirano i partner di una unione di fatto possono essere attivati tramite il diritto volontario e senza alcuna necessità di introdurre nel codice nuovi istituti. Il testamento, ad es., esiste proprio per far sì che si possa trasmettere il proprio patrimonio a chi non avendo vincoli legali e/o familiari col testatore sarebbe escluso dalla successione legittima. La locazione della casa di comune residenza può essere stipulata congiuntamente dai due partner, in modo tale che al momento della morte dell'uno essa possa, senza alcuna difficoltà, proseguire a carico dell'altro. Non è vero, in altre parole, che ai conviventi vengano negati specifici diritti civili: la differenza rispetto al matrimonio sta semplicemente qui, che quei diritti che la legge riconosce automaticamente alla coppia che contrae matrimonio (assieme a corrispondente numero di doveri) nel caso delle convivenze devono essere, per dir così, attivati dai conviventi stessi. Il che, oltre tutto, è particolarmente coerente col principio, tipicamente moderno, dell'autonomia della persona, un principio che viene costantemente rivendicato ed elogiato dalla cultura c.d. "laica" e che non si vede perché, solo nel caso delle convivenze, debba essere messo da parte.

Le coppie che non possono sposarsi si dividono a loro volta in due sotto-categorie. La prima è composta da coloro che non possono ancora sposarsi per impedimenti transitori di tipo in genere legale (ad es. per la minore età o perché uno dei partner è in attesa del divorzio, ecc.). Per queste coppie l'offerta del PACS è senza senso: la stessa difficoltà, destinata a risolversi comunque da sola, che preclude loro le nozze precluderebbe loro anche il PACS. La seconda sotto-categoria è composta invece da quelle coppie che vorrebbero sì sposarsi, ma ritengono di non poterlo fare, per difficoltà economiche, e rimandano quindi, a volte sine die, il matrimonio.

L'autentico modo di venire incontro ai bisogni sociali di queste coppie non è certo quello di offrire loro un "piccolo matrimonio" (secondo l'incisiva e ironica definizione del Card. Ruini), come è appunto il PACS, che non risolverebbe alcuna delle difficoltà in questione, ma quello di attivare quelle iniziative sociali a favore della famiglia, che oltre tutto sarebbero doverose già in base al dettato della nostra Costituzione.

Cosa resta dunque delle istanze sociali, che giustificherebbero l'introduzione in Italia del PACS? Sembra nulla di nulla. A meno che non si voglia vedere dietro la richiesta del PACS una richiesta profondamente diversa, quella di una prima forma di riconoscimento legale delle coppie omosessuali, che dovrebbe aprire la strada, in tempi ora come ora imprevedibili, ma che per alcuni dovrebbero essere brevi, ad una compiuta equiparazione al matrimonio tout court del matrimonio omosessuale. Che le cose stiano proprio così è fuor di dubbio, per le esplicite dichiarazioni fatte dai principali rappresentanti del movimento degli omosessuali e dai loro simpatizzanti.

L'onestà intellettuale vorrebbe allora che di questo e solo di questo si parlasse: se cioè abbia una sua coerenza giuridica l'allargare l'istituto matrimoniale alle coppie omosessuali. Ma di fatto questo discorso viene sistematicamente eluso (pur venendo continuamente, ma indirettamente richiamato), perché nessuno è in grado di dare argomenti consistenti per dimostrare la necessità di alterare in modo così plateale e radicale quella struttura eterosessuale del matrimonio, che appartiene a tutte le culture e a tutta la storia da noi conosciuta.

È noto che ciò a cui aspirano le coppie omosessuali (peraltro nemmeno tutte, anzi solo una piccola parte di esse) è, prima ancora che il riconoscimento di diritti economici e sociali, un riconoscimento simbolico del loro rapporto. Ma il diritto non esiste per offrire riconoscimenti simbolici, bensì per dare risposte pubbliche ad esigenze sociali, che superano la mera dimensione privata dell'esistenza. Perché ad es. il diritto dà un riconoscimento pubblico al matrimonio e non all'amicizia? Perché l'amicizia, che pure attiva un vincolo, che può essere in alcuni casi esistenzialmente ancora più significativo di quello coniugale, non ha rilievo sociale, ma esclusivamente personale.

Il matrimonio invece, fondando la famiglia, e garantendo l'ordine delle generazioni, ha un rilievo sociale del tutto caratteristico, che ne giustifica la giuridicizzazione. La coppia omosessuale non crea famiglia: lo impedisce la sua costitutiva sterilità. Come superare questa difficoltà, se non potenziando il carattere mimetico della coppia omosessuale rispetto a quella eterosessuale? Di qui, la pretesa, confusa, ma dotata di una certa qual coerenza, di ammettere le coppie omosessuali (e in specie quelle "sposate") all'adozione. Poco importa che la psicologia dell'età evolutiva insista nel sottolineare quanto sia rilevante l'esigenza per i bambini di possedere una doppia figura genitoriale, maschile e femminile: di fronte all'ideologia, anche le argomentazioni della scienza vengono messe da parte.

Siamo tutti testimoni che si è aperta una partita decisiva, inimmaginabile fino a qualche decennio fa, che ha per oggetto la famiglia e attraverso la famiglia la stessa identità umana. La famiglia chiede di essere difesa; ma per difenderla non c'è bisogno di argomenti teologici o religiosi; bastano comuni argomenti umani, perché ciò che la famiglia tutela e promuove è innanzi tutto il bene umano. Chi ritiene che sia giunto il tempo per ripensare in modo assolutamente radicale la realtà della famiglia ha l'onere di provare fino in fondo le sue tesi eversive e di non darle per evidenti; ha il dovere di entrare in un dialogo serrato con chi è di diverso avviso; e soprattutto deve saper e voler rinunciare alle scorciatoie delle provocazioni e delle manifestazioni di piazza, che ben poco aiuto possono dare al confronto e al progresso delle idee. Sarebbe preoccupante se nell'Italia di oggi non ci fosse più uno spazio per un tale stile dialogico.

 

 

 


 

La clonazione umana 

(11 giugno 2006)

 

La trasposizione di alcune biotecnologie riproduttive in vitro dalla medicina veterinaria a quella umana, iniziata trentacinque anni fa con i primi tentativi di fecondazione extracorporea e trasferimento in utero di embrioni umani, nello scorso decennio si è estesa anche alle tecniche di micromanipolazione dei gameti, e non è oggi possibile escludere neppure la evenienza di una riproduzione senza il concorso della cellula germinale maschile, come già sperimentato in alcune specie di animali attraverso la clonazione. Al di là delle stesse intenzioni buone di numerose coppie sterili e di alcuni operatori sanitari, anche cattolici, e delle difficili e dolorose circostanze nelle quali questi interventi sono talora richiesti ed effettuati, il ricorso alle tecniche della riproduzione artificiale, pur di tipo omologo e nell'ambito del matrimonio, costituisce una obiettiva degradazione della qualità antropologica e morale della procreazione umana.

La frattura nella naturale ed essenziale correlazione tra amore, sessualità e procreazione, aperta dalla contraccezione, si è allargata con l'avvento della riproduzione artificiale umana per via gamica (fecondazione in vitro) ed è giunta in tempi molto recenti, attraverso la possibilità di una riproduzione artificiale agamica (clonazione), ad una radicale separazione dei fattori che costituiscono la relazione uomo-donna e genitori-figlio.

Nel suo configurarsi simultaneamente quale tecnica di riproduzione artificiale e di manipolazione genetica, la clonazione rappresenta una sfida alla antropologia della generazione senza precedenti nella storia dell'umanità e pone alla coscienza individuale ed alla responsabilità sociale una gravissima questione morale e civile circa il rispetto e la tutela della vita, del patrimonio genetico, della integrità psico-fisica e delle relazioni familiari e sociali del nascituro.

Di fronte a questa prospettiva minacciosa che la clonazione getta sulle radici biologiche e antropologiche della vita umana, "la Chiesa non può abbandonare l'uomo" che è la sua "prima e fondamentale via" (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis, 14). Ciascun uomo, ed in particolare quello più debole e indifeso perché esposto alla manipolazione e all'arbitrio di altri uomini, è affidato alla sollecitudine materna della Chiesa in ragione del mistero del Verbo di Dio che si è fatto carne (cfr Gv 1, 14). Perciò, la minaccia che la clonazione porta "alla dignità e alla vita dell'uomo non può non ripercuotersi nel cuore stesso della Chiesa, non può non toccarla al centro della propria fede nell'incarnazione redentrice del Figlio di Dio, non può non coinvolgerla nella sua missione di annunciare il Vangelo della vita in tutto il mondo e ad ogni creatura (cfr Mc 16, 15)" (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, 3).

Oggi questo annuncio della incomparabile dignità e preziosità della vita umana, che la distingue da quella di ogni altro vivente e sta a fondamento dei diritti della persona, si fa particolarmente urgente non solo a motivo delle ricorrenti voci che danno per avvenuta o imminente la nascita di bambini clonati, ma anzitutto per il diffondersi di argomentazioni volte a giustificare il ricorso alle tecniche di clonaggio almeno per determinate finalità ed in particolari circostanze.

Infatti, se il rincorrersi di comunicati e di smentite crea sconcerto nella pubblica opinione, getta discredito sui patrocinatori delle ricerche sulla clonazione umana e fa crescere il timore che essa venga realizzata davvero, l'assimilazione acritica di idee favorevoli ad essa - o anche solo ad alcune sue applicazioni (come la produzione di cellule staminali embrionali autologhe) - indebolisce la risposta della ragione umana di fronte alla eventualità di una surrettizia introduzione della clonazione umana nella società e favorisce un clima culturale di subordinazione delle legittime istanze di difesa della vita e della dignità dell'uomo ad un progetto tecnologico, economico o ideologico che intendesse promuoverne la legalizzazione. Al contrario, occorre favorire l'esercizio di una critica ragionata da parte di tutti i cittadini.

Tra di essi, i cattolici hanno il diritto ed il dovere di intervenire in merito a talune tendenze culturali permissive della clonazione umana ed alle erronee teorie antropologiche ed etiche che le ispirano.

Il loro intervento è l'espressione di una responsabilità nei confronti della comunità civile e delle sue scelte e rappresenta un irrinunciabile contributo alla vita sociale e politica secondo la concezione della persona, della famiglia e del bene comune che essi ritengono vera e giusta. All'interno del dibattito bioetico pubblico, la legittima pluralità delle posizioni che rispecchiano sensibilità e culture differenti impone di trovare soluzioni capaci di rispettare in modo coerente e solido i diritti di tutti i soggetti, in particolare dei più deboli e indifesi. La ricerca di tali soluzioni non può tuttavia essere fondata "sull'idea relativista che tutte le concezioni del bene dell'uomo hanno la stessa verità e lo stesso valore" e che non si danno "principi etici che per la loro natura e per il ruolo di fondamento della vita sociale non sono 'negoziabili'" (Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, II, 3).

Sotto il profilo antropologico, le questioni sollevate dalla clonazione umana sono molteplici e complesse, e possono venire raccolte dalla ormai vasta produzione di testi e di dibattiti che è oggi disponibile.

Esse spaziano dalla identità e dallo status dell'embrione agamico (originante dal trasferimento di un nucleo diploide in una cellula uovo enucleata e dalla attivazione del processo di riprogrammazione genetica e divisione cellulare) alla riduzione della costitutiva differenza-complementarità sessuale a mera funzionalità asimmetrica di ordine citogenetico (ooplasto: femminile; carioplasto: maschile/femminile) e fisiologico (utero: femminile); dalla perversione delle relazioni fondamentali della persona umana (filiazione, consanguineità, genitorialità, parentela) al rapporto tra la predeterminazione del patrimonio genetico nucleare e la somiglianza con un altro essere umano vivente o vissuto (identità/differenza biologica e psichica); dal progetto eugenico di controllo, selezione e fissazione della ereditarietà umana alla riduzione del valore antropologico, fondato sulla identità personale, al solo valore biologico, stimato dalle qualità somatiche e psicologiche; dal misconoscimento della eccedenza dell'uomo rispetto alla sua dimensione psico-somatica all'idea di un dominio totale sulla esistenza altrui e di una finalizzazione della vita umana ad un progetto medicale, ideologico, politico o religioso. Queste ed ulteriori questioni antropologiche di natura razionale trovano accoglienza e valorizzazione anche all'interno di una visione cristiana della vita umana, e alcune di esse sono già state affrontate in altri luoghi (cfr Pontificia Accademia per la Vita, Riflessioni sulla clonazione, Libreria Editrice Vaticana, 1997; J. Vial Correa e E. Sgreccia, Cellule staminali umane autologhe e trasferimento di nucleo, in: "L'Osservatore Romano", 5-1-2001, p. 6).

La Chiesa è consapevole di essere portatrice di una "esperienza di umanità" e custode di una tradizione di riflessione antropologica alla luce della Rivelazione che possono essere di aiuto anche ai non credenti nella scoperta del senso più profondo della vita umana e della sua trasmissione; esse possono, inoltre, contribuire ad un approfondimento delle ragioni di quanti si oppongono alla clonazione umana. In questo contesto, è conveniente considerare due aspetti della procreazione che fanno più lucidamente apparire come improponibile, in quanto oggettivamente contraria alla vita e alla dignità personale dell'uomo, ogni tecnica che consente la generazione umana al di fuori della integrale relazione sessuata uomo-donna.

Il primo può essere raccolto dalla espressione sintetica di Giovanni Paolo II: "Nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della persona" (Lettera alle famiglie Gratissimam sane, 9). La clonazione, in quanto processo di riproduzione "artificiale" per via agamica, si pone in radicale alternativa alla generazione sessuale che appartiene alla "naturale" biologia dell'uomo. Tuttavia, la clonazione non costituisce una questione antropologica a motivo del suo carattere "innaturale" o "artificiale" (una parte degli stessi interventi medico-chirurgici, oggi accettati senza riserve, ripristina oppure sostituisce le funzioni fisiologiche del paziente secondo una processo biofisico o biochimico che non è quello seguito dalla natura). La sua problematicità è invece dovuta alla lacerazione che essa produce nel legame antropologico che unisce la generazione sessuale alla genealogia della persona.

La paternità e la maternità umane sono radicate nella biologia della generazione sessuale e allo stesso tempo la trascendono, poiché l'essere persona del figlio - al pari di quella dei genitori - rimanda ad un atto creatore di Dio che ha impresso nel concepito la sua "immagine e somiglianza" (cfr Gn 1, 26). "Dio 'vuole' l'uomo come un essere simile a sé, come persona". Pertanto "la genesi dell'uomo non risponde soltanto alle leggi della biologia, bensì direttamente alla volontà creatrice di Dio" (Gratissimam sane, 9). La generazione è la continuazione della creazione (cfr Pio XII, Lettera enciclica Humani generis), e l'ordine della creazione istituisce quello della procreazione.

In questo senso, e non in altro, si comprende come la clonazione umana viola una "legge naturale": non perché infrange una "legge della natura" biologica - che non ha immediata rilevanza normativa, essendo estrinseca alla coscienza dell'uomo - ma in quanto trasgredisce una "legge naturale" della ragione (ordinatio rationis), insita nella coscienza di ogni uomo, che gli consente di partecipare all'ordine della divina provvidenza (cfr S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 91, a. 2) con cui è disposta le genealogia della persona del figlio.

Un secondo aspetto dell'atto procreativo, che evidenzia la radicale estraneità della clonazione ad una concezione antropologica integrale dell'essere umano nella sua unità duale di maschio e di femmina, è costituito dalla originaria circumsessione di amore, sessualità e procreazione (cfr A. Scola, Il mistero nuziale. 1: Uomo-donna, Pontificia Università Lateranense; Mursia, 1998).

Essa definisce la qualità propria del generare e dell'essere generato dell'uomo e fa apparire come oggettivamente inadeguata alla dignità della persona ogni generazione che non sia il termine e il frutto di un atto coniugale. La rottura del nesso sessualità-procreazione, guadagnato dalla ragione attraverso l'esperienza dell'amore sponsale, è già stata realizzata attraverso la separazione tra il significato unitivo e quello procreativo dell'atto coniugale nella contraccezione così come nella fecondazione artificiale (cfr Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae, 12; Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum Vitae, II, 4). Liberare la procreazione da ogni residuo condizionamento naturalistico (fino a cancellare il nesso biologico che lega il concepimento alla fusione di due cellule germinali eterosessuali) - affermano alcuni - non aprirebbe l'amore umano ad una piena libertà, consentendo, nello stesso tempo, un migliore controllo sanitario ed eugenetico della generazione ed una più consapevole assunzione di responsabilità nei confronti della vita e del benessere dei figli? Questa pretesa ragione trova le sue radici culturali nel rifiuto, assai diffuso ai nostri giorni, di un discorso circa il fondamento (ontologico) della triade sessualità, amore e procreazione, e nella dissoluzione di ogni vincolo della libertà con la verità, condizione imprescindibile della sua realizzazione (cfr Gv 8, 32). Non è tuttavia difficile mostrare come uno stato di fatto, per quanto diffuso ed accettato da molti, non cambia l'ordine ed il significato oggettivo dei fattori in gioco nella realtà della generazione umana.

Istituisce invece un compito ed una responsabilità per tutti: l'amore deve essere liberamente scelto nella sua verità e ciò richiede che sessualità e procreazione vengano ricomposti nella loro originaria unità, e non ulteriormente allontanati attraverso la riproduzione agamica.

"Verità e libertà o si coniugano insieme o insieme miseramente periscono". (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, 90).

Le ragioni della illiceità morale della clonazione umana impropriamente detta "terapeutica" sono state considerate in precedenza (cfr Pontificia Accademia per la Vita, Dichiarazione sulla produzione e sull'uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali embrionali umane, Libreria Editrice Vaticana, 2000; J. Vial Correa e E. Sgreccia, a.c.), ed il ricorso a questa procedura per l'ottenimento di cellule staminali embrionali autologhe è stato escluso dal Santo Padre, che ha indicato nella utilizzazione delle "cellule staminali prelevabili in organismi adulti" la via sulla quale "dovrà avanzare la ricerca se vuole essere rispettosa della dignità di ogni essere umano, anche allo stadio embrionale" (Giovanni Paolo II, Discorso al XVIII International Congress of the Transplantation Society, 29 agosto 2000, in: AAS 92 [2000] 822-826, p. 826). Del resto, il solo fatto della morte dell'embrione, in conseguenza della asportazione della sua massa cellulare interna quando si trova allo stadio di blastocisti, qualifica come illegittimo lo stesso atto clonatorio che lo ha generato agamicamente per questo fine, anche a prescindere dalla considerazione del genus moris della clonazione: la presenza di una intenzione cattiva corrompe in ogni caso l'azione (Catechismo della Chiesa Cattolica, § 1755).

La clonazione posta in essere allo scopo di indurre la nascita di un bambino (cosiddetta "riproduttiva") non si colloca all'interno di un progetto strumentale e intenzionalmente distruttivo dell'essere umano, ma prevede l'accoglienza nel grembo materno dell'embrione clonato ed il suo sviluppo intrauterino. In tale contesto, l'atto clonatorio sembra perdere il suo carattere di delitto premeditato contro la vita umana per assumere quello di una forma, estrema ed eccezionale, di riproduzione artificiale.

Analogamente a quanto avvenuto per le tecniche di fecondazione umana in vitro, si sta facendo strada - anche tra alcuni studiosi e membri di comitati consultivi - l'opinione che la grave questione morale sollevata dalla clonazione umana non sia dovuta all'atto clonatorio per se stesso e in se stesso, ma dipenda dall'intenzione per cui la clonazione viene fatta e dalle conseguenze prevedibili per i soggetti coinvolti (il clonato, i donatori del genoma nucleare e dell'ovocita, la famiglia e la società). In particolare, siffatta posizione sottolinea come le principali conseguenze negative attualmente prevedibili - anomalie nell'organismo del clonato, disordini cognitivi e/o comportamentali, discriminazione ed altre forme di ingiustizia sociale - sarebbero legate a due fattori contingenti, al venir meno dei quali si imporrebbe una revisione del giudizio morale sulla clonazione umana per la nascita di bambini.

Il primo è connesso alla presente scarsità delle conoscenze biologiche sui processi di riprogrammazione genetica e di epigenesi conseguenti al trasferimento di nucleo ed alla imperfezione delle tecniche per effettuare l'enucleazione dell'ovocita ed il trasferimento stesso.

Il secondo fattore fa riferimento alla costruzione di un immaginario collettivo che, rappresentando inverosimilmente le caratteristiche biologiche e psicologiche del clonato, predisporrebbe sia ad una irrazionale domanda di clonazione sia ad una accoglienza negativa dei primi bambini clonati da parte di alcuni soggetti della società, esponendoli così al rischio di subire discriminazioni e ingiustizie; oppure allude ad una cultura "conservatrice" della famiglia e dei tradizionali rapporti parentali e sociali, legata ad una visione triadica della generazione umana e ad una concezione esclusivamente eterosessuale della genitorialità, che ostacolerebbe l'accettazione sociale di un ambiente affettivo ed educativo di tipo "alternativo" per la crescita del bambino clonato. In tale prospettiva, il rifiuto della clonazione umana potrebbe fondarsi unicamente sul "principio di precauzione" e, in ragione di questo, possedere un carattere solo provvisorio.

Così, sarebbe impossibile qualificare come "moralmente cattiva secondo la sua specie" - il suo "oggetto" - la scelta deliberata della clonazione umana "prescindendo dall'intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle conseguenze prevedibili di quell'atto per tutte le persone interessate" (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis splendor, 79). La tesi, che raccoglie alcune istanze delle etiche consequenzialiste o proporzionaliste, non considera che la moralità di un atto umano "dipende anzitutto e fondamentalmente dall'oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata" dell'agente (Veritatis splendor, 78), e che si danno degli oggetti dell'atto umano che si configurano come "indegni della persona umana" perché si oppongono al suo bene integrale. Lo stesso Concilio Vaticano II include tra questi atti tutto ciò che è "contro la vita stessa" e "l'integrità della persona umana" e "ne offende la dignità" (Cost. pastorale Gaudium et spes, 27).

Come la clonazione umana non sarebbe un atto contrario alla vita, all'integrità e alla dignità della persona umana?

A differenza della clonazione cosiddetta "terapeutica", che si configura moralmente come delitto contro la vita in quanto "uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente" (Evangelium vitae, 57) nelle prime fasi della sua esistenza, per taluni la clonazione orientata alla nascita di bambini non potrebbe qualificarsi come contraria alla vita umana perché risponde ad una "domanda (o esigenza) generativa" che nasce dal "desiderio di un figlio", la cui vita può iniziare grazie al processo di trasferimento e riprogrammazione nucleare.

"Desiderare un figlio" e offrire la propria opera scientifica e medica per "esaudire questo desiderio" è un "servizio alla vita" e non un "attentato alla vita umana" - si sostiene - e come tale la clonazione, a prescindere dalle conseguenze negative sulla sopravvivenza e lo sviluppo dell'embrione clonato, non può essere intrinsecamente cattiva. L'argomentazione della plausibilità di una risposta biotecnologica al "desiderio di un figlio", che si esprime in una "domanda di clonazione" come condizione del suo esaudimento in particolari circostanze cliniche o personali, richiede di essere attentamente valutata non in quanto nuova (la tesi è già presente nell'ambito della fecondazione artificiale e di altri interventi della biomedicina in materia di sessualità e procreazione), ma per il suo carattere allusivo e persuasivo nei confronti di un certa cultura delle relazioni familiari e sociali che esalta le passioni o i sentimenti e svaluta la riflessione razionale di natura antropologica ed etica.

In questo contesto, occorre anzitutto evidenziare la contraddittorietà intrinseca alla decisione di voler far nascere un figlio attraverso un processo di clonazione.

Chi desidera un figlio e si adopera per averlo (senza o con l'aiuto delle tecnologie biomediche) ritiene che tale desiderio sia un bene, e coloro che cooperano affinché il desiderio di un figlio possa realizzarsi lo fanno sul presupposto che il desiderio di un figlio espresso dal richiedente è un bene. Tuttavia, la natura di bene di un desiderio non consiste nel desiderare come tale (non tutti i desideri sono "buoni"), ma nel desiderato e nel suo rapporto con il desiderante.

L'oggetto del desiderio deve essere un bene in sé e deve costituire un bene per chi lo desidera, cioè deve essere desiderato in modo onesto. Non si può amare che il bene (cfr Sant'Agostino, De Trinitate, 8, 3, 4). "La vita [umana] è sempre un bene" in se stessa (Evangelium vitae, 34), e l'uomo "in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluta per se stessa" (Gaudium et spes, 24). Per questa ragione la vita di un figlio è un bene indipendentemente dai desideri dei genitori e dalla volontà di chiunque: per il solo fatto che esiste, e così come (imprevedibilmente) esiste, ogni persona esiste "per se stessa".

L'oggetto del desiderio giusto di un figlio non può essere altro che il figlio stesso così come Dio lo "vuole", e questa è la "volontà che riguarda la genealogia dei figli e delle figlie delle famiglie umane". (Gratissimam sane, 9). La clonazione contraddice il riconoscimento incondizionato della vita umana come bene in se stessa e la dedizione incondizionata dei genitori alla sua accoglienza. Far dipendere l'esistenza di una persona dai desideri o dalla volontà causale di altre persone, oppure condizionarne la sua vita ad un progetto eugenetico, significa sottomettere l'uomo al potere dell'uomo e creare una diseguaglianza in forza della disposizione di alcuni sulla vita di altri (cfr. M. Rhonheimer, Etica della procreazione, Pontificia Università Lateranense, Mursia, 2000).

La medesima ingiustizia è alla radice anche di diversi delitti contro la vita umana, come l'aborto, nonostante il fine che quest'ultimo si prefigge sia opposto: così come la non desiderabilità di un figlio non giustifica la sua uccisione, il desiderio di un figlio non giustifica la sua produzione.

"Nella sua origine unica e irripetibile il figlio dovrà essere rispettato e riconosciuto come uguale in dignità personale a coloro che gli donano la vita [...] e non può essere voluto né concepito come il prodotto di un intervento di tecniche mediche o biologiche: ciò equivarrebbe a ridurlo a diventare l'oggetto di una tecnologia scientifica" (Donum vitae, II, 4).

Contro questa tentazione occorre che l'uomo contemporaneo riguadagni la coscienza della propria appartenenza al Mistero dell'essere di Dio: "solo ammettendo questa sua nativa dipendenza nell'essere, l'uomo può realizzare in pienezza la sua vita e la sua libertà e insieme rispettare fino in fondo la vita e la libertà di ogni altra persona" (Evangelium vitae, 96). (Prof. Roberto Colombo, Pontificia Accademia per la Vita, L'Osservatore Romano, 20-8-2003)

 

 

 


 

La morale cristiana non esaurisce il cristianesimo

 

" Noi amiamo certamente Gesù Cristo, ma assolutamente nulla ci potrà far amare la morale cristiana". Se prendessimo alla lettera questo paradosso di Claudel sarebbe pregiudicato il disegno propostoci, cioè di portare la nostra testimonianza in favore della morale cattolica e di scoprirvi il segno della divinità della Chiesa.

Da un certo punto di vista Claudel ha ragione e sono con lui i mistici di tutti i tempi e il pensiero religioso contemporaneo. Il cristianesimo innanzitutto è una religione non una morale, è unione a Dio nel Cristo, una sommissione allo Spirito, una vita eterna, cominciata in noi già in questa terra attraverso la conoscenza attiva che abbiamo del Padre e del Figlio; è un atteggiamento filiale. Non è in primo luogo un'educazione della volontà, né una cultura dell'anima, tanto meno un semplice codice, un manuale di atti permessi o proibiti protetti da sanzioni. Nondimeno è innegabile che questa vita spirituale contiene anche un'etica e un'ascesi e costringe a certe posizioni proibendone altre, poiché il cristianesimo si riconosce dai suoi frutti, cioè dalle sue opere; e lo Spirito ci obbliga a praticare le virtù che ci suggerisce.

Il presente trattatello ha lo scopo di studiare come e in quali condizioni questa morale s'aggancia alla spiritualità, come abbia cercato di definirsi, e forse anche di costituirsi a parte, come a sua volta ha in sé i segni del dito di Dio, e offre a suo modo uno speciale argomento apologetico, di cui il cristianesimo va fiero.

CAPITOLO I. - LA MORALE CRISTIANA NELLE SUE FONTI

§ 1. - La Morale portata dal Cristo

II moralismo giudaico. - Quando Cristo cominciò a predicare il Vangelo in Israele non mancavano certo le prescrizioni sul bene e il male; i casi di coscienza erano familiari ai rabbini contemporanei, come sono familiari alla leggerezza del nostro tempo le parole incrociate, e il valore dei credenti si misurava dall'austerità delle loro osservanze, con un sistema che, seguendolo, gli uomini corrono sempre il rischio di cercare in se stessi la propria legge e misura.

La rivoluzione di Cristo. - La grande rivoluzione di Gesù fu quella d'insegnare a trovare in Dio l'ideale della loro azione, e a spingere i limiti del dovere, che ai suoi occhi erano le frontiere della perfezione, fino all'infinito. " Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste ". Cosi di colpo diventava impossibile materializzare la morale, incarnarla una volta per tutte in atti definiti, al di qua dei quali comincerebbe il peccato e al di là trionferebbe un altro regime, inaccessibile agli uomini, quello di Dio. Il cielo era disceso sulla terra nella persona del Figlio, che attirò i discepoli alla sua sequela; d'ora in poi non ci sarà più morale umana distinta dai costumi divini, e la vita spirituale ormai consisterà nell'imitazione di Cristo e nel possesso di Dio. Invece d'un codice, un modello; invece d'una legge, un'adesione; oltre la lettera, uno spirito. È noto l'entusiasmo di San Paolo di fronte a questa trasposizione di tutti i valori religiosi, e come la Lettera ai Galati e la Lettera ai Romani, trent'anni dopo, avrebbero registrato per sempre questa rivoluzione. Anche il Vangelo esprime questo, in formule più calme, e d'altronde anche forti, dove solo la squisita tenerezza del Maestro tempera le sue straordinarie esigenze. Il Discorso della montagna è il testimonio per eccellenza di quest'atteggiamento inaudito: le sue opposizioni tra la legge antica e lo spirito nuovo inaugurano il primo corso di teologia morale cristiana che abbia inteso l'umanità: Voi sapete quello che fu detto agli antichi...; ma io vi dico, non certo il contrario, ma talmente di più che ormai nulla più esaurirà il contenuto del Vangelo da credersi e da attuarsi nell'azione e nella vita pratica.

Intanto un nome doveva riassumere tutto questo contenuto: il termine amore che fu tradotto ben presto con carità, per distinguerlo, nella lingua greca e latina, meno religiose di quella ebraica, da tutte le categorie inferiori della sensibilità umana. Dio ci aveva amati fino a darci il proprio Figlio; cosi il suo vero nome è Carità, e la dilezione riassume tutte le sue iniziative temporali ed eterne in nostro favore. Il Figlio ci ha amati all'esempio del Padre, fino a dare la sua vita per noi. In virtù di tutto il dinamismo spirituale, ricordato più sopra, gli uomini a loro volta, dovevano amare Dio con tutto il loro cuore, con tutta la loro anima e tutte le forze, e il prossimo come se stessi per amore e nell'amore di Dio.

In questi due comandamenti è racchiusa tutta la morale cristiana. Il resto sarà sempre e soltanto commento e corollario.

§ 2. - La Morale nella Chiesa di Cristo

Compito della Chiesa. - Intanto non si poteva fare a meno d'un commentario e per offrirci anche questo fu istituita la Chiesa, la quale, a sua volta, è realmente animata dallo Spirito Santo, è figlia di Dio, Sposa di Cristo, e i suoi costumi, la sua vita di santità, le sue istituzioni, servono a tradurre in lezioni e in esempi la morale evangelica. Ma la Chiesa è indefinitamente differenziata circumdata varietale; essa lungo la storia non fa che sminuzzare quello che il Discorso della montagna e il Discorso dopo la Cena avevano insegnato una volta per tutte. D'altronde Gesù aveva cominciato per primo questo lavoro di ; sviluppo; per rispondere a domande insidiose o per darne l'esempio in circostanze decisive, aveva tratto egli stesso le conseguenze più importanti della grande legge della carità.

Due idee-poli. - Non è nostro compito dire dettagliatamente come la nostra teologia latina, erede a suo modo dello spirito giuridico dell'impero romano e dell'imperatoria brevitas, e come la nostra anima occidentale, alla quale Sant'Agostino aveva inculcato per sempre il profondo senso della miseria del peccato, ispirandosi a questi principi, abbiano a poco a poco costruito separatamente una morale conforme alle esigenze del Vangelo. Basterà ricordare che le linee maestre della costruzione sono organizzate attorno alle due idee della natura umana e del fine dell'uomo: non la natura limitata alle sole sue forze, (il che avrebbe condotto unicamente a sostituire una specie di stoicismo cristiano al giudaismo antico), ma la natura voluta dal nostro Padre a sua propria immagine, una natura di figli adottivi di Dio, quindi con tutte le esigenze evangeliche di cui parleremo fra poco, e tuttavia con un costante riferimento all'intelligenza ragionevole, che comincia fin dalla creazione a farci assomigliare al nostro Autore. Noi siamo insieme creature ragionevoli e figli di Dio secondo lo Spirito: in quanto creature ragionevoli non abbandoniamo nulla della morale naturale; per la nostra seconda e più alta vocazione di figli di Dio mettiamo nell'ordine razionale un'anima nuova, che eleviamo fino alle vette del Vangelo. La morale cattolica deriva da questi due principi; si rinfresca ad ambedue queste fonti: grazie alla prima fonte, sotto la penna dei teologi si è fatta così chiara, limpida e sempre umana; grazie alla seconda fonte continua ad essere una spinta verso una perfezione di cui è impossibile in astratto disegnare i contorni, e di cui ciascuno di noi a ogni istante scoprirà nella sua coscienza i limiti provvisori e mobili.

La parola ragione, che troviamo in San Paolo e che nella forma greca è scritta al principio del prologo di San Giovanni, non la cogliamo dalle labbra del Signore, che in pratica parlava solo aramaico e usava unicamente il vocabolario religioso d'Israele, dove la natura umana non viene mai definita a parte, ma è sempre percepita attraverso la sapienza divina, che la istruisce. Le due idee di creazione e di salute sono però presenti in ogni pagina del Vangelo: la prima fonda la trascendenza divina e nello stesso tempo la grandezza umana, l'idea d'un ordine primitivo da rispettare, da stabilire o da ristabilire, insomma un concetto di natura e un programma di dignità. La salvezza o il regno, nel vocabolario messianico, è un'opera d'amore, cui deve corrispondere una vita di carità. A queste due esigenze, che non si contraddicono, perché ci spingono a distanze differenti nella stessa direzione, è agganciato quello che, infine, possiamo chiamare, dopo averne spiegata e legittimata la nascita, il moralismo cristiano. D'altronde non è sempre facile e nemmeno necessario (come nella morale coniugale) distinguere le prescrizioni del diritto naturale e le obbligazioni del diritto evangelico.

CAPITOLO II. - STRUTTURA DELLA MORALE CRISTIANA

§ 1. - L'ordine naturale

Dignità della persona umana. - Grazie alle osservazioni precedenti possiamo cercare di delineare i doveri del cristiano partendo anzitutto dalla sua natura corporea e intelligente. Per l'anima ragionevole, che c'imparenta con gli spiriti e con Dio, c'è in noi una dignità umana che non consiste tutta quanta nella ragione, come si diceva in Francia nel secolo XVII, ma prima di tutto nel dominio della ragione sulla carne, su una carne che non è né dimenticata, né soppressa, né ridotta in schiavitù, ma elevata al livello dello spirito che l'informa e la dirige interamente. C'è dunque una morale del composto umano, che non è una legge nel senso giudaico, imposta dal di fuori sotto forma di prescrizioni materiali e complicate, ma è una legge interiore, definizione perfetta dell'uomo, e che si oppone, per sostituirla, a quest'altra legge di violenza carnale, insita unicamente nelle membra del nostro corpo in rivolta.

Rapporti degli uomini tra loro. - Questo principio della dignità umana s'applica dapprima alle relazioni degli uomini tra loro, nella divisione e nello scambio dei loro beni materiali: si chiama, in tal caso, giustizia, non nel senso biblico o paolino dove il nome indica tutta la vita religiosa e l'unione a Dio, ma nel senso comune e latino della parola, quello che si riduce al settimo comandamento del decalogo.

Approfondendo quest'idea scorgiamo subito che, se la morale cristiana distingue l'ordine umano dai regni inferiori, deriva dal fatto che esso è costituito da relazioni tra persone e non tra cose, da relazioni cioè che formano una società, con i suoi diritti, le sue leggi, la sua autorità. Ma la natura ragionevole dell'uomo in ciascuno di noi si realizza appieno nella nostra propria personalità, la quale, benché non si trovi nel Vangelo con questo preciso termine, tuttavia è ovunque sottintesa nella dottrina della nostra responsabilità di fronte a Dio, nell'obligazione della salute eterna imposta a ciascuno, o semplicemente nel fatto che siamo individualmente chiamati all'amicizia di Cristo.

Perciò i rapporti vicendevoli degli uomini sono rapporti tra persone che sono le une di fronte alle altre: nessuno di noi ha il diritto di considerarsi una cosa, che si sopprime o si trasforma a piacimento, e soprattutto nessuno ha il diritto di considerare i propri fratelli quali vili strumenti, di ridurli alla schiavitù o alla mendicità, d'irregimentarli in formazioni di guerra e di assalto, ove la personalità verrebbe sacrificata al primato della razza o alla volontà, assoluta del dittatore.

Morale sessuale e coniugale. . Perfino il povero corpo umano, carne mortale, umile e dolorante, entra nel sistema e vi trova un posto cui nulla nei costumi antichi lo aveva preparato. Un tempo serviva a tutto: sangue, voluttà e morte, vessazioni, servitù e crudeltà. D'ora in poi apparterrà solo più allo spirito che lo abita, allo spirito dell'uomo e allo spirito di Dio. Questo non significa che potrà fare quanto gli piace e che sia esatta la formula: il tuo corpo è tuo; perché la carne dipende dalla legge di dignità, in cui il composto umano trova l'equilibrio interiore e quell'unità dei suoi due elementi gerarchizzati, a cui dopo tutto esso aspira assai più che alla voluttà.

Qui, assai più che altrove, s'è esercitata la morbosa curiosità degli uomini e, purtroppo anche la sagacia dei moralisti. Da quando i farisei interrogarono Cristo sul libello del divorzio, fino alle recenti controversie sul metodo Ogino, quante questioni indiscrete e inevitabili furono poste alla Chiesa, quasi fosse stata istituita solo per studiare questi problemi. La dottrina sessuale della Chiesa è molto semplice: l'uomo è un animale ragionevole, è una persona. In quanto composto d'un'anima e d'un corpo, non deve mai permettere volontariamente che un'azione corporea oltrepassi il proprio contenuto spirituale, che qui è l'amore, l'amore d'una donna al servizio dell'amore del figlio. La sensazione, o meglio il gesto che la provoca, dev'essere il segno efficace, l'incarnazione adeguata d'un legittimo sentimento. Questa è la legge della nostra creazione, secondo San Tommaso, per il quale l'ideale di Dio non era l'astensione, ma la perfetta equivalenza dei valori psicologici e delle pratiche carnali. " Nello stato d'innocenza, egli aggiunge, il piacere sarebbe stato tanto più forte quanto più la natura era pura e il corpo sensibile " (I, q. 98, a. 2). L'uomo è una persona. Specialmente la donna cessa d'essere una cosa e ha il diritto a un amore degno di lei, per cui sarà trattata come compagna, non come strumento. Tutto il regime matrimoniale fu cosi trasformato, da una rivoluzione nel cuore dell'uomo, nel letto coniugale, nella legislazione, che pone nel mondo l'unità e l'indissolubilità come un ideale da raggiungere, una legge da rispettare, una barriera di protezione, un santuario dov'è santificato l'amore. Infatti la Chiesa persegue il folle sogno di stabilire lo spirituale nel carnale tanto bene da combaciare perfettamente e da salvare l'unità interiore dell'uomo. A questa concezione la Chiesa ha legato tutta la sua morale familiare, organizzandola sulla metafisica della natura e su quella della persona, che d'altronde qui sono una sola. Infatti un animale ragionevole per sentirsi amato come una persona, ha bisogno d'essere sicuro che il suo corpo non sarà mai cercato soltanto per la sensazione proveniente dall'unione. Per salvare questo progetto di alta spiritualità sensibile, per incarnare questa metafisica in una psicologia conseguente — quella del vero amore — la Chiesa sopportò e impose tutti i sacrifici, interdisse costantemente il divorzio e, sul piano dell'ascesi, organizzò il celibato religioso ed ecclesiastico.

Morale sociale e internazionale. . Ammessa la dottrina della dignità umana, la legge della persona e delle persone s'insinua ovunque: nei contratti per apportarvi un nuovo valore, molto superiore al valore eventuale della forza, dell'interesse o anche della volontà dell'uomo; nelle relazioni sociali, per cambiarne lo spirito, quindi trasformare le civiltà e rinnovare la faccia della terra; nella concezione dello Stato, riconducendolo alle sue vere e grandi funzioni di servire la giustizia e l'ordine subordinatamente al valore dei sudditi o cittadini; infine nelle relazioni internazionali, poiché nella nostra Europa sconvolta, caotica, o nelle nostre imprese coloniali compiute in vista di fini immediati e con facili mezzi, cominciamo a capire che la morale cristiana a chi le da ascolto offre finalmente la pace, che tutti desideriamo, senz'osare di credervi o senza voler sempre lavorare per essa.

La virtù di religione. - Ma la concezione cristiana dell'uomo ha modificato per sempre i nostri atteggiamenti soprattutto di fronte a Dio, portandoci lo spirito nuovo di religione, per riempircene tutti quanti. S'è detto che l'uomo aveva pensato la divinità a sua propria immagine; perché non dobbiamo ammetterlo se Dio con la rivelazione ha dato dapprima all'uomo la vera idea che l'uomo deve formarsi di se stesso? Le due immagini dipendono incontestabilmente l'una dall'altra. La virtù di religione nel cristianesimo con la visione di Dio che la sostiene, con la vita interiore che esige, con l'inquietudine e la sicurezza che genera, con i gesti che detta, infine col sentimento che ispira all'uomo di fronte a se stesso, considerata nei suoi riti, nei suoi templi, nella sua liturgìa, nella sua spiritualità, sarebbe già da sola uno dei più alti spettacoli che uno storico e un pensatore possano ammirare. E non è che il primo capitolo della morale che studiamo, quello riguardante i nostri doveri verso Dio.

§ 2. - L'ordine soprannaturale.

Abbiamo aspettato fin qui a esaminare i comandamenti che riguardano il culto e l'amore di Dio, perché proprio qui passa la corrente vitale che trasforma di colpo senza distruggerlo, l'ordine razionale e umano di vita morale. Finora si trattava solo di spingere all'estremo le esigenze pratiche della nostra natura, che cioè l'uomo partendo dalla sua natura ben compresa, adori e serva Dio come l'uomo deve adorare e servire il suo Creatore, che ami Dio nel modo che gli è proprio, tutto umano e ragionevole.

Vocazione all'amor filiale. - Ma improvvisamente gli viene comandato e quindi dato il potere d'amare Dio alla maniera di Dio, in ogni caso alla maniera del Figlio di Dio, e si inizia cosi un ordine nuovo ben al di sopra di quello anteriore. I due ordini non si contraddicono, perché la morale evangelica non distrugge quella razionale, ma la anima, la eleva, la perfeziona, la supera senza negarla. Il doppiamente o meglio l'incontro è una delle meraviglie del cristianesimo, in cui tutte le prescrizioni anteriori sono trasferite, sublimate, penetrate dallo Spirito nuovo ed eterno. La rivelazione soprannaturale con tutte le sue conseguenze pratiche, viene a inserirsi qui e, con essa, la morale specificamente cristiana, e le virtù a riservate ", come si diceva all'epoca romantica sul pulpito di Nótre-Dame.

a) Rinuncia preventiva. - Quest'aggiunta che non è una tirannia, ma un dono gratuito conforme a desideri (che non sono diritti) profondi, e questo prolungamento, che è un baluardo alle fragili costruzioni sempre precarie della morale naturale, si possono ottenere solo con una certa rinuncia preventiva. "Chi vuoi venire dietro a me, rinneghi se stesso " (Mt., 16, 24; Le, 9, 28), cioè rinneghi non la propria natura, ma i limiti della sua natura, non il suo umanesimo interiore, ma l'egocentrismo, che è una visuale errata, un errore che disgraziatamente ci è caro. Occorre qui passare da un piano a un altro, a causa dei donami del peccato originale e della grazia, che sono l'inverso e il diritto d'una stessa verità. Noi siamo obbligatoriamente chiamati a un ordine superiore di realtà, (d'altronde conformi a desideri naturali inefficaci in se stessi) il che è una gloria e una gioia, ed è anche un dovere che interessa la nostra vita morale. A questo titolo i due dommi suddetti sono parte necessaria del nostro soggetto.

Sollevandoci tanto in alto, il cristianesimo ci ha onorati con l'invito a sforzi maggiori; c'impone privazioni solo apparenti, poiché sacrificare i nostri limiti naturali per portarli più lontani, in realtà significa accrescere le possibilità di vita. I mezzi poi che si devono usare per raggiungere questo scopo, come esercizi ascetici, mortificazioni e anche penitenze, rendono il centuplo di quanto costarono in principio; il ramo tagliato rimette più vigoroso per dare frutti più abbondanti. Certo, la morale cristiana è alquanto severa e perciò è difficile predicarla, o meglio è facile esagerarla, trasformando i mezzi provvisori in fini ultimi, facendo del peccato originale il principio d'una diminuzione della nostra natura, mentre al contrario arricchisce il nostro programma morale primitivo superandolo.

Però la parola superare ci atterrisce, poiché mentre dovrebbe evocare l'immagine d'una vittoria da riportare per un migliore risultato, sembra obbligarci a lasciare posizioni legittime, facendoci vittime d'una metafora che serve a scusare la nostra pigrizia e la nostra rivolta. In realtà siamo invitati a restare uomini, pur divenendo figli di Dio. È una rivoluzione che non suppone nessuna abdicazione preventiva, ma è una rivoluzione. Nel passato quando si trattava di relazioni dell'uomo con se stesso o col suo prossimo era possibile conservare per qualche tempo l'illusione d'una semplice morale, fatta sulla nostra misura. Ma di fronte al Dio di Abramo, d'Isacco, di Giacobbe e dei profeti; di fronte al Padre del Nostro Signore Gesù Cristo, è ormai definitivamente impossibile. Con la redenzione del Figlio suo. Dio si è talmente dato agli uomini, che un atteggiamento puramente ragionevole verso di lui appare ormai un'ingratitudine, un anacronismo, una mostruosità. Tempo fa col pretesto dei progressi spirituali dovuti allo stesso cristianesimo, si tentò di sostituirgli una religione puramente filosofica e naturale; nel secolo XVIII, durante la grande rivoluzione francese e in seguito, siffatta religione cercò d'organizzarsi a sé con nomi diversi, ma in realtà mai nessuno volle servirsene nella vita pratica, non ebbe mai templi, sacrifìci o martiri, e fu soltanto un capitolo morto nei programmi dell'esame di filosofia.

b) Sviluppo di questa vocazione: le tre virtù teologali. - Bisogna dunque amare Dio com'Egli permise e volle che lo amassimo. Disgraziatamente l'uomo di fronte a questo comandamento rimane troppo spesso distratto, o pigro, o carnale. Quest'amore, come si sa, ha contro di sé le apparenze perché ai nostri occhi miopi pare che Dio non ci ami, perché non conosciamo i suoi misteri, non comprendiamo la sua opera, che ci sembra dura, o crudele o contradditoria. E tuttavia dobbiamo amare Dio, credere che Egli è nostro Padre e provare per lui sentimenti di figli, che non cessano d'essere sue creature, la cui unica tragedia consiste proprio nel fatto d'essere creature elevate alla dignità di figli. La fede, la speranza e la carità sono le tre virtù che hanno il compito di tradurre nei fatti e nei gesti quest'inaudita posizione, e tutte e tre assieme definiscono la morale cristiana, che in esse tocca i vertici più belli. Le altre virtù partecipano allo slancio o se si vuole, alla linea di queste altezze principali. La virtù della religione, non abolita ma sublimata, è tutta vivificata dallo spirito delle tre virtù teologali; la religione cristiana praticamente non assomiglia a nessun'altra, benché risponda alle aspirazioni umane più incoercibili. In questa atmosfera di carità paterna e d'amore filiale, i tre primi comandamenti della legge di Mosè, senz'essere soppressi, vengono animati da un dinamismo nuovo, e si trasfigurano assai più della faccia del grande legislatore ebreo quando discendeva dal Sinai. Si tratta sempre di rispettare il nome di Dio, i suoi templi e sacerdoti, e anche il suo giorno, però con uno spirito tutto nuovo, cioè per amore. Per l'amore infatti adoriamo Dio a motivo delle sue infinite perfezioni, la prima delle quali è proprio la carità: Deus caritas est.

Conseguenze di questa vocazione.

- a) La preghiera ininterrotta. - Il dislivello tra queste posizioni sovrumane e le nostre naturali possibilità non fa che sottolineare la nostra strana situazione di fronte a questi doveri, sicché noi siamo fortunatamente condannati alla perpetua preghiera di domanda. Tale stato tinge sempre la morale cristiana con colori che appartengono veramente e solo ad essa: di fronte a Dio siamo debitori incorreggibili, inferiori al nostro compito se non interviene un aiuto e se, conforme alla forte formula agostiana, Dio stesso non ci avrà dato i mezzi per obbedire ai suoi comandamenti. La preghiera del cristiano è d'una qualità particolare, ed ha una fiducia fatta d'umiltà, una certezza fondata sull'abbandono alla misericordia più che alla giustizia:

Se delle colpe tieni conto, o Signore,

Signor mio, chi potrà sostenersi?

È la prima parola che la liturgia cattolica fa dire al sacerdote che entra nella casa ove giace morto il cristiano; ma quest'atteggiamento non è esso pure dettato dall'amore, e dal miglior amore?

b) Perfezionamento dell'ordine morale. - La carità verso il prossimo, da cui riconosceranno, diceva Cristo, che voi siete miei discepoli, riprende anch'essa e a modo suo, tutte le soluzioni già date dalla morale naturale, portandole a un'esigenza di grado indefinito che però rispetta e non altera i lineamenti anteriori. Rimane la rigorosissima giustizia, ma la carità vi s'aggiunge come l'olio agli ingranaggi d'acciaio, onde permettere di girare più veloci senza spezzarsi. C'è sempre l'obbligo di dire la verità alla persona che ne ha il diritto; ma vi s'aggiungeranno tutte le verità di cui essa è capace, e sarà tanto di guadagnato per la dignità umana. A questo regime della mutua fiducia, si stabilisce la lealtà sulla terra e nei costumi, la civiltà s'addolcisce. E cosi di seguito : a tutte le antiche virtù dello stoico viene ad aggiungersi una qualità complementare che, senza distruggerle, da ad esse un aspetto e anche un nome specificatamente cristiano.

Il regime dell'esercizio dell'autorità familiare e sociale, e reciprocamente dell'obbedienza degl'inferiori, viene migliorato nel senso della duttibilità, dell'eleganza e specialmente della bontà. Ormai esiste un rispetto dei superiori riguardo ai loro subordinati, che non sono semplicemente dei soggetti, né dei puri e semplici sudditi timorosi; il che sul piano di governo, distingue le società aperte da quelle chiuse. La violenza e la forza sono sempre meno necessarie e finiscono coll'apparire mostruose, mentre ben sappiamo che posto avessero un tempo tra gli uomini.

Su questo largo orizzonte sociologico, dalle grandi linee visibili da lungi, è forse più facile cogliere i risultati della morale cristiana e le trasformazioni che essa opera ovunque. Ed è pure su questo terreno che la scomparsa del suo influsso riconduce al più presto l'umanità verso forme di civiltà che si credevano estinte e che ora rivivono dappertutto: l'uomo ridiviene per l'uomo un animale da strozzare.

CONCLUSIONE:  I FRUTTI DELLA MORALE CRISTIANA

Quali furono nella storia e nella civiltà i frutti della morale della Chiesa cattolica nel passato, oggi lo sappiamo fin troppo bene, meglio che compulsando gli archivi del passato, guardando il vuoto immenso scavato nel mondo dal suo abbandono. Sono noti i tre esempi tracciati da Ippolito Taine ai suoi lettoori per fare loro apprezzare l'apporto morale e spirituale del cristianesimo: il Rinascimento in Italia, la Restaurazione in Inghilterra, la Convenzione e il Direttorio in Francia, in cui l'uomo ritorna pagano, voluttuoso e duro, e la società ridiviene un mattatoio e un inferno. Ora possiamo aggiungere l'Europa dopo le due guerre, in cui a poco a poco, per una veloce decadenza la morale delle società chiuse, fatta di forza, di dittatura, di dominio degli uni o di qualcuno sopra gli altri, di ritorno ai valori materiali, e quantitativi, oro, sensazioni, chilometro, si sostituisce alla magnifica morale aperta, generatrice d'amore e, per estensione, di libertà inaugurata dal cristianesimo sulla terra. Non soltanto la faccia del mondo ma anche quella dell'uomo è devastata: i nostri lineamenti ricominciano ad essere cattivi, sconvolti, urtati, sterilmente sensuali, inutilmente ironici, dopo che dalla nostra anima fu espulsa la divina carità.

Ogni tanto una grande luce, proveniente dalla Chiesa, attraversa il nostro cielo cupo e tormentato: si chiama Rerum Novarum, Casti Connubii, Quadra-gesimo Anno. In quei giorni gli uomini dovrebbero accorgersi che tra loro c'è ancora una vecchia morale fedele a se stessa, logica e mistica insieme, ragionevole e divina, che fa loro onore, perché è offerta a tutta l'umanità e che potrebbe salvarli. Ed essi dovrebbero confessare che, se certi cristiani non traducono sempre queste lezioni in esempi, la Chiesa, la grande Chiesa continua sempre ad essere fedele alla legge di Gesù Cristo. (E. Ma. Tratto da: Enciclopedia di Apologetica)

 

 

 


 

 La vita consacrata femminile e la missione di suscitare speranza

 

Per far conoscere più a fondo la vita religiosa femminile, Zenit ha interpellato suor Marcella Farina, delle Figlie di Maria Ausiliatrice, una delle congregazioni più numerose al mondo. Docente Ordinario di Teologia Fondamentale e di Teologia Sistematica presso la Facoltà Pontificia di Scienze dell’Educazione, detta anche “Auxilium”, è anche membro della Pontificia Accademia Teologica e dell’Associazione Mariologica Interdisciplinare, nonché membro e socio fondatore della SIRT (Società Italiana per la Ricerca Teologica).

Le salesiane sono una delle congregazioni femminili più numerose al mondo. Come spiega questa grande presenza numerica?

Suor Farina: La vocazione è chiamata divina. Nasce dall’amore del tutto gratuito del Signore, dalla sua misericordiosa volontà di offrire la salvezza ad ogni sua creatura.

Certamente essa raggiunge persone concrete, dentro uno specifico contesto socio-culturale e socio-religioso. Questo radicamento antropologico non è casuale, ma scaturisce dalla natura stessa della nostra fede che si fonda sull’evento salvifico compiuto in Gesù Cristo.

La vocazione nasce dal cuore di Dio. Le ragioni antropologiche e storiche possono essere varie, ma non determinanti. Egli, nel chiamarci alla sequela, ci offre sempre un anticipo di fiducia. Egli è la nostra speranza, la speranza del mondo, sempre, in ogni evenienza, perché è fedele alla sua promessa di amore.

Non si consideri questa premessa fuori posto o superflua. La vedo necessaria per evitare sia trionfalismi sia disfattismi.

Non parliamo di trionfalismi, ma di una realtà: siete in molte, voi salesiane.

Dalla fine del 1800, cioè dalla fondazione da parte di don Bosco (l’Istituto è stato fondato nel 1872) ad oggi, con variazioni geografiche e cronologiche il moltiplicarsi delle Figlie di Maria Ausiliatrice è legato dal punto di vista antropologico a diversi fattori. Ne segnalo qualcuno.

In primo luogo l’urgenza dell’opera educativa rivolta alle fasce di popolazione giovanile di ceto medio, medio-basso e basso. Questa urgenza si è generalizzata con l’emergere della scolarizzazione di massa e con la richiesta di manodopera femminile in contesti socio-economici di preindustrializzazione e industrializzazione. La conseguente emigrazione interna all’Italia spiega pure l’attenzione a pensionati per ragazze operaie.

A questi fattori vanno aggiunti le povertà e i problemi educativi e assistenziali provocati dalle due guerre mondiali, in particolare la presenza di bambine, fanciulle e ragazze rimaste orfane.

Non va dimenticata l’emigrazione degli italiani all’estero con il bisogno di aiuto non solo materiale, ma soprattutto spirituale. Si presenta subito la necessità e l’urgenza dell’educazione delle loro figlie sia con le scuole che con gli oratori.

Quindi, l’urgenza e l’attualità della missione educativa nei vari contesti geografici e nelle diverse fasi storiche possono essere una ragione socio-antropologica della crescita numerica nel senso che, da una parte vi è la richiesta di presenza delle Figlie di Maria Ausiliatrice per rispondere a bisogni educativi tradizionali e nuovi, dall’altra lo stile di vita che esse conducono, caratterizzato dallo spirito di famiglia, dall’amorevolezza, dalla gioia, può suscitare nelle ragazze il desiderio di donare la vita al Signore in tale missione.

Vorrei sottolineare che don Bosco con la sua singolare prossimità al mondo giovanile, fatta di simpatia, di profonda amicizia, di paternità spirituale espressa nella operosa attenzione ai loro bisogni, ha tradotto la “conversatio inter pauperes” di s. Francesco di Assisi in spiritualità educativa.

Così lo spirito di San Francesco di Assisi tradotto in chiave educativa avrebbe ispirato don Bosco?

Sappiamo che s. Francesco, con il suo stile di vita evangelico, ha soccorso i poveri non semplicemente con la “elargitio erga pauperes”, cioè con l’elargire ai poveri, ma con la “conversatio inter pauperes”, cioè stando in mezzo a loro, facendosi uno di loro, quindi capendoli dal di dentro.

Don Bosco ci ha donato uno stile di presenza educativa, ispirata al principio dell’Incarnazione, fatto di tale vicinanza alle nuove generazioni da giungere a donare tutta la sua esistenza a loro, amando ciò che esse amano per portarle ad amare ciò che egli ama.

Guardando la vita di Giovanni Paolo II si può vedere don Bosco, come egli stava in mezzo ai giovani. È una eredità bellissima, ma anche esigentissima, perché conduce al dono della propria vita per loro, per la loro salvezza.

Don Bosco ci ha lasciato un motto: “Da mihi animas coetera tolle!”, che traduceva: “Dammi le anime, prenditi il resto”. Egli si è consacrato totalmente al bene integrale dei giovani proprio puntando dal di dentro, dalla spiritualità, dalla salvezza. I giovani rispondono con entusiasmo e generosità alle proposte fatte da coloro che li amano veramente.

Questi elementi “possono” indicare una ragione della crescita numerica sia dei salesiani che nostra. Dico “possono”, cioè indico una possibilità, perché il percorso di scoperta vocazionale e della decisione a rispondervi è molto vario. A volte dipende da fattori contingenti, altre volte persino da casualità, altre volte è legata ad una ricerca intenzionale, esplicita.

A volte le vocazioni vengono da contesti socio-culturali e socio-religiosi che potremmo giudicare “inadatti” e non vengono da ambienti che sembrerebbero più “favorevoli”. Ad esempio, dalle scuole, dagli oratori, dai centri giovanili e dalle parrocchie ove noi operiamo ci aspetteremmo un numero più consistente di vocazioni, invece non sempre è così.

La vocazione, quindi, emerge sempre più come dono di Dio, specie in contesti antropologici e culturali ove la proposta religiosa sembrerebbe casuale.

Un’annotazione: credo che oggi dovremmo essere più coraggiose nel fare la proposta vocazionale, perché sovente le nuove generazioni sono sole nella ricerca e realizzazione del proprio progetto di vita secondo il disegno di Dio.

Qual è la principale sfida della vita religiosa femminile?

La domanda esige un discernimento da operare dentro le svariate istanze, questioni, prospettive che emergono dalla vita religiosa femminile. Esistono sfide-possibilità profetiche molteplici. Senza dubbio alla base vi è la trasparenza della radicalità evangelica, ossia la fedeltà al Vangelo resa leggibile con la testimonianza, con uno stile di esistenza dal quale risplende la bellezza della sequela.

Certo tutta la Chiesa, quindi ogni singola persona credente, è interpellata a passare dalla teologia alla teofania, dal discorso su Dio alla rivelazione di Dio, dalla cristologia alla cristofania, dal discorso su Gesù Cristo alla rivelazione di Lui, dalla conoscenza della sua persona alla conoscenza di Lui in persona.

La persona chiamata a seguire Gesù più da vicino, amandoLo con cuore indiviso, è interpellata a rivelare la misericordia del Signore a titolo speciale. All’esigenza di radicalità evangelica si aggancia la sfida di tradurre questa realtà al femminile.

Che significa rendere visibile la radicalità evangelica al femminile?

Vi sono alcune dimensioni che emergono dalla storia. Partirei dall’indicazione che ci offre il Vangelo di Luca al cap. 8 vv. 1-3: “Gesù se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni”. Applicando a questi versetti l’esegesi del silenzio, cioè collocando queste scarne indicazioni nel contesto socio-religioso del tempo, emerge che Gesù, libero da ogni stereotipo antifemminile, ha accolto al suo seguito delle donne. A parte la nota “erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità” che tradisce lo stereotipo antifemminile della donna “pericolo morale”, non facendo alcun accenno alla liberazione spirituale dei Dodici.

Queste donne hanno colto nel messaggio di Gesù una tale potenza di liberazione e di autenticità che le ha condotte a oltrepassare pregiudizi, limiti, paure, a rischiare il giudizio altrui. Si sa quanto erano pesanti e ingiuste le norme che tenevano legate le donne al potere maschile paterno e maritale, per cui non potevano decidere di sé, del proprio progetto di vita; in concreto non potevano disporre del proprio corpo, quindi della propria sessualità e del proprio mondo affettivo, e delle loro risorse economiche. Esse hanno avuto l’ardire di decidersi per Gesù e il Vangelo, affermando con la vita che del loro corpo e dei loro beni decidevano liberamente loro secondo le esigenze della sequela del Cristo.

La storia del cristianesimo, anche se persistono tuttora letture ideologiche che affermano il contrario, attesta a chiare lettere che le donne più degli uomini hanno trovato nel Vangelo uno spazio singolare di libertà e di autonomia, di realizzazione di sé e di servizio religioso e sociale, quindi di visibilità storica.

Si pensi all’epoca delle persecuzioni: sono numerose le donne, dalle fanciulle alle donne sposate e alle vedove, che testimoniano la fede in Gesù fino al martirio. Così il “sesso debole” si mostra fortissimo, lasciando sbalorditi i persecutori.

Si pensi all’azione evangelizzatrice svolta dalle donne nel mondo aristocratico imperiale attraverso le relazioni domestiche. Si pensi al monachesimo e alla socializzazione dei saperi, da quelli culturali a quelli relativi ai mestieri.

Si pensi alle congregazioni religiose moderne e al coraggio delle donne di essere nel mondo, oltrepassando lo stereotipo di custodi del focolare domestico, con la passione evangelizzatrice e soccorritrice di Cristo. La memoria storica dovrebbe risultare una effettiva risorsa profetica per il futuro. In tal senso segnalo qualche ambito in cui tale profezia dovrebbe esercitarsi.

Dove sono questi nuovi ambiti?

Oggi, in un contesto di secolarizzazione e anche di più o meno latente ostilità al Vangelo, noi donne consacrate dovremmo testimoniare la potenza emancipatrice della sequela di Gesù, irradiando la bellezza di autocomprenderci alla luce di Lui e del suo messaggio. Alla scuola di Maria, sua e nostra Madre, dovremmo ricomprendere la nostra esistenza nella grandi opere di Dio, nella sua misericordia, come la vergine del Magnificat.

Non è un fatto scontato. Esige coraggio, ardimento e umiltà. È il coraggio di andare fino in fondo, fino al dono della vita soprattutto con la testimonianza di fede coraggiosa, uscendo dal privato, dalla concezione illuministica che persiste – nonostante le smentite storiche – nel considerare la dimensione religiosa come un fatto privato, quindi invisibile, senza incidenza nella costruzione della società.

In una cultura che rischia di centrarsi sul tecnologico siamo interpellate a testimoniare il raccordo, la sintesi tra ragione e sentimento, tra razionalità e relazionalità.

In un contesto in cui emerge la conflittualità e l’interesse individuale è un seme di speranza di singolare fecondità portare uno stile di esistenza solidale ove si attua lo scambio di saperi e si opera l’empowerement (il darsi reciprocamente potere, riconoscimento, incoraggiamento) tra donne per il bene di tutta l’umanità.

Tutto questo esige una capacità di discernimento e il suo esercizio concreto, fondati su una visione teologale della storia, quindi su una visione aperta alla speranza, fiduciosa nell’anticipo di fiducia che il Signore ci dona costantemente e gratuitamente.

Lei coordina corsi di formazione. Dove vede le lacune più grandi?

Va premesso che il panorama geografico della vita consacrata femminile è cambiato rispetto a solo un decennio fa. Oggi è prevalente il mondo asiatico e africano rispetto a quello europeo e americano. Lo costato concretamente nel “Corso annuale di qualifica per Formatrici e Formatori nell’ambito della vita consacrata”.

Questa diversa provenienza socio-culturale e socio-religiosa pone nuove urgenze educative, mentre offre nuove opportunità e sensibilità nella ricomprensione dell’esperienza evangelica e carismatica.

La riflessione teologica, anche quella relativa alla vita consacrata e ai carismi dei singoli istituti, fino al Vaticano II, si è elaborata in gran parte in Occidente con categorie concettuali, accentuazioni, tradizioni e traduzioni pratiche legate a questo contesto. Gli Istituti stessi sono sorti in prevalenza in Occidente, soprattutto in Europa e, in particolare, in Italia.

Ne consegue che prima nella trasmissione di contenuti teologici e carismatici si potevano presupporre elementi culturali e religiosi, esperienze e comportamenti (dottrina, storia, filosofia, arte, letteratura, stili di vita, saggezza popolare) che oggi non si possono più dare per scontati.

Può accadere che le stesse parole veicolino concetti e modi di sentire diversi i quali potrebbero non coincidere con il messaggio evangelico e carismatico.

Pertanto, nei percorsi formativi bisogna assicurare le condizioni di possibilità fondamentali per una corretta inculturazione e riespressione della fede e della vita consacrata, senza illudersi in facili traduzioni. Non basta trasmettere contenuti informativi, occorre favorire l’assimilazione dei valori in una elaborazione esistenziale di sintesi evangelica e carismatica che rende possibile il discernimento personale e comunitario. È questa una domanda fondamentale alla quale occorre rispondere in modo pertinente.

Circa le eventuali lacune si può segnalare che esse sovente ricalcano gli stessi limiti che riscontriamo nella socio-cultura odierna. La mentalità del “tutto e subito” si traduce talvolta negli Istituti religiosi nella scelta di percorsi di studio brevi, magari con risvolti pratici immediati. Questo non dispone lo spirito a quel “silenzio interiore”, a quella pazienza-pace, a quella perseveranza, a quella studiositas che costituiscono l’humus dell’umile e appassionata ricerca della verità.

Ma esiste una buona formazione delle religiose?

In genere noto una forma latente di analfabetismo religioso: i contenuti della fede talvolta sono appresi in modo superficiale e approssimativo. Non certo per mancanza di impegno di docenti o di studenti, ma per una certa fretta “psicologica” provocata anche dalla cultura informatica la quale, se da una parte mette a disposizione molte informazioni e strumenti, dall’altra sembra favorire l’accumulo di materiale senza una vera assimilazione, senza un genuino metabolismo spirituale.

L’effetto è il sapere “pressappoco” che non può condurre a quella saggezza esistenziale che orienta nel discernimento tra vero e falso, tra bene e male. Il pericolo è la regressione a livello culturale con l’effetto di confusione o autoreferenzialità, chiusura e difesa nelle proprie isole sicure. La società complessa e globalizzata esige persone profonde e solidali, capaci di confronto costruttivo e di progettualità solidale. Siamo interpellate a investire nella formazione, anche nella formazione culturale e professionale, per poter vivere e operare con la carica di risorse evangeliche e rispondere agli appelli della storia.

Bisogna proseguire sulle scelte coraggiose operate dalle donne consacrate dopo il Concilio Vaticano II, valorizzando le grandi opportunità formative che ci sono offerte, non temendo di intraprendere percorsi di studio lunghi, soprattutto nell’ambito delle scienze teologiche e in quello delle scienze dell’educazione nelle quali dovremmo diventare sempre più esperte. Dovremmo concretamente alimentare la consapevolezza della formazione continua.

Un altro ambito da rafforzare è il senso della verità che si fa fedeltà, quindi il senso progettuale della vita, incarnando l’ideale nel quotidiano e riducendo la distanza tra idealità e scelte concrete di ogni giorno.

Il discorso non è teoretico, astratto: è l’opzione fondamentale per Cristo da tradurre nella vita nelle sue molteplici espressioni, confidando con gratitudine nella grazia che Egli ci dona sempre abbondantemente.

È la crescita nell’identità evangelica e carismatica dentro una società in cambiamento la quale esige dalla persona e dalla comunità una costante e profonda ricomprensione del proprio essere e della propria missione.

C’è bisogno di più accompagnamento spirituale?

In questa direzione si avverte l’esigenza dell’accompagnamento oggi un po’ carente. Vi sono tanti docenti, tante persone che offrono conoscenze, magari anche consigli, aiuti vari, ma le nuove generazioni – e anche quelle non più nuove – avvertono sovente una profonda solitudine, sentono il bisogno di essere aiutate concretamente a tradurre nella storia i valori evangelici.

Alcuni anni fa non si parlava di accompagnamento spirituale, ma vi erano sacerdoti che guidavano nel discernimento vocazionale e incoraggiavano a scegliere fidando nella Divina Provvidenza.

L’accompagnamento urge pure come luogo di speranza. In esso si possono creare opportunità ed occasioni, perché la persona si eserciti nel discernimento, operando scelte coerenti con ardimento e umiltà. In questo accompagnamento un’attenzione va data all’assimilazione vera dei contenuti della fede e della spiritualità del proprio istituto, con un metabolismo sano spirituale.

Un altro aspetto su cui vorrei richiamare l’attenzione è la maturazione nel senso della propria creaturalità. Vi sono alcuni elementi della cultura attuale che orientano a considerare la perfezione umana come infallibilità, che alimentano il complesso di onnipotenza e onniscienza, quindi non favoriscono la coscienza del limite, della propria precarietà.

In tal senso l’appello è a testimoniare il senso della trascendenza, del primato di Dio, l’abbandono nella Provvidenza, oltrepassando quelle forme di paura che portano al possesso, alla manipolazione, all’atteggiamento di autosalvezza.

Dentro una società che si chiude nell’immediato e nel terrestre, la vita consacrata è interpellata a richiamare l’Oltre e l’Altro, la realtà dei valori escatologici. Non significa semplicemente alimentare la tensione verso il futuro, ma coltivare l’aspirazione al Paradiso, alla patria futura acquistata lavorando per la città terrestre secondo il progetto di Dio.

Mi sembra molto illuminante riprendere al riguardo il messaggio che Paolo VI rivolse alla IIIª Assemblea Generale dei Vescovi italiani, il 22 febbraio 1968. Egli annotava: “Né si dica che così orientati e liberi da aspirazioni temporali, noi diventiamo forestieri in questa terra, in cui la Provvidenza ci ha dato di vivere, né incapaci di colloquio col mondo profano, tutto teso verso le realtà terrene, diventate nel tempo nostro estremamente feconde e seducenti. Tutta la Costituzione conciliare Gaudium et spes è là per dimostrare il contrario e per risolvere il problema dei rapporti del cristianesimo con l’umanesimo”.

E dunque, quale sarebbe la missione?

Ancora Paolo VI “la nostra missione, e proprio in questa ora inquieta e confusa, è quella di infondere speranze buone, speranze vere, speranze nuove agli uomini a cui si rivolge il nostro ministero; e ciò – sia detto con le cautele del caso – anche per la vita temporale dei nostri fratelli (tali infatti sono per noi gli uomini, che la vita vissuta rende a noi prossimi)”.

“Tocca a noi, credenti, speranti ed amanti, portare, secondo l'arte nostra, continuamente all'uomo cieco la luce, all'uomo affamato il pane, all'uomo adirato la pace, all'uomo stanco il sostegno, all'uomo sofferente il conforto, all'uomo disperato la speranza, al fanciullo la gioia della bontà, al giovane l'energia del bene”.

“Se crisi oggi nel mondo vi è, essa è quella della speranza, quella dell'ignoranza dei fini per cui valga la pena impiegare l'enorme ricchezza di mezzi, di cui la civiltà moderna ha arricchito, ma altresì appesantito la vita umana. Noi siamo le guide. Noi siamo coloro che hanno la scienza dei fini”.

“Noi dobbiamo essere maestri della speranza. E questo sia detto per voi, Pastori, a cui appunto è dato condurre il gregge umano ai pascoli della vera vita; sia detto per voi, laici cattolici, che con i Pastori apportate alla Chiesa e al mondo il pensiero e l'opera della salvezza cristiana”.  (Zenit, 19 e 21 maggio 2006)

 

 

 


 

Studi cattolici: “Armi, terrorismo e droga nel crocevia di Cuba”

 

Da tempo si assiste a un revival dell'ideologia terzomondista in salsa latino-americana, scandito da una serie di eventi, peraltro poco assimilabili tra loro, come la vittoria di Lula in Brasile, quella più recente di Chavez in Venezuela o della Bachelet in Cile. Questo revival, che si inserisce nel quadro del più generale movimento no-global, ha trovato largo spazio in Italia, sia nelle librerie (non solo della catena Feltrinelli) dove abbondano i libri sui movimenti terzomondisti e in particolare su Cuba, Castro e Che Guevara, dal tono encomiastico e apologetico (1), sia nelle sale cinematografiche.

Il fenomeno è stato incentivato dalla decisione con cui i ministri degli Esteri dei Paesi membri dell'Unione europea, il 31 gennaio 2005 sospendevano le sanzioni contro L'Avana, scattate il 5 giugno 2003, dopo che settantacinque oppositori del regime - intellettuali, giornalisti e attivisti dei diritti umani - accusati di essere al soldo degli Stati Uniti, erano stati condannati a lunghe pene detentive, e dopo l'esecuzione di tre giovani che avevano progettato il sequestro di un battello per fuggire da Cuba.

L'iniziativa europea veniva motivata con la liberazione di quattordici dissidenti, ma lasciava perplesso uno dei maggiori esponenti del dissenso, Oswaldo Paya, fautore della transizione pacifica dal castriamo alla democrazia, per il quale la Ue con tale gesto dava prova di debolezza, perché doveva subordinare la sospensione delle sanzioni alla liberazione di tutti gli oppositori (2).

Tale indulgenza, in effetti, creava il clima favorevole per una campagna di appoggio al regime lanciata su scala mondiale dal quotidiano spagnolo El Pais, lo scorso marzo, con un appello sottoscritto da centinaia di personaggi della intelligencjia e dello spettacolo, tra i quali in Italia si segnalavano oltre all'ineffabile Gianni Mina, Luciana Castellina, noblease oblige, il cantante Red Ronnie e il maestro Claudio Abbado che pare abbia trovato a Cuba la sua nuova patria. La maggior parte dei firmatari più noti erano originari di Paesi del Terzo inondo, in particolare dell'America latina, espressione di un neoterzomondismo che ha subito una sorta di mutazione genetica rispetto a quello degli anni 1970 e dei primi anni '80, quando il movimento poteva contare sull'appoggio, in verità non sempre entusiastico, dei diversi regimi comunisti e in particolare dell'Urss.

Fattori dell'ideologia neoterzomondista

Tre sono i fattori che hanno consentito l'articolazione dell'ideologia neoterzomondista: il collasso del sistema sovietico e degli Stati a esso legati, l'emergere di un islamismo militante a vocazione universalista e il manifestarsi dell'iperterrorismo su scala planetaria dopo l'attacco agli Stati Uniti l'11 settembre 2001 (3). Che tra questi fattori esistano delle correlazioni è qualcosa di più che un semplice sospetto: non fosse altro per ragioni tecniche e operative gli irriducibili fautori del comunismo e della rivoluzione mondiale hanno intrecciato rapporti a più livelli con i movimenti islamisti di varia origine, nel solco peraltro di una tradizione che risale già all'esordio del regime bolscevico; quando, dopo il Primo congresso dei popoli dell'Oriente svoltosi a Baku nel 1920, prese corpo la «via musulmana» verso il comunismo indicata da Karl Radek e poi incarnata dal tataro Sultan Galiev, collaboratore di Stalin nel Commissariato delle nazionalità (4). In che modo questo insieme di fattori abbia costituito ÌI tessuto ideologico e organizzativo su cui si e innestato l'iperterrorismo che ha segnato la storia dell'Occidente negli ultimi anni, è difficile dire. Si tratta infatti di un processo ancora in atto, dai contorni piuttosto oscuri, dove i soggetti attivi e le menti strategiche di certo non vanno individuati esclusivamente nell'entità che ha preso il nome di «Al Kaida», con le sue emanazioni più o meno attendibili, e in personaggi dalla ridondante esposizione mediatica.

Tuttavia si possono scorgere alcune linee-guida, poiché la dinamica di questo processo era attivata da tempo, pur rappresentando l’11 settembre un salto di paradigma (5). Già a metà degli anni Ottanta, infatti, lo studioso Roland Jacquard scriveva; «Attraverso gli Stati e i gruppi o gli individui che organizzano o aiutano il terrorismo emana un'idea forte: l'annientamento delle civiltà tradizionali e delle società strutturate. Ma non c'è dubbio che il terrorismo, più o meno coscientemente, lavora per l'instaurazione di un nuovo ordine, di una ideologia spietata» (6). In ogni caso i tre soggetti - Stato, gruppo o individui - hanno bisogno per operare di uno o più santuari interni o/e internazionali; diversamente la loro sopravvivenza è questione di settimane o al massimo di qualche mese. Il vecchio terrorismo terzomondista, infatti, poteva contare su diversi e ben muniti santuari in Europa, in Asia, in particolare nel Medio Oriente, in Africa e nelle Americhe dove si impose la novità geopolitica più significativa con l'instaurazione a Cuba di un regime comunista, la cui sopravvivenza alle micidiali turbolenze dell'ultimo quindicennio suscita non pochi interrogativi. La nascita stessa dello Stato castrista attiene invero a una fenomenologia complessa, in parte estranea alla vulgata marxista-leninista tradizionale, i cui dispositivi ideologico-coercitivi sono poi stati attivati in funzione non solo della sopravvivenza del regime, ma anche e soprattutto per svolgere un'attività di destabilizzazione a livello planetario.

Omicidio Allende: Castro il mandante?

Un importante contributo per decodificare il mistero dell'isola del dottor Castro (7) e demolirne la mitologia è giunto recentemente dalla Francia, con la pubblicazione di un libro dal titolo significativamente ambiguo, Cuba Nostra (8), terminologia usata dalla propaganda di regime, ma che allude anche alla struttura omertosa che innerva il potere a L'Avana. Il suo autore, Alain Ammar, reporter del Tf1 e specialista di Cuba e dell'America latina, si è valso della collaborazione di Juan Vivés ex agente dei servizi segreti castristi, giunto in Francia nel 1979 e di Jacobo Machover, scrittore cubano che da tempo vive in esilio nel Paese transalpino. Il volume, di oltre 400 pagine, è ricco di testimonianze che gettano nuova luce sugli episodi e sugli aspetti più oscuri e inquietanti che hanno caratterizzato e ancora segnano le vicende di un regime, che si ripropone come campione della «lotta antimperialista». Una delle rivelazioni più sorprendenti riguarda la morte di Salvador Allende che, secondo la testimonianza di Vivés, sarebbe stato ucciso - su ordine di Castro - da una sua guardia del corpo cubana mentre si apprestava a trattare la resa con la Giunta militare. Se non ci sono prove definitive che confermino tale asserzione, resta pur vero che l'infiltrazione dei castristi nei gangli vitali della vita politica cilena, durante il governo di Unidad Popular, era tale da poterla condizionare fino alle estreme conseguenze. In effetti l'eliminazione di Allende conveniva sia a Castro, che puntava a farne un nuovo martire-eroe rivoluzionario, dopo la scomparsa del «Che», sia alla Giunta militare liberata da una presenza che, anche dall'esilio, sarebbe stata comunque ingombrante. Una uccisione quindi voluta da una tacita convergenza di interessi; convergenza, peraltro, testimoniata da un altro episodio significativo svoltosi in quelle tragiche ore, quando i reparti militari consentirono alle guardie del corpo presidenziale, tutte cubane, di abbandonare incolumi il palazzo della Moneda e rifugiarsi nell'ambasciata di Svezia, da cui poi grazie a un salvacondotto poterono ritornare in patria. Pare singolare questa indulgenza del generale Augusto Pinochet verso gli uomini di Castro; in realtà, tra il caudillo rosso dell'Avana e il militare cileno esistevano dei rapporti cui non erano estranee le comuni appartenenze o simpatie massoniche (9).

Spirito di solidarietà internazionale»?

Molte pagine del libro di Ammar sono dedicate all'interventismo delle «legioni cubane» nei vari teatri di guerra del Terzo mondo, sia in America latina sia in Africa e nel Medio Oriente: dal Venezuela, tornato oggi di grande attualità con la presidenza «bolivariana» di Hugo Chàvez, al Sahara spagnolo appoggiando il Fronte Polisario per destabilizzare Marocco e Mauritania, dalla Palestina alla Siria, dove di fronte alle alture del Golan una brigata corazzata cubana schierata contro gli israeliani tra il 1973 e il 1975, subì pesanti perdite. Lo stesso Castro, in un discorso del 1° maggio 2003, ricordava come «lo spirito di solidarietà internazionale» del suo regime si fosse manifestato su scala planetaria intervenendo in Algeria, Congo, Guinea e Capo Verde, Angola, Vietnam, Bolivia, Nicaragua, Granata, dove il golpe di Maurice Bishop nel 1979 doveva innescare l'operazione chiamata Rosario Rojo per imporre regimi comunisti in tutte le Antille, ma il tentativo fallì per il rapido intervento dei paracadutisti americani appoggiati da unità d'elite del Sas britannico.

In effetti questo attivismo sovversivo che, come Castro affermava nel suo discorso, non era limitato ai soli Paesi citati, suscita anche oggi pesanti interrogativi; non a caso un capitolo intitolato «Santuario del terrorismo mondiale» è dedicato quasi interamente ai rapporti del regime con la rete del terrorista venezuelano Ilich Ramirez Sànchez, più noto come Carlos (10), che nella primavera 2003 fece pubblicare sul giornale venezuelano La Razón una lettera dove sosteneva l'azione repressiva di Castro contro i settantacinque oppositori. Va sottolineato che Carlos, dalla sua cella francese, riesce a collaborare regolarmente con La Razón tenendo una rubrica intitolata «La Bastilla», grazie all'intermediazione del suo avvocato Isabelle Coutant-Peyre che ha sposato in carcere e che, come lui, si è convertita all'islam. Ottimi sono rapporti di Carlos con Chàvez, che rispose a un suo messaggio di felicitazioni per la conquista del potere con una lettera di caloroso ringraziamento pubblicata da Le Figaro; episodio per il quale Ammar sì chiede «se non esiste, tra il militare golpista oggi presidente (del Venezuela) e il terrorista in prigione, una convergenza di idee sugli obiettivi da raggiungere con mezzi diversi». Da notare inoltre, per quanto riguarda il teatro europeo, che proprio a Caracas, dove c'è una consistente comunità basca, venne fondata nel 1959 l'Eta, che poi ha goduto di un concreto appoggio da parte del regime castrista, come sottolineato di recente anche dal giudice spagnolo Baltasàr Garzón.

Terrorismo, droga, eserciti mercenari

Che la Cuba del dottor Castro volesse riproporsii come la centrale ideologica e logistica della rivoluzione comunista mondiale, o quanto meno latino-americana in salsa bolivariana, era evidente fin da quando, superato il trauma del collasso dell'Urss (il cui sostegno economico aveva lungamente garantito la sopravvivenza del regime), a partire dalla metà del 1995 L'Avana rilanciava la rivista Tricontinental, organo teorico della segreteria esecutiva dell'Ospaal (Organizzazione di solidarietà dei popoli dell'Africa- Asia. America latina), una sorta di Quinta Internazionale fondata nel 1966 (11) ed entrata in sonno verso la metà degli anni 1980. Questo rilancio rispondeva a un disegno strategico che oggi non appare del tutto azzardato per quanto riguarda l'America latina, dove in molti Paesi il deperimento dell'autorità statale ha lasciato campo libero all'illegalità di massa e alla criminalità organizzata legata al traffico di droga per cui «metà dell'intera attività economica dell'America latina avviene a livello illegale» (12). In questo mare nuotano a piacimento i piranha dell'eversione, e giustamente Animar dedica un lungo capitolo all’affaire che vide protagonista e vittima il generale Arnaldo Ochoa.  L'eroe  nazionale che aveva studiato nelle più prestigiose accademie militari sovietiche, il responsabile delle operazioni in Angola, ma anche il simpatizzante della perestrojka gorbacioviana  (mentre  Castro  appoggerà i militari sovietici protagonisti del tentato golpe il 21 agosto 1991) e il depositario di molti segreti del clan castrista, divenne il capro espiatorio della cosiddetta «Avana connection». Il  caso  era  esploso  nell'aprile 1987, quando il settimanale Us News and World Report  pubblicò un reportage che rivelava il ruolo del regime cubano nel traffico di droga attraverso l'intermediazione del gangster colombiano legato al cartello di Medellin. Carlos Lehder che, estradato negli Stati Uniti e processato a Jacksonville, denunciò il coinvolgimene di alti dirigenti cubani e dello stesso Raùl  Castro,  fratello del  Lider Maximo e ministro della Difesa, nel traffico di narcotici. La vicenda era clamorosa, le prove raccolte dagli inquirenti statunitensi lasciavano pochi dubbi sul fatto che  Cuba  fosse  diventata  una centrale di smistamento di droga a livello internazionale:  l'unica soluzione per uscire dall’impasse era costruire un processo farsa e scaricare tutte le colpe su personaggi   di   primo   piano   come Ochoa e altri ufficiali superiori, di cui Castro ormai diffidava. Il processo diffuso dalla televisione si concluse con quattro condanne a morte, tra cui quella di Ochoa, e numerose lunghe pene detentive. La notte del 13 luglio 1989, alla presenza dello stesso Fìdel Castro, i quattro condannati venivano fucilati. Il regime cosi si dava una ripulita agli occhi del popolo cubano e del  mondo;  nel contempo si liberava di una pericolosa fronda  all'interno delle Forze armate.

In realtà si trattava dì una limpieza a buon mercato e di breve durata, se è vero che nel 2003 il governo dell'Avana aveva depositato 4 miliardi di dollari su un conto Ubs a New York, nel quadro di un cambio legale di banconote usate, ma sulla cui provenienza i sospetti dì riciclaggio restano, dato che gli introiti del turismo per lo stesso anno ammontavano a 1,5 miliardi di dollari e le rimesse degli emigrati, in gran parte negli Usa, si attestavano intorno agli 800 milioni di dollari. Sospetti implicitamente rafforzati da una recente dichiarazione dello stesso Castro che, ammettendo il disastroso risultato della raccolta di canna da zucchero nel 2005 a causa della siccità (1,3 milioni di tonnellate, la peggiore dal 1908). ha affermalo: «Lo zucchero non tornerà più in questo Paese, appartiene all'epoca della schiavitù».

Basteranno allora le esportazioni di nickel, il cui prezzo si è involato sui mercati mondiali, il turismo e le rimesse dall'estero a garantire la sopravvivenza economica di Cuba, che ha dovuto fare fronte anche ai danni (oltre due miliardi di dollari) provocati da due terribili uragani? In realtà la soluzione più probabile è che proprio un rinnovato protagonismo «rivoluzionario» diventi anche un'arma economica da gettare sulla bilancia dei rapporti internazionali, in America latina e forse anche altrove, inserendosi nel nuovo grande ciclo della violenza «non statale» che si è tradotta nel fenomenale sviluppo degli «eserciti privati» disposti a essere ingaggiati da molti Stati (circa la mela membri dell'Onu) che non godono più della protezione delle due ex superpotenze, e non sono in grado di fronteggiare - per la porosità delle loro frontiere, la corruzione dell'apparato civile e militare, quindi privi di una vera legittimità - le sfide interne ed esterne (13). Nella nuova «Guerra dei trent'anni» ingaggiata dal terrorismo su scala planetaria, il regime castrista può ancora giocare delle carte, naturalmente a scapito del popolo cubano, con ulteriore rafforzamento dello Stato di polizia e di delazione, al quale Animar dedica l'ultimo capitolo: «La repressione permanente». Da esso risulta che, oltre ai detenuti politici, ci sono circa 300mila detenuti per delitti comuni pari al 3% della popolazione (14).

A fronte di una simile cifra c'è da chiedersi se non esistano anche a Cuba molti campi e strutture per il lavoro forzato, seguendo l'esempio della Cina popolare, con la quale il regime intrattiene stretti rapporti anche nei settori delle tecnologie avanzate.

L’opera della Chiesa per la democrazia

In questo quadro fosco le poche note positive giungono da alcune iniziative come quella lanciata nel maggio 2005 dalla dissidente Maria Béatriz Roque con l'Assemblea per promuovere la società civile a Cuba, o il movimento prò-amnistia delle Dame in bianco che lo scorso anno ha ricevuto il Premio Sacharov dal Parlamento europeo. Ciò che però suscita maggiore inquietudine nel regime è l'azione che può svolgere il mondo cattolico. La Chiesa, infatti, emerge come la sola istituzione che possa vantare una reale indipendenza, anche se resta difficile misurare la sua capacità di influire sul regime dopo oltre quarant'anni di sostanziale emarginazione (15). Il castrismo, non appena affermatosi, espulse molti sacerdoti verso la Florida e la Spagna. e fece appello a una religiosità sincretica, dove occupa un posto di rilievo la santeria (16), manipolando le confessioni protestanti più remissive e a volte giocando su certe ambiguità manifestate in qualche ambiente vicino alla Santa Sede.

Attualmente la Chiesa può contare su un migliaio di religiosi, ma anche su gruppi di laici molto attivi dopo il 1968: mentre la Chiesa latino-americana era pervasa dai confusi fermenti della ideologia della liberazione», a Cuba preda della dittatura il francese padre Rene David auspicava una «teologia della riconciliazione nazionale». Da allora questo progetto ha fatto progressivamente strada presso i dissidenti dell'interno come Elizardo Sànchez e Oswaldo Paya, il militante cristiano che nel maggio 2002, di fronte all'Assemblea del potere popolare svoltasi all'Avana, presentò un documento, chiamato «Progetto Varela» - dal nome di un sacerdote che nel XIX secolo volle l'indipendenza di Cuba dalla Spagna con oltre undicimila firme in cui si chiedeva l'indizione di un referendum che portasse a libere elezioni. Il regime allora rispose con una grande campagna di mobilitazione e di intimidazioni, raccogliendo milioni di firme per rendere intocable il carattere socialista della Costituzione. Sempre nel 2002 Paya veniva insignito dal Parlamento europeo del premio Sacharov e da anni è candidato al premio Nobel per la pace; oggi il suo progetto ha raggiunto le ventimila firme, mentre un altro esponente laico del mondo cattolico, Dagoberto Valdes, ha trasformato il Centro di formazione politica e religiosa di Pinar del Rio e la rivista Vitral in una sorta di laboratorio per disegnare la transizione dalla dittatura alla democrazia. Su questa linea si muovono anche ambienti e personalità dell'esilio come Marifeli Pérez-Stable attivo presso l'università nazionale della Florida.

NOTE:

1)  Ultimo in ordine di tempo il libro di Giulio Girardi, Che Guevara visto da un cristiano,  Sperling  &  Kupfer.  Milano 2005, sul quale ha scritto una sferzante recensione Roberto Beretta («L'Avvenire». 14 gennaio 2006).

2) «La Stampa», 1 febbraio 2005.

3) Francois Heisbourg, Hyperterrorisme: la nouvelle guerre, Edition Odile Jacob, Parigi  2001   (tr.  it.  Iperterrorismo.   La nuova guerra. Meltemi, Roma 2002).

4) Karl Radek, esponente di primo piano del Komintern. era nato nel 1885 a Lemberg/Leopoli,  città  della Galizia  allora sotto la sovranità dell'impero austro-ungarico (oggi con il nome di L'viv fa parte della Repubblica ucraina), da famiglia ebrea: il suo vero nome era Karol Sobelsohn. Dopo aver studiato all'università di Cracovia e di Berna, aderì al Partito socialdemocratico di Polonia e Lituania e partecipò alla rivolta di Varsavia nel 1905. Durante la Prima guerra mondiale fu attivo in Svizzera e aderì alla linea bolscevica che puntava a trasformare il conflitto in guerra civile rivoluzionaria. Dopo il colpo di Stato del 7 novembre 1917 (la cosiddetta Rivoluzione d'Ottobre) entrò nel Partito comunista partecipando ai negoziati di Brest-Litovsk con la Germania, dove venne inviato nel 1918 con il compito di riorganizzare il movimento comunista tedesco. Qui elaborò le basi teoriche del «nazional-bolscevismo», sintesi ardita tra la vocazione universalista del marxismo e l'affermazione delle identità territoriali etno-nazionali. Dopo il fallimento della rivoluzione tedesca promossa dal Komintern tornò in Russia nel 1920, anno in cui partecipò al 1° Congresso dei popoli dell'Oriente svoltasi a Baku dall’1 all'8 settembre 1920. Qui le sue idee nazional-bolsceviche suscitarono il vivo interesse di Sultan Galiev che incominciò a elaborare una loro traduzione in termini di nazionalismo turco-islamico, e che per certe sue visioni anticipatrivi viene considerato da alcuni studiosi come il precursore dell'ideologia terzomondista (Alexander Bennigsen, Sultan Galiev, le pére de la révolution tiers-mondiste, Fayard, Parigi 1986). Accusato di sciovinismo panturco fu condannato nel 1929 a dieci anni di lavori forzati; liberato nel 1939, di lui poi si perse ogni traccia:. Non migliore sorte sembra sia toccata a Radek: espulso dal partito nel 1927 con l'accusa di trockismo, vi venne riammesso nel 1929; più tardi fece parte della commissione incaricata di redigere la Costituzione del 1936, ma, coinvolto nella Grande purga staliniana, nel gennaio 1937 venne condannato a dieci anni di prigione. Da quel momento se ne perdono le tracce; comunque non esiste prova certa che sia morto in carcere nel 1939.

5) Alain Bauer, Xavier Raufer, La guerre ne fati que commencer. Réseaux, financements, armements, attentats... les scénarios de deman, Gallimard, Parigi 2002.

6) Roland Jacquard, Les Dossiers secretes du terrorisme, Albin Michel, Parigi 1985, cit. in Alain Animar, Cuba nostra. Les secrets d'Etat de Fidel Castro, Plon, Parigi 2005, p. 83.

7) Corinne Cumerlato - Denis Rousseau, L'Ile du docteur Castro ou la transition confisquée, Stock, Parigi 2000.

8) Alain Ammar, op. cit.

9) L'appartenenza a logge massoniche di Augusto Pinochet e soprattutto di Salvador Allende è cosa nota: del secondo ricordiamo la celebre «tavola» pronunciata durante la tornata della «Gran Logia de Colombia» a Bogotà il 28 agosto 1971, in cui il presidente cileno proclamò la sua profonda e costante adesione agli ideali massonici che lo guidavano nell'azione politica. Meno noto è il ruolo predominante della massoneria a Cuba dove, secondo Eriberto Saborit ex gran maestro della «Gran Logia de Cuba» intervistato dalla rivista massonica spagnola La Acacia, ci sarebbero oltre 300 logge, con 23mila aderenti, che ogni mese vagherebbero 200 candidati. Altre fonti parlano di ben 340 logge con circa 34mila iscritti. Una visibile manifestazione della potenza massonica è la sede della Gran Logia de Cuba de FrancMasones, un edificio di sette piani nel centro dell'Avana, che reca un grande simbolo massonico. D'altronde la stessa nascita dello Stato cubano e tutta la sua storia successiva sono profondamente segnate dai «figli della vedova»; basti ricordare Carlos Manuel de Céspedes, considerato il padre della patria, Ignacio Agramente, Antonio Maceo, José Marti, l'eroe dell'indipendenza, e gran parte dell'establishment. Inoltre molti comunisti che contribuirono all'avvento del regime castrista erano massoni, come Raùl Diaz Ulloa della loggia «Armonia», Rodendo Lugo della loggia «Byrne» o Humberto Matos della loggia «Manzanillo» che, entrato in conflitto con Castro, passò diversi anni in galera. Il Lìder Màximo non sarebbe massone, almeno stando a quanto si legge sulla rivista «Humanisme», n. 109; tuttavia, sempre secondo l'organo del Grand Orient de France «è al potere grazie ai massoni», perché solo grazie all'intervento di un ufficiale dell'esercito di Fulgenzio Batista, il massone tenente Sarrié, l'avventuroso Fidel riuscì a fuggire, scampando alla fucilazione, comminatagli perché considerato uno dei responsabili del mitizzato attacco alla caserma Moncada, cui peraltro non aveva partecipato direttamente.

10) II nome di Carlos, ritenuto uno dei più pericolosi esponenti del terrorismo internazionale, prelevato nel 1994 con sospetta rapidità dai servizi francesi quando si trovava in Sudan e da allora ospite di una galera transalpina, è apparso di recente anche nelle cronache italiane per il probabile coinvolgimento di un affiliato alla sua rete nell'esplosione che devastò la stazione di Bologna il 2 agosto 1980 provocando un massacro; eventualità che sarebbe emersa dalla documentazione della commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Mitrokhin (cfr «Corriere della Sera», 17 novembre 2005). Carlos, oltre a collaborare con giornali venezuelani e francesi, ha redatto nella sua confortevole cella un libro il cui titolo è tutto un programma: L'islam rivoluzionario, in cui esalta la mistica della violenza espressa dai terroristi suicidi, la cui azione «colloca nuovamente l'essere umano fatto di carne e sangue al centro della battaglia». Convertitosi all'islam nel 1975, afferma che «l'islam e il marxismo-leninismo sono le due scuole da cui ho attinto il meglio delle mie analisi», ma «oggi la Rivoluzione è prima di tutto islamica». Carlos, nel suo manifesto politico, strizza l'occhio a una certa destra radicale che simpatizza con l'islam, visto come l'antemurale contro il materialismo e l'immoralità di un Occidente irreparabilmente corrotto: «Gli ultimi europei, gli uomini e le donne che hanno conservato la fierezza delle loro origini, che sono ancora fedeli all'eredità dei loro padri, abbracceranno l'islam, il solo mezzo per salvaguardare i propri valori, il patrimonio spirituale ereditato da una lunga storia (sic!) [...] (rifiutando) di svilirsi a contatto del feticismo materialista» (Ilich Ramirez Sànchez Carlos, L'islàm révolutìonnaire, Editions du Rocher, Monaco 2003). Ben altro, in realtà, rappresenta «l'islàm rivoluzionario» come dimostrano i fatti e in modo esaustivo Roland Jacquard e Armane Tazaghart con il loro libro molto documentato, Ben Laden, la destruction programmée de l'Occident, Jean Picollec, Parigi 2004.

11) «I contatti tra movimenti terroristi si sono concretizzati anche attraverso "conferenze", di cui la più famosa è stata la Conferenza Tricontinentale dell'Avana nel 1966, alla quale hanno partecipato 83 movimenti terroristici di tutto il mondo»; Jacques Baud, Le Renseignement et la Lutte contre le Terrorisme. Stratégies et perspectives internationales, ed. Lavau-zelle, Panazol 2005, p. 62.

12) Moisés Naim, Il boom dei traffici illegali. America Latina, il continente nero («Corriere della Sera», 2 dicembre 2005; trad. da «Foreign Policy»).

13) Philippe Simonnot, Le boom des armées privées, «La revue de l'intelligent», n. 1, février-mars 2005.

14) Secondo le organizzazioni per la difesa dei diritti dell'uomo, come la Ccdhrn di Elizardo Sànchez, la cifra si aggirerebbe sui 100/150mila detenuti.

15) Philippe Létrilliart, Cuba, l'Eglise et la révolution, L'Harmattan, Parigi 2005.

16) La santerìa è un sistema magico-religioso sincretico, in cui si fondono elementi del cristianesimo con le credenze animistiche della tribù yoruba, nativa della zona lungo il fiume Niger. La santerìa, originariamente praticata dagli schiavi neri e dai loro discendenti nelle Antille, in Brasile e in Venezuela, e poi diffusa anche tra le altre etnie, ha essenzialmente una dimensione privata e i suoi riti, spesso segreti, vengono officiati nelle case sotto la regia di un santero o babalawo, figura di maggior prestigio per età e funzioni che governa una serie di affiliati. Spesso si tratta di una donna. Esemplare il caso della santera Celia Sànchez Manduley, per lunghi anni l'unica persona vicina a Castro in grado di tenergli testa; il suo ruolo emerse drammaticamente durante la famosa «crisi dei missili» del 1962, quando diede l'ordine di abbattere l'aereo spia americano.

(Augusto Zuliani, Studi Cattolici n. 541, marzo 2006)

 

 

 


 

La fede dei primi discepoli nella risurrezione di Gesù

Il sepolcro vuoto, il linguaggio silenzioso dei panni sepolcrali e la Sindone di Torino

 

Dopo aver inquadrato i racconti delle esperienze al sepolcro nella cornice dei racconti pasquali giovannei e averne fatto una verifica intertestuale (per racconti dove tutto è noto e tutto è nuovo), l’autore si concentra sulla scena dei discepoli al sepolcro, vista nella continuità del racconto della sepoltura e della scoperta del sepolcro vuoto, per individuare, attraverso le particolari difficoltà del testo, la componente tradizionale e quella redazionale e giungere all’analisi dell’esperienza di «visione» che ha portato alla fede il discepolo amato. Questo discepolo anonimo (e pur dotato della più specifica ed esemplare personalità) è il più spedito nel giungere a credere ed è in grado di concludere là dove altri non hanno ancora superato il livello dello stupore disorientato. Egli ha il dono di penetrare attraverso il linguaggio silenzioso dei panni sepolcrali nella verità della situazione attuale di Gesù, che ha vinto la morte, ha stabilito nella sua persona l’equilibrio del piano originario di Dio sull’uomo e ha ripreso il suo dialogo col Padre. Nella conclusione viene affrontato il problema della compatibilità del racconto giovanneo con la realtà sindonica del telo conservato a Torino.

Un mattino presto, d’inizio settimana, una donna d’Israele si recava a una tomba, posta appena fuori dell’abitato cittadino. Accadeva quasi duemila anni fa e l’episodio aveva come protagonista un personaggio poco conosciuto, proveniente da Magdala: una Maria comparsa nell’entourage di Gesù di Nazaret solo al termine della vita del Maestro e scomparsa dalla scena storica (non dalla leggenda) subito dopo l’incontro con il Risorto. Eppure essa domina gli avvenimenti della prima parte di un lungo racconto (i cc. 20-21 del quarto vangelo), che si dipana concentrando l’attenzione su alcuni tipici protagonisti: dopo Maria nella vicenda intervengono Pietro, il «discepolo che Gesù amava», Tommaso; sullo sfondo restano altri dieci, fra i quali viene ricordato ancora Natanaele, assieme ai «figli di Zebedeo». Dal buio di quel mattino, nel giardino, si passa al buio della sera, in una sala chiusa, nella scansione cronologica di un’intera settimana, e poi all’alba che segue una notte passata sul lago per la pesca, fino a un tempo indefinito, che accoglie un discorso orientato anch’esso a un futuro senza chiari confini. In duemila anni quelle pagine sono state lette innumerevoli volte, con l’attenzione ai più vari interessi e l’applicazione delle metodologie più disparate.

Nessun evangelista ha dato, come Giovanni (Gv), tanta attenzione a quegli avvenimenti accaduti dopo la morte di Gesù, che noi usiamo chiamare «esperienze pasquali». Nell’attenzione ad esse si avverte un’evoluzione d’interesse: il Mc primitivo si concentra solo sulle esperienze al sepolcro, che sono ancora predominanti in Mt e Lc[1], mentre Gv concede interesse prevalente alle «grandi» apparizioni di Gesù[2]. Ciononostante anche le esperienze al sepolcro per Gv ricoprono una varietà episodica notevole e svolgono una funzione inscindibile dal successivo sviluppo del racconto.

1. L’articolazione dei racconti del sepolcro

La mattina del primo giorno della settimana si succedono quattro scene al sepolcro: a) Maria di Magdala viene al sepolcro, vede la pietra rimossa e va ad annunciare a Pietro e al discepolo prediletto che «hanno tolto il Signore e non sappiamo dove lo hanno posto» (20,1-2); b) i due discepoli corrono al sepolcro e vedono solo i panni sepolcrali, che fanno giungere alla fede il discepolo amato; poi se ne vanno senza altre iniziative (vv. 3-10); c) Maria, piangente, si china anch’essa e vede nel sepolcro solo due angeli, con i quali accenna un breve dialogo (vv. 11-13); d) Maria è sorpresa dalla presenza di un nuovo protagonista, Gesù, il quale le rivela la sua nuova condizione e le affida un incarico, che ella subito svolge (vv. 14-18).

Ogni scena ha una sua propria comunicazione: silenzio totale nella prima, con un messaggio indefinito, proveniente dal vuoto, che pure è provocante; ancora silenzio nella seconda, dove il messaggio è dato dai panni sepolcrali; incontro con gli angeli nella terza, ricevendone domande ma non messaggi; incontro in fine con Gesù, che interpella e suscita una reazione di totalità di vita. Le reazioni sono discontinue: timida e disorientata, eppure presente, nella prima scena (reazione di annuncio); reazione parziale di fede e non di annuncio nella seconda; assenza di reazione nella terza (la scena più imperfetta, perché totalmente aperta e solo in funzione della successiva); reazione di fede equivalente e poi di annuncio perfetto nella quarta.

Un confronto intertestuale suscita numerose domande: in questo racconto tutto è noto e tutto è nuovo. I sinottici conoscono la Maddalena, ma mai sola e mai piangente; Lc conosce un’andata di discepoli al sepolcro, ma non sa nulla del discepolo amato e del suo cammino solitario verso la fede; figure del mondo celeste sono presenti in tutti i racconti sinottici del sepolcro vuoto, ma con una funzione ben più pronunciata che in Gv; Mt conosce un’apparizione di Gesù alle donne, ma il suo messaggio si limita a fare andare i «fratelli-discepoli» in Galilea, senza dire nulla di se stesso.

La seconda scena è – in certo senso – la più problematica di tutte. Quale funzione hanno i panni mortuari? Perché quegli strani protagonisti? Incominciamo da questi. Certamente le esperienze del sepolcro vuoto non hanno avuto solo le donne per protagoniste: sembra innegabile, confrontando Lc (24,12.24) e Gv (20,3-10). Ma gli apostoli non ebbero funzione dominante. A differenza della linea marciano-matteana, quella lucano-giovannea segue con più attenzione l’annuncio che le donne danno ai discepoli circa il sepolcro trovato vuoto e narrano anche una sua conseguenza: Pietro (per Lc) o Pietro e il discepolo amato (per Gv) vanno pure essi al sepolcro. Qui però le loro linee si dividono, perché per Lc questo è il punto più oscuro di tutta l’esperienza pasquale: Pietro torna a casa (solo) stupito (v. 12)[3]; gli «alcuni di noi» costatano solo l’assenza del cadavere, «ma lui non lo videro» (v. 24)[4]. Per Gv non c’è molto di più, se si fissa l’attenzione sui vv. 9 e 10: i due avrebbero dovuto «sapere» la Scrittura, «che egli doveva risuscitare dai morti» (mancano dunque di qualcosa che sarebbe stato atteso) e poi tornano a casa senza che si ricordi una qualsiasi conseguenza della loro esperienza. Tuttavia il v. 8 costituisce un modesto climax, con la fede a cui giunge il discepolo amato; e questo risultato è presentato come frutto del suo «vedere».

«Vedere» (horao) è in stretto rapporto con «credere»: una causa che è già nell’ordine del suo effetto. Ora il vedere che ha causato la fede aveva un oggetto; ed è stato quell’oggetto a orientare verso la fede. Il contesto permette di individuare un solo oggetto: i «teli» visti dal prediletto (v. 5) e constatati da Pietro, insieme al sudario (vv. 6-7). I panni mortuari diventano, così, indispensabili per la costatazione del sepolcro vuoto e per la decisione di fede di almeno uno dei presenti.

2. Le tradizioni

Gli eventi della passione e quelli che seguono la risurrezione sono collegati tra loro dall’episodio della sepoltura di Gesù. Nei sinottici, oltre a Gesù il personaggio principale è indubbiamente Giuseppe di Arimatea, ma la sua storia non avrà seguito; oltre a lui ci sono le donne, con atteggiamenti e funzioni di volta in volta non identiche ma con un comune rimando alla scoperta del sepolcro vuoto, di cui esse sono protagoniste. Durante la sepoltura l’attenzione è attratta, oltre che dal sepolcro, col suo carattere di eccezionalità[5], da un capo di tessuto, che è avvolto sul corpo di Gesù (che probabilmente è deposto nudo dalla croce). Tutti i sinottici lo chiamano sindôn (Mc 15,46; Mt 27,59; Lc 23,53); ma per i sinottici il fatto dell’avvolgimento non sarà seguito da nessuna considerazione. Fa eccezione Lc, nel veloce cenno alla visita di Pietro al sepolcro (nel discusso v. 12 del c. 24), dove «vede i teli (othonia)».

In Gv il racconto, pur breve, è più complesso: con Giuseppe di Arimatea compare anche Nicodemo; per la sepoltura il narratore dichiara che nel caso di Gesù è stato seguito il rituale ebraico e difatti viene portata e impiegata una quantità rilevante[6] di unguenti per la preparazione del cadavere e poi questo viene «legato» in teli (othonia) e posto nel sepolcro nuovo e vicino[7]. La presenza degli othonia, accompagnati da un soudarion, avrà rilievo nella visita al sepolcro da parte dei due discepoli.

È naturalmente interessante verificare il significato di queste differenze. Il problema non è rappresentato tanto dal significato dei termini che indicano i panni sepolcrali, sufficientemente indeterminati da potere assumere sensi molto vicini tra loro o addirittura identici[8], quanto dalla funzione che essi ricoprono in tradizioni non identiche. Gli othonia[9] ritornano nei racconti pasquali e acquistano una misteriosa importanza nel cammino verso la fede dei protagonisti di quelle esperienze.

Tutto ciò dice la singolarità della loro funzione. Le altre esperienze del sepolcro vuoto sono tipiche esperienze del gruppo femminile, mentre nelle scene dei panni sepolcrali i protagonisti sono maschili; nelle scene più note l’efficacia della comunicazione è garantita dalla voce degli esseri celesti, «interpreti» del senso dell’evento, o dall’intervento di Gesù stesso, mentre nelle nostre non c’è nessuna voce che interpreti il senso del fatto. Le altre scene rimandano esplicitamente all’incontro che ci sarà con Gesù nelle grandi apparizioni, mentre queste hanno una loro forma di autonomia, anche se si rilevava una certa insufficienza (la notavamo sia per Lc 24,12 sia per Gv 20,9-10). Soprattutto in Lc, ma anche in Gv, si tratta di scene non risolutive, quasi solo sospensive, che acquistano il loro vero senso all’interno di una sequenza che procede e le completa.

Non è possibile non pensare a una tradizione che incorpora al suo interno questa funzione e che è caratterizzata, tra l’altro, anche da una terminologia differenziante. In Gv questa tradizione non si trova allo stato puro, perché in lui si percepiscono altri due elementi determinanti: la sua arte compositiva, che a livello redazionale opera interventi coerenti alle sue caratteristiche di narratore e di pensatore, e una quantità rilevante di ricuperi che egli fa delle tradizioni sinottiche. Nella presentazione delle scene del sepolcro sembra essere redazionale la concentrazione sul personaggio della Maddalena[10] e l’impostazione degli interventi del discepolo amato. Dai sinottici deriva il motivo (di tradizione sinottica) delle donne e degli angeli. La scena dell’incontro con Gesù, comune a Mt, sembra provenire da tradizione non propriamente sinottica, ma applicata in modo molto diverso dalla redazione matteana e dalla redazione giovannea. La scena della scoperta dei panni sepolcrali potrebbe essere parte della scena dell’apparizione di Gesù, con funzione preparatoria. C’è infatti una certa coerenza tra il vuoto della tomba e lo smarrimento di fronte ai panni sepolcrali e l’intervento di Gesù che porta senso al tutto[11]. Il ritrovamento dei panni sepolcrali può dunque essere di tradizione vicina a Gv.

3. Le scene nella raffigurazione giovannea

Le quattro scene della scoperta del sepolcro vuoto sono presentate in linguaggio comprensibile, pur nello straordinario che esse descrivono. La prima constatazione dell’assenza del cadavere dalla tomba è possibile grazie alla pietra tolta dall’entrata della tomba ed è seguita dall’andata di Maria al luogo dove si trovano due discepoli. Perché solo loro e dove si trovi quel luogo non interessa alla narrazione[12]. Le altre due scene con Maria protagonista sono certamente sorprendenti, ma facilmente immaginabili: sembra naturale il riconoscimento degli angeli, all’interno del sepolcro[13], ed è naturale interpretare la presenza dello sconosciuto come arrivo del giardiniere, che poi corregge egli stesso l’impressione col suo intervento.

Ma che cosa ci racconta esattamente Gv dell’esperienza dei due discepoli? Che essi sono andati di corsa al sepolcro, che uno è stato più veloce dell’altro ma non ha voluto sfruttare la precedenza conferitagli dalla sua velocità, che il sepolcro era veramente vuoto del suo cadavere. Questo però non viene esplicitato, perché nel frattempo l’attenzione è attratta dai panni sepolcrali. La loro posizione è intuibile, anche se non riusciamo a tradurla con precisione. I «teli», othonia, sono «giacenti»; il «sudario», «che era stato sulla testa» di Gesù, non è giacente con i teli, ma «diversamente/altrove», «in un (solo/stesso) luogo».

La difficoltà della traduzione aggrava la difficoltà della rappresentazione e si presta a dare la stura a una quantità di suggerimenti, anche arzigogolati. Purtroppo nella discussione, in cui intervengono esegeti professionali e studiosi o appassionati della sindone, fanno sentire il loro peso sovente interessi estranei al testo.

È chiaro che nel sepolcro vi sono (almeno) due tipi di tessuto: i teli e il sudario. Tutto fa pensare che essi abbiano grandezza e funzioni differenti: più grandi i primi (in funzione di tutto il corpo?), più ridotto il secondo (in funzione del solo capo). I teli sono «giacenti»: è evidente che il corpo che essi legavano, con gli aromi dentro (cf. 19,40) non c’è più. È questa la prima intenzione del comunicatore ed è in sintonia con tutti i racconti del sepolcro vuoto. La specificazione che viene spesso suggerita, «afflosciati», «abbandonati», non ripiegati, in disordine, può essere lecita, soprattutto se vista in rapporto alla specificazione del sudario, che invece era «avvolto» (forse anche «piegato»).

I teli sono dunque giacenti, il cadavere invece no. È assente. Il participio «giacente» (vv. 5.6.7) fa contrasto con due altri particolari descrittivi: con la funzione dei teli descritta in 19,40, di «legare» il corpo senza vita di Gesù, e con la condizione del sudario, che è «avvolto» o piegato. I teli non legano (più) e non sono «avvolti»/piegati. Il primo aspetto dice che essi hanno perso la loro forza costrittiva, il secondo suggerisce che essi, quando hanno terminato la loro funzione, non sono stati fatti oggetto di un trattamento attento (ma sono stati lasciati com’erano, abbandonati).

Per la situazione o posizione del sudario si devono affrontare le difficoltà dell’avverbio chorís e della specificazione eis hena topon. Il primo può essere modale o locale: «In altro modo, diversamente», o «in altro luogo, altrove»; per la seconda fa difficoltà sia la preposizione con l’accusativo sia il numerale: «In/verso un solo/identico luogo»[14]? Le difficoltà non sarebbero così significative, se non ci fosse la tendenza a sovraccaricare di peso quel particolare descrittivo[15]. In realtà è più importante il participio entetyligmenon, in contrasto intenzionale con il participio keimena, riferito ai teli: i teli sono giacenti o abbandonati, il sudario è in qualche modo «fatto su».

Ma questa specificazione si riferisce al modo come era usato il sudario sul cadavere di Gesù (ad esempio, come un fazzoletto arrotolato, con funzione di mentoniera) oppure alla situazione attuale, dopo la scomparsa del cadavere? Era già «avvolto» nel momento dell’uso, oppure venne avvolto quando cessò il suo servizio sul cadavere? La contrapposizione ai teli «giacenti» fa pensare che anche per il sudario si pensi alla sua situazione nella stessa circostanza, a cadavere assente. Dunque sarebbe da preferire il senso di un intervento fatto sul sudario, a differenza dell’assenza di interventi sui teli; e il senso dell’avverbio sarebbe modale. Allora l’indicazione locale potrebbe significare «in un solo luogo». L’accusativo è spiegabile come effetto di un intervento intenzionale: chi ha avvolto o piegato il sudario lo ha messo in un solo luogo (in cui ci sono pure i teli)[16].

4. Dal vedere al credere

Questa interpretazione ha certo aspetti discutibili, ma si appoggia su una coerenza interna rispettabile e permette di farci una rappresentazione della scena, come l’autore la descrive per il lettore[17]: è questa rappresentazione visiva che, nell’economia del racconto, costituisce l’oggetto dell’azione globale del «vide», da cui ha origine il «credette». Il discepolo amato ha visto i teli non più nell’esercizio della loro funzione costrittiva, ma privi del cadavere e abbandonati; ha visto pure il sudario, in condizione diversa, perché fatto oggetto di un intervento per l’uso o per lasciarlo in ordine. Tutto questo può provocare o favorire la conclusione di un’adesione di fede?

Non dobbiamo cedere alla tentazione di fare di quell’atto di fede la conclusione di un ragionamento che matematicamente lascia spazio a una sola conclusione e ne esclude ogni altra. La conclusione di un teorema non è una conclusione di fede e un ragionamento del genere non è nell’intenzione dell’evangelista. Il fatto che tale atto di fede non venga attribuito a Pietro non significa che l’evangelista non lo ritenga capace di un ragionamento severo. Ciò che il prediletto vide era certamente eloquente, ma era intanto vissuto in un attore che aveva verso la fede e l’oggetto della fede quel rapporto che lo predisponeva a credere. Il personaggio del discepolo anonimo (e pur dotato della più specifica ed esemplare personalità[18]) è il più spedito nel giungere a credere ed è in grado di concludere là dove altri non hanno ancora superato il livello dello stupore disorientato.

Potremmo arrestare a questo punto il nostro domandare, affacciati come siamo sul mistero del cammino verso una fede che ha una maturazione più esclusiva ancora – se possibile – di quella più comune di altri discepoli. Ma l’evangelista non è interessato solo a quel cammino, bensì anche a quello dei suoi lettori ed è con essi che egli si pone alle spalle dei protagonisti, per scrutarne i movimenti, individuarne le motivazioni e invitare il lettore a farle proprie. Perché il loro atteggiamento è imitabile, anche quello del prediletto; anzi, è proposto da imitare.

La scena dei discepoli al sepolcro registra eccezionale abbondanza di visioni: vede il prediletto, giunto per primo e chinatosi sull’entrata del sepolcro, prima di entrarvi (v. 5: blepei), vede Pietro, con un’attenzione quasi da protocollo (v. 6: theorei) e vede in fine il prediletto, che crede (v. 8: eiden). Probabilmente la differenza dei verbi greci dice anche sfumature di significato[19]: vedere, osservare, forse anche constatare, fino a un vedere profondo e coinvolgente, come suggerisce l’accoppiata di eiden kai episteusen, «vide e credette». Il prediletto, dunque, ha colto un messaggio che oltrepassava la superficie dell’osservazione che egli stava facendo e che gli permetteva di superare la pluralità dei significati possibili per giungere e aderire all’unico vero.

Uno sguardo intertestuale ci ricorda che il vuoto del sepolcro non solo era interpretabile in più modi, ma anche che venne di fatto interpretato come prodotto di un furto di cadavere, a totale danno della «causa» di Gesù[20]. Il fatto che il prediletto abbia «creduto» ci assicura che egli interpretò nel senso di una consapevole fiducia in Gesù, dunque in senso a lui favorevole, confermando quell’accettazione di Gesù che il Signore aveva chiesto a tutti in vita e che il prediletto aveva sempre dimostrato di dargli. Nel contesto questa fede si qualifica come fede nella risurrezione, anche se dobbiamo subito fare precisazioni.

Il v. 9 infatti complica un po’ le cose. Normalmente leggiamo, secondo la traduzione a cui siamo avvezzi: «Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti». Il senso sembrerebbe pacifico: dunque, ora che hanno visto, hanno anche compreso la Scrittura; la visione ha portato un supplemento di informazione. Eppure le cose filano meno lisce: la conclusione enunciata ora (ora hanno anche compreso...), coinvolge anche Pietro, il che si allontana dal v. 8; inoltre è proprio sicuro che il verbo eideisan sia da tradurre con un piuccheperfetto? Penso che nel contesto abbia più senso l’imperfetto (non «avevano compreso», ma «comprendevano»): la situazione di ambedue non è ancora ottimale, anche se il prediletto è giunto già alla fede. Si deve dire allora che non si tratta di fede totalmente perfetta[21]: siamo giunti a un momento importante, ma non definitivo. Il cammino non è ancora terminato, nemmeno per il prediletto. Il resto del capitolo ne darà la dimostrazione. I panni sepolcrali sono dunque un segno, non il grande segno; i discepoli non si sentono inviati e non vanno ad annunziare nulla a nessuno. Tutto questo sarà completato nell’incontro alla sera di quello stesso giorno, «il primo dopo il sabato».

La visita dei discepoli al sepolcro ha però anch’essa una testimonianza al servizio della fede pasquale, ed è resa dalla presenza dei panni sepolcrali. Avevamo notato le suggestioni dei participi riguardanti i teli, «giacenti», e il sudario, «avvolto»: i primi non legano più, il secondo è stato fatto oggetto di un intervento deciso dal suo operatore. A riguardo di colui che era ricoperto con quei panni ciò significa che Gesù non è più il cadavere senza vita e che qualcuno (lui stesso? Dio?[22]) ha voluto lasciare «in ordine» il panno che aveva avuto rapporto con la testa di Gesù. È dunque accaduto qualcosa che ha visto un trionfo della vita sulla morte, in un ritorno all’esercizio di una sovrana assenza di paure e condizionamenti.

Se vogliamo spingerci avanti in un cammino di lettura profonda del misterioso evento che ha lasciato dietro di sé questi muti testimoni, rileviamo che nel sepolcro i panni sono separati dal corpo che ricoprivano: colui dunque che ha abbandonato i panni è tornato in una condizione di nudità che non ha più bisogno di essere schermata. Fra poco l’evangelista coglierà nell’apparizione serotina di Gesù agli apostoli un intervento che ripete l’atto creatore di Dio, che «soffia» sul primo uomo (20,22[23]), suggerendo che nella risurrezione di Gesù e nel dono che egli fa dello Spirito Santo avviene un intervento rinnovatore che ripete l’efficacia della creazione. Ma l’economia della creazione rinnovata è già significata nella condizione di Gesù, che mostra in sé stesso, anticipandola per tutta l’umanità, la condizione del pieno equilibrio della natura umana presente nella creazione.

Il sudario è più misterioso, ma forse è depositario di un messaggio ancora più suggestivo. Un’inchiesta intertestuale ha suggerito una ricerca su presenze analoghe, in tradizioni letterarie vicine, di panni che abbiano avuto riferimento col volto di qualche personaggio. Il parallelo più suggestivo è forse offerto dalla finale di Es 34: Mosè che scende dal Sinai portando le tavole della testimonianza ha il viso raggiante a causa della conversazione avuta con Dio, ma ciò incute timore agli israeliti (vv. 29-30). Mosè riferisce alla sua gente i messaggi del Signore e, «finito di parlare a loro, si pose un velo sul viso» (v. 33); si toglieva nuovamente il velo per presentarsi a parlare con il Signore e poi «riferire agli israeliti ciò che gli era stato ordinato», salvo poi a rimettersi nuovamente il velo sul viso, fino al nuovo incontro con il Signore (vv. 34-35). La potenza evocatrice di questa scena, in riferimento al testo giovanneo, riveste una grande suggestività. La ricerca di una conferma testuale non ha avuto eccezionale risultato nei testi più noti: il soudarion di Gv non è strutturalmente il kalymma dei LXX né il masweh del testo masoretico. Ciononostante un collegamento è forse dato di stabilire attraverso letture midrashiche, che riportavano quel termine in un aramaico che aveva già assunto un prestito dal vocabolo inizialmente latino (sudarium), passato poi in greco (soudarion) e adattato poi in area semitica come sudara. Nella misura in cui questo collegamento regge, al punto che possa essere attribuito a un qualche grado di intenzionalità del testo, la «visione» del discepolo amato acquista una intensità comunicativa unica: il sudario presente con i teli e ripiegato suggerisce che colui che lo portava «sul capo»[24] ora lo ha riposto in ordine (per sempre), avendo ripreso – dopo la pausa della sua permanenza nel regno dell’impotenza – il suo dialogo con Dio e con i fratelli.

Quanto di tutto questo il narratore vuole suggerire al lettore nel descrivere l’esperienza del discepolo amato, e quanto di più, che noi non siamo riusciti a penetrare? Ponendoci anche noi alle spalle degli attori della scena al sepolcro, ci è parso di potere cogliere alcuni tratti di una «cristologia narrativa», capace di suggerire un’adesione di fede a tutti quanti partecipano di quella esperienza.

5. E la sindone?

Mi sembra che il nostro cammino non sia stato condizionato da preoccupazioni di natura sindonologica o sindonofila. Ciononostante la presenza della sindone (di Torino) non era fuori del nostro orizzonte di attenzione e vorrei ora ricuperarlo con un discorso ipotetico: se tra i panni mortuari presenti nel sepolcro ci fosse stata la sindone, che cosa avrebbero visto i discepoli?

I teli giacenti sono comunque da immaginare come la somma di ciò che stava sopra il corpo di Gesù e ciò che stava sotto. Ora la sindone è costituita da un lungo telo che è steso sotto il corpo del crocifisso, gli gira attorno alla testa e gli copre tutta la parte anteriore giungendo fino ai piedi. Se ci fosse stata la sindone, i discepoli avrebbero visto il telo di sopra e il telo di sotto posati l’uno sull’altro: due teli, appunto, nonostante in realtà essi non fossero che uno solo. E ciò spiegherebbe il plurale othonia. Sopra di essi, o accanto a essi, o tra di essi sarebbe stata avvertibile la presenza del sudario. Se questo aveva svolto il servizio della mentoniera, la scena diventa chiara, anche se l’epì tes kephalès non favorisce l’idea dell’avvolgimento della mentoniera bensì quello di un copricapo. Ma Gv si impegna in modo rigoroso per la coerenza di tutti i particolari?

Con questa domanda si apre il problema dell’intenzionalità storiografica del racconto giovanneo, in tutti i suoi particolari. La nostra lettura ha cercato sempre di seguire la descrizione del narratore nella coerenza dei suoi particolari, ma proprio l’avvertenza della loro attenta correlazione può a volte suggerire l’ipotesi che questa correlazione e funzionalità reciproca possa avere guidato la scelta di certi particolari episodici altrimenti secondari per il narratore. Il particolare di «sopra il capo» (e non attorno al viso), che potrebbe ad esempio spiegarsi per rendere plasticamente la rassomiglianza tra il velo di Mosè e quello di Gesù, riporta un caso, che non è l’unico.

La conclusione spontanea ci permette di dire che «se nel sepolcro ci fosse stata la sindone», Gv avrebbe potuto fare la descrizione che ha fatto. La curiosità di sapere di più difficilmente sarà soddisfatta dal racconto evangelico dei fatti del sepolcro. Nel nostro episodio infatti la sindone ha svolto ormai la sua prima funzione, di accogliere il corpo di un crocifisso e di condividere il suo silenzio nel sepolcro. Inquietante sarà la domanda sul motivo dell’assenza di ogni traccia di decomposizione del defunto, così come di ogni forma di abrasione in occasione di un eventuale distacco del lenzuolo dalle ferite che gli aderiscono per il sangue raggrumato. Ma molto di più suggerisce la corrispondenza, del tutto eccezionale, fra le descrizioni delle sofferenze che hanno portato alla morte Gesù, come ce le descrivono i vangeli, e quelle che hanno portato alla morte l’«uomo della sindone», come ce le descrive l’immagine che il lenzuolo sindonico ci mostra.

(Giuseppe Ghiberti, docente presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e l’Università Cattolica di Milano, Credere oggi, 137/2003)

 NOTE

[1] Non ci si lasci ingannare dal fatto che dei 53 vv. del c. 24 di Lc solo 12 sono dedicati alle donne al sepolcro: in realtà tutto l’episodio dei discepoli Emmaus (vv. 13-35) si svolge sullo sfondo degli avvenimenti del sepolcro: è il terzo giorno ma, nonostante il sepolcro trovato vuoto dalle donne e dai discepoli che l’hanno verificato, i due discepoli non sanno darsene spiegazione. Occorre l’intervento di Gesù che, in una apparizione a «privati», come in Mt (28,9-10) e in Gv (20,1-2.11-18), ne risolve definitivamente l’enigma.

[2] Gv 21 è notoriamente anomalo, perché lo scenario tipico delle «grandi» apparizioni ha lasciato il posto all’incontro con sette interlocutori di Gesù, che poi retrocedono, per non disturbare il lungo dialogo di Gesù con Pietro (vv. 15-23). Ciononostante il clima è quello dei grandi incarichi, per il futuro della comunità dei discepoli, anche se su questo sfondo acquistano una particolare funzione anche i destini personali di due singole vite.

[3] L’attendibilità di Lc 24,12 è testualmente molto discussa. Normalmente le edizioni critiche lo pongono nel testo, indicandone però l’insicurezza. La sinossi di K. Aland (Synopsis Quattuor Evangeliorum) lo porta solo in apparato. Il problema non sarebbe tanto importante, visto che il ricordo è ricuperato al v. 24, se il v. 12 non contenesse il termine othonia, altrimenti ignoto ai sinottici. Mi sembra che i motivi per accettare il versetto siano rilevanti e mi muovo sulla base di questa convinzione.

[4] Che cosa abbiano visto esattamente quei discepoli non è dato sapere, perché Lc afferma che «hanno trovato come anche le donne avevano detto». Ora, le donne avevano avuto «visione di angeli, che dicono che egli vive» (v. 23). Il contesto però non sembra far pensare che i discepoli abbiano avuto la stessa visione, con valore risolutivo.

[5] Sia a causa del fatto che non fosse stato ancora usato (solo Mc non accenna al particolare) sia a causa dell’uso stesso del sepolcro, dato che la morte del delinquente che aveva subito l’esecuzione capitale non era seguita da sepoltura (uso prevalente presso i romani, almeno per i crocifissi) o aveva solo sepoltura in una fossa comune. Si veda G. Ghiberti, La sepoltura di Gesù. I Vangeli e la sindone, Pietro Marietti, Roma 1982, pp. 27-28.

[6] Di misura iperbolica: «cento libbre», che nelle nostre misure equivalgono ai 33-35 kg.

[7] La vicinanza del sepolcro, collegata espressamente alla «parasceve» o preparazione (del sabato), fa pensare alla necessità di accelerare i preparativi del seppellimento per la scarsità del tempo a disposizione, prima che iniziasse il grande riposo.

[8] Cf. Ghiberti, La sepoltura, cit., pp. 35-47. Si può notare al massimo che sindòn porta in sé anche un suggerimento del materiale usato per il tessuto: telo «di lino», come richiama la documentazione di M.L. Rigato. D’altra parte, fra i tre possibili materiali (lana, cotone, lino), è di per sé il lino il più probabile, quando non si tratta di un vestito.

[9] E non invece la sindôn sinottica.

[10] Come, alla fine del capitolo, sul personaggio di Tommaso.

[11] Qualche cenno alle tradizioni che sembrano identificabili nei racconti del sepolcro vuoto l’ho fatto seguendo R. Schnackenburg, Maria Maddalena al sepolcro (Gv 20,1-18), in «Parole di vita» 29 (1984) 226-244.

[12] Anche se interessa per la ricostruzione globale dei fatti: Giovanni vuol suggerire che gli altri fossero altrove? o che solo Pietro e il prediletto avessero interesse così vivo da muoversi subito per andare alla tomba?

[13] Forse per la straordinarietà del vestito? In realtà certo per il lettore la cosa non è fatto normale; non così, però, per il narratore che la dà per scontata.

[14] Assai più difficile mi sembra la lettura di eis hena topon come indicante un luogo diverso: forse eis con l’accusativo può supportare il senso di movimento nello spostamento da un luogo all’altro, ma mi sembra quasi impossibile attribuire al numerale heis il significato di «diverso». È molto più naturale pensare a «uno», «uno solo». Non trovo nemmeno una documentazione che suggerisca «in un certo luogo», che oltre tutto non farebbe senso: che cosa significa «in un luogo indeterminato»? Viene pure suggerita una soluzione che sembra conciliare i due possibili significati di chorìs (derivante da chorizein: «separo...», al passivo «differisco»): «Separatamente, a parte» (G. Segalla). Ma in realtà, se modalità è, si tratta di modalità «di luogo».

[15] Soprattutto da parte di sindonologi, purtroppo spesso improvvisati, che sono ancora più improvvisati filologi.

[16] Resta tuttavia la possibilità, che ho proposto una volta in passato (cf. G. Ghiberti, Sindone verso il 2000, Piemme, Casale M. 1999, pp. 27-28) di tradurre «in un (suo) posto», che potrebbe essere diverso da quello dei teli. Mi sembra più coerente al testo la lettura proposta ora, pur con tutte le incertezze. Occorre però dire che – immaginando la scena – le due letture non danno per risultato grandi divergenze.

[17] Ciò non significa che l’intenzione storiografica del narratore si impegni su tutti i particolari del suo racconto alla stessa maniera e con la stessa intensità. Alcuni aspetti episodici del racconto possono risalire alla coerenza del racconto, senza risalire invece a un ricordo del particolare specifico. Il problema dell’intenzionalità storiografica di una narrazione si pone sempre e, nel risolverlo, occorre evitare sia la superficialità grossolana della negazione indifferente sia una sicurezza ingiustificata su tutti gli aspetti.

[18] Cf. in questo stesso fascicolo l’istruttivo contributo di R. Vignolo, Il doppio letterario tra Giovanni Battista e il discepolo amato. Un approccio narrativo, pp. xxx.

 [19] Ne ho parlato in un lavoro di molti anni fa: G. Ghiberti, I racconti pasquali del capitolo 20 di Giovanni confrontati con le altre tradizioni neotestamentarie, Paideia, Brescia 1972, pp. 32-44.

[20] Si pensi anzitutto all’intera impostazione del racconto matteano dei fatti del sepolcro, con le guardie poste a vigilare e poi indotte a narrare il falso (Mt 27,62-28,15). Anche l’impostazione del racconto giovanneo non è esente da quella preoccupazione: la Maddalena pensa sempre che il Signore sia stato portato via e solo l’incontro finale con lui la convince del contrario.

[21] Che giungerà più tardi, all’incontro con Gesù, nella gioia (20,21: echaresan) «al vedere il Signore» (ancora il verbo horao).

[22] La forma medio-passiva del participio entetyligmenon può anche suggerire che l’agente non espresso sia Dio: sarebbe un caso di «passivo teologico». Il significato cambia sfumatura, se l’agente è Gesù stesso oppure Dio, ma agli effetti del cammino verso la fede la diversità non è determinante.

[23] Gesù alita (enephysesen) sugli apostoli, come aveva fatto Dio con Adamo (Gn 2,7). Giovanni usa lo stesso verbo, rarissimo (emphysao), che è usato dalla LXX nella traduzione dell’originale ebraico.

[24] Epì tes kephalès, non – come per Lazzaro (Gv 11,4: he opsis autou soudarioi periededeto) – con il volto «legato attorno» dal sudario.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Una rassegna bibliografica abbastanza rappresentativa di oltre un secolo di ricerca (mancano però gli ultimi 10 anni), è rinvenibile in G. Ghiberti, Bibliografia sulla risurrezione di Gesù, in É. Dhanis (ed.), Resurrexit. Actes du Symposium international sur la résurrection de Jésus (Rome 1970), LEV, Città del Vaticano 1974, pp. 645-764 e in G. Ghiberti - G. Borgonovo, Bibliografia sulla risurrezione di Gesù (1973-1992), in «La Scuola Cattolica» 121 (1993) 171-287.

Per le questioni generali: F.X. Durrwell, La risurrezione di Gesù mistero di salvezza, Paoline, Roma 1962 (or. fr. 1950; la sua caratteristica è l’attenzione alla portata teologica di questo mistero); G. Ghiberti, La risurrezione di Gesù, Paideia, Brescia 1982; F.G. Brambilla, Il crocifisso risorto. Risurrezione di Gesù e fede dei discepoli, Queriniana, Brescia 1998; H. Kessler, La risurrezione di Gesù Cristo. Uno studio biblico, teologico-fondamentale e sistematico, Queriniana, Brescia 1999.

Sui racconti giovannei: P. Benoit, Marie-Madeleine et les disciples au tombeau selon Jo 20,1-18, in Judentum, Urchristentum, Kirche. Fs. J. Jeremias, Töpelmann, Berlin 1960, pp. 141-162; G. Ghiberti, I racconti pasquali del capitolo 20 di Giovanni confrontati con le altre tradizioni neotestamentarie, Paideia, Brescia 1972; Id., Giovanni XX nell’esegesi contemporanea. Rassegna, in «Studia Patavina» 20 (1973) 293-337; J. Heil, Blood and water. The death and resurrection of Jesus in John 18 - 21, Cath. Biblical Assoc. of America, Washington DC 1995; C. Setzer, Excellent women: Female witness to the resurrection, in «Journal of biblical literature» 116 (1997) 259-272; M. Theobald, Der johanneische Osterglaube und die Grenzen seiner narrativen Vermittlung (Joh 20), in R. Hoppe - U. Busse (edd.), Von Jesus zum Christus. Christologische Studien. Festgabe für Paul Hoffmann zum 65. Geburtstag, de Gruyter, Berlin 1998, pp. 93-123; J. Zumstein, Narratologische Lektüre der johanneischen Ostergeschichte, in J. Zumstein, Kreative Erinnerung. Relecture und Auslegung im Johannesevangelium, Pano, Zürich 1999, pp. 178-191; L.D. George, Reading the tapestry. A literary-rhetorical analysis of the Johannine resurrection narrative (John 20-21), Lang, New York 2000; V. Messori, Dicono che è risorto. Un’indagine sul sepolcro vuoto, SEI, Torino 2000; S. Ruschmann, Maria von Magdala im Johannesevangelium. Jüngerin-Zeugin-Lebensbotin, Aschaffenburg, Münster 2002; G. Ghiberti su Le esperienze pasquali (Gv 20-21), in G. Ghiberti (ed.), La letteratura giovannea, LDC, Leumann (To) 2003.

 

 

 


 

I cristiani, l’islam e il futuro dell’Europa

 

Come e perché l’islam può far parte dell’Europa “catholica”. Le condizioni sono due: una forte identità cristiana e un’autoriforma musulmana.

In Europa cristianesimo e islam sono inseparabili. In Francia, i musulmani sono cinque milioni e mezzo e tra vent’anni si prevede che saranno il doppio. Già oggi superano nel numero i cattolici francesi che vanno a messa ogni domenica.

A Evry, a sud di Parigi, è sorta dodici anni fa una nuova chiesa cattedrale, capolavoro riconosciuto di uno degli architetti più famosi al mondo, lo svizzero Mario Botta. La domenica è semivuota. Ed è invece brulicante di fedeli la vicina moschea. Il suo imam, Khalil Merroun, ha affermato in un’intervista: “La Chiesa cattolica dovrebbe convincersi che l’Europa non le appartiene. Il consiglio che dò ai miei colleghi cattolici è di interrogarsi a fondo sul perché i loro fedeli non vivono la loro spiritualità”.

Ma quale spiritualità ispira la nuova cattedrale di Evry? La chiesa ha l’aspetto di un cilindro tagliato da un piano inclinato, con una corona d’alberi sulla sommità e una croce, scarsamente visibile. L’interno è quasi tutto aniconico, privo di arti figurative. Pareti nude che dovrebbero dar respiro alla trascendenza, ma che in realtà restano mute, impermeabili alla rivelazione discesa da Dio, della quale mancano le tracce visibili capaci di indicare la strada ai fedeli in cammino.

Anche a Roma, nella capitale della Chiesa cattolica, vi sono i segni di questo spaesamento. Domenica 26 marzo Benedetto XVI si recherà a Tor Tre Teste a visitare una parrocchia romana di periferia, dove l’ebreo secolarizzato americano Richard Meier – altro grandissimo dell’architettura d’oggi – ha progettato e costruito una chiesa che è anch’essa un capolavoro di linee, di superfici, di luci, ma rimane taciturna nel tradurre questo afflato emotivo in realtà e sacramento, in materialità di Chiesa terrena e celeste.

L’irruzione del religioso nello spazio pubblico

Questi citati sono i riflessi nell’architettura, anche sacra, di quello smarrimento di identità che è dell’Europa d’oggi, e che si è reso manifesto nella mancata menzione delle “radici cristiane” nel discusso preambolo del trattato costituzionale dell’Unione. Per una parte della cultura europea d’oggi, lo spazio pubblico deve essere impermeabile al fatto cristiano. E questo deve essere reciso dall’insieme della civiltà europea in cui ha le sue radici e a cui dà linfa.

Invece, è proprio il contrario che accade oggi nel mondo, Europa compresa: ovunque c’è un impetuoso ritorno del religioso nello spazio pubblico.

Dove per religioso si intendono le corpose Chiese storiche: la cattolica, rinvigorita dalla politicità carismatica di papa Karol Wojtyla e dalla guida teologica di Benedetto XVI; le protestanti d’impronta americana evangelical; le ortodosse, con il loro modello bizantino di congiunzione fra trono e altare. Più l’ebraismo intrecciato al destino concretissimo di Israele, un popolo, una terra, uno stato. Più l’islam, in cui fede, politica e legge sacra tendono a fare tutt’uno e, dovunque oggi si voti, il consenso va a partiti fortemente ispirati dalla legge coranica, ultimo caso eclatante quello della Palestina.

Il fallimento della profezia della privatizzazione del religioso è sotto gli occhi di tutti. Ma a molti mancano la lucidità e il coraggio di riconoscerlo e agire di conseguenza.

Ai musulmani si chiede di accettare le regole costitutive della democrazia. Ma deve valere anche il processo opposto: all’islam, come ad ogni religione, deve essere riconosciuta la facoltà di incarnare i suoi principi di fede negli ordinamenti civili, purché compatibili con la carta dei principi ai quali né l’islam né l’Occidente possono rinunciare, carta valida per tutti, principi “scanditi in modo inconfondibile dalla voce sommessa ma chiara della coscienza” (parole di Benedetto XVI ai musulmani incontrati a Colonia).

Il caso dell’Iraq è esemplare. Con Saddam Hussein non è caduto un immaginario stato “laico” depurato da fedi fondamentaliste, ma un sistema ateistico rozzamente copiato da modelli europei d’impronta nazista, che si sostanziava nella sanguinosa repressione dell’islam sciita e dei curdi. Viceversa, il nuovo stato iracheno, di cui è stata approvata la costituzione, sarà genuinamente laico proprio se e perché i suoi ordinamenti politici consentiranno e rifletteranno il pieno esplicarsi sulla scena pubblica della religione islamica, nel rispetto della pluralità delle fedi e delle tradizioni diverse.

L’esistenza di ordinamenti politici con qualificazione religiosa non appartiene solo al passato, ma è il presente e il futuro delle società mondiali.

Il modello americano di sfera pubblica democratica e di presenza religiosa diffusa non è il solo cui ispirarsi.

In Europa c’è il modello italiano di equilibrio tra lo stato laico e la Chiesa cattolica, con complementarità “concordata” tra le due sovranità e integrata da intese con ciascuna delle altre religioni.

Nei paesi a dominante islamica è naturale che si sviluppino modelli appropriati di intreccio tra il politico e il religioso.

Le “Duae civitates”

L’intreccio tra le due cittadinanze, la profana e la sacra, la terrena e la celeste, è un carattere essenziale non solo della Chiesa e dei cristiani, e neppure del solo Occidente, entro cui tale carattere è nato a partire da Platone e Aristotele.

Questi due filosofi greci per primi aprirono l’ordine della società a un ordine superiore, trascendente, con ciò de-divinizzando i “poteri di questo mondo” e liberando l’uomo dalla schiavitù nei loro confronti.

Nel cristianesimo, il grande teorizzatore della doppia cittadinanza terrena e celeste è sant’Agostino in quel suo capolavoro che è “La città di Dio”, scritta poco dopo l’invasione di Roma da parte dei “barbari” nel 410, uno shock paragonabile a quello che è stato per noi l’11 settembre 2001.

Nella storia e nella cultura cristiana questa teoria di Agostino – che è profondamente biblica – ha segnato un’impronta fortissima. Ma non è stata solo studiata sui libri. Essa parla anche attraverso le architetture, le opere d’arte, le chiese.

Come vi sono oggi – l’ho ricordato – chiese che riflettono nella loro struttura lo smarrimento delle radici cristiane, così vi sono chiese, in numero sterminato, edificate secolo dopo secolo ovunque nel mondo cristiano, che invece attestano visivamente l’intreccio delle “duae civitates” celeste e terrena.

Una di queste – emblematica – è la cattedrale di Monreale, in Sicilia, eretta nel XII secolo dai re normanni che pochi decenni prima avevano liberato l’isola dal dominio musulmano.

Le sue dimensioni sono grandiose, paragonabili a quelle della basilica di San Pietro a Roma. Ma, soprattutto, le sue mura interne sono rivestite di mosaici a fondo d’oro di 6340 metri quadrati di superficie. Lungo le pareti vi sono scene dell’Antico e del Nuovo Testamento. Sopra il trono del re, in cima alla navata, c’è un Cristo che incorona il normanno Guglielmo II. Sopra il trono del vescovo, dirimpetto al primo, Guglielmo II offre la nuova cattedrale a Maria. E nel catino dell’abside (vedi foto) un colossale Cristo benedicente ha nella mano sinistra il Vangelo aperto sulle parole, in latino ed in greco: “Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nelle tenebre”. Il Cristo nell’abside è il risorto, il “Pantokrator”, colui che tutto regge, e con la sua luce, il suo sguardo, la sua potenza avvolge il popolo cristiano che cammina su questa terra e si riunisce nella chiesa a celebrare le sacre liturgie.

La cattedrale di Monreale è l’epifania, la manifestazione visibile della “Civitas Dei”: la città di Dio che sotto la regalità totale di Cristo unisce in sé sia la città celeste degli angeli e dei santi, rappresentata nei mosaici, sia la città terrena degli uomini pellegrini nel mondo, nella quale il popolo dei fedeli cristiani si mescola alle genti in attesa dell’annuncio del Vangelo, così come a tutti quelli che rifiutano Dio fino ad assolutizzarsi nell’antitesi alla sua città, nella “civitas diaboli”, la città del demonio.

Come la “Civitas Dei”, anche la Chiesa è insieme celeste e terrena, e la sua componente terrena rimane mescolata alla città degli uomini fino al giudizio finale. L’intreccio tra politica e religione trova quindi nelle “duae civitates” il suo paradigma.

È un paradigma applicabile non solo al mondo cristiano e occidentale ma anche al mondo islamico, per cogliere ciò che è simile o differente nel cristianesimo e nell’islam.

Ciò che contraddistingue l’islam è che esso ha al suo centro il sacro combattimento dei suoi fedeli non solo per l’unico Dio contro l’idolatria, ma anche per l’affermazione della “umma”, la comunità musulmana mondiale, contro la “civitas diaboli” identificata con i non musulmani.

In quell’intreccio continuo tra terreno e celeste che è la “Civitas Dei” nella concezione cristiana, l’islam introduce dei punti di cesura.

Da quando Maometto ruppe con la comunità ebraica di Medina, l’islam pensa se stesso come una comunità in permanente esodo, su questa terra, verso una meta che è tutta al di là della storia terrena.

L’islam è essenzialmente profetico, sempre in battagliero cammino verso un mondo che è oltre, quando invece il cristianesimo è insieme profetico, sacerdotale e regale, e il Cristo cosmico “Pantokrator” è lo stesso che si offre, qui e ora, nell’umile “pane quotidiano” del suo corpo e del suo sangue nell’eucaristia.

Per l’islam Maometto è “il profeta”, l’ultimo e il più grande di tutti, e la sua profezia è sempre in atto; mentre invece, per il cristianesimo la profezia è chiusa da quando il Figlio di Dio “è disceso dal cielo” nell’uomo Gesù.

Per i cristiani la “Civitas Dei” è già presente nella storia, sebbene ad essa mescolata e non ancora rivelata nella pienezza del suo compimento; mentre per i musulmani c’è di Dio, nella storia, solo la sua parola increata, eterna e immutabile, il Corano.

Ciò vuol dire che in un’Europa oggi più o meno consapevolmente cristiana non può esserci posto per l’islam? La risposta è no, per l’islam c’è posto.

Anzitutto perché, nonostante le diversità e i conflitti, esso è da sempre parte dell’Europa, ne è elemento costitutivo.

Lo dicono gli archi moreschi sull’esterno dell’abside della cattedrale di Monreale. Lo dice il suo chiostro, con al centro della fontana una colonna a forma di palmizio stilizzato, arabeggiante. La grande moschea musulmana di Cordoba, iniziata nell’VIII secolo in Spagna, è a sua volta una selva di colonne romane ed è impreziosita da mosaici in puro stile di Bisanzio. L’intero mondo mediterraneo medievale, sia cristiano che musulmano, aveva come originaria fonte comune l’eredità della Roma antica.

L’Europa globale

L’Europa come civilizzazione ha confini molto più estesi di quelli che oggi s’immaginano, quando li facciamo coincidere con quelli politici dell’Unione Europea.

L’Europa di cui per primo parla lo storico Erodoto nel V secolo avanti Cristo è inizialmente identificata con la Grecia. Ma già l’impresa di Alessandro Magno ne dilata enormemente lo spazio fino all’Asia centrale e all’India. Da lì nasce la “koiné” ellenistica, col greco come lingua comune. E su questo spazio Roma estende il suo impero, che include entrambe le sponde del Mediterraneo, e la valle del Nilo, e l’Oriente fino al regno dei Parti, e a nord arriva al Danubio, al Reno, alla Britannia.

La cultura che ha generato la civilizzazione europea è quella greco-romana poi divenuta greco-romana-cristiana.

Ad Occidente, dopo le invasioni dei barbari, essa rinasce con l’asse spostato più a nord, come impero carolingio che però continua a chiamarsi “sacro” e “romano”.

Ad Oriente mantiene il suo centro nella “Seconda Roma”, Costantinopoli, e permane come impero bizantino, romano-cristiano, con uno stretto connubio tra il religioso e il politico che ancora perdura nel XXI secolo.

È da queste due Rome ancora non divise dallo scisma – inviati dal patriarca di Costantinopoli e insieme dal papa – che partono nel IX secolo Cirillo e Metodio a propagare il cristianesimo nell’Europa nordorientale, slava: con una nuova, ardita estensione geografica che però mantiene legami strettissimi con lo spazio d’origine, come mostra il nome di “Terza Roma” che Mosca si darà nel XVI secolo.

È dentro questa civilizzazione, non necessariamente contro di essa, che nasce e si espande a partire dal VII secolo l’islam, che man mano conquista la sponda sud del Mediterraneo e la Sicilia, penetra in Spagna, e ad Oriente contende lo spazio all’impero romano-cristiano bizantino.

La rottura dei commerci e degli scambi culturali che interviene per un certo periodo tra le due sponde sud e nord del Mediterraneo – identificata dalla storiografia successiva nella frattura tra Maometto e Carlomagno – non cancella il fatto che entrambe le due civiltà, la cristiana e la musulmana, continuano ad essere eredi ed interpreti dello stesso patrimonio greco-romano-cristiano, nel primo caso germanizzato, o slavizzato, nel secondo caso islamizzato. L’islam storicamente dato è impensabile senza la struttura, gli istituti, le culture del “commonwealth” greco-romano-cristiano nel quale si è sviluppato.

Certo, l’islam è anche quello che sottomette e fa scomparire le fiorenti Chiese dell’Oriente cristiano e del Nordafrica.

È quello che spinge il suo dominio oltre i Pirenei, che arriva persino a prendere d’assalto e a saccheggiare la Roma dei papi, nell’anno 847.

È quello che distrugge i luoghi santi di Gerusalemme e riconquista la terra di Gesù temporaneamente persa con le Crociate.

È quello che fa capitolare Costantinopoli nel 1453 e più di un secolo dopo è battuto e respinto a Lepanto ma non arretra, anzi, ancora un secolo dopo mette sotto assedio Vienna.

Intanto, però, anche all’interno del suo spazio cristiano l’Europa è dilaniata da guerre sanguinose con l’islam alleato ora dell’uno ora dell’altro regno. Per molti secoli, l’islam è trattato come una potenza legittima nel concerto delle nazioni e del diritto pubblico europeo.

È solo molto tardi, nel XIX secolo, quando l’impero ottomano è in pieno declino, che la cultura europea di matrice illuminista traccia un confine tra una Europa della civiltà è una Europa del dispotismo e dell’arretratezza, includendo in questa Europa “inferiore”, assieme all’islam, anche la Chiesa cattolica romana. In quello stesso momento, dall’Ottocento in poi, nasce anche il mito di una passata età dell’oro, di un’età di pacifico dialogo multiculturale tra islam e giudeocristianesimo, età collocata ora in Sicilia, ora in Spagna, ora a Baghdad.

In realtà, di leggenda in larga misura si tratta. Anche nell’Andalusia dominata dagli Almoadi, così frequentemente ricordata e lodata, ebrei e cristiani erano sudditi di second’ordine, sistematicamente vessati, e i due massimi esponenti di quell’epoca cosiddetta d’oro, l’ebreo Maimonide e il musulmano Averroé, grande traduttore e interprete di Aristotele, finirono entrambi la loro vita in esilio.

Islam Europeo

L’attuale tentazione di escludere la Turchia dall’Europa ha dunque delle ragioni comprensibili, che Joseph Ratzinger ha messo in evidenza prima d’essere eletto papa.

Ma questa spinta ad escludere che cristianesimo e islam possano interagire positivamente è l’effetto perverso di sviluppi molto recenti.

È da pochi decenni, non da secoli, che dalla Turchia sono stati falcidiati gli armeni ed espulsi i greci ortodossi.

È solo da pochi decenni che gli ebrei sono scomparsi dai paesi arabi e del Maghreb.

È da pochi decenni che sono spariti dall’Algeria i numerosi spagnoli, italiani, francesi, sia cristiani che ebrei, che l’abitavano.

È da pochi decenni che Alessandria d’Egitto è abitata solo da arabi musulmani e non è più la città cosmopolita che era sempre stata, dove greci e italiani si mescolavano agli egiziani.

È da pochi decenni che le minoranze cristiane nei paesi arabi del Medio Oriente si sono ridotte ancor più di numero, spopolate dall’esodo verso Occidente. Per non dire di quello che è accaduto alla fine del XX secolo nella ex Iugoslavia, dove lo scontro di civiltà teorizzato da Samuel Huntington si è concretizzato in conflitti tra cattolici, ortodossi e musulmani, con eccidi e spostamenti di popoli colpevoli d’aver oltrepassato confini politico-religiosi vecchi di secoli.

Certo, non tranquillizza che un partito islamista radicale come Hamas abbia vinto le elezioni dello scorso 25 gennaio in Palestina.

Ma se si guardano i fatti sull’arco di secoli – e si guarda il recente prorompere del religioso nello spazio pubblico – l’alternativa al radicalismo islamista non può essere l’islam “laico” sognato da molti in Occidente, intellettuali e governanti.

Questo islam “laico” è appannaggio di regimi autoritari senza futuro come quello della Siria, oppure di rari scrittori e uomini d’affari secolarizzati, quasi tutti fuorusciti dai rispettivi paesi, che non hanno nel mondo musulmano praticamente alcun seguito.

Storicamente, un islam “laico” di grande forza e dimensione che sia diventato anche un solido stato moderno è quello della Turchia di Kemal Ataturk. Ma nella stessa Turchia esso è da tempo sensibilmente in regresso, e il governo è oggi detenuto da un partito conservatore, democratico in alcuni suoi tratti, e apertamente religioso.

Anche in Palestina la disfatta di Fatah – il partito che fu di Yasser Arafat – nelle recenti elezioni ha segnato la fine di un sistema di potere “laico” sovrimposto, ispirato a vecchi modelli europei, socialisti e nazionalisti. La vittoria di Hamas è l’affermazione di un partito che ha saputo reislamizzare la società. Un’affermazione ottenuta con procedura democratica, col voto.

Ma la democrazia non è solo procedura, è cultura: una cultura fatta di libertà individuale e di libera intersezione tra politica e religione. Ed è qui che Hamas e gli altri partiti neofondamentalisti oggi in ascesa – per lo più legati ai Fratelli Musulmani , molto influenti sull’islam immigrato in Europa – vanno sotto scacco.

Essi non hanno risposte al problema di governare le diversità: cioè proprio ciò che ha fatto dell’Europa una civiltà al tempo stesso una e molteplice, su fondamento greco-romano-cristiano, non escludente ma comprendente l’islam.

Per questo, la via capace di integrare i musulmani nell’Europa di oggi e di domani ha due percorsi obbligati: un’autoriforma dell’islam e l’educazione delle menti.

Il primo percorso è molto difficile ma possibile. È difficile perché il Corano non è il parallelo di ciò che per i cristiani sono le Sacre Scritture, ma è piuttosto il parallelo di Cristo, il Verbo eterno di Dio sceso in terra: e quindi il Corano non è ritenuto dai musulmani interpretabile e adattabile come lo sono le Sacre Scritture, “divinamente ispirate” ma pur sempre scritte da uomini.

Ma è possibile perché nel mondo musulmano – soprattutto sciita ma anche sunnita, dal Marocco alla Turchia all’Indonesia – vi sono correnti che ammettono e praticano diverse letture del Corano, alcune capaci di coniugarne i principi con la moderna democrazia. Proprio a questo molteplice approccio dei musulmani alla rivelazione divina Benedetto XVI ha dedicato un incontro di studio lo scorso settembre a Castelgandolfo, assieme a suoi ex allievi di teologia.

Sulla seconda via d’integrazione dei musulmani in Europa, l’educazione delle menti, Benedetto XVI ha insistito incontrando a Colonia, lo scorso 20 agosto, alcuni esponenti della comunità musulmana in Germania.

Dopo aver condannato con parole taglienti il terrorismo compiuto “quasi potesse essere cosa gradita a Dio”, il papa si è rivolto così a quei musulmani:

“Voi guidate i credenti nell’islam e li educate nella fede musulmana. L’insegnamento è il veicolo attraverso cui si comunicano idee e convincimenti. La parola è la strada maestra nell’educazione della mente. Voi avete, pertanto, una grande responsabilità nella formazione delle nuove generazioni. Insieme, cristiani e musulmani, dobbiamo far fronte alle numerose sfide che il nostro tempo ci propone”.

È questo il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani e musulmani che Benedetto XVI vuole.

Ai “cari amici musulmani” ha chiesto unità d’azione “al servizio dei fondamentali valori morali scanditi in modo inconfondibile dalla voce sommessa ma chiara della coscienza”.

Questa è una voce che parla a tutti e che il papa confida sia ascoltata e messa in pratica da tutti. All’Europa, questa voce comanda di credere nella propria identità cristiana: generatrice di una grande civilizzazione di cui i musulmani sono parte. (Avvenire 21 marzo 2006)

 

 

 


 

Il nemico dell’islam è il laicismo militante, non il cristianesimo

 

“Il principale ostacolo alla pratica della religione islamica non è il cattolicesimo, ma il laicismo militante che con sempre maggiore forza invade lo spazio pubblico”. È quanto afferma Iván Jiménez-Aybar, esperto di aspetti giuridici e sociali dell’islam in Spagna e in Europa.

“La migliore compagna di viaggio dell’islamismo radicale continua ad essere l’emarginazione sociale”, sostiene in questa intervista il ricercatore dell’Università di Navarra.

L’esperto sottolinea poi come dato curioso che si parli di “immigrazione musulmana, ma mai di immigrazione cristiana”. Per questo si è soffermato a “misurare l’entità della presenza musulmana in Spagna, utilizzando alcuni criteri come il numero delle moschee, degli enti religiosi ufficialmente registrati o dei cimiteri musulmani”, evitando di attribuire “l’etichetta di musulmano ad ogni persona proveniente da Paesi in cui la religione islamica è maggioritaria”.

Infine, suggerisce che parallelamente alla lotta contro l’islamofobia – già avviata a livello internazionale – si affronti anche la “lotta alla cristianofobia nel mondo islamico”.

Perché in alcuni Paesi musulmani si è prodotta una reazione violenta contro le famose vignette su Maometto, mentre i musulmani residenti nei Paesi occidentali non si sono fatti quasi sentire?

Iván Jiménez-Aybar: Non è esattamente così. Possiamo dire che i musulmani residenti in Europa si sono fatti sentire, ma senza ricorrere alla violenza. Anche se è bene ricordare che a Londra e in qualche altra città europea vi sono state manifestazioni di membri di comunità islamiche in cui si è inneggiato all’uccisione di coloro che avevano insultato il profeta Maometto, aggiungendo che l’Europa si sarebbe prostrata quando i mujaheddin fossero arrivati tuonando (alludendo chiaramente al suono delle bombe).

Per fortuna, riguardo alla polemica sulle vignette ha prevalso il buonsenso tra i rappresentanti delle moschee e delle comunità musulmane europee, i quali hanno rivolto appelli alla concordia e ad una migliore conoscenza e comprensione reciproca tra le diverse culture e religioni.

Ciò nonostante, sebbene i messaggi emessi da certi imam e rappresentanti musulmani europei erano tesi a respingere l’uso della forza, mi è sembrato scorgere in alcune occasioni una certa dose di comprensione per gli episodi di violenza avvenuti in alcuni Paesi dell’ambito musulmano. Ma questo non è nulla di nuovo, poiché lo stesso avviene con riferimento ad Hamas o alla resistenza irachena.

Allo stesso tempo, ho notato una scarsa autocritica in questi messaggi in relazione all’assenza di libertà d’espressione nel mondo islamico. Non sono stati nemmeno denunciati le chiusure di giornali o gli arresti dei pochi giornalisti che hanno osato pubblicare le vignette sulle loro testate.

Secondo lei è vero che il fondamentalismo sembra riguardare soprattutto i Paesi a maggioranza musulmana, mentre i musulmani che emigrano intraprendono piuttosto un cammino di secolarizzazione?

Iván Jiménez-Aybar: Questo forse era vero qualche anno fa, anche se gli attentati di Madrid e di Londra obbligano a fare qualche precisazione.

Certamente la pratica dell’islam viene condizionata non solo dall’obbedienza alla legge islamica, ma anche dal contesto in cui ci si trova. Lontani dai loro Paesi d’origine, molti musulmani non sentono il peso del controllo sociale che talvolta li costringe ad osservare determinati riti. Non bisogna inoltre dimenticare che per un musulmano la pratica della sua fede in Europa non è esente da difficoltà, soprattutto per quanto riguarda quegli aspetti della sua religione che contrastano apertamente con l’ordine pubblico.

Anche se la pressione è certamente minore in un contesto migratorio, è altrettanto vero che nella misura in cui una comunità musulmana si stabilisce in un determinato luogo avvia il proprio sistema di solidarietà sociale interna che facilita il mantenimento delle istanze religiose e culturali del Paese d’origine.

D’altra parte dobbiamo abbandonare quel luogo comune secondo cui tutti i musulmani sarebbero praticanti fervorosi. Molti sarebbero sorpresi verificando, ad esempio, il basso tasso di partecipazione dei giovani alla preghiera del venerdì nelle moschee del Marocco, dell’Algeria o della Tunisia.

Tuttavia, è bene non trascurare il crescente fenomeno dei giovani che nei loro Paesi di origine erano lontani dalla religione e che dopo un primo periodo in Europa iniziano a frequentare la moschea e ad entrare nei circoli islamici radicali. In molte occasioni, i reclutatori lanciano la loro rete nei quartieri in cui si concentra un maggior numero di persone provenienti dai territori musulmani, nell’intenzione di avvicinare i giovani disadattati che vivono ai limiti dell’emarginazione sociale (alcuni di essi già delinquenti), convertendoli in islamici ferventi.

D’altra parte bisogna anche dire che molti dei giovani che aderiscono a questi circoli sono persone perfettamente integrate nell’ambiente circostante e che arrivano all’islam attraverso quelle letture o quei siti Internet in cui si alimenta l’odio verso l’Occidente. Ma senza dubbio la migliore compagna di viaggio dell’islamismo radicale continua ad essere l’emarginazione sociale.

Cosa si può fare a livello di politica internazionale per indurre gli Stati musulmani a rispettare la libertà religiosa di cui godono i musulmani che vivono in Europa?

Iván Jiménez-Aybar: In seguito agli attentati dell’11 settembre e all’estensione della minaccia terroristica, la pressione diplomatica di diversi Paesi ha ottenuto un rafforzamento, in certi Stati musulmani, della stretta sorveglianza nei confronti delle attività di certi gruppi radicali, ponendola talvolta come condizione per il mantenimento di determinati interscambi commerciali. In tal senso, la questione della libertà religiosa dei non musulmani in territorio islamico deve essere integrata in questo contesto strategico.

D’altra parte, l’intervento delle Nazioni Unite mi sembra fondamentale. Nel corso degli ultimi anni, diversi Paesi musulmani hanno chiesto che l’ONU si impegni più intensamente nella lotta contro l’islamofobia. E ciò è stato ottenuto. Io stesso, infatti, faccio parte di un comitato consultivo costituito a tal fine. Durante la nostra ultima riunione a Siviglia, tuttavia, alcuni di noi sono riusciti ad ottenere l’inclusione nell’agenda di lavoro della lotta contro la cristianofobia nel mondo islamico, dopo aver portato numerose prove in merito.

È necessario che i musulmani facciano prima di tutto un’autocritica e diano poi l’esempio promuovendo profondi cambiamenti legislativi nei rispettivi ordinamenti giuridici. Solo in questo modo saranno legittimati a chiedere rispetto per le loro credenze. A quel punto sarà arrivato il momento in cui si potrà parlare di alleanze di civiltà; ma non prima... (Zenit, 3 aprile 2006)

 

 

 


 

Salute, guarigione, salvezza: Guarigione come riconciliazione

 

Introduzione

Molte persone si ammalano perché hanno dentro di sé qualcosa che si è spaccato. La spaccatura si ripercuote spesso sul corpo. Essere sano significa essere intatto, integro, essere pacificato con tutto quello che c’è in me. Ci sono forme di spiritualità, nel passato come pure nel presente, che ci fanno ammalare. Chi si identifica con ideali elevati, corre sempre il pericolo di lasciar da parte la propria realtà. Ciò che non si vuole ammettere in se stessi viene rimosso o represso. Ma non possiamo rimuovere la nostra realtà impunemente: essa si ripercuoterà negativamente sull’anima, oppure si riverserà sul corpo come malattia.

Nella Bibbia la guarigione avviene allorquando Gesù tocca i malati. Questi devono mettere davanti a Cristo la loro vera situazione, affinché la sua forza sanante possa scorrere sulle loro ferite e le possa trasformare. Gesù non è un mago divino che fa sparire d’incanto le nostre malattie. Solo quando ci mettiamo di fronte alla nostra realtà, ci rendiamo conto delle ferite che sono in noi e le presentiamo coscientemente a Cristo, solo allora la guarigione è possibile. Una via di guarigione è mettersi di fronte alle nostre ferite; l’altra via consiste nel fare pace con noi stessi. Questa pacificazione non è un’autoguarigione, ma è piuttosto una risposta alla fiducia di essere accolti da Dio incondizionatamente. In questo articolo vorrei prendere in considerazione la seconda via di guarigione: la riconciliazione con me stesso, con Dio e con gli altri.

1. Il concetto di riconciliazione

Riconciliazione è un concetto centrale nella teologia di san Paolo. Nella Seconda Lettera ai Corinzi, Paolo afferma che Dio «ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18). Paolo parte dalla premessa che gli uomini si sono alienati da se stessi e in tal modo hanno perduto anche il contatto con Dio. In Gesù Cristo, Dio ha preso l’iniziativa e nella sua morte in croce ha colmato l’abisso che separava gli uomini da Dio e da se stessi. In Gesù, Dio si è avvicinato agli uomini ed è giunto fino all’ultima solitudine e abbandono. Là, sulla croce, ha tolto via la più profonda alienazione dell’uomo con se stesso e con Dio. La riconciliazione è dunque un agire di Dio su di noi. Ma tocca a noi rispondere a questa azione di Dio, dicendo: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). È necessario che noi stessi collaboriamo, affinché in noi possa compiersi la riconciliazione.

La parola latina reconciliatio significa originariamente il ristabilimento di amicizia, una rappacificazione. Il verbo corrispondente reconciliare significa: rimettere in ordine, ristabilire, unire nuovamente, rendere di nuovo sano, rappacificare. Il significato originario intende dunque far capire che Cristo, mediante la sua morte in croce ha ricondotto gli uomini all’amicizia con Dio, dal quale si erano allontanati. Riconciliazione significa quindi anche che sappiamo trattare noi stessi in modo amichevole, che consideriamo nostro amico tutto ciò che è in noi. Molti esseri umani non hanno una relazione né con Dio, né con se stessi. La riconciliazione significa che finalmente riescono a prendere contatto con se stessi e solo allora diventano capaci anche di entrare in relazione con gli altri e con Dio.

2. Riconciliazione con se stessi

Il primo e nello stesso tempo il più difficile compito della nostra «umanizzazione» consiste nel riconciliarci con noi stessi. La condizione per realizzare questo compito è la fiducia di essere accolti da Dio incondizionatamente. La pacificazione con me stesso ha diversi aspetti. Anzitutto mi devo rappacificare con la storia della mia vita. Sono diventato così come sono. Non posso far sì che la mia nascita ritorni nuovamente al punto di partenza. Non posso far finta che le mie ferite non siano avvenute. Far la pace con se stessi significa dire di sì alle ferite e alle offese che abbiamo ricevuto nel corso della vita. Molte persone rimangono per tutta la vita dei querelanti. Accusano i genitori di averli feriti. Rifiutano di prendersi la responsabilità della propria vita. Ma in questo modo non riescono mai a trovare la pace con se stessi. Preferiscono soffrire invece di rappacificarsi con se stessi e con la storia della propria vita.

Fa parte della riconciliazione con la propria storia di vita anche la riconciliazione con il proprio corpo, così come esso è diventato. Incontro molti cristiani che mi assicurano di sentirsi bene accolti da Dio, ma questa fede nell’accettazione da parte di Dio non va tanto in profondità nel loro cuore, così che possano accogliere se stessi anche nel proprio corpo. Sono così fortemente condizionati dalle immagini esterne di come dovrebbe essere il loro corpo, che respingono se stessi come sono realmente cresciuti. Non riescono ad accettare il proprio volto, perché sarebbe troppo banale, non abbastanza bello, non corrisponde ai canoni attuali della bellezza. Si arrabbiano perché sono troppo grassi, tentano di nascondere le gambe e preferirebbero non mostrarsi mai così come sono. Talvolta questo odio verso il proprio corpo si manifesta nell’anoressia o nella bulimia. Ildegarda di Bingen sostiene che l’anima dovrebbe rallegrarsi di abitare nel nostro corpo. Ma molti cristiani non hanno interiorizzato questo atteggiamento di santa Ildegarda. Si vergognano – come si racconta del filosofo greco Plotino – di essere nel loro corpo. Ci vuole un amore umile per il proprio corpo. Devo coscientemente accettarlo volentieri, affinché la mia anima vi si senta a suo agio.

Un altro aspetto della riconciliazione con se stessi esige la pacificazione con i propri lati oscuri. Lo psicoterapeuta svizzero Karl Gustav Jung ha coniato il concetto di «ombra». Intende con ciò tutto quello che abbiamo escluso dalla nostra sfera cosciente. Jung concepisce la persona umana come un essere «polarizzato». Abbiamo sempre due poli: amore e aggressività, ragione e sentimento, disciplina e indisciplina, virilità e femminilità. Ogni volta che accentuiamo troppo uno dei poli, l’altro cade nell’ombra e di là agisce distruttivamente sulla nostra vita. Quando reprimiamo i nostri sentimenti, spesso finiscono per esternarsi in un sentimentalismo, in cui siamo sopraffatti dalle emozioni e non sappiamo più come trattare con esse. San Benedetto esige dal monaco l’umiltà, humilitas. Questa virtù consiste nel discendere nel regno delle nostre ombre, nell’accettare la condizione terrena e nel pacificarsi con i nostri lati oscuri. Tale pacificazione non significa semplicemente lasciarli sfogare. Devo soltanto prenderli sul serio: vogliono che si presti loro attenzione e allora sono soddisfatti. Invece quanto più li si combatte, tanto più intervengono in modo sgradevole, spesso in reazioni spropositate oppure in sogni che procurano ansia.

Ancora più difficile è riconciliarsi con le nostre colpe. Possiamo perdonarci solo perché Dio ci ha perdonato. Ma è necessario far scorrere la fede nel perdono divino anche in tutti i sensi di colpa e i rimproveri che ci facciamo per i nostri sbagli. Molti affermano di credere nel perdono da parte di Dio, ma continuano a rinfacciarsi di aver fatto questo o quell’errore. Non riescono a perdonare se stessi per il fatto di aver commesso certe colpe. Spesso i sensi di colpa li dilaniano anche su cose di cui non hanno colpa alcuna. Una donna continuava a rimuginare sensi di colpa per il fatto di non essere stata presente nell’istante in cui la madre era morta, benché per molti anni si fosse presa cura di lei. Far pace con le proprie colpe e con i sensi di colpa richiede che mi distacchi dall’illusione di poter andare in giro per tutta la vita con una veste candida. Che lo voglia o no, mi macchio di qualche colpa. Dobbiamo per forza ricorrere al perdono di Dio, per poter perdonare a noi stessi. Ma spesso in noi c’è un giudice spietato, il nostro Super-io, che continuamente ci giudica quando non obbediamo alle norme che abbiamo appreso dai nostri genitori. Riconciliazione significa gettare giù dal trono questo giudice spietato e credere alla misericordia di Dio. Su questo punto ci può aiutare la meditazione sulle parole della Prima Lettera di Giovanni: «Se anche il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,20).

La riconciliazione con me stesso non avviene mai una volta per sempre. È un processo che dura per tutta la vita: in me scopro continuamente aspetti che non posso accettare bene. Quindi sono di nuovo sfidato a dire di sì a quello che vorrei ben volentieri far finta di non vedere. Si richiede una grande umiltà per guardare i propri lati oscuri e metterli davanti a Dio, perché disturbano l’immagine di noi stessi che ci siamo costruiti e perché ci mettono a confronto con la nostra vera realtà. Ma è la verità che ci farà liberi, come Gesù ci ha già promesso (Gv 8,32).

3. Riconciliazione con gli altri

Solo chi è riconciliato con se stesso è capace di riconciliarsi anche con gli altri. Molti incontrano grosse difficoltà nel perdonare gli altri. Esigono troppo da se stessi, perché pensano di dover perdonare immediatamente. Il perdono è sempre un processo che richiede tempo. Alcune persone non guariscono perché non sanno perdonare. Finché non riescono a perdonare, rimangono legate a colui che le ha ferite, si lasciano condizionare da lui. Nella mia esperienza di accompagnamento, incontro continuamente persone che per lunghi anni portano dentro di sé il rancore verso qualcuno. L’astio divora la loro anima e ruba le loro energie: e abbastanza spesso finiscono anche per ammalarsi. La riconciliazione con quelli che mi hanno ferito nel corso della mia vita, non è semplicemente una decisione della volontà. È piuttosto un processo che secondo me avviene in cinque fasi.

Il primo passo richiede che io lasci spazio al dolore. Non debbo scusare troppo presto colui che mi ha ferito. È del tutto indifferente se l’altro mi ha ferito apposta oppure non poteva fare altrimenti: il fatto è che mi ha fatto soffrire. E questo dolore devo nuovamente percepirlo nella sua realtà. Mi sono sentito abbandonato, sminuito, preso non seriamente in considerazione.

Il secondo passo consiste nel lasciar spazio alla collera (rabbia). La collera è la forza di buttare fuori da me colui che mi ha ferito. Collera non vuol dire mettermi a gridare contro l’altro oppure ferirlo a mia volta. Essa consiste invece nel prendere una sana distanza dall’altro. Posso dirmi per esempio: non penso più continuamente a lui; gli impedisco di entrare in casa mia, cioè gli proibisco di abitare nel mio intimo, di occuparmi continuamente di lui nei miei pensieri. Nello stesso tempo devo trasformare in energia questa collera: posso vivere da me stesso; non ho bisogno dell’altro perché la mia vita abbia un esito positivo.

Il terzo passo si riferisce al guardare oggettivamente ciò che è accaduto. Cerco ora di comprendere perché l’altro mi ha ferito. Forse non ha fatto altro che trasmettere le ferite che a sua volta aveva ricevuto. Mi sforzo quindi di capire me stesso: per quale motivo il comportamento dell’altro mi ha fatto soffrire così tanto. Forse l’altro ha toccato in me un’antica piaga, un posto dove non mi sono ancora riconciliato con me stesso. Questa riflessione diventa un invito a occuparmi di questa zona così vulnerabile e ad accettare me stesso con questa mia vulnerabilità.

Il quarto passo della riconciliazione con l’altro consiste propriamente nell’atto del perdono. Perdonare significa che mi libero dal legame con l’altro. Lascio che il suo comportamento rimanga in lui e così mi distacco dall’altro. Il perdono è sempre un segno di forza e non di debolezza. Rinuncio a girare continuamente attorno alle mie ferite. Se queste sono però troppo profonde, non riesco ancora a incontrarmi con l’altro, nonostante il mio perdono. Devo allora accettare i miei limiti. Ho perdonato all’altro, ma non sono ancora capace di costruire con lui un rapporto normale. Molti psicologi hanno sperimentato, tra le altre cose, che il perdono è un atto terapeutico, che rende possibile la guarigione delle proprie piaghe e ci libera dal rimuginare continuamente il nostro passato. Il perdono ci rende capaci di impegnarci nel momento presente con tutto il nostro essere.

Il quinto passo della riconciliazione trasforma le piaghe in perle. Ildegarda di Bingen sostiene che la riuscita della vita dipende dal fatto che le nostre piaghe vengano trasformate in perle. Se compissi soltanto i primi quattro passi, avrei sempre la sensazione di subire un danno, poiché ero stato ferito in modo veramente grave. Il quinto passo mi mostra che nelle mie ferite si trova un tesoro prezioso. Là dove mi hanno ferito sono crollate le mie maschere e ho potuto mettermi in contatto col mio vero Sé. Le piaghe mi fanno sentire vivo, mantengono sveglia in me la nostalgia di Dio e mi aprono verso le persone con le loro ferite. Dato che io stesso sono stato ferito, posso meglio comprendere le altre persone con le loro piaghe. Molti terapeuti e pastori d’anime hanno trasformato le loro piaghe in perle. Gli antichi greci sapevano già che solo il medico ferito poteva veramente guarire[1]. Se le mie piaghe vengono trasformate in perle, non porto più rancore contro quelli che mi hanno ferito. Allora il perdono non è soltanto qualcosa di passivo, ma rende possibile la scoperta delle mie energie e mi dà fiducia di imprimere in questo mondo la traccia inconfondibile e del tutto personale della mia vita.

Questi cinque passi della riconciliazione con l’altro si possono percorrere senza parlare con l’altro. Spesso però è di grande aiuto chiarire la ferita con un altro. È sempre necessaria tuttavia la prudenza nel giudicare se il dialogo con l’altro sia veramente opportuno. Se dico a dei genitori anziani che mi hanno ferito, li metterò in confusione e pretenderei troppo da loro. Il processo della riconciliazione avviene dentro di me. Spesso è bene parlarne con una terza persona, ad esempio nell’accompagnamento pastorale o in una analisi terapeutica. Se si tratta di ferite attuali, devo decidere se per me è meglio segnalare all’altro che mi ha ferito, oppure se posso perdonargli interiormente. Se dico all’altro che mi ha ferito, ciò non deve essere in alcun modo una rimostranza, bensì un’informazione, affinché sappia come il suo comportamento si riflette su di me.

Un’altra questione è se devo dire all’altro che lo si perdona. Il direttore di una fabbrica mi raccontava di avere un conflitto con la sua segretaria. Durante la discussione, la donna disse: «Le perdono in nome di Gesù». Per il direttore fu come uno schiaffo in faccia. Infatti in questa frase risuonava implicitamente: «Tu sei colpevole. Sei un tipo cattivo, ma io sono una persona spirituale e di animo generoso e ti perdono». Per l’altro, simili dichiarazioni di perdono sono un’accusa. Non producono alcuna riconciliazione, bensì rendono il disaccordo più profondo. Quando l’altro non accoglie il nostro perdono, abbiamo sempre la sensazione di essere persone migliori di lui. Nel monachesimo dei primi secoli cristiani, si racconta la storia di un monaco che andò dal suo vecchio padre spirituale lagnandosi che suo fratello non aveva accettato il suo perdono. Allora il vecchio abate gli rispose: «Guarda bene dal non metterti al di sopra di tuo fratello. Immagina di aver peccato contro di lui e va così da tuo fratello». Quando il monaco andò dal fratello con questo atteggiamento, fu il fratello che gli andò incontro e i due si abbracciarono. Certamente il fratello si era accorto del cambiamento avvenuto nel monaco. Il nostro perdono potrà giungere fino all’altro solo quando è inteso sinceramente e riusciamo a scorgere anche la nostra parte di colpa.

4. Riconciliazione con Dio

Il messaggio fondamentale della Bibbia è che Dio ha riconciliato gli uomini con sé. Dio non ha bisogno di essere riconciliato, perché egli è per essenza amore e misericordia. È l’uomo invece, diventato colpevole, che si è separato interiormente da Dio. La colpa significa sempre una spaccatura. Se mi addosso una colpa, ho sempre l’impressione di non poter più comparire innanzi agli occhi degli altri e di dovermi nascondere – come Adamo ed Eva – davanti a Dio. Il messaggio dell’amore misericordioso di Dio, che colma questa spaccatura interiore, mi permette di presentare a Dio tutto quello che c’è dentro di me. La croce di Gesù non produce il perdono. Dio non perdona perché Gesù è morto in croce, ma perché egli è Dio. Tuttavia la croce è per noi la più efficace comunicazione del perdono. Quando vedo che Gesù in croce perdona ai suoi uccisori, posso confidare che in me non c’è nulla che non possa essere perdonato. Così la croce rafforza la mia fiducia nell’amore perdonante di Dio. Se medito la croce, so questo: sono accolto da Dio incondizionatamente. Anche la mia colpa non mi separa da lui.

La riconciliazione parte da Dio. Ma anch’io devo riconciliarmi con Dio. Spesso in me c’è una ribellione contro di lui. Non gli posso perdonare di avermi creato così come sono. Non gli posso perdonare che mi abbia destinato un genere di vita come quello che ho, di non avermi preservato dai miei errori e colpe. E così anch’io devo perdonare Dio che mi ha posto nella difficile situazione che mi tocca affrontare. In definitiva, la riconciliazione con Dio richiede che mi liberi dalle false immagini di Dio e di me stesso, per affidarmi al mistero inafferrabile di Dio. Allora potrò sperimentare la vera pace e riconciliazione con lui.

Ma la riconciliazione con Dio implica ancora un ulteriore aspetto. Quando faccio l’esperienza di Dio, sperimento anche la riconciliazione non solo con lui, ma anche con tutto ciò che esiste. Ho accompagnato per molti anni nella terapia una donna che cercava di superare le ferite ricevute dalla madre. Tutto lo sforzo di analizzarle non le era giovato a riconciliarsi veramente con la madre. Durante una celebrazione liturgica aveva sperimentato la vicinanza guaritrice di Dio. E ad un tratto si è sentita una sola cosa con se stessa e in accordo con tutta la sua vita. Non c’era più alcun odio verso la madre, ma solo amore. La vera esperienza di Dio è sempre anche esperienza di riconciliazione. Se sono una cosa sola con Dio, sono una sola cosa anche con tutto quello che è dentro di me, con gli altri, con la mia vita, con Dio. Sperimento una profonda pace interiore. Tuttavia non posso fissare questa esperienza di essere riconciliato. È sempre solo un istante quello in cui sono una sola cosa con Dio, ma è un istante che mi mostra che cos’è veramente riconciliazione: essere una sola cosa con tutto ciò che esiste; essere in accordo con il Dio inafferrabile e con quello che egli ha mi ha riservato.

5. Riconciliazione e guarigione

La riconciliazione è un percorso importante per giungere alla guarigione. Guarire non significa che Dio ci toglie e fa sparire le nostre piaghe, bensì che noi apriamo le nostre piaghe per Dio e in lui diventiamo sani e integri. Le piaghe fanno parte della nostra identità, non ci separano né da Dio né dal nostro vero Sé. Al contrario aprono in noi una breccia che ci fa scoprire il nostro vero Sé, l’immagine originaria e autentica di Dio in noi. Chi si riconcilia con se stesso, con gli uomini e con Dio, sente di essere una persona nuova. Paolo lo ha formulato così: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova: le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17).

La vera e propria malattia del nostro tempo – ci dice la psicologia – è la mancanza di relazione (di riferimenti). Gli uomini non sono capaci di mettersi in relazione con se stessi, e neppure con le cose, con gli altri e con Dio. La riconciliazione è il mezzo per mettersi in relazione con tutto quello che c’è in me, così da non escludere più niente dal mio vero Sé. Colui che mette tutto in relazione con il Sé più intimo, il Cristo in noi, è totalmente risanato e salvo, e sperimenta se stesso come un uomo nuovo. Per Paolo riconciliazione è un altro concetto (un sinonimo) per esprimere la redenzione. Sulla croce Dio ha riconciliato a sé gli uomini con tutte le loro contraddizioni. L’uomo lacerato diventa in tal modo risanato e integro, si sente un essere nuovo. Le cose vecchie sono veramente passate. In Cristo l’uomo ha trovato la sua nuova identità, un’identità in cui egli non ha più bisogno di escludere niente, né da se stesso, né davanti a Dio. Ha la capacità di vedere con occhi nuovi se stesso e anche il mondo attorno a sé. Da lui la riconciliazione si espande in tutto l’ambiente in cui vive. In tal modo, per suo mezzo, anche il mondo che lo circonda viene ri-creato. Nella riconciliazione muore l’uomo vecchio che giudica se stesso. Siamo così liberi di camminare nella novità della vita divina (cf. Rm 6,4). La «novità di vita» non è un’affermazione puramente teologica, ma si riferisce alla nostra esperienza. Chi si riconcilia con se stesso, vive se stesso in modo diverso da prima. Non vive più sul piano del rifiuto o della estraniazione da sé, bensì come una persona unificata nel proprio intimo, rinnovata, riconciliata e capace di donare riconciliazione agli altri. (Anselm Grün, scrittore, monaco dell’abbazia benedettina di Münsterschwarzach in Germani, traduzione di Luigi Dal Lago, in Credere Oggi, 145/2005)

 

 

 


 

Ruini ribatte a Martino: il Corano nelle scuole si insegni così

 

Alle stesse condizioni che valgono per ogni altro insegnamento nella scuola pubblica. Ma da queste condizioni l’islam è lontanissimo. Così è in Italia e così è in molti paesi d’Europa. Il parere del giurista Carlo Cardia

In un passaggio del suo discorso introduttivo alla sessione d’inizio primavera del consiglio permanente della conferenza episcopale italiana, il cardinale Camillo Ruini, vicario del papa per la diocesi di Roma e presidente della CEI, ha risposto alle polemiche innescate da una recente dichiarazione del cardinale Renato Martino.

Il 9 marzo il cardinale Martino, presidente del pontificio consiglio della giustizia e della pace, aveva detto: “Se in una scuola ci sono cento bambini di religione musulmana, non vedo perché non si possa insegnare la loro religione”.

Il cardinale non aveva aggiunto altro. E proprio questa sua mancanza di precisazioni e di precauzioni aveva alimentato tra i politici italiani e sui media un attacco contro l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole: insegnamento accusato d’essere incompatibile con una società sempre più multireligiosa e multiculturale.

La logica dell’attacco era: “Se non a tutti, allora a nessuno”. Ossia: se si nega l’insegnamento dell’islam nelle scuole pubbliche, allora si cancelli anche quello della religione cattolica. I politici più decisi a estromettere la Chiesa dallo spazio pubblico si erano spinti sino a chiedere l’abolizione del concordato tra l’Italia e la Santa Sede, stipulato del 1929 e consensualmente modificato e aggiornato nel 1984.

Nella sua replica, lunedì 20 marzo, Ruini ha riempito i vuoti aperti dalle parole del cardinale Martino e ha respinto l’attacco così:

“Si è sviluppato nelle ultime settimane un vivace dibattito su un eventuale insegnamento della religione islamica nelle scuole pubbliche, dibattito che si è esteso anche all’insegnamento della religione cattolica.

“Fatta l’ovvia premessa che la competenza della nostra Chiesa riguarda i rapporti con lo stato italiano in merito all’insegnamento del cattolicesimo e non di altre religioni, sembra utile aggiungere qualche precisazione.

“In primo luogo vale per tutti il diritto alla libertà religiosa e in linea di principio non appare impossibile l’insegnamento della religione islamica.

“Occorre però che ricorrano alcune fondamentali condizioni, che valgono nei confronti di ogni insegnamento nelle scuole pubbliche italiane.

“In particolare [occorre] che non vi sia contrasto nei contenuti rispetto alla nostra costituzione, ad esempio riguardo ai diritti civili, a cominciare dalla libertà religiosa, alla parità tra uomo e donna e al matrimonio.

“In concreto, manca finora un soggetto rappresentativo dell’islam che sia abilitato a stabilire con lo stato italiano un accordo in merito.

“Bisognerebbe inoltre assicurarsi che l’insegnamento della religione islamica non dia luogo di fatto a un indottrinamento socialmente pericoloso.

“Non regge, in ogni caso, il paragone con l’insegnamento della religione cattolica, dato che esso, come afferma l’art. 9 dell’accordo di revisione del concordato, ha tra le sue motivazioni il fatto ‘che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano’.

“Le proposte di sopprimere tale insegnamento, sostituendolo eventualmente con un insegnamento di storia delle religioni, che sono state nuovamente avanzate in questa occasione, sulla base del più accentuato pluralismo di presenze religiose che nasce dall’immigrazione, e anche di un presunto, ma inesistente, declino della vitalità del cattolicesimo in Italia, non tengono conto del dato di fatto che il 91 per cento degli alunni frequenta liberamente le lezioni di religione cattolica, oltre che della domanda di conservare e irrobustire le nostre radici, che è presente con forza nel popolo italiano”.

* * *

Fin qui il presidente della CEI. Ma per meglio capire le sue parole finali va aggiunto che in Italia non solo è altissima la quota di chi sceglie di frequentare l’ora settimanale di religione cattolica nelle scuole, ma sono superiori all’80 per cento anche le quote di chi giudica in modo positivo la Chiesa, di chi vuole che il crocifisso resti esposto nelle aule scolastiche e nei tribunali e di chi devolve ogni anno alla Chiesa cattolica l’8 per mille degli introiti fiscali dello stato.

L’ultima approfondita indagine che ha accertato l’ampiezza – e persino la crescita – del consenso che avvolge la Chiesa cattolica in Italia è stata eseguita dall’istituto Demos-LaPolis, pubblicata il 18 dicembre 2005 sul principale quotidiano laico progressista italiano, “la Repubblica”, e curata e commentata da uno dei più stimati analisti della società italiana, Ilvo Diamanti, professore di scienza politica all’Università di Urbino e alla Sorbona di Parigi.

* * *

Inoltre, va ricordato che l’insegnamento della religione nella scuola pubblica non è affatto limitato all’Italia, ma caratterizza la stragrande maggioranza degli stati europei. E risponde a una logica comune.

Ha illustrato questa logica, su “Avvenire” che è il quotidiano della CEI, uno specialista non sospetto, Carlo Cardia, professore di diritto ecclesiastico e di filosofia del diritto all’Università di Roma Tre, non cattolico e per molti anni consulente del maggior partito della sinistra italiana in materia di rapporti tra stato e Chiesa.

Ecco qui di seguito il suo articolo, uscito il 16 marzo e corredato da un prospetto sull’insegnamento religioso in Europa, stato per stato. Circa l’insegnamento dell’islam, è forte la consonanza tra gli argomenti di Cardia e quelli sopra riportati del cardinale Ruini.

In Europa l’ora di religione non è un'eccezione ma la regola  (di Carlo Cardia)

Il problema dell'insegnamento religioso nelle scuole, in Europa, non è mai stato una questione puramente amministrativa. Esso è stato al centro delle grandi trasformazioni dello stato moderno, ed ha seguito le vittorie e le sconfitte del carattere democratico e laico degli ordinamenti europei.

Oggi è legato anche al progresso delle società europee sulla via dei diritti umani e della libertà religiosa.

Nei periodi di conflitto tra stato e Chiesa, soltanto il laicismo estremo ha estromesso del tutto la religione nella scuola.

Così è avvenuto nella Francia dell'Ottocento, dove l'insegnamento cattolico andava e veniva a seconda se al potere erano i rivoluzionari o i monarchici, i moderati o i separatisti della Terza Repubblica.

Altrettanto è avvenuto in Spagna, dove il succedersi di regimi anticlericali a regimi tradizionalisti estrometteva o garantiva la religione dalle strutture pubbliche.

In Italia, neanche il liberalismo ottocentesco ha mai avuto il coraggio di eliminare la religione dalle scuole elementari, che erano le uniche strutture scolastiche di massa dell'epoca. La legge Coppino del 1877 presentava delle ambiguità, ma il consiglio di stato ammise l'insegnamento cattolico lasciandone l'attivazione ai comuni e alla scelta delle famiglie. Nella quasi totalità dei casi i comuni lo ammisero, la generalità delle famiglie lo scelsero. I liberali di allora dimostrarono una saggezza che non sempre si è trasmessa ai loro eredi.

Il grande gelo cala, invece, in Europa, con il totalitarismo comunista che cancella ogni traccia di religione dalla scuola in quasi metà degli ordinamenti europei. Da Mosca a Praga, da Budapest a Sofia, a Belgrado, fino a Bucarest e a Varsavia (ma qui fu più difficile) il disegno di scristianizzazione della società cercò di recidere le radici che ciascuna Chiesa aveva con il suo popolo.

La fine dei totalitarismi, di destra e di sinistra, è all'origine di riforme che hanno confermato lo stretto rapporto che esiste tra scuola, libertà religiosa e tradizioni nazionali nella maggior parte d'Europa.

I paesi che già avevano stipulato con la Santa Sede un concordato raccordano l'insegnamento religioso con i principi di libertà e di laicità e confermano tutti, dall'Italia alla Germania, dal Portogallo alla Spagna e all'Austria, un legame solido tra scuola e religione, accentuandone il carattere culturale e aperto a tutti i cittadini.

Soprattutto, la più grande svolta si determina con la caduta del totalitarismo sovietico e con la riconciliazione dei paesi ex-comunisti con la democrazia e la laicità dello stato.

L’insegnamento religioso, nelle forme libere e garantite per tutti, è stato reintrodotto in Polonia e in Croazia, in Slovacchia e in Lettonia, in Lituania, Romania e Russia. In altri paesi, come nella Repubblica Ceca e in Ucraina, se ne sta discutendo e si stanno valutando modi e forme per la sua regolamentazione.

Tutto ciò avviene o con nuovi concordati – almeno dieci, oltre quelli già esistenti – o con leggi unilaterali dello stato.

Se si considera che l'insegnamento religioso è rimasto sino ai giorni nostri in quasi tutti i paesi protestanti del nord-Europa e nella Grecia dell'ortodossia, si può constatare come nella stragrande maggioranza degli ordinamenti europei la scuola si collega con la religione nelle forme ereditate dalle rispettive tradizioni, ortodossa, cattolica, protestante, in più d'un caso nella forma ebraica.

Da questo quadro fortemente omogeneo si possono trarre alcune considerazioni.

In primo luogo vi si ritrova la smentita più netta alle tesi di quanti, ancora in questi giorni, cercano di sostenere che l'insegnamento cattolico in Italia costituisca un'eccezione, anziché la conferma quasi di una regola seguita nell'Europa delle democrazia e dei diritti umani.

In secondo luogo, l'insegnamento è impartito sulla base del principio di libera scelta da parte delle famiglie, o dei ragazzi; e sul presupposto che i programmi, i docenti e i libri di testo siano rispettosi dei principi fondamentali delle società occidentali, in materia di libertà, di struttura della famiglia, e via di seguito.

Infine, e per conseguenza, lo stato richiede a tutte le Chiese garanzie sui docenti e sui programmi di insegnamento, perché non si pongano in essere predicazioni e comportamenti intolleranti o fanatici.

Solo in questo orizzonte può essere presa in esame l'ipotesi – che è stata ventilata – di una forma di insegnamento islamico nelle scuole pubbliche.

In primo luogo occorre tenere presente che non esistono oggi i presupposti giuridici che sono alla base della normativa scolastica italiana e di altri paesi, e che si è di fronte invece ad ostacoli specifici e di notevole rilievo.

Non c'è in Italia una confessione islamica organizzata e riconosciuta dallo stato. Esistono diversi gruppi, non di rado in forte conflitto tra di loro. E ciò impedisce che si possa dar vita a un insegnamento che non si fonderebbe su alcuna comunità, istituzione, o gerarchia confessionale.

Poi, non si può ignorare il potenziale conflitto tra alcuni profili dell'attuale modo d'essere dell'islamismo e questioni fondamentali per le nostre società – la tematica dei diritti umani, a cominciare dalla libertà religiosa, i principi di eguaglianza tra uomo e donna, la struttura monogamica del matrimonio – che costituiscono il patrimonio più prezioso della tradizione laico-cristiana dell'Italia e dell'Occidente.

Aprire con leggerezza una divaricazione su questi punti vorrebbe dire porre le premesse di un serio regresso del tessuto sociale e culturale e frenare quel dialogo interreligioso che deve svolgersi su presupposti chiari e inequivoci su alcuni principi fondamentali.

Inoltre, la consapevolezza del momento storico che viviamo impone chiarezza su un altro punto assai delicato. Nel momento in cui il fondamentalismo islamico costituisce una realtà concreta in tanti paesi da cui proviene l'immigrazione verso l’Europa, sarebbe errato non avvertire il rischio che, attraverso legittimazioni frettolose e canali sensibili come quelli scolastici, possano filtrare soggetti capaci di trasmettere altri messaggi, realizzare collegamenti ambigui, porre a rischio valori fondamentali della vita civile.

Questi sono alcuni degli ostacoli che rendono oggi irrealizzabile, e non ipotizzabile, una presenza islamica organica nella scuola italiana. Ciò non vuol dire che in futuro non si possa esaminare il problema; ma solo quando le condizioni storiche offrano garanzie certe che il sistema di valori su cui fonda la nostra società non venga intaccato, o posto a rischio, da una presenza che deve puntare a integrare tutti coloro che vivono sul nostro territorio, e non a dividere la società italiana.

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In Italia, nelle scuole pubbliche l’insegnamento della religione cattolica è di un’ora la settimana, alla quale gli alunni sono liberi di partecipare o no. Anche per l’ebraismo vale un analogo trattamento. Ma c’è possibilità di insegnamento anche per altre confessioni religiose. Per “possibilità” si intende qui possibilità giuridica, che può essere realizzata a condizioni prestabilite.

In altri paesi europei le cose stanno così:

AUSTRIA. Insegnamento cattolico. Possibilità per altre religioni.

BELGIO. Insegnamento cattolico o ebraico, oppure, in alternativa, di etica non religiosa.

CROAZIA. Insegnamento cattolico.

DANIMARCA. Insegnamento protestante luterano.

FINLANDIA. Insegnamento protestante luterano, oppure, in alternativa, insegnamento etico.

FRANCIA. Nelle scuole primarie, giorno libero per gli studenti che vogliano recarsi presso la Chiesa prescelta, per l’insegnamento religioso. In Alsazia-Mosella, insegnamento cattolico nelle scuole primarie e secondarie.

GERMANIA. Insegnamento cattolico oppure protestante riformato, a scelta delle famiglie o degli studenti. Possibilità per altre religioni.

GRAN BRETAGNA. Insegnamento gestito dalle principali confessioni esistenti nel paese.

GRECIA. Insegnamento ortodosso.

OLANDA. Insegnamento cattolico o protestante riformato. Possibilità per altre religioni e per un insegnamento umanistico.

POLONIA. Insegnamento cattolico. Possibilità per altre religioni.

PORTOGALLO. Insegnamento cattolico. Possibilità per altre religioni.

ROMANIA. Insegnamento ortodosso. Possibilità per altre religioni.

RUSSIA. Insegnamento ortodosso. Possibilità per altre religioni.

SERBIA. Insegnamento ortodosso. Possibilità per altre religioni.

SLOVACCHIA. Insegnamento cattolico.

SPAGNA. Insegnamento cattolico. Possibilità per altre religioni.

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Le prime sperimentazioni di un insegnamento della religione musulmana nelle scuole pubbliche sono in corso attualmente:

– in Spagna, dove si consente alle comunità islamiche di fruire dei locali scolastici fuori dall’orario curricolare;

– in Austria;

– in Germania, dove l’insegnamento è possibile per i musulmani di nazionalità turca.

Ma a giudizio di Carlo Cardia “si trova difficoltà a reperire gli insegnanti con i requisiti adatti e si tratta comunque di esperimenti limitati e recentissimi, ancora da valutare”. (Sandro Magister, www.chiesa.it, 21 marzo 2006)

 

 

 


 

La Quaresima come un paradigma.

Panoramica su questo tempo liturgico

 

L’anno liturgico celebra l'opera della salvezza realizzata da Cristo, perché il dispiegarsi del suo mistero raggiunga l'uomo in ogni luogo e in ogni tempo. Esso ha nell'evento pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo il suo apice, che si snoda poi negli eventi della sua incarnazione e della sua missione pubblica.

E' scandito dalla celebrazione dei due tempi forti, Avvento e Quaresima e dal tempo ordinario che, al ritmo della pasqua settimanale, attorno alla celebrazione eucaristica, istruisce, nutre e costruisce la comunità cristiana.

In principio era la Pasqua.

Originariamente, attraverso una strutturazione molto diversa dall'attuale, l'anno liturgico era costituito dalla solenne celebrazione della Pasqua e della cinquantina successiva. Il tempo pasquale fu come l'espansione gioiosa della Pasqua per sette settimane, cioè fino a Pentecoste. Vissuto come un giorno solo manifestava la presa di coscienza della Chiesa, come comunità pasquale, inviata nel mondo per rendere presente il Cristo vivente.

Solo dopo un secolo, forte dell'esperienza ardua della sequela, la Chiesa recupera la convinzione che l'aspetto di impegno e lotta al seguito di Gesù che cammina verso la croce è passaggio obbligato per la gloria della risurrezione.

Il cammino dei catecumeni.

C'è un altro aspetto che via via prende corpo nel Tempo di Quaresima: le cinque domeniche che precedono la Settimana Santa sono caratterizzate da riti, proposte della Parola di Dio, preghiere, che accompagnano i catecumeni nel loro ultimo tratto di strada che li porterà, nella lunga veglia pasquale, a celebrare i sacramenti dell'iniziazione cristiana. I segni di questo cammino li ritroviamo ancora nella proposta della Parola di Dio delle cinque domeniche, soprattutto nello schema dell'anno A, consigliato sempre per chi ha, all'interno della propria comunità, catecumeni che a Pasqua riceveranno il Battesimo. Tale cammino confluisce nella veglia pasquale che, attraverso la liturgia battesimale, invita ogni cristiano a far memoria del proprio Battesimo e rinnovare le sue promesse.

Prova e fedeltà, letizia e abbandono.

In questo senso il Tempo di Quaresima diventa paradigmatico per la vita cristiana: la riflessione sul nostro battesimo ci rimanda alla radice della nostra fede e ai termini della nostra sequela, invitandoci alla conversione del cuore per aprirci all'azione rigenerante del Risorto.

"La Pasqua è un vertice esprimente l'esistenza storica e gloriosa di Cristo Signore, essa è anche per i cristiani un "modello" da contemplare e vivere, ora sul versante della prova e della fedeltà ora sul versante della letizia e dell'abbandono all'iniziativa divina. La Quaresima porta già la promessa e il germe della cinquantina pasquale" (L. Della Torre).

Cinque tappe per scoprire: un "maestro-amico"

Prima domenica (Gn 9,8-15; 1Pt 3,18-22;Mc 1,12-15)

La presenza del male nelle sue infinite sfaccettature, sia personali che sociali, rientra in quelle esperienze fondamentali della vita che con il loro peso e la loro incombenza talvolta fanno vacillare la nostra capacità di guardare con speranza al nostro futuro. E' la tragica immagine del diluvio che precede il brano della prima lettura. La cancellazione del creato attraverso l'irruenza delle acque sembra quasi presagire un ripensamento di Dio nei confronti della sua opera creatrice. Ma il brano apre a nuove prospettive e quello che poteva sembrare la fine diventa preludio ad un nuovo inizio, un'alleanza nuova e soprattutto definitiva sorge, per iniziativa gratuita di Dio, dalla melma della desolazione.

Il male allora diventa prova, provocazione a riandare alle sorgenti della nostra speranza; le acque della distruzione diventano figura dell'acqua rigenerante del Battesimo che ci introduce in questa nuova alleanza, come dice Pietro nella seconda lettura, in virtù della risurrezione di Cristo.

Al nostro fianco, nell'aprirci all'azione rigenerante dello Spirito, c'è Gesù che, nella sua piena umanità, come qualunque mortale, come ciascuno di noi, non esita a sottoporsi alla tentazione partecipando la sua vittoria a chiunque accolga il suo donarsi. Il tempo è compiuto perché il Regno è vicino; convertirsi e credere al Vangelo è possibile perché Egli è per noi, in noi, con noi.

Seconda domenica (Gn 22,1-2.9.10-13.15-18; Rm 8,31b-34; Mc 9,2-10)

Un'esistenza all'insegna della illogicità, esperienze disarmanti che mettono a dura prova il nostro credere e il nostro sperare. Abramo vede nel figlio Isacco l'avverarsi della promessa, il figlio alfine donato soddisfa quell'orizzonte umano di comprensibilità e di logicità che sembra dare concretezza alle attese e alle speranze. Ma è veramente questa la risposta che cerca? Soren Kierkegaard nel suo romanzo "Timore e tremore", nel tentativo di entrare nell'animo di Abramo mentre compie il cammino verso il monte del sacrificio, giunge a dire che la gioia del figlio riavuto è infinitamente maggiore di quella del figlio nato. (I lett.).

E' questa la logica della fede, la logica della prova, quella prova che Gesù chiede ai suoi discepoli invitandoli a seguirlo sulla via del calvario. La salita al monte Tabor vuol essere un mostrare ma anche un aiutare i discepoli a dirigersi verso quell'«oltre» capace di dare alla vita un senso di compimento. Non ci sono risposte se non la voce di Dio: «Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo» (Vang.)

Ma ritorna il tema che ci accompagna in questa riflessione quaresimale: l'ardua proposta di sequela di Cristo spaventa, ma se letta con l'apostolo Paolo viene illuminata di una nuova luce: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? ...Cristo Gesù che è morto, anzi, è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?» (II lett.)

Terza domenica (Es 20,1-17; 1Cor 1,22-25; Gv 2,13-25)

Un persistente volontarismo frutto di una diffuso modo di pensare la vita vede l'uomo come unico e indiscusso artefice di se stesso e del suo destino. Tale idea ha spesso pervaso anche la nostra pastorale, esaltando un attivismo preso a misura talvolta della nostra fedeltà al mandato di Cristo.

In questa domenica viene proclamata la legge del Sinai (I lett.), una serie di prescrizioni che riempiono e illuminano la vita, ma che vengono introdotte da una proclamazione che mette tutti i precetti nella loro giusta ottica: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù». L'agire di Dio ci precede, rendendo possibile la realizzazione di quanto segue.

E allora ogni logica efficientista cade di fronte alla stoltezza dell'annuncio di un Dio crocifisso (II lett.). La vera testimonianza mostra la sua debolezza come via privilegiata di salvezza, perché assunta e scelta per amore, solo per amore.

Egli, il Cristo crocifisso e risorto è il nuovo tempio (Vang.), purificato e rigenerato, dentro al quale ogni uomo può incontrare Dio e aprirsi alla forza rigenerante della fede. "Senza di me non potete far nulla", dice Gesù: forse dovremmo ricordarlo più spesso, per non trasformare i nostri "templi" in luogo di mercato.

Quarta domenica (2Cron 36,14-19-23; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21.)

Due concetti attraversano l'intera storia della salvezza narrata nelle Sacre scritture. Il concetto della dispersione e quello dell'attrazione. Il primo è presentato come conseguenza dell'agire dell'uomo, quando questo agire diventa rifiuto di Dio e della sua volontà. La disgregazione dei popoli (Babele); l'esilio babilonese (I lettura); la stessa dispersione degli apostoli di fronte allo scandalo della passione e della morte di Gesù.

Ma all'agire libero e drammatico dell'uomo risponde l'amore gratuito e "testardo" di Dio, che riunisce e attrae a sé l'uomo, in una proposta di libertà che richiede una risposta altrettanto libera. La seconda parte della prima lettura è su questa linea. Lo stesso afferma l'apostolo Paolo nella lettera ai cristiani di Efeso (II lett.), dove l'attrazione a sé del credente si concretizza attraverso la grazia che salva, donata a chi apre il suo cuore all'offerta che Cristo fa di se stesso. Infine lo splendido dialogo tra Gesù e Nicodemo (Vang.), questo membro eminente del sinedrio che, nella notte del suo turbamento, si avvicina a Gesù e riceve l'invito ad aprirsi ad una rigenerazione spirituale, conseguenza dell'attrazione a sé che Gesù farà quando sarà "innalzato da terra".

La salvezza è dono di Dio in Cristo, che diventa efficace e operante non tanto, in prima istanza, in virtù delle opere dell'uomo, ma prima di tutto per un suo totale affidamento a lui, in una comunione piena operata dal Padre, per opera del Figlio, nella potenza dello Spirito Santo.

Quinta domenica (Ger 21,31-34; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33)

Questa domenica conclude il nostro cammino e ci apre a celebrare quella che potremmo definire "la settimana delle settimane", la settimana Santa. E' stato un cammino alla scoperta di un "maestro-amico": non solo maestro, ma amico. I termini di questa affermazione sono ben espressi dalla Parola di Dio di questa domenica. Ecco alcune frasi significative: «Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (I lett.); «pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (II lett.); «È giunta l'ora che sia glorificato il Figlio dell'uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Vang.).

E allora apriamoci al suo amore e lasciamoci rigenerare da lui. Solo così la Pasqua sarà per tutti noi vero passaggio verso una novità di vita. Due versetti del cap. 15 di san Giovanni vorrei che fossero veramente la Parola guida per la Quaresima di quest'anno: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici... Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,13.15).

Le “pratiche quaresimali”: preghiera, digiuno, carità

Da sempre la Chiesa propone ai fedeli, come esperienza penitenziale, e in modo particolare durante la Quaresima, alcune "pratiche" che aiutino in questo cammino di conversione e di rinnovamento spirituale. Esse, pur adattate alla sensibilità di oggi, mantengono tutto il loro valore e la loro efficacia. Consiglio di rileggersi i prefazi della Quaresima che possono illuminare sul senso di queste pratiche.

La preghiera. Essa è l'azione per eccellenza: la mia vita si apre ad un dialogo rigenerante tra me e il mio Signore. Essa è fatta prima di tutto di ascolto, aiutato dalla lettura e dalla meditazione della Parola di Dio. Non può essere frettolosa, quasi ridotta a un dovere da compiere, ma espressione profonda di un desiderio di pensare e costruire la mia vita con colui che per la mia vita ha dato la sua.

Il digiuno. Lascio la spiegazione a Giovanni Paolo II che nell'ultimo paragrafo del n° 3 dell'Udienza generale del 21 marzo 1979 così si esprimeva a proposito del digiuno: «Ecco, in breve, l'interpretazione del digiuno al giorno d'oggi. La rinuncia alle sensazioni, agli stimoli, ai piaceri e anche al cibo o alle bevande, non è fine a se stessa. Essa deve soltanto, per così dire, spianare la strada per contenuti più profondi, di cui "si alimenta" l'uomo interiore. Tale rinuncia, tale mortificazione deve servire a creare nell'uomo le condizioni per poter vivere i valori superiori, di cui egli è, a suo modo, "affamato"».

La Carità. Anche in questo caso lascio la spiegazione a Papa Benedetto XVI che al n° 18 della sua Enciclica "Deus caritas est" tra l'altro dice: «Se il contatto con Dio manca del tutto nella mia vita, posso vedere nell'altro sempre soltanto l'altro e non riesco a riconoscere in lui l'immagine divina. Se però nella mia vita tralascio completamente l'attenzione per l'altro, volendo essere solamente "pio" e compiere i miei "doveri religiosi", allora s'inaridisce anche il rapporto con Dio. Allora questo rapporto è soltanto "corretto", ma senza amore. Solo la mia disponibilità ad andare incontro al prossimo, a mostrargli amore, mi rende sensibile anche di fronte a Dio. Solo il servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa per me e su come Egli mi ama».

Concludo richiamando la tradizionale colletta diocesana "Un pane per amor di Dio" e le "statio quaresimali": è anche questo un modo per sentirci Chiesa locale in cammino, in comunione con il nostro Vescovo e i nostri fratelli. (Mons. Orlando Barbaro, Gente Veneta, 9/2006)

 

 

 


 

Embrione umano:

considerazioni ontologiche e statuto etico-giuridico

 

Nell’aula Giovanni Paolo II in Vaticano ha avuto luogo la Conferenza Stampa di presentazione del Congresso Internazionale "L’embrione umano nella fase del preimpianto. Aspetti scientifici e considerazioni bioetiche" che si terrà in occasione della XII Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita.

Di seguito riportiamo l’intervento pronunciato in questa occasione dal professor Adriano Bompiani, Ginecologo, Direttore dell’Istituto Scientifico Internazionale (ISI), Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

Premessa

Per attribuire uno "statuto giuridico" all’embrione, occorre "conoscere" la "natura" dello stesso.

Tuttavia, la "conoscenza" – per essere tale e corrispondere per quanto è possibile alla "realtà" – non può prescindere dall’approfondimento della "natura" dell’oggetto considerato e cioè deve basarsi su un chiarimento ontologico.

Deputata a questo processo – se prendiamo in considerazione l’embrione umano nelle fasi assolutamente precoci del suo sviluppo (allorché non si è ancora impiantato nell’utero materno) – è l’embriologia, negli apporti genetici, morfologici, biochimici e di biologia molecolare che oggi essa può offrire.

Non è sufficiente – oggi – esaminare l’embrione con la sola ispezione al microscopio, ma (sempre che si voglia conoscerlo veramente) occorre servirsi di tutti gli apporti che le scienze sopra nominate hanno dato – da qualche decennio a questa parte – alla di lui conoscenza.

Nell’affrontare tale "ricognizione" ci si imbatte con i concetti di vita umana; essere umano; individuo umano; persona. Riflettere su questi concetti è - ovviamente – lo scopo del chiarimento ontologico; ma (a mio modesto modo di vedere) ciò va fatto dopo aver ben descritto e compreso ciò che si verifica nel corso di poche ore, ad iniziare dall’incontro fra un ovocita ed uno spermatozoo viventi e appartenenti alla specie uomo.

Questa descrizione – necessariamente molto sommaria nel tempo di esposizione oggi disponibile – è il compito che mi è stato affidato e che mi auguro possa essere approfondito con le Loro domande.

1. La preparazione dei gameti alla fecondazione

L’evento determinante viene chiamato "fecondazione" (o fertilizzazione dell’ovocita, in talune espressioni anglosassoni). Questo "avvenimento" (degno appunto nel linguaggio umanistico e morale di definirsi "evento") è – biologicamente – considerato e descritto come un "processo" – che si svolge in tempi circoscritti, limitati e ben cadenzati – perché è costituito da fasi successive che portano al risultato che "due cellule sessuali (gametiche e di sesso diverso) si fondono una con l’altra per dar luogo ad un individuo con potenzialità genetiche derivate da ambedue i genitori" (GILBERT, 2000).

Protagonisti diretti della fecondazione sono due cellule gametiche di sesso diverso. Le cellule gameticherappresentano elementi vitali particolari, rispetto alle altre cellule dell’organismo, perché posseggono una singolare teleologia, dimostrata non solamente dagli adattamenti morfologico-funzionali, ma perché – uniche fra tutte le cellule dell’organismo – sono dotate a questo scopo solo di metà del patrimonio cromosomico (corredo aploide) necessario alla costruzione del "sistema genetico" del nuovo essere (corredo diploide).

Il dimezzamento del numero dei cromosomi in ogni gamete avviene con un processo denominato meiosi, che si svolge in due fasi (meiosi I e meiosi II): nello spermatozoo maturo ambedue le fasi sono completate prima della eiaculazione; nell’ovocita maturo è avvenuta solamente la meiosi I, ma la fase successiva (meiosi II) si verificherà solamente se l’ovocita sarà stato penetrato dallo spermatozoo (o sperimentalmente attivato con stimoli artificiali).

La preparazione funzionale di ciascuna delle cellule gametiche al compito della reciproca fusione – se mai avverrà l’incontro – è particolarmente laboriosa (soprattutto per la linea gametica femminile, costituita dagli ovociti), inizia per tempo e deve portare (in natura) ad una piena maturazione per l’esercizio corretto della finalità.

La maturazione è completa nell’ovocita al momento della ovulazione spontanea, e corrisponde al concetto di "competenza" di questo gamete alla fecondazione (cioè fecondabilità); mentre il raggiungimento della piena competenza dello spermatozoo si ottiene - durante la sua ascesa nelle vie genitali femminili dopo il rapporto coniugale – con il fenomeno denominato "capacitazione".

Il tempo limitato dell’esposizione non consente di esporre molti dettagli, su questi essenziali fenomeni.

Affinché i due gameti – maschile e femminile – possano incontrarsi e interagire nel processo di fecondazione è necessario, ovviamente in natura, che vi sia l’ovulazione (e cioè la liberazione e l’espulsione dell’ovocita all’esterno del follicolo ovarico in seno al quale esso è maturato); dopo di che l’ovocita è come risucchiato nel padiglione tubarico che si è accostato all’ovaio ovulante.

Ma l’ovocita non è solo; è ancora circondato da una serie avvolgente di cellule che lo hanno sostenuto, nutrito e stimolato alla maturazione, e cioè le cellule del cumulo ooforo, che dovranno disfarsi e negli interstizi delle quali dovranno insinuarsi gli spermatozoi che si dirigono verso l’ovocita.

E’ ben noto che il fenomeno dell’ovulazione ha un ritmo periodico durante il ciclo mensile femminile, definendo la fase fertile dalla fase non fertile. L’incontro tra ovocita ovulato e spermatozoo avviene – sempre in natura, ove vi sia stata l’eiaculazione in vagina nella fase fertile del ciclo – di regola nel padiglione tubarico, ove poche migliaia di spermatozoi maturi e mobili sono pervenuti – rispetto a qualche milione di deposti in vagina – percorrendo in poco tempo un viaggio di circa 15 cm.

2. Le fasi del processo di fecondazione

Inizia la fecondazione, che vorrei descrivere con qualche maggiore dettaglio e nei tempi secondo i quali si realizza. Diciamo "tempo O" il momento del "contatto ravvicinato" fra spermatozoo (che ha superato il cumulo ooforo) e la superficie esterna dell’ovocita.

Si riconoscono le fasi seguenti:

a). adesione, fissazione della testa spermatica (che contiene il nucleo portatore del corredo cromosomico maschile) alla superficie villosa dell’ovocita e penetrazione attiva di uno spermatozoo nella zona pellucida (membrana collosa protettiva che circonda l’ovocita). Questa prima fase si compie in 30-40 minuti circa dall’incontro-adesione alla superficie esterna della zona.

b). fusione delle membrane cellulari dello spermatozoo e dell’ovocita una volta che lo spermatozoo ha superato lo strato gelatinoso della zona, con scivolamento del nucleo maschile nell’interno dell’ovocita (a 45-60 minuti dall’incontro). Questo avvenimento determina:

a) attivazione immediata del metabolismo dell’ovocita: si producono oscillazioni del Calcio che provocano in pochi secondi la chiusura dello spazio corticale ovocitario alla penetrazione di altri spermatozoi, ed ha luogo in breve tempo il completamento della meiosi II ovocitaria;

b) segue la rimozione delle membrane che avvolgono i nuclei maschile e femminile, la decondensazione dei cromosomi, la sostituzione in essi di alcuni costituenti della cromatina etc.. Dopo una fase in cui i nuclei decondensati non sono visibili, si delineano di nuovo al microscopio i due aggregati di cromosomi (uno maschile, uno femminile), che ora i biologi hanno chiamato "pronuclei"(maschile e femminile), ancora distanti tra loro, ma che appaiono ora ricoperti da nuove membrane porose – fabbricate con proteine di origine ovocitaria, cioè materna- atte agli scambi di sostanze. L’orologio dello sviluppo segna che son trascorse da 2 a 8 ore dall’incontro ravvicinato (ora O), a seconda della capacità intrinseca di sviluppo del nuovo essere, cui viene dato da molti biologi il nome di zigote.

Prosegue il processo:

c) si forma nel citoplasma, ad opera del "centriolo" d’origine maschile – che è penetrato nell’ovocita assieme al nucleo maschile - l’apparato contrattile-fibrillare di microtubuli. Questi si dispongono a raggiera attorno ai nuclei e si agganciano ai cromosomi (cosidetta formazione del fuso). Per azione delle proteine contrattili dei microtubuli i due pronuclei vengono gradatamente attratti uno verso l’altro (da 8 a 17 ore dall’incontro ravvicinato). I due nuclei, ormai venuti a contatto, vengono denudati delle membrane nucleari, cosicché si liberano di nuovo i cromosomi in esso contenuti;

d) è il momento in cui si replicano i cromosomi, che si distribuiscono (appaiati gli omologhi, maschile e femminile), allineati nell’equatore del fuso mitotico (da 15 a 30 ore dall’incontro);

e) si forma un solco nel citoplasma periferico e nella corticale di questa grossa cellula (che da taluni viene chiamata ancora zigote, da altri embrione unicellulare) solco tangenziale alla direzione dell’equatore del fuso. Questo solco approfondendosi progressivamente porta infine alla formazione di due cellule, in ciascuna delle quali viene attratto uno dei "set" duplicati dei cromosomi (da 16 a 35 ore dall’incontro).

A questo punto, il processo della fecondazione è terminato. Si sono formati i due blastomeri (così si chiamano le cellule delle prime 2 o 3 divisioni cui va incontro proseguendo lo sviluppo l’embrione); blastomeri che presentano ancora una capacità di dare origine ciascuna ad un processo di differenziamento embrionale autonomo. Questa capacità viene definita "totipotenza" ed è alla base della gemellarità monozigotica, che si produce se viene a mancare la coesione fra i blastomeri o subito, o nel corso del successivo precoce sviluppo dell’embrione.

Nelle ore e nei giorni successivi prosegue lo sviluppo senza interruzione di continuità, dando luogo alla "morula" (4-16 cellule al 3°-4° giorno, a partire dall’ora O), ove i singoli blastomeri dialogano fra loro attraverso il contatto superficiale ed i numerosissimi microvilli della parete esterna; poi si verifica il fenomeno della "compattazione" dell’embrione (ove le cellule si stringono fra loro scambiando ponti cellulari e sostanze induttrici), infine si perviene alla blastocisti (4°-5° giorno dall’inizio del processo della fecondazione), in cui si delinea una massa cellulare interna che darà luogo alla "corporeità" del nuovo essere in senso proprio ed uno strato più esterno, laminare, che produrrà lo sviluppo degli annessi ovulari e la placenta, necessaria all’impianto ed alla nutrizione dell’embrione. Ormai, fisiologicamente, siamo al 6°-7° giorno, e l’embrione (blastocisti) trasportato dalle correnti fluide lungo la tromba è ormai arrivato nella cavità uterina, ove a partire dal 7° giorno si impianta.

3. Una riflessione finale sulla biologia dello sviluppo dei primi sette giorni

Cessa a tal punto la nostra pur sommaria descrizione dei "primi 7 giorni", ma viene il momento della riflessione finale. Questa si articola nel riconoscimento di alcuni "principi" biologici che emergono dalla descrizione dello svolgimento dei fatti.

1) Sul piano razionale, si può riconoscere il momento di inizio del processo che dà luogo all’origine di un nuovo "essere umano" nell’incontro fra uno spermatozoo ed un ovocita della stessa specie. Con la penetrazione del nucleo (testa dello spermatozoo) e del tratto intermedio che porta con sé il centriolo, il quale come abbiamo visto avrà ruolo determinante nella formazione del fuso) e con la conseguente "attivazione" dell’ovocita che la penetrazione determina, inizia - nel tempo e nello spazio – uno sviluppo umano (che potrà proseguire se supererà molti ostacoli, attraverso una indubbia perdita naturale, di cui è tuttavia difficile accertare l’entità). Con la penetrazione dello spermatozoo nell’ovocita, l’essere che ne risulta si costituisce paritariamente con un apporto ereditario paterno, che si affianca all’apporto genetico materno già presente nell’ovocita.

Lo svolgersi della seconda fase della meiosi ovocitaria dopo l’entrata della testa spermatica non interferisce con l’apporto aploide materno, perché il nucleo maschile è ancora "segregato" e compatto e perché il crossing-over (scambio fra cromatidi) è già avvenuto nella prima divisione meiotica. Ma subito dopo l’ingresso nell’ovocita (superamento della membrana ovocitaria), il nucleo maschile subisce profonde modificazioni biochimiche molecolari, che vengono a predisporre la funzione (genetica) che il genoma maschile inizierà subito a svolgere. Con l’accoppiamento dei due set cromosomici nella piastra equatoriale e la distribuzione paritaria degli omologhi nei primi due blastomeri, inizia l’attività della nuova combinazione genica, che si renderà – con i mezzi attuali di indagine disponibili – evidente già allo stadio di 4 blastomeri.

2) La biologia e più in particolare l’embriologia, forniscono la documentazione di una definita direzione di sviluppo: ciò significa che il processo è "orientato" – nel tempo – nella direzione di una progressiva differenziazione e acquisizione di complessità e non può regredire su stadi già percorsi.

3) Un ulteriore punto acquisito con le primissime fasi di sviluppo è quello dell’" autonomia" del nuovo essere nel processo di autoduplicazione del materiale genetico.

4) Strettamente correlate alla proprietà della "continuità" sono anche le caratteristiche di " gradualità" (il passaggio necessitato nel tempo da uno stadio meno differenziato a quello più differenziato) e di " coordinazione" dello sviluppo (esistenza di meccanismi che regolano in un insieme unitario il processo di sviluppo).

Queste proprietà – all’inizio quasi trascurate nel dibattito bioetico – vengono sempre più considerate importanti in epoca recente, a motivo delle progressive acquisizioni che la ricerca in vitro offre sulla dinamica dello sviluppo embrionale anche nelle fasi morulari che precedono la formazione della blastocisti. L’insieme di queste tendenze costituisce la base per interpretare lo zigote già come un "organismo" primordiale (organismo monocellulare) che esprime coerentemente le sue potenzialità di sviluppo attraverso una continua integrazione dapprima fra i vari componenti interni e poi fra le cellule cui dà progressivamente luogo. L’integrazione è sia morfologica che biochimica. Le ricerche in corso già da qualche anno non fanno che apportare sempre ulteriori "prove" di queste realtà.

5) Per l’esatta comprensione dei fenomeni che si verificano in questa fase (precoce) dello sviluppo è necessario ricordare ancora due "proprietà" dell’embrione, che a prima vista appaiono fra loro sostanzialmente antitetiche: la " totipotenza dei blastomeri" e la " progressiva determinazione cellulare".

Di fronte al fenomeno della totipotenza dei (primi) blastomeri, è stata sostenuta la impossibilità logica della coincidenza fra zigote e individuo, affermando che non c’è sicurezza di individuazione sino a che non si è formata la stria primitiva e i differenziamenti connessi.

A tale obiezione, si è risposto anzitutto ricordando che il fenomeno della gemellarità monozigote è – nell’uomo – l’eccezione rispetto alla norma dello sviluppo embrionale (1:280 circa per i monozigoti, il caso più semplice), mentre è la regola in specie più lontane. Come è noto, il fenomeno può essere riprodotto - sperimentalmente - nelle specie in cui la poliembrionia è accidentale mediante la separazione ad arte dei blastomeri; ma può in natura verificarsi spontaneamente quasi per una gemmazione (o scissione) dal primitivo embrione; e questo è un argomento a favore della genesi del gemello monozigote attraverso il "distacco" di uno o più blastomeri dall’individuo "iniziale" (riproduzione per gemmazione di una "copia genetica" del primitivo individuo), con la continuazione dello sviluppo autonomo dell’uno secondo il programma genetico previsto e inizio dello sviluppo dell’altro individuo dal blastomero totipotente distaccato (SERRA, 1989). Si ipotizza anche che ad un unico "piano di sviluppo", caratterizzato da "campi genetico-biologici" di influenza nell’ambito del determinismo cellulare, si sovrapponga (per qualche irregolarità sopravvenuta, quali ad es. un crossing-over mitotico) un secondo piano di sviluppo che influenza un nuovo campo di determinazione cellulare. Ciò è possibile, s’intanto che è presente un sufficiente grado di "totipotenza".

Secondo altre osservazioni, il fenomeno della gemellarità monozigotica può verificarsi anche in epoca più tardiva. Ciò sembrerebbe sostenuto da alcune osservazioni condotte anche nella specie umana, con la coltura prolungata della blastocisti: allorché questa fuoriesce dall’involucro della membrana di glicoproteine che l’avvolge (la già richiamata "zona", attraverso la quale è penetrato 6 giorni prima lo spermatozoo e all’interno della quale si sono svolti tutti i fenomeni già descritti). La blastocisti può deformarsi per la compressione indotta sui bordi più rigidi del foro di apertura della zona, cosicché il nascente nucleo cellulare interno può essere meccanicamente indotto a dividersi in due aggregati.

Oppure, tale divisione del nucleo cellulare interno (le cellule che daranno luogo alla corporeità del nuovo essere), può avvenire poco tempo dopo. In ogni caso, si tratta sempre di "eccezioni alla regola" che non infirmano – sul piano biologico-naturale – il rapporto costitutivo di fusione fra un ovocita ed uno spermatozoo. (Cfr. Zenit, 24 febbraio 2006)

 

 

 


 

Maschio e femmina: non guerra, ma amore e pace

 

Commento e testo integrale della Lettera dell’allora card. Ratzinger ai vescovi sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo. Il femminismo radicale - che vede la donna come antagonista dell’uomo – e l’ideologia del “genere” - che fa del sesso un semplice elemento culturale di propria scelta – sono le tendenze che stanno distruggendo l’uomo, la donna, la famiglia, la società.

A lanciare il grido di allarme è stato l’allora card. Jozef Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, in una “Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo”, che riproponiamo, pensando sia utile ritornare su argomenti di attualità.

Va detto subito che la Lettera non è un anatema oscurantista contro perniciose tendenze contemporanee: essa è soprattutto un racconto di come è possibile guardare alla donna e all’uomo, al sesso e all’amore fisico, all’impegno nella società di maschi e femmine in modo positivo e creativo, non come un campo di battaglia fra due fazioni, ma come “collaborazione attiva…nel riconoscimento della loro stessa differenza” (n.1).

Secondo il card. Ratzinger, il femminismo radicale si è trasformato in un suicidio per la donna. Partito dal tentativo di liberare il mondo femminile dalla “subordinazione”, ha cercato di rispondervi “con una strategia di ricerca del potere”, con una “rivalità tra i sessi”, fino a minare la vita della donna e la struttura della famiglia.

Agli antipodi di questa concezione di una “ricerca di sé” solitaria e sterile, vi è la concezione biblica fondata sul libro della Genesi, dove Dio crea l’uomo “maschio e femmina”, che “significa il superamento dell’originaria solitudine”. Ratzinger ricorda il tema biblico della “nudità”, vissuta non come una sfida o una esibizione, ma come “una differenza vitale…orientata alla comunione e vissuta in modo pacifico” (n. 6).

Oltre alla rabbia sterile del femminismo radicale, viene affrontato un altro problema: è quello del “genere”, divenuto in questi anni il cavallo di battaglia di molti documenti Onu sulla donna e la famiglia. Per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, “la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata”, si tende a cancellare le differenze, equiparando omosessualità ed eterosessualità, suggerendo che la persona umana può “modellarsi a suo piacimento”, liberandosi “dai propri condizionamenti biologici” e scegliendo il proprio genere in “un modello nuovo di sessualità polimorfa” (nn. 2 - 3). Si riconosce qui l’accenno a tutte le lotte che avvengono - soprattutto in occidente  - per la parità fra eterosessualità e omosessualità, lesbismo e transessualità.

Anche per questo elemento, la Lettera ritorna al libro della Genesi, dove il corpo umano, segnato dal “sigillo della mascolinità o della femminilità”, segna anche il destino della persona umana che “diventa dono”, un esistere “per l’altro” (n. 6). L’uguale dignità delle persone – si afferma nella Lettera – “si realizza come complementarietà fisica….La sessualità….non può essere ridotta a puro e insignificante dato biologico, ma è una componente fondamentale della personalità, un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri, di sentire, di esprimere e di vivere l’amore umano” (n. 8).

Citando vari passi biblici, fino all’Apocalisse, Ratzinger mostra che “il maschile e il femminile” restano tali “nel cuore stesso dell’eternità”, per sempre e il rapporto che celebra “la bellezza dei corpi e la felicità della ricerca reciproca” esprime “ciò che vi è di più umano” e  “ciò che vi è più divino” nella storia dell’uomo e del suo destino.

Come si è giunti alla lotta, alla guerra fra i sessi, a una ricerca sterile e senza volto di sé? Sulla scia del libro della Genesi, Ratzinger suggerisce che la radice di tutto è l’ateismo, la cancellazione della differenza “tra Dio e l’umanità”. Quando si considera “Dio come nemico”, la relazione fra uomo e donna si perverte. L’amore diventa ricerca di sé (e non dono); il rapporto fra i sessi diviene dominio reciproco (e non collaborazione). Nello stesso tempo - egli dice -  se la relazione uomo-donna è deteriorata, anche l’accesso al volto di Dio viene compromesso (cfr. n. 7).

Un importante capitolo della lettera , il 3°, è dedicato all’urgenza di testimoniare i valori femminili nella società. Grazie al “genio della donna” si generano figli – non solo in termini biologici – che vivono amore e rispetto; “si plasma il volto di un popolo”; si immette nella società una capacità di “resistere nelle avversità, ... di conservare un senso tenace del futuro” (n. 13). Questa capacità femminile di “vivere per l’altro”, rende la promozione della donna una strada per umanizzare la società, facendole riscoprire a tutti – anche ai maschi - i valori testimoniati dalle donne. In questo senso vi è una preminenza della donna come fonte del bene sociale. Allo stesso modo, nella Chiesa, la donna – e Maria come modello – è l’immagine vera del cristiano. Essa testimonia “il segreto dell’amore che trionfa”. In questo senso le donne sono “modelli e testimoni insostituibili per tutti i cristiani”, anche per i sacerdoti e i vescovi. Per questo, esse pur non essendo sacerdoti, “sono nel cuore della vita cristiana” (n. 16).

Se si vuole salvare la società, divenuta un luogo di violenza senza speranza, occorre che  cristiani e uomini e donne “di buona volontà”, riscoprano la loro identità originaria, la loro uguale dignità e complementarietà che li rende “immagine di Dio”. Insieme a questo occorre una “conversione”, la fede nel Cristo crocifisso e risorto. Senza di questo “la forza del peccato… porterebbe a far disperare della bontà della coppia”; grazie alla fede, la Chiesa conosce “la forza del perdono e del dono di sé, malgrado ogni ferita e ingiustizia” (n. 17).

Anche la società si deve convertire “culturalmente”: deve inventare soluzioni per permettere alla donna di integrare vita in famiglia e lavoro; dando spazio al contributo femminile nelle imprese e soprattutto “valorizzando il lavoro svolto dalla donna nella famiglia” (n. 13), riconoscendone il valore sociale ed economico. (Bernardo Cervelliera in Asianews, 2004)

 

 

 


 

La strada senza uscita dei Patti Civili di Solidarietà

 

Dopo la Toscana, dopo le aperture di Emilia-Romagna e Calabria, dopo il progetto di legge annunciato dal Piemonte, anche Puglia e Umbria nelle scorse settimane si sono pronunciate a favore dei Patti Civili di Solidarietà. I famosi PaCS. Che sono divenuti in pochi anni il vero emblema dei “nuovi diritti civili”, garanzia di sicuro progressismo e di “libertà”.

È interessante la tendenza di certa parte del mondo culturale – e politico – a considerare “avanzato” tutto ciò che, in varia misura, si discosta dall’idea di “tradizione”, come se bastasse sostenere qualcosa di diverso rispetto al passato per ottenere un maggior bene, una prospettiva migliore. È in fondo il classico mito progressista che vede nel nuovo, nel “diverso” e nel “successivo”, semplicemente in quanto tali, il segno indiscutibile del progresso. Prescindendo quasi completamente dai contenuti.

Si tratta, a ben vedere, di un atteggiamento fondamentalmente acritico, anche se nel dibattito pubblico si gonfia spesso di un criticismo acceso, a tratti di visibile stizzosità. Così, prevedibilmente, c’è andata di mezzo la famiglia, che in modo evidente riassume in sé tutte le “pecche” denunciate dai nuovi progressisti: è tradizionale, è un’istituzione naturale e ha sempre – almeno in Italia – un qualcosa di cattolico.

L’idea sottesa ai Pacs è più maliziosa di quanto possa a prima vista sembrare. Per molti, infatti, si tratta unicamente di prendere atto della molteplicità di coppie di fatto che esistono nel nostro paese, e di garantire alcuni servizi e diritti anche a questo tipo di unioni, soprattutto quando mostrano una certa stabilità e la volontà di assumersi determinati impegni, come acquistare una casa, mettere al mondo un bambino, prendersi cura dell’altro in caso di malattia.

Sembra talora che si chieda unicamente un minimo di riconoscimento a questi “patti di solidarietà” che due persone possono stringere in virtù di un legame affettivo. E che, per converso, chi osteggia tali riconoscimenti sia un dogmatico oltranzista e ottuso che, incurante dei segni dei tempi, si accanisce nel discriminare ingiustamente categorie innocue e poco tutelate.

Eppure, se solo ci si ferma un istante a riflettere, ci si rende facilmente conto dell’irrazionalità di una legittimazione legale alle coppie di fatto. Intanto, per una questione banalmente semantica: se si chiamano “coppie di fatto” perché le si vuole trasformare per forza in coppie “di diritto”?

L’espressione coppie o unioni di fatto nasce in opposizione alle forme legalizzate e civilmente sancite di convivenza fra due persone di sesso diverso che si promettono amore e aiuto reciproci, assumendo i diritti e di doveri di tale condizione. In altre parole, nasce in opposizione al concetto di matrimonio, religioso o civile.

Chi sceglie la libera convivenza, come preludio o in sostituzione del matrimonio, lo fa proprio perché esclude – temporaneamente o permanentemente – la vita coniugale. Qualcuno, i più ideologizzati, la scelgono in aperta polemica con l’istituto del matrimonio, che ritengono una semplice formalità, un modo esteriore e invadente di entrare nelle scelte più intime delle persone. Le nozze, in questo senso, sono considerate una violazione della privacy (perché devo dichiarare davanti a tutti quello che provo e le mie intenzioni verso questa persona?) e un gesto di appariscente vanità (perché devo fare tutta questa messinscena quando poi lo sanno tutti che l’amore può finire?).

È una scelta che, al di là del suo valore etico e delle coordinate culturali entro le quali si può spiegare, alcune persone fanno. E ciò si impone come un dato di fatto. Ma comporta una conseguenza logica: la libertà - intesa come mera assenza di vincoli - della convivenza si traduce inevitabilmente in una minore fiducia da parte della società rispetto alla stabilità dell’unione, di cui dubitano anche gli stessi protagonisti, o comunque su cui non sono disposti a scommettere davvero. I conviventi decidono fondamentalmente di stare insieme “finché dura”, finché “si sta bene”, mentre quando la relazione “non funziona più” deve essere semplice e indolore la separazione.

Questa tipologia di persone non vuole affatto legalizzare in qualche modo la convivenza. Lo dimostrano i registri delle coppie di fatto aperti da varie regioni sul territorio nazionale: hanno suscitato un richiamo bassissimo, e delle poche coppie registrate la maggior parte si è già disciolta, e non ha voluto ripetere l’inutile esperimento con un altro partner.

Un articolo apparso sul quotidiano “Avvenire” presentava alcuni giorni fa alcuni dati a riguardo: ad Arezzo, il primo comune italiano che ha istituito il registro dieci anni fa, si sono iscritte inizialmente sette coppie, una delle quali ha trasformato l’unione in matrimonio, mentre “altre cinque si sono dissolte. A quest’estate solo una coppia risultava iscritta” (Un fallimento i registri nei Comuni, “Avvenire”, 8 febbraio 2006, p. 13). Le cose non sono diverse in altre parti d’Italia dove è stata seguita questa via.

Quali sono dunque i diritti di cui verrebbero privati gli “uniti di fatto”? L’unico diritto che viene da essi invocato con forza è in qualche modo il diritto a non sposarsi, e per coloro che assumono tale prospettiva è del tutto superfluo costituire altre figure giuridiche di riconoscimento. Perché proprio questo intendono evitare: il pubblico riconoscimento.

Tutelare il matrimonio e la famiglia (fondata sul matrimonio) è un bene, che corrisponde anche ad un preciso interesse dello Stato, e per questa ragione lo Stato istituisce misure a favore delle famiglie. Tali misure sono peraltro oggi totalmente insoddisfacenti, con un chiaro riflesso sull’andamento demografico del nostro paese, che permane in un vistoso e inquietante calo.

Sul quotidiano canadese “National Post” del 18 febbraio è apparso un lungo articolo dai toni drammatici: descrive il preoccupante calo demografico del Canada che, secondo le proiezioni effettuate, nel 2015 potrebbe avere un indice di fertilità compreso fra 1,7 e 1,3 figli per donna, ampiamente sotto la percentuale del 2,1 indicata come sufficiente a garantire il rimpiazzo generazionale (A.M. Owens, A childless culture, “National Post”, 18 febbraio 2006). In Italia siamo da tempo fermi a 1,2.

Urgono dunque immediate politiche a favore del matrimonio, della famiglia e della natalità, che certamente si risolleverebbero se si adottassero misure adeguate. Ma per farlo occorre anche capire che cosa è una famiglia, quale sia il carico di gioie e di dolori che porta con sé, e quali siano dunque i problemi che deve quotidianamente affrontare per proseguire la sua importante opera sociale ed educativa.

La stragrande maggioranza delle coppie di fatto rifugge le responsabilità, le fatiche, i doveri, i vincoli del matrimonio, ed è perfettamente consapevole di questo fatto. È disposta a rinunciare anche alle gioie, alla sicurezza, ai diritti e ai riconoscimenti del matrimonio per il timore degli aspetti ritenuti negativi. E non volendo dare nulla, non può pretendere incoraggiamenti e agevolazioni. In un certo senso, si è già auto-agevolata.

Determinate agevolazioni – troppo poche, come si è detto – hanno senso precisamente perché si rivolgono alle famiglie fondate sul matrimonio, eterosessuale e monogamico. Altrimenti non hanno alcun senso sociale. Possono al massimo fornire benefici e interessi individuali. Ma non ha senso battersi per interessi privati come fossero appunto “diritti civili”.

Il riconoscimento di specifici diritti a chi si sposa, invece, è più che ovvio. La società deve molto alle famiglie fondate sul matrimonio; anzi, la sua stessa vita è legata alla loro sopravvivenza. Chi si unisce in un legame matrimoniale, infatti, è generalmente disposto a mettere al mondo dei figli e ad educarli fino a quando avranno preso il loro posto nella società. Le famiglie insomma alimentano la società e costituiscono le sue stesse fondamenta.

Il tipo di mutuo aiuto che i membri della famiglia assumono gli uni verso gli altri implica una struttura dinamica in cui è possibile per le nuove generazioni apprendere il valore del lavoro, i fondamenti dell’economia, il senso della progettualità, e molte altre cose. In altre parole, rappresenta il luogo ideale in cui si acquisiscono naturalmente le virtù necessarie ad una sana convivenza civile.

Né vale obiettare che al giorno d’oggi le famiglie sono deboli, si dividono, si trasformano in luoghi violenti e addirittura patogeni, in cui si consumano azioni aberranti. Queste osservazioni richiamano unicamente il bisogno di formare e rafforzare le famiglie, di aiutarle a crescere, ma non ne modificano l’essenza e la fondamentale missione. La famiglia fondata sul matrimonio, pur traballante e piena di storture, continua a rappresentare il luogo proprio in cui ogni essere umano dovrebbe – e vorrebbe – nascere e crescere.

Se dunque questa è la situazione delle famiglie, che “servono” alla società civile, perché questa morbosa insistenza sul rafforzamento dei PaCS, fino al punto da equipararli a veri e propri nuclei famigliari, al di là degli stessi desideri dei “conviventi”? E’ sempre più chiaro che vi sono al fondo intenzioni più profonde, di radicale fraintendimento e di suicidario attacco all’idea di famiglia.

Lo dimostra una sorprendente caratteristica dei PaCS, ovvero il riconoscimento del “ripudio”. Per ripudio si intende l’allontanamento di un coniuge in una sorta di “divorzio unilaterale”. Ebbene, secondo il progetto della regione Umbria “l’unione di fatto è sciolta anche per volontà di un solo contraente”. Come osserva Assuntina Morresi, “davanti a un ufficiale di stato civile, senza testimoni stavolta, è sufficiente che si presenti, di nuovo, anche uno solo dei due per dichiarare la propria decisione. L’unione è sciolta. Un divorzio breve per un quasi matrimonio” (A. Morresi, Pacs, l’Umbria tenta la fuga in avanti, “Avvenire”, 8 febbraio 2006, p. 13).

Molto acutamente, l’arcivescovo di Perugia, S.E. Mons. Giuseppe Chiaretti, e prima di lui l’arcivescovo di Lecce, S.E. Mons. Cosmo Francesco Ruppi, hanno parlato di un insidioso cavallo di Troia, per far passare ciò che la società non vuole. Ovvero il riconoscimento delle coppie omosessuali e l’equiparazione del loro legame al matrimonio. In nessuna legge o progetto di legge regionale sui PaCS, infatti, si escludono mai le unioni “gay”.

Ufficialmente per evitare “ogni discriminazione”. Ma senza tenere conto che, in realtà, le differenze esistono: esistono in natura, esistono nelle scelte individuali, esistono nel cuore degli uomini. Non si può non tenerne conto, e agire nell’indifferenza più completa. Occorre ovviamente combattere le ingiuste discriminazioni, e tuttavia, come si è visto, non pare che una unione “libera” possa mai avere le stesse caratteristiche e la stessa forma giuridica di un matrimonio, nemmeno quando sia eterosessuale e dunque più simile ad una struttura familiare naturale e “socialmente utile”. Nelle unioni fra omosessuali la lontananza è ancora maggiore, e costituisce uno stravolgimento totale del matrimonio stesso.

Il messaggio dei PaCS è dunque chiaro, e la gente lo deve sapere: considerare indifferentemente ogni tipo di unione, anche fra persone dello stesso sesso, equivale ad affermare che non esiste più alcun matrimonio. La metodologia dei PaCS è quella di configurare uno sconfinato e contorto viluppo di “unioni”, le più improbabili, al semplice scopo di indebolire e vanificare la forza e la tenacia delle famiglie, quelle vere, reali, quelle su cui la gente comune ancora sa di poter contare per potere continuare a guardare con fiducia all’avvenire. (Claudia Navarini, docente presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum)

 

 

 


 

 Omosessualità, parole da chiarire

 

Il seminario in corso in questi giorni presso la Pontificia Università Lateranense, affronta un tema quanto mai attuale e complesso: «La questione omosessuale: psicologia, diritto e verità dell'amore».

«Il problema è reso attuale da quei movimenti che cercano di dare una rappresentazione politica, sociale e giuridica a quella che chiamano omosessualità e lo fanno sul piano della rivendicazioni dei diritti: un collo di bottiglia che porta a impostare il problema a prescindere dalla realtà del fenomeno», spiega Mario Binasco, docente di Psicologia e di psicopatologia dei legami familiari del Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II», che ha organizzato il seminario. Questo significa che «l'omosessualità oggi è diventata un'insegna attorno alla quale fare gruppo e costruire recinti. Dal '68 in poi, tutti i movimenti di rivendicazione che arrivano alla scena pubblica, lo fanno contro qualcosa o qualcuno che, nella loro analisi, limita la libertà. Su questo tema hanno identificato la Chiesa come il nemico da battere».

Ecco dunque le polemiche sulla Chiesa che vorrebbe «fermare la cultura gay», o che difende posizioni liberticide non volendo riconoscere alle coppie omosessuali il matrimonio o la possibilità di adottare bambini. Posizioni che nascono da una duplice semplificazione: della realtà dell'omosessualità da una parte, della posizione della Chiesa dall'altra. La Chiesa, sempre attenta alle persone più che alle categorie, «non vuole "fermare la cultura gay" - spiega Binasco -, semmai vuol comportarsi come davanti a ogni realtà umana: interrogandola, perché renda conto di sé. Ma per questo occorrono luoghi appropriati: le manifestazioni non sono situazioni in cui ci si interroga, semmai sono occasioni di schieramento attorno a parole d'ordine che lasciano poco spazio alle esperienze soggettive».

Le generalizzazioni, le omogeneizzazioni sotto un'unica etichetta sono pericolose: «Esistono solo le persone singole, ognuna delle quali ha il proprio problema. Cosa farsene del proprio corpo? Cosa farsene del sesso? Ognuno cerca una risposta personale. Non ce ne accorgiamo ma queste categorie, come quella di "omosessuali", creano nuovi recinti, nuovi lager, in cui ognuno è costretto a sopravvivere pur avendo perso la propria identità».

E attenzione: «Per definire l'omosessualità la Chiesa non parla mai di malattia, né di normalità. Non esiste documento della Chiesa in cui si definisca che cosa è normale e che cosa non lo è. Del resto, il concetto di malattia è un'eredità del discorso medico che ha preso forma nell'Ottocento e quello di normalità è figlio della medicalizzazione della politica operata dal Settecento in poi. Possiamo dire che tutti gli esseri umani sono in qualche modo bizzarri, ma ciascuno ha un compito nella vita. Per la Chiesa, piuttosto, c'è un orientamento nei rapporti con l'altro, e quindi anche nell'amore, che può essere più o meno corrispondente al disegno di Dio. Del resto la Chiesa sa bene che il reale esiste, ma va al di là di quello che sembra essere. Per questo offre alle persone mezzi per leggere l'esperienza».

Peraltro la costruzione dell'identità sessuale è un processo complesso, in cui «la presenza di un desiderio o di una infatuazione omosessuale è un fatto abbastanza variabile, e non raro. Ma l'assunzione di un orientamento è altra cosa, è un processo lungo. Non sempre si vuole ciò che si desidera, e un sintomo non è un destino: vale per questo come per altri problemi». Su questo tema è intervenuto, ieri mattina, Tony Anatrella, psicoanalista parigino e specialista in psichiatria sociale, secondo il quale «l'omosessualità non è una variante della sessualità umana, che si pone sullo stesso piano dell'eterosessualità, ma è l'espressione di una tensione all'interno di una tendenza in discontinuità con l'identità sessuale».

I rapporti all'interno di una coppia eterosessuale, poi, non sono paragonabili a quelli in una coppia gay, perché «l'omosessualità è fondata su una fascinazione narcisistica di sé e del rapporto con l'altro, mentre la coppia è fondata sul dinamismo dell'alterità dei sessi. È la nozione stessa di coppia che implica la non simmetria dei partner». Per questo, tra l'altro, «le rivendicazioni per dare ai gay la possibilità di sposarsi e di adottare bambini non sono un semplice adattamento giuridico o un modo per riconoscere l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma una modificazione radicale dell'interpretazione della sessualità umana. Sono il risultato di un'ideologia, quella sul genere (il genere sessuale per indicare il maschile e il femminile, ma anche l'orientamento sessuale che ciascuno si costruisce), che tra l'altro punta a far regredire il matrimonio, il quale è un'istituzione, a un semplice contratto civile all'insegna dei sentimenti. È una visione irrealistica: esistono due sole identità sessuali, quella maschile e quella femminile, e la loro relazione fonda il legame affettivo e sociale del matrimonio. Su questo si fonda il legame sociale, che non può essere a libera disposizione della soggettività individuale».

In altri termini, si chiede Anatrella, «si possono erigere a norme universali dei casi particolari? È interesse della società organizzarli e farne dei modelli sociali?». «Sulla coppia e sul matrimonio, oggi la Chiesa è un povero profeta disarmato - conclude Binasco - che ci avverte: se basta una rivendicazione perché si cambino le strutture della lingua, allora si mina la convivenza. Tutti i regimi totalitari, di qualunque tipo, hanno cercato di purgare la lingua nella logica omologatrice dell'uniformare tutto. Se le parole non hanno più significato reale, la convivenza tra persone cosa diventa? Un nuovo campo di concentramento, dove non contano più le differenze, perché siamo tutti chiusi in una gabbia decisa dal potere». (Paola Springhetti)

 

 

 


 

“Progresso di libertà o arretramento di civiltà?”

 

L’Osservatore Romano così si esprime sulle vignette offensive verso l’Islam.

Dopo il grave fatto di sangue avvenuto in Turchia, si ripropongono ancor più attuali i riflessi che episodi come quello delle vignette offensive verso l'Islam possono avere in contesti sociali segnati da culture e da sensibilità differenti. È lecito, in nome della libertà di pensiero, ferire il sentimento religioso di coloro che appartengono ad una determinata confessione? Dove finisce il diritto di espressione e dove comincia l'offesa alle altrui convinzioni interiori? Qual è il confine tra satira e dileggio, tra arguzia e oltraggio, tra ironia e blasfemia?

Sono questioni annose, ma per nulla oziose, che continuano a rimbalzare in questi giorni sui mezzi di comunicazione dopo la pubblicazione su un giornale danese - e poi su diversi quotidiani europei – delle caricature raffiguranti il profeta Maometto. Caricature che, com'è noto, hanno suscitato un'ondata di risentimento e di indignazione da parte del mondo islamico, provocando non soltanto reazioni diplomatiche e politiche, ma anche manifestazioni di protesta popolare, appelli al boicottaggio economico, tensioni e minacce nei riguardi dei Paesi occidentali.

I toni particolarmente accesi che caratterizzano la vicenda rischiano di far perdere di vista il suo valore emblematico. Tra condanne, ritorsioni, scomuniche reciproche, si fronteggiano – in una contrapposizione apparentemente inconciliabile - coloro che invocano il "diritto di fare la caricatura di Dio" (così titolava nei giorni scorsi un quotidiano francese) e coloro che invece, in un crescendo di animosità verbale, giudicano le vignette come "un errore", "una provocazione", "una diffamazione", "un atto blasfemo". Nella questione finiscono per intrecciarsi, e talvolta confondersi, piani diversi: da quello giuridico a quello culturale, da quello etico a quello deontologico. Ora, non c'è dubbio che il diritto di manifestare il proprio pensiero e il diritto di professare liberamente una religione rientrino a pieno titolo nel novero dei diritti umani fondamentali e irrinunciabili, universalmente riconosciuti.

Già sessant'anni fa li aveva recepiti come tali la "Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo". Ed oggi non v'è ordinamento giuridico democratico che non li sancisca e non li tuteli adeguatamente.

È altrettanto indubbio, tuttavia, che ogni genuina espressione del primo di questi diritti trovi nella piena e integrale realizzazione del secondo un limite, per così dire, naturale. Il pensiero, infatti, indica continuamente all'uomo la rotta nel cammino di ricerca della verità e della libertà, al cui approdo più alto e sublime sta proprio la fede religiosa: come potrebbe l'uno giungere a ridicolizzare e a dileggiare l'altra senza oltraggiare e rinnegare se stesso? "Mettere a prova la libertà anche contro Dio – ha ricordato di recente Benedetto XVI - non innalza l'uomo, ma lo abbassa e lo umilia, non lo rende più grande, più puro e più ricco, ma lo danneggia e lo fa diventare più piccolo" (Omelia durante la Santa Messa dell'Immacolata nella Basilica di San Pietro, 8 dicembre 2005).

Lasciano per lo meno perplessi certi appelli alla libertà e alla tolleranza, invocate per un atto che, in realtà, rivela un fondo strisciante di irriguardosa intolleranza. La tanto sbandierata "laicità" della società moderna non dovrebbe trovare uno dei cardini fondamentali proprio nella comprensione e nel rispetto delle convinzioni dell'"altro", sia pure diverse o antitetiche alle proprie? Quale progresso sociale, quale traguardo civile può mai esserci nel mettere alla berlina i simboli della fede di un credente, a qualsiasi religione egli appartenga? Ogni atto intellettivo e creativo che svilisce ed umilia il senso del credere non è un avanzamento di libertà ma un arretramento di civiltà.

Qui non è in discussione, com'è ovvio, la legittimità della critica, della polemica argomentata, del dissenso espresso anche in forme radicali. Nessuna Chiesa o confessione può pretendere privilegi e immunità. Ma può, e anzi, deve esigere rispetto quando sono in gioco la verità e la dignità di un'esperienza come quella religiosa, che appartiene alla dimensione più intima e fondante della persona umana. "La religione e il credo - si legge nella "Dichiarazione sull'eliminazione di tutte le forme d'intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o il credo" adottata dall'Onu nel 1981 - costituiscono per colui che li professi, uno degli elementi fondamentali della sua concezione della vita e (...) debbono essere integralmente rispettati e garantiti".

Del resto, non si vede perché per il sentire religioso non debba valere la stessa considerazione riservata a certe forme del sentire "laico". Esistono valori più o meno generalmente condivisi – come gli affetti familiari, l'amor di patria, il rispetto per le istituzioni - dei quali appare giustamente intollerabile alla coscienza comune ogni forma di irrisione o di scherno, sia pure presentata come esercizio di libero pensiero o nascosta dietro l'alibi della satira. La quale, in realtà, sembra oggi sempre più affannata a celebrare il proprio triste autocompiacimento misurandolo unicamente con il metro dello scandalo, della provocazione, dell'insulto.

Non occorre certo scomodare gli antichi classici latini per rendersi conto che, fin dalle origini, la satira ha avuto una ben diversa attitudine etica. Nella nota massima "castigat ridendo mores" è sintetizzata efficacemente la sua più nobile funzione pedagogica e morale. Che è poi quella che il filosofo Henri Bergson assegnava al riso, definendolo appunto una sorta di "castigo sociale". Quando ha fustigato il malcostume e ha denunciato le ingiustizie di ogni epoca, la satira ha smascherato l'idolatria dei "potenti", spogliandola di quell'aura di artificiosa sacralità che ne nascondeva sovente i vizi e la corruzione.

In questo senso, essa conserva a buon diritto un'innata vocazione "dissacratoria". Che è altro, tuttavia, dalle rozze velleità "sacrileghe". Allorché prende di mira i valori e i simboli del religioso - di ciò che è sacro in senso assoluto e indefettibile - essa smarrisce inevitabilmente la sua natura e la sua funzione. Priva di qualsiasi finalità critica o educativa, diviene di fatto vano accanimento. Si trasforma in volgarità gratuita, in invettiva scomposta, in offesa fine a se stessa. Brandita come una clava, lascia solo macerie di civiltà.

Il caso delle vignette su Maometto, per quanto eclatante, non è purtroppo l'unico esempio del genere. In questi stessi giorni si assiste in Spagna a certe manifestazioni di oltraggiosa intolleranza verso la religione e la Chiesa cattolica che lasciano sconcertati. In uno spettacolo teatrale in scena a Madrid si caricaturizza l'attuale Pontefice, si irride al suo Predecessore, vengono lanciate oscure minacce verso i cattolici, si incita all'apostasia. E in un video diffuso in televisione il Crocifisso si trasforma addirittura nell'ingrediente di un'irripetibile quanto disgustosa ricetta culinaria.

A qualsiasi persona dotata di buon senso sfugge il valore artistico e culturale - o anche semplicemente "satirico" - di tali iniziative. Così come risulta oscura la loro stessa pretesa di rappresentare un'espressione di libertà o di "laicità". Ma qui, purtroppo, il buon senso c'entra poco. Di fronte alla volgarità, all'insulto, alla bestemmia, anche l'intelligenza della ragione si vede costretta ad abdicare.

Certo, sia detto per inciso, non sembra che i fatti spagnoli abbiano infiammato di particolare sdegno l'opinione pubblica. Ma tra gli eccessi del frastuono mediatico e la sordina del silenzio acquiescente, resta la misura inesprimibile della dignità offesa, della coscienza ferita. Su quella Croce - segno per eccellenza dell'Amore universale - profanata da una ripugnante miscela di miserie e di oscenità, resta vilipesa e inchiodata l'intera umanità.

 

 

 


 

I cristiani, l’islam e il futuro dell’Europa

 

Come e perché l’islam può far parte dell’Europa “catholica”. Le condizioni sono due: una forte identità cristiana e un’autoriforma musulmana.

In Europa cristianesimo e islam sono inseparabili. In Francia, i musulmani sono cinque milioni e mezzo e tra vent’anni si prevede che saranno il doppio. Già oggi superano nel numero i cattolici francesi che vanno a messa ogni domenica.

A Evry, a sud di Parigi, è sorta dodici anni fa una nuova chiesa cattedrale, capolavoro riconosciuto di uno degli architetti più famosi al mondo, lo svizzero Mario Botta. La domenica è semivuota. Ed è invece brulicante di fedeli la vicina moschea. Il suo imam, Khalil Merroun, ha affermato in un’intervista: “La Chiesa cattolica dovrebbe convincersi che l’Europa non le appartiene. Il consiglio che dò ai miei colleghi cattolici è di interrogarsi a fondo sul perché i loro fedeli non vivono la loro spiritualità”.

Ma quale spiritualità ispira la nuova cattedrale di Evry? La chiesa ha l’aspetto di un cilindro tagliato da un piano inclinato, con una corona d’alberi sulla sommità e una croce, scarsamente visibile. L’interno è quasi tutto aniconico, privo di arti figurative. Pareti nude che dovrebbero dar respiro alla trascendenza, ma che in realtà restano mute, impermeabili alla rivelazione discesa da Dio, della quale mancano le tracce visibili capaci di indicare la strada ai fedeli in cammino.

Anche a Roma, nella capitale della Chiesa cattolica, vi sono i segni di questo spaesamento. Domenica 26 marzo Benedetto XVI si recherà a Tor Tre Teste a visitare una parrocchia romana di periferia, dove l’ebreo secolarizzato americano Richard Meier – altro grandissimo dell’architettura d’oggi – ha progettato e costruito una chiesa che è anch’essa un capolavoro di linee, di superfici, di luci, ma rimane taciturna nel tradurre questo afflato emotivo in realtà e sacramento, in materialità di Chiesa terrena e celeste.

 L’irruzione del religioso nello spazio pubblico

Questi citati sono i riflessi nell’architettura, anche sacra, di quello smarrimento di identità che è dell’Europa d’oggi, e che si è reso manifesto nella mancata menzione delle “radici cristiane” nel discusso preambolo del trattato costituzionale dell’Unione. Per una parte della cultura europea d’oggi, lo spazio pubblico deve essere impermeabile al fatto cristiano. E questo deve essere reciso dall’insieme della civiltà europea in cui ha le sue radici e a cui dà linfa.

Invece, è proprio il contrario che accade oggi nel mondo, Europa compresa: ovunque c’è un impetuoso ritorno del religioso nello spazio pubblico.

Dove per religioso si intendono le corpose Chiese storiche: la cattolica, rinvigorita dalla politicità carismatica di papa Karol Wojtyla e dalla guida teologica di Benedetto XVI; le protestanti d’impronta americana evangelical; le ortodosse, con il loro modello bizantino di congiunzione fra trono e altare. Più l’ebraismo intrecciato al destino concretissimo di Israele, un popolo, una terra, uno stato. Più l’islam, in cui fede, politica e legge sacra tendono a fare tutt’uno e, dovunque oggi si voti, il consenso va a partiti fortemente ispirati dalla legge coranica, ultimo caso eclatante quello della Palestina.

Il fallimento della profezia della privatizzazione del religioso è sotto gli occhi di tutti. Ma a molti mancano la lucidità e il coraggio di riconoscerlo e agire di conseguenza.

Ai musulmani si chiede di accettare le regole costitutive della democrazia. Ma deve valere anche il processo opposto: all’islam, come ad ogni religione, deve essere riconosciuta la facoltà di incarnare i suoi principi di fede negli ordinamenti civili, purché compatibili con la carta dei principi ai quali né l’islam né l’Occidente possono rinunciare, carta valida per tutti, principi “scanditi in modo inconfondibile dalla voce sommessa ma chiara della coscienza” (parole di Benedetto XVI ai musulmani incontrati a Colonia).

Il caso dell’Iraq è esemplare. Con Saddam Hussein non è caduto un immaginario stato “laico” depurato da fedi fondamentaliste, ma un sistema ateistico rozzamente copiato da modelli europei d’impronta nazista, che si sostanziava nella sanguinosa repressione dell’islam sciita e dei curdi. Viceversa, il nuovo stato iracheno, di cui è stata approvata la costituzione, sarà genuinamente laico proprio se e perché i suoi ordinamenti politici consentiranno e rifletteranno il pieno esplicarsi sulla scena pubblica della religione islamica, nel rispetto della pluralità delle fedi e delle tradizioni diverse.

L’esistenza di ordinamenti politici con qualificazione religiosa non appartiene solo al passato, ma è il presente e il futuro delle società mondiali.

Il modello americano di sfera pubblica democratica e di presenza religiosa diffusa non è il solo cui ispirarsi.

In Europa c’è il modello italiano di equilibrio tra lo stato laico e la Chiesa cattolica, con complementarità “concordata” tra le due sovranità e integrata da intese con ciascuna delle altre religioni.

Nei paesi a dominante islamica è naturale che si sviluppino modelli appropriati di intreccio tra il politico e il religioso.

 Le “Duae civitates”

L’intreccio tra le due cittadinanze, la profana e la sacra, la terrena e la celeste, è un carattere essenziale non solo della Chiesa e dei cristiani, e neppure del solo Occidente, entro cui tale carattere è nato a partire da Platone e Aristotele.

Questi due filosofi greci per primi aprirono l’ordine della società a un ordine superiore, trascendente, con ciò de-divinizzando i “poteri di questo mondo” e liberando l’uomo dalla schiavitù nei loro confronti.

Nel cristianesimo, il grande teorizzatore della doppia cittadinanza terrena e celeste è sant’Agostino in quel suo capolavoro che è “La città di Dio”, scritta poco dopo l’invasione di Roma da parte dei “barbari” nel 410, uno shock paragonabile a quello che è stato per noi l’11 settembre 2001.

Nella storia e nella cultura cristiana questa teoria di Agostino – che è profondamente biblica – ha segnato un’impronta fortissima. Ma non è stata solo studiata sui libri. Essa parla anche attraverso le architetture, le opere d’arte, le chiese.

Come vi sono oggi – l’ho ricordato – chiese che riflettono nella loro struttura lo smarrimento delle radici cristiane, così vi sono chiese, in numero sterminato, edificate secolo dopo secolo ovunque nel mondo cristiano, che invece attestano visivamente l’intreccio delle “duae civitates” celeste e terrena.

Una di queste – emblematica – è la cattedrale di Monreale, in Sicilia, eretta nel XII secolo dai re normanni che pochi decenni prima avevano liberato l’isola dal dominio musulmano.

Le sue dimensioni sono grandiose, paragonabili a quelle della basilica di San Pietro a Roma. Ma, soprattutto, le sue mura interne sono rivestite di mosaici a fondo d’oro di 6340 metri quadrati di superficie. Lungo le pareti vi sono scene dell’Antico e del Nuovo Testamento. Sopra il trono del re, in cima alla navata, c’è un Cristo che incorona il normanno Guglielmo II. Sopra il trono del vescovo, dirimpetto al primo, Guglielmo II offre la nuova cattedrale a Maria. E nel catino dell’abside (vedi foto) un colossale Cristo benedicente ha nella mano sinistra il Vangelo aperto sulle parole, in latino ed in greco: “Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nelle tenebre”. Il Cristo nell’abside è il risorto, il “Pantokrator”, colui che tutto regge, e con la sua luce, il suo sguardo, la sua potenza avvolge il popolo cristiano che cammina su questa terra e si riunisce nella chiesa a celebrare le sacre liturgie.

La cattedrale di Monreale è l’epifania, la manifestazione visibile della “Civitas Dei”: la città di Dio che sotto la regalità totale di Cristo unisce in sé sia la città celeste degli angeli e dei santi, rappresentata nei mosaici, sia la città terrena degli uomini pellegrini nel mondo, nella quale il popolo dei fedeli cristiani si mescola alle genti in attesa dell’annuncio del Vangelo, così come a tutti quelli che rifiutano Dio fino ad assolutizzarsi nell’antitesi alla sua città, nella “civitas diaboli”, la città del demonio.

Come la “Civitas Dei”, anche la Chiesa è insieme celeste e terrena, e la sua componente terrena rimane mescolata alla città degli uomini fino al giudizio finale. L’intreccio tra politica e religione trova quindi nelle “duae civitates” il suo paradigma.

È un paradigma applicabile non solo al mondo cristiano e occidentale ma anche al mondo islamico, per cogliere ciò che è simile o differente nel cristianesimo e nell’islam.

Ciò che contraddistingue l’islam è che esso ha al suo centro il sacro combattimento dei suoi fedeli non solo per l’unico Dio contro l’idolatria, ma anche per l’affermazione della “umma”, la comunità musulmana mondiale, contro la “civitas diaboli” identificata con i non musulmani.

In quell’intreccio continuo tra terreno e celeste che è la “Civitas Dei” nella concezione cristiana, l’islam introduce dei punti di cesura.

Da quando Maometto ruppe con la comunità ebraica di Medina, l’islam pensa se stesso come una comunità in permanente esodo, su questa terra, verso una meta che è tutta al di là della storia terrena.

L’islam è essenzialmente profetico, sempre in battagliero cammino verso un mondo che è oltre, quando invece il cristianesimo è insieme profetico, sacerdotale e regale, e il Cristo cosmico “Pantokrator” è lo stesso che si offre, qui e ora, nell’umile “pane quotidiano” del suo corpo e del suo sangue nell’eucaristia.

Per l’islam Maometto è “il profeta”, l’ultimo e il più grande di tutti, e la sua profezia è sempre in atto; mentre invece, per il cristianesimo la profezia è chiusa da quando il Figlio di Dio “è disceso dal cielo” nell’uomo Gesù.

Per i cristiani la “Civitas Dei” è già presente nella storia, sebbene ad essa mescolata e non ancora rivelata nella pienezza del suo compimento; mentre per i musulmani c’è di Dio, nella storia, solo la sua parola increata, eterna e immutabile, il Corano.

Ciò vuol dire che in un’Europa oggi più o meno consapevolmente cristiana non può esserci posto per l’islam? La risposta è no, per l’islam c’è posto.

Anzitutto perché, nonostante le diversità e i conflitti, esso è da sempre parte dell’Europa, ne è elemento costitutivo.

Lo dicono gli archi moreschi sull’esterno dell’abside della cattedrale di Monreale. Lo dice il suo chiostro, con al centro della fontana una colonna a forma di palmizio stilizzato, arabeggiante. La grande moschea musulmana di Cordoba, iniziata nell’VIII secolo in Spagna, è a sua volta una selva di colonne romane ed è impreziosita da mosaici in puro stile di Bisanzio. L’intero mondo mediterraneo medievale, sia cristiano che musulmano, aveva come originaria fonte comune l’eredità della Roma antica.

 L’Europa globale

L’Europa come civilizzazione ha confini molto più estesi di quelli che oggi s’immaginano, quando li facciamo coincidere con quelli politici dell’Unione Europea.

L’Europa di cui per primo parla lo storico Erodoto nel V secolo avanti Cristo è inizialmente identificata con la Grecia. Ma già l’impresa di Alessandro Magno ne dilata enormemente lo spazio fino all’Asia centrale e all’India. Da lì nasce la “koiné” ellenistica, col greco come lingua comune. E su questo spazio Roma estende il suo impero, che include entrambe le sponde del Mediterraneo, e la valle del Nilo, e l’Oriente fino al regno dei Parti, e a nord arriva al Danubio, al Reno, alla Britannia.

La cultura che ha generato la civilizzazione europea è quella greco-romana poi divenuta greco-romana-cristiana.

Ad Occidente, dopo le invasioni dei barbari, essa rinasce con l’asse spostato più a nord, come impero carolingio che però continua a chiamarsi “sacro” e “romano”.

Ad Oriente mantiene il suo centro nella “Seconda Roma”, Costantinopoli, e permane come impero bizantino, romano-cristiano, con uno stretto connubio tra il religioso e il politico che ancora perdura nel XXI secolo.

È da queste due Rome ancora non divise dallo scisma – inviati dal patriarca di Costantinopoli e insieme dal papa – che partono nel IX secolo Cirillo e Metodio a propagare il cristianesimo nell’Europa nordorientale, slava: con una nuova, ardita estensione geografica che però mantiene legami strettissimi con lo spazio d’origine, come mostra il nome di “Terza Roma” che Mosca si darà nel XVI secolo.

È dentro questa civilizzazione, non necessariamente contro di essa, che nasce e si espande a partire dal VII secolo l’islam, che man mano conquista la sponda sud del Mediterraneo e la Sicilia, penetra in Spagna, e ad Oriente contende lo spazio all’impero romano-cristiano bizantino.

La rottura dei commerci e degli scambi culturali che interviene per un certo periodo tra le due sponde sud e nord del Mediterraneo – identificata dalla storiografia successiva nella frattura tra Maometto e Carlomagno – non cancella il fatto che entrambe le due civiltà, la cristiana e la musulmana, continuano ad essere eredi ed interpreti dello stesso patrimonio greco-romano-cristiano, nel primo caso germanizzato, o slavizzato, nel secondo caso islamizzato. L’islam storicamente dato è impensabile senza la struttura, gli istituti, le culture del “commonwealth” greco-romano-cristiano nel quale si è sviluppato.

Certo, l’islam è anche quello che sottomette e fa scomparire le fiorenti Chiese dell’Oriente cristiano e del Nordafrica.

È quello che spinge il suo dominio oltre i Pirenei, che arriva persino a prendere d’assalto e a saccheggiare la Roma dei papi, nell’anno 847.

È quello che distrugge i luoghi santi di Gerusalemme e riconquista la terra di Gesù temporaneamente persa con le Crociate.

È quello che fa capitolare Costantinopoli nel 1453 e più di un secolo dopo è battuto e respinto a Lepanto ma non arretra, anzi, ancora un secolo dopo mette sotto assedio Vienna.

Intanto, però, anche all’interno del suo spazio cristiano l’Europa è dilaniata da guerre sanguinose con l’islam alleato ora dell’uno ora dell’altro regno. Per molti secoli, l’islam è trattato come una potenza legittima nel concerto delle nazioni e del diritto pubblico europeo.

È solo molto tardi, nel XIX secolo, quando l’impero ottomano è in pieno declino, che la cultura europea di matrice illuminista traccia un confine tra una Europa della civiltà è una Europa del dispotismo e dell’arretratezza, includendo in questa Europa “inferiore”, assieme all’islam, anche la Chiesa cattolica romana. In quello stesso momento, dall’Ottocento in poi, nasce anche il mito di una passata età dell’oro, di un’età di pacifico dialogo multiculturale tra islam e giudeocristianesimo, età collocata ora in Sicilia, ora in Spagna, ora a Baghdad.

In realtà, di leggenda in larga misura si tratta. Anche nell’Andalusia dominata dagli Almoadi, così frequentemente ricordata e lodata, ebrei e cristiani erano sudditi di second’ordine, sistematicamente vessati, e i due massimi esponenti di quell’epoca cosiddetta d’oro, l’ebreo Maimonide e il musulmano Averroé, grande traduttore e interprete di Aristotele, finirono entrambi la loro vita in esilio.

 Islam Europeo

L’attuale tentazione di escludere la Turchia dall’Europa ha dunque delle ragioni comprensibili, che Joseph Ratzinger ha messo in evidenza prima d’essere eletto papa.

Ma questa spinta ad escludere che cristianesimo e islam possano interagire positivamente è l’effetto perverso di sviluppi molto recenti.

È da pochi decenni, non da secoli, che dalla Turchia sono stati falcidiati gli armeni ed espulsi i greci ortodossi.

È solo da pochi decenni che gli ebrei sono scomparsi dai paesi arabi e del Maghreb.

È da pochi decenni che sono spariti dall’Algeria i numerosi spagnoli, italiani, francesi, sia cristiani che ebrei, che l’abitavano.

È da pochi decenni che Alessandria d’Egitto è abitata solo da arabi musulmani e non è più la città cosmopolita che era sempre stata, dove greci e italiani si mescolavano agli egiziani.

È da pochi decenni che le minoranze cristiane nei paesi arabi del Medio Oriente si sono ridotte ancor più di numero, spopolate dall’esodo verso Occidente. Per non dire di quello che è accaduto alla fine del XX secolo nella ex Iugoslavia, dove lo scontro di civiltà teorizzato da Samuel Huntington si è concretizzato in conflitti tra cattolici, ortodossi e musulmani, con eccidi e spostamenti di popoli colpevoli d’aver oltrepassato confini politico-religiosi vecchi di secoli.

Certo, non tranquillizza che un partito islamista radicale come Hamas abbia vinto le elezioni dello scorso 25 gennaio in Palestina.

Ma se si guardano i fatti sull’arco di secoli – e si guarda il recente prorompere del religioso nello spazio pubblico – l’alternativa al radicalismo islamista non può essere l’islam “laico” sognato da molti in Occidente, intellettuali e governanti.

Questo islam “laico” è appannaggio di regimi autoritari senza futuro come quello della Siria, oppure di rari scrittori e uomini d’affari secolarizzati, quasi tutti fuorusciti dai rispettivi paesi, che non hanno nel mondo musulmano praticamente alcun seguito.

Storicamente, un islam “laico” di grande forza e dimensione che sia diventato anche un solido stato moderno è quello della Turchia di Kemal Ataturk. Ma nella stessa Turchia esso è da tempo sensibilmente in regresso, e il governo è oggi detenuto da un partito conservatore, democratico in alcuni suoi tratti, e apertamente religioso.

Anche in Palestina la disfatta di Fatah – il partito che fu di Yasser Arafat – nelle recenti elezioni ha segnato la fine di un sistema di potere “laico” sovrimposto, ispirato a vecchi modelli europei, socialisti e nazionalisti. La vittoria di Hamas è l’affermazione di un partito che ha saputo reislamizzare la società. Un’affermazione ottenuta con procedura democratica, col voto.

Ma la democrazia non è solo procedura, è cultura: una cultura fatta di libertà individuale e di libera intersezione tra politica e religione. Ed è qui che Hamas e gli altri partiti neofondamentalisti oggi in ascesa – per lo più legati ai Fratelli Musulmani , molto influenti sull’islam immigrato in Europa – vanno sotto scacco.

Essi non hanno risposte al problema di governare le diversità: cioè proprio ciò che ha fatto dell’Europa una civiltà al tempo stesso una e molteplice, su fondamento greco-romano-cristiano, non escludente ma comprendente l’islam.

 Per questo, la via capace di integrare i musulmani nell’Europa di oggi e di domani ha due percorsi obbligati: un’autoriforma dell’islam e l’educazione delle menti.

Il primo percorso è molto difficile ma possibile. È difficile perché il Corano non è il parallelo di ciò che per i cristiani sono le Sacre Scritture, ma è piuttosto il parallelo di Cristo, il Verbo eterno di Dio sceso in terra: e quindi il Corano non è ritenuto dai musulmani interpretabile e adattabile come lo sono le Sacre Scritture, “divinamente ispirate” ma pur sempre scritte da uomini.

Ma è possibile perché nel mondo musulmano – soprattutto sciita ma anche sunnita, dal Marocco alla Turchia all’Indonesia – vi sono correnti che ammettono e praticano diverse letture del Corano, alcune capaci di coniugarne i principi con la moderna democrazia. Proprio a questo molteplice approccio dei musulmani alla rivelazione divina Benedetto XVI ha dedicato un incontro di studio lo scorso settembre a Castelgandolfo, assieme a suoi ex allievi di teologia.

Sulla seconda via d’integrazione dei musulmani in Europa, l’educazione delle menti, Benedetto XVI ha insistito incontrando a Colonia, lo scorso 20 agosto, alcuni esponenti della comunità musulmana in Germania.

Dopo aver condannato con parole taglienti il terrorismo compiuto “quasi potesse essere cosa gradita a Dio”, il papa si è rivolto così a quei musulmani:

“Voi guidate i credenti nell’islam e li educate nella fede musulmana. L’insegnamento è il veicolo attraverso cui si comunicano idee e convincimenti. La parola è la strada maestra nell’educazione della mente. Voi avete, pertanto, una grande responsabilità nella formazione delle nuove generazioni. Insieme, cristiani e musulmani, dobbiamo far fronte alle numerose sfide che il nostro tempo ci propone”.

È questo il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani e musulmani che Benedetto XVI vuole.

Ai “cari amici musulmani” ha chiesto unità d’azione “al servizio dei fondamentali valori morali scanditi in modo inconfondibile dalla voce sommessa ma chiara della coscienza”.

Questa è una voce che parla a tutti e che il papa confida sia ascoltata e messa in pratica da tutti. All’Europa, questa voce comanda di credere nella propria identità cristiana: generatrice di una grande civilizzazione di cui i musulmani sono parte.

 

 

 


 

Codici vaticani. Il mio conclave lo riscrivo così

 

Nuove “rivelazioni” sul conclave che ha eletto Benedetto XVI. Tutte mirate contro di lui. Le strane leggende costruite sui cardinali Martini e Bergoglio

 A distanza di mesi dal conclave che il 19 aprile ha eletto papa Joseph Ratzinger, continuano a uscire ricostruzioni di come esso si sarebbe svolto.

L’ultima è apparsa alla fine di settembre su una importante rivista italiana di geopolitica, “Limes”, in un articolo di Lucio Brunelli, vaticanista del TG2. Brunelli riporta brani di ciò che definisce “il diario di un autorevole porporato”, con l’esito delle quattro votazioni da cui uscì eletto Benedetto XVI.

Del cardinale non si fa il nome. Il fatto che egli abbia violato l’”obbligo grave” di mantenere il segreto sull’andamento del conclave è scusato dall’”intenzione non scandalistica ma rigorosamente storica” che Brunelli attribuisce alla sua decisione di rendere pubblico il diario.

Stando ai brani riportati, l’anonimo autore del diario si mostra molto attento alle procedure formali dell’elezione. Riproduce integralmente la formula del giuramento che i cardinali pronunciano all’inizio del conclave. Descrive meticolosamente il modo con cui le schede vengono deposte nell’urna e i voti vengono computati. Presta grande attenzione alla soglia di voti – un terzo – capace di sbarrare la strada all’elezione di un papa.

E fin qui, il diario non rivela nulla. La procedura descritta è la stessa che tutti possono leggere nella costituzione apostolica “Universi Dominici Gregis” che dal 1996 stabilisce le attuali regole del conclave. Rispetto al passato, la più importante novità di questa costituzione è la possibilità data ai cardinali di abbassare il quorum per eleggere il papa: dai due terzi alla metà più uno dei voti, con decisione presa a maggioranza semplice dopo 34 scrutini infruttuosi.

Per la scrittura della “Universi Dominici Gregis”, Giovanni Paolo II si affidò in primo luogo a un cardinale esperto in diritto canonico, Mario Francesco Pompedda, prefetto del supremo tribunale della segnatura apostolica, oggi in pensione. È questi che volle e ottenne, in particolare, la possibilità di abbassare il quorum alla metà più uno dei voti: innovazione molto criticata. Voci non controllate individuano oggi proprio nel cardinale Pompedda il suggeritore del diario pubblicato su “Limes”.

Nel diario appaiono però degli errori che un cardinale giurista non dovrebbe commettere.

Ad esempio, là dove cita il cardinale Camillo Ruini, l’anonimo autore lo qualifica così: “già vicario apostolico di Sua Santità per la diocesi di Roma”.

Quando invece la qualifica corretta non è “vicario apostolico” ma “vicario generale”.

Ma soprattutto è clamorosamente sbagliato il “già”. Con la morte di un papa il suo vicario non decade affatto dalla carica, ma continua a reggere la diocesi di Roma.

Basta questo svarione a far dubitare dell’attendibilità “rigorosamente storica” del diario. Il seguito della lettura suggerisce, piuttosto, che l’”intenzione” di pubblicarlo sia stata molto più militante: mostrare che la vittoria di Ratzinger non è stata per niente “plebiscitaria”, che è stata in forse fino all’ultimo, che è stata indebitamente favorita dal suo essere decano dei cardinali, che i tempi sono maturi per un papa “nuovo”, magari latinoamericano, e che a questi suoi limiti Benedetto XVI dovrebbe rassegnarsi.

Stando al diario pubblicato da “Limes”, Ratzinger avrebbe ottenuto 47 voti nel primo scrutinio, 65 nel secondo, 72 nel terzo e 84 nel quarto, su 115 votanti.

Ma invece che sulla rapidità folgorante di questa elezione, l’autore mette l’accento sulle forze che l’avrebbero contrastata, impersonate nei cardinali Carlo Maria Martini e Jorge Mario Bergoglio.

Martini avrebbe raccolto alcuni voti, 9, soltanto nel primo scrutinio. Ma sarebbe stato molto attivo nell’opporsi a Ratzinger sino all’ultimo, assieme a un gruppo il cui “nocciolo pensante” è individuato dal diario nei cardinali Karl Lehmann e Godfried Danneels, e il cui seguito è definito “un significativo drappello di cardinali statunitensi e latinoamericani, oltre che qualche porporato della curia romana”.

Bergoglio, invece, avrebbe raccolto molti più voti di Martini: 10 nel primo scrutinio, 35 nel secondo, 40 nel terzo e 26 nel quarto.

Scrive però di lui l’anonimo diarista:

“Lo guardo mentre va a deporre la sua scheda nell’urna, sull’altare della Sistina: ha lo sguardo fisso sull’immagine di Gesù che giudica le anime alla fine dei tempi. Il volto sofferente, come se implorasse: Dio non mi fare questo”.

Secondo questa ricostruzione, Bergoglio viene votato con l’intenzione non di eleggerlo ma di “creare una situazione di stallo che porti al ritiro della candidatura Ratzinger”.

Con 40 voti per Bergoglio al terzo scrutinio, l’obiettivo sembra a portata di mano, a leggere il diario:

“‘Domani grandi novità’, sussurra il cardinale Martini con un sorriso sibillino a un suo collega, durante la pausa del pranzo. Richiesto di un chiarimento, Martini confida di prevedere un cambiamento di candidati la mattina del giorno seguente”.

Invece non è questo che accade. Nel pomeriggio dello stesso giorno, al quarto scrutinio, Ratzinger è eletto papa e l’anonimo ne registra l’affermazione con malcelato disappunto. Ricorda il modo con cui Ratzinger ha gestito l’interregno nella sua qualità di decano e annota “la perplessità di alcuni porporati di fronte al potenziale conflitto di interessi in cui viene a trovarsi un decano che sia anche un papabile. Per ovviare a un simile inconveniente alcuni cardinali propongono che, in futuro, a ricoprire la carica di decano sia scelto un cardinale ultraottantenne, e quindi escluso per limiti anagrafici dal conclave”.

 L’anonimo diarista di “Limes” non è il primo a indicare in Bergoglio il cardinale più votato in alternativa a Ratzinger, nell’ultimo conclave.

Altre fonti hanno invece indicato il contraltare nel cardinale Martini. Sarebbe stato lui a concentrare su di sé i voti degli oppositori. Secondo alcuni, nei primi due o tre scrutini Martini avrebbe pareggiato o addirittura sopravanzato Ratzinger, salvo poi ritirarsi e “dare il via libera” all’elezione del cardinale tedesco. Di questa versione si è fatto sicuro assertore, tra altri, lo storico Alberto Melloni, autore famoso di libri su Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II.

Altre fonti ancora, però, invalidano sia l’una che l’altra delle due ricostruzioni. Nel libro “The rise of Benedict XVI” il vaticanista americano John L. Allen Jr., collegando le testimonianze di otto cardinali, ha sostenuto che il crescendo di voti su Ratzinger non ha mai incontrato una vera opposizione. Il sommarsi di un certo numero di suffragi su Bergoglio c’è stato, ma senza delineare in alcun modo un’alternativa. Bergoglio, inoltre, era fin da prima del conclave un sostenitore deciso dell’elezione di Ratzinger, veniva votato contro la sua volontà e si vedeva applicare un’etichetta di “progressista” che non corrispondeva in nulla alle sue convinzioni.

 Che le ricostruzioni fin qui diffuse dell’ultimo conclave appaiano tra loro contraddittorie – pur dichiarando tutte di attingere alle confidenze di cardinali – non deve sorprendere.

Il conclave più recente di cui sia stato ricostruito lo svolgimento su fonti documentali è quello del 1903, che elesse papa Pio X.

Dei conclavi successivi esistono ricostruzioni solo parziali, con più o meno grandi margini di dubbio.

Ad esempio, del conclave che nel 1978 elesse papa Karol Wojtyla esiste una vulgata molto diffusa, ma tutt’altro che certa.

Secondo tale vulgata, vi sarebbe stato uno scontro iniziale tra i cardinali Giuseppe Siri, ultraconservatore, e Giovanni Benelli, progressista moderato. Lo stallo tra i due avrebbe aperto la strada, con successo, alla “sorpresa” Wojtyla.

Ma basta leggere “Passing the Keys”, il volume pubblicato nel 1999 dallo storico americano Francis A. Burkle-Young, sui conclavi da Leone XIII in poi, per trovarvi una ricostruzione molto diversa da quella corrente. E anche più plausibile, nonostante anch’essa presenti contraddizioni e incertezze.

Stando a questa ricostruzione, la candidatura di Wojtyla era già affiorata nel conclave che elesse Giovanni Paolo I. E nel successivo conclave si configurò sin dall’inizio come alternativa al solo cardinale italiano con serie chance di successo, Benelli. In quel conclave numerosi cardinali entrarono portando con sé il libro di Wojtyla “Segno di contraddizione”. E presto si riversarono sul cardinale polacco i voti conservatori inizialmente attestati su Siri.

Ancora secondo la vulgata corrente – che su questo punto Burkle-Young accetta – Siri sarebbe uscito sconfitto anche a motivo di una sua dura intervista alla “Gazzetta del Popolo” pubblicata contro la sua volontà non a conclave iniziato ma prima, consentendo ai cardinali di leggerla e di reagire negativamente.

Ma è più verosimile che Siri abbia dato quell’intervista proprio perché già consapevole di non avere chance in conclave, per marcare le sue tesi critiche in contrapposizione a quelle prevalenti.

Sempre di ipotesi, comunque, si tratta. E più i conclavi sono vicini nel tempo, più le loro ricostruzioni corrispondono alle attese e ai calcoli di chi le diffonde.

Alla vigilia dell’ultimo conclave la gran parte dei pronostici pubblicati sui media erano dei “wishful thinking” lontani dalla realtà. Basti pensare al grande battage di cui beneficiò la candidatura “progressista” dell’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi. In conclave, il massimo che egli raccolse furono 2 voti: su questo, curiosamente, tutte le fonti concordano.

Ma anche dopo il conclave le ricostruzioni man mano diffuse vanno lette con grande cautela. L’obbligo del segreto impone a un cardinale di tacere, o al più di ricorrere a cenni e circonlocuzioni che esigono per loro natura di essere interpretate. Chi è più loquace, non è detto che sia più oggettivo e credibile. Anche i numeri possono essere interpretati in modi divergenti, come dimostrano i voti attribuiti a Bergoglio.

Quanto ai diari anonimi, la cautela dev’essere massima. Tanto più quando sono strumento di fronda contro l’attuale pontefice. (Sandro Magister)

 

 

 


 

A PROPOSITO DEI PACS

 

I PACS ed il riconoscimento giuridico delle convivenze omosessuali: le riflessioni del Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, Francesco D’Agostino.

Riconoscere le convivenze? Riconoscerle per legge (introducendo nel nostro codice - in analogia con quanto è avvenuto in Francia - un nuovo istituto, il PACS, cioè il patto civile di solidarietà)? Riconoscerle, indipendentemente dal fatto che i partner siano di sesso diverso o dello stesso sesso? Ammetterle all'adozione? Queste, ed altre domande, stanno crescendo nell'opinione pubblica italiana e diventeranno, con ogni probabilità, questioni non marginali nella prossima campagna elettorale. Di fughe in avanti, chiaramente volte a predisporre l'accettazione psicologico-sociale dell'"evento", ne percepiamo ormai molte. Alcuni Comuni italiani hanno già istituito pubblici registri per le coppie di conviventi (si è però prestata ben poca attenzione al fatto che, indipendentemente dall'irrilevanza giuridica di simili registri, le conseguenti registrazioni sono state numericamente irrisorie).

A Roma, uno dei Municipi della capitale ha tentato (ma per ora il progetto è fallito) di fare lo stesso. Ma soprattutto è sul piano delle provocazioni che sembra che il dibattito si stia collocando: è tipica la convocazione, in una centralissima piazza di Roma, di una manifestazione per "benedire laicamente" le unioni di fatto di personaggi, più o meno mediaticamente conosciuti, da parte di altri personaggi dotati di un carisma fornito loro dalla carica istituzionale di cui sono portatori...

In una società democratica la battaglia delle idee non può che essere sempre benvenuta, perché della società democratica il dibattito e il confronto costituiscono l'essenza più preziosa. A condizione, però, che di dibattito e di confronto davvero si tratti. Quando invece al posto delle idee fioccano gli slogan; quando il ragionamento, soprattutto il ragionamento lucido e pacato, viene sostituito da cortei e da invettive; quando si operano assurdi corto-circuiti, appiattendo uno sull'altro clericalismo e difesa del matrimonio e chiamando a raccolta gli anticlericali, come se la lotta a favore del PACS sia una lotta per i diritti civili, oppressi dall'oscurantismo religioso, della democrazia e del suo spirito più autentico non ne rimane più nemmeno l'ombra. Siamo ancora in attesa di un argomento, di un solo argomento consistente, a favore del riconoscimento legale dei PACS. Un breve ragionamento, assolutamente laico, potrà convincerci di quanto appena detto.

Le coppie di fatto si dividono in due categorie: quelle che non vogliono e quelle che non possono sposarsi. Delle prime, ragionando in linea di stretto principio, non solo è opportuno, ma è doveroso che il diritto non si occupi: l'intenzione dei conviventi (apprezzabile o meno che sia sul piano strettamente morale) è proprio quella - pur potendolo fare - di non legarsi giuridicamente e non si vede proprio perché la legge dovrebbe far loro la "violenza" di considerarle comunque legate, sia pure attraverso un labile PACS, contro la loro volontà. Si osserva: ma queste coppie escludono solo il matrimonio "tradizionale", non altre forme di riconoscimento giuridico; se chiedono l'istituzione del PACS è proprio perché vorrebbero usufruire di alcuni diritti (in genere di carattere economico), che non sono attualmente riconosciuti se non alle coppie sposate. Ma la ragione per la quale tali diritti non sono loro riconosciuti è che esse non hanno l'intenzione di assumere quei doveri che sono parte essenziale dell'istituto matrimoniale. Non si può, in buona sostanza, non valutare se non come parassitaria e quindi indebita l'intenzione di coloro che pretendono un riconoscimento pubblico della loro convivenza per ottenere diritti senza doveri.

Peraltro, i giuristi ben sanno che praticamente tutti quei diritti al cui riconoscimento aspirano i partner di una unione di fatto possono essere attivati tramite il diritto volontario e senza alcuna necessità di introdurre nel codice nuovi istituti. Il testamento, ad es., esiste proprio per far sì che si possa trasmettere il proprio patrimonio a chi non avendo vincoli legali e/o familiari col testatore sarebbe escluso dalla successione legittima. La locazione della casa di comune residenza può essere stipulata congiuntamente dai due partner, in modo tale che al momento della morte dell'uno essa possa, senza alcuna difficoltà, proseguire a carico dell'altro. Non è vero, in altre parole, che ai conviventi vengano negati specifici diritti civili: la differenza rispetto al matrimonio sta semplicemente qui, che quei diritti che la legge riconosce automaticamente alla coppia che contrae matrimonio (assieme a corrispondente numero di doveri) nel caso delle convivenze devono essere, per dir così, attivati dai conviventi stessi. Il che, oltre tutto, è particolarmente coerente col principio, tipicamente moderno, dell'autonomia della persona, un principio che viene costantemente rivendicato ed elogiato dalla cultura c.d. "laica" e che non si vede perché, solo nel caso delle convivenze, debba essere messo da parte.

Le coppie che non possono sposarsi si dividono a loro volta in due sotto-categorie. La prima è composta da coloro che non possono ancora sposarsi per impedimenti transitori di tipo in genere legale (ad es. per la minore età o perché uno dei partner è in attesa del divorzio, ecc.). Per queste coppie l'offerta del PACS è senza senso: la stessa difficoltà, destinata a risolversi comunque da sola, che preclude loro le nozze precluderebbe loro anche il PACS. La seconda sotto-categoria è composta invece da quelle coppie che vorrebbero sì sposarsi, ma ritengono di non poterlo fare, per difficoltà economiche, e rimandano quindi, a volte sine die, il matrimonio.

L'autentico modo di venire incontro ai bisogni sociali di queste coppie non è certo quello di offrire loro un "piccolo matrimonio" (secondo l'incisiva e ironica definizione del Card. Ruini), come è appunto il PACS, che non risolverebbe alcuna delle difficoltà in questione, ma quello di attivare quelle iniziative sociali a favore della famiglia, che oltre tutto sarebbero doverose già in base al dettato della nostra Costituzione.

Cosa resta dunque delle istanze sociali, che giustificherebbero l'introduzione in Italia del PACS? Sembra nulla di nulla. A meno che non si voglia vedere dietro la richiesta del PACS una richiesta profondamente diversa, quella di una prima forma di riconoscimento legale delle coppie omosessuali, che dovrebbe aprire la strada, in tempi ora come ora imprevedibili, ma che per alcuni dovrebbero essere brevi, ad una compiuta equiparazione al matrimonio tout court del matrimonio omosessuale. Che le cose stiano proprio così è fuor di dubbio, per le esplicite dichiarazioni fatte dai principali rappresentanti del movimento degli omosessuali e dai loro simpatizzanti.

L'onestà intellettuale vorrebbe allora che di questo e solo di questo si parlasse: se cioè abbia una sua coerenza giuridica l'allargare l'istituto matrimoniale alle coppie omosessuali. Ma di fatto questo discorso viene sistematicamente eluso (pur venendo continuamente, ma indirettamente richiamato), perché nessuno è in grado di dare argomenti consistenti per dimostrare la necessità di alterare in modo così plateale e radicale quella struttura eterosessuale del matrimonio, che appartiene a tutte le culture e a tutta la storia da noi conosciuta.

È noto che ciò a cui aspirano le coppie omosessuali (peraltro nemmeno tutte, anzi solo una piccola parte di esse) è, prima ancora che il riconoscimento di diritti economici e sociali, un riconoscimento simbolico del loro rapporto. Ma il diritto non esiste per offrire riconoscimenti simbolici, bensì per dare risposte pubbliche ad esigenze sociali, che superano la mera dimensione privata dell'esistenza. Perché ad es. il diritto dà un riconoscimento pubblico al matrimonio e non all'amicizia? Perché l'amicizia, che pure attiva un vincolo, che può essere in alcuni casi esistenzialmente ancora più significativo di quello coniugale, non ha rilievo sociale, ma esclusivamente personale.

Il matrimonio invece, fondando la famiglia, e garantendo l'ordine delle generazioni, ha un rilievo sociale del tutto caratteristico, che ne giustifica la giuridicizzazione. La coppia omosessuale non crea famiglia: lo impedisce la sua costitutiva sterilità. Come superare questa difficoltà, se non potenziando il carattere mimetico della coppia omosessuale rispetto a quella eterosessuale? Di qui, la pretesa, confusa, ma dotata di una certa qual coerenza, di ammettere le coppie omosessuali (e in specie quelle "sposate") all'adozione. Poco importa che la psicologia dell'età evolutiva insista nel sottolineare quanto sia rilevante l'esigenza per i bambini di possedere una doppia figura genitoriale, maschile e femminile: di fronte all'ideologia, anche le argomentazioni della scienza vengono messe da parte.

Siamo tutti testimoni che si è aperta una partita decisiva, inimmaginabile fino a qualche decennio fa, che ha per oggetto la famiglia e attraverso la famiglia la stessa identità umana. La famiglia chiede di essere difesa; ma per difenderla non c'è bisogno di argomenti teologici o religiosi; bastano comuni argomenti umani, perché ciò che la famiglia tutela e promuove è innanzi tutto il bene umano. Chi ritiene che sia giunto il tempo per ripensare in modo assolutamente radicale la realtà della famiglia ha l'onere di provare fino in fondo le sue tesi eversive e di non darle per evidenti; ha il dovere di entrare in un dialogo serrato con chi è di diverso avviso; e soprattutto deve saper e voler rinunciare alle scorciatoie delle provocazioni e delle manifestazioni di piazza, che ben poco aiuto possono dare al confronto e al progresso delle idee. Sarebbe preoccupante se nell'Italia di oggi non ci fosse più uno spazio per un tale stile dialogico.

(Tratto dall’Osservatore Romano, 14 gennaio 2006)

 

 

 


 

Liturgia del perdono. Azione umana e divina nel sacramento

 

Viene qui evidenziata la necessità della dimensione antropologica del rito penitenziale attivante il senso di colpevolezza ritenuto complementare e necessario al passaggio verso un autentico senso religioso-teologico di peccato e verso il pentimento. L’umano viene ritualmente assunto dal divino, poiché l’azione divina si congiunge con l’azione umana per l’attuazione di un unico mistero: il sacramento del perdono-riconciliazione.

Poiché [1] «il sacramento è un’azione umana alla quale, secondo la fede cristiana, si congiunge l’azione divina» [2], possiamo considerare della liturgia penitenziale la dimensione umana dell’azione simbolico-rituale co-costitutiva del sacramento della penitenza-riconciliazione; l’importanza di «rivivere» ritualmente il senso umano di colpevolezza necessario al senso religioso di peccato; l’azione simbolico-rituale che attiva il senso di colpa, rivela il senso del peccato e attua il pentimento e il perdono sacramentale.

1. La dimensione umana dell’azione simbolico-rituale co-costitutiva della sacramento della penitenza-riconciliazione

È una conquista teologica acquisita il fatto che «dell’oggettività sacramentale […] viene a far parte integrante la “soggettività” della disposizione pratica dell’uomo, il suo orientarsi ad un agire simbolico» [3] proprio del rito sacramentale.

L’atto rituale sacramentale è dato «dall’azione simbolica in esercizio», che opera la sintesi tra evento reale e significato [4], più precisamente, opera la sintesi tra l’evento reale vissuto da Cristo, che diventa momento significativo del rito, e l’attuazione di tale realtà significata appunto nel rito [5]. Infatti i «simboli in esercizio» nel rito sono azioni storico-salvifiche di Cristo che, compiuti come rito liturgico-memoriale, si attualizzano in presenza attuandosi nel loro significato, «irriducibile alla pura fattività empirica», e istituendo la relazione credente. Essi sono anche azioni dell’uomo che – in risposta di fede-amore – partecipa attivamente all’azione simbolico-rituale e, agendo in tal modo, condivide l’evento reale salvifico significato dal rito, evento che si attua non solo in presenza nel sacramento, ma anche nel credente stesso. È così che la Chiesa rende propri i misteri salvifici, non solo agendo «insieme» a Cristo, ma compiendo effettivamente con lui un «unico» atto sacramentale-salvifico [6].

Gli eventi, in quanto azioni storico-salvifiche compiute da Cristo, sono tutti incentrati nel compimento della Pasqua: passione, morte, risurrezione, ascensione al Padre. Agendoli simbolicamente, il rito liturgico ne fa il memoriale in quanto «momento significativo» rivelato dalla Parola (momento di annuncio-rivelazione) e in quanto «momento attuativo» come presenza «incorporata» nel simbolo della realtà rivelata significativamente. In tal modo si attua la liturgia sacramentale che postula l’azione della Chiesa e, in essa, l’azione credente del soggetto interpellato e agente simbolicamente nel rito, la cui partecipazione e condivisione, come suddetto, è necessaria all’attuazione piena del sacramento.

Emblematicamente così avviene nell’eucaristia, «sacramento del sacrificio pasquale» di Cristo [7]. Poiché «il simbolo è azione», il pane e il vino, già simboli dell’azione creatrice di Dio e dell’azione antropologica propria dell’uomo che offre l’obbedienza dominativa del creato, divengono, per l’azione memoriale di quella Parola che fa esistere ogni realtà, «simboli reali» del corpo di Cristo sacrificato e del suo sangue versato per l’alleanza, nei quali Cristo, sommo sacerdote e Kyrios, «incorpora» il suo sacrificio teologico-spirituale, quale fu essenzialmente la sua morte in croce [8]. Pertanto, per la Parola-azione di Cristo, per l’azione dello Spirito e per l’azione di tutta la comunità ecclesiale nei differenti ruoli specifici, quei simboli, accolti in quanto costituenti la risposta del credente all’ascolto della Parola, divengono nel rito liturgico azione simbolica che attua l’evento pasquale di Cristo partecipato, e quindi sua presenza «in me» perché in presenza negli stessi simboli sacramentali che, pertanto, «incorporano» il sacrificio spirituale-teologico di Cristo e della Chiesa, comunità sacerdotale. L’«incorporazione» del sacrificio teologico spirituale di Cristo avviene in quel «corpo» nel suo «passaggio» a divenire «carne [σάρξ] per la vita del mondo» (Gv 6,51), anzi la carne del nostro passaggio. Passaggio reale, sostiene Vidalin, così che «la transustanziazione non è solamente la conversione di una sostanza in un’altra […]. Si tratta di un passaggio reale da un livello d’essere in cui le cose sono ancora nella schiavitù della corruzione (Rm 8,21) al livello radicale dell’ontologia, dell’ipseità del Figlio nel quale […] i figli di Dio vengono generati (Gv 1,12-13)» [9], e per cui il Verbo si è fatto carne [σάρξ] (Gv 1,14).

Anche il sacramento del battesimo si attua nella sintesi di azione divina e azione umana. Il «momento simbolico significativo» dell’azione rituale annuncia – nel triplice ritus scrutiniorum del nuovo Ordo initiationis christianae – che le azioni salvifiche di Cristo «si attuano, non come tali, ma nella loro realtà significata e nel loro valore». Infatti, i tre «significanti» non annunciano soltanto ciò che è avvenuto nel passato, ma attuano nel presente la realtà significata dagli eventi cristologici, per cui «il catecumeno è di volta in volta, la samaritana che riceve acqua viva; è il cieco nato che riceve la vista; è Lazzaro che viene sciolto dai vincoli di morte» [10]. Il «momento attuativo» dell’azione simbolico-rituale che attinge all’evento pasquale di Cristo, segue l’azione di «ascolto-risposta-accettazione» dell’evento salvifico di Cristo – che dà inizio alla relazione credente e filiale con Dio Padre – agìta ritualmente dal battezzando con la Chiesa popolo sacerdotale e ministero sacerdotale.

Così avviene nel sacramento della penitenza-riconciliazione. In Cristo, più compiutamente che in Es 19,3-8 e Es 24,7-8, l’azione umana dell’agire rituale simbolico del popolo sacerdotale precede l’azione divina nel rito, sebbene la priorità sia di Dio che la suscita e la sostiene allo scopo di riesprimere l’adesione e riprendere il cammino di fedeltà all’alleanza con Dio in Cristo.

2. L’importanza di «rivivere» ritualmente il senso umano di colpevolezza necessario al senso religioso di peccato

Analogamente all’azione del profeta Natan (2Sam 12,1-13) che, non solo non ha direttamente «ricordato» al re Davide quel grave doppio peccato che difensivamente questi teneva rimosso nell’inconscio per non esserne disturbato, ma, per impedirne una misconoscenza pericolosa, glielo ha fatto «rivivere» inconsapevolmente proiettato in un soggetto altro da sé e in modo che, non soltanto la mente, ma tutte le dimensioni della sua persona fossero progressivamente coinvolte: coscienza dell’irrazionalità del fatto; sentimenti di disapprovazione; emozioni davanti a una grave ingiustizia commessa; pulsioni di sdegno per le conseguenze che intaccano la persona umana e le sue relazioni con le cose, con gli uomini, con Dio, e, infine, identificazione con il colpevole-peccatore della parabola agìta. Così dovrebbe essere l’azione simbolico-rituale della penitenza pubblica per riuscire adeguata nell’agire l’autenticità del rapporto peccato-pentimento-perdono-ripresa della relazione credente, nonché per essere curativa e preventiva. Infatti, se i simboli, come le parabole evangeliche, compiono il passaggio dai «significanti» e «significati» della dimensione antropologica a quella teologica unendole nel soggetto attivo, la liturgia, in quanto simbolo in azione, lo compie anche nell’ordine dell’azione umano-divina: essa rivela e contiene la realtà ontologica significata dal simbolo [11].

Un contributo in questo senso sembra proprio venire da A. Vergote, il quale, parlando delle «dimensioni umane co-costitutive del sacramento» in quanto «il sacramento è azione umana alla quale si congiunge l’azione divina» [12], evidenzia che la coscienza dell’errore è una realtà psicologica universale, detta «sentimento di colpevolezza» che costituisce il fondamento umano sul quale si fonda il senso del peccato: così già nella religione biblica; ed evidenzia pure che tale substrato, oltre a essere un elemento della salute psichica, è necessario perché possa svilupparsi il senso teologico di peccato [13]. Infatti si può comprendere la differenza e il rapporto tra senso di colpa e senso del peccato considerando che «la coscienza morale si forma sull’appoggio della stima di sé, che in fondo è amore di sé» [14]. L’amore di sé, che è una parte essenziale del senso della propria dignità personale, si elabora – dice Vergote – nella formazione dell’ideale morale che si desidera realizzare, e comporta anche il desiderio di essere apprezzati, persino ammirati anche per le qualità morali dei comportamenti. In questa situazione, la colpa è doppiamente penosa in virtù del senso della dignità umana: essa rivela la propria persona sminuita ai propri occhi e a quelli degli altri. Ne risulta, da una parte l’inclinazione spontanea a restaurare la propria dignità umana e morale di fronte a sé e agli altri, dall’altra emerge una tendenza a non riconoscere la colpa poiché questa ferisce l’amor proprio. Tale misconoscimento impedisce di perdonare se stessi, fa entrare in un senso di colpa patologico che conduce a colpevolizzare gli altri e impedisce di porsi nella condizione di autenticità necessaria per accogliere l’efficacia del perdono di Dio [15].

Risulta evidente lo stretto legame tra la dimensione umana della colpa, che è tale davanti a sé e agli altri, e la dimensione del peccato che differisce nelle motivazioni e nella realtà della relazione credente con Dio in Cristo. Legame che non si può ignorare, perché «l’analisi della dimensioni antropologiche del sacramento mostra in primo luogo che la contrizione è messa in movimento dal dolore affettivo dei sentimenti di colpevolezza sui quali la fede aggancia la coscienza delle responsabilità davanti a Dio» [16].

Se è vero che, agendo simbolicamente, le «disposizioni diventano realtà», è pertanto fondamentale l’importanza del ruolo dell’azione simbolico-rituale nell’attivare adeguatamente e primariamente il senso di colpevolezza, poi il senso del peccato, sua parte integrante e, quindi, il pentimento proprio del sacramento della penitenza-riconciliazione.

La colpevolezza vista davanti a Dio nella relazione credente con lui, viene dunque illuminata nella sua piena verità, non più soltanto naturalmente morale, bensì religiosa e più precisamente teologica di peccato. Il peccato consiste nella trasgressione della nuova alleanza fondata sulla redenzione realizzata da Cristo, e quindi nell’infedeltà a tale alleanza salvifica già accolta nella scelta battesimale.

Vergote sottolinea che: a) «il riconoscimento dei peccati deve essere il risultato – non di un breve esame di coscienza – bensì di un processo umanamente e religiosamente autentico», il solo che nella confessione dei peccati operi un cambiamento di vita; b) «l’uomo perviene a riconoscere i propri peccati soltanto a partire dall’ascolto della rivelazione di Dio avvenuta in Cristo, sua Parola creatrice e redentrice, giacché si tratta di riprendere la dimensione della relazione con Dio Padre che si congiunge all’umanità etica» [17]. Il luogo più adeguato per vivere questi eventi di ripresa della corretta relazione con le cose, con le persone, con Dio, è quello dell’azione sacramentale propria della liturgia penitenziale, a partire da quella pubblica.

  3. L’azione simbolico-rituale attiva il senso di colpevolezza, rivela il senso del peccato, attua il pentimento e il perdono sacramentale

3.1. Attivazione simbolico-rituale del senso di colpevolezza

Alla luce di quanto detto, la liturgia penitenziale è chiamata a compiere dapprima un’azione rituale che, attivando l’esperienza delle colpe umane, faccia cogliere il nesso tra l’azione colpevole che intacca il bene della creazione, dell’uomo, della società, e le conseguenze di denigrazione e involuzione che intaccano la propria persona chiamata invece già naturalmente all’evoluzione umana, fondata sui valori inseparabili di amore solidale, giustizia, uguaglianza, verità e libertà.

Visto che ogni soggetto umano, oltre che a desiderare di «restaurare» la propria dignità umana e morale di fronte a se stesso e agli altri, è spinto naturalmente a rifiutare il riconoscimento della colpa commessa, perché ferisce l’amor proprio, è necessario che il ministro celebrante, prima ancora di agire come mediatore del perdono di Dio, si faccia mediatore degli uomini assumendosi ritualmente le colpe di tutti. Ne deriva la necessità di trasferire le colpe oggettualizzandole su di una figura significativa e autorevole con cui i penitenti possano identificarsi. Pertanto il celebrante deve elencare progressivamente i peccati che l’umanità compie nelle relazioni con l’universo cosmico, con gli uomini singoli e con la società. Lo stesso celebrante, ispirandosi al modello comportamentale di papa Giovanni Paolo II nel chiedere perdono in quanto rappresentante dell’umanità, oltre che della Chiesa, deve esprimere questa assunzione di responsabilità e questo riconoscimento di essere colpevole in quanto innanzitutto umano tra gli umani, che condivide; il dispiacere della colpe storicamente commesse; la richiesta di perdono alla comunità che rappresenta la società; il desiderio di riprendere il cammino di attuazione dei valori fondamentali dell’umanità. L’assemblea penitente, immedesimandosi nel celebrante, deve poi coralmente esprimere anch’essa lo stesso riconoscimento, dispiacere, richiesta di perdono, lo stesso desiderio e proposito.

La posizione più significativa del celebrante in questo momento del rito, è quella di porsi seduto come l’assemblea, di fronte ad essa e sullo stesso piano, poiché egli non è il giudicante, ma il peccatore tra i peccatori che in ciò si pone in prima fila.

La sintesi di tali «eventi e significati», costituisce il simbolo rituale in risposta di fedeltà al Dio creatore [18].

3.2. Attivazione simbolico-rituale del senso del peccato, del pentimento e della richiesta di perdono

Il compito della fede è quello di «assumere» il dolore affettivo dei sentimenti di colpevolezza messi in movimento dalla contrizione e di «trasformare» questi in coscienza della responsabilità davanti a Dio [19]. Per il cristiano, Dio è non soltanto creatore ma è anche colui che ci ha redento in Cristo con quell’amore che Cristo stesso ha modellato su Dio Padre. La redenzione compiuta da Cristo nella sua Pasqua e liberamente accolta nel sacramento del mistero pasquale dal credente e vissuta come fedeltà di alleanza contratta nel sacramento del battesimo, determina per l’uomo perdono e liberazione dal peccato, ma anche dono della vita di Dio attraverso lo Spirito che comporta l’essere figli nel Figlio in comunione con il Padre per sempre. Il peccato non offende né denigra Dio, bensì intacca l’essere dell’uomo, poiché, essendo infedeltà a quell’alleanza fondata in Cristo e già accolta nella fede, costituisce un disprezzo dell’amore di Dio e del dono di se stesso: pertanto, ciò va a scapito non solo della realizzazione umana dell’uomo creato potenzialmente a immagine di Dio, ma anche delle sue relazioni nelle loro conseguenze e della meta cui è chiamato, ossia di gioia eterna, la cui intensità è in rapporto appunto all’evoluzione secondo Dio e, pertanto, alla pienezza di comunione con lui nel suo regno eterno.

La consapevolezza della responsabilità davanti a Dio non deriva dalla naturalità della coscienza umana, ma dalla parola di Dio rivelata e dalla redenzione operata da Cristo che ci ha così introdotti in una dimensione nuova: nella vita di relazione con Dio. Pertanto, la meta non è soltanto un’umanità naturalmente evoluta e fondata sui valori umani, ma congiuntamente, è la comunione con Dio Padre in Cristo, quindi l’evoluzione richiesta è quella dell’essere figli di Dio nel Figlio che, come rivela il Nuovo Testamento, vivendo in ogni pur diversa situazione storica (l’amore, la giustizia, la verità, la libertà) a imitazione di Dio Padre, è divenuto fondamento e modello dell’umanità credente. Meta, pertanto, impossibile alle sole forze umane e alla moralità naturale, ma è possibile in Cristo e nell’azione di quello Spirito che egli ci ha donato con la sua morte e risurrezione. Così la dimensione dell’umanità etica si congiunge con la dimensione teologica della relazione di comunione con Dio.

Questa realtà attuata da Cristo in se stesso come primizia per noi, va attinta sacramentalmente per essere accolta, vissuta ed, eventualmente appunto, ripristinata. L’azione simbolico-rituale deve esprimere e attuare nell’oggi questa realtà. Pertanto, il sacerdote ministeriale, immedesimandosi con i penitenti, si volge ora verso il Crocifisso che, nel frattempo è stato posto accanto o sull’altare, ed esprime verbalmente e posturalmente, insieme alla comunità sacerdotale, il riconoscimento che le colpe commesse sono peccati davanti a Dio redentore, sapendo che questi sono tanto più gravi quanto più grande è la distanza dalla misura e dalla qualità dell’amore vissuto da Cristo; poi esprime la richiesta di perdono, il desiderio e il proposito di riprendere il cammino di alleanza in Cristo, agendo, appunto come il modello, secondo la volontà di Dio.

3.3. Memoria e attuazione simbolico-rituale degli eventi del perdono di Dio

Se l’acqua è il simbolo che la Parola rivelata sceglie per evocare la purificazione e che, insieme al dono e all’azione dello Spirito, attinge per annunciare e attuare la nuova nascita alla vita divina e alla relazione con Dio, realtà che si attualizza attuandosi nella liturgia battesimale (Mt 3,11.16; Mc 1,8.10; cf. anche il dialogo con Nicodemo: Gv 3,1-8 e con la Samaritana: Gv 4,14, nonché l’evento del costato di Cristo in croce: Gv 19,34); invece riguardo il perdono dei peccati, la Parola rivelata adopera simboli di rinnovamento. Si può dire che, a tal fine, essa evoca almeno due realtà significative e correlate: la «rivelazione» delle viscere paterne di Dio: Gv 1,1-18; 3,16 verso l’umanità e, in particolare, verso il peccatore pentito: Lc 15,11-32; e l’«attuazione» del perdono, la cui realtà di rinnovamento, oltre a costituire un anticipo di risurrezione poiché rivela il potere di salvezza che Cristo opera nella totalità dell’essere umano, corpo e spirito, è messa in evidenza dal rapporto tra perdono-guarigione (Mt 9,2-7; Mc 2,3-12; Lc 5,18-25) [20]: la visibile guarigione del corpo costituisce un simbolo rivelatore di ciò che invisibilmente, ma realmente, avviene nello spirito dell’uomo con il perdono dei peccati.

La stessa rivelazione e attuazione, nel suo valore essenziale, è affidata, a partire dalla risurrezione di Cristo, all’azione simbolico-rituale della comunità sacerdotale (ad esempio agìta fin qui) e all’azione simbolico-rituale del sacerdozio ministeriale che vi si «congiunge» quale mediazione del perdono di Dio: Gv 20,22-23. Questa sintesi di azione simbolico-rituale umana e divina «rivela» e «attua» il sacramento del perdono-riconciliazione.

4. Conclusione

– Annuncio rituale-liturgico del perdono di Dio. Poiché Dio ha perdonato per primo tutta l’umanità con la redenzione operata da Cristo, ogni uomo deve imitarlo se vuole accogliere sacramentalmente e personalmente il perdono di Dio. Diversamente le conseguenze sono essenzialmente quelle stesse riservate al servo spietato della parabola: Mt 18,23-35. Pertanto, il perdono è sempre da donare: «Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”» (Mt 18,21-22).

«Rifiutare il perdono significa identificare la persona con il male che ha fatto» [21]. Inoltre, il primo beneficiario del perdono dato è la persona stessa che lo concede, perché in tal modo essa evolve la propria umanità, e perché le sue azioni vengono compiute nella libertà anziché nella reazione e nel rancore che intristisce e toglie la pace dello spirito. Inoltre, il perdonare costituisce obbedienza alla volontà di Dio che vuole essere imitato.

Il perdono di Dio è dunque da chiedere e accogliere. Dio ci ha amati dall’eternità e ci ha generati come figli in Cristo: Gv 1,1-18; 3,16. «Cristo infatti è apparso non soltanto per togliere i peccati»: 1Gv 3,5, ma anche per «dare la sua vita», non solo quella umana, ma anche quella divina: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»: Gv 10,10. «Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto, ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa» 1Gv 1,9. Infatti, come rivela la parabola evangelica: Lc 15,11.32, prima ancora che il pentimento del prodigo peccatore sia perfetto, il Padre lo riaccoglie come figlio inserendolo di nuovo, pienamente e con tutti i benefici, nella relazione paterna e fraterna.

La caratteristica del perdono di Dio, non è tanto quella di «dimenticare» l’ingratitudine e l’infedeltà del peccatore verso l’alleanza con lui, già accettata nel battesimo, ma è un perdono dell’essere, un rinnovamento della persona umana nelle sue dimensioni e relazioni. Poiché tale realtà non è immediatamente evidente se non alla lunga nelle sue conseguenze, sembra proprio che Cristo abbia voluto rivelarla nella guarigione del paralitico: Mc 2,1-12. Infatti dicendo: «Ti sono perdonati i tuoi peccati», ne ha sanato lo spirito; dicendo: «Alzati e cammina», ne ha guarito il corpo [22]. Dunque ha sanato l’uomo nella sua totalità come segno anticipatore della risurrezione, evidenziando così l’unità inscindibile del soggetto umano, e ha così pure evidenziato la guarigione del corpo come simbolo rivelatore del risanamento dello spirito e della sua riabilitazione ad agire liberamente – insieme alla libertà fisica – nella vita di relazione orizzontale e verticale.

Cristo ha perdonato: Lc 7,47-48; 23,34, e, risorgendo, ha affidato il suo perdono – poste le suddette premesse di interazione sacramentale da parte del soggetto credente, altrimenti anch’egli non ha potuto perdonare (cf. Mt 18,21-35) – alla mediazione sacramentale propria del sacerdozio ministeriale: Gv 20,22-23; Mt 16,18-19; Mt 18,19.

– Attuazione del perdono sacramentale. Alla Chiesa «ministeriale» spetta il compito di agire l’«oggettività sacramentale» del perdono di Dio nella simbolicità del rito, e lo fa dopo aver valutato le premesse della «soggettività» integrante il sacramento della riconciliazione, pena l’invalidità.

In virtù del ritorno alle fonti biblico-teologiche della parola di Dio, cui la Chiesa è pervenuta con il Vaticano II, sembra di poter affermare che la cosiddetta «penitenza», che «segue» il riconoscimento-pentimento-confessione dei peccati e l’impegno di riprendere il cammino dell’alleanza con Dio e che «precede» l’assoluzione-perdono sacramentale, dovrebbe consistere, poiché non deve neppure simbolicamente ripristinare «l’idea più pagana che biblica del sacrificio espiatorio per i peccati» [23], nell’assegnazione di una lettura biblica, in modo che la parola di Dio sia di luce e di forza corrispondenti alle necessità del penitente, lasciando che sia questi a tradurla adeguatamente nelle varie situazioni della sua storia.

 NOTE

[1]Per il punto della situazione cf. L. Ligier, Il sacramento della penitenza secondo la tradizione orientale, in «Rivista Liturgica» 54 (1967) 597-627; A. Nocent, La riconciliazione dei penitenti nella Chiesa del VI e X secolo, in «Rivista Liturgica» 54 (1967) 628-642; J. Ramos-Regidor, Il sacramento della penitenza, evento ecclesiale, in «Rivista Liturgica» 54 (1967) 706-757; E. Ruffini, Teologia della penitenza e nuovo rito della penitenza sacramento, in «Rivista Liturgica» 62 (1975) 7-23; E. Mazza, La riforma del rito della penitenza. Elementi per una reinterpretazione, in «Rivista Liturgica» 78 (1991) 507-532.

[2] A. Vergote, Le sacrement de pénitence et de réconciliation, in «Nouvelle Revue Théologique» 118 (1996) 653 (653-670). Sottolinea Vergote: «Les dimensions humaines sont co-costitutives du sacrement [...]. Les deux initiatives (l’action divine et l’action humaine) se nouent si étroitement qu’on peut inverser l’ordre de la proposition: un sacrement est une action divine qui, en la suscitant et en la soutenant, se joint à une action humaine»: pp. 653-654. Vergote evidenzia che il simbolo sacramentale è tale se contiene la realtà antropologica e teologica come processo che opera un «passaggio» senza soluzione di continuità, cf. p. 653.

[3] A. Bozzolo, Mistero, simbolo e rito in Odo Casel. L’effettività sacramentale della fede (= Monumenta Studia Instrumenta Liturgica, 30), LEV, Città del Vaticano 2003, p. 55. Casel sottolinea che mentre la concezione moderna del cristianesimo si caratterizza per la tendenza a privilegiare il momento istituzionale della fede, «la mens antica [dei Padri], al contrario, presentando il cristianesimo come “mistero”, ritrova proprio nel sacramento il luogo di riconoscimento tanto della precedenza dell’azione di Dio, quanto della possibilità e necessità dell’azione dell’uomo, perché indica nella libera disposizione di sé richiesta dall’atto liturgico il luogo decisivo per attingere l’attualità dell’evento cristologico. “Mistero” è infatti l’azione divina, ma in quanto essa si dà nella forma umana dell’azione “di Gesù” e in quanto essa suscita e disegna lo spazio che rende possibile e necessaria l’azione “della Chiesa”»: pp. 98-99.

[4] Bozzolo, Mistero, simbolo e rito, cit., pp. 383, 386. Il rito «è simbolo in quanto partecipa della realtà che in esso si mostra»: p. 94, e «il sacramento è simbolo reale», azione memoriale attualizzante l’azione salvifica di Cristo: pp. V, VII, 51-52; cf. anche O. Casel, Fede, gnosi e mistero. Saggio di teologia del culto cristiano (= «Caro Salutis Cardo». Studi/Testi, 14), EMP-Abbazia di S. Giustina, Padova 2001, pp. 51-52, 57.

[5] S. Marsili, Il simbolismo della iniziazione cristiana alla luce della teologia liturgica, in G. Farnedi (ed.), I simboli dell’iniziazione cristiana. Atti del 1° Congresso Internazionale di Liturgia, Pontificio Istituto Liturgico 25-28 Maggio 1982 (= Studia Anselmiana, 87. Analecta Liturgica, 7), PIL, Roma 1983, p. 276 (259-280). «Il rito liturgico non è solo “significante” – che rimanda alla storia della salvezza compiuta da Cristo –, ma “contiene” già, in quanto “simbolo” della storia della salvezza, la realtà volta per volta “significata”»: p. 275.

[6] Bozzolo, Mistero, simbolo e rito, cit., p. 386 e pp. 162-167; cf. O. Casel, Il mistero del culto cristiano, Borla, Roma 1985, p. 42.

[7] Casel definisce l’eucaristia «sacramento del sacrificio della croce» (Casel, Fede, gnosi e mistero, cit., pp. 117; 109; 197); Marsili definisce l’eucaristia «sacramento del sacrificio spirituale», poiché «la morte di Cristo sulla croce fu sacrificio spirituale», giacché fu essenzialmente obbedienza e imitazione di Dio Padre (S. Marsili, Teologia della celebrazione dell’eucaristia, in S. Marsili - A. Nocent - M. Augé - A.J. Chupungco [edd.], La liturgia, eucaristia: teologia e storia della celebrazione [= Anàmnesis, 3/2], Marietti, Casale M. 1983, pp. 176; 178-186 [9-186]), del resto è la definizione del testo conciliare di Trento nella sua riproposizione superante la distinzione di sacramento e sacrificio: pp. 120, 121.

[8] L’idea marsiliana di «trasferimento» del sacrificio spirituale nei simboli ha il vantaggio di considerare i simboli del corpo sacrificato di Cristo, il pane, e del suo sangue versato per l’alleanza, il vino, come «“contenitori” e “comunicatori” di tale presenza perciò sacramentale» (Marsili, Teologia della celebrazione, cit., p. 184); tuttavia mi sembra che l’idea di «incorporazione» del sacrificio teologico-spirituale della croce in tali simboli evidenzi ancor meglio quella che Casel chiama «la sintesi di “evento-reale e significato” propria dei simboli sacramentali» (Bozzolo, Mistero, simbolo e rito, cit., pp. 94, 383, 386), come pure evidenzi l’unità con la materia che, come nell’incarnazione, non è solo «strumento» passivo della realtà divina, ma è trasformata con in unità agente. È illuminante in proposito quanto ha affermato Casel dicendo che: come «l’umanità del Signore è simbolo della sua divinità», così i sacramenti sono azioni simbolico-salvifiche della sua divinità; e che «l’unicità del contenuto teologico che lega il sacramento e l’evento è fondata sul fatto che nel simbolo l’evento realizza il proprio senso, irriducibile alla fatticità empirica, senza per questo perdere il carattere storico della propria attuazione»: pp. 205, 167; cf. anche Casel, Fede, gnosi e mistero, cit., pp. 137, 138.

[9] Cf. A. Vidalin, Le corps de la présence réelle. Une réflexion théologique sur l’eucharistie a partir de M. Henry, in «Nouvelle revue thèologique» 125 (3/2003) 422, 424, 427 (418-428).

[10] Marsili, Il simbolismo della iniziazione, cit., pp. 274-275.

[11] Cf. L. Zak, Il simbolo come via teologica. Spunti di riflessione sul simbolismo di Pavel Florenskij, in «Humanitas» 58 (4/2003) 602, 610-611 (598-614).

[12] Vergote, Le sacrement, cit. p. 653.

[13] Ibid., p. 656. Nel cristianesimo, sottolinea Vergote, «il soprannaturale si articola sulla natura psichica», così come salute e malattia si giocano dentro l’attività simbolica della psiche. Ciò trova supporto nell’individuazione «in san Paolo dell’analogia tra i segni di salute psichica e le qualità che la fede deve avere»; perciò viene messo a punto il ruolo e le caratteristiche sia dell’educazione poggiante non su moralismi, ma sul desiderio che, per effetto dei significanti religiosi, si apre all’amore di Dio; sia del rito liturgico come azione simbolica, affinché il soggetto possa beneficiare contemporaneamente di equilibrio psichico e di fede autentica e possa realizzarsi in rapporto col Dio vivente. Nell’azione simbolica della liturgia – evidenzia dunque Vergote – il soggetto viene salvato nella sua integrità: cf. M.-J. De Pauw, «Dette et désire» de A. Vergote, in «Revue théologique de Louvain» 10 (4/1979) 456, 460ss. (454-462).

[14] Vergote, Le sacrement, cit., p. 656.

[15] Ibid., p. 657; «Il cammino sacramentale non può che essere il compimento […] L’angoscia di colpevolezza può essere patologica […] Se essa non è un’angoscia morbida davanti al giudizio di Dio, essa si nasconde per lo più del tempo in una sorta di sintomi nevrotici e psicosomatici. L’assenza – invece – della capacità di provare sentimenti di colpa rappresenta, essa stessa, una forma di patologia. Essa testimonia sia la non formazione psicologica della coscienza morale, sia la psicosi paranoica dove l’idea delirante della propria grandezza nutre costantemente l’accusa degli altri»: p. 657.

[16] Ibid., pp. 661-662.

[17] Ibid., pp. 662-663.

[18] Cf. A. Wenin, L’umanità e il creato: dominio e mitezza, in A.N. Terrin (ed.), Ecologia e liturgia (= «Caro Salutis Cardo». Contributi, 19), EMP-Abbazia di S. Giustina, Padova 2003, pp. 23-47, riguardo l’impegno dell’uomo, maschio e femmina, chiamato ad agire a immagine di Dio, sviluppando la propria personalità e i propri talenti mentre scopre i segreti e le risorse dell’universo da destinare a ogni uomo in quanto creato come vertice della creazione; riguardo il ridimensionamento dei consumi a favore dell’uguaglianza e dell’amore solidale; riguardo la necessità e lo scopo del riposo; ecc.

[19] Vergote, Le sacrement, cit., pp. 661-662; già sant’Ambrogio, quando divenne vescovo di Milano, «ogni volta che qualcuno gli confessava i suoi peccati per riceverne la penitenza, piangeva a tal punto da ridurre al pianto il penitente: si considerava infatti peccatore col peccatore»: Messa della vigilia del 7 dicembre, in Messale ambrosiano quotidiano, vol. I, p. 1020. Cf. anche G.L. Brena, Ecologia e teologia: presupposti per una convergenza, in Terrin (ed.), Ecologia e liturgia, cit., pp. 49-68. Vergote (in Id., Dette et désire. Deux axes chrétiens et la dérive pathologique, Seuil, Paris 1978) ha messo a punto le caratteristiche che il rito, come azione simbolica, deve avere affinché il soggetto possa beneficiare contemporaneamente di equilibrio psichico e di fede autentica e possa realizzarsi in rapporto col Dio vivente; De Pauw (in Id., «Dette et désire» de A. Vergote, cit.) ne sottolinea alcune dicendo che la liturgia, mentre decentra il soggetto, deve: a) liberare il soggetto dall’idea che le pulsioni siano colpevolizzanti, e non deve esaltare le virtù di obbedienza, di rinuncia e di umiltà in modo da inibire quello spirito di iniziativa, di audacia e di capacità di rischiare che reprime l’autonomia, la libertà di pensiero e l’assunzione di responsabilità; b) liberare dalla colpevolizzazione che, spronando il desiderio verso la perfezione assoluta, raddoppia il narcisismo; c) liberare il soggetto dal legalismo, poiché esso rivela una ricerca di amore accompagnata da intolleranza, autoritarismo e presunzione. Il legalismo agisce, per mezzo delle sue proprie azioni, come se producesse lui stesso il dono dell’Altro e non lascia spazio al desiderio (p. 458); d) presentare e vivere il sacrificio, non come mutilazione, ma come scambio che opera un legame di amore nella differenza riconosciuta (p. 459); e) puntare non sul moralismo, ma sul Cristo vita come lo presenta la parola di Dio che interpella e struttura il desiderio, proprio mentre affascina l’intelligenza con la sua luce trascendente (pp. 458-459); f) favorire l’identificazione, il cui scacco comporta il ripiegamento nel narcisismo; perciò occorre stimolare l’apertura e il mantenimento dello «sguardo» ai segni-simboli della presenza del Signore affinché il soggetto, rispondendo senza condizionamenti e con tutto il proprio essere a questi segni-simboli, coinvolga anche le forze oscure che abitano il suo psichismo (p. 460). L’autenticità religiosa e la salute psichica devono estendersi e attualizzarsi anche nella comunità ecclesiale, affinché il soggetto ne sia garantito (p. 460). Questi aspetti dell’agire umano riguardanti il cammino della salute psichica e del vivere autenticamente la fede e che la liturgia è chiamata a favorire, la liturgia penitenziale può trasformarli anche come verifica del cammino di fede, tra cui anche quella di interrogarsi sul vivere o meno dell’uomo a immagine di Dio, nel senso richiesto di non dividere mai tale immagine attiva, ma agire contemporaneamente con intelligenza e amore in qualunque situazione, specie nel dominio dell’universo: cf. B. Maggioni, Uomo e società nella Bibbia, Jaca Book, Milano 1987, e l’enciclica Laborem exercens, nn. 12, 14, 25-27, riguardanti il rapporto dell’uomo con la vita lavorativa e socio-economica, nonché l’amore solidale.

[20] È noto che Gesù ha negato il collegamento di causa-effetto tra peccato e malattia, tra peccato e punizione, cf. quanto dice in proposito al momento del miracolo del cieco nato (Gv 9,1-7).

[21] Vergote, Le sacrement, cit., p. 667.

[22] Gesù non ha certo collegato l’infermità al peccato come sua causa, giacché, in altre occasioni, per esempio quella della guarigione del cieco nato, ha separato le due realtà.

[23] Vergote, Le sacrement, cit., pp. 667-668, 666.

(Adele Colombo, Rivista Liturgica, 5/2005)

 

 

 

 

 

 

 

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