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TESTI APPROFONDIMENTI

ANNO 2008 

 

PARTE PRIMA

 

 

 

Natale, le parole del Papa da ricordare

13 Gennaio 2008

 

 

Evangelizzazione, martirio, famiglia, ambiente, la figura di Maria. Nel tempo di Natale - tra messaggi, omelie, angelus e udienze - il Papa ci ha trasmesso una serie di insegnamenti da non dimenticare. Senza avere la pretesa di essere esaurienti, vi proponiamo una breve selezione di suoi passaggi, per aiutare a ricordare.

 

"Essere discepoli di Cristo, che cosa significa? Ebbene, significa in primo luogo: arrivare a conoscerlo. Come avviene questo? E' un invito ad ascoltarlo così come Egli ci parla nel testo della Sacra Scrittura, come si rivolge a noi e ci viene incontro nella comune preghiera della Chiesa, nei Sacramenti e nella testimonianza dei santi. Non si può mai conoscere Cristo solo teoricamente. Con grande dottrina si può sapere tutto sulle Sacre Scritture, senza averlo incontrato mai. Fa parte integrante del conoscerLo il camminare insieme con Lui". (Discorso ai membri della Curia Romana, 21 dicembre 2007)

 

"E' lecito ancora oggi 'evangelizzare'? Non dovrebbero piuttosto tutte le religioni e concezioni del mondo convivere pacificamente e cercare di fare insieme il meglio per l'umanità, ciascuna nel proprio modo? Ebbene, è indiscutibile che dobbiamo tutti convivere e cooperare nella tolleranza e nel rispetto reciproci. (...) Ma questa volontà di dialogo e di collaborazione significa forse allo stesso tempo che non possiamo più trasmettere il messaggio di Gesù Cristo? Vhi ha riconosciuto una grande verità, chi ha trovato una grande gioia, deve trasmetterla, non può affatto tenerla per sé. (...) Per giungere al suo compimento, la storia ha bisogno dell'annuncio della Buona Novella a tutti gli uomini, a tutti i popoli". (Discorso ai membri della Curia Romana, 21 dicembre 2007)

 

"Questo è il Natale! Evento storico e mistero di amore, che da oltre duemila anni interpella gli uomini e le donne di ogni epoca e di ogni luogo. E' il giorno santo in cui rifulge la "grande luce" di Cristo portatrice di pace! Certo, per riconoscerla, per accoglierla ci vuole fede, ci vuole umiltà. L'umiltà di Maria, che ha creduto alla parola del Signore, e ha adorato per prima, china sulla mangiatoia, il Frutto del suo grembo; l'umiltà di Giuseppe, uomo giusto, che ebbe il coraggio della fede e preferì obbedire a Dio piuttosto che tutelare la propria reputazione; l'umiltà dei pastori, dei poveri ed anonimi pastori, che accolsero l'annuncio del messaggero celeste e in fretta raggiunsero la grotta dove trovarono il bambino appena nato e, pieni di stupore, lo adorarono lodando Dio. I piccoli, i poveri in spirito: ecco i protagonisti del Natale, ieri come oggi".

(Messaggio Urbi et Orbi, Natale 2007)

 

"Il messaggio di Natale ci fa riconoscere il buio di un mondo chiuso, e con ciò illustra senz'altro una realtà che vediamo quotidianamente. Ma esso ci dice anche che Dio non si lascia chiudere fuori. Egli trova uno spazio, entrando magari per la stalla; esistono degli uomini che vedono la sua luce e la trasmettono".

(Omelia della Notte di Natale)

 

"Egli è venuto per ridare alla creazione, al cosmo la sua bellezza e la sua dignità: è questo che a Natale prende il suo inizio e fa giubilare gli Angeli. La terra viene rimessa in sesto proprio per il fatto che viene aperta a Dio, che ottiene nuovamente la sua vera luce e, nella sintonia tra volere umano e volere divino, nell'unificazione dell'alto con il basso, recupera la sua bellezza, la sua dignità. Così Natale è una festa della creazione ricostituita". (Omelia della Notte di Natale)

 

"Nella stalla di Betlemme cielo e terra si toccano. Il cielo è venuto sulla terra. Per questo, da lì emana una luce per tutti i tempi; per questo lì s’accende la gioia; per questo lì nasce il canto. Alla fine della nostra meditazione natalizia vorrei citare una parola straordinaria di sant’Agostino. Interpretando l’invocazione della Preghiera del Signore: “Padre nostro che sei nei cieli”, egli domanda: che cosa è questo – il cielo? E dove è il cielo? Segue una risposta sorprendente: “…che sei nei cieli – ciò significa: nei santi e nei giusti. I cieli sono, sì, i corpi più alti dell’universo, ma tuttavia corpi, che non possono essere se non in un luogo. Se, però, si crede che il luogo di Dio sia nei cieli come nelle parti più alte del mondo, allora gli uccelli sarebbero più fortunati di noi, perché vivrebbero più vicini a Dio. Ma non è scritto: ‘Il Signore è vicino a quanti abitano sulle alture o sulle montagne’, ma invece: ‘Il Signore è vicino ai contriti di cuore’ (Sal 34[33],19), espressione che si riferisce all’umiltà. Come il peccatore viene chiamato ‘terra’, così al contrario il giusto può essere chiamato ‘cielo’” (Serm. in monte II 5, 17). Il cielo non appartiene alla geografia dello spazio, ma alla geografia del cuore". (Omelia della Notte di Natale)

 

"È Cristo la nostra speranza "affidabile", ed a questo tema ho dedicato la recente Enciclica dal titolo Spe salvi. Ma la nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri, e soltanto così essa è veramente speranza anche per ciascuno di noi". (Omelia al Te Deum, 31 dicembre 2007)

 

"Il martirio cristiano è esclusivamente un atto d'amore, verso Dio e verso gli uomini, compresi i persecutori".

(Angelus del 26 dicembre 2007, festa di S. Stefano protomartire)

 

"Il bene della persona e della società è strettamente legato alla 'buona salute' della famiglia. Perciò la Chiesa è impegnata a difendere e promuovere 'la dignità naturale e l'altissimo valore sacro' del matrimonio e della famiglia". (Angelus del 30 dicembre 2007, festa della Santa Famiglia di Nazaret)

 

"Lo stesso amore che costruisce e tiene unita la famiglia, cellula vitale della società, favorisce l'instaurarsi tra i popoli della terra di quei rapporti di solidarietà e di collaborazione che si addicono a membri dell'unica famiglia umana. (...) Esiste pertanto uno stretto legame tra famiglia, società e pace. 'Chi anche inconsapevolmente osteggia l'istituto familiare - osservo nel Messaggio per questa giornata della Pace - rende fragile la pace nell'intera comunità, nazionale e internazionale, perché indebolisce quella che, di fatto, è la principale agenzia di pace". (Angelus del 1° gennaio 2008, solennità di Maria Ss.ma Madre di Dio)

 

"In questi giorni di festa ci siamo soffermati a contemplare nel presepe la rappresentazione della Natività. Al centro di questa scena troviamo la Vergine Madre che offre Gesù Bambino alla contemplazione di quanti si recano ad adorare il Salvatore: i pastori, la gente povera di Betlemme, i Magi venuti dall’Oriente. Più tardi, nella festa della "Presentazione del Signore", che celebreremo il 2 febbraio, saranno il vecchio Simeone e la profetessa Anna a ricevere dalle mani della Madre il piccolo Bambino e ad adorarlo. La devozione del popolo cristiano ha sempre considerato la nascita di Gesù e la divina maternità di Maria come due aspetti dello stesso mistero dell'incarnazione del Verbo divino e perciò non ha mai considerato la Natività come una cosa del passato. Noi siamo "contemporanei" dei pastori, dei magi, di Simeone e di Anna, e mentre andiamo con loro siamo pieni di gioia, perchè Dio ha voluto essere il Dio con noi ed ha una madre, che è la nostra madre". (Udienza generale del 2 gennaio 2008)

 

 

 


 

 Tra storicità dei vangeli canonici e contributo degli apocrifi

(20 gennaio 2007)

 

 

La consistenza storica dei Vangeli canonici sta nella loro stessa genesi, cioè nella continuità tra la predicazione di Gesù, la predicazione apostolica e la loro redazione. Ad affermarlo in questa intervista è padre Bernardo Estrada, Ordinario di Nuovo Testamento presso la Facoltà di Teologia dell'Università della Santa Croce (Roma), il quale cita anche alcune testimonianze extrabibliche che avvalorano il contenuto dei Vangeli.

D. Innanzitutto, ci spieghi il percorso che ha portato alla redazione dei Vangeli?

Padre Estrada: Possiamo dire che i Vangeli iniziano con la predicazione di Gesù, il quale non ha scritto di proprio pugno praticamente nulla se non quelle poche parole tracciate sulla sabbia quando gli venne presentata una donna colta in adulterio. Di Gesù Cristo si sa soprattutto che predicava. C’è da rilevare a questo riguardo che l’esigenza di predicare e insegnare a memoria era una abitudine costante del tempo, perché la scrittura era impraticabile in condizioni normali.

Tuttavia dopo la passione e morte di Gesù, la predicazione della Chiesa si è fondata proprio sull'evento pasquale. E' questo il fondamento di tutta la nostra fede, non solo perché Paolo lo dice alla fine della Lettera ai Corinzi ma perché proprio il kerygma, l'annuncio fondamentale della Chiesa dopo la Pentecoste, è stato “Gesù Cristo crocifisso e risorto”. Il Vangelo come tale era, come afferma San Paolo, proclamazione del “gioioso messaggio” che Dio ci ha salvati dalla morte eterna con la morte e risurrezione del suo Figlio Gesù.

Solo nella seconda metà del II sec. San Giustino nello scrivere nel 160 la sua Apologia afferma che le memorie degli Apostoli vengono chiamate Vangeli. E' la prima testimonianza in cui si passa dal Vangelo come annuncio predicato al Vangelo come testo. Dopo questa dichiarazione apostolica possiamo dire che gli autori sacri, cioè gli evangelisti di cui almeno due erano apostoli sono giunti alla stesura dei libri. Per questo si può dire che i Vangeli hanno una consistenza storica, perché riflettono questi tre stadi nella loro formazione con una continuità che non ha mai smesso di esistere. Una continuità che lega insieme la predicazione di Gesù, la predicazione apostolica e la redazione del Vangelo.

D. I Vangeli “canonici”, cioè quei Vangeli accolti dalla Chiesa per la loro origine “apostolica” e per la loro “conformità con la norma della fede” delle primitive comunità cristiane e delle maggiori Chiese di origine apostolica, sono stati composti tra il 60 e il 100 d.C. Quali sono i criteri che ne testimoniano la storicità?

Padre Estrada: Gli esponenti più radicali della critica storica ritenevano che ci fosse una distanza tale tra la redazione dei Vangeli e la vita di Gesù che tutta una generazione di testimoni oculari era svanita. Ma questo non è vero. Infatti, il primo Vangelo, che si sa essere stato scritto da Marco, risale all'anno 64 d.C., ovvero 34 anni dopo la data probabile della morte di Gesù. In quegli anni cosa si è fatto? Essenzialmente si è predicato il Vangelo in diversi luoghi, si è ruminato su quell'annuncio, fornendo ad esso una sistemazione teologica, che è quello che fa Paolo. Infatti i Vangeli sono stati scritti dopo che Paolo ha elaborato praticamente tutta la sua teologia. Intorno al 64 d.C. tutte le Lettere erano state scritte, comprese quelle pastorali, se è vero che lui ne fu l'autore. Possiamo dire che in quegli anni i Vangeli hanno subito una evoluzione più teologica che non biografica, perché i fatti e i detti della vita di Gesù erano già accertati.

Allora, quali sono i criteri per poter separare con una certa sicurezza ciò che è storico da ciò che non lo è? Nella seconda metà del XX sec. sono stati sviluppati diversi criteri storici, tra cui quello della “discontinuità”, che si concentra su quelle parole o quei fatti di Gesù che non possono derivare né dal giudaismo del tempo di Gesù né dalla Chiesa primitiva dopo di lui. Ad esempio, nel Vangelo di Matteo Gesù si confronta criticamente con le Scritture e con Mosè, come nessun rabbino avrebbe mai fatto, rivelando la superiorità della nuova legge da lui proclamata che non ricalca lo stile esteriore dei farisei ma ha sede nell'intimità del cuore.

Un altro criterio è quello che viene chiamato dell' “imbarazzo”, secondo cui la Chiesa non avrebbe mai comunicato un fatto che avrebbe umiliato Gesù, a partire dalla croce che è il caso più emblematico e paradigmatico. Il battesimo ad opera di Giovanni se non fosse avvenuto realmente non sarebbe venuto in mente a nessun autore. Così come l'apparizione alle donne, perché a quel tempo le donne non erano testimoni qualificati a Israele.

D. Le notevoli affinità tra i testi di Matteo e Luca hanno portato diversi studiosi ad affermare l'esistenza di una fonte comune, tale da far pensare che si rifacessero in realtà a fonti indirette e non di prima mano. Lei che ne pensa?

Padre Estrada: Possiamo ammettere che i Vangeli di Mattero e di Luca abbiano avuto una fonte comune, perché esiste una serie di narrrazioni, soprattutto di detti, che non appaiono in Marco. Ma ciò che stupisce non è che Matteo e Luca abbiano avuto una fonte comune, quanto le loro differenze. Per esempio tutti e due raccontano dell'infanzia di Gesù, ma ciascuno lo fa attraverso degli eventi che l'altro nemmeno conosce. In Matteo il protagonista dell'infanzia di Gesù è Giuseppe, mentre in Luca è Maria. Se ci fossero state troppe affinità ciò avrebbe potuto far supporre che vi era stato un accordo fra i due. Evidentemente i due evangelisti avevano una fonte propria cui attingere e un'altra che hanno condiviso.

D. Esistono fonti storiche indipendenti dai Vangeli canonici che ne avvalorano il contenuto?

Padre Estrada: La storicità dei Vangeli viene avallata solo dai Vangeli stessi, mediante la loro formazione. Esistono tuttavia delle testimonianze extrabibliche che non sono da disprezzare. La prima è quella di Plinio il Giovane, che fu proconsole della Bitinia negli anni 111-113 d.C., e che in una delle epistole inviate all’imperatore Traiano scrive che i cristiani erano “soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio”. Quindi, afferma che erano convinti della divinità del Cristo.

Svetonio, invece, nella sua opera “Vita dei dodici Cesari”, riferendo un fatto accaduto intorno al 50 d.C., afferma che Claudio “espulse da Roma i Giudei che per istigazione di Cresto erano continua causa di disordine” (Vita Claudii XXIII, 4). Svetonio scrisse “Chrestus” in luogo di “Christus”, non conoscendo la differenza tra giudei e cristiani, e per la somiglianza tra Chrestòs, che era un nome greco molto comune, e Christòs che voleva dire l' “unto”, il “Messia”. Qundi esistevano a Roma giudeo cristiani e – direi – ebrei non convertiti che disputavano fra di loro su Cristo e che potevano apparire agli occhi dell’autorità romana come causa di disordine pubblico.

E poi c'è la testimonianza dello storico romano Tacito che negli Annali narra dell'incendio scoppiato a Roma nel 64 d.C., di cui fu accusato l'imperatore Nerone, il quale fece di tutto “per far cessare tale diceria”, e per questo “si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani”. Tacito afferma inoltre che l'“origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l'impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso” (Ann. XV, 44).

 

D. L'elenco completo dei 27 libri del Nuovo Testamento viene fissato per la prima volta con Atanasio di Alessandria nel 367 d.C. Come si arriva a scegliere questi quattro Vangeli nel canone delle Scritture?

Padre Estrada: Già prima della fine del II secolo, sant'Ireneo Vescovo di Lione e martire afferma in un celebre passo che “poiché il mondo ha quattro regioni e quattro sono i venti principali [...] il Verbo creatore di ogni cosa [...] rivelandosi agli uomini, ci ha dato un Vangelo quadruplice, ma unificato da un unico Spirito” (Contro le eresie III 11, 8).

La Chiesa aveva già definito allora i quattro testi che venivano usati nella liturgia. Vent'anni prima di Ireneo anche Giustino parla dei quattro Vangeli o della memoria degli Apostoli che venivano menzionati o letti durante le celebrazioni eucaristiche. Allora come si è arrivati a questa selezione? In realtà si è arrivati attraverso un processo in cui lo Spirito Santo si è aperto un varco in modo naturale e spontaneo. Quando veniva diffuso un testo che affermava qualcosa di strano, gli stessi fedeli, uniti sotto il loro pastore, lo respingevano. Quindi non sono stati disposti da nessuno anche se nel II sec. vi era la coscienza che il Vangelo fosse quadruplice: ovvero uno solo, poiché una sola è la predicazione sulla vita, le opere e le parole di Gesù, ma con quattro immagini diverse, ognuna delle quali offre un tocco personale.

D. L'altra questione che si pone ora è come mai la tradizione apostolica sia giunta a inserire tra i Vangeli canonici anche il Vangelo di Giovanni, il più diverso rispetto agli altri in quanto a contenuto ed esposizione, intessuto spesso di riflessioni spirituali e teologiche. Inoltre alcuni studiosi attribuiscono la paternità di questo scritto a discepoli appartenenti a diverse “scuole giovannee”, come si può notare in questo passo: “Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera” (Gv 21, 20)...

Padre Estrada: Non va a scapito della storicità dei Vangeli il fatto che i loro autori non fossero necessariamente i quattro che vengono menzionati nei titoli. Vorrei direi anche che nemmeno c'è motivo di dubitare se non ci sono delle ragioni serie. Per quanto riguarda il Vangelo di Giovanni è certo che un nucleo risalga all'apostolo, ma che ci sarebbero stati dei discepoli che avrebbero riflettuto su quelle parole di Gesù e avrebbero trovato altre fonti e redatto un Vangelo che un po' si discosta dagli altri. Infatti è il Vangelo più spirituale, dove non si parla mai della crocifissione e della sofferenza, perché per l'evangelista Giovanni, l'ora della passione si identifica con la glorificazione e la suprema "elevazione" di Gesù.

Giovanni presenta già la missione del Cristo a partire dalla Resurrezione. E' un Cristo che ha trionfato e vinto sulla morte. D'altra parte è impossibile spiegare il racconto così dettagliato e crudo della Passione, se non alla luce della piena convinzione degli evangelisti riguardo alla Resurrezione. Altrimenti sarebbe stato semplicemente masochismo! La sofferenza è servita per la nostra salvezza.

Giovanni riporta moltissimi dialoghi di Gesù con il Padre, come se non toccasse la terra, ma fosse costantemente immerso nella contemplazione del volto di Dio e già glorificato. Mentre negli altri Vangeli Gesù è un uomo con tutte le sue caratteristiche e i suoi limiti umani. Il fatto che il Vangelo di Giovanni sia stato ritoccato da una comunità di discepoli, che si trovava probabilmente a Efeso, e ampliato o forse assemblato in un altro modo trova riscontro nel passo che lei ha citato, e che viene rienuto una appendice, una aggiunta posteriore da parte di un discepolo che fa di Giovanni un testimone verace. Infatti se si legge il cap. 20 si capisce che siamo di fronte a una conclusione: “Queste cose sono state scritte affinché voi crediate che Gesú è il Cristo il Figlio di Dio e affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome” (Gv 20, 31).

D. Luca nel suo Vangelo, composto intorno agli anni '80 del I sec., accenna ai “molti altri” che hanno scritto sulla vicende di Gesù, quasi a testimoniare l'esistenza di una moltiplicità di Vangeli, quegli stessi Vangeli in seguito ritenuti apocrifi...

Padre Estrada: In realtà, quando Luca inizia il prologo al Vangelo e dice “poiché molti hanno posto mano a stendere un racconto sugli avvenimenti successi tra noi”, non si sta riferendo a dei libri ma alle testimonianze di tante persone che hanno ricevuto la predica apostolica e che hanno tentato di mettere per iscritto i fatti e le parole di Gesù.

Di certo quelle sono le fonti alle quali hanno attinto anche gli evangelisti. Ma da ciò non dobbiamo dedurre necessariamente che si trattasse di libri veri e propri. Forse Luca, che aveva davanti a sé il Vangelo di Marco, si era reso conto che altri tentarono di mettere per iscritto o in ordine i fatti legati alla vita di Gesù. Non è detto, però, che nel II sec. fossero diffusi i Vangeli apocrifi. Il più antico frammento del Vangelo di Tommaso risale alla fine del II sec., che probabilmente è la data di composizione di quel Vangelo. Non prima. Mentre noi sappiamo che molti Vangeli si fanno datare al I sec. anche dalle citazioni contenute nella Prima lettera di Clemente, un testo attribuito a Papa Clemente I (88-97) scritto in greco verso la fine del I sec.

Nella Didachè o Dottrina dei dodici Apostoli, che può essere considerata come il più antico catechismo cristiano, essendo stata scritta qualche decennio dopo la morte di Cristo, si cita il “Padre Nostro” , così come noi lo recitiamo oggi

Poi sappiamo che il più antico frammento del Nuovo Testamento è contenuto nel papiro Rylands (P. 52), che riporta parti del Vangelo di Giovanni e risale circa al 125 d.C., ed è quindi una copia scritta a meno di 30 anni dall’originale.

D. Sebbene scartati perché non contenenti verità divinamente rivelate, alcuni Vangeli apocrifi sono giunti fino a noi in lunghi frammenti come il Vangelo copto di Tommaso o il Vangelo di Pietro, trovando anche utilizzo tra i monaci cristiani della Siria e dell'Asia minore. Che valore hanno? Aggiungono informazioni di qualche utilità al racconto dei quattro evangelisti?

Padre Estrada: Innanzitutto, è necessario dire che tra i Vangeli apocrifi ce ne sono alcuni che nel presentare la figura di Gesù o nel riproporne l'insegnamento si ispirano allo gnosticismo, che è quella teoria filosofico-religiosa che nei primi secoli del cristianesimo (I-IV) si contrappose violentemente alla Chiesa cattolica. Nel 1945, nel villaggio di Nag Hammadi, nell'Alto Egitto, venne scoperta un'antica biblioteca copta che custodiva 13 codici, tutti scritti nel IV sec., alcuni dei quali riportavano detti di Gesù, per esprimere tuttavia concetti non cristiani.

Tutti gli studiosi concordano, ad esempio, nell'affermare che il Vangelo di Tommaso – quello che ha suscitato maggiore interesse – sia un Vangelo gnostico che presenta le dottrine e gli orientamenti di una comunità nata come eresia all'interno del cristianesimo e che pretendeva di applicare a Gesù la salvezza e tutti i principi della fede cristiana secondo il proprio punto di vista. Essi infatti non riconoscono la morte in croce, perché la sola salvezza verrebbe dalla “gnosi”, cioè dalla conoscenza. Mentre la materia è sempre causa di peccato o legata al demonio. Il Vangelo di Tommaso, come gli altri Vangeli gnostici, si limita a riportare dei detti di Gesù senza inserirli nella narrazione di quanto egli compie. E' una specie di “Confucio cristiano” del II sec.

A questo punto possiamo domandarci: i Vangeli apocrifi contengono qualche verità? Certamente. Ad esempio i protovangeli ci raccontano i primi anni di vita di Gesù. A questo proposito, quello più famoso è il Protovangelo di Giacomo, attribuito a Giacomo, figlio di Giuseppe, che lo avrebbe avuto, insieme con tre fratelli e due sorelle, da un matrimonio precedente a quello con Maria. Questo testo ha avuto una certa influenza nella tradizione e nell’iconografia, tanto che la presenza del bue e dell’asinello nella grotta della Natività e il nome dei genitori di Maria, Gioacchino e Anna, ci giungono proprio da questa fonte.

Certamente il contenuto dei Vangeli apocrifi può differire. Alcuni contengono delle verità, delle amplificazioni fantasiose rispetto ai Vangeli canonici e un gusto teatrale proprio di un cristianesimo popolare, pur rimanendo nell'alveo dell'ortodossia; mentre molti altri, soprattutto quelli di orientamento gnostico contengono delle falsità perché vogliono convincere sulla validità della loro eresia.

Sotto il profilo storico, non ci dicono nulla di più di quanto sappiamo già dai Vangeli secondo Matteo e secondo Luca, dai quali essi dipendono. La loro intenzione non è storica, essi voglio fare opera di edificazione. Di fronte alla sobrietà dei Vangeli che raccontano anche realtà soprannaturali in maniera “naturale” e asciutta, senza aggiungere circostanze inutili, si è scelto di andare incontro al desiderio del popolo cristiano aggiungendo in maniera più ampia e colorita dei particolari per evidenziare aspetti e vicende dell'infanzia e della prima giovinezza di Gesù e Maria. Ma di fatto in tal modo essi offrono un’immagine di Gesù non conforme alla realtà, come accade nel Vangelo dell'infanzia di Tommaso, dove viene descritto come un bambino già in grado di compiere miracoli.

Quindi, si può dire che se non avessero contenuto anche un piccolo nucleo di verità nessuno li avrebbe accettati. La loro importanza sta nel fatto di mostrare un'epoca, uno sviluppo del cristianesimo, una confluenza di diverse correnti teologiche e religiose. La loro utilità sta nel riuscire a mostrare l'evoluzione del cristianesimo. (Mirko Testa, Zenit, 7 gennaio 2008)

 

  

 


 

 La storia e la giustizia nella “Spe salvi” di Benedetto XVI

(27 gennaio 2008)

 

1. La Spe salvi, pubblicata da papa Benedetto XVI lo scorso 30 novembre, rappresenta – al pari della precedente Deus caritas est – una non piccola novità nel genere “enciclica”, a cui pure appartiene.

Lo stile fluido, non appesantito da continui richiami scritturali o da citazioni di prammatica del magistero precedente, e il confronto serrato ed esplicito, che vi viene condotto, con alcuni fra i maggiori rappresentanti della cultura contemporanea, cristiana e non, rinviano alla forte personalità del Pontefice: insomma se talora per le encicliche (anche importanti) di precedenti pontificati ci si è potuti porre il problema di chi ne fosse stato il vero estensore, qui siamo di fronte a un testo evidentemente “d’autore”, meditato e scritto dal Ratzinger teologo e pastore. Questa impronta personale è stata criticata: si è detto che Benedetto XVI continua a fare l’esegeta della teologia di Joseph Ratzinger, volendo quasi sottolineare l'unilateralità o la scarsa rappresentatività del suo insegnamento. Ma sarebbe gravemente erroneo rappresentare questa e la precedente enciclica come esercizi meramente intellettualistici privi di una reale rispondenza con la situazione spirituale della nostra epoca: essa intende, come accennerò, riproporre con forza la speranza cristiana a un mondo in cui sono “silenzio e tenebre” le grandi religioni politiche del Novecento e nel quale l’unica vera alternativa sembra restare quella dello scientismo nelle sue varie manifestazioni.

Ma non è su questi aspetti teologici che mi voglio fermare: non ne avrei neanche la competenza. Da studioso di storia, mi limiterò invece a proporre qualche riflessione sulla visione della storia umana che Benedetto manifesta in questo suo scritto recente, in particolare sul percorso della storia moderna e contemporanea. Questo perché credo che la dimensione storica (e il problema della “giustizia nella storia”) sia centrale nell’enciclica e che ad esso il Papa dia una soluzione che rinvia ad alcuni di quelli che, per lui, sono i fondamenti del cristianesimo.

2. Si possono individuare due archetipi nella concezione cristiana della storia (mi muovo – lo dico una volta per tutte – con estrema sommarietà). Agostino di Ippona la concepisce come un’eterna lotta fra due “città”, la divina e la terrestre, che sono compresenti e saranno in conflitto sino alla fine dei tempi: esse verranno distinte soltanto al momento del giudizio finale. Questa di Agostino resta la critica più radicale di ogni millenarismo, cioè di tutte quelle concezioni che hanno a più riprese sostenuto che la città divina avrebbe prevalso, in un futuro più o meno prossimo e irrevocabilmente, sulla città terrena e si sarebbe realizzata nel mondo. Essa nega che l’umanità, gravata dal peccato originale, possa conoscere nella storia un’integrale liberazione dal male: ogni generazione deve così rinnovare la sua battaglia per il trionfo del bene, pur sapendo che quel trionfo non sarà mai definitivo, e che, anzi, potranno aprirsi anche momenti di “ritornante barbarie”. Da tale concezione derivano talora atteggiamenti di rinunzia al mondo (contemptus mundi), in attesa che esso “invecchi”, ma anche un impegno intenso, pur se privo di illusioni (pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà, si potrebbe dire con un celebre motto della tradizione socialista). Si tratta di una visione tragica, non consolatoria: «Il mondo è come un torchio, che spreme. - dice Agostino - Se tu sei morchia, vieni gettato via; se sei olio, vieni raccolto. Ma essere spremuti è inevitabile».

Esiste anche un’altra linea, quella della tradizione escatologica dei primi tempi del cristianesimo, che attendeva una realizzazione storica del regno della giustizia. Essa è ripresa – un secolo prima di Dante – da Gioacchino da Fiore (il «calavrese abate Giovacchino/ di spirito profetico dotato»), che previde uno sviluppo provvidenziale del processo storico verso un’età dello Spirito, in cui l’umanità si sarebbe pienamente realizzata. E’ noto come una serie di studiosi novecenteschi (da Karl Löwith a Eric Voegelin) abbia visto nel gioachimismo un momento decisivo della storicizzazione dell’escatologia cristiana e, quindi, una premessa (anche col suo ritmo triadico) delle filosofie della storia ottocentesche.

Benedetto XVI resta nell’ambito di una concezione agostiniana della storia: lo conferma la critica che egli elabora all’idea di progresso, tipico prodotto della modernità. Bisogna intendersi: il Papa distingue tra “sviluppo” materiale (tecnologico, scientifico, economico) e “progresso morale”. Il primo è innegabile e ha apportato grandi benefici all’uomo, ma presenta anche un volto ambiguo: «senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il bene, ma apre anche possibilità abissali di male – possibilità che prima non esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male» (par. 22). Ma in campo morale è ipotizzabile qualcosa di simile all’accumulazione di conoscenze che si ha nella scienza, un progresso, come dice Benedetto, «addizionabile»? È possibile costruire sulle scelte etiche fatte dalle generazioni precedenti, darle come irrevocabilmente realizzate e quindi ridurre progressivamente, nel mondo, la possibilità di male, fino a farla scomparire? L’uomo del XXI secolo costituisce un progresso morale rispetto a quello del XVIII, perché ha proclamato la moratoria della pena di morte, predica il rispetto dell’ambiente e l’uguaglianza fra i sessi? Se così fosse (si potrebbe aggiungere) anche il cristianesimo sarebbe solo una tappa del cammino dell’umanità (importante quanto si vuole, ma destinato a essere superato da qualcosa di ulteriore) e la meta dell’ “oltre-uomo” predicata, in modi diversi, da Marx come da Nietzsche, avrebbe una sua plausibilità.

Il Pontefice, invece, afferma: «Nell’ambito (…) della consapevolezza etica e della decisione morale non c’è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio». Da qui anche la possibilità di regressi morali, in quanto le nuove generazioni possono certamente «attingere al tesoro morale dell’intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali» (par. 24). Non si ha dunque un progresso nella natura umana, essa non può progressivamente liberarsi dai limiti che le sono consustanziali.

Tanto meno l’uomo può sperare che la soluzione della sua esistenza possa prevenirgli dall’esterno, dal mutamento della società. Non che una lotta per una società migliore sia inutile, anzi essa è auspicabile e necessaria, e la politica può contribuire utilmente alla “minimizzazione” del male: soltanto non può distruggerne la radice e risolvere definitivamente il problema della libertà umana. Qui Benedetto XVI fa propria e, a modo suo, rielabora la critica di quello che Antonio Rosmini chiamava il “perfettismo”: «quel sistema - scriveva il filosofo roveretano – che crede possibile il perfetto delle cose umane e che sacrifica il bene presente alla immaginata futura perfezione». Dice, da parte sua, il Papa: «non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana. (…) Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla buone strutture» (par. 24).

3. L’idea dell’indefinito progresso morale è un parto della modernità: la critica che ne fa Benedetto XVI comporta, da parte della Chiesa, il ritorno a un atteggiamento polemico verso il mondo e il pensiero moderni, la fine di quell’attenzione ai “segni dei tempi” che fu uno dei portati della svolta conciliare? Da nessuna parte si è parlato con tanta insistenza di “mondo moderno”, “pensiero moderno”, “modernità” come nel mondo cattolico degli ultimi quarant’anni: come osservava Nicola Matteucci già nel 1970, questa rincorsa è iniziata proprio mentre i laici erano ormai «i primi a non credere più al mondo moderno» e lo consideravano «soltanto un'astrazione ideologica formulata dalla filosofia hegeliana, la quale con il suo immanentismo tolse ogni spazio a un'autentica religiosità. Se si parte da questa astrazione – aggiungeva - è inevitabile l'incontro con Marx».

Ma il pensiero cattolico post-conciliare aveva le sue ragioni: voleva chiudere il tempo delle contrapposizioni, quello in cui all’astrazione «mondo moderno» si era opposta un’altra astrazione, quella di «cristianità»: il vagheggiamento, cioè, di una società organica, fortemente improntata nelle sue istituzioni civili dalla presenza cattolica, che rinviava a un mitico medio evo da restaurare. Per secoli il pensiero cattolico aveva fatto proprio (rovesciando ovviamente il giudizio di valore) l’albero genealogico che il «pensiero moderno» aveva dato di se stesso: Riforma protestante-Illuminismo-Rivoluzione francese-liberalismo-socialismo-comunismo. Quello che la modernità aveva considerato come un processo di emancipazione, esso lo considerava quale una sequela di tragedie storiche che stava precipitando l’umanità nel baratro. Ne derivava – bisogna sottolinearlo – una presa di distanza anche nei confronti delle stesse istituzioni liberali e dei valori che loro sottostavano (libertà di coscienza, pluralismo religioso, etc. ).

Ora di tutto ciò nella Spe salvi non c’è traccia: è da notare, innanzitutto, che Benedetto non “condanna” la modernità, ma la invita a «un’autocritica (…) in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza» (par. 22) e, in questo dialogo, afferma anche l’esigenza di una parallela «autocritica del cristianesimo moderno» (vedremo in quale direzione). Si tratta quindi di un invito ad aprire nuove prospettive, a emendarsi (si potrebbe dire), non a rinnegare se stessa. Ma la «modernità» delineata dal Pontefice non è quella anatemizzata dal cattolicesimo anti-moderno: nella sua riflessione sulla storia moderna, la Riforma non è nemmeno menzionata e Lutero viene citato una volta sola (par. 7) per discutere una sua interpretazione di un passo (decisivo) della Lettera agli Ebrei.

Per Ratzinger la «modernità» ha un altro progenitore, Francesco Bacone: è nel suo pensiero che le «componenti fondamentali del tempo moderno (…) appaiono con particolare chiarezza». Quali sono? 1) Il carattere non più contemplativo, ma strumentale del sapere, per cui l’uomo - attraverso l’esperimento - riesce a conoscere le leggi della natura e a piegarle al suo volere. 2) La trasposizione di questa conquista sul piano teologico: è con la scienza, non con la fede in Gesù Cristo, che l’uomo riacquista quella signoria sulla natura che il peccato originale gli aveva fatto perdere: di fatto è la scienza che «redime». 3) La fede diventa, perciò, irrilevante per il mondo e viene relegata nel privato. 4) La «speranza» cambia natura: la scienza promette un processo continuo di emancipazione dai limiti della vita e un miglioramento ad infinitum della condizione umana. Nasce quella nuova idea di «progresso», di cui già si è discusso. 5) Questo atteggiamento trapassa sul piano politico: come la scienza garantisce il superamento progressivo da ogni dipendenza dalla natura, così appare sempre più necessario emanciparsi da ogni altro condizionamento: sociale, politico e religioso. 6) Emerge la prospettiva di una Rivoluzione che stabilisca il regno definitivo della ragione e della libertà (par. 17-18).

4. La negazione dello status naturae lapsae avviene, quindi, nel campo del pensiero scientifico e di qui trapassa nel pensiero politico e nella concezione della storia. Così anche il tema della “negatività” dell’Illuminismo (altro topos del cattolicesimo controrivoluzionario) non viene accennato dal Papa: anzi egli mette in evidenza che il suo rapporto con la rivoluzione francese è alquanto problematico. «L’Europa dell’Illuminismo, – scrive – in un primo momento, ha guardato affascinata a questi avvenimenti [della rivoluzione francese], ma di fronte ai loro sviluppi ha poi dovuto riflettere in modo nuovo su ragione e libertà». Come esempi delle «due fasi della ricezione di ciò che era avvenuto in Francia», Ratzinger presenta due scritti di Kant, in cui il filosofo rifletteva su quegli avvenimenti. Nel primo del 1792, Kant guarda con favore alle vicende di Francia e ai provvedimenti di laicizzazione del biennio dell’Assemblea costituente: essi – a suo giudizio – segnano il superamento della «fede ecclesiastica», che viene ormai rimpiazzata dalla «fede religiosa», vale a dire dalla semplice fede razionale. Ma nel saggio del 1795, il suo giudizio è assai diverso: siamo all’indomani della caduta di Robespierre, l’Europa ha assistito sbigottita alle politiche di scristianizzazione violenta e all’avvento dei culti rivoluzionari: il corrispettivo politico di questa fase è stato il Terrore. Alla mente del filosofo si affaccia un’altra eventualità: che con la fine violenta del cristianesimo (Kant accenna esplicitamente all’Anticristo) si possa verificare «sotto l’aspetto morale, la fine (perversa) di tutte le cose» (par. 19).

Non risulta chiaro se alle «due fasi della ricezione» corrispondano – per Benedetto XVI – anche «due fasi» della rivoluzione: se, cioè, egli operi una distinzione qualitativa fra la fase “liberale” e quella “terroristica” e se quest’ultima gli appaia come una “deviazione” o uno sviluppo “necessario” della prima. Di certo non vede nel Terrore lo sbocco necessario di tutto il movimento illuministico, ma sottolinea il ripensamento di una sua parte cospicua di fronte ai risultati ultimi del processo rivoluzionario: è inutile aggiungere come da questo ripensamento sia nato il pensiero liberale dei primi decenni dell’Ottocento.

Il cammino della “presunzione fatale” di importanti settori del “pensiero moderno” è dunque – per Ratzinger - diverso dallo “stemma” della modernità contro cui ha polemizzato per secoli la cultura cattolica: esso si avvia con il primo affacciarsi dello scientismo moderno in Bacone, si sviluppa in alcuni settori più radicali dell’Illuminismo e nel “costruttivismo” antireligioso del Terrore giacobino, sbocca – si potrebbe dire – nella “società opulenta” e nelle sue ideologie (scientismo, tecnocrazia, consumismo, edonismo di massa, etc. ). Stranamente manca l’anello intermedio, il sansimonismo, in cui il mito tecnocratico, la divinizzazione della scienza, una morale totalmente edonistica, l’ipotesi “organizzativistica” si fondono in una prospettiva che è, insieme, anticristiana e antiliberale.

In questo cammino, certo, c’è anche Karl Marx, ma (com’è stato sottolineato da molti commentatori) l’approccio ratzingeriano al pensiero del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che liquidatorio. Per Ratzinger, Marx è – per così dire – il Bacone del proletariato: «il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la struttura della storia e della società ed indica così la strada verso la rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose» (par. 20).

Ma gli esiti delle rivoluzioni comuniste del XX secolo costituiscono anche il primo, vero scacco di questo filone di pensiero post-baconiano e non è uno scacco casuale. Esso deriva dalla logica interna al pensiero marxista: Marx, riducendo l’individuo a una serie di rapporti sociali (negandogli un’anima, si potrebbe dire con linguaggio desueto), era convinto che il mutamento della società, «con l’espropriazione della classe dominante, con la caduta del potere politico e con la socializzazione dei mezzi di produzione», avrebbe ipso facto creato l’uomo nuovo. Dopo una breve fase intermedia di dittatura, sarebbe nata la nuova Gerusalemme, in cui l’uomo sarebbe stato finalmente se stesso. Gli esiti di tutto questo pensiero si sono visti. Il fallimento del marxismo non è stato accidentale: esso è derivato dal suo costitutivo materialismo, dal non aver compreso che «l’uomo (…) non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall’esterno creando condizioni economiche favorevoli» (par. 21).

5. Negli ultimi due secoli, l’ateismo ha assunto dimensioni di massa. In molti casi esso non è derivato – almeno inizialmente - da un consapevole materialismo, ma è stato – scrive il Pontefice - «secondo le sue radici e la sua finalità, un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale. Un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non può essere l’opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilità di un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono. E’ in nome della morale che bisogna contestare questo Dio. Poiché non c’è un Dio che crea giustizia, sembra che l’uomo stesso ora sia chiamato a stabilire la giustizia»(par. 42).

In questa analisi dell’ateismo come moralismo sono avvertibili echi di certo progressismo cattolico di metà Novecento. Così, anche per Ratzinger, questo ateismo diffuso ha origine da determinati limiti del cristianesimo degli ultimi secoli. Esso si sarebbe atteggiato a religione della salvezza individuale e avrebbe rinunziato a porre su d’un piano storico-universale il problema del significato dell’esistenza e (quindi) del dolore umano: «con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito» (par. 25, ma anche 22 e 42).

Ecco l’autocritica a cui il Papa invita il cristianesimo contemporaneo ed ecco perché la Spe salvi ripropone il grande tema dell’«ingiustizia nella storia». E qui tornano i temi dell’agostinismo ratzingeriano: come abbiamo accennato, «il mondo è come un torchio che spreme»: ma che senso dare alle sofferenze di coloro che – per millenni – sono stati «spremuti»? Di quelli che – come diceva don Rodrigo - «son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno» (Promessi sposi, cap. XI)? Le filosofie della storia dei secoli passati ne hanno fatto il “materiale” su cui il progresso costruiva il suo faticoso cammino: l’uomo giunto a perfezione avrebbe dovuto volgere il capo verso di loro e dire: “noi siamo giunti finalmente alla meta, ma lo siamo anche grazie alle vostre tribolazioni”. Ciò attribuiva un significato meramente strumentale a quelle innumerevoli esistenze, ma si trattava pur sempre di un qualche significato. Ora, con la crisi irreversibile di quelle concezioni storiche, col riconoscimento diffuso che la storia non ha un “senso”, esse rischiano di perdere definitivamente un qualsiasi significato.

La questione che Benedetto pone all’uomo contemporaneo è perciò la seguente: ci dobbiamo rassegnare al fatto che l’ingiustizia abbia l’ultima parola nella storia umana? Che le sofferenze dei secoli passati e del presente siano senza riscatto? E’ in questa prospettiva che egli torna a parlare con forza del «Giudizio finale», non in un’ottica apocalittico-punitiva, ma come elemento di speranza, che ristabilisca un equilibrio nell’economia della storia del mondo: «Io sono convinto – dice mettendosi in gioco in prima persona – che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell’immortalità dell’amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che l’uomo sia fatto per l’eternità; ma solo in collegamento con l’impossibilità che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita» (par. 43). La prospettiva del giudizio finale – il Papa insiste anche su questo – non comporta rassegnazione contro le ingiustizie del presente, anzi «chiama in causa la responsabilità» di ciascuno (par. 44): ci spinge a un’etica non piattamente eudemonistica, ma a «preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianità, il bene alla comodità – sapendo che proprio così viviamo veramente la vita». Tale etica “ascetica” (così l’avrebbe chiamata Georges Sorel) ci è talvolta indicata anche da molti “buonismi” contemporanei: «ma nelle prove veramente gravi, nelle quali devo far mia la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso», insomma quando ne va della vita, «la certezza della vera, grande speranza, di cui abbiamo parlato, diventa necessaria» (par. 39).

La speranza cristiana – nell’enciclica di Benedetto XVI – torna così ad assumere una dimensione anche sovraindividuale, cosmico-storica si potrebbe dire: essa si presenta come l’unica capace di dare un senso alla storia universale. (Roberto Pertici, l’Occidentale, 4 gennaio 2008)

 

 

 


  

La figura del laico: diritti e doveri alla luce del Vaticano II

(3 febbraio 2008)

 

Tra i vari documenti prodotti dal Concilio Vaticano II ve ne sono due nei quali, per la prima volta nella storia della Chiesa, sono stati presi in particolare considerazione i laici, intesi quali membri attivi e responsabili del popolo di Dio, chiamati a partecipare al  mistero della Chiesa, alla sua vita interiore ed esteriore, nonché alla sua missione di salvezza.

Si tratta della “Lumen Gentium” o Costituzione dogmatica sulla Chiesa e della “Apostolicam Actuositatem” o Decreto sull'apostolato dei laici.

La “Lumen gentium” contiene i lineamenti essenziali della teologia del laicato, che possono essere così sintetizzati: i laici sono la Chiesa. Essi, cioè, fanno parte costitutiva e integrante della Chiesa. Senza la Chiesa dei fedeli la gerarchia non avrebbe senso, perchè essa è tutta al servizio della comunità, a cominciare dal Papa.

La “Apostolicam Actuositatem”, invece, tratta della teologia dell'apostolato del laico - inteso nel suo grandioso e impegnativo significato di “partecipazione alla missione salvifica della Chiesa” - e ne analizza le possibili articolazioni.

Entrambi i documenti conciliari danno un'immagine della Chiesa paragonabile ad un grande cantiere, nel quale lavorano diverse categorie di operai, ciascuno indispensabile e tutti insieme complementari tra di loro; cantiere questo in cui non esistono, né devono esserci dei disoccupati.

Gli operai di cui sopra rappresentano i vari membri del popolo di Dio, e cioè: il Papa, i Vescovi, i Preti, i Religiosi, le Religiose, le persone consacrate, nonché i laici (da notare, che questi ultimi, da soli, pesano per il 98% circa su tutto il mondo cattolico).

A ciascuno di tali membri il Concilio Vaticano II assegna un compito da svolgere: al Papa, il servire l’unità e la vita dell'intera comunità; ai Vescovi, lo svolgere un ufficio pastorale; ai Preti, l’assumere un ministero in diretta comunicazione con i Vescovi; ai religiosi, alle religiose e a tutte le persone consacrate, il proclamare attraverso la loro vita religiosa che Cristo è il Signore e di essere segno dei tempi futuri; infine, ai laici la trasformazione e cristificazione del temporale. Tutti i membri, però, hanno un compito in comune: e cioè, quello di contribuire alla crescita dell'intera Chiesa, ciascuno secondo la propria attività.

Laico e non chierico

Il termine “laico” deriva dal sostantivo greco “laòs”, cioè “popolo” e, nell'uso del linguaggio corrente, indica le persone che non appartengono allo stato o alla gerarchia ecclesiastica (laòs in greco è contrapposto a “klerikòs” ossia al “chierico”), quindi quei semplici fedeli che non sono né preti o chierici, né persone consacrate.

Dei laici, la “Lumen gentium” dà al paragrafo 31 del capitolo IV questa lunga e dettagliata definizione:”Col nome di laici si intendono qui tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti Popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per loro parte, compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano”.

L'attento esame di questa definizione permette di cogliere il nuovo concetto che il Concilio Vaticano II dà della Chiesa e del laico nella Chiesa.

In breve, la Chiesa è lo “strumento” visibile scelto da Dio per la salvezza dell'umanità. Essa è una nella varietà dei doni e dei ministeri; varietà che, però, suppone l'unità. Ogni membro ha qualcosa di comune con gli altri e qualcosa di suo proprio. L'insieme dei membri forma un solo corpo in Cristo, essendo, ciascuno per parte sua, membra gli uni degli altri (Rm. 12,4-5).

Da quanto sopra, derivano alcune caratteristiche che il laico ha in comune con tutti gli altri membri del popolo di Dio, e precisamente:

-          una comune dignità a causa dell'unico battesimo, che fa di tutti allo stesso modo, figli e figlie di Dio; 

-          una medesima fede, assicurata dallo Spirito Santo a tutta la Chiesa;

-          la chiamata, con tutti gli altri membri alla santità;

-          lo stato di “pellegrinaggio” verso il Cielo, dove la Chiesa troverà il suo compimento.

-          la partecipazione alla missione salvifica della Chiesa.

Ciò che differenzia il laico nei confronti degli altri membri del popolo di Dio è, invece, la sua indole secolare, la quale rappresenta un suo proprio “distintivo”.

In merito, la “Lumen gentium” (par. 31) fa la seguente precisazione:”Per loro vocazione, è proprio dei laici cercare il Regno di Dio, trattando la cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè, implicati in tutti i singoli doveri e affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta...”

Vocazione all'apostolato

Dal possesso delle suddette caratteristiche , comuni e peculiari, sorge un insieme di diritti e doveri riguardanti tutti i membri del popolo di Dio e, quindi, anche i laici, nella Chiesa.

In base al Decreto sull'apostolato dei laici (Apostolicam Actuositatem), la vocazione cristiana è, per sua natura, anche vocazione all'apostolato (AA 2a).

Nell’accezione della “Lumen gentium” (LG 33), “apostolato dei laici” vuol dire partecipazione alla stessa missione salvifica della Chiesa; inoltre, a questo apostolato sono tutti destinati dal Signore stesso, per mezzo del battesimo e della confermazione.

In altri termini, dal momento stesso che sono inseriti nel corpo mistico di Cristo per mezzo dei sacramenti del Battesimo e della Cresima, tutti i cristiani hanno il dovere di lavorare, affinché il divino messaggio della salvezza sia conosciuto e accettato da tutti gli uomini, su tutta la terra.

Quanto ai laici, essi hanno un dovere particolare, e cioè: proprio, in virtù della loro “secolarità” che li differenzia dagli altri membri del popolo di Dio, sono chiamati a rendere operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle circostanze in cui essa non può diventare sale della terra, se non per mezzo di loro (LG 33).

 

In virtù del battesimo stesso, l'apostolato dei laici assume una triplice funzione, cosi definita:

- una funzione sacerdotale o “cultuale”. Tutta la vita del laico può e deve divenire un culto reso a Dio, una glorificazione di Dio, una preghiera per l'avvento del Suo Regno. Questa funzione raggiunge il suo vertice nella partecipazione alla sacra liturgia, quando il laico si unisce a Cristo e al suo ministro nella celebrazione della Santa Messa.

- una funzione profetica o “manifestatrice” di Cristo. L'apostolato dei laici deve mirare ad annunziare Cristo e a manifestarlo al mondo. Nell’accezione di entrambi i documenti conciliari in esame, l'annunzio della parola di Dio - qualora si tratti dei laici - va intesa come testimonianza. Ogni laico deve essere davanti al mondo un testimone della resurrezione e della vita del Signore Gesù e un segno del Dio Vivo ... (LG, 38).

- una funzione regale o “di servizio” di tutte le cose in Cristo. Tale funzione implica per il laico il dovere di attuare il Regno di Cristo su di sé e sui fratelli, con l'abnegazione cristiana e la vita santa, lasciandosi possedere sempre più da Dio e aiutando i fratelli a fare altrettanto. Alla luce dell’apostolato, la “secolarità” del laico viene così ad essere trasfigurata nella suddetta triplice funzione, per diventare strumento di santificazione personale e un mezzo per far regnare Cristo nel cuore degli uomini.

 

Per finire, sembra opportuno indicare brevemente, qui di seguito, i diritti e i doveri dei laici nei confronti del clero e della gerarchia della Chiesa, quali emergono dalla Lumen gentium (n. 37) e dalla Apostolicam Actuositatem (cap. V).

I laici hanno il diritto di ricevere i beni spirituali, soprattutto la parola di Dio e i sacramenti; inoltre, di esprimere il loro parere a proposito del bene della Chiesa.

Essi hanno, invece, il dovere di obbedire ai loro pastori in quanto rappresentanti di Cristo; inoltre di raccomandarli a Dio nelle loro preghiere.

I pastori, a loro volta, hanno i seguenti doveri nei confronti dei laici:

- riconoscere e promuovere la loro dignità e responsabilità nella Chiesa;

- servirsi volentieri del loro prudente consiglio;

- affidare loro degli incarichi per il servizio della Chiesa;

- lasciare loro la libertà e lo spazio di agire e di prendere spontaneamente delle iniziative;

- stimolarli anche ad operare in forma autonoma;

- riconoscere e rispettare la loro giusta libertà nel campo temporale.

 

 

 


 

 

I nostri primi meravigliosi nove mesi

(10 febbraio 2008)

 

Seguiamo insieme, anche grazie all’aiuto di straordinarie immagini reali, la fasi della vita prenatale che ciascuno di noi ha vissuto: dalla fecondazione al parto ecco cosa succede in quella che è stata la nostra prima casa.

 

 

Questa non è una storia qualunque. Questa è la nostra storia, la storia di ciascuno di noi. Di solito in questa rubrica raccontiamo esperienze di vita varie e diversificate. Questa non lo è, perché l’abbiamo vissuta tutti. E’ un’esperienza comunissima, ovvia, persino banale. Eppure ancora poco conosciuta, tanto che ancora c’è chi si ostina a negarla. Ma se oggi siamo qui e possiamo comunicare a vicenda è proprio perché l’abbiamo vissuta tutti.

“In principio” a decidere della nostra vita non siamo stati noi. Lo straordinario meccanismo che il corpo umano sceglie per dare il via ad una nuova esistenza è affascinante ed intrigante. E da due piccolissime cellule, l’ovulo materno e lo spermatozoo paterno, parte l’avventura che ora andiamo a raccontare.

 

 

L’ovulo è circondato dagli spermatozoi. Il loro compito è quello di penetrarli, ma questa è un’impresa che riuscirà ad uno solo. Quando ciò avviene, prende il via il processo della fecondazione. I giochi sono fatti, la porta è sbarrata. Nessun altro potrà entrare: il DNA materno e il DNA paterno si fondono dando origine ad un nuovo essere umano. E’ solo una microscopica cellula, ma ha in sé tutto il necessario per iniziare a crescere.

 

 

Mentre inizia il viaggio che nel giro di una settimana lo porterà, attraverso le tube, fino all’utero materno, l’embrione umano cresce rapidamente: da una cellula a due, da due a quattro, poi a otto, sedici e così via. E’ un lavoro invisibile, ma importantissimo. Mentre inizia un processo di crescita graduale, coordinato e continuo, l’embrione comunica con la madre attraverso segnali bio-chimici.

Fra il settimo e il quattordicesimo giorno dalla fecondazione l’embrione completa il suo annidamento in utero con il collegamento alla circolazione sanguigna della madre, attraverso la quale riceverà il nutrimento necessario al suo sviluppo (finora ha fatto da solo con le “scorte” che aveva dalla cellula uovo materna).

Prendono forma rapidamente, intanto, i tre “foglietti” che daranno origine a tutti gli organi e i tessuti; così anche si sviluppano i vasi sanguigni e intorno al 23esimo giorno compaiono gli abbozzi di braccia e gambe, entra in funzione la circolazione sanguigna e un piccolissimo cuore comincia a pulsare ad una velocità doppia rispetto al battito cardiaco materno.

 

 

La madre forse è ancora inconsapevole di tutto: vive i giorni del ritardo del ciclo mestruale e ancora non ha la certezza che un figlio sta crescendo in lei.

Ad un mese dal momento della fecondazione la creatura, per quanto invisibile ed in miniatura, è perfetta e mentre il cervello cresce al ritmo di 250mila cellule cerebrali al minuto, inizia ad apparire visibile a noi. Pesa un centesimo di grammo, è lungo sei millimetri ma le sue cellule sanno esattamente cosa fare e dove posizionarsi.

 

 

Arriviamo pian piano alla sesta settimana e l’embrione “galleggia” nel liquido amniotico. Cervello, occhi, fegato, cuore, polmoni, reni si sviluppano sempre più velocemente: è la fase della “organogenesi”. Pur piccolissimo, è già in grado di provare sensazioni, anche se primitive. Inizia a prendere consapevolezza del proprio corpo e sviluppa i propri sensi molto rapidamente. La crescita avviene a ritmo accelerato, quasi forsennato, tanto che alla fine dell’ottava settimana il nostro piccolo protagonista “pesa” un grammo ed è lungo 23 millimetri.

 

 

Ha compiuto due mesi di vita intrauterina e gli occhi sono ormai perfettamente visibili tanto che cominciano a muoversi; i tratti del viso sono ormai determinati. Gli organi sono già formati da tempo e ora, grazie al continuo scambio con la madre, il pensiero principale del piccolo è quello di crescere e perfezionarsi: ancora non è in grado di sopravvivere autonomamente ma possiede tutti i sistemi e le funzioni necessari ad un essere umano. Iniziano a formarsi le gemme dei dentini e le cartilagini si trasformano in ossa. Alla decima settimana inizia a bere il liquido amniotico e mostra un ottimo senso del gusto, tanto che se vi viene iniettata una sostanza amara fa letteralmente le smorfie e cerca di chiudere la bocca.

 

 

Siamo all’inizio del quarto mese di gravidanza e il piccolo pesa 14 grammi ed è lungo 70 millimetri. Inizia a funzionare il fegato e si delineano le corde vocali e le papille gustative, il cervello continua a crescere e ad immagazzinare sensazioni e informazioni.

Alla 15esima settimana si sviluppano gli organi sessuali e attraverso l’osservazione dei genitali esterni è possibile sapere se si tratta di un bambino o di una bambina. Sono passati quattro mesi dal concepimento e il suo cuore pulsa a 120-160 battiti al minuto. Anche l’udito è ormai completo e il battito cardiaco della mamma costituisce la rassicurante colonna sonora della sue giornate. Si sviluppa anche l’occhio, capace di avvertire variazioni della luminosità. Ormai deve solo crescere, aumentare di volume e farsi più robusto.

 

 

 

Al sesto mese di gravidanza il bambino è lungo circa 30 centimetri e pesa circa 750 grammi. Ora che ha anche i capelli in testa il piccolo inizia a raddrizzarsi e a prepararsi per il momento della nascita. L’ultimo trimestre è dedicato proprio a questo: per lui, abituato da… sempre a vivere nella “casa” materna, il parto sarà un momento di grande stress. In poche ore il neonato sarà “costretto” a fronteggiare una realtà completamente nuova e diversa, anche se il ricordo di quanto vissuto finora rimarrà ancora vivo e presente per qualche tempo.

Ormai è nato. Si festeggia la nascita di una vita. Come lo chiamiamo? (Daniele Lorenzi, Korazym.org,  31 gennaio 2008)

 

 

 

 

 


 

 

Un teologo rifà da capo la fede cattolica. Ma la Chiesa dice no

(17 febbraio 2007)

 

In un medesimo giorno di questo inizio di febbraio “L'Osservatore Romano” e “La Civiltà Cattolica” – cioè il giornale ufficiale della Santa Sede e la rivista controllata riga per riga dalla segreteria di stato vaticana – hanno doppiamente stroncato un libro che è divenuto un caso editoriale, teologico, ecclesiale. In Italia ma non solo.

Il libro è “L'anima e il suo destino”, di Vito Mancuso. L'una e l'altra stroncatura sono uscite contemporaneamente sulle due autorevoli testate il 2 febbraio, festa della presentazione di Gesù.

In pochi mesi “L'anima e il suo destino” ha avuto sette edizioni e ha venduto in Italia 80 mila copie, che per un libro di teologia sono moltissime.

Vito Mancuso, 46 anni, sposato con figli, insegna teologia moderna e contemporanea nella facoltà di filosofia dell'Università San Raffaele di Milano, un ateneo privato senza legami con la Chiesa. Ha conseguito il dottorato in teologia presso la Pontificia Università Lateranense. La sua tesi, patrocinata dal presidente dell'Associazione teologica italiana, Piero Coda, diventò il suo primo libro: “Hegel teologo e l'imperdonabile assenza del Principe di questo mondo”, uscito nel 1996 e giudicato con favore – al pari del successivo, del 2002: “Il dolore innocente. L'handicap, la natura e Dio” – da teologi affermati e di sicura ortodossia come don Gianni Baget Bozzo e Bruno Forte. Quest'ultimo è membro della commissione teologica internazionale che affianca la congregazione vaticana per la dottrina della fede, è stato ordinato vescovo nel 2004 dall'allora cardinale Joseph Ratzinger, regge l'arcidiocesi di Chieti e Vasto e presiede la commissione per la teologia e la cultura della conferenza episcopale italiana.

Ebbene, su “L'Osservatore Romano” del 2 febbraio, è proprio l'arcivescovo-teologo Forte che critica a fondo l'ultimo libro di Mancuso.

La sua conclusione è lapidaria: “Non è teologia cristiana ma 'gnosi', pretesa di salvarsi da sé”.

I numerosi lettori che hanno acquistato “L'anima e il suo destino”, però, trovano in apertura del volume la prefazione di un altro arcivescovo di grandissima fama, il cardinale e gesuita Carlo Maria Martini, il quale raccomanda vivamente la lettura del medesimo libro, nonostante ravvisi in esso idee “che non sempre collimano con l'insegnamento tradizionale e talvolta con quello ufficiale della Chiesa”.

E così il cardinale prosegue, rivolgendosi familiarmente all'autore:

“Sarà difficile parlare di questi argomenti senza tenere conto di quanto tu hai detto con penetrazione coraggiosa. […] Anche quelli che ritengono di avere punti di riferimento saldissimi possono leggere le tue pagine con frutto, perché almeno saranno indotti o a mettere in discussione le loro certezze o saranno portati ad approfondirle, a chiarirle, a confermarle”.

Martini non dice quali siano i punti che si staccano dalla dottrina cattolica.

Li mettono invece nero su bianco “L'Osservatore Romano” e “La Civiltà Cattolica”. Secondo quest'ultima rivista i dogmi “negati” o “svuotati” nel libro sono “circa una dozzina”. E tutti di prima grandezza.

Su “L'Osservatore” Bruno Forte non è da meno. Vede smantellati il peccato originale, la risurrezione di Cristo, l'eternità dell'inferno, la salvezza che viene da Dio. La tesi del libro è che l'uomo basta a se stesso e si salva da sé, alla luce della sua sola ragione.

Mancuso, che si professa cattolico, è consapevole del terremoto che ha provocato. Ma il suo programma dichiarato è proprio quello di “rifondare” la fede cristiana. In un articolo pubblicato il 22 gennaio sul quotidiano “il Foglio” ha respinto anche il dogma della creazione e la dottrina della “Humanae Vitae” sulla contraccezione. A quest'ultima dottrina ha opposto il seguente argomento:

“Occorre guardare in faccia la realtà per quello che è, non per quello che si vorrebbe che fosse, e la realtà è che i rapporti sessuali sono praticati largamente al di fuori del matrimonio e a partire da giovanissima età”.

Al che gli ha replicato sullo stesso giornale don Baget Bozzo, suo ammiratore d'un tempo:

“Caro Vito, che senso ha chiamarsi ancora teologo, se non per pura commercializzazione del prodotto, quando si ha una così bassa concezione della teologia?”.

Più sotto, in questa pagina, sono riportate l'una dopo l'altra le due recensioni apparse su “L'Osservatore Romano” e su “La Civiltà Cattolica”. La seconda ha per autore il gesuita Corrado Marucci, professore di esegesi biblica al Pontificio Istituto Orientale.

Del caso non si è occupata direttamente la congregazione per la dottrina della fede in quanto Mancuso non ha vincoli istituzionali con la Chiesa né insegna in una università ecclesiastica.

Il timore era però che un silenzio delle autorità della Chiesa avrebbe alimentato l'idea che le tesi del libro fossero innocue o persino apprezzabili, offerte a una disputa fruttuosa, come raccomandato dal cardinale Martini nella sua prefazione.

“L'Osservatore Romano” e “La Civiltà Cattolica” hanno rotto il silenzio e fornito una autorevole indicazione su ciò che è conforme o no alla dottrina cattolica e a un metodo corretto di far teologia.

Una teologia che in Italia, nell'ultimo anno, non ha prodotto solo un discutibile successo editoriale come “L'anima e il suo destino”, ma anche un capolavoro di intelligenza della fede come il saggio intitolato “Ingresso alla bellezza”, di Enrico Maria Radaelli. Un'opera maestra sulla quale dovremo presto tornare.

(Sandro Magister, www.Chiesa, 8 febbraio 2008)

 

Gnosi di ritorno e linguaggio consolatorio

(Bruno Forte, L'Osservatore Romano, 2 febbraio 2008)

“Salvarsi l'anima”. Questa espressione antica ha nel linguaggio della fede un senso che appare messo radicalmente in questione dal libro di Vito Mancuso, “L'anima e il suo destino” (Milano 2007). Il volume ha suscitato un dibattito vivace, aperto dalla stessa lettera del cardinale Carlo Maria Martini, pubblicata in apertura, che – pur con grande tatto – parla con chiarezza di “parecchie discordanze [...] su diversi punti”.

L'autore si era fatto conoscere e apprezzare sin dalla sua opera prima, dal titolo suggestivo ed emblematico: “Hegel teologo e l'imperdonabile assenza del Principe di questo mondo” (Casale Monferrato, Piemme, 1996). Libro significativo, questo, attraversato da una lucida critica al monismo hegeliano dello Spirito e da una drammaticità, che contro Hegel ribadisce l'inesorabile sfida del male che devasta la terra, precisamente nel suo volto diabolico e insondabile.

Anche altri saggi di Mancuso mantengono viva questa tensione, che si condensa in pagine profonde lì dove egli tocca il mistero del dolore innocente o scandaglia le profondità sananti dell'amore. Anche a motivo di queste premesse, il libro sull'anima ha suscitato in me un senso di profondo disagio e alcune forti obiezioni, che avanzo nello spirito di quel servizio alla Verità, cui tutti siamo chiamati.

La prima obiezione riguarda la potenza del male e del peccato. Mancuso non esita ad affermare che il peccato originale sarebbe “un'offesa alla creazione, un insulto alla vita, uno sfregio all'innocenza e alla bontà della natura, alla sua origine divina” (167). È vero che l'intento dichiarato dall'autore non è di “distruggere la tradizione”, ma di “rifondarla” (168), cercando di tenere insieme “la bontà della creazione e la necessità della redenzione”: in quest'ottica, il peccato originale non sarebbe altro che “la condizione umana, che vive di una libertà necessitata, imperfetta, corrotta, e che per questo ha bisogno di essere disciplinata, educata, salvata, perché se non viene disciplinata questa nostra libertà può avere un'oscura forza distruttiva e farci precipitare nei vortici del nulla” (170).

La spiegazione non convince: dove va a finire in essa il dramma del male, la potenza del peccato? Kant ha affermato con ben altro rigore la serietà del male radicale: “La lotta che in questa vita ogni uomo moralmente predisposto al bene deve sostenere, sotto la guida del principio buono, contro gli assalti del principio cattivo, non può procurargli, per quanto si sforzi, un vantaggio maggiore della liberazione dal dominio del principio cattivo. Il guadagno più alto che egli può raggiungere è quello di diventare libero, 'di essere liberato dalla schiavitù del peccato per vivere nella giustizia' (Romani, 6, 17-18). Nondimeno, l'uomo resta pur sempre esposto agli attacchi del principio cattivo, e per conservare la propria libertà, costantemente minacciata, è necessario che egli resti sempre armato e pronto alla lotta” (Immanuel Kant, “La religione entro i limiti della semplice ragione”, Milano 2001, 111).

Come ha osservato Karl Barth, “quello che meraviglia non è che il filosofo Kant prenda in generale in seria considerazione il male [...] bensì il fatto che egli parli di un principio malvagio, e dunque di una origine del male nella ragione e in questo senso di un male radicale” (“La teologia protestante nel XIX secolo”, Milano 1979, 338). Vanificare il peccato originale e la sua forza attiva nella creatura vuol dire banalizzare la stessa condizione umana e la lotta col Principe di questo mondo, che proprio Mancuso aveva rivendicato contro l'ottimismo idealistico di Hegel.

La conseguenza di queste premesse è la dissoluzione della soteriologia cristiana. Se non si dà il male radicale, e dunque il peccato originale e la sua forza devastante, su cui appoggia la sua azione il grande Avversario, la salvezza si risolve in un tranquillo esercizio di vita morale, che non vive più di alcuna tensione agonica e non ha bisogno di alcun soccorso dall'alto: “salvarsi l'anima” non sarebbe né più né meno che una sorta di autoredenzione. “La salvezza dell'anima dipende dalla riproduzione a livello interiore della logica ordinatrice che è il principio divino del mondo” – “La salvezza dell'anima non dipende dall'adesione della mente a un evento storico esteriore, sia esso pure la morte di croce di Cristo, né tanto meno dipende da una misteriosa grazia che discende dal cielo” (311).

La risurrezione di Cristo risulterebbe così del tutto superflua: essa, per Mancuso, “non ha alcuna conseguenza soteriologica, né soggettivamente, nel senso che salverebbe chi vi aderisce nella fede visto che la salvezza dipende unicamente dalla vita buona e giusta; né oggettivamente, nel senso che a partire da essa qualcosa nel rapporto tra Dio e il genere umano verrebbe a mutare” (312).

Mi chiedo come siano conciliabili queste affermazioni con quanto dice Paolo: “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1 Corinzi, 15, 14). La confessione della morte e risurrezione del Figlio di Dio fatto uomo è l”'articulum stantis aut cadentis fidei Christianae”!

Vanificata la soteriologia, ne consegue anche lo svuotamento del dramma della libertà e la negazione della possibilità stessa della condanna eterna: l'Inferno sarebbe un “concetto [...] teologicamente indegno, logicamente inconsistente, moralmente deprecabile” (312). Convinzione della fede cattolica è al contrario che senza l'Inferno l'amore stesso di Dio risulterebbe inconsistente, perché non si darebbe alcuna possibilità di una libera risposta della creatura. “Chi ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te”: il giudizio di Agostino richiama la responsabilità di ciascuno di fronte al suo destino eterno.

L'insieme di queste tesi si rifà a un'opzione profonda, che emerge da molte delle pagine del libro: quella che non esiterei a definire una “gnosi” di ritorno, presentata nella forma di un linguaggio rassicurante e consolatorio, da cui molti oggi si sentono attratti.

“Io penso – afferma l'autore – che l'esercizio della ragione sia l'unica condizione perché il discorso su Dio oggi possa sussistere legittimamente come discorso sulla verità” (315). Il problema è di quale ragione si parla: quella totalizzante della modernità, che ha prodotto tanta violenza nelle sue espressioni ideologiche? O quella che il Logos creatore ha impresso come immagine divina nella creatura “capax Dei”? E se di questa si tratta, come si può assolutizzarla fino al punto da ritenere superfluo ogni intervento dall'alto, quasi che il “lumen rationis” escluda il bisogno del “lumen fidei”? Cristo sarebbe venuto invano? E la fragilità del pensare e dell'agire umano sarebbe inganno, perché nessuna debolezza originaria degli eredi del primo Adamo si opporrebbe alla potenza di una ragione ordinatamente applicata?

Ben altro dice la testimonianza di Paolo, alla quale non può non attenersi una teologia che voglia dirsi cristiana, preferendola a ogni illusoria apoteosi della ragione prigioniera di sé: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano” (Galati, 2, 20-22).

Dalla legge, da qualunque legge di autoredenzione, la salvezza non viene. Senza il dono dall'alto, nessuna salvezza è veramente possibile. Sta qui la verità della fede, il suo scandalo: proprio così, la sua potenza di liberazione, la sua offerta della via unica e vera per “salvarsi l'anima”. Pensare diversamente, non è teologia cristiana: è “gnosi”, pretesa di salvarsi da sé.

 

L'anima e il suo destino secondo Vito Mancuso

(Corrado Marucci s.j., La Civiltà Cattolica, 2 febbraio 2008, quaderno 3783)

Nel suo ultimo libro Vito Mancuso (1), docente di Teologia moderna e contemporanea alla Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano, espone quello che si può definire un moderno trattato di escatologia. In vari riferimenti sparsi nel corso dell’esposizione, egli concepisce il proprio lavoro come “costruzione di una 'teologia laica', nel senso di rigoroso discorso su Dio, tale da poter sussistere di fronte alla scienza e alla filosofia”. Questo “discorso” si sviluppa nel testo, dopo la prefazione del card. Martini, nella quale egli afferma, fra l’altro, “di sentire parecchie discordanze su diversi punti”, e un capitolo introduttivo sulle coordinate speculative dell’Autore di circa 50 pagine, in nove capitoli che trattano dell’esistenza dell’anima, della sua origine e immortalità, della salvezza dell’anima, della morte e del giudizio, della terna paradiso/inferno/purgatorio e infine di parusia e giudizio universale. Chiudono una “Conclusione” e l’indice degli autori citati.

Data la mole degli argomenti trattati e lo stile enciclopedico scelto dall’Autore, è praticamente impossibile esporre sinteticamente e commentare le convinzioni, le conclusioni, le proposte, le tirate ironiche e gli stimoli disseminati nel testo (2). Ci limitiamo qui all’essenziale, col rischio di trascurare cose che possono essere sembrate essenziali all’Autore.

INTRODUZIONE

Nel lungo capitolo introduttivo egli espone uno dopo l’altro i cardini di ciò che intende sviluppare in seguito. In realtà si tratta di un insieme di convinzioni e princìpi in parte decisamente ovvi (quanto alla necessità di aderire alla verità, chi ha mai ammesso che si possa argomentare a partire da falsità o addirittura accettarle?), in parte bisognosi di molti distinguo (sembrerebbe che per l’Autore l’ultima istanza di ogni argomentazione sia l’accordo o almeno il non disaccordo con le scienze positive e ciò è ovviamente discutibile, poiché queste sono in un continuo processo autocorrettivo e spesso non prive di preconcetti e indebite estrapolazioni). Mancuso, seguendo una moda terminologica più del gergo politico e giornalistico che non filosofico, dichiara che il suo referente è la “coscienza laica”, intendendo con ciò “la ricerca della verità in sé e per sé” (p. 9). Sarebbe difficile trovare qualche pensatore, dai presocratici a oggi, che abbia un differente concetto di verità: il problema è come si può arrivare alla certezza di aver raggiunto tale verità. Ma forse, come emerge da alcune allusioni, egli è convinto che chi aderisce alla fede cristiana lo faccia tacitando le difficoltà razionali o addirittura senza troppo pensare. L’Autore riassume poi diversi dati e acquisizioni scientifiche relative alla materia, alla sua equivalenza con l’energia, all’evoluzione, che egli ritiene necessario integrare con il concetto di relazione.

Diverse volte, in questo capitolo e anche nei seguenti, Mancuso dice di voler essere un pensatore cattolico, un figlio della Chiesa. È perciò assai strano che egli, in un’opera che sostanzialmente vorrebbe essere di teologia, tra le premesse argomentative non faccia alcun riferimento alla metodologia dell’esegesi biblica e a quella propria della teologia cattolica. Sulle conseguenze di questa mancanza torneremo in seguito. Le ultime pagine del primo capitolo possono qui essere tralasciate sia perché difficilmente riassumibili, sia perché le necessarie critiche saranno più evidenti nelle loro conseguenze sui singoli argomenti trattati in seguito.

L’”ANIMA SPIRITUALE”

Nei capitoli seguenti l’Autore espone le sue convinzioni sugli argomenti classici relativi all’anima e al suo destino finale. Innanzitutto, sempre attingendo ad autori del passato a partire dagli antichi egizi fino al recente Catechismo della Chiesa Cattolica, egli si dichiara “apertis verbis” per l’esistenza dell’anima spirituale nell’uomo arrivato a maturità (?). Va detto tuttavia che con il termine “anima spirituale” egli intende molte cose, ci pare, più legate a concetti come energia, relazione, libertà, creatività e così via, legati cioè più alla materia, o ai sensi o ancora conseguenze della presenza nell’uomo della dimensione spirituale. Molte osservazioni, derivanti dai più disparati settori della vita, sono condivisibili, altre oscure dal punto di vista concettuale. Quello che però stupisce è la completa assenza di argomenti veri e propri che dimostrino l’esistenza di quella realtà che in tutta la tradizione cristiana si è chiamata anima o spirito. Ovviamente ogni dimostrazione vale all’interno di un sistema logico predefinito; ma poiché, come si è detto, Mancuso non dichiara le sue coordinate logiche, non è possibile giudicarne le asserzioni. È ovvio che la pura assimilazione alle scienze fisico-chimiche contemporanee non potrà mai essere sufficiente allo scopo, poiché il loro oggetto formale sono i dati materiali sensibili e osservabili.

Nella sistemazione classica del cattolicesimo la dimostrazione dell’esistenza dell’anima spirituale era demandata alla filosofia, quale “ancilla theologiae”. Dall’ovvia esistenza nell’uomo dell’intellezione e del conseguente giudizio, che sono operazioni non materiali, ma spirituali, si deduceva la necessità di un principio immateriale nell’uomo, poiché la materia non è capace di operazioni non materiali. Il supporto logico-argomentativo era dato dall’ontologia aristotelico-tomista. Quanto invece alle argomentazioni di Mancuso, non è difficile immaginare che un lettore non digiuno di logica e di filosofia le trovi vaghe e poetiche (3).

Quanto poi al momento dell’infusione dell’anima razionale nel corpo, l’Autore, in buona sostanza, pare far sua la teoria delle “formae vitales”, che la filosofia scolastica aveva ereditato da Aristotele, come conseguenza dell’assioma che ogni forma ha bisogno di una materia adeguatamente preparata a riceverla. Tale teoria però, oltre che per difficoltà teoretiche, è stata abbandonata dalla Chiesa cattolica, perché le operazioni vitali, vegetative e sensibili, per sostenere le quali si invocava la presenza nel feto di un’anima soltanto vegetativa e in seguito soltanto sensibile, possono essere tranquillamente attribuite fin dall’inizio all’(unica) anima razionale, come si fa in seguito nell’esistenza umana matura.

A nostro parere l’applicazione dell’assioma sopra ricordato non conduce ad alcuna conclusione sicura, poiché la sproporzione ontologica dell’anima spirituale è totale nei confronti di qualsiasi tipo di materia; non è questione cioè di gradi. Su questo tema stupisce infine il silenzio di Mancuso in merito a tutta quella serie ormai ricchissima di studi sulla fisiologia del cervello per appurare se vi siano operazioni umane non spiegabili con le sole proprietà neurologiche (4). Notiamo infine che diverse volte (5) nel corso dell’esposizione Mancuso attribuisce alla dottrina ecclesiale l’idea che per essa l’anima sia una sostanza, cosa assolutamente erronea: il famoso asserto per cui l’anima è “forma substantialis corporis” significa che essa non è una sostanza bensì un “principium entis”; la sostanza è la persona umana (6).

L’ORIGINE DELL'ANIMA

Il testo poi presenta tutto un capitolo (30 pagine) sul problema dell’origine dell’anima. Nonostante il tentativo di distanziarsi anche in questo punto dalle concezioni tradizionali (di cui egli cita tutta una serie), Mancuso in buona sostanza concorda con la dottrina ecclesiale praticamente in tutto, fatta eccezione per l’affermazione che l’anima umana viene creata direttamente da Dio. In proposito va ricordato che tale dottrina non è mai stata definita come dogma di fede; i manuali le danno la qualifica di theologice certa. L’Autore lo ammette, benché non spieghi esattamente il significato di questa “nota theologica” (7). La conseguenza di questo fatto è che la dottrina contraria (in questo caso che i genitori trasmettono l’anima al concepito) è accettabile laddove si riesca a dimostrare che le argomentazioni razionali che conducono alla necessità del suo contrario non tengono.

Orbene non ci pare che questo riesca all’Autore, ma che anzi quelle classiche siano ancora valide (8), aggiungendo comunque che l’asserto per cui le anime sono create direttamente da Dio ha anche la funzione di sottolineare che ciò che nasce (con una fenomenologia molto varia e addirittura a volte casuale) in realtà è sempre qualcosa di per sé direttamente voluto da Dio, destinato a dialogare con lui e che quindi non rappresenta mai un progetto solamente storico o fattuale, ma eterno. Mancuso sfrutta qui una sua ricorrente convinzione che lo spirito, in quanto energia, possa derivare dalla materia e contesta l’opposizione classica tra spirito e materia, per cui l’una è il contrario dell’altra. Non è il caso di ribadire questa concezione che, una volta capiti i termini, è ovvia; il problema è che qui, e per tutto il libro, l’Autore opera con un concetto di spirito che non è quello di cui parla tutta la tradizione cristiana. Affermare infatti che esso è energia e appellarsi alla fisica einsteiniana è un’idea perlomeno bizzarra (9). Come può una realtà estesa, misurabile e presente anche nelle cose e negli animali, essere spirituale?

D’altronde Mancuso aveva dichiarato nelle premesse la sua incondizionata adesione al pensiero evolutivo e a Teilhard de Chardin. Citando poi come esempio il noto manuale di Flick e Alszeghy, egli sostiene che nell’argomentazione tradizionale ci sarebbe un circolo vizioso; ma perlomeno nell’edizione finale di tale manuale (10) tutto ciò è affatto assente: l’immortalità dell’anima è detta naturale fin dall’inizio, anche se ovviamente voluta da Dio e quindi, dicono i due dogmatici, può essere creata soltanto da Dio. Foriera di gravi conseguenze etiche è l’affermazione che “non c’è più (nel caso di una vita colpita da una grave malattia o da senilità acuta) l’anima razionale-spirituale” (p. 107): è chiaro che Mancuso confonde la facoltà con il suo esercizio (11).

IMMORTALITÀ E SALVEZZA DELL'ANIMA

Il quarto capitolo, di 40 pagine, è dedicato all’immortalità dell’anima. Affastellando citazioni e “bons mots” (a volte poco pertinenti) di pensatori e scienziati dell’antichità, del Medioevo e moderni, Mancuso arriva alla conclusione che per l’immortalità dell’anima non esistono prove (p. 123 e passim). Senza analizzare i motivi del dogma, egli si sofferma sull’esistenza o meno di un Dio personale e su problemi derivanti dalla domanda spontanea di perennità innata nell’uomo. La definizione, ribadita in tutto il corso del testo, dell’anima come energia impedisce di capire il senso delle dimostrazioni classiche e delle numerose conferme bibliche concernenti l’immortalità dello spirito umano. Non è qui il caso di contestare singole affermazioni del testo, che procede veramente a ruota libera (12).

L’Autore ritiene necessario dedicare poi il quinto capitolo, di 37 pagine, al tema della salvezza dell’anima. Innanzitutto dichiara che tutti i contenuti veicolati dal dogma del peccato originale (13) devono essere riformulati o abbandonati; concretamente Mancuso ritiene corretto parlare soltanto di “peccato del mondo”. Prescindendo praticamente dalla teologia paolina, ma ricorrendo a Platone, Anassimandro e Bonhoeffer egli ritiene di dover “rifondare” fede e tradizioni (p. 168). Cercando allora di rispondere alla domanda se dobbiamo ancora essere salvati e se sì, da cosa e come, l’Autore spiega “da noi stessi e dalla vita disordinata (nel senso di sottoposta all’entropia)” (p. 173). Quanto al come, egli proclama che “non è la religione che salva: […] non sono i sacramenti, la Messa, i rosari, i pellegrinaggi, le indulgenze, la Bibbia” (p. 176), e oltre “non c’è alcuna esigenza di credere nella sua [cioè di Gesù] resurrezione dai morti per essere salvi” (p. 183). È ovvio che siamo agli antipodi di ciò che Paolo afferma in 1 Cor 15 e in molti altri passi.

Il sesto capitolo, di 18 pagine, è dedicato a “Morte e giudizio”. Anche qui Mancuso, sulla base di rudimentali richiami biblici (tra i quali manca il testo principale Gn 2,17; 3,19) definisce i dati tradizionali come contraddittori (cfr p. 189); quanto alla valenza della morte egli, in buona sostanza, va catalogato tra coloro che negano la reale problematicità della morte degli umani (14), posizione difforme dalla dogmatica cattolica. Sul criterio del giudizio dopo la morte, Mancuso invece di ricordare la classica formula paolina della “fides caritate formata” preferisce appoggiarsi a Platone, Marco Aurelio, Pascal, Kant e Simone Weil.

I quattro capitoli seguenti, più sintetici dei precedenti, riguardano paradiso, inferno, purgatorio, e parusia e giudizio universale. Anche per il paradiso, la visione beatifica e la risurrezione dei corpi l’Autore compie una completa “demitizzazione”, sempre argomentando da alcuni suoi assiomi non ulteriormente discussi quali l’identità tra spirito e materia, la concezione dell’anima come energia e l’eterna validità delle leggi fisiche. Egli stabilisce perciò che la distinzione tra immortalità dell’anima e risurrezione dei corpi è “del tutto infondata” (p. 223), che la concezione per cui le anime dei defunti vivono “un letargo simile alla morte” sarebbe “oggi maggioritaria tra i teologi e ancor più tra i biblisti” (p. 214) (15) e che “la convinzione che nessun intelletto creato può vedere l’essenza di Dio [è] la peggiore delle eresie” (p. 219), che “la credenza della risurrezione della carne appare nella sua inconsistenza fisica e teologica” (p. 225) e così via. Non è qui possibile commentare questa congerie di affermazioni anche perché le argomentazioni ora sono oscure, ora soltanto accennate sulla base di citazioni, di convinzioni e frasi di pensatori di ogni epoca. Ci limitiamo a segnalare che, in contesto escatologico, il termine “eternità” ha due significati assai diversi, soltanto analogici: se si parla di quella di Dio, essa implica l’assenza di ogni successione e di ogni distinzione tra essenza e operazioni (16), mentre per gli altri esseri spirituali il termine implica la perennità de iure, non solo de facto, ma non esclude la successione temporale e questo risolve alcune antinomie che Mancuso crede di rintracciare nella dogmatica cattolica (17). Nonostante il profluvio di autori citati, pare che Mancuso non conosca la letteratura collegata al concetto di “risurrezione nella morte”, che è la più recente querelle di carattere escatologico in campo cattolico (18).

Venendo poi a parlare dell’inferno, Mancuso dedica praticamente tutto il capitolo (ben 35 pagine) alla confutazione del dogma dell’eternità dello stesso. Anche qui, saltando da Agostino a Tommaso fino a von Balthasar, egli approda alla lapidaria affermazione per cui “parlare di eternità dell’Inferno è una contraddizione assoluta” (p. 263), oltre che poco evangelico. Si tratta dunque di scegliere tra apocatastasi e annichilazione dei reprobi: dopo aver a lungo esposto il pensiero di P. Florenskij, egli resta, per così dire, “anceps”, dopo aver fatto un peana dell’antinomia annunciata. Il lettore noterà la mancanza di analisi delle numerose affermazioni del Nuovo Testamento, con l’introduzione di errori teologici anche non lievi (19). Precisiamo qui, se fosse necessario, che la dottrina dell’apocatastasi, oltre che sempre condannata dal Magistero, è anche insostenibile fintantoché si vuol mantenere la reale libertà di ogni essere spirituale anche di fronte all’appello di Dio.

Dopo aver definito il purgatorio “una salutare invenzione”, Mancuso afferma che l’unica modalità che gli appare “razionalmente legittima” è di concentrarlo nell’istante della morte (p. 279). La parusia infine è da lui definita come maggiormente bisognosa di essere ripensata (cfr p. 289). In definitiva il testo sostiene che non ci sarà alcun ritorno del Gesù glorioso; le frasi corrispondenti del Nuovo Testamento sono errori di Gesù e di Paolo. Per Mancuso è semplice anche spiegare perché “Dio non è mai intervenuto direttamente nella storia” e perché “non tutta la bibbia è parola di Dio”!

CONCLUSIONE

Se per teologia si intende la riflessione dell’intelletto umano illuminato dalla fede sulla Sacra Scrittura e sulle definizioni della Chiesa, allora il nostro giudizio complessivo su questa opera non può che essere negativo. L’assenza quasi totale di una teologia biblica (20) e della recente letteratura teologica non italiana, oltre all’assunzione più o meno esplicita di numerose premesse filosoficamente erronee o perlomeno fantasiose, conduce l’Autore a negare o perlomeno svuotare di significato circa una dozzina di dogmi della Chiesa cattolica. A fronte di una relativa povertà di dati autenticamente teologici, la tecnica di accumulare citazioni da tutto lo scibile umano, oltre al rischio di distorcerne il senso reale ai propri fini poiché esse fanno parte di assetti logici a volte del tutto diversi, non corrisponde affatto alla metodologia teologica tradizionale (21).

In realtà non è facile neanche elencare tutte le matrici che Mancuso alterna e assomma nel corso dell’esposizione (platonismo, razionalismo gnostico, scientismo, eclettismo e così via): quello che comunque domina è il razionalismo convinto che di realtà di cui non si ha alcuna percezione sensibile o decisamente soprannaturali si possa discettare in analogia con le scienze fisico-biologiche. Nel contesto di notevolissima confusione sulla religione e la Chiesa tipica della cultura mediatica contemporanea, questo testo ci sembra che contribuisca ad aumentare tale confusione. L’Autore dichiara la sua disponibilità ad essere corretto: ma ciò, dato lo stile non sistematico e velleitario delle sue affermazioni, non è facile, poiché si può confutare soltanto ciò che è organicamente formulato al di dentro di un preciso assetto epistemologico.

NOTE

(1) Cfr V. Mancuso, “L’anima e il suo destino”, Milano, Cortina, 2007, XVI-323, € 19,80. Le pagine indicate nel testo si riferiscono a questo volume.

(2) È spiacevole che in un’opera teologica ci siano titoli come “il deposito di zio Paperone” (p. 37) e “Vino e tortellini” (p. 40). Ancora a p. 73 il matrimonio è detto “legame chimico totale della libertà”. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati.

(3) Alquanto sorprendente invece è la convinzione dell’Autore secondo la quale le attività più chiaramente spirituali dell’uomo sono “scienza, arte, musica, pensiero” (p. 64). Anche in seguito si sostiene che la musica è la massima espressione spirituale dell’uomo.

(4) Su questo settore di ricerca cfr, tra i molti, H. Goller, “Hirnforschung und Menschenbild”, in “Stimmen der Zeit” 218 (2000) 579-594 (con abbondante bibliografia) e H. Schöndorf, “Gehirn-Bewußtsein-Geist”, in “Herder-Korrespondenz” 53 (1999) 264-267.

(5) Cfr, ad esempio, pp. 53, 77, 93, 97.

(6) Ricordiamo “en passant” che anche per la cosiddetta anima separata san Tommaso precisa che essa non è persona umana (cfr “Summa Th.” 1, 29, 1 ad 5m; Pot 9, 2 ad 14m; “Summa contra Gentiles” 4, 79).

(7) Tale qualifica significa che un asserto è necessariamente connesso mediante operazioni logiche a un dogma di fede, non, come spiega Mancuso, “che i pronunciamenti del Magistero sono stati tali da rendere tale dottrina patrimonio sicuro della fede cattolica” (p. 85).

(8) Senza stare qui a ripeterle rimandiamo all’esposizione di M. Flick - Z. Alszeghy, “Il Creatore, l’inizio della salvezza”, Firenze, Lef, 19612, 251 s.

(9) Con la solita mescolanza dei generi letterari egli afferma che “per avere una reale esperienza spirituale […] non è necessario […] andare in Chiesa, isolarsi in un monastero” (p. 87).

(10) Cfr M. Flick - Z. Alszeghy, “Il Creatore…”, cit., 183 ss; lo stesso vale per J. Donat, “Psychologia”, Oeniponte, 19327, 409 ss.

(11) Più o meno le stesse cose vengono ripetute dall’Autore oltre, alle pp. 136 ss.

(12) Ci limitiamo a notare che non è vero che con le note prove tomistiche dell’esistenza di Dio si approda sempre a un essere impersonale, poiché almeno la quinta prova termina a un essere intelligente, che non può essere che personale. Il termine riferito a Dio di “universitatis principium”, che secondo Mancuso a motivo del neutro proverebbe che si tratta di qualcosa di impersonale (p. 129), non viene usato da Tommaso nel contesto delle cinque prove, ma una volta sola in “Summa contra Gentiles” 1, 1, 3.

(13) Quanto al rapporto tra peccato dei progenitori e peccato originale originato, notiamo che Mancuso pare ignorare il noto saggio di K. Rahner “Theologisches zum Monogenismus”, in “Schriften zur Theologie” 1 (Einsiedeln, 19604) 253-322. Più avanti (p. 287), con la solita eccedenza verbale, egli stabilirà che “il peccato originale [è] un autentico mostro speculativo e spirituale, il cancro che Agostino ha lasciato in eredità all’Occidente”!

(14) Anche su questo tema avrebbe apportato chiarezza la conoscenza dell’ottimo saggio di K. Rahner, “Zur Theologie des Todes” (QD 2), Freiburg i.Br., 19613.

(15) Non si citano nomi concreti, ma l’affermazione, per quanto concerne teologi e biblisti cattolici, è completamente erronea (vedi anche i testi da noi citati sotto in nota 18). In realtà fu Lutero a parlare per primo di un “Seelenschlaf”.

(16) Il che è perfettamente espresso nella nota definizione di Boezio: “interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio”. L’erronea concezione che Mancuso ha dell’eternità dello spirito creato ritorna spesso (cfr soprattutto p. 313).

(17) Cfr la Quaestio disputata “Auferstehung im Tode” di G. Greshake - G. Lohfink (Freiburg, 19825) con la nostra critica in G. Lorizio (ed.), “Morte e sopravvivenza”, Roma, Ave, 1995, 289-316.

(18) Il più grave è quello di attribuire a Tommaso l’affermazione che in “Summa Gent.” III, 163 Dio “spinge […] ad agire effettivamente male. No comment” (p. 254 s). Il commento è invece necessario: Tommaso continua nel testo con le parole “reprobatio includit voluntatem permittendi aliquem cadere in culpam, et inferendi damnationis poenam pro culpa”.

(19) Segnaliamo in nota che la traduzione del p. Centi di “assimilamur” con “somiglianza” in “Summa contra Gentiles” III, 51 (p. 218) è corretta (l’italiano “assimilare” è frutto di evoluzione semantica); la frase citata (a p. 207) dal “Kleines Theologisches Wörterbuch” di Rahner e Vorgrimler (che non è proprio il massimo che si possa citare in tema di escatologia) alla voce “Himmel”, per cui il cielo non sarebbe un luogo, è avulsa dal contesto, per cui, rileggendo tutta la voce, viene corretta nel senso tradizionale.

(20) Basta ricordare la seguente sentenza: “Il biblicismo è una pericolosa malattia, è la paralisi dello spirito” (p. 279). Già prima Mancuso aveva informato il lettore che, tra i 73 libri biblici, “ve ne sono di banali [...]; alcuni sono capolavori assoluti, mentre altri presentano pagine persino dannose al progresso spirituale delle anime verso la via del bene e della giustizia” (p. 104 s).

(21) Questa è ben formalizzata e più solida di quanto forse l’Autore si immagina: si veda anche soltanto il chiarissimo piccolo capolavoro del Bochenski, uno dei maggiori storici della logica del Novecento, dal titolo “The Logic of Religion” (New York, 1965) e il “Method in Theology” di B. Lonergan.

 

 

 


 

 

In cammino con Gesù: una nuova testata giornalistica di RomaSette

(24 febbraio 2007)

 

 

1. Chi ha nascosto gli apocrifi?

Chi ha nascosto gli apocrifi? Se è vero che la parola apocrifo (derivante dalla radice greca krupto, nascondo, da cui anche i termini cripta e criptico) vuol dire appunto nascosto, del tutto falsa è invece l’insinuazione che la Chiesa si sia resa colpevole di un occultamento di tali testi.

La parola apocrifo – si può tradurre anche con segreto - viene utilizzata piuttosto in apertura di questi stessi testi per cercare di nasconderne la distanza cronologica dai testi canonici del Nuovo Testamento.

«Sono queste le parole segrete che Gesù, il vivente, ha proferito e Didimo Giuda Tommaso ha messo in iscritto»: così comincia il Vangelo copto di Tommaso, probabilmente il più antico degli apocrifi, databile intorno al 150 d.C., composto quindi un cinquantennio dopo il completamento della scrittura dei testi neotestamentari e distante ben cento anni dal primo scritto accertato dell’epistolario paolino, la prima lettera ai Tessalonicesi, che risale agli anni 50/52.

Gli fa eco il Vangelo apocrifo di Giuda, recentemente lanciato sul mercato con una operazione mass-mediale di ampie proporzioni, che così recita: «Spiegazione segreta della rivelazione che Gesù rese conversando con Giuda per una settimana, tre giorni prima di celebrare la Pasqua», ma troviamo espressioni analoghe nel Vangelo dell’atleta Tommaso - «Sono queste le parole segrete che il Salvatore ha detto a Giuda Tommaso e che io stesso, Matteo, ho messo per iscritto» - o ancora nell’Apocrifo di Giovanni che dice: «Questi misteri nascosti egli (il Salvatore) li rivelò in un silenzio (…) e li insegnò a Giovanni, il quale vi prestò attenzione».

L’insistenza su questi insegnamenti nascosti è già di per se stessa sospetta. Gli autori degli apocrifi vogliono lasciare intendere che sono stati essi stessi a nascondere questi testi, perché la Chiesa non potesse leggerli e conoscerli. Ma se non è stata la Chiesa a nasconderli è reale o fittizio questo nascondimento ad opera degli stessi autori? La ricerca storico-scientifica moderna non ha difficoltà a rispondere a questa domanda. Non c’è traccia, infatti, nel I secolo d.C. dei cosiddetti vangeli apocrifi; essi vengono redatti a partire dalla metà del II secolo e presuppongono tutti la conoscenza dei testi canonici, mentre nessun testo canonico ha come presupposto gli apocrifi. Non sono mai stati nascosti allora, semplicemente perché non esistevano ancora!

Perché allora negli apocrifi si sottolinea ripetutamente la presunta segretezza e nascondimento? Perché, insomma, questi testi cercano di accreditare l’esistenza di una tradizione segreta che un singolo apostolo avrebbe ricevuto nascostamente da Gesù, che avrebbe successivamente nascosto agli altri apostoli, che avrebbe rivelato nascostamente solo ad un piccolo gruppo di discepoli vincolandoli al silenzio, finché stranamente questa consegna del segreto sarebbe stata infranta ed i testi sarebbero stati resi pubblici?

La risposta è indubbia e condivisa da tutti gli studiosi della materia: l’invenzione del segreto è un genere letterario con il quale si cerca di presentare un testo composto tardivamente come se fosse invece molto antico, provando ad accreditarlo come pre-esistente agli altri vangeli conosciuti pubblicamente e noti a tutti.

Proseguendo lo stile di annuncio del Gesù reale - «Gesù rispose al sommo sacerdote: “Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto” (Gv18,20-21)» – gli apostoli e la chiesa hanno esposto se stessi pubblicamente, nonostante il rischio delle persecuzioni, non nascondendo niente di quel deposito della fede ricevuto in dono dal Signore.

Come avrebbero potuto, allora, dei nuovi testi che presentavano una lettura assolutamente difforme dalla storia del Gesù reale, essere considerati autentici? Lo stratagemma di una tradizione segreta servì a dar credito a questa nuova proposta. Solo per porgere un esempio, è possibile riferirsi al famoso ultimo versetto del Vangelo copto di Tommaso che recita testualmente: «Simon Pietro disse loro: "Maria deve andar via da noi! Perché le femmine non sono degne della vita". Gesù disse: "Ecco, io la guiderò in modo da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito vivo uguale a voi maschi. Poiché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel Regno dei cieli"».

Appare subito l’enorme difformità dai vangeli canonici e dal Gesù storico. La gnosi vede nella donna l’essere materiale, carnale, passionale per eccellenza, inadatto alla vera vita ed alla comunione con Dio; il Gesù di questo vangelo apocrifo non contesta l’affermazione di Pietro, ma anzi la incoraggia, poiché la vita divina è prerogativa dei soli maschi e di coloro che saranno resi simili a loro. L’unico modo per accreditare come vera e storica questa nuova versione di Gesù era quella di contrapporre all’unica tradizione che risaliva agli apostoli stessi ed al Gesù storico una tradizione nascosta: Gesù stesso e poi Tommaso e poi i discepoli di Tommaso, avrebbero finto dinanzi alle masse di apprezzare la donna, ma, in segreto, avrebbero predicato un disprezzo per la figura femminile. Questa tradizione esoterica sarebbe allora stata la vera intenzione del Signore.

Nel’iniziare questa rubrica In cammino con Gesù, non è difficile comprendere allora perché sia necessario rivolgersi ai vangeli canonici per accostarsi al Gesù reale ed al suo mistero.

 

2. L’origine apostolica dei vangeli e la loro storicità al Concilio Vaticano II

«Immaginate in questa navata centrale della basilica di San Pietro le sessioni del Concilio Vaticano II e gli oltre 2500 vescovi seduti a destra ed a sinistra che nel 1965 approvano la [b]Dei Verbum». Raramente le guide dei tanti pellegrini e turisti che giungono in Vaticano si soffermano a raccontare e far rivivere questi momenti decisivi. Il Vaticano I fu celebrato nel transetto destro della basilica, mentre il Vaticano II richiese l’intera navata centrale per permettere a tutti i partecipanti di prendere parte alle diverse sessioni.

Fra i passaggi decisivi della Dei Verbum troviamo l’affermazione dell’origine apostolica dei vangeli (DV 18): «La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli sono di origine apostolica».

Con questa felice espressione i padri conciliari hanno voluto, da un lato, lasciare libero campo alla ricerca su chi siano gli ultimi redattori degli scritti neotestamentari. Dall’altro hanno insegnato che, chiunque sia stato l’effettivo estensore finale dei singoli scritti e quali siano stati i passaggi che hanno preceduto la loro redazione ultima, tutto è avvenuto in conformità alla predicazione apostolica.

L’ipotesi più accreditata sulla formazione dei sinottici afferma l’esistenza di una raccolta scritta di detti di Gesù (in greco loghia) precedente la redazione di Matteo e Luca e da loro utilizzata. I passi paralleli di questi due vangeli mostrano che entrambi debbono aver usufruito di questa fonte a loro anteriore, tesa anch’essa a far sì che potessero essere conservate le parole pronunciate da Gesù. Questa raccolta (indicata convenzionalmente con la maiuscola Q, dal tedesco Quelle che significa appunto fonte) non la possediamo più come testo a sé stante, ma inserita in Matteo e Luca che l’hanno intrecciata nel tessuto del vangelo di Marco e arricchita con fonti a loro proprie.

L’affermazione dell’origine apostolica dei vangeli indica che questa ipotesi, come altre consimili, è assolutamente legittima per la fede cattolica. Essa, infatti, non inficia minimamente l’affermazione che ciò che è contenuto nei vangeli risale alla predicazione apostolica.

I vangeli e gli altri testi neotestamentari vengono scritti mentre sono certamente ancora in vita alcuni degli apostoli. La loro redazione avviene, comunque, in comunità di fondazione apostolica nelle quali la memoria della loro testimonianza è certamente forte. Affermare che la chiesa ha sempre ritenuto e ritiene l’origine apostolica dei vangeli vuol dire, da parte del Vaticano II, confermare che la sostanza di ciò che i vangeli ci trasmettono rispecchia fedelmente la parola degli apostoli anche se i testi non avessero direttamente la loro paternità, ma fossero opera di loro discepoli o in maniera più estesa di “cerchie” di persone tramite loro generate alla fede.

Paolo VI in persona intervenne nella discussione conciliare facendo preparare una lettera il 17 ottobre 1965: chiedeva che il testo della Dei Verbum affermasse da un lato il triplice stadio – Gesù, gli apostoli, i redattori - che ha portato alla scrittura dei vangeli e dall’altro la fedeltà storica del Nuovo Testamento al “Gesù reale” . Il suggerimento del Papa fu accolto ed i padri conciliari si trovarono d’accordo nel dire, in Dei Verbum 19, che la chiesa “afferma senza esitazione la storicità” dei Vangeli.

Su questa linea si muove il volume Gesù di Nazaret di J.Ratzinger-Benedetto XVI in tutta la sua impostazione ed anche quando, riflettendo sull’importanza della testimonianza giovannea che concorda pur nelle sue peculiarità con tutto il resto del Nuovo Testamento, afferma che dietro il quarto vangelo “vi è ultimamente un testimone oculare e anche la redazione concreta è avvenuta nella vivace cerchia dei suoi discepoli e con l’apporto determinante di un discepolo a lui familiare”. Più che l’individuazione precisa di questa figura ciò che sta a cuore all’Autore è evidentemente l’origine apostolica dell’evangelo giovanneo.

Il Nuovo Testamento è così testimone non di molti cristianesimi, ma di un unico cristianesimo nel quale i differenti autori arricchiscono l’unità con la percezione di sfumature differenti ricchissime ma mai divergenti sul nucleo centrale, tutti confessanti insieme che solo in Cristo avviene la piena rivelazione di Dio e che non vi è altro Salvatore all’infuori di Lui. (don Andrea Lonardo, In cammino con Gesù, RomaSette, 5 e 19 febbraio 2008)

 

 

 


 

A che punto sta l’approvazione dei neocatecumenali?

(2 marzo 2008)

 

Nel corso dell’ultimo anno per ben tre volte è stata annunciata l’imminente approvazione definitiva degli Statuti del Cammino Neocatecumenale. E per ben tre volte, nel giugno, nel settembre e nel dicembre 2007, questo non è avvenuto.

 

Abbiamo dato queste informazioni per semplice dovere di cronaca, sempre in presenza di apposite dichiarazioni in merito da parte del più autorevole esponente del Cammino Neocatecumenale medesimo (o di annunci in tal senso veicolati alle singole comunità), e sempre cercando nei limiti del possibile una conferma indipendente. Quindi cerchiamo di riferire dei fatti. E che l’approvazione degli Statuti sia annunciata come prossima e imminente da quasi otto mesi - e ancora adesso - non è una nostra invenzione, ma un fatto.

 

Oltre ai fatti però ci sono le opinioni. E la nostra opinione in merito agli annunci anticipati è che si sia trattato – e si tratti ancora adesso – di un modo poco consono di agire, ancor più da parte di chi riveste un ruolo di primo piano e di grande responsabilità al vertice del Cammino neocatecumenale. La difficoltà e la estrema delicatezza dell’iter vaticano (difficoltà evidente, visti i mesi trascorsi senza che giungesse un solo pronunciamento ufficiale in merito) non giustificano affatto un siffatto tentativo di rassicurare gli appartenenti al Cammino. Sarebbe stato invece particolarmente saggio ammettere pubblicamente la laboriosità dell’intera faccenda e astenersi da annunci impropri. O quanto meno farli passare per quello che evidentemente erano: auspici, desideri, speranze. E niente più. Anche perché, così facendo, il risultato che si ottiene è quello di perdere di credibilità, anche di fronte agli stessi appartenenti al Cammino.

 

Quanto appena detto conduce a una considerazione più ampia sull’intero universo del Cammino Neocatecumenale. Un itinerario di formazione che nella Chiesa di oggi viene da alcuni amato e lodato in modo totale e da altri sdegnosamente rifiutato, combattuto e avversato. Non ci ascriviamo né all’una né all’altra parte. Sappiamo, anche perché lo abbiamo visto in noi, nei nostri amici, nei nostri conoscenti, in numerosissimi uomini e donne, ragazze e ragazzi, che il Cammino Neocatecumenale è un itinerario serio e impegnativo di formazione cristiana, un vero dono per quanti lo vivono in pienezza trovandovi la spinta e la forza per sentire e vivere davvero, ogni giorno, una vita da cristiani. La novità o la riscoperta del proprio credere, la consapevolezza dell’essere peccatori, la sicurezza del perdono, la certezza del dono gratuito dell’amore di Dio, la gioia della testimonianza, la felicità nel vivere la dimensione della comunità sono altrettanti straordinari elementi che raccontano la grandezza di una fede che si fa viva e reale, di un Dio che agisce ed entra nella vita di ognuno e la cambia e la riempie. Ma proprio in virtù di questi aspetti positivi, quanto mai ferma e rigorosa deve essere l’attenzione e la cautela verso tutte quelle ombre che vengono via via segnalate. Non si tratta di “distruggere l’opera dello Spirito”, ma di discernere e separare il buono dal cattivo, perché il buono si salvi e il cattivo venga buttato via.

 

Le riserve sono numerose, ad iniziare dalla completa aderenza delle catechesi “storiche” degli iniziatori Kiko Arguello e Carmen Hernandez agli insegnamenti della Chiesa fino alle modalità con le quali si realizza ogni giorno la vita del Cammino nelle nostre parrocchie. In particolare, deve far riflettere il rischio di chiusura e di separazione e di frattura delle comunità del Cammino rispetto alla vita parrocchiale e della Chiesa tutta; deve essere evitato ogni “settarismo”, ogni tentazione di particolarismo; devono essere gestiti con rigorosa attenzione i momenti dei “passaggi” da un livello all’altro del Cammino, con riferimento ai cosiddetti “scrutini” e alla necessità del rispetto totale e integrale della persona; devono essere valutati nel dettaglio i rapporti fra i catechisti e i sacerdoti, fra questi e il parroco, fra i parroci e il vescovo diocesano, perché ci si muova ad una sola voce e gli abusi – psicologici, liturgici, e così via - vengano immediatamente fermati. Il Cammino non può essere una seconda Chiesa, una “Chiesa nella Chiesa”: è solamente un percorso di fede, che deve fare in modo che le ombre non offuschino quanto di buono c’è in esso. Dunque, serve il coraggio di allontanarsi istantaneamente dagli aspetti critici. Lo stretto rapporto fra catechisti, sacerdoti e fedeli neocatecumenali non autorizza i primi e i secondi a dimenticare che l’autonomia e il rispetto per la vita privata delle persone e per la loro dignità non può mai venir meno. Che nella vita dei propri fratelli si cammina con passi attenti e non con andatura (e delicatezza) da pachiderma. E poi, naturalmente: è la Chiesa la casa dei credenti, non la comunità neocatecumenale. E’ il Vangelo il cuore della buona novella, non la catechesi di Kiko e Carmen. E’ Dio al centro della nostra vita, non i catechisti o gli iniziatori. Per quanto carismatici o simpatici possano essere. E il Cammino neocatecumenale è un percorso di fede che può essere “adatto” a molti, ma è solamente uno dei tanti. La varietà e la ricchezza della Chiesa, per fortuna, non si fermano alle comunità neocatecumenali. E si può essere ottimi cristiani anche senza aver mai avuto nulla a che spartire con loro.

 

Da tutto questo deriva in conclusione la consapevolezza dell’importanza e della delicatezza del ruolo che ricoprono i vertici del Cammino neocatecumenale, ad iniziare dal suo iniziatore Kiko Arguello. Lui, punto di riferimento di una realtà ecclesiale che cresce ogni giorno di più, e alcuni altri con lui, portano sulle spalle una responsabilità immane. Basta osservare l’entusiasmo che suscita in migliaia di ragazzi durante gli incontri di piazza per toccare con mano questa realtà. Non tutto ciò che il carisma del fondatore vorrebbe deve però essere perseguito, non tutto ciò che costituisce la prassi del Cammino Neocatecumenale è per ciò stesso cosa buona e giusta. La determinazione di chi ha visto sorgere dal nulla un movimento così ampio e diffuso deve fare i conti anche con l’umiltà e con la fiducia. E poiché i motivi di preoccupazione, purtroppo, non mancano, non si può far finta di nulla, non si può ingenuamente pensare che tutto vada bene, che gli aspetti critici siano solamente invenzioni, che non si siano mai commessi degli errori, che non ci siano stati casi in cui, anche all’interno del Cammino, si sia seminato dolore e disperazione. La grandezza del fenomeno neocatecumenale richiede altrettanta grandezza nella sua guida.

 

La “telenovela” dell’approvazione degli Statuti arriverà prima o poi a conclusione, in un verso o nell’altro. Oltre le parole messe nero su bianco, però, sarà l’applicazione concreta degli stessi, insieme con le novità in materia di liturgia e catechesi, a decidere il futuro del Cammino Neocatecumenale. Sarà ciò che succede nel concreto nelle parrocchie a contare, perché è nella quotidianità che si sviluppa l’essenziale. E allora l’approvazione degli Statuti, se avverrà, sarà solo l’inizio del secondo tempo della storia. Una storia tutta da scrivere.

Ormai anche fra i neocatecumenali c’è chi non ci crede quasi più. Prima doveva essere giugno 2007, poi settembre, poi dicembre, e ora, scavalcato l’anno e piombati nel 2008, febbraio. Una sorta di legge della relatività applicata al tempo, e nel caso specifico, alla firma e all’annuncio dell’approvazione definitiva degli Statuti del Cammino Neocatecumenale. Qualcuno sorridendo si lancia anche nell’ardito paragone con gli annunci della fine del mondo che, a seconda dell’umore di improbabili santoni o profeti, balza avanti, di anno in anno, senza che poi allo scoccare della fatidica data l’universo faccia un solo passo verso l’avverarsi della terribile profezia. Ma ironie a parte, e rimandando qui per le considerazioni di merito sull’alternarsi di date e annunci (ufficiosi o ufficiali che siano), la nuova puntata relativa all’approvazione definitiva degli Statuti del Cammino neocatecumenale (in vigore con la formula ad experimentum per un periodo di cinque anni a partire dal 29 giugno 2002 e dunque scaduti otto mesi fa) merita comunque di essere raccontata, se non altro perché ormai praticamente di dominio pubblico.

 

Si tratta di nuove rassicurazioni su un prossimo e imminente annuncio positivo da parte della Santa Sede lanciate nelle comunità neocatecumenali nel corso del tradizionale incontro (Annuncio) che coincide con il via al tempo di Quaresima. Annunci sfociati in un passaparola fra i membri del Cammino, la cui eco ha trovato spazio anche sul web, nei (a dir la verità pochissimi) forum e blog neocatecumenali sopravvissuti alla "moratoria" web decisa un anno fa. Come già accadde in occasione dell’Avvento, nel dicembre scorso, anche all'inizio di questa Quaresima il completamento dell’iter vaticano viene dato per scontato dai catechisti delle comunità, con l’ulteriore particolare che l’ok definitivo sarebbe andato in scena nei primi giorni del mese in corso e negli ultimi giorni di febbraio (dunque fra una decina di giorni) il Pontificio Consiglio per i Laici – competente in materia di Statuti – provvederà ad emettere il relativo decreto. Dalle parti interessate, finora, nessuna conferma ufficiale.

 

Oltre alla sorte degli Statuti, sarà interessante ad ogni modo valutare se il pronunciamento (eventuale) della Santa Sede riguarderà anche le altre questioni ancora aperte, ad iniziare dal Direttorio Catechetico (cioè l’insieme di quei volumi - "Cammino Neocatecumenale. Orientamenti alle équipes di catechisti” - che raccolgono le catechesi degli iniziatori Kiko e Carmen e costituiscono la colonna portante del Cammino, la sua tradizione orale e la sua prassi). Importante anche la questione della liturgia, oggetto nel dicembre 2005 di un pronunciamento da parte della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. In effetti, l’insolito prolungarsi nel tempo della vicenda pare essere indice proprio di una “presa in carico” complessiva, da parte della Santa Sede, della pratica relativa al Cammino Neocatecumenale, con interventi concertati dunque da parte delle Congregazioni per la Dottrina della fede, per il Culto Divino e per il Clero.

 

Liturgia: “disobbedienza” sul web – E’ proprio sul tema della liturgia e sul comportamento del Cammino di fronte alle richieste della Santa Sede ruota una vicenda alquanto insolita per l’universo neocatecumenale che naviga in rete: si tratta della pubblicazione di un controverso articolo sul sito spagnolo Camineo.info, uno dei principali punti di riferimento della galassia neocatecumenale (ne abbiamo raccontato a suo tempo le vicende, quando arrivò loro la sostanziale richiesta da parte dei vertici del Cammino di evidenziare il carattere “non ufficiale” del sito web in un contesto di cautela soprattutto riguardo alla divulgazione di notizie interne). L’articolo pubblicato il 28 gennaio scorso a firma di Miguel Ángel Gallardo affronta sotto il profilo giuridico la validità e l'applicabilità delle norme contenute nella Lettera che nel dicembre 2005 il cardinale Arinze inviò per conto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ai Responsabili internazionali del Cammino. Si tratta della celebre lettera con la quale a nome del papa – il quale fece diretto riferimento a quel testo nel corso dell’udienza concessa in Aula Paolo VI ai neocatecumenali il 12 gennaio 2006 – venivano comunicate alcune decisioni sulle modalità di celebrazione della messa nelle comunità del Cammino, dalle introduzioni alle letture alle testimonianze personali (ammonizioni e risonanze), dal segno della pace alla frequenza della messa in parrocchia almeno una domenica al mese, fino alle modalità di distribuzione della Comunione. Per quest’ultimo aspetto, il più rilevante, veniva concesso un “tempo di transizione” di “non più di due anni” per passare dalla modalità di distribuzione dell’Eucaristia usato nelle celebrazioni neocatecumenali (chi riceve il pane e il vino consacrati è seduto su una sedia, intorno ad una “mensa addobbata posta al centro della chiesa” o della sala in cui si svolge la Messa) alla modalità “normale” prevista dai libri liturgici per tutta la Chiesa, e cioè non seduti ma in piedi, e in processione “verso l’altare dedicato in presbiterio”.

La tesi dell’articolo pubblicato da Camineo.info è che quella lettera “non gode di valore ecclesiastico alcuno dal punto di vista normativo” dal momento che non è stata promulgata nel Bollettino ufficiale “Acta Apostolicae Sedis” né in quello ufficiale della Congregazione per il Culto Divino “Notitiae”, come invece il Codice di Diritto Canonico prevederebbe. Si tratterebbe insomma solamente di una “lettera privata” senza alcuna “ufficialità né autorità universale”, inviata al domicilio personale degli iniziatori del Cammino e recante solamente le indicazioni su “alcuni modelli di comportamento” studiati nella cornice dell’analisi complessiva del Cammino Neocatecumenale. Una precisazione che mira ad un solo obiettivo: quello di rispedire al mittente l’accusa di “disobbedienza” da alcuni rivolta al Cammino per non aver ancora ottemperato a quella richiesta.

In effetti, due anni e tre mesi dopo, quella lettera (relativamente alle modalità di distribuzione della Comunione) è rimasta – è proprio il caso di dirlo – “lettera morta”: nulla è cambiato nella liturgia neocatecumenale e da più parti tutto questo viene descritto come una palese “disobbedienza” alle direttive della Santa Sede. Ma sostenere, come afferma Camineo.info, che quel pronunciamento non ha i crismi dell’ufficialità e dell’autorità è quanto meno ardito se solo consideriamo che lo stesso Benedetto XVI fece diretto riferimento alle “norme concernenti la Celebrazione eucaristica … impartite a mio nome” dalla Congregazione per il Culto Divino: “Sono certo che esse – affermava il papa - saranno da voi attentamente osservate”. E’ evidente dunque quale fosse, al di là dei formalismi di sorta, la volontà del papa, messa nero su bianco in un discorso che peraltro è stato poi pubblicato – questo si – sul Bollettino ufficiale della Congregazione per il Culto Divino “Notitiae”. Non sorprende dunque che anche fra gli appartenenti al Cammino Neocatecumenale la presa di posizione del sito web spagnolo non sia affatto stata apprezzata: un esempio è il sito Catechumenium.it, che pur pubblicando la traduzione italiana dell’articolo in questione se ne dissocia dal contenuto e dallo spirito.

La cosa paradossale, in tutto questo, è che Camineo.info afferma che non vi sarebbe “disobbedienza” solamente in ragione della mancata promulgazione della lettera, perché in caso contrario, stante la situazione reale, “il Cammino incorrerebbe, secondo il Codice di Diritto Canonico, nella violazione sistematica di una norma ecclesiastica” da “castigare con una pena giusta” in ragione della sua gravità, fino anche alla scomunica Latae Sententiae. Insomma, formalità giuridiche a parte, l’ammissione che le disposizioni ultimative in materia di liturgia restano ancora oggi inapplicate arriva da una fonte certamente non sospettabile di avversione pregiudiziale nei confronti del Cammino. Che poi ci si trovi effettivamente di fronte ad un caso di “disobbedienza” sono le Congregazioni competenti a doverlo valutare; certamente però – in assenza di ulteriori disposizioni ufficiali – questa è l’impressione che, ogni giorno di più, se ne ricava.

 

 

 


 

 

Storia della Congregazione per l’Educazione Cattolica

(9 marzo 2008)

 

Introduzione

Il Santo Padre Benedetto XVI ha più volte parlato, nel corso del suo Pontificato, di un’emergenza educativa che investe il nostro tempo. In un mondo dove vige con sempre maggiore forza la mancanza di valori per cui ciò che vale è ciò che piace al singolo, in un mondo sempre più impregnato di relativismo etico per cui a prevalere altro non è che il soggettivismo, il Papa ripropone con forza la necessità di riscoprire dei valori comuni ai quali aggrapparsi, ai quali rifarsi per far sì che la società tutta possa tornare ad essere fondata su qualcosa di solido, di oggettivo, di condiviso.

Nella Lettera che il Santo Padre ha inviato lo scorso 21 gennaio alla diocesi e alla città di Roma, è proprio di questo «urgente compito di educazione» che egli ha voluto parlare, perché è dall’educazione che dipende il futuro non solo - nello specifico - della città di Roma, ma insieme di tutto il mondo. Come il Papa ha sapientemente scritto all’interno della Lettera enciclica “Spe salvi” sulla speranza cristiana, «l’anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile». Non si può, cioè, educare se non si spera in Dio. «Proprio da qui - ha scritto Benedetto XVI nella Lettera del 21 gennaio - nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita».

Tra i vari Dicasteri della Santa Sede, molto impegnata in questo difficile compito educativo è senz’altro la Congregazione per l’Educazione Cattolica. Dal suo lavoro, infatti, dipende lo sforzo educativo della facoltà ecclesiastiche, degli istituti religiosi, delle scuole cattoliche sparse nel mondo. È anche dal suo lavoro che le istanze educative proposte dal Santo Padre possono arrivare in tutto il mondo, là dove uomini e donne di buona volontà sono chiamati a svolgere nel concreto il difficile compito educativo.

Come ha detto a Fides il Cardinale Zenon Grocholewski, Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, spetta in particolare ai missionari cattolici il compito di educare la gente che è loro affidata. Per fare ciò - ha spiegato - «il missionario deve conoscere la cultura del Paese dove va, nonché le usanze e le tradizioni del Paese in cui è mandato». E ancora: «È necessario anche il sostegno materiale. Ma il mezzo più importante di cui deve dotarsi è la fede e l’amore verso Cristo e verso la gente alla quale è mandato».

«Nei pochi casi in cui sono stato testimone diretto del lavoro dei nostri missionari - ha detto il Cardinale Prefetto -, ho ammirato sempre la loro dedizione totale al servizio dei bisognosi, la loro abnegazione personale, il loro amore disinteressato e generoso. Essi non sono fra quelli che parlano molto dell’aiuto che si deve prestare, che gridano o fanno chiasso, ma essi realmente aiutano, pagando con la propria vita, donando se stessi con semplicità, porgono la mano al bisognoso, servono con cuore per amore di Cristo».

 

La storia di un dicastero dedicato all’educazione

La Congregazione per l’Educazione cattolica è una delle nove Congregazioni della Curia Romana.

La competenza di questo dicastero si estende, ai seminari, alle case di formazione degli istituti religiosi e secolari (eccetto quelli destinati alla formazione del clero missionario e del clero delle Chiese di rito orientale, che cadono rispettivamente sotto la giurisdizione della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e di quella per le Chiese Orientali), alle Università pontificie, alle Università, le facoltà e gli istituti di educazione superiore dipendenti da un ecclesiastico, alle scuole e agli istituti di formazione dipendenti da un’autorità ecclesiastica.

Anticamente, la vigilanza sui seminari era affidata alla Congregazione Concistoriale: a questa si affiancava la “Congregatio pro Universitate Studii Romani”, istituita da Papa Leone X per presiedere l’Università di Roma (La Sapienza).

Con la Costituzione Apostolica “Immensa aeterni Dei” del 22 gennaio 1588, Papa Sisto V estese la sua competenza a tutte le università del mondo cattolico e, in particolare, a quelle di fondazione ecclesiastica (Bologna, Parigi, Salamanca), ma questa Congregazione scomparve gradualmente.

Nel 1824, Papa Leone XII istituì la “Congregatio Studiorum”, prima con lo scopo di soprintendere a tutte le scuole dello Stato Pontificio, poi, dal 1870 (quando lo Stato della Chiesa cessò di esistere), alle università pontificie. Papa Benedetto XV, nel 1915, scorporò dalla Congregazione Concistoriale la sezione relativa ai seminari e la fuse con la Congregazione degli Studi, dando vita alla Congregazione per i Seminari e le Università degli Studi.

Con la Costituzione Apostolica “Regimini Ecclesiae Universae” del 15 agosto 1967, Papa Paolo VI le attribuì il nome di Congregazione per l’Istruzione Cattolica.

Sotto il pontificato di Giovanni Paolo II , con la Costituzione Apostolica “Pastor Bonus” del 28 giugno 1988, ha assunto l’attuale denominazione di Congregazione per l’Educazione cattolica.

La Congregazione è attualmente costituita da 31 membri tra Cardinali, Arcivescovi e Vescovi. Il Prefetto, nominato il 15 novembre 1999 da Giovanni Paolo II, è il Cardinale polacco Zenon Grocholewski. Segretario è Sua Ecc. Mons. Jean Louis Brugues, domenicano francese, nominato da Benedetto XVI il 10 novembre 2007. Sotto-Segretario è Mons. Angelo Vincenzo Zani.

 

Qualche numero

Abbiamo visto che dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica dipendono, oltre che i seminari nel mondo (eccetto quelli di competenza della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli) e oltre alla Pontificia Opera delle Vocazioni Sacerdotali, anche le facoltà ecclesiastiche, le università cattoliche e le scuole cattoliche.

In merito a questi ultimi tre campi di competenza citati, è possibile offrire qualche numero indicativo che testimonia come i lavori a cui è chiamata la Congregazione assumano davvero proporzioni rilevanti.

Nel mondo ci sono circa 240mila scuole cattoliche che dipendono dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica, per un totale di 45 milioni di alunni iscritti.

Sempre nel mondo, vi sono invece in tutto 170 facoltà ecclesiastiche dipendenti dalla Congregazione. È qui che i candidati al sacerdozio trascorrono gli anni di formazione prima dell’apostolato.

Infine, in tutto, ci sono circa 1.300 università cattoliche che dipendono dalla Congregazione. In queste università, ovviamente, le facoltà sono molteplici: si va da legge a economia e commercio, da lingua a medicina, da lettere classiche e moderne fino a scienza politiche.

 

Il delicato lavoro della Pontificia Opera delle Vocazioni Sacerdotali

All’interno della Congregazione per l’Educazione Cattolica riveste un ruolo importante la Pontificia Opera delle Vocazioni Sacerdotali. Come ha spiegato all’Agenzia Fides il Cardinale Zenon Grocholewski, all’interno della Congregazione lavora una persona interamente dedicata alla Pontificia Opera: “Egli si occupa a tempo pieno di raccogliere notizie statistiche da tutto il mondo, mantiene contatti con i relativi organismi internazionali e le Conferenze Episcopali, collabora nell’organizzare diversi convegni vocazionali, e in diversi altri modi, sotto la guida del Presidente e Vice-Presidente, incentiva l’impegno promozionale delle vocazioni sacerdotali al livello di tutta la Chiesa”.

Le vocazioni sacerdotali, si sa, sono il fondamento della vita della Chiesa. Anche la stessa missione della Chiesa, infatti, seppure spesso affidata giustamente a nutrite e operose schiere di laici, trova nel sacerdote esempi a cui è doveroso guardare. Ed è anche per questo motivo che all’interno della Congregazione per l’Educazione Cattolica, esiste la Pontificia Opera delle Vocazioni Sacerdotali, una sezione cioè interamente dedicata alla promozione delle vocazioni sacerdotali.

Secondo quanto spiegò lo stesso Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, il Cardinale Zenon Grocholewski, in occasione di una conferenza tenuta qualche anno fa durante un Congresso nazionale svoltosi a Czestochowa, in Polonia, sulle vocazioni e sulla pastorale vocazionale, “l’incontro con Gesù” è “il momento decisivo per la promozione delle vocazioni”. È Cristo, infatti, l’«autore» e il «perfezionatore della nostra fede». La vocazione sacerdotale, dunque, altro non è se non una discepolanza nella sequela di Cristo.

La vocazione al sacerdozio, infatti, nasce dall’incontro con Gesù. E, dunque - disse sempre il Card. Grocholewski  in quell’occasione – “la promozione delle vocazioni è primariamente un additare Gesù nel suo mistero affascinante, un provocare il desiderio di incontrarlo, di stare con Lui, di fare esperienza di Lui, di essere coinvolti da Lui. Ciò è indispensabile e sta a fondamento del problema vocazionale”.

In questa prospettiva, allora, “non è azzardato ritenere che il problema della promozione delle vocazioni è anzitutto ‘cristologico’: esso cioè dipende dal tipo di immagine di Gesù che viene proposta ai nostri giovani. Dobbiamo saper proporre l’immagine reale di Cristo, come essa traspare dai testi sacri, l’immagine che affascina e rende pronta la decisione a seguire Cristo. Se l’identità di Cristo non è chiara davanti ai giovani d’oggi, Egli può apparire quasi superfluo per la loro vita”. E ancora: “Al riguardo potremmo chiederci se alcune parziali visioni cristologiche non debbano essere ritenute come con-causa di un affievolimento dello slancio vocazionale. Da qui nasce la conseguenza che il problema della promozione delle vocazioni non può ridursi all'uso di metodi pedagogici o alle preoccupazioni di creare strutture organizzative. A monte del problema della carenza delle vocazioni sta la capacità di presentare ai giovani d'oggi la persona di Gesù in una maniera vera, persuasiva, attraente, indipendente nei confronti dei condizionamenti storici, culturali e sociali, i quali alle volte hanno influito, anche se indirettamente, sulla presentazione di certi modelli vocazionali. Si pensi, per esempio, alla sterilità spirituale della presentazione della figura di Cristo in alcune correnti della teologia della liberazione o di quella politica, o all'affievolimento della figura di Cristo a causa di cristologie non complete, o addiritura erronee, o anche a causa della confusione che viene seminata da alcune correnti esoteriche o da sette che trovano facile accoglienza tra i giovani”.

 

L’educazione secondo Giovanni Paolo II

“Sapientia christiana” è la seconda Costituzione Apostolica di Giovanni Paolo II. Dedicata alle università e facoltà ecclesiastiche, è stata firmata il 15 aprile 1979.

Giovanni Paolo II, in questo importante documento, insiste sulla necessità che il Vangelo permei la vita culturale del mondo. In quest’azione della Chiesa nei riguardi della cultura, particolare importanza hanno avuto ed hanno tuttora le università cattoliche, che, per loro natura - spiega il Santo Padre -, «tendono ad attuare una presenza, per così dire, pubblica, stabile ed universale del pensiero cristiano, in tutto lo sforzo diretto a promuovere la cultura superiore».

Anche il Concilio Vaticano II non ha esitato ad affermare che «la Chiesa Cattolica segue con molta attenzione queste scuole di grado superiore»; ed ha vivamente esortato perché le università cattoliche «siano sviluppate e convenientemente distribuite nelle diverse parti del mondo», e perché in esse «gli studenti siano formati come uomini veramente insigni del sapere, pronti a svolgere compiti impegnativi nella società ed a testimoniare la loro fede di fronte al mondo». Sa bene, infatti, la Chiesa che «l’avvenire della società e della stessa Chiesa è intimamente connesso allo sviluppo intellettuale dei giovani che compiono gli studi superiori».

Giovanni Paolo II ricorda poi come, assieme all’impegno delle università cattoliche, vi sia quello delle facoltà e università ecclesiastiche, che si occupano particolarmente della rivelazione cristiana e di quelle discipline che ad essa sono connesse, e che perciò, più strettamente si ricollegano alla sua stessa missione evangelizzatrice.

È infatti propriamente alle facoltà ecclesiastiche che è dedicata la “Sapientia christiana”. A loro spetta formare i futuri sacerdoti. Un compito importante e della cui importanza è necessario ne prenda coscienza la Chiesa tutta.

Fatte queste premesse, la Costituzione Apostolica “Sapientia christiana” enuclea tutta una serie di norme riguardanti l’azione pratica dei docenti, degli studenti, degli officiali e del personale ausiliario all’interno di queste facoltà. Insieme, le norme riguardano l’ordinamento degli studi, i gradi accademici, i sudditi didattici, l’amministrazione economica. Poi, altre norme vengono messe in campo a riguardo delle singole facoltà: quelle di teologia, quelle di diritto canonico, quelle di filosofia e altre facoltà.

È dedicata invece alle università cattoliche un’altra costituzione apostolica firmata da Giovanni Paolo II il 15 agosto 1990: la “Ex Corde Ecclesiae”. Qui il Santo Padre offre una panoramica sui compiti che spettano in particolar modo alle scuole cattoliche ben più ampia di quella che espose nella “Sapientia christiana” per le facoltà ecclesiastiche. Prima, insomma, delle norme generali, sono 49 i paragrafi che Wojtyla dedica all’argomento.

Giovanni Paolo II spiega subito il suo punto di vista sulle scuole cattoliche: in un mondo caratterizzato da sviluppi sempre più rapidi nella scienza e nella tecnologia, i compiti dell’università cattolica assumono un’importanza e un’urgenza sempre maggiore. Difatti, le scoperte scientifiche e tecnologiche, se da una parte comportano un’enorme crescita economica e industriale, dall’altra impongono ineludibilmente la necessaria corrispondente ricerca del significato, al fine di garantire che le nuove scoperte siano usate per l’autentico bene dei singoli e della società umana nel suo insieme. Se è responsabilità di ogni università ricercare un tale significato, l’università cattolica è chiamata anche in modo speciale a rispondere a questa esigenza: «La sua ispirazione cristiana - scrive il Santo Padre - le consente di includere nella sua ricerca la dimensione morale, spirituale e religiosa e di valutare le conquiste della scienza e della tecnica nella prospettiva della totalità della persona umana».

Le università cattoliche non possono non cercare la diffusione della cultura cosiddetta cattolica. Secondo Giovanni Paolo II questa ha quattro caratteristiche: 1) Un’ispirazione cristiana da parte non solo dei singoli, ma anche della comunità universitaria come tale; 2) un’incessante riflessione, alla luce della fede cattolica, sul crescente tesoro della conoscenza umana, al quale cerca di offrire un contributo con le proprie ricerche; 3) la fedeltà al messaggio cristiano così come è presentato dalla Chiesa; 4) l’impegno istituzionale al servizio del popolo di Dio e della famiglia umana nel loro itinerario verso quell'obiettivo trascendente che dà significato alla vita.

Alla luce di queste caratteristiche, è evidente che in una università cattolica, «gli ideali, gli atteggiamenti e i principi cattolici permeano e informano le attività universitarie conformemente alla natura e all'autonomia proprie di tali attività». «In una parola – spiega ancora il Santo Padre -, essendo al tempo stesso università e cattolica, essa deve essere insieme una comunità di studiosi, che rappresentano diversi campi della conoscenza umana, e un’istituzione accademica, in cui il cattolicesimo è presente in modo vitale».

Giovanni Paolo II, ovviamente, al di là degli scritti appositamente dedicati alle facoltà ecclesiastiche e alle università cattoliche, ha più volte parlato di educazione nel suo lungo pontificato. Si può anzi dire che l’educazione fu tema centrale del magistero del Papa polacco. Memorabile, in tema di educazione, fu il discorso che egli fece all’Unesco nel 1982. Giovanni Paolo II sottolineò che «l’uomo vive di un’esistenza autenticamente umana grazie alla cultura», e poi che «è mediante la cultura che l’uomo diventa più uomo, accede più intensamente all’«essere che gli è proprio”, per poi rimarcare che all’origine della sua preoccupazione non vi sta un’idea, ma il fatto che “il valore umano della persona è in diretta ed essenziale relazione con l’essere, non con l’avere”.

Per il Santo Padre «la cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, è di più, accede di più all’“essere”.

In questa accezione forte la cultura è quindi da intendersi come coscienza critica di ciò che realizza l’uomo in quanto essere, ossia come esperienza di pienezza dell’umano in tutte le sue dimensioni.

È per questo che la cultura è la fonte dell’educazione. Sempre nel discorso all’Unesco Giovanni Paolo II aveva sostenuto che «il compito primario ed essenziale della cultura in generale e anche di ogni cultura, è l’educazione» e che «l’educazione consiste in sostanza nel fatto che l’uomo divenga sempre più umano, che possa “essere” di più e non solamente che possa “avere” di più, e che, di conseguenza, attraverso tutto ciò che egli “ha”, tutto ciò che egli “possiede”, sappia sempre più pienamente, “essere uomo”.

 

L’educazione secondo Benedetto XVI

Le parole più recenti pronunciate da Benedetto XVI in tema di educazione sono quelle contenute nella Lettera che egli ha inviato lo scorso gennaio alla diocesi e alla città di Roma proprio sul difficile compito educativo. Nel corso del suo Pontificato, Benedetto XVI, ha più volte ricordato la necessità di mettere in campo un’adeguata opera educativa, spiegando anche quale sia il significato dell’educazione propriamente cattolica. Ma è probabilmente nella Lettera dello scorso gennaio che il pensiero è stato esposto in modo più completo.

Il Papa riconosce che educare «non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile». Per questo si parla di una grande «emergenza educativa», «confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita».

In questa situazione, «viene spontaneo dare la colpa alle nuove generazioni, come se i bambini che nascono oggi fossero diversi da quelli che nascevano nel passato». «Si parla inoltre di una “frattura fra le generazioni”, che certamente esiste e pesa, ma che è l'effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori».

Di fronte al difficile compito educativo, ha osservato il Pontefice, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori è forte «la tentazione di rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il loro ruolo, o meglio la missione ad essi affidata». «Non temete!», ha detto il Papa ai Romani.

«Tutte queste difficoltà, infatti, non sono insormontabili - ha detto il Papa -. Sono piuttosto, per così dire, il rovescio della medaglia di quel dono grande e prezioso che è la nostra libertà, con la responsabilità che giustamente l’accompagna».

Se in campo tecnico o economico i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, «nell'ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni».

«Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale».

Chi crede in Cristo, ha aggiunto, ha «un ulteriore e più forte motivo per non avere paura: sa infatti che Dio non ci abbandona, che il suo amore ci raggiunge là dove siamo e così come siamo, con le nostre miserie e debolezze, per offrirci una nuova possibilità di bene».

L’«anima dell'educazione, come dell’intera vita», quindi, per il Papa «può essere solo una speranza affidabile».

Al giorno d’oggi, constata il Vescovo di Roma, «la nostra speranza è insidiata da molte parti», ed è proprio qui che nasce «la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c'è infatti una crisi di fiducia nella vita».

Di fronte a ciò, il Papa ha invitato a «porre in Dio la nostra speranza». «Solo Lui è la speranza che resiste a tutte le delusioni; solo il suo amore non può essere distrutto dalla morte; solo la sua giustizia e la sua misericordia possono risanare le ingiustizie e ricompensare le sofferenze subite».

«La speranza che si rivolge a Dio non è mai speranza solo per me, è sempre anche speranza per gli altri: non ci isola, ma ci rende solidali nel bene, ci stimola ad educarci reciprocamente alla verità e all'amore». Una vera educazione, ha proseguito il Papa, ha bisogno anzitutto «di quella vicinanza e di quella fiducia che nascono dall'amore». Ogni vero educatore, ha infatti spiegato, «sa che per educare deve donare qualcosa di se stesso e che soltanto così può aiutare i suoi allievi a superare gli egoismi e a diventare a loro volta capaci di autentico amore».

Il punto «forse più delicato» dell’opera educativa, secondo Benedetto XVI, è «trovare un giusto equilibrio tra la libertà e la disciplina».

«Senza regole di comportamento e di vita, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare le prove che non mancheranno in futuro». Il rapporto educativo, tuttavia, è «anzitutto l'incontro di due libertà e l'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà». «L'educatore è quindi un testimone della verità e del bene - ha concluso -: certo, anch’egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione».

 

Intervista al Prefetto, Sua Eminenza il Cardinale Zenon Grocholewski

D. Eminenza Reverendissima, Lei è a capo della Congregazione per l’Educazione Cattolica. Uno dei “ministeri” più importanti della Santa Sede. Ci può dire quali sono i compiti principali del suo lavoro?

R. La nostra Congregazione, come ogni Congregazione della Curia Romana, è organo di governo che agisce in nome e per autorità del Santo Padre. Scopo della Congregazione per l’Educazione Cattolica è quello di esprimere e mettere in atto la sollecitudine della Santa Sede a riguardo di coloro che sono chiamati agli ordini sacri, nonché la promozione e l’ordinamento dell’insegnamento cattolico a tutti i livelli: dalle scuole fino alle università cattoliche.

La nostra Congregazione è strutturata in tre sezioni. La prima sezione - quella che per noi è la più importante - riguarda i seminari, e cioè la formazione del clero della Chiesa latina. Siamo responsabili della formazione del clero di tutti i seminari del mondo, tranne di quelli che si trovano nei territori delle missioni e quelli degli Istituti di vita consacrata. Per quanto concerne queste due ultime categorie di seminari la nostra competenza riguarda soltanto la formazione intellettuale di coloro che si apprestano a ricevere gli ordini sacri; invece, per tutto il resto sono competenti rispettivamente la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e quella degli Istituti di Vita Consacrata e delle Società di Vita Apostolica. Come si può facilmente intuire, il nostro lavoro in questo campo è molto vasto ed impegnativo, perché abbiamo a che fare con seminari sparsi in tutto il mondo e immersi nelle più svariate culture e tradizioni.

Il secondo settore della nostra attività sono le università ecclesiastiche e cattoliche. Qui la competenza, a livello della Santa Sede, è solo nostra, anche nei territori delle missioni e nei confronti delle Istituzioni accademiche degli Istituti di vita consacrata nonché perfino riguardo alle istituzioni di studi superiori delle Chiese orientali.

La duplice denominazione indica che c’è differenza tra università o facoltà “ecclesiastiche” e università o facoltà “cattoliche”. Le università o facoltà ecclesiastiche sono quelle che nella ricerca e nell’insegnamento si basano sulla Rivelazione e, dunque, in esse si studiano tutte le discipline che sono unite con la missione propria della Chiesa (come teologia, diritto canonico, filosofia cristiana, storia della Chiesa, musica sacra, ecc). Tali università o facoltà ecclesiastiche possono essere fondate esclusivamente dalla nostra Congregazione. Altrimenti - se non sono erette né approvate dalla Congregazione - non possono conferire gradi accademici validi nella Chiesa, ossia che abbiano effetti canonici nella Chiesa. Queste università o facoltà si regolano con la Costituzione Apostolica “Sapientia christiana” del 1979, uno dei primi documenti normativi di Giovanni Paolo II. A questa Costituzione Apostolica Giovanni Paolo II vi lavorò quando era cardinale all’interno della commissione incaricata di preparare questo importante documento. A norma della “Sapientia christiana”, l’impegno della nostra Congregazione è molto forte: spetta a noi erigere o approvare le facoltà, esaminare e approvare gli statuti, dare il nulla osta all’assunzione di ogni professore stabile, etc. Le nostre università ecclesiastiche, infatti, conferiscono titoli accademici a nome della Santa Sede.

Altra cosa invece sono le università cattoliche, che hanno facoltà di ogni tipo: economia, filosofia, legge, scienze politiche, medicina, etc. Queste università si regolano con la Costituzione Apostolica di Giovanni Paolo II “Ex corde Ecclesiae” (a significare che le università sono nate “dal cuore della Chiesa”) del 1990. Oltre che dalla nostra Congregazione, queste università possono essere create dalle conferenze episcopali, dai singoli vescovi, dagli ordini religiosi, dai laici… Evidentemente, per poter essere annoverate fra le università cattoliche, devono essere approvate dalla rispettiva autorità della Chiesa. Queste università sono moltissime: oltre 1300. Ci sono università cattoliche prestigiose anche nei territori delle missioni, perfino nelle nazioni dove i cattolici sono una piccolissima minoranza. Per esempio a Taiwan, un Paese dove i cattolici sono l’1,3% della popolazione, vi sono tre università cattoliche. Per visitarle sono stato invitato proprio dal governo di Taiwan, che non ha alcum membro cattolico. L’università cattolica “Fu Jen” a Taipei ultimamente è cresciuta al ritmo di mille studenti ogni anno. Attualmente ha circa 25 mila studenti. Il ministro dell’educazione taiwanese, non cristiano, durante un atto accademico alla “Fu Jen” ha detto di essere pieno di ammirazione per gli ideali dell’università cattolica ed ha chiesto di allargare ancora di più questa attività. Oppure sono stato, recentemente, in Thailandia. Qui i cattolici sono lo 0,5%. L’università cattolica “Assumption University” di Bangkok, con circa 20 mila studenti, è una delle università più belle ch’io abbia mai visitato. Gli studenti cattolici sono soltanto 1 o al massimo 2%, eppure l’università è stimatissima. Inoltre nel centro di Bangkok c’è un’altra prestigiosa università cattolica: “Saint John’s University”.

D. E il terzo settore dell’attività?

R. Il terzo settore dell’attività della nostra Congregazione sono le scuole cattoliche. Nel mondo ci sono circa duecentomila scuole cattoliche per un totale di circa 45 milioni di allievi. E molte di queste scuole cattoliche si trovano nei territori delle missioni. Qui, anche se i cattolici sono una minoranza, le nostre scuole sono frequentate da tantissime persone. Per esempio, in Thailandia, nonostante vi siano soltanto circa 300 mila cattolici, le scuole cattoliche sono frequentate da 465 mila allievi. Io ho visitato personalmente due scuole in Thailandia. Una che ha 2500 allievi, fra i quali soltanto 300 cattolici, mentre i restanti sono tutti buddisti. L’altra che ha 6 mila allievi, principalmente buddisti.

Dunque vi sono nel mondo tantissimi ragazzi che frequentano le scuole cattoliche. In moltissime nazioni è lo Stato che sovvenziona queste scuole. Anche nei Paesi post comunisti, dove prima non c’era alcuna possibilità di avere scuole cattoliche - Polonia, Slovacchia, Croazia, Slovenia, Romania etc. - è ora lo Stato a pagare la scuola cattolica (o di altra confessione religiosa), dando ai genitori la possibilità di scelta. Anche nei paesi molto liberali,  come Belgio o Olanda, è lo Stato che paga. La stessa cosa purtroppo non avviene in Italia e, in Europa, anche in Grecia. Si tratta semplicemente dell’attuazione dei principi fondamentali della democrazia e di una sana laicità, dove tutti sono rispettati allo stesso modo. Diverse convenzioni internazionali proclamano il diritto dei genitori a educare i propri figli secondo le proprie convinzioni religiose. Lo Stato, che non è competente in materia di religione, rispetta semplicemente questo diritto. Rispetta la volontà dei genitori, la volontà dei propri cittadini. Se invece vige la regola che la scuola cattolica è esclusivamente a pagamento, questo diritto non viene pienamente rispettato. Ci rattrista il fatto che in questi casi vengano colpite soprattutto le persone più povere. Del resto non ho mai sentito che la scuola cattolica forma i cittadini peggiori, ma al contrario ho sentito tante volte dalla bocca anche di molti non cristiani l’apprezzamento per la qualità della formazione promossa nelle scuole cattoliche.

Vale la pena notare che le nostre istituzioni educative - seminari, università e altre forme di studi superiori nonché le scuole cattoliche - operano in tutto il mondo, e quindi hanno a che fare con tutte le possibili situazioni sociali, culturali, politiche, legislative, etniche, linguistiche, religiose. Ciò rende il nostro lavoro molto interessante, ma d’altra parte anche impegnativo.

 

D. La Congregazione si occupa anche delle vocazioni sacerdotali?

R. Sì, alla nostra Congregazione è strettamente unita la Pontificia Opera delle Vocazioni Sacerdotali. Il Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, infatti, è Presidente di questa Pontificia Opera; e il Segretario ne è Vice Presidente. Abbiamo poi una persona che è Direttore dell’Opera. Egli si occupa a tempo pieno di raccogliere notizie statistiche da tutto il mondo, mantiene contatti con i relativi organismi internazionali e le Conferenze Episcopali, collabora nell’organizzare diversi convegni vocazionali, e in diversi altri modi, sotto la guida del Presidente e Vice-Presidente, incentiva l’impegno promozionale delle vocazioni sacerdotali al livello di tutta la Chiesa.

D. Oltre a questi quattro campi di lavoro - seminari,  facoltà ecclesiastiche e università cattoliche, scuole cattoliche e Pontificia Opera per le Vocazioni - vi sono altri comparti lavorativi?

R. Stiamo creando un nuovo organismo previsto dal ben noto Processo di Bologna che mira a unificare gli studi a livello universitario in Europa, o piuttosto a rendere possibile il riconoscimento delle equipollenze fra i diplomi accademici di diverse nazioni. È un processo a carattere europeo che si propone di realizzare, entro il 2010, uno Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore, al quale stanno guardando molti altri paesi del mondo. In sostanza, si tratta di un grande sforzo di convergenza dei sistemi universitari dei Paesi partecipanti che sta coinvolgendo direttamente tutte le istituzioni europee e le loro componenti. Noi, come Santa Sede, abbiamo aderito a questo Processo dal 2003, con tutti i nostri centri di studi ecclesiastici. Nell’ambito di questo impegno, abbiamo organizzato nel 2006 un convegno internazionale nell’Aula del Sinodo, che ha riscosso molto interesse. Oltre a noi, anche l’UNESCO ha pubblicato gli atti di questa manifestazione accademica. Il nuovo organismo che la Santa Sede sta creando è, in pratica, un’agenzia adibita alla verifica della qualità dei nostri studi. Già ci sono stati promessi alcuni locali appositamente pensati. L’intento è quello di verificare se le nostre facoltà ecclesiastiche stiano adempiendo tutte le esigenze messe in campo per quanto riguarda il livello accademico e le altre esigenze necessarie per ogni serio centro di studi. Il nostro sistema degli studi, in verità, già da tempo risponde a quanto il Processo di Bologna richiede. Ma con questo ulteriore sforzo possiamo avere una efficace possibilità di verifica. Se questo nuovo organismo constatasse che in qualche caso non sono adempiute le esigenze necessarie, potremmo intervenire stabilendo il termine per adeguarsi alle richieste, e  quindi anche di non concedere più la possibilità di conferire i gradi accademici. Il Processo di Bologna lo reputo importante per la Chiesa: alla Chiesa, infatti, sta veramente a cuore il livello degli studi e dell’insegnamento dei suoi centri accademici.

D. Benedetto XVI più volte ha insistito sul fatto che nella società odierna vi sia un’emergenza legata all’educazione. La nostra è una società dove sempre più si fatica ad educare. Perché secondo lei? Quali i punti principali perché si possa mettere in campo un’educazione adeguata?

R. Uno dei problemi dell’educazione che si offre oggi ai giovani è che spesso viene trasmesso quasi esclusivamente il sapere e le capacità tecniche, ovvero l’educazione è principalmente orientata in vista del futuro esercizio della professione. Manca invece sovente l’educazione della persona, ossia l’educazione integrale della persona, che è necessaria. L’educazione parziale, ossia solo intellettuale e tecnica, non è sufficiente per formare i costruttori di un mondo migliore. Il sapere può essere usato anche per il male. In realtà, lo sappiamo bene, certe conquiste della scienza e della tecnica sono state usate per le guerre più terribili, per il terrorismo, per le ingiustizie a danno dei più deboli e degli innocenti. È allora necessario aiutare l’uomo a divenire responsabile di ciò che fa, formare le persone che si impegneranno per il bene, assicurare una educazione integrale.

Oggi una efficace educazione integrale incontra diverse difficoltà. La prima si riscontra nell’ambiente familiare. La famiglia sovente è divisa, sperimenta crisi, e ciò rende molto più difficile una vera educazione. Spesso entrambi i genitori lavorano e quindi, non avendo molto tempo, sono tentati di demandare la fatica educativa esclusivamente alla scuola. Ma si dimentica che la scuola deve lavorare insieme ai genitori, essere al loro servizio. Da sola difficilmente può adempiere adeguatamente il compito educativo.

Un’altra difficoltà viene dai mezzi di comunicazione. La tv, internet, i giornali spesso non lasciano il giusto spazio alla riflessione, alla creazione di un giudizio adeguato sulla realtà, bombardano la mente dei giovani con molte notizie e immagini che sono controproducenti nella prospettiva della educazione, soprattutto se manca un adeguato accompagnamento dell’educatore nella loro ricezione.

Poi esiste nella società odierna una forte deriva relativista per quanto concerne i principi morali. Ma se mancano i principi, come si può educare? Su quali basi? Su quali fondamenta? Il relativismo non è soltanto morale, ma spesso anche più generale e profondo: si nega la capacità di riconoscere l’esistenza di una qualsiasi verità oggettiva riguardo al senso della nostra vita. Crollano quindi le basi per una costruttiva formazione integrale della persona, e una costruttiva motivazione per gli insegnanti.

Le nostre scuole cattoliche respingono un tale relativismo e sono stimate proprio per il loro progetto educativo integrale. Parecchi ambasciatori accreditati presso la Santa Sede e appartenenti ad altre religioni mi hanno espresso la loro stima verso il nostro modello educativo perché aiuta la formazione dell’intera persona. L’educazione insomma deve avere quattro dimensioni: deve essere umana (formare una persona seria, responsabile, sulla quale si possa contare, che sappia dominare se stesso), spirituale (che certamente rafforza quella umana e la corona), intellettuale (nel senso di capacità critica, avere un giudizio maturo) e, infine, professionale. Questa ultima sarà tanto più costruttiva per il bene della società, in quanto sarà sostenuta dalle tre precedenti. Queste quattro istanze, comunque, debbono andare insieme e non possono essere separate.

D. L’educazione e quindi la formazione, per coloro che si preparano al sacerdozio, è fondamentale. A suo avviso le facoltà ecclesiastiche e in generale i seminari nel mondo riescono a rispondere a questa necessità? In cosa eccellono e cosa dovrebbero migliorare?

R. Nei territori delle missioni noi curiamo soltanto la formazione intellettuale. In ogni caso, per noi, l’educazione dei sacerdoti è la più importante perché da loro dipenderà il futuro della Chiesa e l’efficacia della loro benefica missione nel mondo. Dai sacerdoti dipende anche l’apostolato dei laici, come pure la realizzazione della vita consacrata. Certo, oggi la formazione sacerdotale non è facile perché il mondo spesso fa sentire la sua influenza sulla vita della gente e anche i candidati al sacerdozio spesso risultano essere poco abituati alla preghiera, al silenzio.

Comunque l’educazione dei sacerdoti è in cima alle nostre preoccupazioni. Quando vengono a Roma i vescovi nelle visite Ad limina, la prima preoccupazione che vogliamo comunicare loro è sempre quella dell’educazione del clero: questo tema occupa il maggior spazio di tempo in queste conversazioni.

Penso che, seguendo i documenti emanati al riguardo dalla Chiesa, e principalmente la dichiarazione del Concilio Vaticano II “Optatam totius” sulla formazione sacerdotale (1965), la menzionata Costituzione Apostolica “Sapientia christiana” (1979), il Codice di Diritto Canonico (1983), la “Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis” della nostra Congregazione (1985),  l’Esortazione Apostolica Post-sinodale “Pastores dabo vobis” (1992) e tanti altri documenti pubblicati dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica in materia, la formazione sacerdotale ha tutte le possibilità di essere fruttuosa ed adeguata alle necessità del mondo di oggi.

Comunque, nelle circostanze attuali caratterizzate da tante distrazioni, attivismo e affaticamento del lavoro sacerdotale, metterei, fra le priorità, al primo posto una solida formazione spirituale, che è di estrema importanza e, del resto, costituisce il cuore di tutta la formazione sacerdotale. Senza unione con Cristo le fatiche del sacerdote non possono essere fruttuose. Gesù è stato chiaro al riguardo: “Rimanete in me ed io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi, se non rimanete in me […] Chi rimane in me ed io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15, 4-5). Dal punto di vista intellettuale, invece, si deve dare al candidato al sacerdozio una buona preparazione teologica base. Oggi è dappertutto di moda caricare gli studi seminaristici, o il primo ciclo di teologia, di tanti interessanti corsi monografici, ma purtroppo a scapito della solida formazione teologica di base, che è necessaria sia per rispondere alla sfide della pastorale sia per ulteriori studi o approfondimenti. I fedeli giustamente richiedono dal sacerdote che sia esperto nelle questioni della fede e della vita spirituale.

D. Per quanto riguarda l’educazione alla fede delle giovani generazioni, Benedetto XVI ha svolto, pochi mesi dopo la sua elezione, un gesto significativo con i bambini della prima Comunione. Li ha convocati in piazza San Pietro e ha fatto con loro mezz’ora di adorazione eucaristica. Lei ritiene che la liturgia e più in generale la preghiera possano essere un’efficace azione di educazione alla fede delle giovani generazioni?

R. La preghiera è un aspetto fondamentale nell’educazione dei giovani. I bambini, in particolare, debbono essere introdotti alla preghiera fin dai primissimi anni. Non è vero, infatti, che i bambini non sanno pregare. Tutt’altro. Dio è per tutti e sa “incarnarsi” efficacemente nella vita di ogni persona per arricchirla, di ogni età e di ogni condizione di vita.

Il più forte aiuto per aumentare la fede e per comprendere le verità della fede è proprio la preghiera. Giovanni Paolo II nella “Novo millennio ineunte”(n. 20) parla dell’episodio di Cesarea di Filippo, quando alla domanda di Gesù, “La gente chi dica che io sia?”, Pietro rispose dicendo: “Tu sei il Figlio del Dio vivente”. Gesù replicò a Pietro che chi glielo aveva rivelato non sono stati “né la carne né il sangue ma il Padre che sta nei cieli”. Giovanni Paolo II spiega allora che l’espressione “carne e sangue” evoca il modo comune di acquisire la conoscenza. Ma questo modo comune, nel caso di Gesù,  non basta. Ci vuole la rivelazione. Dunque, dice ancora Giovanni Paolo II, “solo l’esperienza del silenzio e della preghiera offre l’orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera” delle verità della fede. Questa realtà è abbondantemente documentata dai fatti. Basta, ad esempio, pensare a Santa Caterina da Siena: non sapeva né leggere né scrivere, ma ha dettato le cose più stupende. Ha dimostrato una straordinaria conoscenza delle cose divine e una grande saggezza acquisita proprio dalla contemplazione, da un contatto costante, profondo ed intimo con il Signore. L’esperienza del contatto con Dio è fondamentale per comprendere in fondo le verità della fede: questa è una constatazione pienamente acquisita dalla sana teologia. Potrei citare al riguardo tanti altri esempi. Lo ha notato diverse volte anche Benedetto XVI. Ad esempio, nel suo messaggio in occasione del centenario della nascita di Hans von Balthasar (6.X.2005) ha fra l’altro scritto: “La spiritualità non attenua la carica scientifica, ma imprime allo studio teologico il metodo corretto per poter giungere a una corrente interpretazione”. Con una parola: non c’è cristianesimo senza dialogo con Cristo; non ci può essere una profonda comprensione delle verità di fede senza contemplazione; la preghiera è un potente sostegno dell’educazione e dell’auto-educazione.

D. Nel mondo vi sono tantissimi missionari che sono chiamati a un’importante opera di “inculturazione” della fede e, insieme, a un lavoro di catechismo fondamentale per tante persone. Quali strumenti Lei pensa siano necessari per questi missionari nella loro opera?

R. Il missionario deve conoscere la cultura del Paese dove va, nonché le usanze e le tradizioni del Paese in cui è mandato. È necessario anche il sostegno materiale. Ma il mezzo più importante di cui deve dotarsi è la fede e l’amore verso Cristo e verso la gente alla quale è mandato. La storia ci insegna che i più grandi e più fruttuosi missionari sono i santi. Vedi ad es. Madre Teresa di Calcutta. Benedetto XVI nel suo messaggio per la Quaresima di quest’anno (2008) parla dell’elemosina. Ci sono diverse forme di elemosina, diverse forme di dono: si possono donare i soldi, i beni materiali; ma si può donare di più, ossia se stessi, il proprio amore, la cura, l’assistenza, il proprio tempo, l’ascolto, ecc.;  ma il “dono più grande che possiamo offrire agli altri” è “l’annuncio e la testimonianza di Cristo”, la testimonianza “del suo amore” (n. 6). Non c’è dono più grande che un missionario possa portare agli uomini.

Nei pochi casi in cui sono stato testimone diretto del lavoro dei nostri missionari, ho ammirato sempre la loro dedizione totale al servizio dei bisognosi, la loro abnegazione personale, il loro amore disinteressato e generoso. Essi non sono fra quelli che parlano molto dell’aiuto che si deve prestare, che gridano o fanno chiasso, ma essi realmente aiutano, pagando con la propria vita, donando se stessi con semplicità, porgono la mano al bisognoso, servono con cuore per amore di Cristo.

Riguardo all’inculturazione, essa certamente non significa che bisogna schiacciare le usanze delle popolazioni alle quali si è mandati. Ma significa che, nel pieno rispetto delle differenti culture, si deve incarnare in esse la fede in Cristo. Solo ciò che contraddice alla verità di Cristo deve essere eliminato, ma ci sono, nelle diverse culture, molte cose che aiuteranno, nei luoghi concreti, ad interiorizzare e vivere autenticamente tale verità. La perversione della inculturazione della fede c’è quando si vorrebbe piegare la fede cristiana in favore degli elementi che sono con essa inconciliabili. (Agenzia FIDES – 27 febbraio 2008)

 

 

 


 

 

Centralità della domenica e urgenze pastorali

(23 marzo 2008)

 

1. La pratica religiosa

Uno dei dati che comproverebbe la tenuta e la vitalità del cattolicesimo in Italia è la frequenza alla messa domenicale. Da più di trent’anni tutte le rilevazioni concordano nell’attestare una frequenza regolare alla messa molto alta rispetto ad altri paesi d’Europa: stabilmente attorno al 28-30%, cui va aggiunto un 20% che va a messa da una a tre volte al mese e un altro 30% che ci va a Natale, a Pasqua e nelle grandi festività.

In una indagine del 2005 commissionata dalla Tavola Valdese all’agenzia Eurisko, quasi tutti gli italiani si definiscono cattolici, l’83%, soprattutto per un fatto di identità e tradizione culturale, visto che poi solo il 25% del totale dice di frequentare la messa domenicale regolarmente. La pratica religiosa tende poi ad aumentare con l’innalzarsi dell’età, e tra le donne[1].

Ma questi alti indici di partecipazione fotografano con esattezza la realtà? Gli esperti di sociologia religiosa hanno sinora sempre accreditato come validi questi dati, ripetutamente raccolti con interviste da un campione della popolazione italiana. Semmai sono i preti a esprimere in proposito dubbi e perplessità. Da un’indagine tra il clero in Italia, condotta nel 2003 da Franco Garelli[2], risulta che molti parroci ritengono la frequenza alla messa non stabile, ma in diminuzione e stimano attorno al 20-22% la media nazionale di chi va in chiesa ogni domenica, ossia 8-10 punti in meno rispetto alle indagini. In alcune zone d’Italia l’osservazione empirica porta la percentuale anche intorno o sotto il 15%.

Chi ha ragione? Il patriarcato di Venezia ha svolto un’indagine su due versanti. Un primo rilevamento si è rivolto direttamente ai praticanti delle messe del 13 e 14 novembre 2004. In un secondo momento, nella primavera del 2005 si è posta la domanda sulla pratica festiva a un campione della popolazione. In entrambi i casi, l’età dei rispondenti presa in considerazione è stata quella compresa tra i 18 e i 74 anni. Le risposte hanno rivelato che l’intervista a campione sovrastimava la presenza alla messa festiva rispetto al rilevamento diretto. Il 26% ha detto di andare a messa tutte le domeniche e un altro 16,5% ha detto di andarci da una a tre volte al mese. Sommati, i frequentanti sarebbero il 42,5% della popolazione del patriarcato. Il conteggio diretto ha di molto abbassato i numeri. Quelli che hanno detto di essere andati a messa anche in tutte e quattro le domeniche precedenti sono il 15% della popolazione. E quelli che hanno detto di esservi andati da una a tre volte sono il 7,7%, che sommati danno il 22,7% della popolazione. Inoltre, quel 22,7% di praticanti misurati sul campo è una percentuale quasi identica a quella stimata da un campione di preti del patriarcato di Venezia intervistati nel corso della stessa ricerca, oltre che coincidente col sentire diffuso dei preti italiani a livello nazionale.

È pertanto evidente che sta continuando la crisi della frequenza alla messa domenicale e del conseguente disperdersi del valore religioso del giorno domenicale.

Se analizziamo distrattamente i documenti ufficiali della Conferenza episcopale italiana (= CEI) e delle diocesi e ascoltiamo il mormorio ecclesiastico, mi pare di percepire empiricamente che la preoccupazione di centrare l’attenzione sulla domenica e sull’anno liturgico ci sia, ma gradualmente o a tratti eclissata da altre e più pubblicizzate preoccupazioni. Certamente non ha l’onore delle cronache l’attenzione che le diocesi hanno via via dato nei loro piani pastorali al tema dell’evangelizzazione/formazione e alla eucaristia/domenica.

Tra le principali preoccupazioni che fanno opinione pubblica sta il comportamento etico degli italiani che si distanzia dalle indicazioni magisteriali: bioetica, matrimonio, famiglia, convivenze e comportamenti sessuali.

Se parliamo con i giovani e la gente poco o nulla praticante, la percezione che hanno è che la prima preoccupazione pastorale della chiesa italiana sia quella etico-sessuale. Ugualmente la loro autovalutazione in merito agli indicatori di religiosità non è data dalla frequenza assidua o saltuaria all’eucaristia domenicale («Si può essere cristiani senza andare in chiesa…»), ma a un indefinito riferimento a valori religiosi: preghiera personale, credenza in un’entità superiore, fedeltà ai propri principi di onestà, amore e lealtà verso gli altri.

Ulteriore prova è il fatto che le famiglie con bambini e ragazzi in età di catechismo (6-14 anni) ritengono che sia più che sufficiente, come espressione di appartenenza ecclesiale, la frequenza dei figli al catechismo infrasettimanale e non all’eucaristia domenicale.

2. Per una dimensione pasquale dell’azione pastorale

Come fare a far uscire da queste fragilità la messa domenicale? Entriamo nel merito del rapporto tra assemblea eucaristica e comunità parrocchiale, rito dell’eucaristia e programmi pastorali.

a) Il mistero pasquale: aprire le porte della vita

Che cos’è l’eucaristia? È la pasqua nella sua forma rituale. Del resto tutta l’evangelizzazione conduce all’adesione vitale al Cristo morto e risorto. Del resto la carità tende a «guarire i malati e risuscitare i morti». Cristo inverava le parole con i gesti, e i segni operati anticipavano la pienezza della risurrezione. Così la testimonianza evangelica anticipa nel tempo la logica della comunione che salva la storia e l’uomo, per poterlo portare oltre la storia alla comunione senza fine.

Occorre, perciò, avere chiari gli obiettivi di tutte le dimensioni della vita della chiesa (parola, liturgia, testimonianza): introdurre comunità e singoli nel mistero pasquale. L’eucaristia riconduce costantemente la chiesa alla sua radice pasquale. Ma alla configurazione al Cristo morto e risorto non ci si arriva per appartenenza sociologica. Ricordate i consigli che ci hanno dato i rilevamenti statistici? Penso che venga meno la pratica domenicale perché non si è adeguatamente accompagnati dentro la fede pasquale. Poiché la fede non la si riceve più con il latte materno e la società è sempre stata, anche in secoli cosiddetti cristiani, più matrigna che madre di credenti, occorre che il resto d’Israele recuperi il suo grembo fecondo.

La celebrazione dell’eucaristia si trova storicamente e teologicamente alla fine di due percorsi: l’iniziazione cristiana e i cammini penitenziali. I sacramenti pasquali che configurano al Risorto e il sacramento che ci dona vita nuova; i sacramenti che ci fanno entrare nella comunione ecclesiale e il sacramento che ce la riconsegna.

b) Avviare itinerari di vera iniziazione

Perché si viva il giorno del Signore, e in esso l’eucaristia, perché si viva la fede nel Risorto, occorre che prendiamo sul serio le trentennali riflessioni sull’importanza dell’accompagnare alla fede attraverso percorsi catecumenali. Noi siamo iniziati dai sacramenti: sono il battesimo, la cresima e l’eucaristia che ci consegnano la nostra cristificazione. Cristiani non si nasce, ma si diventa.

La domenica e la sua assemblea eucaristica torneranno significative per bambini, ragazzi, giovani e adulti, se avremo saputo accompagnarli dentro questa esperienza. Dobbiamo tornare alla fatica di elaborare percorsi di apprendistato della fede. Il primo in assoluto è il percorso catecumenale che sfocia nell’iniziazione. La metodologia è impegnativa, è quella del non dar nulla per scontato e di far capire i valori facendo fare, non semplicemente spiegando.

– Una prima domanda: il nostro itinerario di iniziazione dei fanciulli e dei ragazzi, fa davvero percepire la dimensione pasquale della fede e, soprattutto, riusciamo ad accompagnarvi dentro i fanciulli e i ragazzi insieme con le loro famiglie? È sufficiente insegnare che andare a messa la domenica è un precetto?

– Una seconda domanda: saremo capaci di portare a vivere il giorno del Signore i ragazzi e gli adulti che ci chiederanno il battesimo nei prossimi dieci anni?

Troppo spesso, inoltre, i nostri itinerari catechistici non si inseriscono nel tessuto dell’anno liturgico, ma vi si sovrappongono. Basta vedere come si progettano Avvento e Quaresima, spesso riempiti di tematiche estranee al tempo e soprattutto enfatizzati. Si esagera la portata dei tempi di preparazione e poi nel tempo di Natale e nel tempo di Pasqua tutto si affievolisce.

c) Programmare percorsi di conversione

Per maturare una fede pasquale occorre la conversione costante. Ci si converte ritornando ad ascoltare l’annuncio della risurrezione che genera e rigenera la fede. Dobbiamo dare atto che qui hanno più esperienza di noi associazioni e movimenti. Spesso sono dei veri e propri ordines paenitentium. Hanno saputo rimettere uomini e donne in ascolto della Parola, denunciare il loro peccato, affidarli a Cristo, consegnare loro opere concrete, strutturare pensiero e giorni intorno all’evangelo. Lo so anch’io che in gruppi omogenei, che cercano la stessa cosa, è più facile che nel tessuto lacerato delle nostre parrocchie. Certo che alcuni bruciano le tappe e a volte ci ributtano i loro transfughi più malmessi di prima. Ma proviamo umilmente a vedere che dinamiche fanno scattare. Non ci sarà domenica ed eucaristia cristiana senza conversione e senza proposta di conversione.

Allora, quali metodi per la catechesi dei giovani e degli adulti? Quali gruppi accoglienti per i battezzati in situazione irregolare (separati, divorziati...)? Quali proposte per i fedeli adulti che devono completare l’iniziazione cristiana?

d) Programmare percorsi di formazione dei ministri

La partecipazione attiva è il dinamismo espresso dalla preghiera eucaristica: memores, gratias agentes, offerimus. Memori della Pasqua di Cristo, diventiamo esistenze eucaristiche (che rendono grazie) e quindi offrono il sacrificio. Tutto questo diventa vero nel gesto sacramentale più alto della partecipazione attiva: mangiare e bere alla mensa pasquale, fare la comunione sacramentale. Anche qui occorre sapere accompagnare dentro questa dinamica della fede. Se vogliamo che l’eucaristia domenicale torni al centro della vita dei fedeli, occorre che pianifichiamo dei percorsi di formazione al linguaggio rituale. Non possiamo dimenticare la formazione di lettori e accoliti (istituiti o di fatto), ma anche quella degli accompagnatori (catechisti di ragazzi, giovani e adulti).

Si è molto attenti a pianificare incontri dei catechisti, di educatori e di volontari, ma nella progettazione dei cammini formativi e operativi di questi gruppi di ministri è ancora scarsa l’attenzione all’anno liturgico, a una spiritualità liturgica e soprattutto una formazione al linguaggio rituale che consenta loro di diventare ministri e attori competenti della celebrazione domenicale a servizio di tutta l’assemblea.

Una parola va spesa su quello che si chiamava il gruppo liturgico. Non è sempre detto, a onor del vero, che là dove c’è la liturgia sia viva. Però aiuta. Torniamo al problema di programmazione pastorale già esposto: se ritengo importante il linguaggio rituale, progetto tutte le strategie necessarie affinché nascano figure ministeriali capaci di usarlo e proporlo.

e) Progettare l’anno liturgico

Ricentrare tutto sul mistero pasquale ci porta necessariamente a interrogarci sul senso del tempo e sui ritmi del tempo delle nostre comunità. Noi non abbiamo solo la domenica per sottolineare la signoria di Cristo sulla storia. Una lunga vicenda che va dal II all’VIII secolo ha strutturato la concatenazione delle domeniche nell’anno liturgico. Che senso ha? Quando si parla di «anno liturgico» non si intende semplicemente la distribuzione delle festività nello spazio di un anno (tra l’altro, in difformità con l’anno civile), ma la celebrazione del mistero di Cristo che «riempie» la circolarità dell’anno solare. La diversità sta proprio nella differente prospettiva di questo «dispiegarsi», per cui l’anno civile è preoccupato di sistemare le date che lo contrassegnano. Mentre l’anno liturgico primariamente si fonda sulla successione stagionale, anche se non manca, soprattutto nel capitolo di Maria e dei santi, una cronologia ben precisa.

Così i periodi particolari dello stesso anno liturgico (Avvento, Natale, Epifania, Quaresima, Pasqua) non sono determinati tanto dalla datazione cronologica del calendario civile, quanto dalle due grandi festività a cui fanno riferimento: Natale e Pasqua. È vero che s’innestano nel giro dei mesi, però la preoccupazione emergente non è quella cronachistico-anniversaria, quanto quella pastorale, cioè la preoccupazione di aprirsi alle potenzialità del tempo di Cristo. Come afferma un grande studioso ebreo, si è di fronte a un’autentica architettura del tempo. In questo senso, allora, il raccordo tra anno liturgico e anno pastorale sta nel fatto che l’azione della chiesa non si lega tanto alla misurazione del tempo, che nella scansione di ore e minuti è sempre la medesima; piuttosto si esplica nei ritmi determinati dal mistero di Cristo, celebrato nel tempo, che fissa, anche nella pura misurazione cronologica (7 giorni, 40 giorni, 50 giorni…), il tipo di esperienza da compiere. La stessa struttura settimanale, nel suo alternarsi di ferialità - festività, non si fonda primariamente sul bisogno di riposare, da assecondare nel giorno festivo, quanto sul «liberare il tempo del mercante», tipico della ferialità.

– Che stiamo facendo dell’anno liturgico? Dei cicli del Lezionario? L’anno liturgico ispira la pastorale o è semplicemente un contenitore dove infilare di tutto? Ugualmente occorre avere il coraggio di chiederci se le diverse giornate o le feste di idee (famiglia, vita, seminario, ecc. ) aiutano davvero a illuminare la vita dei fedeli con il mistero pasquale. Le Precisazioni della CEI su anno liturgico e giornate particolari sono molto chiare[3], ma chi le conosce e le rispetta?

– Distribuiamo saggiamente la celebrazione dei sacramenti, soprattutto di quelli dell’iniziazione cristiana, in connessione con la celebrazione annuale del mistero pasquale? Senza disciplina comune dei sacramenti e dell’anno liturgico non faremo passare nei fedeli la centralità della Pasqua.

– Davvero facciamo dell’anno liturgico l’itinerario formativo (mistagogico) proprio della comunità cristiana? «L’anno liturgico costituisce il grande itinerario di fede del popolo di Dio»[4] Usare tutta la pedagogia e le sfumature rituali presenti nei ritmi dei tempi dell’anno liturgico non aiuterebbe anche i praticanti saltuari?

f) Gli organismi che progettano la pastorale parrocchiale

L’eucaristia domenicale ha ancora qualcosa da dire, anche all’aspetto istituzionale. O meglio: la liturgia è anche una questione ecclesiologica. Se chiesa e assemblea eucaristica sono per loro natura ministeriali, che ne facciamo dei nostri organismi di partecipazione? Sono di mera partecipazione o di comunione? Hanno come fondamento la sociologia o la natura ministeriale della chiesa? Forse la fragilità con cui si pensano domenica e anno liturgico scaturisce anche dal fatto che coloro che «pensano» la pastorale non hanno una forte spiritualità pasquale e i nostri organismi parrocchiali non attingono alla concreta ministerialità richiesta dalla celebrazione eucaristica.

Perché, allora, non pensare a Consigli pastorali che riuniscano i ministri istituiti e di fatto (ministri della parola, dell’altare, della carità)? Non è il caso di ripensare la struttura dei responsabili della pastorale delle nostre comunità? Da tempo ho un sogno: la parrocchia con un presbitero coordinatore responsabile, uno o due diaconi che si occupano della carità e dell’amministrazione, un paio di lettori per formare i catechisti e strutturare gli itinerari di annuncio della Parola, un paio di accoliti di aiuto al diacono e animatori dell’assistenza ai malati e della pastorale degli anziani e insieme capaci di fare pure i cerimonieri! E poi li sogno tutti insieme sull’altare ogni domenica a occuparsi della celebrazione eucaristica... Lo so sto sognando...

3. Conclusione

Permettetemi di concludere con un tocco letterario e un ritorno alle scritture ebraiche, al primo capitolo della Genesi. Anche ai tempi dell’esilio di Babilonia un poeta, forse sacerdote, era preoccupato della solidità della fede del suo popolo, poiché deportato e perché gli dèi di Babilonia avevano vinto il Potente di Giacobbe, il Dio delle potenze cosmiche, atterrando il suo tempio in Gerusalemme. Allora affida il suo piano pastorale a un canto. Narra in sei strofe la bellezza del cosmo uscito bello dalla parola creante di Dio, riduce sole e luna, gli dèi vittoriosi, a lampadine nel cielo del Dio dei suoi padri. Il suo progetto culturale è cantare la bellezza della creazione consegnata all’uomo, alla fecondità del maschio e della femmina fatti a immagine e somiglianza del Creatore, datore di vita. Solo allora canta e benedice il «settimo giorno», sacro al Signore suo Dio e lo proclama santo al di sopra degli altri e «signore dei giorni». Da allora Israele non smette mai di fermarsi ogni sabato per lodare il creatore nel riposo delle creature. E quante culture e quante traversie ha attraversato nella storia il popolo della prima alleanza in compagnia del sabato e della cena pasquale!

Così noi, se vogliamo attraversare la storia, dobbiamo comporre un nuovo cantico alla domenica, un nuovo Salve festa dies riservato a ogni «Pasqua settimanale», perché è il primo giorno della creazione, giorno della luce, perché è il primo giorno della nuova creazione nella luce del Risorto:

Salve festa dies, / toto venerabilis aevo,

qua Deus infernum vicit / et astra tenet.

            Salve giorno festivo, il più venerabile di ogni tempo,

            nel quale Dio ha vinto l’inferno e governa gli astri.

Se anche noi sapremo affidare al canto e alla lode il giorno che «il Signore ha fatto», senza indulgere a nostalgia e a depressioni, cantando in tempo di crisi, affideremo al futuro non solo questo giorno, ma anche il cuore del mistero che custodisce. È un giorno che non commemora più il riposo di Dio dalle sue opere, ma che proclama il più alto dei prodigi di Dio; è giorno che vede sì il riposo dei figli di Dio, ma perché sono attoniti e sorpresi davanti al Crocifisso vivo, perché sono gioiosi e festivi in quanto in attesa del riassunto di tutta la creazione nella domenica senza tramonto.

Così cantavano, a metà del primo millennio, monaci, devoti e penitenti nelle veglie notturne tra sabato e domenica mentre si riempivano le chiese di luce, di preghiera, di canto e di gente variegata:

Primo dierum omnium, / quo mundus extat conditus

vel quo resurgens conditor / nos, morte victa, liberat...

            Nel primo di tutti i giorni, in cui il mondo è stato creato

            e nel quale è risorto il suo artefice, egli, vinta la morte, ci libera.

E così, all’inizio del secondo millennio, sempre nella notte tra sabato e domenica, monaci e monache cantavano nelle vigilie domenicali alla fine del buio della notte e prima che il gallo annunciasse il sole:

Dies aetasque ceteris / octava splendet sanctior

in te quam, Iesu, consecras / primitiae surgentium.

            Splende il giorno ottavo più santo degli altri

            in te, o Gesù, primizia dei risorti, che lo consacri.

Ora, mentre è da poco iniziato un nuovo millennio, tocca a noi aggiungere strofe a questi inni secolari e comporre un nuovo canto alla domenica, il signore dei giorni. (Daniele Piazzi, Credere Oggi, 161/2007)

 

NOTE

[1]Cfr. S. Meneghini, La religiosità degli italiani, in «Riforma» del 1 luglio 2005.

[2] Cfr. F. Garelli (ed.), Sfide per la chiesa nel nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, Il Mulino, Bologna 2003.

[3] Cfr. CEI, Messale Romano. Norme per l’anno liturgico e il calendario. Precisazioni, pp. LX-LXI.

[4] Cfr. CEI, Eucaristia, comunione e comunità (22.05.1983), n. 89, in Enchiridion CEI, 3, 1334.

 

 

 


 

Il cristiano è uomo di un altro mondo

(6 aprile 2008)

 

"Fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente": lo professiamo nel Simbolo apostolico, come sintesi, chiara ed essenziale, degli eventi che il Figlio di Dio fatto uomo ha vissuto. Nessuno di essi si stempera nella metafora, ma tutti si presentano col realismo e la consistenza della storia.

Al loro vertice e compimento - e come loro conferma e segno di riuscita - si pone la Risurrezione che di tutti i precedenti misteri è conferma e riuscita, e che, al pari di essi, è un fatto storicamente avvenuto.

Se Gesù di Nazaret non fosse risorto, la sua concezione e natività, la sua passione, morte e sepoltura avrebbero perduto significato e valore; sarebbero rimaste sospese e incomprensibili, quasi disorientate e dissipate. Il Figlio di Dio sarebbe nato vanamente, inutilmente avrebbe patito e sarebbe sterilmente morto.

Senza dubbio, Gesù risorto è in una condizione radicalmente diversa rispetto a quella in cui si trovava nella precedente vita terrena:  non è più visibile e attingibile come lo era quando si trovava nel tempo; come si dice:  con la risurrezione egli non torna alla vita di prima, ma entra nello stato "escatologico"; ma non per questo la risurrezione è una "parabola", il frutto o la creazione soggettiva della fede; al contrario, è un avvenimento oggettivo, che la pura esperienza sensibile non è in grado di avvertire, ma della cui realtà storica la fede ha fondatamente la certezza.

E proprio perché questa fede fosse stabilita sulla realtà e sottratta al mondo soggettivo del desiderio o dell'allegoria, Gesù risuscitato - come afferma il libro degli Atti - si è "mostrato vivo agli apostoli dopo la sua passione, con molte prove convincenti, apparendo per quaranta giorni" (Atti, 1, 3).

Da un lato, si avverte chiaramente che il Risorto, con la sua rinnovata corporeità, si trova in uno stato incomparabile e di radicale divario rispetto a quello della sua esistenza precedente, e che solo per la sua iniziativa di mostrarsi può essere percepito come risorto.

Ma, dall'altro lato, con non minore evidenza, si assiste a tutto un "piano" di Gesù risuscitato che, con le sue ripetute apparizioni e sparizioni, le sue sorprendenti partecipazioni conviviali e l'invito esplicito a non considerarlo, avendo "carne e ossa", una specie di fantasma, mirava a edificare la fede dei discepoli e a liberarli dai dubbi, dagli abbagli delle illusioni o dagli ingannevoli giuochi della fantasia.

Del resto, proprio gli apostoli e i discepoli, per i quali la figura di Gesù non era più sperimentabile e documentabile come in precedenza, dopo la costatazione dei "segni" della risurrezione, fanno di essa la sostanza della predicazione e l'evidente riprova della validità del Vangelo.

"Morì, fu sepolto e fu risuscitato, e apparve" (1 Corinzi, 15, 3-5), scrive Paolo, per il quale predicazione e fede sarebbero "vuote", se non fosse vero, e quindi storico, che "Cristo è stato risuscitato dai morti" (1 Corinzi, 15, 20).

La monotona e vecchia affermazione che, essendo la risurrezione di Gesù oggetto della fede, è, in conclusione, sprovveduta del suo supporto e della sua conferma storica, è totalmente inconsistente, così come lo è la separazione tra il Gesù storico e il Cristo della fede.

In sedicenti teologi, che rifriggono malamente eresie antiche, queste asserzioni non stupiscono; dovrebbero invece evitare una certa deleteria fumosità i teologi ancora credenti. Ma oggi si ha l'impressione che non pochi di essi non siano soddisfatti se non fanno affermazioni sensazionali, ed eccoli parlare della sofferenza nell'intimo della Trinità, o dell'oscurità della fede di Gesù, o di Dio che spera nella riuscita del suo disegno. Si direbbe che non perdonano a Dio di essere Dio, per cui si impegnano puntigliosamente a ricrearlo a immagine dell'uomo.

In realtà, la consolazione della fede e la gioia della teologia in tempo pasquale è specialmente quella di contemplare e di ammirare Gesù risorto come l'eternamente predestinato.

Infatti, secondo il disegno divino attestato nelle Scritture, è Gesù risorto il fine della creazione, la ragione che unicamente giustifica il mondo, il motivo per cui Dio ha chiamato gli esseri all'esistenza.

Dall'eternità Dio ha concepito e voluto anzitutto il Crocifisso glorioso, che "esiste prima di tutte le cose", mentre "tutte hanno consistenza in lui" (Colossesi, 1, 17).

"Il Signore" è la "forma" di tutto quanto sorga nell'universo:  "Tutti gli esseri nei cieli e sulla terra, i visibili e gli invisibili sono stati creati in lui", esistono grazie alla sua mediazione e in lui ritrovano la causa finale:  "Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui" (Colossesi, 1, 16); egli è il "Principio e Primogenito dei risuscitati, così da primeggiare in tutto" (Colossesi, 1, 18).

Da sempre e per definizione Gesù è "il Primeggiante".

E fin che la teologia non riparta programmaticamente da lui e dalla sua predestinazione, non potrà che rimanere insignificante e monotona, e indugiare negli sterili propositi di animare la cultura.

L'umanità glorificata del Figlio di Dio si rivela, così, la scelta trinitaria prima e assoluta; in essa il Padre trova la sua immensa compiacenza e la sua esauriente soddisfazione. Ciò che alla Trinità "preme" eternamente è che ci sia Gesù di Nazaret.

Tutto il resto - a qualsiasi natura appartenga, angelica o umana - è riconoscibile e apprezzabile nella misura in cui vi si rinvengano la "grazia" e la bellezza del Risorto e ne sia il riflesso. Le altre opere di Dio partono tutte da quella intenzione divina originaria e tutte vanno comprese risalendo a essa.

Ne consegue che non esiste, né mai è esistito, briciolo di tempo o frammento di spazio che possa essere stornato dal rapporto con Gesù o essere sottratto alla sua signoria.

In nessun momento il Signore è stato distante dalla storia; egli è stato sempre imminente ad essa, rappresentandone l'intima e insopprimibile "attrattiva". La prima Lettera di Pietro insegna che già "nei profeti era presente lo Spirito di Cristo" (1 Pietro, 1, 11).

Se poi, in particolare, ci soffermiamo sull'uomo - che di tutti gli esseri è quello più caro a Dio, visto che il Figlio suo si è fatto uomo -, possiamo affermare che ogni uomo, dal primo che aprì gli occhi su questa terra, fino all'ultimo che la abiterà, porta dentro di sé, "nativamente" e rigorosamente, il medesimo destino del Signore e la vocazione a portare in sé la sua immagine. E questo, non in base a una esigenza "naturale" dell'uomo stesso, né in virtù di una sua deliberazione, ma a causa della misteriosa elezione di Dio, che da sempre, per pura e segreta sua grazia, ha voluto l'intera umanità plasmata su quella del Figlio morto in croce, risorto e assiso alla destra del Padre.

Fin dalla concezione, prima ancora che ne sia cosciente e a prescindere dalla sua volontà, ogni uomo si ritrova collocato nell'"area" di Gesù e sotto l'influsso del suo amore, che lo ha legato all'uomo dall'eternità; nessuno nasce escluso dalla sua predestinata gratificazione.

Gesù sulla croce salva l'uomo non per una determinazione divina "subentrata" o "successiva", ma perché il Crocifisso glorioso è stato scelto come fondamento del destino dell'uomo, quale sua "necessità" e quale suo "recapito".

Sant'Ambrogio parla dei cristiani che "hanno avuto inizio nella predestinazione".

La stessa redenzione dal peccato va compresa in questo disegno cristico, che rigorosamente impronta di sé tutti gli uomini.

Se, a motivo della colpa originale, l'uomo viene al mondo segnato dall'"assenza di giustizia" - cioè difforme da Gesù risorto, unico e di fatto necessario modello dell'uomo -, con la redenzione quell'assenza viene colmata e l'uomo riceve la grazia della conformità al Signore. Ancora nella prima Lettera di Pietro leggiamo che il riscatto è avvenuto "col sangue prezioso di Cristo, sacrificato come Agnello puro e senza macchia, previsto prima della fondazione del mondo" (1 Pietro, 1, 19-20).

Per quali vie Dio abbia sempre soccorso - e sempre soccorra - della grazia di Gesù tutti gli uomini - a meno che espressamente la rifiutino - lo ignoriamo; ma "le vie di Dio son molte", e noi non possiamo dubitarne, per due ragioni. La prima è la seguente:  quando ancora non si svolgeva il tempo e l'uomo non era ancora sorto, Gesù risuscitato era stato stabilito come il Primogenito salvatore dell'uomo. Ed ecco la seconda ragione:  assolutamente, non c'è mai stato né mai ci sarà un uomo "trascurato da Dio" o a lui "indifferente", un uomo, che non sia intimamente avvolto dallo stesso affetto con cui Dio ama il suo Figlio Crocifisso risuscitato.

L'opera salvifica di Gesù è in atto ancor prima che egli storicamente muoia sul Calvario e risorga il terzo giorno. Lo dimostra il caso emblematico della Vergine Maria:  la grazia nella quale essa viene concepita è già frutto dei previsti meriti di Cristo, e quindi è già una grazia che proviene dalla Croce e dalla Risurrezione, secondo il principio che Tommaso d'Aquino enunzia in questi termini:  "Nessuno si può santificare, se non per la mediazione di Cristo"; "la causa della santificazione umana è una sola:  il sangue di Cristo" (Summa Theologica, III, 61, 3, c; 60, 3. ob. 3).

Com'è detto nella Lettera agli Ebrei:  "Gesù è lo stesso, ieri, oggi, e nei secoli" (13, 8).

Ora però siamo nel tempo in cui Gesù è storicamente risuscitato, ed è in atto il suo glorioso e "attraente" innalzamento, non più solo nella forma della previsione e dell'efficace profezia, ma nella forma dell'avvenimento compiuto. Egli aveva annunziato:  "Quando sarò innalzato da terra" - e lo fu sulla croce e per sempre lo sarà nella gloria alla destra del Padre - "attirerò tutti", o "tutte le cose", "a me".

Ma prima consideriamo in se stesso Gesù risorto, costituito "Signore" e "Giudice dei vivi e dei morti", con una signoria unica e liberante, che, sciogliendo da qualsiasi schiavitù, ci pone tutti ugualmente al suo servizio e ci sottrae a qualsiasi giudizio che non sia il suo. Nella sua umanità gloriosa egli è il principio del mondo nuovo, la riuscita del disegno eterno, il segno che il progetto divino si è avverato.

Per questo il Risorto da morte è motivo di infinita gioia per la Trinità e di indubitabile e beata speranza per l'umanità, che ravvisa in lui la Primizia dei risorti (1 Corinzi, 15, 23) e l'inizio della propria risurrezione. Ormai, per quante vicissitudini possano accadere nella storia, non intaccheranno mai Gesù risuscitato, né potranno intralciare e compromettere la sua regalità, e la forza che avvicina e unisce a lui.

Anzi, secondo Paolo, il cristiano, avendo nel lavacro condiviso la morte di Cristo, con la nuova vita partecipa già ora misteriosamente della sua risurrezione e della gloria del Padre. Egli è già un "vivente per Dio in Cristo Gesù" (Romani, 6, 11), un "risorto con Cristo", tutto occupato alla ricerca delle "cose di lassù, dove è il Cristo, assiso alla destra di Dio" (Colossesi, 3, 1-2). Anzi, in certa misura, il battezzato non appartiene già più a questo mondo corruttibile e transitorio. La sua vita è "nascosta con Cristo in Dio", e quindi è già da adesso partecipe dell'escatologia, in attesa di assumere pienamente l'"affinità" col Risorto e di apparire con lui rivestito di gloria (Colossesi, 3, 4).

Tutta questa "attrattiva" al Risorto e questa comunione con lui è iniziata e incessantemente prosegue in virtù della continua effusione dello Spirito Santo, meritato dalla sua morte ed elargito in sovrabbondanza dalla destra del Padre. Tutta l'opera di Gesù mirava a ottenere all'umanità il dono escatologico dello Spirito, che a Pentecoste iniziò la sua presenza nell'umanità e nell'universo con la creazione della Chiesa, che è il sacramento di Cristo e del suo Spirito, il quale attinge alla ricchezza salvifica del Signore e ce ne rende partecipi.

Ora Gesù esercita nel mondo la sua signoria celeste o la sua "potestà" attraverso l'azione dello Spirito Santo. Grazie allo Spirito i cuori sono aperti alla Parola e ha successo l'annunzio del Vangelo; per sua virtù è conferita validità ai sacramenti; per lui i credenti ricevono la vita nuova del Risorto e la loro esistenza diviene un cammino nello Spirito, dal quale alla fine saranno compiutamente trasformati a immagine del Crocifisso risuscitato.

In particolare è il caso di sottolineare l'energia "spirituale" nei gesti sacramentali. I sacramenti sono azioni regali del Signore, che, sovrastando i limiti del tempo e dello spazio, ci inserisce nel mistero della sua passione e della sua morte, pegni della risurrezione. Vale specialmente nell'Eucaristia, in cui non cessano di essere ritrovati il Corpo dato e il Sangue sparso; ma si avvera in tutti i sacramenti, che sono come una "porzione" di Eucaristia.

Certo, il mondo di Gesù risorto, la sua attrattiva, l'azione del suo Spirito che trasforma il credente, la grazia che lo rinnova sono realtà sottratte all'esperienza sensibile, ma le sole assolutamente vere, di fronte alla precarietà di quelle visibili, fatte di ombre e di immagini. Il cristiano è un uomo dell'altro mondo - quello autentico - che tuttavia ancora vive in questo mondo, destinato a passare come una scena nel teatro; nel tempo fuggevole della storia egli annuncia, nella speranza, l'escatologia; ancora attraversato dalla passione e dalla morte è il testimone della risurrezione.

In questo senso è "alienato", come lo è Gesù risorto.

Per tornare alla teologia:  essa è una "scienza" tutta diversa dalle altre, con un suo linguaggio proprio; è Parola di Dio o "Sapienza che viene dall'alto", che discende dal cielo, come Gesù Cristo; è per sua natura "regale" e non sarà a suo agio nel concerto delle "arti", per usare categorie medievali, né proverà troppo gusto a occuparsene, anche perché si accorgerà presto del tanto tempo che vi perde.

La vocazione originale della "sacra dottrina" è quella di esplorare il disegno divino, e quindi di intrattenere i credenti a contemplare e ammirare Cristo risorto, a esultare nel suo Spirito, a godere della sua grazia. Il suo discorso è supremamente interessante; solo che, per prendervi gusto, bisogna essere dei credenti, cioè discepoli del Signore, persuasi - come diceva sant'Ambrogio - che le "opere invisibili" del Signore "sono più numerose" di quelle che si vedono, e più avvincenti e stabili.

D'altra parte la teologia è generata dalla fede, e la fede non è una facoltà dagli occhi spenti. Al contrario:  essa è dotata di visione. Fin dai tempi di Tertulliano si usa l'espressione: fides oculata. (Inos Biffi ©L'Osservatore Romano - 3 aprile 2008)

 

 

 


 

 

I preti e noi

(13 aprile 2008)

 

Autore di questa serie di articoli per Avvenire è il professor Vittorino Andreoli, grande studioso della psiche, laico, acuto osservatore di fenomeni culturali. A proposito dei preti ha precisato: «Non sono credente, ma voglio bene ai preti. Tutti devono voler loro bene. Sono figure importanti per tutti. E io voglio che siano felici».

1. Il sacerdote e il sacro. Un personaggio della nostra società

Il sacerdote è un personaggio della nostra società. Figura che ha una sua lunga storia nella nostra cultura, e che ha assolto compiti diversamente riconosciuti, sovente anche contrastati. Profilo che è cambiato, perché è cambiato il contesto in cui si pone. Così, pur perseguendo sempre lo stesso obiettivo, legato al ruolo che ricopre, l’ambiente in cui vive lo ha in parte modificato, mutando anche la forma esteriore con cui egli si presenta al popolo. Dalla veste talare lunga e nera, con berretta a punte e pompon o cappello rigido a larghe tese, lo si vede talora in abito "borghese", in jeans e shirts, non più identificabile o immediatamente riconoscibile. E questo lo ha fatto per nascondersi, quando la sua missione, contrastata, doveva svolgersi in maniera clandestina; oppure per la convinzione che dovesse essere notato non tanto per l’abito quanto per il suo modo di essere e per il suo comportamento, invertendo il detto popolare che è l’abito a fare il monaco.

È un personaggio colto, perché il raggiungimento della sua posizione comporta studi severi e una lunga preparazione, ma a distinguerlo non è il sapere, bensì il ruolo, che ha un’origine nel mistero, una vera consacrazione. Ciononostante, ci sono stati periodi in cui il suo sapere ne ha caratterizzato il ruolo e la maniera di essere percepito, soprattutto in situazioni di istruzione sociale carente, come nel nostro passato storico. Rimane indubitabile che la sua vera caratteristica e funzione è tuttavia una e una sola, e si lega a un ministero che egli acquisisce attraverso il conferimento dell’Ordine, che gli conferisce il munus sacerdotalis. Insomma, è una persona che si inserisce nel mistero, e quindi dentro un credo.

Il mio interesse

E qui subito si accede all’analisi della sua figura per noi, anche se occorre che io mi chieda perché abbia scelto di farlo. E dica quali sono le motivazioni che, almeno consapevolmente, mi hanno indotto a farlo, in via del tutto libera.

Innanzitutto il rispetto. È questo un atteggiamento che io sento sempre di fronte all’uomo, a ogni uomo. Ho rispetto per tutti, per l’uomo "rotto", per gli adolescenti che hanno compiuto azioni riprovevoli e inaccettabili, per i malati di mente a cui ho dedicato e dedico la maggiore attenzione; ho rispetto per ogni uomo, anche se possiede caratteristiche diverse dalle mie.

In secondo luogo, la curiosità. La curiosità per una scelta esistenziale che è "strana" e coraggiosa, almeno per questo nostro tempo, in cui si persegue – ormai quasi inconsapevolmente – il successo, il bisogno di una identificazione che sia sempre ammantata di potere, conquistato o rubato. Un potere che nulla ha a che fare con l’autorevolezza e con il valore, e che anzi sembra porsi su coordinate contrapposte, fino a portare a dire che per il potere serve più la stupidità che l’autorevolezza o il merito. Il sacerdote, invece del potere, sceglie la povertà; invece dell’affermazione del proprio Io, che si fonda anche sulla sessualità come dominio, sceglie la castità; e invece della libertà, che nel nostro tempo significa licenza, egli sceglie l’obbedienza. E non si tratta di scelte implicite, ma espresse attraverso una rinuncia consapevole et coram populo, mediante la formula dell’impegno vincolante.

Un’altra motivazione deriva certamente dalla mia professione di psichiatra, di chi si interroga sempre su come un uomo viva dentro la società e se i bisogni che si definiscono umani vengano raggiunti o siano frustrati.

Per esprimere questa mia forza motrice in maniera sintetica, e sapendo che i sacerdoti devono rispondere al vescovo che è il capo della Chiesa locale in cui esercitano la propria missione, mi pare di poter dire che se il vescovo vuole che i suoi sacerdoti siano santi, io da psichiatra vorrei che fossero sereni e, almeno alcune volte, felici.

Le condizioni sociali

La mia attenzione cioè è rivolta alle condizioni sociali del sacerdozio, poiché sono i prolegomeni alla serenità e alla felicità . E mi chiedo se la vita del sacerdote non sia invece una lotta di resistenza alle frustrazioni che descriverebbe una sorta di masochista, anche se crede che proprio nella rinuncia al mondo si giunga alla felicità. Se così fosse, allora la mia curiosità come psichiatra crescerebbe potentemente, perché mi troverei di fronte a un uomo che fa scelte-limite, e persino contrarie a ogni teoria psicologica e di equilibrio della personalità. Insomma, se il prete con le sue rinunce è felice, allora devo rivedere tutta la mia adesione alla psicologia; se è un infelice, allora dovrei chiedermi se la sua missione sia possibile e con quali esiti.

In questo àmbito, devo ricordare storie di sacerdoti che hanno avuto o hanno una dimensione psichiatrica (e di alcuni mi sono occupato professionalmente), storie di cui parla sovente la cronaca, inaccettabili perché non rispettano i bambini, abusandone, oppure intrattengono comportamenti che stridono con il ruolo assunto e che la società si attende.

Da ultimo devo riferire di una motivazione personale che io considero molto importante perché dà il clima a questa iniziativa. Non potrei parlare della mia infanzia e adolescenza senza parlare di qualche sacerdote che ha fatto parte dell’habitat umano nel periodo in cui si è svolta la mia crescita. Quando la mia memoria vaga tra i ricordi di allora, vedo l’ombra di curati e di monsignori che hanno svolto un ruolo straordinario e fondamentale per la mia vita. Non potrei parlare di mio padre, di mia madre, di mia sorella, che mi porto dentro, sepolti nel mio ricordo, se non parlassi del loro comportamento nei confronti della Chiesa, mediato dal legame con i suoi sacerdoti. Ecco, forse devo esprimerlo chiaramente con le parole dei sentimenti: io li amo per tutto questo. Sì, e non sono credente.

Il sacerdote visto da un non credente

E me la sono posta, la domanda: possiedo io le caratteristiche per arrogarmi questo diritto a parlare? Non sarò uno che affronta un tema senza averne gli strumenti, non diversamente da come agirei se domani mattina entrassi in sala operatoria e cominciassi un intervento chirurgico per il quale, pur essendo medico, non sono preparato, non possedendo nemmeno gli strumenti? E gli strumenti in questo caso non saranno la fede e il credere, mentre io sono un non credente?

Penso di poter sostenere, almeno per la mia esperienza, che si può amare anche chi non appartiene al proprio mondo. E penso pure che, se uno non crede, può dire che il sacerdote non gli serve, allo stesso modo per cui non gli serve l’idraulico se l’impianto di riscaldamento funziona, o non ha bisogno del dentista se ha i denti sani. Ma ciò non toglie tuttavia che si possa avere stima, e persino amare una professione, come quella dell’idraulico o dell’odontoiatra, o per l’appunto del sacerdote.

Il non credente non prova fastidio verso i credenti, alla maniera dell’ateo che li considera degli illusi quando non degli stupidi perché si affidano a false verità e  vivono di errori. I non credenti sono persone che non hanno avuto un incontro personale con il Signore, di cui il sacerdote è seguace ed esempio. La fede è un dono e si lega all’incontro tra Dio e una persona, e la grandezza del cristianesimo è stata nel portare la dimensione del legame di Dio non più con un popolo eletto ma con ciascun uomo, grazie a un incontro tra il singolo uomo e Dio stesso. Insomma, è la soluzione del Dio personale. Ebbene, quell’incontro nel non credente non è avvenuto, ma ci potrà essere. E come diceva Pascal: «Non basta voler credere per credere», occorre l’esperienza. Certo la differenza tra uno che crede e uno che non crede è enorme, ma la distanza temporale può essere di solo un secondo e quella di luogo, addirittura una vicinanza.

Credere, un bisogno dell’uomo

Ma dev’essere anche chiaro che il credere, prima che un’esigenza indotta da una religione, è un bisogno dell’uomo. Il bisogno di credere è umano, è di questa terra. È semmai la risposta specifica, di quel credo, di quella religione che lega al cielo e magari proviene dal cielo.

Non penso, dunque, che la mancanza di appartenenza a una fede, che significa anche la mancanza di relazione con il sacerdote nelle sue funzioni sacre, tolga la possibilità di guardarlo e di cercare di capirlo.

Essendomi dedicato per molti anni alla ricerca scientifica, e quindi all’analisi di alcuni problemi biologici – e il mio interesse era rivolto al cervello – ho imparato che ogni risultato e affermazione hanno valore entro la metodologia che si è applicata per rilevarli e quindi dentro i limiti che tale metodologia ha imposto. Ma ho imparato anche che i risultati conseguiti sovente non solo sono utili, ma pur nella loro parzialità sono straordinariamente importanti: penso alla medicina, a cui le mie ricerche erano rivolte.

Insomma, terra e cielo si toccano. Colui che «fa» il sacro

Sacerdote è la combinazione di sacer (che significa sacro) e di dho-ts (che vuol dire fare, colui che fa), dunque etimologicamente significa «colui che compie cerimonie sacre». Il fare va proprio inteso come fare il sacro; e in questo senso è meno aderente, alla radice linguistica, la definizione di sacerdote come «colui che amministra le cose sacre».

Io lo intendo proprio come chi fa, opera. Se si guardano altre parole con la stessa radice si trova sacrare nel senso di rendere sacro, e anche sacertà come carattere sacro. Insomma, sacerdote si coniuga con sacro e quindi si impone un riferimento al sacro.

Sono molto legato a una definizione che ne ha dato un antropologo, Rudolf Otto, nel 1917, che ha dedicato uno studio al tema, Il sacro. Egli sostiene che si tratta di una categoria della mente umana, intesa proprio nel senso usato da Immanuel Kant: una forma della mente per percepire il mondo e quindi anche per condizionarne la sua conoscenza. Esiste la categoria della ragione, con il principio di non contraddizione, che rappresenta la modalità per vedere il mondo sub specie rationale.

Otto afferma che l’uomo possiede una struttura mentale che gli permette di percepire anche il mondo non sperimentabile, quella parte che si definisce il nouminosum e che ha la caratteristica non del chiaro e distinto, ma del fascinoso, e quindi di attirare e nel contempo di spaventare. Insomma, il sacro è la categoria della mente che permette di avvicinarsi al mistero, ciò che non è riducibile esclusivamente a ragione, ma che appunto entra nella comprensione anche dei sentimenti, e di uno in particolare: quello capace di attrarre e spaventare.

Il mistero, dimensione dell’umano

E’ straordinaria questa intuizione poiché mette nella configurazione della mente, che sottostà a un’anatomia del cervello, una capacità fissata nella storia dell’uomo: quella di capire il mistero, come se il mistero fosse una componente necessaria, obbligata, dell’esperienza umana, e come se fosse altro rispetto alla pura ragione, nel senso almeno che appartengono a due domini, a due bisogni distinti.

Ed è proprio così, poiché nell’esperienza umana ci sono temi che si prestano alla comprensione razionale, che ha bisogno della sequenzialità, del poter rimandare a temi da indagare, e quindi che si prestano a soluzioni non immediate, e altri che invece necessitano di risposte immediate in sé concluse. Quando noi ci troviamo in una esperienza di paura non serve capire razionalmente o scientificamente che cosa sia il terrore, ma serve essere rassicurati, e allora vale più un abbraccio di una trattazione di psicologia.

Ci sono poi temi in cui il numinoso si attiva subito: la morte che ci interroga drammaticamente sulla fine, la nascita che ci pone la questione del perché l’essere invece del nulla, il male che colpisce un bambino e verso il quale ci si sente impotenti, anche coloro che dovrebbero proteggerne l’esistenza.

Rudolf Otto dice dunque che il sacro è una categoria della mente che esprime il bisogno di avere una risposta immediata, senza rimandare ad altro come sovente accade per la scienza o il ragionamento .

Sacro e religioso

Da questo richiamo si pone una distinzione netta tra sacro e religioso. Religioso significa legame (da religio), ed  è bellissimo poiché il legame ha una funzione di rassicurazione. I sentimenti sono i legami che una persona stabilisce con un’altra, e nel legame si seda la paura.

Ebbene, la religione è la risposta ai bisogni del sacro. Dunque, il sacro è umanissimo, ed è esperienza di questa terra; e la religione è la risposta totale, senza dubbi, senza rimandi, affermata persino da un’autorità che ha il nome di Dio, dell’Assoluto.

Il sacerdote dunque è, dal mio punto di vista, un uomo religioso che dà risposte – attraverso gesti, liturgie, cerimonie – ai bisogni del sacro che ogni uomo prova.

Se il sacro è una funzione della mente, e dell’essere uomo, e una caratteristica potremmo dire della sua biologia, allora si capisce bene perché a proposito del sacerdote si parla anche di una funzione sociale, ossia di un livello squisitamente terreno della sua funzione.

 

2. La vocazione

Ogni professione richiede di valorizzare le qualità di ciascuno, le sue disposizioni attitudinali, e la precisa volontà di dedicarsi al campo prescelto.

Vocazione viene da vocare, che significa chiamare, invocare. La vocazione dunque è una chiamata, talora addirittura un’invocazione a dedicarsi a un ruolo sociale, una volta verificate la capacità e la disposizione a svolgerlo. Un riferimento, questo, che suona oggi stonato, se si pensa a come vanno le cose nel nostro tempo, nel quale il lavoro si lega piuttosto alle circostanze, a una combinazione del tutto casuale di eventi o di incontri. È triste, come pure mi è capitato, andare in taxi da Fiumicino al centro di Roma, accompagnato da un giovane tassista che racconta di essere un laureato in filosofia teoretica; oppure trovarsi a pagare il pedaggio autostradale a una persona che confessa d’essere un ingegnere edile. Un vero dolore, che mostra lo spreco di una società che prima mette a disposizione strutture e mezzi, peraltro limitati e in ambienti non certo ideali, per raggiungere delle competenze, e poi si dimentica di programmare un’accoglienza proporzionata a quell’esito.

Mala tempora quando non si riesce a combinare le doti individuali (talenti) con la preparazione e i bisogni sociali, consentendo così ai singoli la soddisfazione che meritano per essersi impegnati nel conseguimento di una precisa professionalità.

Eppure, la vocazione necessita di una cornice di grande rilievo.

Occorre che ciascuno abbia consapevolezza delle proprie capacità, che non sono sempre evidenti, ma possono emergere durante un processo educativo in cui il singolo scopre quali funzioni riesce a svolgere bene, provando piacere nell’eseguirle. Del resto proprio a questo scopo si sono sviluppate tecniche di ricerca dei talenti e di orientamento nella loro applicazione sociale, avendo presente il quadro non solo delle professioni in atto ma anche di quelle che il mercato del lavoro riesce appena a intravedere, all’interno di una società mobile e in forte cambiamento.

Talora la propensione è evidente: è il caso di una persona che sa disegnare o dipingere, oppure ha un senso musicale spiccato, o una disposizione alla matematica e alle scienze fisiche piuttosto che una tendenza alla meditazione e alla elaborazione concettuale del pensiero, e quindi ad attività astratte. Ma è altrettanto vero che non sempre questo segnale di disposizione si lega alla felicità di una persona, che magari la esperisce in un agire più faticoso e impegnativo rispetto al mestiere "naturale". E il piacere è molto importante, è una dimensione che va sempre tenuta presente.

Occorre stare attenti a non illudersi, a non sentire il fascino della professione del proprio padre o di una persona amata, il mestiere scelto dall’amico fidato, perché si tratterebbe di spinte emotive che sono strumentali: si fondano sulla voglia di stare con qualcuno o di continuare una certa storia che una professione diversa invece interromperebbe.

In un recente passato si era data molta importanza ai test attitudinali, che però si sono dimostrati troppo superficiali. Questo non significa affidarsi allora al caso, che sarebbe un errore antitetico. Bisogna invece stare bene attenti a un processo complesso, che va valutato da parte del soggetto e dai suoi educatori in maniera continuativa, così da far emergere gli elementi utili per capire se questi possa trovarsi a proprio agio in un dato ambiente sociale. Sta qui il senso dell’adattamento del singolo all’ambiente di cui parla Charles Darwin, e che non va inteso in senso passivo ma, al contrario, come legame soddisfacente e dunque gratificante dell’attività del singolo in una data comunità.

Nel tema generale dell’adattamento si inseriscono anche i disturbi mentali e comportamentali, che sono da intendersi come la difficoltà di un soggetto a stare in società, e quindi come reazione a cercare di sopravvivervi, con maniere idonee a evitare le possibili frustrazioni. Se uno si sente fortemente insicuro tende a diminuire i contatti sociali, a ossessivizzarli, ripetendoli, evitando nuove esperienze che gli si configurano sempre minacciose. Allo stesso meccanismo si lega la depressione, che è una vera fuga dalla società nella quale ci si sente inadeguati, fino a convincersi di non essere compatibili con il vivere comunitario. Ma anche la schizofrenia, che è una frattura dell’Io o una sua frammentazione, ha il significato di una rottura di quella unità, essendo l’individuo in grado di stare all’interno della società ma ignorandola.

Insomma, la vocazione ordinaria è di grandissima importanza per ciascuno di noi. Ovvio che lo sia ancor più per il sacerdote, che rappresenta una condizione tutta diversa dalle altre professioni.

La vocazione sacerdotale

Se il significato della vocazione ordinaria è già quello di una chiamata, tanto più lo è quella del sacerdote: e infatti si parla di chiamata da parte del Signore a servirlo per la salvezza dell’uomo. Chiamata a una missione che ha come obiettivo il raggiungimento pieno della felicità non in questo mondo, ma nell’altro, in cielo.

Non intendo lambire il senso profondo di questa affermazione, ma è opportuno chiarire che nel caso della vocazione sacerdotale si tratta di qualcosa che si aggiunge e si specifica, ma non nega nulla di quanto si è detto per la vocazione ordinaria. Al di là infatti del suo senso proprio, la vocazione sacerdotale rimane un’attività dell’uomo in mezzo agli altri uomini, per cui risente delle caratteristiche personali come dell’atteggiamento della struttura sociale. Con ciò non intendo dal mio punto di vista escludere pregiudizialmente qualcuno dalla scelta di diventare sacerdote; del resto basterebbe guardare ai santi per accorgersi di quanto siano tra loro diversi sul piano delle caratteristiche fisiche, della personalità e dell’appartenenza sociale.

Avendo diretto a lungo una divisione clinica, mi sono reso conto che c’erano medici che facevano ugualmente bene il loro lavoro pur con personalità e disposizioni differenti e talora contrapposte. E dunque che la fatica per raggiungere il comune obiettivo era evidentemente diversa. Immagino – ma qui ho una minore esperienza – che qualcosa del genere si possa dire anche per chi aspira al sacerdozio.

Torno su un concetto già espresso, e che ritroveremo ancora: quello della serenità e della felicità. Ho conosciuto sacerdoti che manifestano questi atteggiamenti anche in momenti obiettivamente difficili, e altri che rivelano uno stato di ansia, di preoccupazione continua, e temono sempre di non farcela. Ebbene, questo, dal mio punto di vista, è il vero test di adeguamento a un determinato ruolo sociale.

Mi spiego, rifacendomi a quanto si dice parlando della fede intesa come incontro "personale" del singolo uomo con Dio. Questa d’altra parte è la caratteristica del cristianesimo. Non è sufficiente conoscere la rivelazione storica, avere letto tutti i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento; certo, questo serve, ma non è ancora fede. La fede sta nell’incontro, cioè nel Dio che si manifesta al singolo uomo. E questo incontro trasforma un non-credente nel credente. Mi piace sottolineare che il non-credente, a differenza dell’ateo, potrebbe anche essere pronto ad accogliere il Signore, ma bisogna che questi si riveli. Il che è un puro dono.

Io trovo bellissimo che la fede sia legata a un’esperienza precisa, per quanto singolare e indicibile, dal momento che essa per un verso pesca nel mistero, e dunque nel sacro.

Va da sé che questo incontro dev’esserci stato a un certo punto nella vita di chi vuol diventare sacerdote. Ma di per sé non è ancora la chiamata, tant’è vero che non tutti gli uomini con fede hanno la vocazione a diventare sacerdoti. Occorre per questo che quel Dio di Gesù Cristo, che è insieme il Dio personale, abbia invitato a seguirlo, e a seguirlo in maniera speciale. Quella del ruolo sacerdotale è una chiamata di dedizione esclusiva, è un invito d’amore che sottrae da altre possibilità di amare.

E capisco perfettamente che si tratta di un legame ben più profondo rispetto a quello di una presenza comune, perché richiede una dedizione totale. E allora è chiaro che un sacerdote non può essere al contempo come uno che ha abbracciato una qualsiasi altra professione.

Trovo veramente strano che talora si voglia ridurre il sacerdote alla stregua di uno che è preso da una serie di preoccupazioni legate a una propria famiglia, a un proprio lavoro. Si tratta, per lui, di una vita qualitativamente diversa, intensamente diversa, ma non una vita doppia, intesa come somma di esperienze. E se uno soltanto capisce cosa voglia dire una chiamata a "lasciare tutto" e a seguirLo, trova assurde le ipotesi del prete sposato con famiglia, del prete manager o anche soltanto macellaio. Un ruolo – quello del prete – che si fonda certo su alcune caratteristiche proprie, ma anche su un legame speciale con Dio, che non è il direttore generale di una grande azienda, bensì – appunto – Dio. Uno può negarlo nella propria vita ma non negare che esista nella vita di un sacerdote, il quale ha inforcato la sua missione rispondendo a una chiamata che viene da Dio direttamente.

Certo, c’è anche la posizione dell’ateo, che nega il sacerdozio perché nega Dio e ritiene che chiunque vi creda sia un minus habens o un infatuato che vive di illusioni. Ma non è questa la mia posizione, pur non avendo io incontrato il Signore, e dunque non avendo io ricevuto alcun invito alla sequela, credo che ciò possa essere accaduto ad altri, perché ho rispetto dell’altro e non mi sento di dire che ciò che io non ho vissuto non solo non esiste ma non può neppure esistere. Non sono mai stato a Bali e non ho certo in programma di andarci, ma sono sicuro che Bali c’è, anche se ritengo che sia un luogo abbastanza al di fuori della mia esperienza da non desiderare affatto di andarci.

La vocazione sacerdotale è una vocazione come tutte le altre, se la si considera nella dimensione dell’incontro tra le disposizioni personali e le esigenze della società, ma in più è una chiamata speciale che proviene da un incontro personale con Dio, che è oltre quello che si attua per credere. Certo, occorre credere, e quindi avere incontrato il Dio che c’è, ma si tratta anche di seguirlo.

 

3. Il seminarista

Se si vuole comprendere il valore di un qualsiasi professionista, è utile, forse addirittura indispensabile, conoscere le scuole che ha frequentato, e sapere quindi quale sia stato il suo effettivo percorso formativo. Da quel momento, per misurare le sue reali capacità, si dovranno aggiungere l’esperienza pratica e la formazione permanente. Quest’ultima gli permetterà di aggiornarsi sulle nuove conoscenze legate allo sviluppo intrinseco della sua disciplina e ai cambiamenti della società, che pone sempre nuove domande.

Questa stessa esigenza si avverte per il sacerdote, pur se la sua è una situazione del tutto particolare, che proprio per questo necessita di istituzioni formative adatte allo scopo. Se per tutti i cittadini i criteri e i luoghi sono decretati dal Ministero della Pubblica istruzione, per la formazione del sacerdote essi sono previsti dapprima dalla Chiesa universale, che fornisce i lineamenti generali, quindi dalle Conferenze episcopali nazionali, che elaborano gli adattamenti locali. Ferma restando la competenza propria di ogni vescovo, che è il primo moderatore del suo seminario e il primo responsabile nella formazione permanente del clero. Il seminario, si sa, è un’istituzione diocesana, ma in certi casi può anche essere interdiocesana o regionale.

Dal che si capisce perché, volendo parlare del sacerdote come figura della società attuale, si debba partire dal seminarista, che è, in un certo senso, un sacerdote in fieri; anche se la sua crescita va seguita e rispettata in sé, quale che sia lo sbocco concreto della sua vocazione. Per questo ci soffermiamo a capire come funziona un seminario. E per coglierlo con esattezza, è opportuno riferirsi alle norme emanate dalla Conferenza episcopale italiana. La tentazione di parlare dei seminari per quello che ciascuno di noi conosce, o crede di conoscere, deve essere vinta infatti dalla necessità di riferimenti precisi, e in qualche modo ufficiali.

Il documento a cui bisogna oggi riferirsi si intitola: La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana: orientamenti e norme per i seminari, promulgato il 4 novembre 2006. Si tratta della terza edizione di un testo pubblicato dapprima nel 1972 e quindi nel 1980. Uno sforzo di adattamento che nel corso del Concilio Vaticano II è stato raccomandato con il documento Optatam totius (al n.1), dove si dice: «di adattare periodicamente i principi generali della formazione presbiterale alle particolari circostanze di tempo e luogo, in modo che essi risultino sempre conformi alle necessità pastorali delle regioni in cui dovrà svolgersi il ministero dei presbiteri» (Optatam totius, 1). Quanto al testo Cei, bisogna dire «che, in continuità con le due precedenti edizioni della ratio institutionis sacerdotalis, ha cercato di recepire le nuove domande poste dal mondo giovanile, di prestare attenzione al mutato contesto culturale ed ecclesiale…» (La formazione dei presbiteri… – Presentazione, 1).

Innanzitutto una precisazione di ordine lessicale: il documento parla di presbitero, noi qui usiamo prevalentemente il termine sacerdote e un po’ anche la parola prete, che è di uso la più popolare. Il presbiterato, si sa, è un grado del sacramento dell’ordine che si pone tra il diaconato e l’episcopato. Prima del Concilio Vaticano II invece si distingueva tra ordini minori (lettore, accolito, esorcista e ostiario) e ordini maggiori (suddiacono, diacono e presbitero). L’impianto è stato poi riformato e alcune funzioni degli ordini minori possono essere svolte dai laici anche senza aver ricevuto uno specifico ordine. Oggi c’è un unico ordine che ha in sé tre gradi: il diaconato, il presbiterato e l’episcopato.

Il seminario minore

«Ai ragazzi e ai giovani che mostrassero segni chiari di vocazione al presbiterato, si aprono, a seconda dell’età, due percorsi propedeutici al seminario maggiore: la comunità del seminario minore [11-19 anni] e la comunità propedeutica» (Ibidem, cap. II, 1, 34). Dove a colpirmi è l’attenzione che si pone al fatto comunitario: il seminario è ad ogni livello una comunità e ciò rileva che questa è una dimensione essenziale per la formazione sia culturale che propriamente ecclesiale. «Il seminario è, in se stesso, un’esperienza originale della vita della Chiesa… Già sotto il profilo umano, esso deve tendere a diventare una comunità compaginata da profonda amicizia e carità così da poter essere considerata una vera famiglia che vive nella gioia… Il seminario non è dunque solo un’istituzione funzionale all’acquisizione di competenze teologiche e pastorali, o un luogo di coabitazione e di studio. È anzitutto luogo di vera e propria esperienza ecclesiale, una singolare comunità di discepoli… una comunità educativa in cammino… un’autentica scuola di santità» (Ibidem, cap. III, 1, 60-63).

Verso il seminario minore ci sono stati atteggiamenti diversi: nella fase immediatamente successiva al Concilio dominava l’idea che le vocazioni "tardive" fossero quelle da guardare con particolare interesse, poiché garantivano una scelta più consapevole. In questo caso, il giovane (o anche un adulto) entrava nel seminario maggiore per la formazione sacerdotale specifica, spesso avendo ottenuto un diploma ordinario o una laurea. Nella pedagogia allora in voga, qualcuno arrivava a parlare di una impossibilità di scelta in età infantile e adolescenziale, e riteneva che il seminario minore potesse al massimo essere una scuola cattolica parificata. Oggi la tendenza è cambiata e il citato documento dei vescovi dà nuova importanza ai seminari minori. «La Chiesa mette a disposizione, anche per l’età della preadolescenza e dell’adolescenza, una specifica comunità per l’iniziale discernimento e accompagnamento delle vocazioni al presbiterato… Offre a ragazzi e adolescenti una proposta di vita al seguito di Gesù, in un contesto comunitario, tenendo conto delle esigenze tipiche dell’età… Perché il seminario possa svolgere efficacemente il suo compito ha bisogno di un’équipe educativa stabile e motivata, preparata ad affrontare i problemi dell’adolescenza…» (Ibidem, cap. II, 2, 35.37).

Ed è a questo punto che si fa riferimento alle competenze psicopedagogiche. «La formazione umana prevede un prudente ricorso al contributo delle scienze psicopedagogiche» (ibidem, Presentazione, 5). Costante è infatti la prudenza manifestata nei confronti di queste discipline, e anche della psicologia. Al cui riguardo si dirà che lo psicologo è un consulente esterno, che non fa parte del gruppo degli operatori interni: il rettore, il direttore spirituale, gli educatori (talora detti animatori). Ma la cosa più interessante è che si afferma con nettezza che il protagonista della formazione è anzitutto lo Spirito di Cristo, quindi il Vescovo e poi le équipes educanti stabili all’interno del seminario.

La comunità propedeutica

«La comunità propedeutica raccoglie i soggetti che aspirano al sacerdozio e non hanno fatto il seminario minore, o l’hanno fatto in altri contesti o in altre nazioni. Qui si fermano in genere un anno, salvo diverse disposizioni, e percorrono "uno specifico itinerario di introduzione al seminario maggiore» (Ibidem, cap. II, 3,47). La Conferenza episcopale italiana suggerisce che in questo anno il giovane viva in una sede autonoma anche se all’interno di una comunità propedeutica (potrebbe essere una parrocchia), sempre allo scopo di «verificare i segni oggettivi di un effettivo orientamento al presbiterato…» (Ibidem, cap. II, 3,48). «A tal fine è raccomandato, nel rispetto della libertà di ciascuno, il ricorso all’apporto della valutazione psicodiagnostica…» (Ibidem, cap. II, 3,50). Questa valutazione è «intesa a riconoscere nel momento presente gli elementi che manifestano la disponibilità effettiva della persona (o le eventuali resistenze conscie e inconscie) a lasciarsi plasmare dalla grazia» (Ibidem, cap. II, nota 104).

Questa formula propedeutica lascia intendere indirettamente che la via considerata oggi migliore (o potremo dire ancora oggi migliore) sia quella della continuità di formazione che si avvia nel seminario minore, il quale proprio per questo conosce oggi una nuova rivalutazione.

Il seminario maggiore

Al seminario maggiore occorre comunque essere ammessi, e tra i limiti che possono fare da ostacolo all’ingresso c’è la salute fisica e mentale. Si richiede infatti «una personalità sufficientemente sana e ben strutturata dal punto di vista relazionale: prima di ammettere un giovane in seminario, occorre accertarsi, eventualmente con l’ausilio di un’adeguata valutazione psicodiagnostica, che sia immune da patologie psichiche tali da pregiudicare un fruttuoso cammino seminaristico… [occorre che ci sia] l’orientamento alla vita celibataria: l’orientamento affettivo del dono totale di sé nel carisma verginale deve essere presente fin da quando un giovane decide di entrare in seminario… Per nessuna ragione, evidentemente, può essere presa in considerazione la domanda di coloro che manifestassero tendenze pedofiliche» (Ibidem, cap. II, nota 118).

Si tratta di un «tempo di vita comune per stare con Gesù e con i fratelli… una vita comunitaria, gerarchica… in cui i seminaristi stessi sono protagonisti insostituibili della loro formazione» (Ibidem cap. III, 1, 58; 3, 73).

Il percorso di studio del seminario maggiore è diviso in tre bienni: il primo (biennio iniziale) ha come meta l’effettiva ammissione e le conoscenze e caratteristiche necessarie. Il secondo biennio si qualifica come specifica iniziazione al sacerdozio, attraverso l’acquisizione nel terzo anno del lettorato e nel quarto dell’accolitato. Il lettore si lega a un rapporto peculiare con la parola di Dio, con la lectio divina; nel quarto si stabilisce un rapporto privilegiato con l’eucaristia. Nel terzo biennio si ha la preparazione immediata verso l’ordinazione diaconale che avviene al quinto anno e l’ordinazione sacerdotale al sesto. Mentre si acquisiscono queste specificità ecclesiali, si segue un programma articolato di studi filosofici, teologici e liturgici.

La dimensione psicologica

«Nell’ambito della formazione umana dei seminaristi, può essere utile l’intervento degli psicologi. Tale intervento non è finalizzato direttamente al discernimento della vocazione, compito che spetta agli educatori del seminario… All’inizio del cammino di formazione, gli psicologi possono coadiuvare gli educatori a individuare nei candidati eventuali problemi di psicopatologia…». Inoltre, «durante gli anni del seminario, essi possono aiutare i seminaristi a raggiungere una maggiore conoscenza di sé» (Ibidem cap. III, 3, 76).

«Nella scelta degli psicologi di riferimento... è necessario verificare che la base su cui si fonda il loro lavoro sia coerente con la dimensione trascendente della persona e con l’antropologia cristiana della vocazione» (cfr. Ibidem, cap. III, 3, 76). «È opportuno che la possibilità di un’indagine e valutazione psicodiagnostica sulla propria personalità sia offerta a tutti, nel rispetto della libertà di ciascuno, all’inizio del percorso formativo» (Ibidem cap. III, 4, 94).

Pur in una cauta apertura, più volte richiamata nel documento, si avverte una certa preoccupazione a che le scienze psicologiche possano interferire nel percorso formativo. Il protagonista principale in seminario è lo Spirito di Dio, manifestatosi in Cristo, che è il modello a cui uniformare la propria esistenza.

È questo il contesto entro cui i giovani entrano in seminario e acquisiscono la denominazione di seminaristi.

 

4. Il seminario

Si ha la percezione, non so quanto suffragata dai fatti, che sia in atto una rivalutazione circa il seminario minore. Un’opzione che si inquadra nella strutturazione dei nuovi percorsi formativi del futuro sacerdote, e che potrebbe motivarsi anche per la dispersione che caratterizza le esperienze infantili e adolescenziali odierne. In altre parole, potrebbe emergere sempre più nettamente la volontà di promuovere un’educazione più stretta, dunque più raccolta, in ordine alla formazione del sacerdote "in erba". Il seminario minore diventa in questo caso il luogo in cui si favorisce l’esplicitarsi di una chiamata, in un clima fatto anche di silenzi e di raccoglimento, invece che di quel baccano del mondo che sembra impedire la coltivazione dell’interiorità e riduce l’uomo alla sua superficie cutanea e all’apparire.

Se è vero che la scuola in generale deve prima di tutto insegnare a vivere, e dunque non limitarsi alla trasmissione di informazioni tecniche, ne deriva che una vera formazione condotta in età scolare debba occuparsi anche dei modelli esistenziali, a cui si legano processi importanti proprio per la maturazione e l’equilibrio della personalità.

Se si volesse ricercare un confronto, vengono in mente le scuole militari: ad esempio, la Nunziatella di Napoli (che ora è anche a Milano), in cui si entra in età adolescenziale, per completare gli studi liceali, e poi passare alle accademie militari, come quella di Modena per l’esercito, nelle quali si conclude la preparazione specifica, che è poi l’università per gli ufficiali.

Comunque la si voglia vedere, nelle varie tendenze e organizzazioni, l’età della adolescenza è molto importante ai fini di una formazione rigorosa. Così anche il seminario lo è, pur con i suoi adattamenti da luogo a luogo: in esso il giovane seminarista si prepara alla vita ma anche specificamente al sacerdozio, con la consapevolezza e la maturità che la scelta comporta. Già, perché questo può essere per taluni un problema.

Psicologia, elemento non decorativo

Colpisce, nel documento normativo per formazione al sacerdozio, la prudenza riservata verso gli strumenti diagnostici e terapeutici, o anche solo analitici, quali sono forniti oggi dalle psicologie, in un periodo come l’attuale nel quale si ricorre abitualmente ad esse per capire ciò che in una persona può ancora non apparire. Tanto più che detto documento, emesso nel 2006 dalla Conferenza episcopale, cita l’inconscio, e lo fa in termini certamente corretti, quale istanza che può incidere su scelte e comportamenti.

Insomma, si avverte un’attrazione che nel contempo genera allerta. E questa risente forse di un passato critico, influenzato dalla teoria freudiana e da alcune esperienze di psicoanalisi, la quale ? com’è noto ? si propone un’esplorazione della personalità profonda, senza essere centrata su un problema specifico di personalità o comportamentale. Bisogna tuttavia dire che taluni comportamenti espressi da sacerdoti sarebbero stati per tempo individuati, se ci si fosse affidati alle valutazioni psicologiche o psicoanalitiche (voce disturbi della sfera sessuale).

Una certa cautela la si può riconoscere anche nella richiesta di prestazioni psicologiche da parte di professionisti esterni, che se troppo limitate potrebbero risultare anche scarsamente utili. Più che il dato di fede o l’adesione a determinate scuole, nello psicologo cercherei un’indiscussa professionalità, fatto salvo sempre il rispetto per il seminarista, la sua scelta e il suo impegno.

La chiamata da parte di Dio

Non si deve mai giungere frettolosamente alla conclusione che l’ingresso in seminario sia già una determinazione a svolgere "quel" particolare ruolo sociale che è proprio del sacerdote. La chiamata di Dio ha bisogno di tempi lunghi per palesarsi ed essere verificata. Fondamentale tuttavia è l’atteggiamento di fede, e l’appartenenza alla fede stessa.

Ma ciò non è ancora la vocazione al sacerdozio. Per questo si rende necessaria una fase lunga di monitoraggio, che avrà cura di seguire, oltre alla disposizione individuale, anche gli effetti della chiamata sulla persona.

In questa sequenza, che dovrà rivelare una progressione nella consapevolezza circa la scelta da compiere, ci sarà vicino al seminarista un’opera educativa partecipata, l’equivalente di ciò che fa il tutor delle scuole inglesi, ma forse ancora più assidua, e che punta specificamente alla crescita vocazionale, con attenzione ai segni di cambiamento che, oltre a essere propri di ogni adolescente, si legano a quell’evento particolare che è la vocazione al sacerdozio.

Forse, per comprendere le scelte della Conferenza episcopale occorre passare dal fatto psicologico, legato alla verifica di doti e attitudini, all’"evento" dell’incontro con Dio che coinvolge tutta la persona, nella sua specificità e concretezza.

Due dimensioni di un’unica scelta

Il seminario è, quindi, il luogo in cui si valutano e si coltivano quelli che a me sembrano i due versanti della vocazione, quello – appena menzionato – della chiamata divina e quello più legato al ruolo che per il futuro sacerdote si prospetta nella società.

Queste due dinamiche sembrano evocare, nel tempo presente, competenze e profili diversi ma chiamati a collaborare in vista della costruzione della stessa personalità: da una parte il padre spirituale, oltre che gli educatori, dall’altra il psicologo professionista, nella veste del consulente ipotetico. Una considerazione a cui probabilmente si è arrivati in forza non tanto di valutazioni teoriche ma alla luce di esperienze qua e là accadute. Per le quali c’è da dire che quando un tutorato psicologico viene condotto con modalità di separatezza, può capitare che, se pur si offre al singolo l’opportunità di risolvere problemi rilevanti della personalità (disturbi) legati sia alla scelta che alla formazione, si finisce tuttavia per provocare una separazione delle problematiche, e persino una duplicità di percezione quanto all’"essere nel mondo", con la conseguenza di creare artificiosamente dei problemi.

A parte questo nodo, l’intervento psicologico – quando è richiesto – esige colloqui ripetuti per un tempo che non è possibile ipotizzare in via preventiva.

Se ne sono dedotti alla fine una serie di criteri operativi. Ne cito due: il primo è quello di operare delle verifiche molto attente, compreso lo studio di personalità, prima di inserire un giovane nel seminario maggiore; il secondo, di attivare quando serve la relazione con uno psicologo esterno, che possa intervenire su casi specifici, o su richieste precise, prevedendo persino in circostanze rare dei periodi di interruzione del percorso formativo.

Bisogna aggiungere, infine, che uno screening psicologico esteso a tutti finirebbe per essere talmente generico e superficiale da non dare né garanzia vocazionale né aiuto ai singoli seminaristi.

Sempre in riferimento alla psicologia c’è tuttavia una buona notizia. Nel senso che la materia è ora prevista tra le discipline fondamentali, dove infatti figurano le Scienze umane. «È necessario – si dice – che negli anni della formazione i seminaristi acquisiscano la capacità di conoscere in profondità l’animo umano, intuirne difficoltà e problemi, facilitare l’incontro e il dialogo, ottenere fiducia e collaborazione, esprimere giudizi sereni e oggettivi. Inoltre, essi devono poter disporre degli strumenti essenziali per una valutazione delle dinamiche e delle strutture sociali. A tal fine di non poca utilità sono le cosiddette Scienze dell’uomo, la psicologia e la sociologia» (Cei, Formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana: orientamento e norme per i seminari, cap. IV, 2, 2). E così, la psicologia tenuta a bada nella valutazione del dato umano dei chiamati, acquista un suo peso negli itinerari formativi degli stessi, in vista del ministero.

La "chiamata" annulla il resto?

E qui si pone subito una questione che, per me, ha la consistenza dei principi teorici. La certezza della vocazione, come chiamata speciale e misteriosa di Dio, rende inutili altre attenzioni? In altre parole, se uno è stato chiamato da Dio, gli serve un accompagnamento anche per quanto riguarda l’impatto con la società? È possibile che Dio chiami chi al contempo non ha le caratteristiche personali per svolgere il ruolo sacerdotale?

È del tutto probabile che la presenza strutturale degli educatori e in particolare del padre spirituale, presente di norma nell’itinerario di ogni seminarista, abbia in sé i requisiti che rendono secondario ogni altro intervento. È tuttavia innegabile che la vicenda di non pochi sacerdoti sia anche prova che questo criterio da solo può in certi casi rivelarsi fragile.

La mia convinzione risente ovviamente dell’esperienza clinica, e dunque delle scienze comportamentali; perciò sono persuaso che i risvolti umani debbano essere tenuti in considerazione. In altre parole, che la vocazione di speciale consacrazione vada iscritta nella dotazione terrena, che non è solo biologica ma anche sociale, perché – come s’è detto – ogni professione risente delle condizioni in cui si svolge, e di conseguenza fare il sacerdote oggi richiede adattamenti che non urgevano ieri.

Occasione per "volare alto"

La valutazione della chiamata speciale è necessaria sempre, e particolarmente quando si avvicina il momento della ordinazione e dunque delle scelte definitive, che poi significa anche l’adozione di uno stile particolare di vivere in società. Fino a questo momento deve essere possibile attendere e anche desistere.

Va da sé che non sia prudente spingersi verso l’ordinazione quando sussiste un dubbio vocazionale: sarebbe un errore affidarsi, almeno in questo caso, alla speranza. È troppo delicato per il singolo individuo e per la società che un sacerdote fallisca nella sua scelta: si determina per lo più un infelice, una persona che finisce per rappresentare male la Chiesa, la quale verrà a sua volta mal percepita dai fedeli.

Occorre valutare la chiamata di Dio come una gioia, ma mai la non-chiamata alla vita religiosa come un rifiuto da parte di Dio. Al massimo essa potrebbe voler dire che uno vivrà la propria vita nelle forme ordinarie, impegnandosi in una professione normale, che a sua volta arricchisce il valore della vita stessa.
Proprio per questo occorre che la vita del seminarista sia tranquilla e serena, impegnata ma non ossessiva. Egli si avvertirà un prescelto da Dio senza per questo ritenersi un toccato dall’onnipotenza. Il che gli permetterà di non sentirsi abbandonato o escluso nel caso che, verificando la vocazione, dovesse concludere che non è fatto per il sacerdozio.

 

5. Le promesse: cornice generale

Nel clima che caratterizza il nostro tempo, è difficile che si scorga nei voti sacerdotali (chiamati con linguaggio più preciso "promesse" o "impegni", per distinguerli dai voti che sono emessi negli ordini religiosi o monastici) delle scelte consapevoli e felici, giacché in una visione terrena o mondana essi appaiono piuttosto come un limite, o come un’imposizione. Al punto da sembrare assurdi, e umanamente inaccettabili.

Per capire come una simile scelta possa invece essere addirittura gioiosa, bisogna partire dall’amore, e – se non scandalizza – dall’amore anzitutto come dimensione propriamente umana. Considerato il più sublime dei sentimenti, quale condizione straordinaria e sognata, se ben valutato l’amore è la promessa di fare non solo ciò che è gradito all’amato o all’amata, ma anche quello che vuole. E in questo legame, fare ciò che piace all’altro dà gioia, non per il gesto in sé, ma proprio per l’effetto che provoca nell’amato. L’amore ribalta la "logica" di ciò che sembra avere o non avere un senso. È una condizione in cui ciò che è considerato "normale" si trasforma.

Le rinunce d’amore non di rado sono imponenti, eppure sono pesi portati con la certezza di arrecare piacere e gioia a colui senza il quale non si riuscirebbe a vivere. E non è nemmeno necessario caricare l’altruismo proprio dell’amore di significati teorici, basta analizzare la dinamica dell’unione di mente e di corpi, per convincersi che la rinuncia tende alla soddisfazione dell’altro e a far piacere.

Insomma, l’amore insegna che si può essere felici per un bene o un gesto che si riceve, ma altrettanto felici per un bene o un gesto che si compie. Oggi viviamo in una società irrigidita nelle espressioni altruistiche, e ciò a causa di una dominante cultura del nemico. Le relazioni interumane sono dapprima fredde e sulla difensiva. Ci sfugge persino la gioia e il piacere che derivano dall’essere gentili e generosi, nel fare qualcosa che l’altro apprezza, nel mostrare rispetto, e offrire solidarietà, comprensione, condivisione, cooperazione. È bellissimo fare il bene, esattamente come riceverlo. Così, la scelta del sacerdote che, vista dall’esterno pare una rinuncia, può essere vissuta addirittura come gioia. E certamente poter dire alla persona amata, faccio tutto ciò che vuoi, potrebbe sembrare culturalmente un romanticismo depassé, mentre psicologicamente rimane un’esperienza vera.

Così le promesse di ubbidienza, castità e povertà, staccate dal contesto in cui si pongono, finiscono con l’acquisire un significato totalmente differente rispetto a quando le si legge inserite in un legame d’amore. Le promesse cioè fanno parte della scelta sacerdotale, e quindi rientrano in un legame d’amore con Cristo e la sua Chiesa. Lette come rinunce, apparirebbero follie, inserite invece in un contesto d’amore acquistano un significato diverso: già nella dimensione dell’amore umano, figurarsi in un rapporto d’amore con Dio.

E chi non ha mai vissuto la relazione dell’amore teologale deve astenersi dal giudicare le dinamiche di questa dimensione, per non cadere in un intellettualismo freddo e arrogante o nell’ateismo.

Le promesse nella missione sacerdotale

Non è nemmeno corretto, parlando del sacerdote, partire dai voti, quando questi hanno senso se collocati dentro la missione propria del sacerdote, nella prospettiva di una completa dedizione agli altri, agli ultimi, agli abbandonati.

Si aggiunga poi la facoltà di rimettere i peccati. Dove lo scarto tra l’essere e il dover essere genera un senso di colpa che con l’Ego te absolvo viene superato, come la più preziosa delle terapie.

Al di là del dinamismo sacramentale, questa è un’operazione che a suo modo e al suo livello compie ad esempio anche lo psichiatra. Basti ricordare il rapporto che egli attua con un ossessivo, con un soggetto cioè che è gravato dal senso di colpa, fino a vivere ogni gesto come colpevolezza e quindi come qualcosa che egli avrebbe dovuto evitare. Sostenuto dall’autorità clinica, lo psichiatra gli garantisce che non è stato compiuto nulla di tragico: a quel punto il paziente comincerà a respirare, a vivere cioè senza la cappa di piombo che si sentiva addosso. Uscendo dalla patologia, chi non ricorda il proprio padre che, non approvando un nostro comportamento, tuttavia ci abbracciava e a suo modo "ci assolveva", raccomandandoci di non ripeterlo più? O come quando, ritenendo di aver commesso una mancanza, si ha l’annuncio che il timore era sproporzionato e si viene come liberati da una colpa che in realtà non si era commessa.

Naturalmente nella visione cristiana, e in particolare nella dinamica sacramentale, il senso di colpa si precisa e si identifica nel peccato, inteso come mancanza commessa nei riguardi della bontà e della fedeltà di Dio, e dunque nella mancanza verso i fratelli. E la Confessione è atto non comparabile ad altri. Il non credente può faticare a percepire il salto di qualità tra una relazione meramente umana e la relazione che lega personalmente a Dio, ma non gli può sfuggire che la facoltà di sciogliere dal peccato e dalla colpa, sia un compito straordinario.

Ci sono altri "poteri" che il sacerdote acquisisce con l’ordinazione: per la spiritualità cristiana egli all’altare è un altro Cristo, mentre per la teologia egli agisce in nome e per conto di Cristo. Cioè, ci sono azioni che sono proprie ed esclusive del sacerdote.

Ebbene, è nel quadro di questa identità che si possono leggere e capire le promesse di povertà, ubbidienza e castità, le quali ad di fuori di una simile cornice apparirebbero come semplici rinunce.

Le promesse nell’esperienza della sacralità

Gioverà ricordare che figure sacerdotali, pur variamente connotate, sono esistite praticamente in tutte le religioni antiche ed ancora esistono in molte culture animistiche. In simili contesti, a determinate persone vengono attribuiti dei poteri speciali, che le contraddistinguono nel comportamento dalla vita ordinaria. Il che significa che già sul piano antropologico ha un senso che, per fare certe cose, bisogna non compierne altre. E ciò corrisponde alla necessità di dare una connotazione speciale all’uomo sacro, per riconoscerlo come un rappresentante della divinità. Una simile rappresentazione carismatica l’avevano assunta, nell’antichità e in talune tradizioni, anche certi monarchi: nella cultura egiziana, ad esempio, il re era coincideva con la divinità; di qui le forme della sua rappresentazione in vita e dopo morte.

So bene che il sacerdozio cattolico è una figura non confondibile con altre. È un unicum come Cristo. Tuttavia, a me interessa qui rilevare come non sia un assurdo sul piano antropologico che vi sia una distinzione di comportamenti da commisurare in taluni casi sulle dimensioni della sacralità e sulla necessità di comunicare questa.

In ambito cattolico, le promesse che il neo-sacerdote assume al momento dell’ordinazione attengono a dei fatti comportamentali, i quali sono a loro volta sono attinenti all’identità del sacerdote, e al carattere della sua missione. Si può dire che sono questi comportamenti la vera tonaca, in senso metaforico, del sacerdote, il segno della sua distinzione tra il popolo.

Il voto nel comportamento laico

Il voto (da votum = promessa) è un impegno solenne fatto a Dio. Il sacerdote esprime in tal modo l’impegno a rimanere povero, ubbidiente e casto. Ma è utile ricordare l’etimologia poiché, in se stesse, le promesse non risultano come atti esclusivamente riservati al sacerdote. Quelle del sacerdote però sono promesse, oltre che pubblicamente assunte, espresse anche all’interno della celebrazione di un sacramento.

In questo contesto sarà utile ricordare pure come la parola giuramento (juramentum) contenga la radice jus-juris, che sta per diritto. Giurare è una promessa che si basa sul diritto, e che segue una formula rituale. Ma non è altro che una promessa. I soldati promettono fedeltà alla costituzione o alla patria. Già lo facevano i mercenari che giuravano davanti al comandante. In tribunale, si giura di dire la verità, di mantenere il segreto e lo si fa ritualmente, un tempo alzando la mano e recitando una formula precisa. Dunque, il giuramento richiede una forma data e non può essere mutata. I ministri giurano davanti al capo dello stato.

Non è un caso che nella storia juramentum si trovi spesso associato a sacramentum. Una formula presente nei testi antichi è Deos jurare, nel senso di chiamare a testimoni gli dei.

Anche il matrimonio avviene attraverso lo scambio di promesse, dove è esplicitato il desiderio ("vuoi tu …") del legame e la promessa di mantenerlo. Varie sono le promesse che si esprimono nel corso della propria vita, nei diversi dominii; e promesse si fanno anche a se stessi, quando ci si impegna a realizzare qualcosa, quando si fa un progetto e si stabiliscono i termini della sua realizzazione. Insomma, tutta la vita in un certo senso è una promessa. Un altro termine che esprime qualcosa di analogo è: contratto (contractus, participio passato di contrahere), e lo si usa nel senso di contrarre un patto che ha in sé la promessa di mantenere ciò che è stato stabilito. Anche il matrimonio nella sua dimensione laica è un contratto (mentre nella dinamica religiosa è un sacramento), che ha la valenza di un legame basato sulla promessa di reciproca fedeltà, e un tempo anche di automatica comunanza dei beni (che ora è solo una opzione).

Insomma, traspare abbastanza nettamente che l’esistenza umana è contrassegnata da promesse, giuramenti e contratti, che hanno una propria liturgia; formule dell’esperienza terrena, che in questo si differenziano dal voto che ha una sua intrinseca connotazione religiosa. Dal punto di vista psicologico, i voti si pongono nella dinamica tra l’Io attuale e l’Io ideale che tende a migliorare il singolo, e lo induce a perseguire i propri obiettivi attraverso l’impegno. Il sacerdote deve raggiungere un suo Io ideale cristianamente connotato, sull’immagine di Cristo sacerdote: per questo formula tre grandi promesse e si impegna a realizzarle. Certo, anche il sacerdote può sbagliare, e talora non riesce a mantenere le promesse solenni che ha fatto di fronte a Dio e alla comunità. Io però rimango puntualmente esterrefatto quando, in un mondo in cui non ci sono più regole e nessuno sembra più avvertire il senso di colpa, si riservano invece giudizi tremendi per le mancanze di un sacerdote.

Personalmente ritengo, ma il mio osservatorio è limitato, che il sacerdote sia profondamente umano anche quando formula il suo impegno a essere povero, ubbidiente e casto.

 

6. Le tre promesse

La povertà

Concettualmente la povertà ha almeno due volti, storicamente bene evidenziati in quell’episodio della vita di frate Francesco che lo raffigura mentre egli va dal vescovo di Assisi per manifestargli il desiderio di fondare un ordine religioso che si caratterizzi proprio per la povertà. Il prelato gli fa presente che la Chiesa è già povera, e dunque che non ce n’era affatto bisogno. A quel punto Francesco si denuda per mostrare ciò che intende: la rinuncia a tutto, a non possedere nulla, nemmeno l’essenziale. Il vescovo ha dalla sua delle ragioni: la povertà è il distacco dai beni. Si può vivere addirittura in un palazzo, vestito come un principe, ed essere povero. È la povertà come distacco che permette di servirsi dei beni senza esserne condizionati. Poi c’è la povertà intesa più radicalmente, come mancanza effettiva di ogni bene di questa terra.

Eravamo nel XIII secolo ma la differenza di prospettive era già chiara. Entrambe nobili, queste concezioni della povertà, ma da una parte c’è l’impegno alla povertà più rigorosa, che è la scelta del monaco o del religioso, che nulla tiene per sé e in tutto dipende dagli altri; dall’altra c’è la scelta dei sacerdoti diocesani che stanno nel mondo, vivono nella casa in cui il vescovo li manda per servizio, hanno un corrispettivo al mese con il quale fanno fronte alle loro necessità, in una misura comunque modesta, così da stare al livello del popolo.

La prima povertà è netta, totale; la seconda è relativa ed è intesa come distacco dai beni. Una gradazione che rispecchia una differente chiamata e una differente missione dentro la comunità.

Nella società di oggi si discute ancora molto su cosa sia la povertà, si prospettano addirittura degli indici che dovrebbero misurare la distanza della povertà dal benessere sia per il singolo, che per la famiglia, che per l’intera comunità. Con il calcolo della redditività pro-capite si giunge a definire il grado di povertà di una nazione o di un continente. E si parla pure di nuove povertà, estendendole anche oltre gli oggetti di cui il mondo è pieno, cioè di povertà culturale o anche spirituale. E allora il ricco può essere povero e il povero invece eccellere.

Credo sarebbe ancora utile che a dirimere la questione ci fosse un frate, un frate Francesco che si spogli di tutto e mostri quale debba essere lo status che legittima a essere ultimi per entrare in contatto con tutti, senza escludere alcuno. Essere ultimo.

A me pare un po’ ridicolo voler rappresentare la povertà attraverso dei numeri, perché so che l’essere ultimi non prevede alcuna quantizzazione. In questa società, che si definisce del benessere o addirittura dello spreco, esiste la povertà ed esistono gli ultimi, gli esclusi. Che ci sia qualcuno che volentieri e per missione scende a questi livelli è importante e può rendere talora la distinzione tra la povertà totale e quella intesa come distacco così sottile da farla quasi scomparire. Mentre in altre situazioni resta segnata invece, e da mura anche alte.

Ritengo che la promessa che il sacerdote fa di essere povero gli permetta di stare vicino agli ultimi della sua comunità. Ed è una scelta di campo precisa, la povertà come effige del dolore. In lui non basta un’intenzione di distacco, come quella che potrebbe esprimere anche un Bill Gates, l’uomo più ricco del mondo. Nella scelta del sacerdote c’è un dato effettuale, concreto. Nella sua scelta circa la povertà a me pare che il sacerdote esprima la promessa di appartenere solo a Dio e di affidarsi alla provvidenza, che è la speranza che il Signore provveda a ciò di cui abbisogna.

Non vi è dubbio che il legame con Dio su questa terra è mediato dalla Chiesa e non si può non rilevare che proprio in questa identificazione, letta sul paradigma della povertà, possano emergere delle contraddizioni e persino dei paradossi e una facile critica sociale; ma io guardo proprio all’interno dell’ecclesia, dove mi pare di vedere una povertà vissuta come espressione di appartenenza agli ultimi. A questa dimensione va la mia simpatia. Perché è difficile insegnare ad aiutare i poveri se si è immersi nel lusso, e nell’inutile che però è necessario a un fratello.

Tuttavia bisogna avere il coraggio di dire che la povertà non è e non può essere indigenza, se non altro perché toglierebbe i sacerdoti dall’esercizio attivo della missione cui sono chiamati.

L’ubbidienza

L’ubbidienza non è una espressione in sé chiara se non la si coniuga con un’autorità. E dunque diventa ubbidienza a qualcuno. Acquista significato in funzione di colui a cui si dà ubbidienza o, come accade nel rito, a colui cui la si promette.

Nel nostro tempo l’ubbidienza è svalutata, e semmai si apprezza la trasgressione, la disobbedienza, persino l’opposizione. Occorre aggiungere però che sono rare nell’ambito della vita sociale figure autorevoli, degne e meritevoli di obbedienza. Nell’ambito della famiglia ci sono a volte padri indegni; nella scuola insegnanti che mercanteggiano un sapere superficiale e una credibilità tenuta con la forza e il ricatto, oppure con la rinuncia sulla base del laissez faire.

Nel campo politico domina la stupidità e la mobilità, per cui il cambiamento di opinione è regola e la coerenza considerata una debolezza. Il sapere pubblico è in mano spesso a intellettuali, sacerdoti del narcisismo, cantori  del potente di turno, che butta loro briciole sostanziose. Se si individuano delle autorità con carisma e fascino, uomini e donne credibili e modesti, allora ubbidire è un piacere straordinario, e allora si avverte quel bisogno di autorità che porta a legarsi e a seguirla liberamente.

Ci si meraviglia della promessa di ubbidienza di un sacerdote e si tende a considerarla una rinuncia alla propria libertà, vista come rinuncia a una delle prerogative più straordinarie dell’umanesimo. E si dimentica che un calciatore ubbidisce totalmente all’allenatore, dal quale dipende se gioca oppure no, se sta in campo due minuti o un’intera partita. Non ci si meraviglia del fatto che i giovani che si ritrovano in un gruppo, subito creano un leader di riferimento a cui ubbidiscono, che ci sono camarille che hanno un capo con poteri di vita e di morte (è il caso delle organizzazioni criminali), che ci sono nel mondo mezzo milione di sette gestite da un capo con cui non si discute e a cui si può solo obbedire. Voglio dire che proprio oggi che ci riteniamo allergici all’ubbidienza, ci sono tante diverse ubbidienze.

La vera ubbidienza andrebbe insegnata e difesa invece che ridicolizzata, anche se bisogna che la società acquisti dignità, e dunque sappia proporre persone autorevoli e credibili. Ciò che manca infatti è l’autorità in famiglia come nella scuola, ma anche nel potere pubblico. Dove si può creare un clima di terrore e di paura, attivato dagli autoritarismi che sono la patologia dell’autorità.

Insomma tra ubbidire al capo di un governo attuale o passato, oppure al Padre eterno c’è una differenza abissale anche agli occhi di chi il Padre eterno non lo ha ancora incontrato. Poi, certo, talora può aprirsi anche un conflitto tra l’ubbidienza e la coscienza. Ma qui si sbaglierebbe a ritenerle due poli oppositivi. La coscienza viene prima dell’autorità; e l’ubbidienza non c’è senza coscienza.

La castità

In certa cultura superficiale e volgare, la castità è stata ridotta all’astinenza dal rapporto sessuale, nelle sue espressioni più diverse, legate a una fantasia infinita che include talora ogni tipo di perversione. A provarlo basta il numero incredibile di siti internet dedicati al tema, che assommano alla dimensione di alcuni milioni.

La castità ha invece un significato profondo, sta per purezza e rimanda al corpo. Se la sessualità nella sua visione riduzionistica è un’attività di organi, intesa invece in senso più ampio è un’espressione del corpo, che a propria volta è parte della persona.

La sessualità riguarda non gli organi genitali, ma la persona, che è un insieme di corpo e di mente, e per il credente anche di anima; e dunque è un’espressione complessa.

La promessa di castità non si lega, a parer mio, solo all’uso degli organi sessuali, che anzi renderebbe il voto ridicolo, ma è la promessa di mantenersi casti e puri, e quindi di usare il corpo come espressione di quell’unità che punta fin d’ora al cielo, dove il corpo non ha accesso.

Nell’impegno di castità è implicita – ovvio – la rinuncia ai vizi. Anche al non abusare di cibo o di alcol o di droghe. La gola, direbbe Freud, è una forma di sessualità, anche se precoce rispetto alla maturazione fisica, e propria della fanciullezza. Alla castità si lega persino la bellezza che è un valore indubbiamente alto, straordinario, anche se non coincide con i canoni del successo televisivo o dei modelli da velina o del body building. La castità è purezza e bellezza insieme. E nella donna è tutto ciò che produce femminilità, che è l’opposto dell’esposizione del corpo come accade in molte vie notturne delle nostre città. La castità è anche educazione, modo di porsi, rispetto nei gesti, vittoria sulla volgarità, che va a sua volta intesa come antinomica alla castità.

Nel Dizionario etimologico del Battisti si trova che castità deriva da castus, che vuol dire conforme alle regole o ai riti, puro, pudico, corretto. Deriva dal sanscrito cistah che significa istruito, ben educato. È termine della lingua religiosa, e perciò preso dal latino cristiano che lo trasmise in forma semidotta anche al romanzo occidentale, e da cui sono derivate parole come "casta", che vuol dire razza pura, e deriva anche "incesto" (in castus) nel significato di impuro: una relazione tra parenti stretti, considerata proibita.

Questa dimensione della persona e della dignità umana è stata ormai ridotta al comportamento erotico e la promessa della castità è letta esclusivamente come astensione dagli atti sessuali. Ben diversa è la promessa del sacerdotale, che nella dimensione ampia risulta una condizione del livello di dignità umana che si confà alla missione dell’inviato di Dio. In questa luce è difficile vedere la castità come una rinuncia, semmai come il raggiungimento di una dignità che finisce per mettere in secondo piano anche il gesto erotico. Non diversamente dal buddismo, per esempio, che raccomanda il controllo del dolore e del piacere.

In senso generale, ritornando all’insieme delle tre promesse sacerdotali, occorre ricordare che nel caso non fossero perseguibili o si rivelassero impegni ossessivi e dunque difficili da seguire, rimane pur sempre la possibilità di seguire Dio nella condizione del mondo. Del resto il sacerdozio è una chiamata nella fede, che si concreta nel lasciare tutto e seguire Cristo.

 

7. Sacerdote di Cristo

Ogni uomo nel corso della sua esistenza subisce, credo, il fascino di un maestro, che per lui diventa un modello di riferimento.

Non è possibile un processo educativo, se non incorporando dei modelli. Non bastano i princìpi: questi infatti non sono ancora un "intervento educativo", se con tale espressione intendiamo la possibilità di promuovere un comportamento nuovo o di modificarne uno abituale. E non c’è dubbio che la crisi dell’educazione attuale si leghi proprio a un chiacchiericcio su regole e criteri cui partecipa anche da chi si configura come un cattivo esempio, e non ha dunque le caratteristiche di un modello da seguire.

Nella mia vita ho avuto la fortuna di incontrare e seguire dei modelli. L’affermazione prevede l’uso del plurale, e dunque di una successione di modelli, giacché non è possibile avere più maestri contemporaneamente. O sono identici, e allora si tratta di un eccesso inutile, oppure sono molto differenti, e allora ci si divide tra esempi divaricanti. Il che non facilita l’identificazione, la quale implica sempre l’introiezione del modello, e che il suo comportamento diventi legge interiore.

Il mio modello di coerenza e di moralità, oltre che di grande serietà intellettiva, è stato mio padre, a cui poi si è aggiunto un modello per il sapere storico e filosofico, il mio professore di filosofia del liceo, che ho tanto amato e con cui ho continuato a mantenere un intenso rapporto allievo-maestro fino al termine della sua esistenza. All’università poi ho incontrato un maestro di umanesimo medico, che era incarnato dal mio professore di patologia generale.

Non c’è dubbio che la morte di mio padre, troppo precoce, e avvenuta quando avevo ancora un bisogno estremo di lui, ha fatto riversare sui maestri incontrati nella vita extrafamiliare un’esigenza compensatoria. Tant’è che a quel punto è incominciata una vera "religione" del padre, con un rapporto che è continuato e continua ancora oggi, poiché egli è dentro di me.

Tutto ciò per dire che il modello di riferimento è un’esigenza dell’educazione, e più ampiamente dell’esistenza stessa. Il bisogno di imparare e di migliorare sempre. E chi non avverte questa necessità è da considerare indubbiamente un caso patologico, in direzione narcisistica oppure maniacale, per la mania cioè di sentirsi un "padre eterno", un riferimento non tanto per sé ma per il mondo. E la terra è piena di maniacali che non scorgono nemmeno la propria nullità, anzi la propria stupidità mista a smisurato orgoglio.

Credo che anche solo dal punto di vista umano ci sia l’esigenza di un riferimento continuo, sicuro. Di uno specchio entro cui vedersi e correggere le proprie azioni, e persino i propri pensieri che finiscono per esserne il motore.

Tutto questo per dare sostegno all’affermazione che ogni uomo ha bisogno di un Dio, magari anche solo di un "dio minore" se si lega unicamente a questa terra.

Un maestro del cielo

Insomma, non mi sorprende la figura di chi, come il sacerdote, sceglie nella propria vita di avere come modello Cristo. E non faccio fatica a capirlo, analizzando la figura di Gesù di Nazareth, sia pure dal solo punto di vista umano. Cristo come figlio Dio appartiene alla Chiesa, ma come uomo interpella tutti, anche i non credenti. E non vi è dubbio che, pur limitandosi alla solo dimensione mondana, Cristo risulta essere un grandissimo uomo, che si pone a livello di pochissimi altri, per capirsi di Socrate o di Tommaso Moro.

Un modello lo si deve vedere, lo si deve poter seguire, più o meno come devono aver fatto i primi amici di Cristo, i suoi apostoli, che si chiamavano Pietro, Andrea, Tommaso… Cosa voglio dire? Che la scelta del sacerdote di seguire compiutamente il modello Cristo ha un fondamento del tutto naturale o comune a tutti.

Viene alla mente L’Imitazione di Cristo attribuita a Tommaso da Kempis (1379-1471), che non ha come riferimento un intenso misticismo, ma una quotidianità concreta, che viene scandita dall’esempio di Cristo e da quello che è stato il suo comportamento: l’umiltà, la carità, il raccoglimento, l’abbandono, la gioia (chi ama, vola, corre, esulta).

Come si sperimenta la relazione con un modello umano (sia pure transitorio o parziale), così il credente e soprattutto il sacerdote interiorizzano Cristo, che non è soltanto un uomo ma Dio. Un Dio che si è incarnato e in Cristo si fa dunque modello visibile. Ebbene, devo ammettere che questa chiave di lettura ha per me una forza straordinaria, perché sostiene quel fondamento psicologico che prevede il bisogno del modello: prima per crescere e poi per vivere.

Tuttavia, in un simile scenario, il rapporto potrebbe essere anche solo individuale. Non diversamente cioè da quanto è capitato a me di esperire con i miei maestri, che invece altri miei compagni di liceo e di università evitavano, considerandoli modesti, e persino pieni di difetti.

Saremmo in questo caso dentro ad una logica soggettiva, quasi che il rapporto tra un credente, e in particolare un sacerdote, con il proprio modello, Cristo-Dio, fosse di tipo individualistico. Ma è evidente che non può essere questa la figura del sacerdote: la sua vocazione nasce in una comunità, e la sua missione consiste nell’annunciare e testimoniare Cristo a tutti. In altre parole, la dimensione personale è necessaria, intimamente fondante, ma deve diventare una testimonianza aperta a tutti e dunque comunitaria. E chi è a sua volta l’apostolo rispetto agli altri? È colui che, annunciando Cristo, ne propone l’esempio. E poiché oggi Cristo non è incontrabile come succedeva duemila anni fa sulle strade della Giudea o della Samaria, ecco che il sacerdote diventa a sua volta modello per gli altri. Un modello che rinvia ad un Altro più grande modello, ma pur sempre anche lui modello.

Dire allora "sacerdote di Cristo" significa dire, anche per un laico come me, che questo sacerdote segue in tutto Cristo e diviene a sua volta, nel mondo, un altro Cristo.

Un processo fortemente umano

E’ un passaggio, vorrei insistere, coerente con la logica della psiche. Ogni uomo ha bisogno di maestri, di modelli per crescere e vivere; il sacerdote è colui che ha scoperto Cristo quale modello di vita, ed è stato da lui chiamato a farsi apostolo, ad essere come lui si è mostrato.

So bene che qui l’asse portante è quello sacramentale. Tuttavia anche a livello della mia professione sono indotto a riconoscere che il sacerdote rende presente sulla terra Chi ormai è nel cielo. Imitatore di Cristo, il sacerdote lo rappresenta in questa terra in maniera visibile, sensibile. E se oggi non si può mettere, come Tommaso, le dita nelle ferite del suo costato, si può però incontrare Cristo attraverso i suoi sacerdoti.

Come questo sia possibile, come cioè possa avvenire questa identificazione, rientra in una dinamica sacramentale sulla quale ho poco da dire. Salvo che c’è qui un salto rispetto ad una logica meramente terrena; uno iato che si chiama mistero, per il quale tuttavia la mente è preparata, perché ne possiede la categoria mentale (si ricorderà a questo proposito la prima tappa del nostro viaggio, quella relativa al sacro).

Rispetto al credente, il sacerdote di Cristo è colui che è stato raggiunto da una chiamata: "lascia tutto e seguimi", gli ha detto Gesù Tu es sacerdos in aeternum: sarai la mia effige, rivelerai i miei princìpi che vivono in te, i quali si storicizzano attraverso di te, e diventerai così esempio e modello. Ti ho chiamato per questo.

Il fascino del ruolo sacerdotale

Confesso ancora una volta di essere affascinato da queste prospettive, pur se avverto il balzo che la mente e la logica non aiutano a sanare, ma forse questo è esattamente il limite proprio del non credente.

Devo dire che amo molto il teatro. Dove l’attore è colui che assume su di sé una figura che non è lui stesso. Così può persino capitargli di rappresentare la figura del Cristo; e sono molte le rappresentazioni realizzate, alcune anche di una forza incredibile, capaci di porre lo spettatore come se si trovasse di fronte al Cristo della storia. Non diversamente da quando l’attore copre il ruolo dell’Enrico IV nell’Amleto o nell’Edipo re.

Nulla tuttavia di questo avviene per il sacerdote: egli diventa Cristo, e nel mondo ne compie le funzioni, con la certezza di essere stato a ciò chiamato (la vocazione), e di aver ricevuto per questo la forza necessaria (la grazia dell’ordinazione). Insegna la teologia cattolica che quando il sacerdote compie determinate azioni liturgiche è come se fosse Cristo a farle, in un legame talmente stretto che si giunge a dire (e mi pare affermazione da far tremare) che Cristo è lì anche se il sacerdote sbaglia.

Non c’è dubbio alcuno: il sacerdote è una figura straordinaria pur se carica di mistero, ed è ragionevole pensare che vi sia un livello di comprensione tale della missione sacerdotale che non solo entusiasma ma si fa urgenza, urgenza irrinunciabile.

La dimensione sacerdotale trascende il singolo

Ma è proprio a questo punto che bisogna riprendere il filo di un discorso appena accennato. Giacché tutto questo si situa nel rapporto tra il singolo sacerdote e Cristo, e poiché il sacerdote è sempre un uomo speciale, irripetibile, il sacerdozio è dunque una condizione che si colloca e si consuma all’interno di un rapporto individuale con Dio? Se fosse così infatti, si dovrebbero ammettere tante variazioni del modello di Cristo quanti sono almeno i sacerdoti.

Ma così non è, perché il sacerdote è al contempo espressione della sua comunità, e dunque è servitore della Chiesa, la quale emana regole di uniformità e di coerenza tali da legare il sacerdote con la forza dell’obbedienza .

Chi non vede che può sempre insinuarsi qui un potenziale conflitto tra quanto sembra talora suggerire il maestro interiore e quanto invece richiede la Chiesa, che in taluni frangenti potrebbe essere addirittura qualcosa di antitetico? Sono i casi in cui può capitare di sperimentare le difficoltà più acute in ordine alla promessa dell’obbedienza. È avvenuto così in passato ad esempio con la dolorosa vicenda delle eresie ed è qualcosa che può accadere anche oggi. E come si risolve? C’è chi ipotizza, in casi estremi, una sorta di obiezione di coscienza. Ma questo ha senso per un sacerdote?

 

8. Servitore della Chiesa

Il sacerdote, che ha un rapporto personale e in qualche modo speciale con Cristo, esercita la sua missione nella chiesa. Solo astrattamente è possibile che un sacerdote operi sulla base di una sua semplice percezione di Dio. Di fatto egli agisce dentro una comunità istituzionalizzata da Cristo stesso, la chiesa. Il che gli dà garanzia e sicurezza, ma può talora generargli anche qualche difficoltà.

L’italiano chiesa viene dal latino ecclesia. E questa ha radice nel greco ekklesìa, che vuol dire convocazione, e quindi assemblea. Il greco ekkaleo significa infatti "io convoco". La chiesa dunque etimologicamente è la convocazione o assemblea dei cristiani. Essa presuppone una sua struttura diciamo organizzativa, che gli è funzionale, e presuppone delle guide gerarchiche. In questo ambito, il sacerdote, che ha per forza a che fare con l'ecclesìa, è anche un ecclesiastico. Egli in pratica appartiene all’ecclesia, ed essa è il suo orizzonte.

Ogni chiesa locale è organizzata attorno al vescovo, che ne è il capo, e al quale i sacerdoti devono fare riferimento e obbedire. Non sarà blasfemo dire che il muoversi di ogni chiesa potrebbe richiamare, agli occhi di chi la guarda alla superficie, il sistema di gestione di un’impresa di grandi dimensioni, nella quale non ci può non essere un’unità insieme alle diversificazioni, per poter agire con coerenza e flessibilità, nei luoghi diversi, con popolazioni e in culture differenti.

Le lettere apostoliche, a noi arrivate con il nuovo Testamento, si rivolgono emblematicamente a singole comunità, ciascuna delle quali ha le sue caratteristiche e quindi abbisogna di insegnamenti particolari oltre che precisi, e di spinte adeguate alla situazione.

Una conflittualità possibile. Sul piano psicologico si parla di splitting quando un soggetto si trova a vivere un dualismo, una divisione, una scissione. Nel caso del sacerdote un dualismo potrebbe sperimentarsi se c’è una divaricazione tra il rapporto individuale con Cristo e il trovarsi all’interno di una struttura gerarchica, dove ci sono dei superiori che determinano priorità e strategie e persino un certo stile di azione.

Va da sé che ogni buona organizzazione deve lasciare spazio alle individualità: così ad esempio avviene nel mondo delle imprese, le quali hanno come finalità il reddito e dunque la produzione di benessere terreno. Si sostiene che un buon management dà spazio ai collaboratori, coordinando le singole operatività in un insieme che attua la strategia aziendale. Non è un caso che oggi i sacerdoti siano in genere ascoltati dai rispettivi superiori, prima che vengano loro assegnati compiti che li riguarderanno personalmente. La motivazione non è solo di convenienza, trattandosi ormai di ambiti nei quali le vocazioni sono numericamente diminuite. Gli è piuttosto che la migliore valorizzazione delle risorse, quali che siano, suggerisce un opportuno coinvolgimento tra i livelli gerarchici e i diversi ruoli.

Il che tuttavia non impedisce che, in alcuni casi, sorgano dei conflitti.

Il conflitto è una contraddizione che il singolo vive, e che si traduce nel dover fare ciò che non ritiene giusto, o quanto meno ciò che non gli risulta essere la risposta migliore al problema che vorrebbe risolvere. Il conflitto può essere di contenuti o di strategia, ma può avere radici anche nei sentimenti. Nei legami positivi o di opposizione tra chi dà le disposizioni e chi deve eseguirle.

Questa ipotetica situazione all’interno della Chiesa non deve allarmare: si è verificata anche in passato, nelle varie epoche, e riflette ciò che succede in ogni organizzazione sociale. Si tratta di conflitti che possono generare angosce, frustrazioni, sofferenze. Il che può accadere anche nella comunità ecclesiale, dove un pastore, non riconoscendo le propensioni di un proprio collaboratore, lo utilizza in maniera inappropriata, confidando magari sulla forza dell’obbedienza che in certi casi però attiva frustrazioni. E la frustrazione è un sentimento di malessere che si prova in un dato ambiente e nella relazione con qualcuno, e che se persiste a lungo causa ansia, somatizzazioni e può talora trasformarsi addirittura in malattia.

Capita, in simili circostanze, che un sacerdote si senta infelice, anche perché l’obbedienza è una promessa impegnativa, assunta davanti a Dio e all’intera comunità. Disobbedire ad un superiore significa allora andare contro Cristo, in nome del quale il vescovo agisce. Quando scoppia un conflitto esterno tra sacerdote e superiore, non sarà difficile intravvedere talora dei problemi di natura personale, anche profondi, che scindono l’operare in due parti di sé in contrasto. E allora la dissonanza non sarà altro che la rappresentazione esteriore di un problema irrisolto sul piano della propria personalità.

Il rimando alla condizione dei ruoli ordinari (imprese e uomini non consacrati) stride ovviamente, ma serve a capire meglio, per chi non è sacerdote e magari non è neppure credente, quali siano le caratteristiche del conflitto. Non si può, d’altra parte, in linea di principio nemmeno negare che possano esistere all’interno della Chiesa delle contraddizioni, delle posizioni differenti e che in particolare si possano individuare nel presbiterio dei comportamenti inaccettabili.

Tre riferimenti principali. Dal mio punto di vista, scorgo una figura di sacerdote che nelle le sue scelte tre riferimenti principali: il Cristo personalmente esperito e con cui egli intesse un rapporto diretto che è la condizione per essere anzitutto un credente; il vescovo che è pastore della sua Chiesa e che provvede al bene delle parrocchie di quel territorio, e la propria coscienza, quale bussola che orienta l’interiorità e attiva sensazioni non solo di disagio, ma talora addirittura di colpa: si tratta del proprio mondo ideale e della rappresentazione di come uno vorrebbe essere. Ebbene, questi tre poli referenziali possono essere perfettamente unificati, ed è ciò che capita alla più parte – immagino – dei sacerdoti. Ma può succedere anche che siano invece scissi e che il singolo si senta interpellato ora dal suo rapporto con Cristo, ora da quello con il vescovo, ora dagli imperativi della propria coscienza che magari, detto alla maniera di Kant, si riducono alla "legge morale dentro di me". In altre parole, il conflitto può attivarsi a seguito di una richiesta del superiore, che può non essere vissuta in sintonia con quanto egli avverte come un bene per sé. Un intreccio complesso sul piano psicologico, una condizione di grave disagio e di sicura angoscia e di infelicità. Insomma, l’opposto dei miei sogni, quelli di vedere preti sereno se non addirittura felici.

La chiesa come terapia. Mi accorgo di evidenziare in questa mia rassegna soprattutto le difficoltà e di privilegiare ciò che le può ingenerare: penso che questo sia in qualche modo fatale, essendo il mio un punto di vista medico. Non mi sfugge tuttavia la grande risorsa che la chiesa-comunità rappresenta. Come mi rendo conto del valore di supporto che viene dal legame con gli altri come dal privilegio di avere un vescovo che ascolta, che si mostra attento alle esigenze di ognuno, sia pure in una visione generale dei bisogni dell’ecclesia. L’organizzazione cioè ha anche la funzione di rassicurare e di offrire condizioni migliori per affrontare e svolgere la missione del sacerdote. Non mi sfugge nemmeno la grandezza di quel concetto di corpo mistico che fa dei credenti in Cristo, quelli in terra e quelli in cielo, un "insieme inseparabile" a cui sono legate le promesse del Signore. «Ora, voi siete il corpo di Cristo e sue membra, ognuno secondo la propria parte. E Dio ne ha stabilite diverse nella chiesa…» (1Cor 12,27). «Cristo è capo della chiesa, del cui corpo egli è il Salvatore» (Ef 5,23). In altra parte del Nuovo Testamento, la chiesa è descritta come sposa di Cristo: «E voi mariti, amate le vostre mogli, come Cristo amò la chiesa ed ha sacrificato se stesso per lei, per santificarla… perché questa chiesa potesse comparirgli davanti gloriosa senza macchia, né ruga, né altro di simile, ma santa e irreprensibile» (Ef 5,25-26).

C’è la certezza di fede che è Cristo a custodire e a proteggere la chiesa. «Perché il tempio del Dio vivente siamo noi stessi, come disse Dio: "Abiterò con loro e fra di loro camminerò; io sarò il loro Dio e essi saranno il mio popolo"»(2Cor 6,16). Del resto è Cristo che conquista la chiesa con il proprio sangue: «Vegliate quindi su voi stessi e su tutto il gregge, sul quale lo Spirito Santo vi ha costituiti Vescovi per pascere la chiesa del Signore che egli si è acquistata col suo proprio sangue»(At 20,28).

È non mi dispiace affatto – anzi – il termine di servitore della chiesa, poiché c’è una dimensione del servire che collima con il piacere e con la consapevolezza che il proprio contributo andrà a fondersi con il contributo di tutti gli altri. In quel «Chi è più grande tra voi sia come colui che serve» sta la segreta grandezza di porsi a disposizione di chi è nel bisogno.

Ovvio che non possiamo però dimenticare nemmeno il delirio che la nostra società registra sul termine "libertà", proprio mentre si dilata l’incapacità a vivere anche solo per poco tempo nel silenzio e dentro se stessi. Una libertà che ha bisogno dell’altro, e che necessita di regole, dove le regole sono il fondamento del legame e dei sentimenti. E persino l’obbedienza è una premessa alla libertà .

In questa atmosfera, la comunità che è la chiesa si presenta come un’insieme capace persino di sedare i conflitti.

Ma non si può dimenticare che talora questi conflitti possono realmente venire promossi. Essi però, pur concorrendo alla missione speciale del sacerdote, non devono interferire con la serenità e la gioia di vivere quel ruolo.

Una serenità che si presenta come la base umana per aiutare i fedeli a vincere il male nella lotta per la vita e la salvezza.

I conflitti non sono evitabili in maniera totale, ma allora ad essi bisogna che i sacerdoti vengano preparati così da saperli elaborare, limitandone gli effetti.

 

9. L'identità, una e trina

L’identità personale: l’Io

Ciascun uomo, nella sua unità, è formato da tre identità che si acquisiscono progressivamente. La prima è l’identità individuale, data dal percepirsi come un Io ben distinto, separato da ogni altro, capace di autonomia. Dalla psicologia della crescita sappiamo che l’individualità è il risultato non di un processo biologico automatico, ma di esperienze relazionali che si svolgono fin dall’età infantile. Essa si costituisce proprio perché si è legati ad altre persone, di solito i familiari, dai quali riusciamo ad un certo punto a distinguerci. Da un processo simbiotico con la madre, il bambino riesce a separarsi, a riconoscerla come altro da sé, e in questo processo si staglia quel sé che è una individualità differenziata. Insomma, l’individualità personale è il risultato del percepire l’altro come distinto. In altre parole, l’altro mi aiuta a individuarmi.

Questa identità è fondamentale, e sta alla base delle altre: sempre occorre che uno si chieda se, nel corso della sua vita, l’ha realizzata. Se ciò non fosse accaduto, ne deriva l’impossibilità di vivere autonomamente, ossia il non saper fare nulla se non dentro una relazione, giacché l’identità – in questo caso – non è legata al proprio esserci, ma al legame con l’altro. Questa situazione è definita propriamente come dipendenza, e coincide con il non saper fare nulla senza l’altro, il non sapersi definire se non in rapporto all’altro.

Una dipendenza da troncare

Ci può essere una dipendenza materna (il mammismo) che si esprime nel bisogno del riferimento alla madre come condizione per fare qualunque cosa. E paradossalmente, la dipendenza può essere diretta, per cui uno fa ciò che gli viene detto di fare e senza quella indicazione non agisce; ma può anche essere una dipendenza oppositiva: è il caso in cui si sente la necessità di riferirsi all’altro ma per fare esattamente l’opposto di quello che gli viene chiesto di fare. Un rapporto di opposizione, obbligato fino al punto da verificare che un certo comportamento non lo si sarebbe mai assunto se la madre, ad esempio, non avesse indicato l’opposto. «Mi ha chiesto di non farmi tatuaggi, ma io, anche se non mi piace, mi sono inciso sul braccio un drago fiammeggiante». Avere la percezione della propria identità personale è fondamentale, poiché ci si potrebbe trovare a fare scelte che sono condizionate da un forte bisogno di dipendenza. Così si può arrivare a scegliere il legame con una donna, o la donna con un uomo, in base al bisogno di stabilire una dipendenza. Allo stesso tempo, si potrebbe scegliere uno status o una professione solo perché questa ha come sua propria fisionomia quella di dipendere e ubbidire.

La scelta di fare il sacerdote, sotto questo profilo, potrebbe ridursi a una condizione di difesa: si sceglie una comunità protetta, un padre carismatico che diventa il riferimento non solo possibile, ma obbligato (dipendenza), proprio in nome dell’ubbidienza la quale rientra tra le caratteristiche del sacerdozio cattolico. Insomma, la promessa di obbedienza, quando è perseguita da una persona con un Io ben individuato, ha un significato totalmente diverso da quella emessa sulla base della necessità di dare risposta a una identità mancata o carente (confusa), da ricondurre a un bisogno di dipendenza.

Il narcisismo

L’identità personale si collega con il narcisismo, che è la percezione di sé e di un sé che ha valore. Siamo abituati a vedere il narcisismo unicamente come una patologia, e lo riferiamo subito al mito di Narciso che, nella versione aneddotica, è un bel giovane, il quale specchiandosi nell’acqua del lago si innamora di sé fino a tentare di abbracciarsi e morire annegato. Dal che, la sindrome del Narciso è vista come la condizione di chi guarda solo a se stesso, e non si mescola con gli altri; l’altro gli serve solo per essere ammirato e riconosciuto come uno splendore. Il "narciso", dunque, come uno che non sa amare, e nemmeno stabilire legami di amicizia e di solidarietà, tanto da diventare un misantropo che vede solo sé e realizza dentro di sé tutti i propri bisogni.

Questa dimensione, certamente patologica, identifica un narcisismo "cattivo", ma essa non esclude che con lo stesso termine si indichi una valenza positiva, anzi addirittura necessaria. Il narcisismo buono (o sano) si correla necessariamente all’identità singola, e dunque con un Io che deve essere sostenuto da una energia o da una forza che coincide con la convinzione del valore proprio e specifico. Senza questo apprezzamento, l’Io tenderebbe a nascondersi, a chiudersi in una timidezza estrema, che porta il singolo a non esporsi mai, a non mostrare le proprie capacità in quanto le svaluta totalmente.

Se esiste un narcisismo malato, non bisogna dimenticare che un narcisismo buono è essenziale per dare valore al proprio Io, e quindi alla propria identità. Se anche questo venisse percepito come negativo, si finirebbe con l’ostacolare la propria autonomia, e quindi a non volerla mai raggiungere. Ogni Io ha dunque un proprio narcisismo: la percezione di esistere e poter fare in senso positivo. Il che significa  trasporre il proprio Io dalla fase di possibilità alla sua attualizzazione.

Questo punto è un passaggio critico nel caso del sacerdote, e del sacerdote in formazione, poiché si potrebbero scontrare da un lato il narcisismo buono e quindi la consapevolezza di un valore positivo, e dall’altro il bisogno di contenere l’orgoglio, per non doversi magnificare o incensare. In altre parole, la ricaduta sul piano umano che il Discorso delle Beatitudini ha nella vita di una persona non deve ostacolare il suo narcisismo positivo. Interessante semmai diventa – parlo sempre per la professione che esercito – seguire le Beatitudini proprio nel contesto di un Io formato e "narcisisticamente" sostenuto, poiché solo in questo caso le Beatitudini diventano una scelta positiva anche nel loro aspetto di rinuncia.

L’identità di genere

La seconda identità si lega all’appartenenza – in senso biologico e psicologico – al genere maschile o femminile. Si tratta di una qualificazione dell’Io che già si è formato, e che si specializza ora in senso maschile o femminile. Non esiste una gerarchia tra queste due possibilità, né una contrapposizione, ma semplicemente una diversità sostanziale, che in parte si lega all’anatomia e alla funzionalità biologica e in parte alla dimensione psicologica. È questa una tappa importante nello sviluppo di ogni individuo, e lo è anche – e soprattutto – per chi scelga la via del sacerdozio, la quale richiede il controllo totale delle proprie pulsioni libidiche e sessuali, come condizione per l’impegno alla castità. Una scelta, questa, che è possibile fare con consapevolezza e su una precisa identità sessuale, poiché si esprime e si estrinseca con richiami chiari e con tendenze ben esplicite. È questa la base per impostare strategie che consentano una decisione comportamentale che, dal punto di vista terreno, è contro i richiami legati alle pulsioni della sfera sessuale.

Ovviamente è legittima, e persino piena di significati aggiuntivi di tipo umano e religioso, la rinuncia a esprimere la propria sessualità come espressione dell’identità maschile o femminile, ma per farlo e farlo coerentemente è indispensabile che l’identità di genere sia ben precisa, e se ne abbia una indubbia percezione.

Le difficoltà che altrimenti si incontrano sono date, prima ancora dell’uso della sessualità interdetta all’interno di una scelta di castità, che attiva comunque dei conflitti, dalle colpevolizzazioni che procurano un senso di indegnità e rendono inadeguati al comportamento sacerdotale. E si devono aggiungere le deviazioni indirette.

Le deviazioni di genere

Una prima deviazione è costituita dagli equivalenti sessuali: si riesce sì a mantenersi casti, ma si sposta la sessualità su azioni o oggetti che abitualmente o socialmente sono neutri sotto il profilo sessuale, eppure vengono caricati di questo significato.

E a tale proposito occorre accennare al tema del bambino come "oggetto" spostato di una sessualità deviata. La grande attenzione che, nella religione cristiana, è data al bambino Gesù, e agli stessi angioletti, può favorire questo spostamento, mostrando come possibili – in oggetti onorificati dal culto – dei sostitutivi di una sessualità diretta, non permessa dalla posizione sacerdotale.

Occorre inoltre fare attenzione anche alle sublimazioni che spostano la sessualità, la quale non prendendo così i canali abituali finisce per esprimersi su immagini sacre o addirittura su feticci teologici.

L’identità sociale

La terza identità ci porta per via diretta dentro la società. E l’identità sociale può definirsi anche identità di ruolo. La si considera realizzata quando una persona ha chiari i compiti che le competono e gli strumenti per realizzarli.

Ovvio che l’identità sociale è qualcosa che non è dentro il singolo, ma si pone nella relazione tra singolo e società. Non è nemmeno conseguenza soltanto di una data società, poiché il singolo è a sua volta importante, e questi coniugandosi agli altri riesce a imprimere un corso speciale al suo operare. Per convincersene, basta pensare a una stessa azione con valenza sacra, ma dapprima svolta da chi ha un forte carisma e quindi sa coinvolgere altri in un legame e poi, di contro, da chi questa operazione la segue quasi meccanicamente. Sul piano tecnico, l’operazione è identica, ma l’effetto e il senso li distanzia enormemente. Il carisma in questo caso va inteso come una dote della personalità, e rientra quindi all’interno dei dati psicologici, senza il bisogno di riferirsi necessariamente al fattore trascendente.

L’identità sociale deve essere prima di tutto ben percepita, immediatamente dopo deve essere accettata, anzi si deve sentire il bisogno di svolgerla – e quindi di attivarsi per farlo – ricevendo di rimando il piacere di averla svolta.

Un «lavoro» incomparabile

La situazione del sacerdote in questo non è difforme da quella di altre "professioni", ma certo il tipo di "lavoro" a cui è chiamato ha un valore del tutto specifico e incomparabile. Occorre amare questa "funzione" che richiede un preciso operare, con "strumenti" specifici, e allora nasce il piacere di fare comunità. Ritengo che il piacere debba essere avvertito e che si deve provare soddisfazione. Insomma, un discorso analogo – almeno in parte – a quanto si è detto per il narcisismo, perché è un sostegno all’agire futuro e alla sicurezza di avere i mezzi per farlo, e l’esperienza per farlo in maniera utile socialmente. E il sacerdote deve a sua volta provare questa soddisfazione e questo piacere, che rappresentano i prolegomeni per la sua stessa forza operativa.

Ecco perché se il vescovo chiede ai propri sacerdoti di essere santi, io vorrei che fossero felici, e sono sicuro che le due dimensioni, la felicità umana e la santità spirituale, non sono in contraddizione, ma una fa da prolegomeno all’altra. Insomma, un prete deve essere felice perché attrae di più chi ha bisogno della sua opera. (Vittorino Andreoli, Avvenire, 2008)

 

 

 


 

 

I Neocatecumenali di Kiko: Movimento Ecclesiale

o Setta all'interno del Cattolicesimo?

(20 aprile 2008)

 

Ecco i recenti editoriali di “Petrus” sul Cammino Neocatecumenale. Premetto di non aver assolutamente nulla di preconcetto nei confronti dei seguaci di Kiko, anche se debbo convenire che molte loro soluzioni, (personalmente sperimentate), si pongono decisamente all’opposto del mio umilissimo modo di intendere Chiesa, Liturgia, Sacramenti. Anche teologicamente parlando. Per una panoramica più completa del fenomeno, mi sembra doveroso dare spazio anche a voci decisamente critiche, lasciando poi alla maturità di ciascuno il trarne le personali conclusioni.

 

 

 

 

Le ombre del Cammino Neocatecumenale

E’ il 28 Marzo del 2008 quando sul Monte delle Beatitudini, presso la ‘Domus Galileae’, da anni faraonica cittadella dei Neocatecumenali in Terra Santa, si consuma un evento che rischia di passare sotto silenzio ai più, ma che segna una vera e incompresa ‘rivoluzione’: quella di un movimento che si definisce Ecclesiale e che riesce in tal modo a cooptare ed irretire centinaia di prelati e porporati, il cui iniziatore laico riceve, addirittura, una ‘visita ad limina’, neanche fosse il Papa. Ben 160 Vescovi e 9 Cardinali europei, infatti, hanno partecipato ad una ‘Convivenza’, così viene chiamata in gergo neocatecumenale, durante la quale, nel tempio massimo del neocatecumenato in Terra Santa, sono stati impressionati e suggestionati con la potenza dell'architettura, con i simbolismi delle forme e degli spazi pieni di simbologie giudeo-luterano-gnostiche, con le presenze massicce di seguaci, con il clima carismatico e coinvolgente dei rituali messi in atto, le testimonianze e l'opera imbonitoria - così definita dai suoi critici - di Kiko Arguello, l’iniziatore del movimento cui, negli anni, si sono affiancati Carmen Hernandez e Don Mario Pezzi. La presenza di così tanti alti rappresentanti della Chiesa al cospetto di Kiko sembrerebbe dare il via all'evangelizzazione neocatecumenale dell'Europa, avallando un movimento, dai metodi quantomeno ‘discutibili’ in materia di Dottrina e Liturgia, ormai pesantemente infiltrato nel mondo ecclesiastico con le sue ritualità anomale che, malgrado i continui richiami di Papa Benedetto XVI, non sono state ancora né riviste né modificate né - tantomeno - soppresse. E che al Santo Padre questo non sia per niente piaciuto lo si capisce dal fatto che gli Statuti ‘ad experimentum’ del Cammino, scaduti ormai da 10 mesi dopo la concessione del periodo di prova di 5 anni da parte del Servo di Dio Giovanni Paolo II, non sono stati ancora approvati dal Vaticano. Una delle prove evidenti di ciò che non va nel Cammino Neocatecumenale, e che il Papa non tollera più, è contenuta nella foto che pubblichiamo, nella quale è documentata una Eucaristia (!?) celebrata con la ritualità contestata dallo stesso Benedetto XVI attraverso una Lettera del Cardinale Francis Arinze del Dicembre 2005, in cui si richiamava il Cammino ad adeguare la liturgia a quella ufficiale della Chiesa cattolica, ma di fatto avallata, purtroppo, dai Vescovi e dai Cardinali presenti. Una ritualità che in molti si rifiutano di chiamare Eucaristia, nella quale, sulla grande ‘mensa’ usata in luogo dell'Altare cristiano, non si celebra il Sacrificio di Gesù ma un convitto di festa tra fratelli uniti dalla medesima fede nella Risurrezione, che non si igninocchiano mai (atteggiamento ritenuto da schiavi) neppure durante la Consacrazione. Ecco perché possiamo notarvi simboli estranei alla Sacra e alla Divina Liturgia cattolica: al posto della Croce, campeggia una enorme channukkià, che rappresenta i ‘ricostruttori della vera Chiesa’; al posto delle tradizionali particole, calici e pani che saranno distribuiti ai ‘commensali’ seduti; poi manca il ‘corporale’, dal momento che la visione teologica che l'iniziatore trasmette dell'Eucaristia riguarda la Presenza del Signore intesa luteranamente come ‘transignificazione’ (testuali parole di Kiko Arguello) e non “transustanziazione”; nella celebrazione, quindi, non si recitano mai il credo Niceno e il Canone Romano, l'offertorio viene ritenuto una pratica pagana; e al termine della cerimonia i presenti eseguono “danze dravidiche” intorno alla “mensa”. Questo non sarà forse accaduto per pudore (?) alla presenza dei Vescovi e dei Cardinali lo scorso 28 Marzo, ma avviene ad ogni celebrazione parcellizzata in salette distinte per ogni comunità Neocatecumenale. Si tratta di riti con tanta esaltazione emotiva (favorita dai canti ritmici, coinvolgenti) ma poco raccoglimento e quindi con una evidente banalizzazione del Mistero. È, nei fatti, una ritualità che cementa la comunità, nella convinzione che (testuali parole dell'iniziatore Kiko Arguello) "non c’è Eucaristia senza assemblea. È un’assemblea intera che celebra la festa e l’Eucaristia; perché l’Eucaristia è l’esultazione dell’assemblea umana in comunione; perché il luogo preciso in cui si manifesta che Dio ha agito è in questa Chiesa creata in questa comunione. È da questa assemblea che sgorga l’Eucaristia". E che fine fa il vero celebrante, che è il Signore Gesù? Che dire, inoltre, del caleidoscopio multiforme offerto dal tempio mondiale del Neocatecumenato sul Monte delle Beatitudini? Esso ha uno scopo ben preciso: intimorire, impressionare, suggestionare il visitatore, per convincerlo della bontà, della grandiosità del cammino Neocatecumenale e della sua ‘predicazione’. La macchina propagandistica del Cammino, perfettamente rodata ed oliata nel corso dei decenni, produce proprio i risultati attesi dai capi: l'adesione acritica di alti prelati, i quali sposano la causa Neocatecumenale ricacciando in qualche anfratto remoto della propria coscienza eventuali dubbi nutriti prima della visita al centro mondiale d'irraggiamento del pensiero “kikiano”, abbagliati e soggiogati definitivamente dalla messinscena trionfalmente dispiegata per fare colpo sugli illustri ospiti. Tali prelati e porporati, ignari delle svariate aberrazioni di questa realtà (nessuno di loro può conoscere le catechesi originali che costituiscono la “tradizione orale” del Cammino NC), ci mettono di fronte ad una nefasta conseguenza della laicizzazione progressiva della Chiesa iniziata con l’errata interpretazione del Concilio Vaticano II e proseguita nei decenni successivi: ciò che sarebbe stato impedito ad un religioso, spostare ed attrarre la Chiesa verso un'altra teologia, è stato invece consentito ad un laico. Non ci resta che pregare e confidare in un intervento energico del Papa. Lui - solo Lui - è Pietro, ed è su di Lui che Gesù ha edificato la sua Chiesa che, lo ricordiamo, è “una, Santa, cattolica e apostolica”. Dunque, il Papa è uno e la Chiesa è una: lo ha stabilito Cristo consegnando le chiavi a Pietro. È proprio il caso che chi intende contrastare la Dottrina della Chiesa dall’interno, si metta l’anima in pace. “Non praevalebunt”, l’ha promesso Gesù. A buon intenditor, poche parole. (Gianluca Barile, Petrus, 12 aprile 2008)

 

I Neocatecumenali di Kiko: movimento ecclesiale o setta all’interno del Cattolicesimo?

«L’articolo del Direttore Gianluca Barile sulle ombre del Cammino Neocatecumenale ha suscitato tra i lettori di ‘Petrus’ consensi entusiastici ma anche numerosissime email di protesta e addirittura di minacce. Mi permetto di inserirmi nel dibattito non solo per il mio ruolo di sacerdote e di nuovo vicedirettore di questo giornale on-line ma anche per l’esperienza che mi ha portato a conoscere il Cammino Neocatecumenale tra i 27 e i 34 anni di età. Da novello sacerdote, in quel periodo con entusiasmo accolsi il Cammino dando il meglio di me stesso ma, dopo un certo numero di anni, conoscendolo sempre meglio fui costretto dalla mia coscienza sacerdotale ad ammettere con profondissima amarezza che proprio io, che allora ero il responsabile diocesano del GRIS (Gruppo Ricerca e Informazioni Sette) e che combattevo in modo particolare i Testimoni di Geova, avevo installato una vera e propria setta nella mia Chiesa accogliendo. Da allora, ho sempre affermato che il Cammino Neocatecumenale è stato una delle più grandi fregature della mia vita! C’è molto di discutibile nella prassi catechistica e liturgica del Cammino, a questo riguardo sono da leggere gli interessanti testi dottrinali di sacerdoti come il compianto Padre Enrico Zoffoli, don Gino Conti e don Elio Marighetto. Il Cammino, dopo i successi pastorali iniziali, si sta rivelando sempre più un gigante dai piedi di argilla: moltissimi parroci, conoscendo il vero volto del Cammino, l’hanno soppresso e dove esso rimane è costretto per lo più a vivacchiare. Ormai gli ex Neocatecumenali sono un esercito, ed hanno aperto pure siti internet per mettere in guardia altri cattolici ingenui dal pericolo dei “Kikiani”. Questo termine non è dispregiativo, ma all’interno del Cammino esiste un vero e proprio culto della personalità di Kiko Arguello, l’iniziatore. I canti sono musicati da Kiko e spesso i cantori scimmiottano Kiko nel loro modo spagnoleggiante di cantare. Anche le immagini sacre sono dipinte da Kiko, che è l’unico “conducator”. Sapete, poi, perché i Neocatecumenali parlano tutti allo stesso modo? Perché ripetono per filo e per segno espressioni tratte dalle catechesi di Kiko. Non esiste nell’ambito del cattolicesimo gruppo che sia così fortemente plasmato sulla personalità del fondatore. Indubbiamente il Cammino Neocatecumenale si presenta all’apparenza con un grande merito: quello di sforzarsi di mettere in pratica nei Paesi cattolici occidentali L'Ordo initiationis christianae adultorum, che poteva creare un profondo rinnovamento pastorale; purtroppo il suo capitolo IV, dal titolo: Preparazione alla Confermazione e all'Eucarestia degli adulti battezzati da bambini, che non hanno ricevuto la catechesi, è stato in genere eluso dalla nostra pastorale parrocchiale ordinaria con un ragionamento altrettanto semplice quanto equivoco: i nostri adulti, sebbene apostati ed infedeli di fatto, sebbene diventati dogmaticamente indifferenti e moralmente relativisti, hanno ricevuto la Confermazione e l'Eucarestia quindi l'iniziazione cristiana sarebbe questione che riguarda le missioni ad gentes fatta dagli istitituti missionari ed in definitiva il capitolo IV dell'Ordo si riduce ad essere applicabile in casi più unici che rari. E' chiaro, invece, che quando  parliamo oggi di iniziazione cristiana in Paesi di antica fede cattolica, ne parliamo in senso analogico rispetto all'antica prassi dell'iniziazione cristiana e rispetto alla sua prassi nelle missioni ad gentes. Il grande merito che il movimento Neocatecumenale si attribuisce è proprio quello di avere riscoperto l'iniziazione cristiana degli adulti e di averla adattata,  appunto, non solo ai lontani che hanno rotto ogni rapporto con la Chiesa dopo il Battesimo, ma anche ai cristiani abbondantemente sacramentalizzati, ma rimasti immaturi ed infantili nella fede. E' risaputo che i movimenti, a lungo andare, inevitabilmente si istituzionalizzano, perdendo così almeno parte della loro forza carismatica. I movimenti, nella Chiesa, sono tanti; e nessuno di essi può arrogarsi diritti di primogenitura o esclusiva di autenticità cristiana. Per questo motivo, accanto ai meriti e ai pregi, tutti i  movimenti denunciano limiti e rischi. L'esortazione al discernimento e all'equilibrio,  ricorrente nei documenti magisteriali relativi ai movimenti, torna di grande opportunità e deve essere tenuta in conto con grande umiltà. Quali sono i limiti e i rischi del movimento Neocatecumenale e del suo metodo catechistico? Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, parlando dell'esperienza Neocatecumenale, in un discorso nella parrocchia romana dei Santi Martiri Canadesi, usò espressioni come "sana radicalizzazione del nostro   cristianesimo" e "autentico radicalismo evangelico" (cf. Osservatore Romano del 3-4 novembre 1980). Tali espressioni vanno collocate non solo nel contesto di un discorso, ma nel contesto generale del pensiero del Pontefice. Espunte da tale contesto, possono dar luogo a visioni illusorie del popolo cristiano, oppure a distinzioni e discriminazioni tra gruppi di eletti e masse di reietti, irrecuperabili, per i quali non vale la pena di "spendere tutto e spendere anche se stessi". Si può arrivare ad isolare alcune - poche - centinaia di catecumeni da una comunità parrocchiale di qualche decina di migliaia di persone e, a quelli, imbandire una ricca mensa della Parola, dei sacramenti, della carità, con cibi raffinati e genuini e, alla comunità parrocchiale... massiva, offrire soltanto un minimarket di precotti, cellofanati? Questo rischio è gravemente incombente laddove il parroco viene catturato dal Movimento e diventa il presbitero della comunità Neocatecumenale, rinunciando, almeno di fatto, ad essere il pastore di tutti i cattolici affidati alla sua responsabilità. E la cattura è tanto più deleteria quanto più referente del presbitero-parroco è la comunità neocatecumenale piuttosto che il proprio vescovo, e quanto più il presbitero-parroco rimuove dal suo orizzonte pastorale il piano pastorale della diocesi e i conseguenti impegni a favore del progetto e degli impegni indicati dal Movimento Neocatecumenale. E' giusto parlare di "radicalità evangelica": ma di quale radicalità? Per quanto riguarda più specificamente la catechesi, non c'è alcun dubbio che essa va fatta - andrebbe fatta! - con la lettura della Bibbia, contrapponendo una lettura sapienziale ad una lettura teologica, definita questa spregiativamente come intellettuale, quasi che l'obbedienza della fede dovuta a Dio non comporti prestare a Lui anche l'ossequio dell'intelligenza (cfr. Dei Verbum 5). Un altro rischio cui è esposta la catechesi Neocatecumenale è quello del plagio. E' il rischio di ogni catechesi, anzi di ogni attività formativa, di tutta la pastorale, quando è disincarnata, quando cioè è avulsa dal conteso culturale, quando non ritiene di doversi coniugare con essa, quando presume di dover solo dare, senza ricevere alcunché dalla ricchezza che pure è disseminata nel mondo e nell'umanità dalla multiforme sapienza di Dio. E’ insita, in questo, una tendenza ad accentuare il carattere penitenziale - un tantino esposto al rischio del manicheismo - della conversione, anziché l'amore di Dio che muove e che salva e l'azione di Cristo che ricapitola in sé tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra (cf. Ef. 1,10). In questa sorta di radicalità rientra l'interpretazione letterale della "comunione dei beni", citando Atti 2, 42-45, cui è tentato il Cammino, dimenticando o ignorando non solo il clima di imminenza della seconda venuta di Cristo in cui viveva la comunità di Gerusalemme, ma soprattutto la distinzione fatta da Gesù tra vocazione ordinaria alla vita eterna e vocazione speciale ad una sua particolare e funzionale sequela (cf Mt. 19,21; cf pure Lc. 19,8: Zaccheo dà la metà dei suoi beni ai poveri; e Gesù dice che la salvezza è entrata nella sua casa). Tantissime altre osservazioni critiche si potrebbero fare (tra l’altro ben documentati dai testi dei sacerdoti sopraccitati, in genere stampati dalla editrice Segno di Udine); ancora si potrebbe rilevare l'eccessivo impianto tecnico del lungo ed eccessivo Cammino Neocatecumenale, o una terminologia iniziatica, erudita, piena di termini ebraici vetero testamentari in contrasto con la semplicità del rapporto con la parola di Dio, pur invocata, o la centralità ontologica della Parola rispetto all'Eucarestia. In conclusione una cosa è certa: Benedetto XVI sarà il Papa che correggerà gli abusi dottrinali e liturgici che per troppi anni impunemente il Cammino ha diffuso nelle parrocchie. Kiko Arguello ascolti e metta in pratica quello che i vari dicasteri romani, voce del Santo Padre, gli correggono del Cammino e obbedisca prontamente».

(Don Marcello Stanzione, Petrus, 14 aprile 2008)

 

 

Neocatecumenali: gnosi e uso del denaro per accrescere il consenso

«Dopo il mio articolo “I Neocatecumenali di Kiko: movimento ecclesiale o setta all’interno del Cattolicesimo?”, diversi lettori di ‘Petrus’  mi hanno chiesto ulteriori dettagli sul Cammino Neocatecumenale e sulla mia storia personale. Premetto che non sono un teologo di professione ma un normale parroco di Campagna, per cui mi rifaccio alla mia esperienza con il Cammino Neocatecumenale durata diversi anni per spiegare perché decisi di chiudere con tale gruppo. A lungo andare la frequenza Neocatecumenale mi puzzava sempre più di gnosticismo. Mi spiego meglio: le eresie gnostiche sono state, dall’epoca patristica, tra i più pericolosi nemici della Chiesa Cristiana, ma, malgrado i ripetuti attacchi, non hanno mai potuto abbattere l’edificio costruito da Cristo. Esse si basano sulla “conoscenza” (gnosi, appunto) che è riservata ad un ristretto numero di persone (gli “iniziati” o “illuminati” a seconda della varie sétte), mentre gli altri (gli “affiliati”) devono essere all’oscuro di tutto e non avere la minima idea di dove li porterà il loro percorso iniziatico. Molte persone, anche oggi, si affiliano alla Massoneria Operativa senza avere la benché minima idea di dove questa affiliazione possa portarle, magari per l’impronta vagamente filantropica di alcune logge, o magari per accrescere il loro status sociale nella società e aumentare così il proprio potere, non immaginando certo di diventare veri e propri schiavi di Satana, cosa che solo alcuni arriveranno a capire, salendo la lunga scala dell’iniziazione massonica. Riguardo al Cammino, poi, quando uno entra nel movimento Neocatecumenale deve dimenticare le domande. Per lungo tempo non è permesso di porne e, anche quando arriva il momento di chiedere qualcosa, le risposte sono evasive, e meno che mai quelle che riguardano le tappe future del Cammino perché allora è tutto top secret. Il sapere è esclusivamente nelle mani dei responsabili, o dei “catechisti”, che non hanno fatto studi particolari di teologia, liturgia, patristica o altro, ma che hanno il solo merito di aver compiuto almeno cinque o sei anni di Cammino; si tratta di persone che sono state indottrinate imparando a memoria o quasi le catechesi di Kiko Arguello. Catechesi che sono piene di eresie dottrinali e che sono state fatte nel contesto socio-culturale  degli anni ‘70 e vengono ancora propinate nel ventunesimo secolo! Loro stessi non hanno idea di quello che verrà loro insegnato nei prossimi anni. Il miglior allievo per i Neocatecumenali è colui che è a digiuno di nozioni di catechismo, di teologia e di Bibbia, in modo da potergli insegnare tutto quello che pare a Kiko. Ma ci chiediamo: perché tanta gente, all’inizio, si fida dei Neocatecumenali? Perché l’annuncio delle catechesi viene fatto la Domenica in parrocchia e i catechisti dicono che sono stati mandati dal vescovo. Ricordo che quando le perplessità sulla bontà del Cammino divennero delle evidenze sconcertanti e iniziai a lamentarmi pubblicamente, ricevetti una telefonata dalla responsabile del Cammino che mi disse che essi avevano deciso di chiudere il Cammino nella mia parrocchia; io replicai, allora, che se erano stati inviati, come essi dicevano, dal vescovo, doveva essere il vescovo stesso, solo lui, a ordinare la chiusura del Cammino nella mia Chiesa e non loro, laici, a dare ordini a un sacerdote. Il fatto interessante avvenne subito dopo. Per anni ero stato il confessore di centinaia di Neocatecumenali di altre comunità parrocchiali, i quali non si facevano scrupolo di venirsi a confessare a tutte le ore. Chiuso il Cammino nella mia parrocchia, non ne vidi più nessuno, ma proprio nessuno, e la cosa mi sconcertò alquanto, perché con gli anni ti affezioni alle persone. Ci furono ordini di scuderia per cui nessuno doveva più venire da me. Ed io, preticello ingenuo, che pensavo venissero dal sacerdote cattolico per riconciliarsi con Dio! No, venivano dal Presbitero di comunità, e quando questi non lo fu più, ci fu un ordine di scuderia del tipo ‘No Kiko, No party’. Il catechista Neocatecumenale che aveva aperto il Cammino nella mia parrocchia, quando venne l’ultima volta a trovarmi, stizzato mi disse che tra me e loro non ci poteva essere dialogo perche io - sue testuali parole che non dimenticherò mai - rappresentavo la Chiesa di Pietro, mentre loro rappresentavano la Chiesa di Giovanni. A queste testuali parole capii finalmente che Dio, nella sua infinita misericordia, mi aveva liberato da una setta che per ingenuità sacerdotale giovanile io stesso avevo aiutato ad impiantarsi nella mia parrocchia! Da fonti massoniche sono trapelati vari documenti che attestano come da molti anni siano in corso piani per l’annientamento della Chiesa Cattolica, operando dal suo interno (cfr. “La faccia nascosta della storia” di P. Mantero, Ed. Segno, Udine). Esaminiamo alcuni punti interessanti: 1. La svalutazione e il deprezzamento della Santissima Eucarestia e conseguentemente la desacralizzazione e profanazione del culto cattolico e dei luoghi di culto. 2. L’eliminazione della Mariologia e dell’angelologia dalla teologia cattolica. 3. L’eliminazione del sacerdozio ministeriale e di tutto ciò che ha a che fare col sacro. 4. L’uso del denaro per accrescere il consenso. Ora esaminiamo ad uno ad uno questi punti, confrontandoli con la catechesi Neocatecumenale tratta dagli orientamenti alle équipes di catechisti di Kiko Argüello, come riportato da Padre Enrico Zoffoli, da essi considerato il nemico n. 1, nel suo volumetto “Il neocatecumenato della Chiesa Cattolica”. Per i Neocatecumenali la Messa non è un vero “sacrificio”, il perpetuarsi del sacrificio della Croce, ma soltanto un banchetto comunitario che celebra la potenza salvifica di Cristo risorto che è bene celebrare non in Chiese consacrate, ma in stanze qualsiasi proprio per far risaltare che è una cena, e se si celebra in Chiesa per ragioni di spazio (con più comunità riunite) l’altare (cioè, la tavola) va tolto dal presbiterio e portato al centro della Chiesa. Il Pane Consacrato non si muta nella sostanza del Corpo e del Sangue di Cristo, non avendo altra funzione che quella di simboleggiare la presenza spirituale di Lui che, risorto, tutti trascina sul carro di fuoco... Negati il Sacrificio eucaristico e la transustanziazione, il “Pane consacrato” (con tutti i suoi resti e frammenti), il Cammino esclude la reale presenza di Cristo, perciò abbiamo che nelle Messe celebrate da sacerdoti Neocatecumenali non viene fatta la purificazione dei vasi in modo corretto, non si fa caso se dei frammenti cadono a terra (una volta si chiamava sacrilegio...) e viene negato ogni culto al Santissimo Sacramento (niente  Quaranta ore o adorazione Eucaristica ). L’unica effigie Mariana ammessa è un’icona di vago sapore bizantino, chiamata “Madonna di Kiko”.  Ricordo che una volta, durante la liturgia della parola del mercoledì, non si trovava il quadro di Kiko, ed io proposi di andare a prendere il quadro del Cuore Immacolato di Maria appeso in sacrestia e metterlo sul treppiedi. Ovviamente non se ne fece niente, perché tutto il materiale liturgico deve essere disegnato da Kiko. Come ho già scritto, c’è un culto della personalità verso l’Arguello, per questo definisco i Neocatecumenali anche ‘kikiani’. Ovviamente non si può parlare ai Neocatecumenali di Lourdes, Fatima e di altri luoghi mariani, a cui viene negata ogni importanza. L’eliminazione del sacrificio comporta la soppressione del sacerdozio ministeriale, non dovendosi riconoscere altro sacerdozio se non quello di Cristo: l’Eucarestia è celebrata nella comunità dei credenti, tutti indistintamente partecipi di quell’unico sacerdozio... L’esclusione del sacerdozio ministeriale porta al crollo della gerarchia Ecclesiastica, ossia il rifiuto dell’ordine sacro che la fonda, soppresso il quale, la Chiesa, come società visibile e gerarchica, non ha più alcuna ragione di essere. Infatti, nel neocatecumenato tutta l’autorità e tutto il sapere sono nelle mani di Kiko e dei responsabili da lui nominati a livello zonale e dei catechisti, ai quali, tutti, anche i sacerdoti devono obbedienza! I preti servono solo a celebrare le Messe secondo le indicazioni liturgiche di Kiko. Il rispetto verso i sacerdoti è solo formale, i veri pastori sono i Catechisti del Cammino che, laici, non si fanno pudore di chiedere, durante gli scrutini, anche ai sacerdoti se si masturbano… Aspetti privatissimi della vita intima di una persona non li conosce il sacerdote parroco o il sacerdote confessore, che in virtù del suo ministero ne avrebbe tutto il diritto, ma dei semplici laici conoscono i fatti di tutti! In realtà, essi non si fidano dei preti, è questo il motivo per cui Kiko ha voluto i seminari Redemptoris Mater, per avere un clero plasmato a sua immagine e somiglianza! Mia mamma, che avevo portato insieme a mia sorella nel Cammino, mi fece notare che i catechisti Neocatecumenali poi non si inginocchiavano mai, né davanti al Santissimo, né alla consacrazione, e  assumevano atteggiamenti irriverenti durante le celebrazioni (la posizione classica in Chiesa è con le gambe accavallate ed i due gomiti appoggiati allo schienale, possibilmente in posizione obliqua rispetto alla panca). Io stesso devo ammettere che durante la mia permanenza nel Cammino ero come se fossi stato ipnotizzato, avevo le fette di prosciutto sugli occhi. Il mio risveglio dal sonno ipnotico avvenne durante una convivenza piena di termini e ritualità giudaiche, in cui ad un certo punto mi chiesi: ma dove sono capitato? Sono in un’associazione cristiana o sono finito in una sinagoga ebraica? Mi trovo tra i marrani, ossia gli ebrei spagnoli che fingevano di essersi convertiti a Cristo, o in un gruppo cattolico? Non sono assolutamente un antisemita, ma il rinnovamento della Chiesa si deve rifare alla Padri della Chiesa e non all’Antica Alleanza che è superata! I Neocatecumenali dispongono di grosse somme di denaro, che vengono elargite dai loro membri. Con quale “liberalità” ci sarebbe molto da discutere: C’è la storia di una suora alla quale fu tolto l’orologio perché si “liberasse dai beni” non avendo altro da dare a causa del voto di povertà e perciò non possedendo niente. Arrivati ad un certo punto del Cammino, i seguaci devono dare le ‘decime’ non sapendo ovviamente dove vanno a finire: nessuno presenta consuntivi. In gran parte vengono date in elemosina ai  vescovi delle Diocesi che ospitano i ‘kikiani’ al fine di accrescere il consenso della Gerarchia nei loro confronti. Un altro aspetto del Cammino Neocatecumenale che trova riscontro nello statuto massone è il comportamento verso il prossimo. Come nel giuramento massone è fatto obbligo di aiutare i “fratelli” della stessa loggia, anche per i neocatecumenali c’è l’impegno del mutuo soccorso all’interno della propria comunità ed eventualmente delle altre comunità. In conclusione, a proposito di soldi, sul blog “La Verità sui Neocatecumenali” è stato riportato il mio primo articolo su ‘Petrus’ e tra i commenti ve ne è uno di un anonimo che scrive le testuali parole: ”la storia si ripete… don Marcello come Gino Conti… anche lui comincia a vendere libri… interessante, no??? prima l’articolo copia e incolla con Zoffoli… l’annuncio del nuovo libro… daje marce’… se vòi 50 euro te li regalo io”. Al caro anonimo ricordo che sono molti anni che mi dedico alla compilazione di libri: ne ho attualmente scritti 24, alcuni tradotti in diverse lingue. Quest’anno ne pubblicherò altri 10, per cui se segue ‘Petrus’ dovrà abituarsi alla pubblicità frequente dei miei libri! Un’ultima cosa: caro anonimo, per quanto riguarda i 50 Euro che vuoi regalarmi, parlane prima con il responsabile della tua comunità, lo sai non ti è lecito fare l’elemosina senza il suo permesso: potrebbe essere interpretato come un atto di superbia da parte tua…» (Don Marcello Stanzione, Petrus, 17 aprile 2008)

 

 

 


 

 

Il Consolatore, lo sconosciuto oltre il Verbo

27 aprile 2008

 

Lo Sconosciuto che viene oltre il Verbo". E' con questa espressione di H. U. von Balthasar che si può creare una breve sintesi teologica intorno al tema dello Spirito Santo.

"Sconosciuto" per almeno due motivi: il primo, di ordine teologico, è determinato dal fatto che mai come in questo caso siamo posti dinanzi al mistero. Egli è Spirito di Amore e riporta alla sublimità dell'essenza stessa di Dio nella rivelazione di Gesù Cristo che nell'obbedienza si dona alla morte e viene risuscitato. Il linguaggio umano trova forte il limite delle sue parole sempre imbrigliate all'interno di quella "gabbia" –per usare l'espressione di L. Wittgenstein- che impedisce di dire ciò che costituisce l'essenza del mistero. Con ragione, quindi, i fratelli di Oriente suggeriscono che è meglio invocare lo Spirito piuttosto che parlare di lui; egli, infatti, è grazia che viene data dall'amore del Padre. Il teologo, pertanto, comprende che per una coerente intelligenza deve acquisire l'atteggiamento dello stupore e della ricezione silenziosa.

Il secondo, di ordine storico, dipende dal fatto che per lungo tempo la teologia ha dimenticato di tenere fisso lo sguardo sull'intelligenza del mistero del dono dello Spirito. Ne è scaturita una teologia debole perché priva della centralità del mistero trinitario e, quindi, frammentaria nell'esposizione dei misteri. L'emarginazione del tema dello Spirito alla sola sfera della spiritualità, ha impedito di raggiungere una coerente teologia dei ministeri e del laicato. Il recupero del posto centrale che è dovuto agli studi sullo Spirito Santo ha permesso di verificare, in questi ultimi decenni, quanto ritardo sia stato imposto alla tabella di marcia della teologia sia nel suo corrispondere alla missione ecclesiale che le appartiene sia del dare voce alla forza della profezia.

Chi è, dunque, lo Spirito Santo? "Se vuoi sapere quello che deve essere il tuo pensiero intorno allo Spirito Santo, ti è necessario ritornare agli Apostoli e ai Vangeli con i quali e nei quali hai certezza che Dio ha parlato" (Lo Spirito Santo, I, 9). Questo testo di Fausto, vescovo di Riez nella metà del V secolo (452/460?) permette al teologo di ritrovare il metodo corretto per balbettare qualche cosa sul mistero dello Spirito di Cristo. "Ritorna agli apostoli e ai vangeli". Ecco la fonte originaria della fede cristiana: la Tradizione e la Scrittura nella loro inscindibile unità e nella reciprocità piena che permette di cogliere l'unica Parola che di Dio ha rivolto all'umanità (cfr DV 9).

"Esaminiamo ora le nozioni correnti che abbiamo intorno allo Spirito Santo, sia quelle raccolte dalle Scritture, sia quelle che ci furono trasmesse dalla tradizione non scritta dei Padri… Lo Spirito Santo è chiamato Spirito di Dio, Spirito di verità che procede dal Padre, Spirito retto, Spirito che guida. Il suo nome più appropriato è Spirito Santo, perché questo nome indica l'essere più incorporale, più immateriale e più esente da composizione. Poiché il Signore alla samaritana persuasa che si dovesse adorare Dio in un luogo, insegnò che l'incorporeo non può essere chiuso da limiti, e le disse: Dio è spirito. Quindi, chi sente dire "Spirito" non può figurarsi una natura limitata, sottoposta a mutamenti e variazioni, oppure simile in tutto a cosa creata". Sono le parole di san Basilio, monaco e vescovo di Cesarea, che nel 375 scriveva il suo trattato Sullo Spirito Santo.

La Scrittura parla con preferenza dello Spirito come "ruah": "soffio", "aria", "spirito", "vento", "respiro"... tutte realtà di cui, per dirla con le parole di Gesù, "si ode il suono, ma non sai da dove viene e dove va" (Gv 3,8); si percepisce, quindi, la sua presenza e la sua forza, ma non sappiamo dire di più, perché egli è avvolto nel mistero della vita di Dio. Il concilio di Costantinopoli nel professare: "E' Signore e dà la vita", cerca di dare corpo all'insegnamento della Sacra Scrittura che pone sempre lo Spirito in relazione alla vita. Il Salmista esplicita il testo della Genesi, quando attesta: "Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera" (Sl 33,6). Lo Spirito, insomma, è il soffio che esce dalla bocca di Dio e che crea ogni cosa dando vita. Il genio di Michelangelo nell'affresco della Cappella Sistina darà forma artistica a questo insegnamento. Il "digitus paternae dexterae" del Veni Creator, è ciò che dà la vita all'uomo e tutto sostiene (cfr. Sl 8,5). E' talmente vero che "se Dio richiamasse a sé il suo spirito e a sé ritraesse il suo soffio, ogni carne morirebbe all'istante e l'uomo ritornerebbe polvere" (Giobbe 34,14). In una parola, lo Spirito è la potenza e la forza di Dio, per suo mezzo tutto viene alla luce e tutto viene portato a compimento.

Lo Spirito Santo, dunque, è protagonista di tutta la storia della salvezza. Ogni qual volta Dio interviene nella storia del suo popolo per liberarlo e per mostrargli il compimento delle sue promesse, è sempre lo Spirito che lo accompagna. E' in forza della sua potenza che vengono vinte le battaglie; alla stessa stregua, è la sua forza che trasforma gli uomini permettendo loro di adempiere la missione ricevuta. E', ancora, lo Spirito che "investe Gedeone" o che "penetra in Sansone" dando loro la forza necessaria per la vittoria. E' sempre lo stesso Spirito che scende sul re, lo incorona e lo protegge perché possa regnare a nome di Dio sul suo popolo: "lo Spirito del Signore si posò sopra David da quel giorno in poi" (1 Sam 16,13).

Sarà soprattutto con i profeti che la sua azione diventerà maggiormente visibile. Il profeta è l'uomo chiamato dallo Spirito di Jhwh per far ascoltare la sua voce nelle situazioni più disparate della storia. Isaia, Geremia, Ezechiele come Amos, Osea e tutti i profeti minori anche se non esplicitamente detto per il timore di fraintendimenti, esprimono la consapevolezza di essere stati chiamati e "rapiti" alla missione profetica dallo Spirito del Signore. Per tutti, vale l'espressione di Ezechiele: "Lo Spirito del Signore venne su di me e mi disse: Parla" (Ez 11,5). Il profeta diventa possesso dello Spirito e "bocca" mediante la quale Dio fa udire la sua voce. E' interessante, in proposito, osservare che alcuni Padri della Chiesa hanno voluto parlare dello Spirito come della "bocca" di Dio. Simeone, il nuovo Teologo, vissuto nel 1022 così scrive nel suo libro di Etica: "La bocca di Dio è lo Spirito Santo e la sua Parola e il Verbo è il suo Figlio, anch'egli Dio. Ma perché lo Spirito è chiamato bocca di Dio e il Figlio Parola e Verbo? Nella stessa maniera nella quale il discorso interiore esca dalla nostra bocca e si rivela agli altri, senza che noi possiamo pronunciarlo o manifestarlo con un altro mezzo che non sia quello della bocca, lo stesso il Figlio e il Verbo di Dio, se non è espresso o rivelato dallo Spirito Santo, come da una bocca, non può essere conosciuto né inteso".

Lo Spirito Santo viene pienamente rivelato da Gesù Cristo. Quasi fosse un'armoniosa sintesi dell'intero vangelo di Luca e di Giovanni, san Gregorio Nazianzeno così scrive: "Cristo nasce e lo Spirito lo precede; è battezzato e lo Spirito lo testimonia; viene messo alla prova e quello lo riconduce in Galilea; compie i miracoli e quello lo accompagna; sale al cielo e lo Spirito gli succede" (Discorsi, xxx, 29). Su Cristo, infatti, lo Spirito riposa in pienezza e ne accompagna tutta l'esistenza. Poiché Gesù possiede in pienezza lo Spirito Santo, lo può donare in abbondanza e senza misura a quanti credono in lui (Gv 7,37-39). La nuova creazione che Gesù compie, attraverso il sacrificio della sua morte e la risurrezione, diventa evidente quando egli, alitando sui discepoli raccolti nel cenacolo, infonde in loro il suo Spirito: "alitò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo" (Gv 20,22). Perché la Chiesa potesse essere forte nel suo annuncio, coerente nella sua vita e capace di portare il perdono e l'amore a tutti, l'effusione dello Spirito Santo a pentecoste segna l'inizio ufficiale della missione dei discepoli di Gesù davanti al mondo.

Lo Spirito Santo è dono del Padre e del Figlio; la sua azione è sempre pienamente trinitaria in una relazionalità che forma la pericoresi perenne del donarsi reciproco, pieno e totale delle tre persone divine. "Egli prenderà del mio e ve lo annunzierà" (Gv 16,14-15). La missione dello Spirito, dunque, è portare a intelligenza ciò che Gesù ha rivelato. La rivelazione dello Spirito non ha un suo contenuto proprio; questa può essere solo ciò che il Logos ha pronunciato avendolo udito presso il Padre. Ma l'intelligenza del mistero non è meno importante del contenuto. Ogni intelligenza è un'azione sempre nuova in cui la Chiesa vede e sperimenta la presenza del suo Signore che non l'ha mai abbandonata e che sempre la segue e accompagna nella storia, fino a quando non avrà raggiunto la verità nella sua pienezza. E' sempre l'insegnamento di Fausto da Riez che consente di recepire questa istanza: "La nostra esistenza sembra essere riferita propriamente al Padre "nel quale" come ha detto l'Apostolo, "viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (At 17,28); invece il nostro essere capaci di ragione, di sapienza e di giustizia è attribuito in particolare a colui che è ragione (logos), sapienza e giustizia, vale a dire al Figlio. Attraverso la Parola di Dio, poi, nella persona dello Spirito Santo sono chiaramente ascritti la nostra chiamata alla rigenerazione, il rinnovamento che ne consegue e la successiva santificazione… Forse, potreste dire: è più grande lo Spirito Santo, le cui opere sono più importanti e più nobili. Non è così… anche se le singole persone compiono qualcosa di proprio, permane nei tre il disegno di insieme" (I,10).

La Chiesa, che era già presente nel gruppo dei discepoli che per tre anni avevano seguito il Signore formando con lui una comunità, nasce in quella effusione dello Spirito che sulla croce era già stata segnata e raffigurata dallo scorrere di sangue e acqua dal costato aperto del crocifisso. Ora, nel giorno di Pentescoste, essa ha la forza di porsi nel mondo come testimone della risurrezione del Signore. E come Gesù aveva inaugurato la sua missione pubblica con la predicazione della conversione e del perdono, così anche la Chiesa ripercorrendo le stesse orme di Cristo, proclama il suo primo discorso richiamando alla conversione e alla fede nel Signore Gesù (At 2,14). La divisione di Babele frutto del peccato, viene distrutta da Pentecoste, riportando l'unità per mezzo dello Spirito. E' lo Spirito che dà forza ai discepoli di aprire le porte sbarrate del cenacolo dove si trovavano "per paura" e immette nella missione evangelizzatrice. Ciò che emerge, tuttavia, in maniera originale tanto da creare una discontinuità con la mentalità e la prassi ebraica, è che in Gesù lo Spirito viene dato a tutti. La visione profetica di Gioele che vedeva nel futuro l'espandersi dello Spirito profetico su tutti i figli e le figlie di Israele si attua e diventa visibile nella comunità dei credenti.

Come lo Spirito aveva accompagnato Gesù, così ora egli accompagna la sua Chiesa. Uno sguardo alle diverse comunità e alla loro vita interna che si struttura progressivamente, mostra la sua azione onnipresente. E' lui che rivela agli apostoli dove andare o non andare (At 16,6-10); è sempre lui che concede a ognuno i carismi necessari per costruire la comunità (1 Cor 12,7); è lo stesso Spirito che dona ai discepoli le parole necessarie per difendersi durante i processi (Lc 12.11-12), ed è lo Spirito del Risorto che permette a Stefano di dare la sua testimonianza suprema (At 7). E' lo stesso Spirito che ispira gli autori sacri a mettere per iscritto i vangeli e gli insegnamenti degli apostoli perché la Chiesa potesse avere nel futuro un riferimento costante per la sua vita; ed è sempre lo stesso Spirito che guida l'incessante trasmettersi di tutto ciò che non è stato scritto, ma che costituisce la fede di sempre e di tutti. E' lo Spirito di verità che non viene mai meno nella storia della Chiesa; questi consente a tutti i credenti di mantenersi intatti in quel "senso della fede" (LG12) che permette ai più semplici di sapere in che cosa consiste la fede e che dà certezza ai suoi Pastori uniti a Pietro di interpretare il vangelo nella verità.

Quanto mai significative, in questo senso, risuonano le parole di uno degli ultimi autori della letteratura romana del III secolo, Novaziano: "Lo Spirito costituisce nella Chiesa i profeti, istruisce i maestri, dispone le lingue, opera i prodigi e le guarigioni, compie azioni meravigliose, concede il discernimento degli spiriti, assegna i posti di comando, suggerisce i consigli, dispone e distribuisce tutti gli altri doni; e così rende perfetta e completa la Chiesa del Signore in ogni luogo e in ogni cosa... Egli rende testimonianza a Cristo negli apostoli, mostra la fede stabile nei martiri, circonda nelle vergini la mirabile castità della carità insigne, negli altri custodisce inalterati e incontaminati i precetti della dottrina del Signore, annienta gli eretici, corregge gli infedeli, smaschera i bugiardi, frena i malvagi, custodisce la Chiesa incorrotta e inviolata nella santità della perpetua verginità e della verità" (La Trinità, 26, 10-26)".

Sulla stessa lunghezza d'onda si muove s. Massimo il Confessore: "Uomini, donne, ragazzi, profondamente divisi in ciò che riguarda la razza, la nazione, la lingua, la classe sociale, il lavoro, la scienza, la dignità, i beni... tutti questi la Chiesa li ricrea nello Spirito. A tutti ugualmente essa imprime una forma divina. Tutti ricevono da essa un'unica natura impossibile a romperla, una natura che non permette più che si tenga ormai conto delle molteplici e profonde differenze che li riguardano. Di qui deriva che tutti siamo uniti in una maniera veramente cattolica. Nella Chiesa, nessuno è separato dalla comunità, tutti si fondano, per così dire, gli uni negli altri, dalla forza indivisibile della fede. Cristo è così tutto in tutti, lui che assume tutto in lui secondo la sua forza infinita e a tutti comunica la sua bontà. Egli è come un centro a cui convergono tutte le linee. Così avviene che le creature di Dio unico, non restino più estranee e nemiche le une per le altre, per mancanza di un luogo comune dove possano manifestare la loro amicizia e la loro pace" (Mystagogia, I). Come si può osservare, attraverso i doni che vengono dati possiamo ricostruire la sublimità di colui che li dona.

Tutta la vita della Chiesa si svolge, fino ai nostri giorni, nell'obbedienza allo Spirito del Signore. L'apostolo ricorda che nella preghiera "noi non sappiamo neppure cosa è conveniente chiedere… lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza e con i suoi gemiti inesprimibili ci permette di rivolgerci a Dio e chiamarlo: Padre" (Rm 8,26 ss). E' soprattutto nella liturgia che la sua opera diventa percepibile in maniera chiara, perché lì egli santifica l'intera comunità cristiana e ogni singolo credente in essa. L'eucaristia, in modo particolare, consente di vedere realizzata l'opera dello Spirito. Essa costituisce come la sintesi di tutta la vita sacramentale perché si ha la vera e reale presenza di Cristo. L'epiclesi, cioè l'invocazione sulle offerte, si conferma come il centro focale in cui riconoscere la sua azione: "Manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo", rimane come l'espressione culminante per vedere concretizzata la missione dello Spirito Santo. Senza di lui, il pane e il vino restano tali, così come l'acqua del battesimo o il crisma della confermazione e gli olii per le unzioni; se egli non è presente, non vi è trasformazione alcuna nel patto di amore tra i coniugi né in quell'uomo disteso a terra in attesa che gli vengano imposte le mani per il sacerdozio; se egli non viene invocato, nessun peccato può essere rimesso a colui che chiede perdono. La grandezza dello Spirito Santo, in tutta l'azione liturgica, si manifesta nell'obbedienza che egli pone alle parole del ministro che lo invoca perché venga a trasformare la materia del sacramento. In qualche modo, è possibile vedere quasi una "kenosi" dello Spirito (H. U. von Balthasar), non solo perché obbedisce alle parole del ministro, ma ancora di più perché si rende visibile nella sua Chiesa anche nella forma dell'Istituzione.

La vita teologale è opera dello Spirito. Dove si crede, spera ed ama là egli opera permettendo di compiere un lento, ma progressivo cammino verso l'identificazione piena del volto che deve ricevere la nostra obbedienza della fede, la certezza della speranza e la passione dell'amore. Con ragione, s. Tommaso poteva sostenere che "omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est" (STh , II, 109, 1 ad 1). I semi del Logos sono piantati in ognuno per l'azione del suo Spirito; la maturazione necessaria che richiede l'attesa per i tempi dello Spirito obbliga alla pazienza e al rispetto, senza intraprendere strade che potrebbero manifestare un pio desiderio umano ma non necessariamente una spinta propulsiva dello Spirito. Questo tema che apre in modo particolare al dialogo interreligioso permette di ribadire l'impegno che il teologo è tenuto ad assumere in sé in quanto soggetto ecclesiale. Lo Spirito "soffia dove vuole" è freschezza di una giovinezza perenne della Sposa che sempre e dovunque è chiamata a seguire le strade dello Spirito. Lui indica le terre e segna i ritmi dei tempi: a lui si deve guardare e lui si deve ascoltare perché possiamo essere ancora segni di una speranza che non è mai venuta meno.

"Sine tuo numine nihil est in homine, nihil est innoxium". Questa visione della fede, lontano dal rendere passiva l'azione del credente, apre alla libera obbedienza che sa fare della testimonianza cristiana il frutto più genuino di un'esistenza vissuta nell' entusiasmo, cioè mossa dallo Spirito che dà vita. (Mons. Rino Fisichella, Vescovo ausiliare di Roma, Rettore della P. U. Lateranense)

 

 

 


 

 

Una testimonianza a favore del cammino neocatecumenale

4 maggio 2008

 

Ho ricevuto da un amico neocatecumenale questa testimonianza che trovo estremamente positiva e la metto volentieri alla portata di tutti: non è mia intenzione infatti “fare da sponda” o “da cassa di risonanza” per una convinzione piuttosto che per un’altra, precludendo la possibilità di ogni ben accetto intervento chiarificatore.

Non è detto che io condivida in toto o in parte quanto esposto dagli autori del servizio, come non è detto che le conclusioni cui essi giungono siano infallibili e di valore universale, o completamente false e tendenziose, anche per lo stile fortemente apologetico e irruente con cui si esprimono.

Le vie del Signore sono infinite: ognuno è libero di scegliere quella che gli è più congeniale per servirlo nella Chiesa (non ci sarebbero infatti le migliaia di congregazioni religiose ognuna con un suo proprio carisma); sarebbe pertanto sciocco negare per partito preso l’aspetto ecclesiale del cammino neocatecumenale: la realtà in sé, le grandi masse, i risultati raggiunti in tutto il mondo, la grande fede e l’entusiasmo di vivere la Parola da parte non soltanto di “sprovveduti” fedeli, ma anche di presbiteri, vescovi, cardinali… Tutto è bello quello che ci conduce a Dio, purché sia fatto nella totale comunione della sua Chiesa: è lui infatti che saprà valutare l’autenticità delle intenzioni di ciascuno.

Ma dire che tutto è roseo e mellifluo per il solo fatto che vescovi, preti e cardinali sono ossequienti nei confronti di Kiko e del suo movimento è un po’ glissare il problema: i rapporti di fraternità e carità, oltre che l’obiettività, impongono infatti un riconoscimento innegabile dei traguardi raggiunti: l’entusiasta cammino spirituale da parte di migliaia di fedeli ne attesta spontaneamente la bontà. Ma, come la storia dei grandi numeri ci insegna, non è sufficiente una adesione plebiscitaria per stabilite tout court la bontà assoluta di un progetto. Ci vogliono anche delle regole portanti chiare e inattaccabili.

Per questo è necessario porsi su un’ottica di più ampio respiro che comprenda tutti gli aspetti del fenomeno. Anche quelli più tecnici, quelli all’apparenza meno chiari e percepibili, quelli che non interessano la base, ma che, lasciando da parte le emozioni del cuore, devono comunque fare i conti con il raziocinio, la disciplina, i dettami del magistero.

Il principio del “volemose bene” è un argomento molto suggestivo, ma non deve andare oltre certi limiti, perché, in un movimento “cattolico”, stile, buon gusto, umiltà, compostezza intellettuale, spiritualità, sincerità, trovano il loro vero coefficiente moltiplicatore solo ed esclusivamente nella piena, indiscussa, tombale obbedienza al rappresentante di Cristo in terra che è il Papa.

Del resto stiamo vivendo un periodo storico in cui sono molteplici le forze centrifughe rispetto all’obbedienza e sottomissione al magistero della Chiesa; forze e movimenti teologali che, più o meno apertamente, si contrappongono criticicamente ad esso, i cui promotori pensano (forse in buona fede?) di essere i veri e unici depositari dell’azione dello Spirito. Ma sicuramente non sarà questo il caso…

Tuttavia, senza arrivare a preconcetti estremismi, al di là di ogni più benevola considerazione, non si può certo negare che nella complessa realtà neocatecumenale esistano aspetti piuttosto singolari, sia a livello dottrinale, liturgico, organizzativo, come pure nei suoi rapporti con la gerarchia ecclesiastica. Capisco che a livello spicciolo, di colui che si affida ad essa per il suo cammino spirituale ricavandone indiscussi riscontri, tutto ciò che avviene in alto assuma un valore molto sbiadito, lontano e opinabile, che non lo tocca più di tanto…

Ma nei confronti della stessa Madre Chiesa, sarebbe comunque errato chiudere gli occhi, negare l’esistenza di tali problematiche e non volerne sentire neppur parlare. E ciò a prescindere da qualunque parte si ponga l’interlocutore, qualunque sia il suo credo e il suo carisma.

Penso infatti che sia stato questo il principio che ha animato lo stesso Mons. Fisichella, rettore della Lateranense e Presidente della Commissione diocesana per l’ecumenismo e il dialogo, quando ha invitato Kiko a parlare nella sua Università. La parola non si nega a nessuno. Il dialogo, franco e senza pregiudizi, svolto nella carità cristiana, è destinato sempre a portare frutti positivi. (Mario  Labio).

 

Ma ecco la testimonianza dell’amico Gino:

«Questa settimana puntiamo l’attenzione, o più precisamente, il ventilatore sul movimento neocatecumenale per spargere con più efficacia il fango su molti fratelli di fede che, da sprovveduti ed ingenui, sono caduti nella rete di un mefistofelico ed astuto Kiko.

Credimi, Mario, la mia ironia è velata da una profonda amarezza per non dire da una penetrante sofferenza.

Conoscendoti, non riesco a capire perché tu ti sia prestato a fare da sponda, o meglio, da cassa di risonanza a chi del Cammino ha una visione particolare, per non usare altre e più pesanti aggettivazioni. 

Trovo particolarmente pertinente l’immagine usata da Papa Benedetto XVI nella Cattedrale di S. Patrizio a New York nel viaggio appena terminato. Invitando a guardare le finestre con vetrate istoriate della Cattedrale di stile Gotico, ha fatto notare che, a chi osserva le vetrate da fuori, queste appaiono insignificanti, illeggibili, scure, senza senso, piuttosto bruttine. Viste dal di dentro invece, soprattutto se attraversate da una tagliente lama di luce, rivelano tutto il loro splendore, la loro vivacità, il loro senso, la vera bellezza. Si fa presto a restare disorientati se si sta ai margini, se non si vive con umiltà ed entusiasmo una esperienza di fede senza pregiudizi, supponenza, occhi poco limpidi.

Bel servizio fa alla Chiesa il Sig. Barile parlando dell’incontro del 28 Marzo sul Monte delle Beatitudini in Terra Santa! I 160 Vescovi e i 9 Cardinali presenti sono stati scelti, nominati dal Papa o da Kiko? Sono o non sono pastori della Chiesa, garanti e custodi della Dottrina, della Tradizione, della Fede anche nelle sue manifestazioni cultuali? Perché ridicolizzare il momento più sacro, dove più  celebranti uniti intorno ad una “tavola” concelebrano, consacrano, rendono presente, in virtù del loro sacerdozio ministeriale, Gesù in mezzo a noi? Eucaristia vuol dire rendimento di grazie, quindi anche manifestazione di gioia per un evento salvifico realizzato con il sacrificio della Croce rivissuto, in forma sacramentale, in ogni Messa. Perché meravigliarsi se al termine di un incontro d’amore con il Salvatore, l’assemblea esplode in canti e danze?

Che stima ha il Sig. Barile di quei 160 Vescovi e 9 Cardinali presenti, dal momento che li considera come un’allegra brigata in vacanza disposti a farsi infinocchiare da una presunta abile regia messa in atto da Kiko e li reputa incapaci di qualsiasi giudizio critico e poco sensibili alle sorti della Chiesa! Infine ho sempre saputo che non c’è Eucaristia senza Chiesa, come non c’è Chiesa senza Eucaristia. Dov’è lo scandalo?

Non mi piacciono le polemiche, mi interessano di più i fatti. Con umiltà e con un certo pudore consentimi di parlare della mia esperienza di fede vissuta nella Chiesa “ una, santa, cattolica, apostolica e… romana “, attraverso la partecipazione e con gli strumenti e i metodi organizzativi proposti dal Movimento Neocatecumenale. Sono ormai quasi dieci anni che con fatica, ma anche con gioia vera partecipo agli incontri con la Parola, vivo le Eucaristie, prendo parte alle “ convivenze” ( una volta e in un altro contesto le chiamavamo “ ritiri”: non ci trovo niente di male nella nuova denominazione). Credimi, mai e poi mai mi è stato presentato il Cammino come l’unica strada per fare una autentica esperienza di fede. Liberi quindi di partecipare, liberi di lasciare in qualsiasi momento per seguire altre vie. Quindi al bando ogni atteggiamento di superiorità per essere uomini “ del Cammino”; non ci sono pose elitarie o di casta. Al contrario, ma questo viene da sé man mano che si va avanti, sentiamo la responsabilità di “dover” essere dei testimoni veri e credibili proprio per il fatto di essere impegnati ed esposti, forse, più di altri.

Ho trovato il Cammino particolarmente esigente. Per i Sacerdoti in primis. Noi li chiamiamo Presbiteri. La Parrocchia sempre aperta, fino a tarda ora. Le prime volte mi chiedevo:”  ma dove sono capitato? “ Mi colpiva quel via vai di giovani e meno giovani per i corridoi della Canonica, quell’entrare ed uscire dalle stanze, l’eco di canti con accompagnamento di strumenti a me sconosciuti, lo scherzare fraterno, amichevole dei Sacerdoti, sempre presenti fino a tarda ora. Il loro presiedere ogni nostra celebrazione; vederli stanchi dopo aver coordinato altri gruppi. Non smettere mai di fare da ponte con altre realtà ecclesiali. Per certi laici.

Noi li chiamiamo catechisti. Non è vero che prevaricano il Presbitero nel compito che è proprio

del Sacerdote fare, cioè, le omelie. Collaborano invece per tenere in piedi un apparato organizzativo fatto di numerosi incontri, introducono momenti di preghiera e di riflessione, li trovo encomiabili per lo spirito di dedizione e di sacrifico. Da buoni padri e madri di famiglia, a volte, raccolgono anche problematiche delle coppie più giovani e, forti della loro esperienza, ho potuto constatare che sono abili guide. Non ti nascondo che, a volte, anche spesso, la prolissità dei loro interventi suscita una reazione di rigetto, ma la passione che mettono, l’amore che traspare fa perdonare ogni caduta oratoria. Presbiteri, catechisti. Infine per noi, piccola comunità. Sono previsti due incontri settimanali, in orari serali; preparazioni in piccoli gruppi nelle famiglie, nelle nostre case. E’ proprio questo modulo organizzativo che mi ha consentito di riavvicinarmi alla Parola, alla Eucaristia, tout court alla vita della Chiesa. Impegnato tutto il giorno in attività lavorativa, ti confesso che non vedo l’ora di arrivare alle 21 del Mercoledì per nutrirmi della Parola di Dio. Non pensare che ciò avvenga senza fatica: anche a me piace stare con la famiglia e sprofondare in una poltrona. Ma il richiamo della Parola mette le ali. Quello che succede a me, succede ad altri 35 giovani  e meno giovani della mia Comunità.

Quel condividere il pane della Parola, vedere la Parola incarnata nelle nostre vite, rendere gli altri partecipi delle nostre esperienze di vita, delle difficoltà, dei risultati raggiunti, insomma vedere che la nostra vita, pur con le sue ombre, è sotto il cono di luce della lampada di Cristo sostiene nell’affrontare ostacoli  ed alimenta la speranza. Non credere che tutte le sere siamo al completo. Anzi, tutt’altro. Ma quell’incontrarsi nelle serate successive e riconoscere  che il digiuno della Parola si è fatto sentire durante la settimana  è un ammettere l’importanza di quel Pane.

Ti voglio infine mettere a parte di quello che ho scoperto nel Cammino. Tu, altri l’avrete scoperto in altre esperienze di vita ecclesiale. Il Cristianesimo non è, o meglio non è per me solo un insieme di norme, dogmi, precetti, ma è soprattutto possibilità di incontrare una Persona vera reale, con la quale mi posso relazionare, che posso conoscere, che posso fare entrare nella mia vita, amarLa. Da qui nasce il desiderio di incontrarlo nella Parola e viverlo nella Eucaristia: Gesù, il Dio vicino.

A chi giovano quelle polemiche, quelle parole piene di veleno che sembrano appartenere più a chi fa  giornalismo scandalistico? Dolcezza e rispetto se vanno usati per gli estranei, tanto più vanno usati per i fratelli di fede.»

Dire che tutto è roseo e mellifluo per il solo fatto che vescovi, preti e cardinali sono ossequienti nei confronti di Kiko e del suo movimento è un po’ glissare il problema: i rapporti di fraternità e carità, impongono infatti un riconoscimento innegabile degli obiettivi raggiunti: il cammino spirituale entusiasta da parte di migliaia di fedeli ne attesta la bontà. Ma, come la storia dei grandi numeri ci insegna, non è sufficiente. Bisogna porsi su un’ottica di più ampio respiro che coinvolga tutti gli aspetti del fenomeno.

 

 

 


 

 

La problematica delle unioni di fatto e la chiesa

11 maggio 2008

 

 

L’esistenza, accanto alle coppie sposate, delle unioni di fatto non è una questione di oggi perché sempre sono esistite e, prima che la forma matrimoniale si imponesse per tutti, il loro numero era molto elevato soprattutto per le classi più povere. L’elemento nuovo è che oggi non si tratta solo di un «fatto» riscontrabile nella società, ma da più parti si auspica il loro riconoscimento giuridico e il diritto delle unioni di fatto di esistere a tutti gli effetti accanto alla famiglia fondata sul matrimonio.

In questa monografia altri interventi hanno affrontato l’aspetto sociologico per capire chi sono e cosa desiderano queste coppie, e altri hanno discusso l’aspetto più problematico che è quello giuridico; a noi la consegna di tematizzare l’aspetto culturale, etico, ecclesiale e pastorale del problema. Sono facce diverse ma tutte collegate tra loro e dipendenti l’una dall’altra.

1. Gli aspetti culturali

Dal punto di vista storico, ricorda Giorgio Campanini, dobbiamo ricordare che in passato, specialmente nell’età medievale e moderna, la prospettiva del matrimonio era assai meno marcata di oggi [1]. Per motivi economici o per la scelta di professioni ritenute incompatibili col matrimonio, molta parte della popolazione sceglieva la strada della convivenza e questo non costituiva un grande scandalo benché venissero chiamati illegittimi i figli nati fuori del matrimonio. Successivamente, nel contesto della cultura romantica col suo sogno di far coincidere sentimento e istituzione, l’ideale proclamato e in parte praticato, è stato quello di ricondurre al matrimonio tutti o quasi i legami affettivi. Ma negli ultimi decenni del XX sec. questo sogno romantico è finito. Gli scenari futuri molto probabilmente potrebbero portarci a prendere atto del passaggio da una scelta matrimoniale generalizzata a un’opzione per il matrimonio più selettiva e in qualche modo più elitaria [2].

Cosa chiedono allo stato le coppie di fatto? Chiedono riconoscimenti per l’assistenza reciproca, diritti successori, reversibilità del trattamento previdenziale, possibilità di subentrare al partner nel contratto di locazione. Tutto questo è in parte già riconosciuto da anni in coerenza con l’art. 2 della nostra Costituzione che tutela i diritti della persona come singolo e nelle «formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». La richiesta è che si passi dal riconoscimento dei diritti delle «persone» che convivono al riconoscimento della «coppia» che convive. Perché allora non si sposano? La risposta a questa domanda ci chiede di mettere in evidenza l’aspetto culturale della questione.

Riccardo Prandini intravede due cause: a) queste coppie si concepiscono come fortemente individualizzate e autonome; hanno interiorizzato la visione individualistica propria della nostra società e cercano una relazione segnata da autonomia e libertà personale; b) molte di esse considerano il matrimonio come un’istituzione vuota e superata e collocano la loro relazione non come alternativa a essa bensì come realtà evolutiva rispetto al matrimonio stesso [3]. Questa tesi è stata fatta propria da molti altri sociologi come la francese Irène Théry, che vede in queste nuove forme di relazione il segno di un’evoluzione della struttura e del modo di essere famiglia. A monte c’è il superamento della visione sacrale del legame iniziata con l’introduzione del matrimonio civile e del divorzio. La Théry parla di un lungo cammino di démariage che caratterizza da molto tempo l’Occidente e anche il diritto di famiglia [4]. Sul fatto che ci sia stata un’evoluzione nel modo di vivere la relazione coniugale e la famiglia non si può non concordare. Anche una veloce rilettura del percorso del diritto di famiglia in Italia mostra questo:

a) il Codice civile del 1865 guardava all’istituto familiare come a un organismo fortemente unitario con il capo famiglia e una rigida demarcazione tra famiglia legittima e filiazione naturale;

b) con la Costituzione repubblicana entrano i famosi art. 29 e 30: la famiglia è società naturale fondata sul matrimonio, c’è uguaglianza morale e giuridica dei coniugi e vengono tutelati i figli nati fuori del matrimonio;

c) nel 1961 viene affrontata la questione dell’adulterio togliendogli la qualità di reato;

d) nel 1969 viene cancellato anche il reato della relazione concubinaria;

e) nel 1970 entra in vigore la legge sul divorzio e nel 1987 il tempo tra separazione e divorzio viene abbassato a tre anni;

f) con la riforma del 1975 abbiamo l’assoluta parità nei diritti e doveri tra i coniugi; l’indirizzo della famiglia va deciso insieme; c’è una nuova regolamentazione per i beni; la potestà sui figli è di entrambi; i figli hanno tutti lo stesso trattamento [5].

Questo veloce percorso ci porta a considerare i cambiamenti in atto non con lo sguardo di chi vede attorno a sé solo una lenta e inesorabile morte del matrimonio e della famiglia, ma a riconoscere che le relazioni amorose tra uomo e donna e il modo di realizzarle a livello istituzionale hanno avuto tanti cambiamenti e potremmo guardare al momento presente come a una tappa di questa evoluzione. Questo non significa che si debba rimanere inermi e subire i cambiamenti, è compito dell’uomo vigilare, accompagnare e anche esprimere un giudizio sul cambiamento in atto.

Ci chiediamo ora cosa ha provocato questa difficoltà nei confronti dell’istituzione matrimoniale e la ricerca di nuove forme del vivere in coppia. Le cause vanno cercate nella nostra cultura che lentamente ma inesorabilmente plasma la coscienza e le scelte di molte persone. Proviamo solo ad accennare ad alcuni percorsi che meriterebbero ben più approfondite riflessioni.

a) C’è anzitutto un’evidente crisi delle istituzioni in generale. L’uomo di oggi, figlio dell’illuminismo, rivendica con forza la sua autonomia rispetto a ogni istituzione di cui fa fatica a capire il ruolo positivo. È un’autonomia anche dalla legge morale e da quella civile che non va oltre il ruolo di strumento utile per una convivenza sociale capace di far convivere il pluralismo. Lo stato diventa sempre più il notaio delle scelte individuali. La legalizzazione del divorzio e dell’aborto sono il frutto più evidente di questa nuova mentalità.

b) La fatica di compiere scelte definitive è sotto gli occhi di tutti e riguarda la vita consacrata come il matrimonio e la decisione di aprirsi alla vita. Non è solo questione di un certo «egoismo», come spesso si afferma semplificando la questione, ma la conseguenza di un contesto sociale che ha generato una cultura della provvisorietà riguardante ogni ambito della vita. Ciò che fa problema è che una relazione possa essere per sempre, irreversibile e che non sia contemplato che possa finire o per un errore di valutazione o per il logorio della relazione stessa. In questo caso l’individuo viene prima della coppia, i diritti personali prima dei doveri verso l’altro e verso il patto.

c) Le convivenze aumentano proprio oggi nel tempo in cui i due partner godono un’autonomia economica e possono camminare ciascuno con le proprie gambe. Il matrimonio in passato era anche una forma di protezione della donna che dipendeva economicamente dal marito. L’istituzione doveva fornire due certezze: la paternità, cioè dare a un figlio un padre certo, e dare sicurezza alla donna e al figlio. Oggi tutto questo ha perso rilevanza, perché l’uomo e la donna possono camminare con le loro gambe anche se termina il legame; il matrimonio deve cercare altrove le ragioni del proprio esistere.

d) Ci possono essere anche motivazioni pratiche a monte della scelta di convivere: i tempi lunghi dell’università, le difficoltà economiche, la fatica di trovare un impiego. Per trovare un lavoro, molte volte si tace il desiderio di sposarsi e perfino lo si rinvia per timore che questo chiuda alla possibilità di essere assunti. Tutto questo favorisce la scelta di un legame più leggero e privato, in attesa di poter fare il salto del matrimonio.

e) Un peso non indifferente ha avuto il venir meno del legame stretto tra matrimonio, sessualità e fecondità. Ricordiamo quel processo che dal romanticismo in poi ha riscoperto l’amore come sentimento e passione e il piacere come parte integrante di esso. Non possiamo negare che una sessualità, vissuta precocemente e a prescindere dalle responsabilità verso l’altro e verso la fecondità, abbia modificato anche il modo di sentire e vivere il matrimonio e in generale i rapporti affettivi. La sessualità è vissuta in se stessa a prescindere dal legame; il matrimonio è una scelta successiva e autonoma, e la fecondità è anch’essa un altro mondo sganciato dai primi due. Il matrimonio appare così soprattutto il luogo delle scelte, delle responsabilità, dei diritti e doveri; altre forme di vita di coppia contengono tutto quello che viene prima e a prescindere da questo.

f) In Italia una certa fuga dalle responsabilità legate al matrimonio, o almeno la loro posticipazione, è favorita anche da quel «familismo» che fa rimanere in casa i figli per molti anni. Abbiamo così quel fenomeno che è stato definito «convivenza all’italiana»: i due rimangono ciascuno a casa propria ma di fatto vivono in molte occasioni una vita matrimoniale. Cosa aggiungerebbe il matrimonio a questo stile di vita? Purtroppo l’impressione è che il matrimonio porti solo responsabilità, impegni e anche problemi, molti dei quali erano prima risolti dalla presenza concreta delle famiglie d’origine. Paradossalmente verrebbe da dire che proprio la particolare situazione italiana porta a guardare alle persone che scelgono la convivenza come a persone che fanno una scelta, si assumono delle responsabilità, operano uno stacco dalle famiglie di origine, rendendo visibile ciò che altri vivono in modo nascosto ma non molto diverso. Va tuttavia ricordato che molto spesso queste convivenze rimangono una specie di penisola rispetto alle famiglie di origine, con cui si mantiene un legame forte a livello di sostegno economico e anche pratico.

g) A livello di mentalità comune ha un suo peso il clima di tolleranza, benevolenza e comprensione per queste scelte in nome del pluralismo e del rispetto dell’altro. Nessuno più si scandalizza del fatto che due giovani vadano a convivere. Anche i genitori più fermi su certe idee si arrendono di fronte a questo, affermando che il mondo è cambiato e bisogna prenderne atto, oppure trovano una giustificazione nella speranza che almeno sia una prova della solidità o meno della relazione. L’impressione che molti adulti abbiano rinunciato a ogni intervento educativo su questo ambito è molto fondata.

h) Scavando più in profondità non possiamo non dire una parola sulla questione del gender, che il magistero della chiesa definisce ideologia che mira a una «graduale destrutturazione culturale e umana dell’istituzione matrimoniale» [6]. Solitamente si distingue l’identità sessuale, che chiama in gioco la differenza tra maschio e femmina con i suoi dati biologici e psicologici, dall’identità di genere, più legata alla coscienza sociale e culturale del proprio ruolo sessuale. Identità sessuale e di genere si completano e accompagnano l’acquisizione dell’identità di una persona. La teoria del gender tende a eliminare l’identità sessuale o a ridurla all’aspetto culturale dell’identità di genere. Mentre i sessi sono due, maschile e femminile, i generi possono essere molti e la persona li può scegliere come possibili modi di essere e di vivere la propria sessualità. L’omosessualità e la transessualità, secondo queste teoria, non sarebbero che varianti culturali come l’eterosessualità. Questa teoria apre così la strada a un nuovo modo di guardare l’omosessualità ipotizzando anche per essa percorsi simili a quelli matrimoniali.

2. Gli aspetti etici

Parlare di etica è mettere a tema l’esperienza del bene e del male morale, nella sua realtà oggettiva e nel proprio coinvolgimento soggettivo; «bonum est faciendum», afferma la morale ricordando lo specifico del bene morale che non è realtà da contemplare ma da realizzare. Possiamo ricondurre gli aspetti etici relativi alle unioni di fatto a due questioni: la prima riguarda il bene della persona e della relazione d’amore nelle polarità di logos e pathos, esperienza e impegno, amore e giustizia; la seconda riguarda il bene comune e quindi il rapporto tra morale e diritto nello stato pluralista.

a) Il bene della persona e della relazione

Il primo livello della riflessione etica ci chiede in sostanza di mettere al centro la persona e la coppia recuperando tutti gli aspetti dell’amore e della relazione, che è sentimento ma anche intelligenza e volontà; è esperienza ma anche decisione e scelta. Alla luce di una visione dell’uomo, dell’amore e della relazione amorosa è possibile individuare quel «bonum est faciendum» che apre a scelte morali responsabili.

La nostra cultura ha ereditato dall’illuminismo il volto di una ragione fredda, calcolante, impersonale, e dal romanticismo i tratti di un amore fatto di sentimento e di passione. Invece di trovare un incontro tra le due polarità, la nostra cultura ha assorbito entrambe arrivando a una sorta di sdoppiamento schizofrenico: nelle «relazioni corte», familiari e amicali in particolare, l’uomo si affida al principio insindacabile della gratificazione emozionale; nelle «relazioni lunghe», sul lavoro, nella politica, nell’economia, con gli stranieri, conta la logica del calcolo razionale dei costi e benefici. Il razionale tende così a diventare sempre più strumentale e l’affettivo sempre più emotivo.

– Un primo elemento che fa la differenza tra la scelta della convivenza e quella del matrimonio è legato proprio alla fatica di mettere insieme logos e pathos, ragione e sentimento. Nel matrimonio c’è qualcosa che va oltre l’attrazione sessuale e l’incanto iniziale, perché le persone decidono di sé decidendo del senso della loro relazione. Si tratta di un decidere dell’altro e con l’altro in una reciproca consegna. Nel promettersi reciproca fedeltà per sempre, i due sono consapevoli che volere di meno significherebbe tradire la profondità della relazione, e questo volere è condizione di possibilità della relazione. Il matrimonio è anche il luogo dove il dono di sé si esprime nella sua pienezza e dove la realizzazione di ciascuno dei due passa attraverso il dono di sé all’altro. All’inizio questo è percepito come una grazia e sembra facile e perfino ovvio; successivamente l’altro è percepito anche come limite, perché si affaccia l’inevitabilità della rinuncia ad alcune proprie aspettative e possibilità di realizzazione. Infine si tratta di decidere se si vuole scegliere il dono di sé, che non può che essere reciproco, anche se i modi di esprimerlo possono essere diversi. In questo senso ci sembrano insufficienti le visioni della relazione che mettono al centro la realizzazione di se stessi, sia perché chiudono la persona nel proprio bisogno, sia perché strumentalizzano l’altro. Questa prospettiva sottopone sempre l’altro e la relazione a vari esami ed è facile che molti finiscano male perché l’altro non risponde sempre a tutte le mie attese. Amare è consegnarsi a un altro, percepito come un unicum. Il solo modo per riconoscere l’unicità dell’altro è impegnarsi con lui in una relazione unica che non faccia numero con nessun altro. Dire relazione unica non è dire relazione totalizzante, ma centrale, prioritaria, senza equivalenti, insostituibile: questo è il matrimonio [7]. La scelta della convivenza contiene certamente nelle intenzioni delle persone il sogno di una relazione autentica, creativa, capace di rinnovarsi ogni giorno, ma contiene anche le tracce di quell’individualismo che caratterizza la nostra cultura. Si sta insieme finché va bene, finché dura, finché il pathos-emozione è forte evitando ogni impegno definitivo e irrevocabile. La polarità del sentimento prende il sopravvento sul logos inteso come accoglienza, dono, impegno.

– Un secondo elemento emerge dalla polarità tra esperienza e impegno. Molte delle coppie che scelgono la convivenza vogliono sperimentare la vita matrimoniale. L’intenzione è buona e il fidanzamento dovrebbe essere proprio un tirocinio per verificare l’intesa e la possibilità di futuro della coppia. Ma questo non sembra sufficiente, nonostante oggi i fidanzamenti siano lunghissimi. Si vuole «provare» la vita coniugale, ma, dobbiamo dirlo con chiarezza, la convivenza rimane qualcosa di diverso dal matrimonio. Si può provare una persona come si prova un lavoro o un paio di scarpe? Si può accettare che una persona debba essere vagliata, per vedere se corrisponde alle mie attese? Ci si mette insieme per amare e donarsi all’altro o per verificare se l’altro corrisponde alle mie attese? Si può sperimentare veramente la vita di coppia? Certamente si può provare a vivere la quotidianità, la sessualità, la gestione della casa; ma si può provare tutto? Per avere delle certezze si dovrebbe provare anche ad avere un figlio, provare l’esperienza del dolore, sperimentare diverse tipologie di crisi, provare l’amore a 40/50 anni. Chi convive per provare sa che è un esperimento, e questo, inevitabilmente, condiziona fortemente. Amare rimane un rischio; se Abramo avesse voluto provare tutto, non sarebbe mai partito; lo stesso gli apostoli, o una coppia che vuole un figlio. Se in positivo notiamo la consapevolezza che la vita insieme è una sfida esigente e che bisogna prepararsi bene, va ben compreso il termine «esperienza» che rischia di illudere le coppie più che aiutarle a verificare e solidificare il loro legame. Le statistiche dicono che le coppie che convivono non durano più di quelle che vivono un normale fidanzamento. Ci sono coppie che convivono, si sposano e dopo pochi mesi si lasciano, a testimonianza che il matrimonio è un’altra cosa. Va detto, inoltre, che vivere insieme in un momento in cui la relazione è ancora fragile e la fiducia ancora in cammino, può essere deleterio e controproducente. Un cibo solido può far male se non abbiamo i denti buoni, ma non è colpa del cibo (la vita insieme), bensì dei nostri denti ancora immaturi; il rischio è di rovinare qualcosa che potrebbe essere invece bello e promettente.

– Una terza polarità è quella tra amore e giustizia. Amare, dicevamo, non è solo provare dei sentimenti intensi verso un’altra persona, ma accoglienza e dono, impegno e fedeltà, sia quando la relazione va bene e regala tante gratificazioni a entrambi, sia quando si fa più faticosa e impegnativa. In quei momenti il legame istituzionale aiuta, sostiene, difende la relazione e l’amore dalle debolezze e fragilità delle persone, dalle prove interne alla coppia e da quelle provenienti dall’esterno. L’amore chiede la giustizia, la esige come parte integrante e condizione stessa di possibilità di un vero amore. La scelta del matrimonio è anche la decisione di inserire nella dinamica della giustizia il proprio sentimento amoroso, perché le fondamenta su cui può svilupparsi siano l’accoglienza dell’altro per com’è oggi e anche nel suo cambiamento. È una scelta che implica la protezione della relazione dalle fatiche e dalle tentazioni di lasciar morire un rapporto diventato faticoso e poco gratificante. Anche lo stato dovrebbe fare i conti col principio di giustizia che esige di non trattare in modo uguale realtà che sono diverse per l’impegno assunto e per il contributo che dà alla società. Non c’è nessuna discriminazione nel trattare diversamente il matrimonio e le unioni di fatto perché sono due realtà diverse.

b) Il bene comune

Il secondo livello della riflessione etica riguarda il rapporto tra la morale e il diritto che va letto alla luce del concetto di bene comune. Il matrimonio e la famiglia fanno parte non solo di una concezione della persona e delle relazioni che provocano la responsabilità morale dei soggetti, ma chiamano in gioco anche il bene comune, il quale implica la responsabilità dello stato che di questo bene è responsabile. Se il bene comune è «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» [8], la famiglia rientra a pieno titolo in questa definizione. Nella Lettera alle famiglie, in occasione dell’anno internazionale della famiglia, Giovanni Paolo II ha parlato della famiglia come di un’istituzione fondamentale per la società: «Nessuna società umana può correre il rischio del permissivismo in questioni di fondo concernenti l’essenza del matrimonio e della famiglia». La famiglia è una «società sovrana» titolare di diritti e doveri che chiamano lo stato a intervenire alla luce del principio di sussidiarietà [9].

Queste affermazioni giustificano il riconoscimento che la Costituzione italiana ha dato alla famiglia fondata sul matrimonio. Sulla centralità di questa istituzione c’è ancora un forte consenso in Italia e nessuno vuole mettere in discussione questo modello. Il diritto non può e non vuole garantire un sentimento, ma protegge il matrimonio e la famiglia per la sua rilevante funzione sociale. La decisione di una coppia di formare un’unione stabile, duratura e potenzialmente feconda rappresenta per il diritto qualcosa di talmente importante da far sì che a essa venga garantita la massima tutela possibile [10]. La questione allora è quella del riconoscimento di eventuali diritti ad altre realtà come le unioni di fatto. Le domande sono molteplici: se e come questo sia possibile all’interno della continua ricerca del bene comune; quale impatto questo riconoscimento potrebbe avere nei confronti del modello affermato e protetto dalla Costituzione.

Nella ricerca del bene comune lo stato non può ignorare l’esistenza delle unioni di fatto. Il bene comune non è la «somma» dei beni individuali o dei gruppi sociali; se fosse così, qualora togliessimo un fattore (in questo caso ignorando le unioni di fatto), il risultato sarebbe sempre positivo anzi potrebbe essere perfino maggiore. Il bene comune è il «prodotto» di una moltiplicazione i cui fattori sono i beni dei singoli o dei gruppi; togliere un fattore significherebbe azzerare l’intero prodotto. Questo significa che occuparsi del bene comune significa anche affrontare la questione delle unioni di fatto. Il confronto che si svolge oggi a livello politico e giuridico è tra due posizioni:

– Alcuni affermano che il diritto dovrebbe garantire, in modo neutrale, che ogni singolo soggetto possa fare la sua scelta in un contesto pluralista. Il diritto avrebbe il compito, nel caso delle unioni di fatto, di configurare più alternative senza prendere posizioni a favore di un modello ma limitandosi a registrarlo.

– A questa visione viene opposta un’altra concezione secondo la quale il diritto, sebbene distinto dalla morale, avrebbe una sua «moralità», quella della coesistenza, della convivenza civile, della socialità e della giustizia. Esso non intende limitare la libertà ma incarnarla, consentendo a essa di realizzarsi compiutamente nella relazione amorosa durevole e nell’apertura alla vita. Il diritto, quindi, dovrebbe proteggere e tutelare quella forma di relazione che è società naturale e che tende a durare nel tempo. Ciò che avviene nelle coppie di fatto – si dice – è certamente importante a livello personale ma non interessa al diritto, che tuttavia ne prende atto e tutela i diritti dei singoli (secondo il dettame dell’art. 2 della Costituzione), ma senza andare oltre [11].

Il card. Carlo Maria Martini ha sviluppato alcune riflessioni che ci possono aiutare a trovare una sintesi che coinvolge l’aspetto morale e quello giuridico proprio all’interno di quella ricerca del bene comune che è compito dello stato [12]. La Costituzione – afferma Martini – riconosce e tutela la famiglia fondata sul matrimonio, cioè su un rapporto duraturo e aperto alla vita. Anche nei confronti di altre forme di legame esiste un favor familiare che porta a escludere scelte omologanti. Ma il legislatore non può non tener conto delle trasformazioni culturali e del costume della società, egli è chiamato a un «approccio pragmatico e solidarista». Mentre la famiglia fondata sul matrimonio ha un ruolo pubblico, sociale e civile che le coppie di fatto non hanno e che va premiato dal legislatore, le unioni di fatto potranno anche esprimere legami affettivi più profondi, ma nel momento in cui chiedono un riconoscimento pubblico, devono sottoporsi anch’esse al giudizio circa la loro rilevanza sociale e civile in riferimento al bene comune. Si tratterà allora di valutare, caso per caso di fronte a problemi concreti (alloggio, assistenza, successioni…), quando far prevalere le ragioni della differenza e quando quelle dell’analogia tra le due realtà.

A livello concreto e dato per assodato che non si può mettere in discussione il principio che afferma la differenza tra matrimonio e unione di fatto, la questione diventa di mediazione giuridica per decidere quali diritti e in che modo riconoscerli alle persone che hanno scelto un’unione di fatto. Crediamo sia importante la distinzione tra il principio di non equiparazione, che rientra in quei «valori non negoziabili» che chiedono di essere difesi, e il piano delle norme giuridiche che cercano di rispondere a un fatto [13]. È chiaro che la discussione su questo secondo piano non potrà che essere vivace, come di fatto lo è, perché nessuna legge dello stato è neutra ma crea mentalità e costume. In termini morali va richiamato anche l’argomento del «cedimento della diga», in base al quale una falla anche piccola potrebbe a lungo andare favorire ulteriori forme di delegittimazione del matrimonio e quindi del principio che si dovrebbe difendere. Lo stesso magistero della chiesa si è più volte espresso anche per quanto riguarda il livello delle mediazioni giuridiche, ritenendo che possa essere perseguita la strada del diritto civile per riparare eventuali ingiustizie che ci fossero verso le persone che convivono.

Nel sostenere la famiglia fondata sul matrimonio, lo stato non discrimina nessuno, né demonizza o penalizza le coppie di fatto, ma esprime il suo dovere di promuovere la famiglia, proteggere la maternità, l’infanzia e i diritti dei figli come parte integrante del bene comune. Come non riconoscere che dietro la realtà delle famiglie di fatto c’è anche una cultura individualistica che, se valorizza la persona, indebolisce la rilevanza sociale della famiglia? Martini conclude così:

Una società non può non stabilire una graduatoria di rilevanza tra varie istituzioni che si richiamano a modelli familiari, sulla base delle funzioni sociali che svolgono, della natura relazionale che presentano e della forza esemplare che esercitano.

3. Gli aspetti pastorali

La chiesa si trova, ancora una volta, a confrontarsi e scontrarsi con la società pluralista. Non è un fatto nuovo, già è successo in occasione del divorzio, dell’aborto, della procreazione artificiale. Meno duri sono stati i confronti sui temi sociali, se si esclude il caso della guerra con gli interventi di Giovanni Paolo II.

Dobbiamo subito dire che il magistero della chiesa non ha la presunzione di imporre la sua visione alla società pluralista. A monte dei suoi interventi c’è una precisa consapevolezza che giustifica il suo intervenire: la chiesa si sente depositaria di una visione della vita, dell’amore, del matrimonio che le proviene sì dalla rivelazione, ma che non viene ritenuta, per questo, di parte, bensì viene riconosciuta come portatrice di una prospettiva umana e razionale, fondata sulla natura dell’uomo che la chiesa sente di dover difendere e promuovere. Il caso più eclatante e più semplice per comprendere questa prospettiva è stato quello dell’aborto: in quell’occasione la chiesa non intendeva difendere una visione confessionale, ma un bene fondamentale con argomentazioni razionali. Più difficile è applicare questo schema al tema delle unioni di fatto, perché la distinzione tra ciò che è umanamente e razionalmente universale non appare subito evidente.

Il magistero della chiesa ha ripetuto più volte che la questione delle unioni di fatto va affrontata da un punto di vista razionale, con quella recta ratio che chiede di analizzare, distinguere e giudicare. Non si tratta di difendere una realtà cristiana, ma prima di tutto quella realtà naturale, il patto d’amore, che Cristo ha assunto per farla diventare sacramento [14].

a) La posizione «ferma» della chiesa

Il concilio Vaticano II apriva la sua riflessione sulla famiglia affermando che «la salvezza della persona e della società umana e cristiana è strettamente connessa con una felice situazione della comunità coniugale e familiare» [15]. Il termine salvezza, in latino salus, si riferisce non primariamente alla salvezza cristiana ma alla possibilità di una vita buona e serena. La famiglia fondata sul matrimonio, cioè sul vincolo, la scelta, la responsabilità, la durata, è un bene fondamentale per le persone e anche per la società.

La provocazione che viene dalle unioni di fatto chiede di «ridefinire» l’identità propria della famiglia fondata sul matrimonio in un contesto che sembra non comprendere più quella che fino a ieri era una «evidenza etica». La chiesa afferma che la famiglia non è creazione del potere pubblico, ma istituzione originaria che precede lo stato chiamato a riconoscerla e tutelarla; essa comporta quella stabilità del rapporto che sa coniugare amore e giustizia per i due coniugi e per il bene dei figli; proprio il bene della procreazione e dell’educazione di coloro che meritano il massimo di tutela chiede un rapporto stabile della coppia genitoriale. Il matrimonio, inoltre, salvaguarda l’uguaglianza della donna e dell’uomo e il carattere complementare della loro sessualità; sostiene e protegge un comune progetto di vita consegnando all’altro la facoltà di esigere ciò che a sua volta si impegna a donare; radica il sentimento sulla decisione facendo dell’amore un vero atto umano.

Il matrimonio (…) non è un «modo di vivere la sessualità in coppia» (…), non è neanche la semplice espressione di un amore sentimentale tra due persone (…). Il matrimonio è unione tra un uomo e una donna, in quanto tali, nella totalità del loro essere maschile e femminile. Se questa unione può essere stabilita soltanto mediante un atto di libera volontà dei contraenti, il suo contenuto specifico è determinato dalla struttura dell’essere umano, donna e uomo, e cioè donazione reciproca e trasmissione della vita [16].

Dentro questo quadro, la chiesa richiama anche i politici e in particolare i cristiani impegnati in politica a promuovere vere politiche familiari e insieme a proteggere anche con leggi adeguate questa istituzione in nome del bene comune [17].

La comunità cristiana non può non prendere atto che la questione del riconoscimento delle unioni di fatto non piomba addosso alla società dall’alto, ma trova dentro la cultura e i nuovi stili di vita delle persone il suo centro propulsore. Questo vuol dire che, al di là di come sarà risolto l’aspetto giuridico delle unioni di fatto, la comunità cristiana è chiamata a interrogarsi a livello antropologico, etico, educativo e pastorale. La chiesa non può pretendere che lo stato diventi garante di alcuni valori che non sono più evidenti e che lei stessa fa fatica a difendere e a promuovere all’interno della società e tra gli stessi cristiani. È chiamata, invece, a interrogarsi sulla sua azione evangelizzatrice nei confronti dell’amore coniugale, del matrimonio e della famiglia. Anche se lo stato, per la scelta di una certa maggioranza, dovesse rimandare un riconoscimento giuridico delle unioni di fatto, la chiesa non può sentirsi a posto. La situazione italiana, dobbiamo dirlo con chiarezza, va verso gli standard europei e quindi c’è da aspettarsi che il futuro sarà sempre più abitato da questi fenomeni. Non sarà un momentaneo rifiuto a legiferare su questi temi a frenare tale fenomeno. Questa consapevolezza è comunque ben presente anche negli interventi del magistero:

Sembrerebbe che, spesso, non si sappia quale risposta dare a questo fenomeno e che la reazione sia puramente difensiva, rischiando così di dare l’impressione che la chiesa voglia semplicemente mantenere lo status quo, come se la famiglia fondata sul matrimonio fosse il modello culturale (un modello «tradizionale») della chiesa, che si vuole conservare malgrado le grandi mutazioni della nostra epoca [18].

Il decimo rapporto sulla famiglia in Italia ha messo a tema proprio il «riconoscimento» della famiglia, invitando a un atteggiamento che non sia solo di difesa di un modello prefissato, ma abbia il coraggio di ridire oggi tutte le ragioni per credere e investire sulla famiglia a motivo del suo «valore aggiunto» rispetto ad altre forme [19]. La famiglia non è solo un vincolo del passato da mantenere, ma un «bene futuro». Afferma Pierpaolo Donati:

Il valore aggiunto della famiglia sta nell’offrire un modello fiduciario di vita che genera capitale sociale primario, mentre nelle altre forme di convivenza il valore aggiunto è quello di un modello negoziale di vita che, enfatizzando la ricerca dell’autorealizzazione individuale, tende piuttosto a consumare il capitale sociale [20].

La questione delle convivenze e delle unioni di fatto si presenta come un segno che provoca la comunità cristiana. Si tratta di iniziare una vera e propria nuova «inculturazione» che deve attivare le migliori energie della chiesa così com’è avvenuto nei primi secoli. Non ha altri mezzi, la chiesa, che la parola, l’annuncio del vangelo, la quotidiana azione educativa all’interno della famiglia, nella parrocchia, nelle associazioni e movimenti. Non ha altri mezzi che la testimonianza di coppie di sposi capaci di mostrare la bellezza e credibilità del matrimonio come patto, dedizione all’altro, amore indissolubile e fedele. Sono due soprattutto i fronti dell’impegno ecclesiale che vorremmo mettere in evidenza: il tema dell’amore e il valore dell’istituzione. A partire da questi crediamo che la comunità cristiana debba affrontare oggi una nuova forma di quella «durezza del cuore» che Gesù aveva rinfacciato alla legge mosaica e che oggi riemerge ancora in riferimento al matrimonio.

b) Educare all’amore

Un primo elemento che fa la differenza tra la scelta della convivenza e quella del matrimonio è il modo diverso di vivere l’amore.

– Amare è prima di tutto accogliere l’altro nella propria vita e poi è donarsi totalmente a lui senza riserve. Abituati a intendere l’amore in senso attivo, come un insieme di atteggiamenti e di cose da fare, può sembrare strano dare il primato a un atteggiamento apparentemente passivo com’è l’accoglienza. Ma se ci pensiamo bene, la prima esperienza di amore che tutti abbiamo vissuto, quando ancora eravamo inconsapevoli, è stata quella di essere amati, accolti, voluti da qualcun altro; dai nostri genitori e prima ancora da Dio stesso. Siamo stati accolti come un dono, abbracciati nella nostra unicità e originalità. Altri hanno fatto spazio a noi e hanno lasciato che la loro vita fosse messa in subbuglio dal nostro arrivo. È bello pensare che questa sia anche la prima dinamica dell’amore coniugale: si tratta di accogliere un dono, di fare spazio a un’altra persona, di accoglierla nella propria vita e di lasciare che questa venga un po’ rivoluzionata dalla sua presenza. Si tratta di fare spazio all’altro per quello che è, nella sua diversità, col suo passato, il suo presente e anche il suo futuro. Se mi sono innamorato di quello che tu sei oggi, devo riconoscere che tu hai anche un passato, una storia, una famiglia, dei valori in cui ti riconosci, forse anche delle ferite che ti porti dietro. Ma tu hai anche un futuro, la parte di un libro ancora tutto da scrivere. Amare significa allora dire all’altro: «Ti accolgo nella mia vita per quello che sei, per quello che sei stato, ma anche mi impegno per quello che tu sarai domani e che ancora non conosco».

– La seconda dinamica dell’amore è l’impegno a donare tutto se stesso all’altro. Gesù lo chiede a ogni cristiano: «Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Noi abbiamo tante relazioni: amici, colleghi di lavoro, fratelli e genitori. In ciascuna di queste relazioni noi mettiamo in gioco qualcosa di noi. Nell’amore coniugale io non metto in gioco solo una parte di me stesso, ma tutto quello che sono e possiedo: il cuore, il corpo, i sogni, i beni materiali, e questo senza riserve o calcoli. Ecco perché l’amore coniugale assume i tratti dell’esclusività: non si può essere tutto per tante persone diverse, inevitabilmente ci saranno gradi e modalità diverse. Amare totalmente, nel senso dell’accoglienza e del dono di sé, mette in evidenza la grandezza dell’amore coniugale: cosa c’è di più grande della capacità che ha una persona di donare la propria vita a un’altra persona, e cosa c’è di più bello del sapere che una persona sta prendendo la propria vita e la sta donando proprio a me?

c) Il valore dell’istituzione

In tutti i popoli e le culture il legame affettivo e la procreazione sono stati considerati un evento sociale tale da meritare un riconoscimento e delle tutele. Nonostante oggi venga rivendicata la privatezza di questo evento, non possiamo non sottolineare che la richiesta di riconoscere alcuni diritti alle coppie di fatto sia il segno che la dimensione sociale è difficilmente cancellabile.

L’istituzione media la scelta di vita, richiamandone il carattere interpersonale. Suo compito è difendere e sostenere la decisione del singolo offrendo una strada già percorsa e vagliata e un contesto di rapporti sociali riconosciuti. L’istituzione si fonda sulla dimensione relazionale dell’uomo e permette al soggetto di confrontarsi con le esigenze del prossimo e della società. Se da una parte può sembrare un inciampo e un limite, dall’altra impegna le persone, sostiene il legame, rende visibile agli altri la nuova coppia chiamandoli a riconoscerla e a rispettarla. Siamo inoltre persone fragili e nei momenti difficili l’istituzione può essere un argine alla tentazione di buttare tutto. Se da una parte è bello il desiderio di essere sempre protagonisti, di ridirsi ogni giorno un sì nuovo, dobbiamo essere anche consapevoli delle nostre fragilità. Ripartire ogni mattina è un bel proposito, ma contiene anche qualcosa d’irreale: tante mattine è difficile, ci sono stagioni problematiche e prove che possono rendere faticoso l’amore, in quei momenti l’istituzione protegge e sostiene l’amore in attesa che la fatica passi.

Il legame d’amore chiede anche di essere celebrato, perché mediante questo gesto viene posto un evento fondativo che dice continuità col cammino fatto e insieme novità. L’istituzione tutela e protegge la scelta ed è importante, perché incarna in forma concreta quel senso che si vuole dare alla relazione e insieme offre soluzioni pratiche e collaudate per la vita quotidiana. Nel momento in cui i due pronunciano l’assenso definitivo, impegnando la libertà per il futuro, diventano attivi costruttori e plasmatori della propria storia [21].

d) Accettando la sfida

A livello pastorale ci dobbiamo interrogare su come si possa ridare significato e valore alla scelta del matrimonio e anche del matrimonio sacramentale. Non ci sono ricette magiche ma solo il quotidiano impegno educativo delle nostre comunità cristiane, il coraggio di mettere a tema queste questioni, la sfida di accompagnare adolescenti e giovani a interrogarsi sull’universo dei legami e degli affetti.

Per chi opera in ambito pastorale si tratta anzitutto di capire cosa porta oggi le persone a fare la scelta della convivenza. È necessario un buon lavoro di discernimento per non mettere tutto sullo stesso piano. Le analisi sociologiche ci possono aiutare a capire le diverse tipologie di convivenze e i motivi che portano le persone a optare per un percorso alternativo o propedeutico al matrimonio. Ci sono certamente istanze positive, sogni, dubbi, paure, condizionamenti di cui tener conto. Capire quindi per partire da questa situazione e aprire una fase costruttiva a livello di proposta e di accompagnamento [22]. Soprattutto, per reagire a una visione riduttiva del matrimonio come di un «vincolo» imposto o di una catena esteriore che blocca le persone, si vorrebbe sottolineare la prospettiva di un matrimonio inteso come potenzialità offerta di crescita continua, di un dono reciproco, di un cammino che tende sempre ad andare oltre.

Gli interventi non potranno che essere a diversi livelli: una seria politica familiare potrebbe aiutare quelle coppie che sono frenate da questioni economiche; un incisivo lavoro culturale potrebbe aiutare a dipanare dubbi e pregiudizi verso il matrimonio; una precisa educazione all’amore potrebbe aiutare a maturare una concezione seria dell’amore perché non sia ridotto al sentimento e alla passione, ma sia anche intelligenza, volontà, scelta, impegno, dono, rischio, giustizia.

Infine, va messa a tema la dimensione sociale dell’amore. La coppia non può crescere e svilupparsi senza un contesto sociale. Privato e pubblico non vanno contrapposti: l’aspetto pubblico è condizione per vivere bene la dimensione privata. Non è solo il mondo che ha bisogno dell’amore coniugale e della famiglia, ma è vero anche il contrario. L’esterno non è solo un pericolo ma anche un aiuto, una miniera di stimoli e di sostegni. L’intimità non è intimismo. Il matrimonio è dono per la coppia, ma anche per la società e per la chiesa. Ci si sposa anche perché l’amore diventi un dono per gli altri, una risorsa per la società, un vero e proprio «capitale sociale». (Giampaolo Dianin, Credere Oggi, 163/2008)

 

NOTE

[1] G. Campanini, Le famiglie di fatto oggi, in «Famiglia Oggi» 12 (1989) 8-9; Id., Realtà di ieri e problemi di oggi, in «Famiglia Oggi» 2 (2006) 15-20.

[2] Cf. L. Scaraffia, Una riflessione sul valore aggiunto della famiglia in prospettiva storica, in P. Donati (ed.), Ri-conoscere la famiglia: quale valore aggiunto per la persona e la società? , Decimo rapporto Cisf sulla famiglia in Italia, San Paolo, Cinisello B. 2007, pp. 353-384.

[3] R. Prandini, Il problema sociologico delle convivenze di fatto, in «La Famiglia» 198 (1999) 22-37.

[4] I. Théry, Le démariage. Justice et vie privée, Edition Odile Jacob, Paris 1993.

[5] G. Maragnoli, Il diritto di famiglia in Italia e la famiglia di fatto. I. Evoluzione del diritto di famiglia, in «Aggiornamenti sociali» 1 (1990) 43-63.

[6] Pontificio consiglio per la famiglia, Famiglia, matrimonio e «unioni di fatto» (26 luglio 2000), n. 8, in Enchiridion Vaticanum (= EV), 19, 1059-1135.

[7] G. Dianin, Matrimonio, sessualità, fecondità. Corso di morale familiare, EMP, Padova 2006, pp. 314-317.

[8] Concilio Vaticano II, Costituzione Gaudium et spes (= GS), n. 26.

[9] Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie Gratissimam sane (2 febbraio 1994), n. 17, in EV 14, 158-344.

[10] F. D’Agostino - F. Macioce, Che cosa significa «riconoscere» la famiglia dal punto di vista giuridico, in Donati (ed.), Ri-conoscere la famiglia, cit., p. 342.

[11] L. Palazzini, Quali diritti per le coppie di fatto? Una riflessione filosofico-giuridica, in «La Famiglia»196 (1999) 25-36.

[12] C.M. Martini, Famiglia e politica, Discorso per la vigilia di S. Ambrogio, 6 dicembre 2000, Centro Ambrosiano, Milano 2000.

[13] Cf. A. Fumagalli, Matrimonio e unioni di fatto. Quali differenze? Quali riconoscimenti?, in «La Rivista del clero italiano» 4 (2007) 253-274.

[14] Pontificio consiglio per la famiglia, Famiglia, matrimonio e unioni di fatto, cit., n. 13.

[15] GS 47.

[16] Pontificio consiglio per la famiglia, Famiglia, matrimonio e unioni di fatto, cit., n. 22.

[17] Ibid., nn. 16-18.

[18] Cf. Ibid., n. 40.

[19] Donati (ed.), Ri-conoscere la famiglia, cit.

[20] Ibid., p. 55.

[21] Dianin, Matrimonio, sessualità, fecondità, cit., pp. 139-140.

[22] Molto utile al fine di «capire» il fenomeno è la seguente ricerca sociologica che dà la parola ai diretti interessati: F. Belletti - P. Boffi - A. Pennati, Convivenze all’italiana. Motivazioni, caratteristiche e vita quotidiana delle coppie di fatto, Paoline, Milano 2007. Il quadro che emerge si può così sintetizzare: se la prospettiva del matrimonio rimane per la maggior parte degli intervistati all’orizzonte come ideale positivo, la scelta della convivenza nasce dal desiderio di una vita autonoma e indipendente; la convivenza appare così una specie di nuovo modello di fidanzamento reso possibile dalla sostanziale approvazione della società e anche delle proprie famiglie, da una scarsa progettualità dei giovani, da una forte paura del futuro e dal ripiegamento nel presente. Se si cercano motivazioni profonde per questa scelta, si rimane delusi, perché il vero motivo sembra quello che non ci siano motivi seri per non farlo. Interessante che le coppie intervistate si mostrano sostanzialmente estranee e disinteressate al riconoscimento giuridico della loro condizione: questo riconoscimento, pur potendo portare dei vantaggi, potrebbe poi essere un’arma a doppio taglio in caso di separazione.

 

 

 


 

La carità non la giustizia

come elemento costitutivo della missione della Chiesa

(18 maggio 2008)

 

 

Papa Benedetto XVI ha dichiarato frequentemente che desidera presentare la chiesa e il vangelo che essa proclama non come un «no», ma come un «sì» [1], un’affermazione di umanità e un segno di speranza. Nello stesso tempo egli insiste sul fatto che la chiesa e il vangelo devono essere rappresentati in tutta la loro originalità e unicità, cioè come una manifestazione misteriosa e gratuita dell’amore di Dio per noi. Il papa realizza entrambi questi scopi nell’enciclica Deus caritas est che inaugura il suo pontificato [2].

La seconda parte di questa enciclica descrive in termini pratici il servizio di carità che la chiesa deve compiere in risposta all’amore divino che ha ricevuto in Cristo; un amore messo in evidenza nella parte prima. In questa seconda parte, papa Benedetto fa rivivere un termine tratto dalla dottrina sociale della chiesa che non si udiva più dal tempo del sinodo dei vescovi del 1971, che per primo lo usò: il termine «costitutivo». Quel sinodo dichiarò in modo meraviglioso:

«L’agire per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come dimensione costitutiva della predicazione del vangelo, cioè della missione della chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressivo» [3].

Si rileva qui che per Benedetto XVI la carità e non la giustizia è l’elemento costitutivo della missione della chiesa. Due volte nel n. 20 dell’enciclica impiega questo termine per descrivere la diaconia (il ministero della carità) come l’elemento costitutivo della natura più profonda della chiesa, insieme con il kerygma-martyria (proclamazione e testimonianza della Parola) e con la leitourghia (celebrazione dei sacramenti).

In questo articolo riprenderò anzitutto l’insegnamento del sinodo del 1971 riguardo alla giustizia come dimensione costitutiva del vangelo e descriverò la storia successiva del termine. Farò riferimento alla sua «correzione» nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI del 1975 e alla sua assenza nel Compendio della dottrina sociale della chiesa pubblicato nel 2004 dal Pontificio Consiglio per la giustizia e la pace. Riassumerò poi il contenuto della seconda parte della Deus caritas est, dove viene usato il termine «costitutivo» ed esplorerò le radici di questo insegnamento nella teologia di Joseph Ratzinger, sia partendo dal De civitate Dei di Agostino, sia dal dialogo che Ratzinger ha fatto con la teologia della liberazione durante il suo servizio come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Infine, darò un giudizio e una valutazione conclusiva.

Presiedendo la messa pro eligendo Pontifice come decano del collegio dei cardinali all’inizio del conclave che lo avrebbe eletto papa, il card. Ratzinger ritornò a uno dei suoi temi favoriti, la dittatura del relativismo, e si riferì alle onde di varie ideologie che minacciano di rovesciare la piccola barca dei credenti [4]. Relegando l’azione per la giustizia e per la liberazione alla competenza dello stato e mantenendo la carità come elemento costitutivo dell’autentica identità della chiesa, non si può avere alcun dubbio sulla convinzione di papa Benedetto che la chiesa deve opporsi vigorosamente alle «ideologie mondane» e difendere la missione trascendente che Cristo le ha affidato.

1. La giustizia come elemento costitutivo

A partire dal 1891, quando papa Leone XIII pubblicò l’enciclica Rerum novarum sui diritti dei lavoratori, è diventata consuetudine pubblicare un nuovo insegnamento papale negli anniversari di questo documento fondamentale che inaugurò la fase moderna della dottrina sociale della chiesa. Perciò nel 1971 papa Paolo VI scrisse l’enciclica Octogesima adveniens («Nell’80o anniversario»). In quel momento c’era grande fermento nella chiesa per rispondere alle invocazioni di aiuto provenienti dal terzo mondo. Papa Paolo VI stesso, nella precedente enciclica Populorum progressio del 1967, aveva insegnato che lo sviluppo è il nuovo nome della pace, che se il mondo vuole la pace, deve lavorare per la giustizia [5]. Quindi nell’Octogesima adveniens Paolo VI espresse la speranza che il sinodo imminente sarebbe stato capace di fornire indicazioni per studiare la specifica missione della chiesa in rapporto ai problemi della giustizia.

La descrizione della giustizia come elemento costitutivo della missione e della predicazione del vangelo si riscontra nell’introduzione al documento del sinodo. Ne fu autore Vincent Cosmao, un consultore nella fase preparatoria del sinodo [6]. Secondo Cosmao, il termine «costitutivo» rende l’impegno della chiesa a favore della giustizia non tanto una pura deduzione etica dalla fede, quanto una vera e propria condizione della sua verità. In un discorso rivolto ai vescovi francesi poco prima del sinodo, Cosmao domandava:

«La partecipazione alla trasformazione del mondo, percepito come ingiusto, è puramente una richiesta derivante dalla fede e che si esprime nelle opere di carità, o è un costitutivo della Pasqua di Cristo in quanto coestensiva con la storia umana, che è la storia della liberazione umana» [7]?

Se è vera la seconda ipotesi, se l’azione per la giustizia e la liberazione umana sono costitutive del vangelo, allora, secondo Cosmao, la predicazione del vangelo «avviene» mediante l’azione a favore della giustizia.

Subito dopo il sinodo, che inserì senza commento il termine «costitutivo» nel testo finale, furono date varie interpretazioni sul suo significato. Papa Paolo VI, che cercava di bilanciare l’insistenza sulla giustizia nella missione della chiesa, annunciando che il tema del sinodo seguente (del 1974) sarebbe stata l’evangelizzazione, espresse delusione per l’opera del sinodo del 1971, dicendo che sperava che il prossimo sinodo avrebbe offerto una «definizione migliore e più precisa» della relazione tra l’annuncio del vangelo e l’agire per la giustizia [8]. Mons. Ramon Torella Cascante, segretario particolare del sinodo del 1971 sul tema della giustizia dichiarò:

«È molto importante che in occasione del prossimo sinodo l’azione per la giustizia e la pace sia riaffermata nella prospettiva dell’evangelizzazione come una delle sue parti integrali. Naturalmente dovrebbero essere evitate ambiguità, malintesi, contraddizioni e confusione» [9].

Per Torella, «costitutivo» interpretato come «parte integrale» del vangelo non significava «parte essenziale». Si riferisce, egli spiegava, «a qualcosa che accompagna, ma che non ha bisogno di essere presente, cioè, parlando rigorosamente, un vero annuncio del vangelo potrebbe aver luogo senza una azione per la giustizia» [10].

Sul tema della giustizia, al sinodo 1971, il teologo ufficiale era Juan Alfaro, professore presso l’Università Gregoriana. Secondo Alfaro, la spiegazione di Torella sul termine «costitutivo» introduceva una «complicazione non necessaria», che indeboliva parimenti la forza e l’intenzione del termine. «Costitutivo» e «integrale» non sono la stessa cosa. Corpo e anima, spiegava Alfaro, sono elementi costitutivi della composizione dell’essere umano, senza dei quali un essere umano non sarebbe tale. Torella quindi è in errore, secondo Alfaro. «Questo non era il pensiero del gruppo che ha redatto la bozza del testo. È introdurre del tutto un altro termine», concludeva [11].

2. Storia successiva del termine «costitutivo»

Il sinodo del 1971 fu l’ultimo a pubblicare la propria dichiarazione a conclusione delle sue deliberazioni. In seguito, a cominciare dal sinodo del 1974 dedicato al tema dell’evangelizzazione, il papa avrebbe recepito i risultati del sinodo e pubblicato poi un documento suo proprio. Evangelii nuntiandi si sarebbe poi dimostrato uno dei più citati ed efficaci insegnamenti di Paolo VI. Chiamata «esortazione apostolica», in essa egli dichiara che «il mandato di evangelizzare tutti gli uomini costituisce la missione fondamentale della chiesa» [12].

Nelle sezioni 2, 3 e 4 dell’esortazione, Paolo VI definì il contenuto e i metodi dell’evangelizzazione. Cristo stesso è il gioioso annuncio che viene da Dio per proclamare la salvezza dal peccato e dalla morte. Ma l’evangelizzazione stessa, secondo il papa, è un

«processo complesso, composto da vari elementi: rinnovamento dell’umanità, testimonianza, annuncio esplicito, adesione del cuore, ingresso nella comunità, accoglimento dei segni, iniziative di apostolato. Questi elementi possono apparire contrastanti e persino esclusivi. Ma in realtà sono complementari e si arricchiscono vicendevolmente» [13].

Nella terza sezione, il papa descrive ciò che chiama il contenuto essenziale e gli «elementi secondari» dell’evangelizzazione. Suo fondamento essenziale e centro è la proclamazione di Gesù Cristo, che viene a portare una salvezza che non è qualcosa di puramente «immanente, a misura dei bisogni materiali o anche spirituali che si esauriscono nel quadro dell’esistenza temporale, [...] ma è altresì una salvezza trascendente, escatologica» [14]. E continua:

«l’evangelizzazione non sarebbe completa se non tenesse conto del reciproco appello che si fanno continuamente il vangelo e la vita concreta, personale e sociale dell’uomo» [15].

Tra evangelizzazione e promozione umana ci sono «legami profondi» che includono l’ordine antropologico, teologico ed evangelico. La persona da evangelizzare non è un’astrazione, ma – spiega il papa – è condizionata dalle questioni sociali ed economiche. In teologia non si può dissociare il piano della creazione da quello della redenzione: il secondo «arriva fino alle situazioni molto concrete dell’ingiustizia da combattere e della giustizia da restaurare». L’ordine evangelico viene definito come quello della carità; tuttavia

«come […] si può proclamare il comandamento nuovo senza promuovere nella giustizia e nella pace la vera, autentica crescita dell’uomo» [16]?

Nel 2004 il Pontificio Consiglio per la giustizia e la pace ha pubblicato il Compendio della dottrina sociale della chiesa. Nell’intenzione di presentare un panorama completo di tale dottrina da Leone XIII fino a oggi, il volume offre, secondo le sue stesse parole,

«i principi per la riflessione, i criteri di giudizio e le direttive per l’azione che sono il punto di partenza per la promozione di un umanesimo integrale e solidale» [17].

Poiché è composto da insegnamenti dei papi, dei concili e delle congregazioni romane, non viene citato alcun sinodo dei vescovi e quindi il termine «costitutivo» non vi compare.

Tuttavia, nella sezione intitolata: Dottrina sociale, evangelizzazione e promozione umana, i tre legami tra evangelizzazione e promozione umana delineati nell’Evangelii nuntiandi sono menzionati per sostenere la tesi che la dottrina sociale della chiesa è una «parte integrale» e una «parte essenziale» del messaggio cristiano [18]. In un’altra sezione, si dice che i principi permanenti della dottrina sociale della chiesa sono nati

«dall’incontro del messaggio del vangelo e delle sue richieste riassunte nel supremo comandamento dell’amore di Dio e del prossimo, nella giustizia, con i problemi derivanti dalla vita della società» [19].

In queste frasi, la connessione vitale tra l’annuncio del vangelo nella sua interezza e la giustizia, tra la carità e la pratica della giustizia, è mantenuta e sottolineata.

3. La carità come costitutivo

La Deus caritas est ha un disegno chiaro. Una parte è speculativa, l’altra pratica. Nella prima parte, papa Benedetto XVI mette in risalto l’amore misterioso e gratuito che Dio ha per noi: un amore che, come quello umano, è allo stesso tempo eros, philia e agape, tre dimensioni dell’unico e medesimo amore. Nella parte seconda la sua intenzione è di «suscitare nel mondo un rinnovato dinamismo di impegno nella risposta umana all’amore divino» [20]. Strutturando l’enciclica in questo modo, egli desidera far risaltare che il servizio cristiano dell’amore non va identificato con una qualche agenzia per l’assistenza sociale, ma è una specifica espressione e risposta all’amore che Dio ha dimostrato per noi. Il papa comincia la seconda parte con una citazione di Agostino: «Se vedi la carità, vedi la Trinità» [21]. Da questa prospettiva trinitaria, è lo Spirito che ci spinge ad amarci reciprocamente come Cristo ci ha amati. Con la forza che viene dallo Spirito, possiamo compiere le opere dell’evangelizzazione mediante la Parola e i sacramenti e realizzare il ministero della carità.

Secondo gli Atti degli apostoli, la chiesa al suo inizio era costituita da questi tre elementi: fedeltà all’insegnamento degli apostoli, la frazione del pane e la preghiera, nonché la «comunione», cioè il fatto di avere ogni cosa in comune, in modo che non esisteva più la distinzione tra ricco e povero (At 2,42; 4,32-37). Per realizzare questa comunione, furono scelti sette diaconi e la loro «diaconia», il ministero della carità, divenne costitutiva della struttura fondamentale della chiesa. Il papa conclude: «La chiesa non può trascurare il servizio della carità, così come non può tralasciare i sacramenti e la Parola» [22]. E ancora:

«La carità non è per la chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza» [23].

Nella successiva sezione della seconda parte, intitolata: Giustizia e carità [24], il papa descrive la dottrina sociale della chiesa da Leone XIII fino ad oggi come il contributo da essa dato alla costruzione di una società giusta sulla base della ragione e della legge naturale. Qui la sua responsabilità, a differenza del ministero della carità, è indiretta e «mediata», piuttosto che diretta e «immediata». «Il giusto ordine della società e dello stato è compito centrale della politica», non della chiesa:

«La società giusta non può essere opera della chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica» [25].

La chiesa forma le coscienze e spinge le persone ad agire chiarificando i motivi contenuti nel vangelo. Qui il papa cita l’opinione di Agostino, tratta dal De civitate Dei, secondo cui lo stato deve essere costituito dalla giustizia, altrimenti non sarebbe uno stato [26]. Cita anche la distinzione fatta da Gesù su ciò che appartiene a Cesare e ciò che appartiene a Dio (Mt 22,21). Si riferisce anche all’insegnamento della Gaudium et spes sulla legittima autonomia delle realtà temporali rispetto al controllo della chiesa [27]. Sono i fedeli laici, in quanto cittadini con una competenza personale, che «hanno il compito immediato di operare per un giusto ordine della società» [28].

4. Le radici della Deus caritas est

Il pensiero di Agostino è stato molto importante per la formazione di papa Benedetto lungo tutta la sua vita intellettuale e, come abbiamo visto, nella Deus caritas est. Ricercando le radici del pensiero del papa, mi riferisco al suo diuturno interessamento per le opere di Agostino e al suo dialogo con la teologia della liberazione durante il suo incarico come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.

Il grande trattato di Agostino De civitate Dei fu una risposta scritta nel corso di molti anni di fronte al crollo di Roma nel 410 per opera dell’esercito di Alarico e dell’invasione dei Goti. Il cristianesimo fu causa di questa catastrofe? La tesi di Agostino è che la città dell’uomo, basata sulla cupidigia, era destinata a crollare di per se stessa. I cristiani appartengono non alla città terrena, ma alla città di Dio, che si fonda sulla carità: la vera patria dei cristiani è il cielo, la città eterna; su questa terra siamo pellegrini e stranieri. Scrivendo prima della sua elezione a papa, e attingendo al De civitate Dei, Ratzinger fece queste osservazioni:

«Dove prevale questo atteggiamento fondamentale, la chiesa sa che non può essere uno stato qui su questa terra, poiché è consapevole che il suo stato definitivo si trova altrove e non può costruire la città di Dio sulla terra. La chiesa rispetta lo stato terreno come una istituzione che appartiene al tempo storico, con diritti e leggi che la chiesa riconosce» [29].

Nell’ultima cena Gesù disse ai discepoli che dovevano essere nel mondo, ma non del mondo (Gv 17,11-16). Secondo Aidan Nichols, «con l’andare del tempo, questo diventerà forse il ritornello più insistente nella critica di Ratzinger alla riforma che la chiesa cattolica ha fatto di se stessa» [30].

Per Agostino la città dell’uomo serve solo a far da contrasto per la costruzione della città di Dio. Secondo Nichols, c’è una «negazione della rilevanza delle opere di giustizia per la giustificazione sostenuta dalla grazia, resa manifesta nella concezione quasi demoniaca che Agostino ha della civitas terrena». Lo specialista di Agostino Etienne Gilson dichiara:

«Se esaminiamo più da vicino l’insegnamento proprio di Agostino, vedremo perché la nozione di una società umana temporale, dotata di una sua unità e comprendente l’intera razza umana, non poteva presentarsi alla sua mente» [31].

Come fedele discepolo di Agostino, Benedetto XVI porta avanti energicamente queste distinzioni tra carità e giustizia, tra chiesa e stato, tra la città celeste e quella terrena. Ma aggiunge:

«[La chiesa] non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può essere opera della chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l’adoperarsi per la giustizia lavorando per l’apertura dell’intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente» [32].

«Che la chiesa sia ciò che è, oppure che non esista per nulla». Secondo il biografo di Ratzinger, Heinz-Joachim Fischer, «questo è stato il motto teologico che copre come un arco sia il Ratzinger della gioventù come quello della vecchiaia» [33]. Appena nominato come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Ratzinger dovette confrontarsi immediatamente con la sfida di una nuova lettura politica del cristianesimo sotto forma della teologia della liberazione. La sua risposta in due istruzioni, una negativa nel 1984 e una più positiva nel 1986, costituisce un esempio significativo della sua convinzione sul fatto che la chiesa deve mantenere la sua unicità se vuole veramente continuare a esistere. Entrambe queste risposte forniscono un retroterra necessario per comprendere il pensiero che ha dato l’impulso alla seconda parte della Deus caritas est.

Per iniziare con la seconda istruzione sul significato cristiano della libertà e della liberazione, il testo chiave è Gv 8,32: «La verità vi farà liberi». La ricerca della libertà e l’aspirazione alla liberazione da ogni oppressione, secondo l’istruzione, trovano la loro prima radice nel cristianesimo [34]. Il cristianesimo verte tutto attorno al nuovo comandamento, l’amore verso Dio, che implica l’amore del prossimo [35]. Perciò non ci può essere divario tra l’amore del prossimo e il desiderio di giustizia. Mettere i due in contrasto tra loro, è snaturare sia l’amore che la giustizia [36]. Tuttavia la nuova interpretazione del cristianesimo, rappresentata dalla teologia della liberazione, conduce – secondo la prima istruzione – a una rilettura politica della Scrittura, che è riduttiva nei confronti del suo contenuto spirituale [37]. Dando una simile priorità alla dimensione politica – continua l’istruzione – siamo condotti a negare la novità radicale del Nuovo Testamento e soprattutto a misconoscere la persona di Gesù Cristo e il carattere specifico della salvezza da lui donata, che è soprattutto liberazione dal peccato, la sorgente di ogni male [38]. E così conclude:

«La chiesa, guidata dal vangelo della misericordia e dall’amore dell’uomo, ascolta il grido che invoca giustizia e vuole rispondervi con tutte le sue forze» [39].

L’ideologia marxista che caratterizza alcune teologie della liberazione, si è ora attenuata, ma il dialogo con questa corrente teologica è stato di grande aiuto nel precisare il pensiero soggiacente alla Deus caritas est. In parte la teologia della liberazione fu una reazione contro le tendenze agostiniane esistenti nella chiesa, che sminuivano l’importanza delle realtà terrene e il legame necessario tra l’agire per la giustizia in questo mondo e l’amore di Dio. Mantenere il corretto equilibrio tra questi due aspetti è stata una costante preoccupazione di Benedetto XVI. È questo che lo ha condotto a dire che la carità divina, e non la giustizia umana, sta al centro del vangelo.

5. Valutazione: un nuovo equilibrio

Nel corso degli anni, J. Ratzinger ha mantenuto una valutazione coerente sulla crisi della chiesa. Nel suo dialogo con Vittorio Messori, intitolato: Rapporto sulla fede (1985), dichiarò che la chiesa non aveva bisogno di ritornare al passato in una sorta di «restaurazione», ma piuttosto doveva «cercare un nuovo equilibrio dopo tutte le esagerazioni di una indiscriminata apertura al mondo, dopo le interpretazioni eccessivamente positive di un mondo che è agnostico e ateo». Lo scopo della chiesa, concludeva, è «un rinnovato equilibrio degli orientamenti e dei valori all’interno della totalità cattolica» [40].

In un’intervista che ho condotto nel 2006 con mons. Paul Cordes, presidente del Pontificio Consiglio Cor unum, egli mi confermò che lo specifico «impulso» (push), come lo chiamò, di Benedetto XVI è precisamente questo: equilibrio, la ragione bilanciata e chiarificata dalla fede è una correlazione unica e una coerenza, come il papa affermò nel suo intervento presso l’Università di Regensburg il 12 settembre 2006, e la giustizia bilanciata e chiarificata dalla carità. A Regensburg il papa arrivò a dire che se la fede, per esempio, non è bilanciata dalla ragione, il risultato può essere il fanatismo religioso [41].

Secondo Cordes, nell’ultimo periodo del suo pontificato, papa Giovanni Paolo II chiese che fosse fatto un lavoro di preparazione per un’enciclica sul tema della carità. Una prima stesura fu completata e inviata al papa, ma la malattia gli impedì di dedicarvisi. Forse in parte per deferenza verso la memoria del suo predecessore, Benedetto riprese il tema per la sua prima enciclica. Tuttavia, ciò che egli fece, tipicamente, fu di rovesciare l’intera trattazione. La bozza inedita di Giovanni Paolo II aveva assunto un approccio induttivo, menzionando tutte le iniziative di aiuto promosse dalle agenzie di fede e da benefattori privati, nonché citando numerosi esempi di opere caritative ecclesiali. Da queste iniziative si concludeva poi alla testimonianza dell’amore di Dio che dava origine a ogni cosa. Questa disposizione aveva un certo senso pedagogicamente. Ma Benedetto rovesciò il modo di procedere e lo rese deduttivo e logicamente corretto. Egli inizia la Deus caritas est con una nuova prima parte sulla natura di Dio come amore e sulla grazia che viene dall’amore divino per compiere le opere di carità. Fece anche un’altra cosa molto tipica per lui: mise in risalto le verità centrali della fede: Dio, Cristo, l’amore. Incorporò poi, nella seconda parte dell’enciclica, la precedente bozza inedita. Secondo l’opinione di Cordes, la positiva risposta che l’enciclica ricevette in tutto il mondo, significa che il papa stava dicendo qualcosa che molte persone pensavano, cioè che la chiesa deve presentare il suo messaggio in termini positivi, e specificamente come un messaggio d’amore [42].

Anticipando la pubblicazione dell’enciclica, il Pontificio Consiglio Cor unum organizzò un congresso internazionale sulla Deus caritas est. Il discorso del papa ai partecipanti è significativo perché, invece di ripetere puramente quanto scritto nell’enciclica, egli approfondì il tema, rivelando ulteriori prospettive. Riprese l’immagine biblica che si riscontra nell’enciclica, quella del buon samaritano, per dimostrare la continuità che esiste sia tra la fede cristiana sia con la ricerca umana di amore, sottolineando anche la novità che la fede apporta a tale ricerca.

«L’eros di Dio non è soltanto una forza cosmica primordiale; è amore che ha creato l’uomo e si china verso di lui, come si è chinato il buon samaritano verso l’uomo ferito e derubato, giacente al margine della strada [...] Abbiamo bisogno del Dio vivente che ci ha amati fino alla morte» [43].

Mentre l’enciclica pone una chiara distinzione tra le competenze della chiesa e quelle dello stato, vuole anche mostrare quanto lo stato abbia bisogno della chiesa e in effetti riceve da lei un contributo vitale. La chiesa come «forza viva» entro la società offre qualcosa di molto più importante dell’assistenza materiale, e cioè il ristoro e la cura dell’anima e il ministero della carità mediante l’amorevole dedizione personale [44]. In tal modo Benedetto XVI, secondo Cordes, si oppone al cosiddetto «stato assistenziale», che assorbe tutto in sé e pensa a tutto per ciascuno. Nel suo confronto con lo stato secolare, la chiesa, compiendo opere di carità, ha il compito di sottolineare l’unicità che la fede aggiunge a tali opere fondate sulla fede. C’è il costante pericolo che le agenzie ecclesiali, specialmente quelle che si affidano ai fondi governativi, possano percepire la propria identità religiosa come un peso e un ingombro. Un esempio che Cordes mi citò, fu la frequente richiesta dei governi affinché le agenzie da essi finanziate non debbano essere discriminanti nelle pratiche per assumere il personale. Le persone non cattoliche che lavorano per tali agenzie possono non accettare necessariamente la motivazione specifica delle agenzie stesse.

Ciò che l’enciclica fa altresì, secondo l’opinione di Cordes, è di rinforzare l’obbligo speciale dei ministri ordinati della chiesa verso la carità. Il Vaticano II e il nuovo Codice di diritto canonico, parlando degli ordinati, non menzionano questo dovere preminente, senza dubbio presumendo che ognuno sappia quanto esso sia vero. Nel rito dell’ordinazione di un vescovo, per esempio, viene chiesto al candidato, tra le altre domande, se sarà disposto a prendersi particolare cura dei poveri. Dalla mia esperienza come direttore diocesano del diaconato permanente, ho riscontrato che la Deus caritas est, con la sua dichiarazione circa la diaconia come elemento costitutivo dell’essenza della chiesa e con la citazione dell’esempio del diacono romano Lorenzo († 258) per illustrare come la chiesa primitiva aveva istituzionalizzato l’opera caritativa, rappresenta una forte affermazione di questo ordine recentemente restaurato nella chiesa [45].

Nel realizzare un corretto equilibrio tra giustizia e amore nella predicazione e nell’azione della chiesa, Benedetto XVI ha scelto di mettere l’amore in particolare rilievo. Facendo così afferma ciò che era la mia conclusione nella valutazione da me data sulla validità della giustizia come elemento costitutivo nel sinodo del 1971. Nel suo volume Preaching the Just Word, Walter J. Burghardt, cita la mia valutazione finale:

«Si veda l’importante articolo di Charles M. Murphy, Action for justice as Consitutive of the Gospel: What Did the 1971 Synod Mean?, in «Theological Studies» 44 (1983), pp. 298-311. Murphy, a quel tempo rettore del Collegio nord-americano di Roma, concludeva che «il nocciolo dell’ambiguità circa il significato di “costitutivo” sembra risiedere nelle differenti concezioni di quale sia il tipo di giustizia cui ci si riferisce. Se la giustizia è concepita esclusivamente sul piano della virtù naturale umana della giustizia, così come viene spiegata nei trattati della filosofia classica, allora tale giustizia può essere concepita solo come una parte integrale ma non essenziale della predicazione del vangelo. Ma se la giustizia è concepita nel senso biblico come azione liberante di Dio che richiede una risposta umana necessaria – un concetto di giustizia che è molto più vicino all’agape che alla giustizia nel senso filosofico classico – allora la giustizia deve essere definita come l’essenza del vangelo stesso. Questo secondo significato sembra riflettere meglio la mentalità della più recente dottrina sociale della chiesa (p. 308). Questo paragrafo mi impressiona per la sua visione splendida e chiarificatrice» [46].

Due omelie che Ratzinger ha tenuto, una poco prima della sua elezione, l’altra subito dopo di essa, sono esemplari per illustrare le profonde convinzioni personali che sottostanno alla Deus caritas est.

Il 25 febbraio 2005, nel duomo di Milano, il card. Ratzinger tenne l’omelia alla messa del funerale di don Luigi Giussani, fondatore del movimento Comunione e liberazione. In un brano centrale, Ratzinger descrive «il tempo difficile, pieno di tentazioni e di errori», il 1968, l’anno che fu anche per lui stesso, come sappiamo, un anno di chiarificazione durante il suo incarico come professore presso l’Università di Tubinga:

«Pensiamo agli anni ’68 e seguenti; un primo gruppo dei suoi seguaci [di Giussani] era andato in Brasile e qui si trovò a confronto con questa povertà estrema, con questa miseria. Che cosa fare? Come rispondere? E la tentazione fu grande di dire: adesso dobbiamo, per il momento, prescindere da Cristo, prescindere da Dio, perché ci sono urgenze più pressanti, dobbiamo prima cominciare a cambiare le strutture, le cose esterne, dobbiamo prima migliorare la terra, poi possiamo ritrovare anche il cielo. Era la tentazione grande di quel momento di trasformare il cristianesimo in un moralismo, il moralismo in una politica, di sostituire il credere con il fare. Perché, che cosa comporta il credere? Si può dire: in questo momento dobbiamo fare qualcosa. E tuttavia, di questo passo, sostituendo la fede col moralismo, il credere con il fare, si cade nei particolarismi, si perdono soprattutto i criteri e gli orientamenti, e alla fine non si costruisce, ma si divide.

Monsignor Giussani, con la sua fede imperterrita e immancabile, ha saputo, che anche in questa situazione, Cristo, l’incontro con Cristo rimane centrale, perché chi non dà Dio, dà troppo poco e chi non dà Dio, chi non fa trovare Dio nel volto di Cristo, non costruisce, ma distrugge, perché fa perdere l’azione umana in dogmatismi ideologici e falsi, come abbiamo visto molto bene. Don Giussani ha conservato la centralità di Cristo e proprio così con le opere sociali, con il servizio necessario, ha aiutato l’umanità in questo mondo difficile, dove la responsabilità dei cristiani per i poveri nel mondo è grandissima e urgente» [47].

Il 24 aprile 2005, Benedetto XVI pronunciò l’omelia di inizio del suo pontificato. Parlò del simbolismo del pallio, tessuto con lana di agnello che «intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita». Ma, continuò, «il simbolo dell’agnello ha ancora un altro aspetto più profondo». I re del tempo passato erano soliti riferirsi al loro popolo come ad agnelli di cui essi potevano disporre a piacimento. Invece, spiegava il papa, «il pastore di tutti gli uomini, il Dio vivente, è divenuto lui stesso agnello, si è messo dalla parte degli agnelli». E concludeva:

«Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocefissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini» [48].

Non ci potrebbe essere miglior riassunto di ciò che ha stimolato la Deus caritas est.

Sembra chiaro che Benedetto XVI desidera che la chiesa sia una presenza pubblica, ma non di tipo politico. Essa vuole formare le coscienze e motivare i laici a mettere in pratica gli insegnamenti del vangelo. Tuttavia, è un compito difficile da realizzare quello di raggiungere il corretto equilibrio tra la chiesa come forza politica e una chiesa che fosse semplicemente l’espressione religiosa di individui che praticano in privato la loro fede. La «laicità», figliastra del vecchio anticlericalismo, che sarebbe contento di vedere la chiesa come un’organizzazione priva di un ruolo pubblico di qualsiasi genere, e il fatalismo, che può assalire i fedeli cristiani circa la loro esistenza terrena, sono pericoli tuttora da evitare. (Charles M. Murphy, Credere Oggi, n. 164 marzo-aprile 2008)

 

NOTE

[1] Articolo apparso con il titolo: Charity not Justice as Constitutive of Church’s Mission nella rivista «Theological Studies» 68 (2007) 274-286. Traduzione di Luigi Dal Lago.

[2] Benedetto XVI, Deus caritas est, LEV, Città del Vaticano 2006. Tutte le citazioni dell’enciclica si riferiscono a questa edizione [n.d.t.].

[3] Sinodo dei vescovi, Convenientes ex universo. De iustitia in mundo (30.11.1971), Introduzione, in Enchiridion Vaticanum (EDB, Bologna) (= EV) 4, 1243 (cf. P.S. Land [ed.], Justice in the World: Synod of Bishops: An Overview, Pontifical Commission Justice and Peace, Vatican City 1972, pp. 74-75).

[4] Cf. H.-J. Fischer, Pope Benedict XVI: A personal Portrait, Crossroad, New York 2005, pp. 88-89 (or. Benedikt 16.: ein Porträt, Herder, Freiburg i.B. 2005).

[5] Cf. Paolo VI, Populorum progressio (26.03.1967), n. 76, in EV 2, 1121.

[6] Vincent Cosmao (1923-2006), domenicano francese, fu per molti anni membro della Pontificia Commissione «Giustizia e pace». Egli continuò in particolare l’opera del confratello Louis-Joseph Lebret, promotore di Économie et humanisme, un’associazione di economisti cristiani scioltasi nel 2007, che si ispirava all’insegnamento della Populorum progressio. Cf. V. Cosmao, Chiesa e sviluppo dei popoli. Per una teologia dello sviluppo, Aggiornamenti sociali, Milano 1983 [n.d.t.].

[7] V. Cosmao, Justice dans le monde? Théologie sous-jacente au document du travail du Synode episcopale, in «Documentation catholique» 1589 (4 luglio 1971) 638-640, qui p. 639.

[8] Paolo VI, Insegnamenti di Paolo VI, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1974, p. 979.

[9] R. Torella Cascante, Evangelization of the Modern World: Contribution of the Pontifical Commission Justice and Peace to the Synod of 1974, February 1974, p. 1 (documento negli archivi della Commissione).

[10] R. Torella Cascante in una conversazione con l’autore nell’autunno del 1980 a Roma.

[11] Citato nel mio articolo C.M. Murphy, Action for Justice as Constitutive of the Preaching of the Gospel: What Did the 1971 Synod Mean?, in «Theological Studies» 44 (1983) 298-311.

[12] Paolo VI, Evangelii nuntiandi (8,12.1975), n. 14, in EV 5, 1601.

[13] Ibid., n. 24, in EV 5, 1616.

[14] Ibid., n. 27, in EV 5, 1619.

[15] Ibid., n. 29, in EV 5, 1621.

[16] Ibid., n. 31, in EV 5, 1623.

[17] Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, Introduzione al Compendio della dottrina sociale della chiesa (2.04.2004), n. 7, in EV 22, 2391.

[18] Id., Compendio della dottrina sociale della chiesa, LEV, Città del Vaticano 2004, nn. 66, 67.

[19] Ibid., n. 160.

[20] Deus caritas est, n. 1.

[21] Ibid., n. 19.

[22] Ibid., n. 22.

[23] Ibid., n. 25.

[24] Ibid., nn. 26-29.

[25] Ibid., n. 28.

[26] Agostino, De civitate Dei, lib. 4, 4: «Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli stati se non delle grandi bande di ladri?» (cf. Id., La citta di Dio, voll. 1-3, Città Nuova, Roma 1978-1991).

[27] Gaudium et spes, n. 36, in EV 1, 1430-1432.

[28] Deus caritas est, n. 29.

[29] J. Ratzinger, Values in a Time of Upheaval, Crossroad - Ignatius Press, New York 2006, p. 7 (or. Werte in Zeiten des Umbruchs. Die Herausforderung der Zukunft bestehen, Herder, Freiburg i.B. 2005).

[30] A. Nichols, The Thought of Benedict XVI, Burns & Oates, New York 2005, p. 50.

[31] E. Gilson, Introduction, in Agostino, The City of God, Image, New York 1958.

[32] Deus caritas est, n. 28.

[33] Fischer, Pope Benedict XVI, cit., p. 41.

[34] Congregazione per la dottrina della fede, Istruzione Libertà cristiana e liberazione (22.03.1986), n. 5, in EV 10, 202.

[35] Ibid., n. 55, in EV 10, 266.

[36] Ibid., n. 57, in EV 10, 269.

[37] Congregazione per la dottrina della fede, Istruzione Alcuni aspetti della «teologia della liberazione» (6.08.1984), n. X. 5, in EV 9, 957.

[38] Ibid., X. 7: EV 9, 959.

[39] Ibid., XI. 1: EV 9, 969.

[40] Citato in Fischer, Pope Benedict XVI, cit., p. 33 (cf. Bendetto XVI, Rapporto sulla fede, V. Messori a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, San Paolo, Cinisello B. 2005, cap. II [Un concilio da riscoprire]).

[41] Benedetto XVI, Discorso all’Università di Regensburg (12.09.2006), in

 http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2006/september/ documents/hf_ben

-xvi_spe_20060912_universityregensburg_it.html (2.04.2008).

[42] Cf. l’intervista dell’autore con mons. P. Cordes a Roma l’11 ottobre 2006.

[43] Pontificio Consiglio «Cor unum», Deus caritas est. Atti del Congresso mondiale sulla carità, LEV, Città del Vaticano 2006; per il discorso di Benedetto XV cf. anche il testo completo in

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2006/january/ documents/hf_ben-xvi_spe_20060123_cor-unum_it.html

 (2.04.2008).

[44] Deus caritas est, n. 28.

[45] Cf. Deus caritas est, n. 23.

[46] W.J. Burghardt, Preaching the Just Word, Yale University, New Haven 1996, pp. 128-129.

[47] J. Ratzinger, Omelia funebre per don Giussani, in http://magisterobenedettoxvi.blogspot.com/ 2008/02/omelia-funebre-per-don-luigi-giussani.html (2.04.2008).

[48] Benedetto XVI, Omelia per l’inzio del pontificato (24 aprile 2005), in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2005 /documents/hf_benxvi_hom_20050424_inizio-pontificato_it.html (2.04.2008).

 

 

 


 

La traditio liturgica nella chiesa: uno strumento vivo

(25 maggio 2008)

 

 

La querelle liturgica che sta agitando il mondo cattolico, con posizioni molto diversificate, comunque la si consideri, è certamente espressione di un disagio. Più che alimentare polemiche sterili, la cosa migliore è cercare di esaminare quali ne siano le probabili cause[1]. La riforma liturgica promossa dal concilio Vaticano II non è consistita in qualche piccolo ritocco, ma è stata profonda e ampia: ha coinvolto tutti i sacramenti, a cominciare dalla celebrazione eucaristica; ha toccato il Messale, il Lezionario, l’anno liturgico, il santorale, la liturgia delle ore[2]. Tutto questo come frutto di una rinnovata ecclesiologia (Cfr. Lumen gentium). Tale riforma però non ha mai inteso ripartire da zero, ma è stata il frutto di quel movimento di rinnovamento liturgico che ha preso le mosse all’inizio del sec. XX[3]. A sua volta, questo rinnovamento ha comportato uno studio delle antiche fonti e tradizioni liturgiche, portando a comprendere sempre meglio la natura e lo spirito della liturgia, il significato dei riti e dei gesti, il ruolo della parola di Dio, per cui la liturgia stessa è intesa come fonte e culmine della vita ecclesiale. Questo ha prodotto una riforma non arbitraria, ma inserita nel solco dell’autentica tradizione.

Una delle idee guida della riforma è stata la «partecipazione attiva» dei fedeli[4]: per raggiungere questo scopo sono state abolite le «barriere» linguistiche, con l’uso delle lingue parlate, e anche molte «barriere» architettoniche, per favorire la dimensione assembleare e comunitaria. L’altare in molti casi ha ritrovato la sua visibilità, non disturbata da altri elementi, diventando così il vero centro teologico della celebrazione[5].

Tuttavia anche i più appassionati sostenitori di questa riforma non hanno difficoltà ad ammettere che essa non può essere considerata «perfetta», cioè definitiva e compiuta sotto tutti i punti di vista. Sarebbe una visione antistorica. Se poi si considera il modo con cui è stata applicata, allora la lista delle lagnanze risulterebbe assai lunga[6]. Nella pratica ordinaria vi è una specie di «entropia» che tende a livellare tutto verso il basso, verso il «minimo necessario», verso le soluzioni più comode e meno impegnative, quando non si cede a improvvisazioni arbitrarie. La liturgia invece ha bisogno di una continua scuola di formazione, di approfondimento, se non si vuole cadere nel ritualismo, nell’insignificanza o nell’abuso[7].

1. Il recupero della dimensione «teandrica» della liturgia

Una delle cause del disagio attuale va certamente ricercata in quella tendenza all’orizzontalismo che di fatto ha marcato buona parte della prassi liturgica postconciliare, mortificando a volte quella che è la dimensione verticale del culto liturgico[8]. Per supplire a questa carenza, spesso da molti lamentata, la vera direzione da percorrere è, a mio avviso, quella di ricuperare la visione teandrica della liturgia secondo la concezione patristica, conservata soprattutto nelle Chiese dell’Oriente cristiano. «Te-andrico» è un aggettivo composto da due parole greche: theòs, che significa «Dio», e andrikòs, che significa «da uomo» (da anèr, andròs, uomo). Cristo è il prototipo di questa nuova realtà «teandrica», essendo egli vero Dio e vero uomo, nell’unità della persona divina. Analogamente, la Chiesa, sposa di Cristo e suo corpo, non è una realtà esclusivamente umana, ma è «teandrica», cioè divina e umana nello stesso tempo. Ciò è detto chiaramente dal concilio Vaticano II:

«La Chiesa terrestre e la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti non si devono considerare come due realtà diverse, ma formano una sola complessa realtà (“unam realitatem complexam”), risultante di un duplice elemento, umano e divino. Per una non debole analogia, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato»[9].

Questa duplice dimensione può essere espressa anche con le categorie «celeste»/«terrestre», già usate nella Bibbia e dai Padri, anche se poco amate dai nostri contemporanei. L’autore della Lettera agli ebrei afferma che il culto mosaico era costituito da «simboli (hypodèigmata) e ombre delle realtà celesti, secondo quanto fu detto da Dio a Mosè, quando stava per costruire la Tenda: Guarda, disse, di fare ogni cosa secondo il modello (typon) che ti è stato mostrato sul monte» (Eb 8,5). Il culto terreno era dunque fatto da «simboli (hypodèigmata) delle realtà celesti» (Eb 9,23), ed era solo «un’ombra (skiàn) dei beni futuri, non l’immagine (eikòna) stessa delle realtà» (Eb 10,1).

Secondo la Costituzione Sacrosanctum concilium, che sta alla base di tutta la riforma liturgica voluta dal Vaticano II, la liturgia è chiamata a esprimere

«la genuina natura della vera Chiesa, che ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione»[10].

Come la Chiesa, dunque, così anche la liturgia è essenzialmente una realtà «teandrica», e quindi è autentica quando esprime insieme queste due dimensioni. Le realtà eterne, celesti, divine, che sfuggono ai nostri sensi, non possono essere colte direttamente, ma solo indirettamente, utilizzando i «simboli». Secon-do san Simeone di Tessalonica, quando il sacerdote celebra, l’ufficio divino si compie simultaneamente nel cielo e sulla terra, «poiché c’è una sola Chiesa lassù e quaggiù […]; con questa differenza, che lassù è senza veli e senza simboli, mentre quaggiù avviene attraverso i simboli»[11]. La Chiesa pellegrina sulla terra partecipa alla liturgia assieme alla Chiesa celeste. Gli angeli e i santi sono presenti invisibilmente a ogni liturgia. Questa concezione, comune ai Padri della Chiesa, è stata ripresa proprio dalla Sacrosanctum concilium:

«Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e della vera tenda (Cfr. Ap 21,2; Col 3,1; Eb 8,2). Insieme con tutte le schiere del servizio celeste (“militia celesti”) cantiamo al Signore l’inno di gloria [= “Sanctus”]; venerando la memoria dei santi, nutriamo la speranza di avere parte e comunione con essi; aspettiamo come Salvatore il Signore nostro Gesù Cristo, fino a quando egli, nostra vita, apparirà e noi appariremo con lui nella gloria (Cfr. Fil 3,20; Col 3,4)»[12].

È sorprendente come questo testo appaia piuttosto lontano dalla moderna sensibilità occidentale e si ponga invece vicino alla tradizione patristica e orientale. Probabilmente oggi pochi fedeli si rendono conto che il Sanctus della messa è un «inno angelico»[13]. Secondo san Giovanni Crisostomo, durante la celebrazione dei santi misteri «una moltitudine di angeli rivestiti di abiti splendenti circonda l’altare ed essi inclinano la testa come i soldati in presenza del loro imperatore. […] Il santuario e lo spazio attorno all’altare sono riempiti dalle potenze celesti, per onorare colui che è presente»[14]. Su questa scia, un liturgista contemporaneo scrive:

«L’assemblea di quaggiù, siccome a causa della sua condizione di esistenza frammentata nel tempo e nello spazio si sente inadeguata a lodare Dio come egli merita, si unisce all’assemblea di lassù, perennemente assorta nella proclamazione sacrale della santità divina»[15].

Come mostra il testo del concilio sopra citato, lo schema «liturgia terrena»/«liturgia celeste» non elimina la tensione escatologica, «in attesa della venuta» del Signore, anzi l’acuisce: poiché le realtà celesti sono date solo attraverso i simboli sacramentali, la Chiesa anela alla pienezza escatologica, a cui deve sempre ane-lare[16].

Anche l’edificio «chiesa» deve rispecchiare la realtà teandrica della liturgia, che si esprime attraverso i simboli. Il primo simbolo di una chiesa dovrebbe essere la sua forma, che è quella di una nave, diretta sem-pre verso Oriente[17]. La forma della «navata» richiama simbolicamente che la Chiesa non è solo terrena: essa non fa che «galleggiare» sul mondo, come una nave, ma non è «del mondo», perché la sua direzione è il cielo. Nella tradizione dei cristiani d’Oriente, l’edificio chiesa, come le icone, è soggetto a canoni precisi:

«La chiesa è divisa in tre parti, perché Dio è Trinità. La parte principale della chiesa è il santuario, che simbolizza le sfere superiori e sopra-celesti del mondo, dove si trova il trono di Dio. Nel santuario sta il sacerdote, che rappresenta Dio quaggiù. Il resto della chiesa rappresenta il mondo visibile. La volta della chiesa simbolizza la cupola del cielo. Il pavimento della chiesa rappresenta ciò che è sulla terra. Sulla volta [dell’iconostasi], sopra le altre immagini, si trova il Pantokràtor, il Signore supremo. Simboleggia la comunione della carità e l’unione in Cristo, l’unione dei santi della terra e dei santi del cielo. Per questo, sotto il Pantokràtor, si vede, al centro delle icone, il Salvatore, con ai lati la Madre del Signore e san Giovanni Battista, gli angeli e gli apostoli, con gli altri santi; ciò per insegnarci che Cristo è nei cieli con i santi, e nello stesso tempo è con noi, e anche che un giorno tornerà»[18].

Al di sotto di queste icone ci sono i fedeli riuniti per la Divina Liturgia, cioè la celebrazione eucaristica[19]. Tra loro e i santi del cielo «non ci sono frontiere: il cielo e la terra non sono separati durante la liturgia. Per questo motivo il sacerdote incensa allo stesso modo le icone di Cristo e dei santi, e i fedeli della terra. Tutti sono riuniti sulla stessa nave, mescolati; quelli del cielo e quelli della terra. Perché la Chiesa è anzitutto riconciliazione del cielo e della terra, l’osmosi del celeste e del terrestre, grazie alla presenza di Cristo»[20]. La dimensione teandrica della liturgia si fonda dunque sul mistero di Cristo, Verbo incarnato.

Certo, non è facile armonizzare tra loro queste due dimensioni, evitando ogni lacerazione. Il modello da seguire è sempre quello cristologico, che si rispecchia anche nel mistero delle Sacre Scritture[21]. La parola di Dio, infatti, ci viene data «in parole umane»; nella sacra Scrittura non vi sono pagine divine accanto a pagine umane, ma ogni pagina è divina e umana nello stesso tempo. Così nella liturgia, divino e umano non sono in concorrenza, come se dove c’è l’umano lì non c’è il divino, e viceversa. Per non cadere però in una concezione statica, estranea alla liturgia, il modello cristologico delle «due nature» deve essere visto in modo dinamico, dove cioè l’unione del divino e dell’umano provoca una trasformazione dell’umano, in vista della definitiva trasformazione escatologica. Ciò è vero già in Gesù, alla luce di quell’evento straordinario che tutti e quattro i Vangeli pongono all’inizio del suo ministero pubblico: il battesimo nelle acque del Giordano e la venuta su di lui dello Spirito, che lo consacra per la sua missione pubblica e messianica (Cfr. Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22; Gv 1,29-34). Secondo i Padri, si tratta di una reale effusione dello Spirito su Gesù, ma è un evento che riguarda il senso della nostra salvezza[22]. Nella prospettiva di sant’Ireneo (fine II sec.), lo Spirito è sceso su Gesù per indicare che l’umanità (la sarx biblica) può ricevere lo Spirito ed essere così divinizzata. Scrive il vescovo di Lione:

«Appunto per questo [lo Spirito Santo] discese anche sul Figlio di Dio, divenuto figlio dell’uomo: con lui si abituava ad abitare nel genere umano e a riposare sugli uomini e ad abitare nella creatura di Dio; realizzava in essi la volontà di Dio e li rinnovava facendoli passare dall’antichità alla novità di Cristo»[23].

Parimenti, quell’evento insegna che anche lo stesso mondo creato (l’acqua in questo caso) può essere santificato dallo Spirito. Spiega san Massimo di Torino (IV sec.):

«Oggi dunque il Signore Gesù venne al battesimo e volle che il suo corpo santo fosse lavato dall’acqua. Ma qualcuno potrebbe chiedere: perché egli che è santo volle essere battezzato? Ascolta perché: Cristo non volle esser battezzato per esser santificato dalle acque, ma per santificarle lui stesso, sì che, mentre ne veniva purificato, fosse lui a purificare quelle acque che toccava»[24].

Questo è il modello a cui si ispira la liturgia, dove l’incontro tra umano e divino, grazie alla preghiera e alla parola di Dio, opera una santificazione degli elementi sacramentali, fino ad arrivare alla «trasformazione» o «transustanziazione» eucaristica, che avviene non fine a se stessa, ma in vista della trasformazione escatologica o «divinizzazione» dei fedeli.

2. Un cammino mistagogico

Perché animata dal dinamismo teandrico, la liturgia può essere accostata solo attraverso un cammino mistagogico. «Mistagogia» è una parola greca che deriva da mystèrion (mistero) e agoghè (iniziazione, essere introdotti). Qui il termine «mistero» non ha nulla a che fare con il misterioso, l’irrazionale, il paranormale. Quando si parla di «mistero di Cristo» o dei «misteri della vita di Cristo» o del «mistero pasquale», si usa un termine che equivale a «sacramento», dove cioè c’è una realtà sensibile o un gesto visibile che sono «segni» di una realtà più profonda, una realtà di grazia, di valore salvifico[25].

Mistagogia, dunque, significa essere introdotti in modo esperienziale e sapienziale a riconoscere nei segni liturgici la presenza viva di Cristo e della sua azione di salvezza[26]. Per questo è importante ritornare di continuo alla mistagogia dei Padri della Chiesa: essa pone al centro il mistero pasquale, su cui sono articolati i sacramenti, la domenica e l’anno liturgico. La mistagogia poi è sintesi tra Parola, celebrazione e vita[27]; tende a edificare la Chiesa, a fortificare la sua testimonianza nel mondo. Senza questa dimensione, i sacramenti diventano solo luoghi di appartenenza sociale, con tutte le possibili distorsioni connesse (basti pensare a cosa sono diventate in certi posti le prime comunioni o le cresime!), non momenti di crescita evangelica di una comunità cristiana che vuole essere Chiesa a tutti gli effetti.

La mistagogia patristica è tutta intessuta di sacra Scrittura, letta come continuo passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento e dal Nuovo all’Antico (tipologia)[28]. Di conseguenza, non è possibile comprendere la liturgia senza entrare nel mistero della sacra Scrittura. La Bibbia non è come un qualsiasi altro libro: perché sia letta come parola di Dio, occorre una conversione al Signore e allo Spirito (Cfr. 2Cor 3,14-18). Un cristiano che non ha fatto l’esperienza della Parola, non entrerà mai nello spirito della liturgia[29].

Vogliamo ora portare alcuni esempi di questa catechesi mistagogica. Per i Padri la liturgia inizia con il saluto del vescovo, che dice: «Il Signore sia con voi!» o: «La pace sia con voi!». In risposta, tutta l’assemblea acclama: «E con il tuo spirito!». I grandi rappresentanti della scuola di Antiochia hanno percepito con chiarezza che nel vescovo (e nel presbitero) dimora una carisma permanente, senza il quale la sua funzione perderebbe di senso. Scrive Teodoro di Mopsuestia:

«Ora, non è l’anima che vogliono dire con questo E con il tuo spirito, ma è la grazia dello Spirito Santo per la quale il vescovo ha avuto accesso al sacerdozio […]. Così dice il beato Paolo: Dio… che io servo nel mio spirito (pneumati) nell’evangelo del Figlio suo (Rm 1,9), come se dicesse: “… che io servo mediante il dono di grazia dello Spirito Santo che mi è stato dato, perché io adempia il servizio dell’evangelo”. […] Così coloro che sono riuniti nella chiesa rispondono al vescovo: “E con il tuo spirito”, secondo le regole stabilite fin dall’inizio della Chiesa. […] Tutti pregano perché egli abbia la grazia dello Spirito Santo nella pace, affinché possa prendersi cura di ciò che occorre e compiere come conviene la liturgia per la comunità»[30].

La formula «E con il tuo spirito» non significa dunque «con te» o «con la tua anima», ma con il tuo «pneuma», cioè il dono dello Spirito che hai ricevuto per compiere il tuo ministero, dono spirituale corrispon-dente a quello ricevuto da Paolo.

Similmente, san Giovanni Crisostomo, in un’omelia pronunciata alla presenza del suo vescovo quando era ancora presbitero di Antiochia, dice:

«Se non ci fosse lo Spirito Santo, non ci sarebbero pastori e maestri nella Chiesa, perché anch’essi non lo diventano che grazie allo Spirito […]. Se non ci fosse lo Spirito Santo nel padre e maestro comune qui presente [= vescovo], quando poco fa è salito a questo santo altare e vi ha dato a tutti la pace, voi non gli avreste risposto tutti insieme: E con il tuo spirito! Così non è soltanto quando sale all’altare, o quando vi parla o prega per voi, che voi gli rivolgete questo saluto, ma anche quando sta a questa tavola santa, nel momento in cui si appresta a offrire il sacrificio tremendo […]. Egli non porta le mani alle oblate se non dopo aver domandato per voi la grazia del Signore, e voi gli abbiate risposto: E con il tuo spirito! Con questa risposta, voi richiamate alla memoria che colui che è visibilmente presente non produce niente, che i doni là posti non sono opera della natura umana, ma è la grazia dello Spirito Santo, che viene e copre tutto con le sue ali, a compiere il sacrificio mistico»[31].

Per portare un altro esempio, mirabile è la catechesi di Cirillo e Giovanni di Gerusalemme sulla comunione in mano:

«Quando ti avvicini [all’altare], non procedere con le palme delle mani aperte né con le dita separate. Ma fa’ della tua mano sinistra un trono per la tua destra, poiché sta per accogliere il Re; e nel cavo della mano ricevi il corpo di Cristo rispondendo: Amen. Quindi, avendo cura di santificare gli occhi al contatto del santo corpo, assumilo, preoccupandoti che nessun frammento vada perduto»[32].

3. Dimensione «sincronica» e «diacronica» del mysterium Christi

Non vi è dubbio che all’origine il mistero di Cristo, dalla nascita fino all’ascensione e all’effusione dello Spirito, fosse celebrato «sincronicamente» come un unico grande mistero, sia nell’eucaristia domenicale (Pasqua settimanale), sia nella Pasqua annuale. La più antica omelia pasquale, quella di Melitone di Sardi, celebra in un’unica commemorazione, tutto il mistero di Cristo:

«Questi è colui che in una Vergine s’incarnò,

che a un legno fu appeso,

che in terra fu sepolto,

che dai morti fu risuscitato,

che nell’alto dei cieli fu assunto»[33].

La Tradizione apostolica (III sec.) nella preghiera sulle oblate fatta dal vescovo e nella quale sono inserite le parole di istituzione dell’Eucaristia, nomina l’azione del Verbo nella creazione, la sua incarnazione «nel seno di una Vergine» per opera dello Spirito Santo; la sua passione, morte e risurrezione: tutto questo per fondare la richiesta del dono dello Spirito Santo sulle oblate e sui fedeli che partecipano ai «santi misteri»[34]. In questo venerando documento, oltre alla Pasqua (c. 33) e alla domenica (cc. 2; 22), menzionate solo per inciso, non si fa riferimento a nessuna altra festività. Le conoscenze che noi abbiamo dei primi secoli ci portano a concludere che certamente c’è stato uno sviluppo, soprattutto a partire dal IV sec., volto ad approfondire il mistero di Cristo in senso «diacronico»[35].

La domenica è certamente la celebrazione più antica, di origine apostolica[36]. Forse lo è anche la Pasqua annuale, ma non è sicuro. La Quaresima è stata introdotta nel IV sec., probabilmente ad Alessandria, con Atanasio. Anche il Triduo pasquale e la Settimana Santa si sviluppano nel corso del IV sec. Nello stesso periodo sono state introdotte le feste del Natale e dell’Epifania, con l’aggiunta posteriore dell’Avvento. La Pentecoste è il periodo dei cinquanta giorni dopo la Pasqua, già di origine biblica[37]. In sintesi,

«ogni domenica, dunque, nella celebrazione eucaristica si fa memoria di tutto il mistero di Cristo [dimensione sincronica]. Ma la Chiesa si è resa conto ben presto che, pedagogicamente, era necessario mettere in evidenza i diversi aspetti di quest’unico mistero [dimensione diacronica]. L’anno liturgico è stato pensato per rispondere a questa necessità. […] Nel corso dell’anno liturgico, [la Chiesa] ci presenta ora l’uno ora l’altro dei diversi aspetti dello stesso unico mistero, che si realizza simultaneamente in ogni celebrazione eucaristica»[38].

Nel VI sec. troviamo sostanzialmente organizzati i due grandi cicli liturgici, quello pasquale e quello natalizio, «che saranno d’ora innanzi come due centri attorno ai quali graviterà il complesso delle feste universalmente celebrate dalla Chiesa»[39]. Questi due centri però rimangono di indole e di importanza assai diverse: per quanto nella pietà e nella devozione popolare il Natale sembri a volte aver soppiantato la Pasqua, nella realtà della celebrazione liturgica la Pasqua resta sempre primaria, perché è un sacramentum (paschale sacramentum), in quanto è la fonte della nostra giustificazione e della nostra salvezza. Non per nulla anche a Natale si celebra l’eucaristia, memoriale della Pasqua del Signore.

Nel corso dei secoli si sono aggiunte altre celebrazioni, prevalentemente di carattere cristologico, come l’Esaltazione della croce (14 settembre) già dalla fine del IV sec.[40]; la festa del Corpus Domini (1264), per rafforzare la fede eucaristica nella presenza reale, contro gli errori degli «spiritualisti»[41]; la solennità del Sacro Cuore (1856)[42]; la festa di Cristo Re (1925); la festa della Divina misericordia (2000)[43]. Per quanto entrate nel calendario liturgico ufficiale delle Chiese di rito latino, queste celebrazioni devono essere sempre viste come subordinate al primario ciclo cristologico pasquale[44].

Un altro esempio di sviluppo è dato dal ciclo agiografico o dei santi[45] e dal ciclo delle feste mariane[46]. La commemorazione del giorno natalizio del martire è molto antica (II sec.), ma solo più tardi si associò la tomba o le reliquie del martire con l’altare per la celebrazione eucaristica, evitando così di promuovere un culto autonomo, sganciato dal riferimento a Cristo, modello di ogni martirio[47]. La festa mariana dell’Assunta (15 agosto) è una delle più antiche e universalmente riconosciute, mentre quella dell’Immacolata Concezione (8 dicembre) è stata molto controversa sino al XVII sec., quando Alessandro VII con la costituzione Sollicitudo omnium ecclesiarum (8 dicembre 1661) pose fine a tutte le controversie[48].

A partire da questi rapidi accenni, si può vedere come la tradizione liturgica non è statica, ma è viva, e quindi suscettibile di «sviluppo» e di «adattamento». Come la tradizione dottrinale (lex credendi) comporta uno sviluppo del dogma, sempre però in eodem sensu eademque sententia, così la tradizione liturgica (lex orandi) registra una pluralità e un arricchimento di forme, sempre però nel solco della tradizione. E come lo sviluppo del dogma non aggiunge nulla al deposito rivelato, ma solo esplicita ciò che in esso è implicito, così le diverse forme liturgiche non devono aggiungere nulla a quello che è il nucleo centrale, costituito dal mistero pasquale, ma solo esplicitarne alcuni aspetti.

Poiché però nel culto si riversano anche aspetti antropologici e culturali di diversa provenienza e non sempre debitamente purificati, fin dalle origini i pastori si sono preoccupati di vigilare sul corretto esercizio della liturgia, contro il pericolo incombente di distorsioni e di abusi. Da qui anche i grandi momenti di «riforma» liturgica (gregoriana, tridentina, Vaticano II), dove si è cercato di tornare all’essenziale, senza però perdere ciò che di positivo nel frattempo era stato elaborato[49].

Per venire incontro anche alle esigenze legittime dei fedeli, la Chiesa ha poi distinto tra «preghiera liturgica ufficiale», legata ai sacramenti – e in particolare all’Eucaristia – e «pii esercizi di devozione», che possono portare molto frutto, ma che non possiedono quella autorevolezza che è propria della liturgia[50]. Spesso però ancora oggi nella pratica non sempre le due cose si distinguono bene. È possibile che nella storia alcuni «pii esercizi» siano stati riconosciuti dalla Chiesa come universalmente validi e siano stai perciò regolati con norma di carattere liturgico (ad esempio, la benedizione con il Santissimo Sacramento, il culto al Sacro Cuore). Dove però non c’è un’adeguata formazione liturgica, si tende a introdurre nella liturgia forme che invece dovrebbero restare nella devozione privata o di gruppo. In ogni caso, questi «pii esercizi» dovrebbero essere in armonia con lo spirito della liturgia, da cui devono trarre ispirazione[51]. Facilmente però in questo ambito si possono registrare deformazioni o abusi, per cui non sempre è facile controllare questi sviluppi e tenerli agganciati alla celebrazione del mistero di Cristo, con il rischio che si dia più importanza a certi «pii esercizi» (novene, tridui, processioni, devozioni varie) che non alla celebrazione liturgica stessa[52].

Già nei primi secoli non era raro incontrarsi con abusi fin dentro le stesse celebrazioni sacramentali, come ad esempio la pratica di celebrare l’Eucaristia con pane e acqua (invece che con vino)[53]. Il culto dei martiri e dei morti diede occasione a manifestazioni che a volte degeneravano in gozzoviglie, e che i pastori cercavano di vietare o di incanalare in celebrazioni più ordinate[54].

Occorre però riconoscere che, nonostante le enfatizzazioni popolari e devozionali, le feste mariane e le memorie dei santi hanno sempre il loro momento culminante nella celebrazione del sacrificio eucaristico, il che mostra la loro totale subordinazione al mistero di Cristo, anche se la percezione di tale rapporto spesso non è da tutti avvertita in modo esplicito[55].

4. Conclusione

La riforma liturgica introdotta dal concilio Vaticano II è stata una «ripresa» della tradizione, che si riallaccia alla mistagogia patristica come iniziazione globale al mistero di Cristo[56]. Tuttavia in generale si deve dire che nell’applicazione pratica è andata un po’ smarrita la dimensione «teandrica» della liturgia. Da qui il senso di disagio, che si esprime a volte con reazioni comprensibili, ma non sempre giustificate.

La connessione tra Parola, sacramento e vita, base di ogni comunità cristiana, è diventata ormai un’acquisizione da cui non si può più tornare indietro, anche se occorre sempre vigilare e catechizzare. Così, la proclamazione della Parola affidata al ministero dei «lettori» è stata certamente una ripresa impor-tante di questo antico ufficio[57], ma si è ancora lontani da uno standard soddisfacente; l’ambone spesso non ha ancora una collocazione degna; la predicazione non è più trascurata come nel passato, ma non raramente lascia ancora a desiderare[58].

Anche sulla connessione tra sacramento e vita c’è ancora molto da fare: a volte le celebrazioni (eucaristiche) sono avulse dalla realtà; il rito della presentazione dei doni è quasi completamente bistrattato; l’altare è ancora considerato come una tavola su cui si può appoggiare di tutto, più che essere il centro teologico della celebrazione e simbolo di Cristo; la liturgia eucaristica come espressione di comunione non solo dei beni spirituali, ma anche di quelli materiali (sia pure in modo simbolico), è ancora di là da venire; la maggioranza dei cristiani praticanti pensa ad «andare a messa», non a celebrare la domenica come «giorno della risurrezione del Signore» e della comunità cristiana. Tutto ciò, e altro ancora che si potrebbe aggiungere, sta a significare che il movimento liturgico non ha affatto esaurito il suo compito.

Il Motu proprio di Benedetto XVI, che universalizza l’indulto a celebrare secondo i riti anteriori alla riforma del Vaticano II, non è propriamente un documento liturgico, ma disciplinare: da una parte, è una frustata contro quelli che si sono adagiati in una stanca routine, credendo così di attuare la riforma liturgica; dall’altra, è un tendere la mano a quelli che, per svariate ragioni storiche e personali, non sono stati ancora toccati dalla grazia del concilio.

La liturgia, come ha scritto un noto studioso, non va considerata né una griglia di ferro, eccessivamente rigida, né una pezza di caucciù, eccessivamente libera[59]. Essa è una realtà viva, in cui l’unità della linfa e della struttura portante si coniuga con l’esuberanza dei rami, delle foglie, dei fiori e dei frutti. Ma perché ciò avvenga e non capiti che si dissecchi o che sia portatrice di un’esuberanza sterile, senza frutti, anche la liturgia, come una vigna, ha bisogno continuamente di essere alimentata e di essere potata, «perché porti più frutto». (Enrico Cattaneo, Rivista Liturgica, 1/2008)

 

NOTE

[1] Cfr. C. Giraudo, Stupore eucaristico. Per una mistagogia della messa alla luce dell’enciclica Ecclesia de Eucharistia, LEV, Città del Vaticano 2004, p. 19. Il Motu proprio di Benedetto XVI del 7.07.2007 sulla generalizzazione dell’indulto a celebrare secondo il Messale e il Sacramentale in vigore prima del Vaticano II, certamente ha voluto stemperare delle tensioni, soprattutto se pensiamo a regioni, come la Cina, dove, in mancanza di una Conferenza episcopale, non c’è stata una uniforme recezione della riforma liturgica voluta dal Vaticano II ed è rimasto in vigore il Messale di Pio V. Tuttavia il Motu proprio di Benedetto XVI, anche prescindendo dal fatto se ci saranno molti o pochi a usufruirne, non mancherà di suscitare nuovi interrogativi: Cfr. A. Grillo, Riflessioni e domande. Il Motu proprio di Benedetto XVI Summorum pontificum e la sua recezione, in «Il Regno. Attualità» 52 (14/2007) 434-439.

[2] È però ingiusto e pretestuoso affermare che tale riforma abbia intaccato anche la dottrina sacramentale, per cui, ad es., la messa celebrata con il Messale di Paolo VI non sarebbe più la messa cattolica.

[3] Cfr. A. Grillo, Oltre Pio V. La riforma liturgica nel conflitto delle interpretazioni, Queriniana, Brescia 2007, pp. 55-102.

[4] Prima del concilio il concetto di «partecipazione attiva» era inteso da molti in senso restrittivo, come un fatto di adesione puramente interiore. Cfr. Grillo, Oltre Pio V, cit., pp. 31-54. Sulla tematica, si veda A. Montan - M. Sodi (edd.), Actuosa participatio. Conoscere, comprendere e vivere la liturgia. Studi in onore del prof. D. Sartore, LEV, Città del Vaticano 2002.

[5] Cfr. G. Ferraro, Cristo è l’altare. Liturgia di dedicazione della chiesa e dell’altare, OCD, Morena (Roma) 2004. Non è dunque chi presiede (vescovo o presbitero/i) che si pone al centro della celebrazione, anche se sta di fronte al popolo, ma il centro teologico è l’altare, simbolo di Cristo.

[6] Cfr. Giraudo, Stupore eucaristico, cit., pp. 19-22.

[7] Anche le richieste di celebrare i sacramenti secondo la liturgia in vigore prima del Vaticano II possono essere inficiate da grosse ambiguità, molte delle quali sono semplicemente frutto di ignoranza della storia della liturgia.

[8] Cfr. F. Cacucci, La mistagogia. Una scelta pastorale, EDB, Bologna 2006, pp. 47-49.

[9] Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 8, in Enchiridion Vaticanum (= EV) 1, 304 (corsivi nostri).

[10] Concilio Vaticano II, Cost. Sacrosanctum concilium (= SC), n. 2, in EV 1, 2 (corsivi nostri).

[11] Simeone di Tessalonica, Il santo tempio, 131 (PG 155, 340AB).

[12] SC 8, in EV 1, 13 (evidenziato nostro). Cfr. anche SC 83, in EV 1, 144: «Il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, Cristo Gesù, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell’inno che viene eternamente cantato nelle sedi celesti» (corsivi nostri).

[13] Infatti, se chiedessimo a un qualsiasi fedele se crede che durante la messa noi siamo uniti agli angeli nel proclamare la gloria di Dio, forse cadrebbe dalle nuvole! Eppure questa unione della voce umana con la voce angelica è attestata in tutte le formule di prefazio. Una delle più belle è quella della IV preghiera eucaristica: «Schiere innumerevoli di angeli stanno davanti a te per servirti, contemplano la gloria del tuo volto e giorno e notte cantano la tua lode. Insieme con loro anche noi, fatti voce di ogni creatura, esultanti cantiamo» (corsivi nostri).

[14] Giovanni Crisostomo, Dialogo sul sacerdozio 6, 4 (PG 48, 681).

[15] Giraudo, Stupore eucaristico, cit., p. 91 (corsivi nel testo).

[16] Purtroppo, come osservano i vescovi italiani, «è offuscato se non addirittura scomparso nella nostra cultura l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa. Tale eclissi si manifesta a volte negli stessi ambienti ecclesiali, se è vero che a fatica si trovano le parole per parlare delle realtà ultime e della vita eterna» (Conferenza episcopale italiana, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, n. 2 [corsivi nostri]).

[17] Cfr. Cacucci, La mistagogia, cit., p. 78: «Nel costruire le chiese rivolte verso l’Oriente, ritroviamo il duplice significato che caratterizza la liturgia cristiana: la gioia della presenza del Risorto e l’attesa della sua venuta alla fine dei tempi».

[18] Cfr. Simeone di Tessalonica, Il santo tempio, 136 (PG 155, 345), cit. da C.V. Gheorghiu, Dalla venticinquesima ora all’eternità, San Paolo, Cinisello B. 2007, pp. 64-65.

[19] Sulla questione delle immagini e dell’arte sacra, Cfr. J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello B. 2001, pp. 111-131.

[20] Gheorghiu, Dalla venticinquesima ora, cit., p. 65.

[21] Cfr. E. Cattaneo, Il mistero delle Scritture: l’ispirazione, in R. Fabris (ed.), Introduzione generale alla Bibbia, LDC, Leumann (TO) 20062, pp. 499-542.

[22] Di per sé Gesù non aveva bisogno di ricevere lo Spirito, poiché è lui che lo dona, ma ha voluto aver bisogno di riceverlo nella sua umanità, per mostrare che questa nuova fase della sua vita [il ministero pubblico] era tutta segnata dallo Spirito.

[23] Ireneo di Lione, Contro le eresie, 3, 17,1 (corsivi nostri).

[24] Massimo di Torino, Discorso 100 sull’Epifania, 1, 3 (CChL 23, 398) (corsivi nostri).

[25] Cfr. di «Rivista Liturgica» 94 (3/2007) il fascicolo monografico: I sacramenti: come «dirli» oggi.

[26] Esemplare, a questo riguardo, è il citato volume: Cacucci, La mistagogia.

[27] Cfr. Ibid., pp. 43-70.

[28] Cfr. Ibid., pp. 57-62. Notiamo, per inciso, che la «tipologia» non è soltanto un procedimento esegetico adottato dai Padri e ora superato. Benché con nuovi mezzi, la tipologia è stata ripresa da alcuni settori dell’esegesi contemporanea: Cfr. P. Beauchamp, Exégèse typologique, exégèse d’aujourd’hui?, in Id., Pages exégétiques, Cerf, Paris 2005, pp. 407-412; R. Kuntzmann (ed.), Typologie biblique. De quelques figures vives, Cerf, Paris 2002.

[29] Per alcune considerazioni sulla continuità tra Bibbia e liturgia, Cfr. R. De Zan, Parola di Dio e celebrazione, in Montan - Sodi (edd.), Actuosa participatio, cit., pp. 193-204.

[30] Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 15, 38 (cit. in J. Lecuyer, Le sacrement de l’ordination. Recherche historique et theologique, Beauchesne, Paris 1983, pp. 101-103).

[31] Giovanni Crisostomo, Omelia sulla Pentecoste 1, 4 (PG 50, 458-459).

[32] Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 5, 21 (PG 33, 1124-1125).

[33] Melitone di Sardi, Sulla Pasqua 70.

[34] Tradizione apostolica 4 (SCh 11 bis, 48-53).

[35] Ancora valido è lo studio storico di M. Righetti, Manuale di storia liturgica. II. L’anno liturgico, Áncora, Milano 19693 (ed. anast. 1998).

[36] Cfr. SC 106, in EV 1, 191: «Secondo la tradizione apostolica, che ha origine dallo stesso giorno della risurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni, in quello che si chiama giustamente “giorno del Signore” o “domenica”». Cfr. S. Palese (ed.), Il giorno del Signore. Prospettive bibliche e patristiche, Ed. Vivere In, Roma 2005.

[37] Nota opportunamente Congar: «La Pentecoste non è la festa dello Spirito Santo – non ci sono feste separate per le Persone della SS. Trinità –, ma una festa dell’evento pentecostale come termine del mistero pasquale» (Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, vol. I, Queriniana, Brescia 19822, p. 127).

[38] Cacucci, La mistagogia, cit., p. 38.

[39] Righetti, Manuale di storia liturgica, II, cit., p. 2.

[40] Cfr. Ibid., pp. 341-347.

[41] Cfr. Ibid., pp. 329-339.

[42] Cfr. Ibid., pp. 339-341.

[43] È curioso notare come molte di queste feste siano state patrocinate da donne: sant’Elena (ritrovamento della santa croce); beata Giuliana di Rétine (Corpus Domini); santa Margherita Maria Alacoque (Sacro Cuore); suor Lucia (Consacrazione al cuore immacolato di Maria); santa Faustina Kowalska (festa della Divina misericordia). Sarebbe interessante rilevare l’influsso che hanno avuto sui papi tante donne religiose, spesso favorite da doni mistici.

[44] Il Decreto della Congregazione per il culto divino che istituisce la II domenica di Pasqua come della domenica «della Divina misericordia» si preoccupa di evidenziarne l’aggancio con il mistero pasquale: «Ai nostri giorni i fedeli di molte regioni della terra, nel culto divino e soprattutto nella celebrazione del mistero pasquale, nel quale l’amore di Dio verso tutti gli uomini risplende in massima misura, desiderano esaltare quella misericordia».

[45] Cfr. Righetti, Manuale di storia liturgica, II, cit., pp. 396-470.

[46] Cfr. Ibid., pp. 348-395.

[47] Affermava sant’Agostino: «Per i nostri martiri non costruiamo templi come a delle divinità, ma edifici commemorativi, e lì non erigiamo altari per offrire sacrifici ai martiri, ma solo a Dio, che è il Dio dei martiri e nostro» (Sant’agostino, La città di Dio, 22, 10).

[48] Cfr. Righetti, Manuale di storia liturgica, II, cit., p. 386.

[49] Cfr. SC 23, in EV 1, 38.

[50] Cfr. SC 13, in EV 1, 20-22.

[51] Cfr. Ivi.

[52] Un esempio di questa mancanza di un «centro» teologico-liturgico è dato dal seguente calendario pubblicato non dalla parrocchia, ma dalla Pro loco, in un paese del beneventano, sotto il titolo: Principali appuntamenti 2007: «20 Febbraio Carnevale; 16 Marzo Commemorazione del servo di Dio Frà Carlo; 1 Aprile Passione Vivente; 6 Aprile Via Crucis al Monte Calvario; 24 Aprile /1 Maggio Sagra dei prodotti tipici locali; 13 Maggio (sic!) Festività di San Giuseppe; 29 Maggio e 3 Giugno Processione Madonna del Rosario; 10 Giugno Infiorata del Corpus Domini; 15 Giugno Festività di San Vito; 2 Luglio Festività della Madonna delle Grazie; 29 Luglio Festività di San Pasquale; 3 Agosto Processione della Spina Santa; 4 Agosto Corsa delle «Carrozzelle»; 5 Agosto Festività di San Nicola (Patrono); 12 Agosto (sic!) Festività di S. Antonio; 22 Agosto (sic!) Festività di S. Lucia; 24 Agosto Festività di S. Bartolomeo; 8 Settembre Festività Madonnella; 16 Settembre (sic!) Fest. dell’Immacolata Concezione; dal 21 sett. al 7 ott. Sagra dei funghi; 7 Ottobre Processione Madonna della Vittoria; 13 Ottobre Spogliata gigante; Fine Ottobre Sagra della Castagna; 31 Dicembre San Silvestro in piazza». Su questo calendario, dove tutto appare appiattito su un modulo santorale-folcloristico, ogni commento è superfluo.

[53] Cfr. Cipriano di Cartagine, Lettera 63.

[54] Cfr. Righetti, Manuale di storia liturgica, II, cit., pp. 396-396.

[55] Per aiutare i pastori a rispettare la gerarchia delle feste liturgiche, la riforma tridentina attuata da san Pio V aveva stabilito un complicato ordinamento, con sei diversi gradi di solennità. Così la festa di Pasqua era «doppia di I classe con ottava privilegiata di I ordine», mentre il Natale arrivava solo a un’«ottava privilegiata di III ordine». In seguito al Vaticano II si è giunti a una sostanziale semplificazione in tre soli gradi: solennità, feste e memorie (obbligatorie e facoltative). Cfr. A. Adam, L’anno liturgico celebrazione del mistero di Cristo. Storia - Teologia - Pastorale, LDC, Leumann (TO) 1984.

[56] Cfr. E. Cattaneo, La tradizione liturgica alla luce della coppia semantica «ricevere - trasmettere», in C. Giraudo (ed.), Il Messale Romano. Tradizione, traduzione, adattamento. Atti della XXX Settimana di studio dell’Associazione Professori di liturgia, Gazzada, 25-30 agosto 2002, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 2003, pp. 9-35.

[57] Cfr. E. Cattaneo, L’ufficio del lettore nei primi secoli, in «Rivista Liturgica» 94 (4/2007) 524-534

[58] Cfr. E. Cattaneo, La predicazione secondo i Padri della Chiesa, in «La Civiltà Cattolica» 158 (2007) I 264-273.

[59] Cfr. Giraudo, Stupore eucaristico, cit., pp. 20-21.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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