TESTI APPROFONDIMENTI

ANNO 2008

 

 

 PARTE SECONDA

 

 

Dignitas personae

Le ragioni per cui la scienza non può opporsi all’Istruzione della Chiesa

(21 dicembre 2008)

 

La Congregazione per la Dottrina della Fede, in virtù della missione dottrinale e pastorale della Chiesa, ha sentito il dovere di mettere in chiaro la posizione della Chiesa Cattolica in tema di bioetica, rispetto a documenti precedenti, quali l’Istruzione Donum Vitae (22 febbraio 1987).

Nella Dignitas Personae si cerca di riaffermare la dignità e i diritti fondamentali e inalienabili di ogni essere umano dalle prime fasi della sua esistenza e di esplicitare i requisiti di protezione e rispetto che il riconoscimento di tale dignità esige.

Questa Istruzione si spiega per due ragioni: le scoperte scientifiche sulle nuove tecnologie che riguardano la vita umana e la mancanza di un’informazione veriteria della sua trascendenza, sia rispetto ai risultati tecnici reali sia a rispetto agli aspetti etici.

Quanto al contenuto, il documento è un trattato di bioetica dalla prospettiva della morale cristiana, che cerca di dare un orientamento e una corretta interpretazione dei temi che comportano un’azione a favore o contro la vita umana. Si tratta di mettere in risalto l’esattezza e la comprensione dei temi trattati e la perfetta conoscenza delle scoperte scientifiche e tecniche nel campo della biologia, della biotecnologia e delle applicazioni biomediche rispetto alla vita umana.

Quanto alla forma, il documento tratta in modo ordinato e comprensivo tutti gli aspetti pertinenti alle prospettive che offrono queste aree scientifiche in tre grandi sezioni: il concepimento dell’essere umano dal punto di vista antropologico, teologico ed etico; i nuovi problemi relativi alla procreazione; le nuove proposte terapeutiche che implicano la manipolazione di embrioni o del patrimonio genetico umano.

Le scoperte scientifiche nel campo della genetica, della biologia cellulare, dell’embriologia, della genetica dello sviluppo e della genomica non lasciano dubbi sul fatto che l’inizio della vita umana avviene nel momento del concepimento. Ciò è avvallato dai dati della genetica (il momento in cui si costituisce la singola identità genetica), della biologia cellulare (gli esseri pluricellulari mantengono in tutte le cellule una copia della stessa informazione genetica dello zigoto), l’embriologia (lo sviluppo avviene senza soluzione di continuità), della genetica dello sviluppo (lo sviluppo obbedisce a un programma di attività genetiche stabilito al momento della fecondazione e che si sviluppa nello spazio e nel tempo) e della genomica funzionale (il genoma è il grande centro coordinatore dello sviluppo di ogni essere vivente. Il genoma individuale, costituito nel momento della fecondazione, ci accompagna durante tutta la vita e da esso dipende l’ontogenia).

La Dignitas Personae prende in considerazione questi progressi ed è in linea con le scoperte scientifiche recenti sull’inizio della vita umana, che d’altra parte confermano i tradizionali punti di vista della Chiesa. Essendo concorde con questi progressi non c’è nessuno scontro o contraddizione tra scienza e religione in materia di inizio della vita umana.

Non ci sono salti qualitativi nella costituzione genetica, né pertanto nella condizione umana, dal momento della fecondazione fino alla morte. L’embrione è la prima tappa della vita umana che merita di essere qualificato come essere umano e l’essere umano è immutabile nella sua identità genetica lungo l’arco della sua vita. Per questo, dal punto di visto della biologia, non ci sono argomenti per mettere in discussione il fatto che la vita umana ha la stessa intensità in tutte le sue tappe e, coerentemente con questo dato della scienza, il documento pone la domanda: come un individuo umano potrebbe non essere una persona umana?

La conclusione logica è che l’essere umano deve essere rispettato e trattato con la dignità propria della persona dall’istante del suo concepimento e, per questo, a partire da quel momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, principalmente il diritto inviolabile alla vita di ogni essere umano innocente. La Chiesa “scommette” giustamente sulla protezione della vita umana dal concepimento alla morte naturale.

Un principio fondamentale della Chiesa è che la fede non solo accoglie e rispetta ciò che è umano, ma lo purifica anche, lo eleva e lo perfeziona. In questo senso, il documento sottolinea la dignità speciale della vita umana, che possiede una vocazione eterna, e il riconoscimento del suo carattere sacro. È a a partire dal legame delle dimensioni umana e divina che meglio si capisce il perché del valore inviolabile dell’uomo. Un valore che si deve applicare indistintamente a tutti; solo per il fatto di esistere, ogni essere umano deve essere pienamente rispettato. Perciò, nel documento si afferma che sono da eliminare i criteri di discriminazione della dignità umana basati sullo sviluppo biologico, psichico, culturale o sullo stato di salute degli individui.

Di fronte alle scoperte delle tecnologie relative alla riproduzione, per ciò che concerne la fecondazione artificiale e la procreazione assistita e tutte le loro derivazioni, la Chiesa ricorda che il valore etico della scienza biomedica si misura con riferimento tanto al rispetto incondizionato dovuto a ogni essere umano, in tutti i momenti della sua esistenza, quanto alla tutela della specificità degli atti personali che trasmettono la vita.

Per questo si sottolinea che l’origine della vita umana ha il proprio autentico senso naturale nel matrimonio e nella famiglia, come frutto di un atto che esprime l’amore reciproco tra l’uomo e la donna, e si afferma che una procreazione realmente responsabile verso il nascituro è frutto del matrimonio. In questo senso va inteso il rifiuto di tutte le tecniche di fecondazione artificiale eterologa e omologa che sostituiscono l’atto coniugale. In tali casi si concepisce il figlio come un prodotto della tecnologia. Tuttavia si ritengono ammissibili le tecniche che si configurano come un aiuto all’atto coniugale e alla sua fecondità, così come tutti gli interventi che hanno la finalità di eliminare gli ostacoli che impediscono la fertilità naturale.

La Chiesa riconosce la legittimità del desiderio di avere un figlio e comprende le sofferenze dei coniugi afflitti dal problema dell’infertilità. Con il fine di curare i problemi d’infertilità e soddisfare i desideri di avere un figlio, la Dignitas Personae promuove l’adozione e le ricerche destinate alla prevenzione della sterilità.

Coerentemente con le scoperte della biologia, il documento sostiene che l’embrione non è un semplice agglomerato di cellule, ma una vita umana nelle sue prime fasi di sviluppo. In questo senso risulta una contraddizione affermare scientificamente che le tecniche di fecondazione in vitro possono essere accettate perché esiste il presupposto che l’embrione non merita pieno rispetto in confronto a un desiderio che va soddisfatto.

In questo senso, il Magistero della Chiesa condanna l’uso puramente strumentale degli embrioni e considera contrario all’etica la crio-conservazione degli embrioni, il loro utilizzo ai fini di ricerca e la loro distruzione per l’estrazione delle cellule embrionali madre. La cosa certa è che il processo di congelamento è traumatico per gli embrioni, con un rischio di morte intorno al 30%. Questa tecnologia presuppone l’abbandono a un destino incerto delle vite cosi prodotte, essendo molto probabile la loro morte.

Sebbene non si sia arrivati a un registro degli embrioni congelati, nonostante si tratti di un obbligo stabilito dalla legge, si stima che solamente in Spagna, dacché è stata data l’autorizzazione all’uso di queste tecniche, siano congelati oltre 200.000 embrioni.

Nel documento si evidenzia la mancanza di soluzioni per le migliaia di embrioni congelati, prodotti nei centri di riproduzione assista, per i quali non esiste una via d’uscita moralmente lecita. Per questo viene fatto un richiamo alla coscienza dei responsabili del mondo scientifico, in particolare ai medici, perché si arresti la produzione di embrioni umani.

Coerentemente con il senso della vita umana, il Magistero della Chiesa considera contrari all’etica altri metodi di manipolazione della vita umana o della procreazione, come il congelamento degli ovuli, i metodi contraccettivi destinati a evitare l’impianto degli embrioni, l’impianto di più embrioni, la riduzione degli embrioni, la loro selezione conseguente alla diagnosi genetica pre-impianto, la clonazione riproduttiva e quella cosiddetta “terapeutica”, così come il trasferimento di nuclei umani in ovociti di animali.

Il documento riflette una situazione reale di diminuzione dell’autentico significato della vita umana, in particolare degli embrioni prodotti con fecondazione in vitro (Fiv). La riduzione degli embrioni è una pratica abortiva che consiste nel ridurre a due, e in alcune circostanze a uno, gli embrioni che in numero superiore vengono impiantati nell’utero, al fine di garantire il buon sviluppo di chi resta ed evitare gravidanze multiple. Si porta a termine mediante avvelenamento, con la morte immediata degli embrioni “in più”. Di fatto è un atto abortivo.

Riguardo alla Diagnosi Genetica Pre-impianto (Dgp), il mondo scientifico non accetta il fatto che il metodo venga qualificato come un pratica di tipo eugenetico, per quanto si promuova la selezione degli embrioni in base alle loro qualità genetiche. D’altra parte è una tecnologia molto costosa e ingiusta, dato che non arriverebbe a essere accessibile a ogni economia, e di efficacia molto bassa.

La Eshre (European Society for Human Reproduction and Ebryoogy), organismo europeo che riunisce i professionisti della medicina e della biologia della riproduzione, fornisce alcuni dati sulla pratica della Fiv e della Dgp nel perido tra il 2004 e il 2007, provenienti da 45 centri di diversi Paesi europei.

La Spagna compare come uno dei Paesi con più casi di Fiv (oltre 17.000). Rispetto alla Dgp, dei 20.000 embrioni sottoposti a biopsia nell’insieme dei centri europei, ne sono stati trasferiti 2.400, sono nati 479 bambini e si sono contati due errori diagnostici. Secondo questi dati, solamente il 12% degli embrioni provenienti dalla Fiv e sottoposti alla Dgp sono stati alla fine impiantati (poco più di uno su dieci), e solamente il 20% degli embrioni trasferiti attraverso una biopsia sono arrivati a destinazione. Se consideriamo il numero di bambini nati rispetto al totale degli embrioni sottoposti a biopsia la statistica è ancor meno favorevole, poiché solamente il 2% degli embrioni provenienti dalla Fiv e sottoposti alla Dgp sono arrivati a destinazione. Tutto questo mostra un’autentica crudeltà riproduttiva.

Rispetto alle due modalità di clonazione, la Dignitas Personae segnala la maggior gravità della cosiddetta “clonazione terapeutica”, che presuppone la distruzione degli embrioni, rispetto a quella riproduttiva, che implica l’imposizione arbitraria a un essere umano del patrimonio genetico identico a quello di un’altra persona, che in qualunque caso rappresenta una grave offesa alla dignità del soggetto clonato e all’uguaglianza fondamentale tra gli uomini.

L’Istruzione Dignitas Personae pone in rilievo la decadenza morale e l’inefficacia diagnostica della “clonazione terapeutica”, che richiede la distruzione degli embrioni e che non ha risolto nessun problema di recupero dei tessuti deteriorati. L’estrazione delle cellule madre da embrioni vivi comporta la loro distruzione, per questo risulta eticamente inaccettabile. Di fronte a questa tecnologia, si è sviluppata un’alternativa efficiente, con cellule madri adulte (sangue di cordone ombelicale, grasso, midollo osseo, pelle, fibroblasta, ecc.). A questa si aggiunge la nuova tecnologia di “riprogrammazione genetica”, dovuta a recenti ricerche in Giappone e Stati Uniti (2006-2008), che permette di ottenere linee cellulari, utili per la medicina rigenerativa, a partire da cellule adulte differenziate.

La Dignitas Personae segnala l’utilità di queste alternative e dà impulso e appoggio alla ricerca sull’uso di cellule madre da cordone ombelicale e da altre fonti somatiche, che non implicano problemi etici e offrono migliori prospettive per la produzione di linee cellulari destinate a rispondere alle necessità di ricostruzione di tessuti degradati.

Si segnala anche come contrario alla dignità umana l’uso di embrioni o feti umani come oggetto di sperimentazione. L’Istruzione Dignitas Personae fa riferimento anche all’uso di cellule provenienti da embrioni morti e di quelle si trovano disponibili in commercio. In questo senso viene messo in discussione il principio di indipendenza rispetto alla responsabilità dell’uso di “materiali biologici” ottenuti da altri ricercatori e provenienti da embrioni o da fonti illecite.

Il Magistero della Chiesa dichiara anche l’urgenza di mobilitare le coscienze in favore della vita e si appella alla dimensione etica della professione medica, nel contesto del giuramento d’Ippocrate, secondo il quale si chiede a ogni medico di rispettare in modo assoluto la vita umana e il suo carattere sacro.

Risulta particolarmente rilevante la qualifica come pratiche eugenetiche della Dgp, dell’ingegneria genetica con finalità diverse da quella terapeutica e di tutte le tecniche che implicano un dominio dell’uomo sull’uomo. In questo senso il Magistero della Chiesa richiama la necessità di tornare a una prospettiva centrata sulla cura della persona e di educare affinché la vita umana sia sempre accolta, nel quadro della sua concreta limitatezza storica.

Sono considerate lecite le tecniche che cercano di correggere difetti congeniti attraverso la terapia genica somatica. Non è così per la linea germinale per i danni potenziali conseguenti che si possono diffondere nella discendenza.

Alla fine, il documento si conclude con le riflessioni raccolte nello stesso e ci orienta sul suo autentico significato affermando che i fedeli si devono impegnare fermamente nel promuovere una nuova cultura della vita, accogliendo il contenuto della presente Istruzione con senso religioso. Il compimento di questo dovere implica lo sforzo di opporsi a tutte le pratiche che si traducono in una grave e ingiusta discriminazione degli esseri umani non ancora nati. Dietro a ogni “no” brilla, nelle fatiche del discernimento tra il bene e il male, un grande “sì” nel riconoscimento della dignità e del valore inalienabile di ogni singolo e irripetibile essere umano chiamato all’esistenza. (Nicolás Jouve de la Barreda, Il Sussidiario, 19 dicembre 2008)

 

 

 


 

E la notte fu. La vera storia del peccato originale

(14 dicembre 2008)

 

Per tre volte in otto giorni Benedetto XVI ha insistito su un dogma che è quasi scomparso dalla comune predicazione ed è negato dai teologi neomodernisti: il dogma del peccato originale.

L'ha fatto lunedì 8 dicembre all'Angelus della festa dell'Immacolata; il precedente mercoledì 3 all'udienza settimanale con migliaia di fedeli e pellegrini; e poi ancora all'udienza generale di mercoledì 10.

All'Angelus dell'Immacolata papa Joseph Ratzinger si è così espresso:

"Il mistero dell’Immacolata Concezione di Maria, che oggi solennemente celebriamo, ci ricorda due verità fondamentali della nostra fede: il peccato originale innanzitutto, e poi la vittoria su di esso della grazia di Cristo, vittoria che risplende in modo sublime in Maria Santissima.

"L’esistenza di quello che la Chiesa chiama peccato originale è purtroppo di un’evidenza schiacciante, se solo guardiamo intorno a noi e prima di tutto dentro di noi. L’esperienza del male è infatti così consistente, da imporsi da sé e da suscitare in noi la domanda: da dove proviene? Specialmente per un credente, l’interrogativo è ancora più profondo: se Dio, che è Bontà assoluta, ha creato tutto, da dove viene il male? Le prime pagine della Bibbia (Genesi 1-3) rispondono proprio a questa domanda fondamentale, che interpella ogni generazione umana, con il racconto della creazione e della caduta dei progenitori: Dio ha creato tutto per l’esistenza, in particolare ha creato l’essere umano a propria immagine; non ha creato la morte, ma questa è entrata nel mondo per invidia del diavolo il quale, ribellatosi a Dio, ha attirato nell’inganno anche gli uomini, inducendoli alla ribellione (cfr. Sapienza 1, 13-14; 2, 23-24). È il dramma della libertà, che Dio accetta fino in fondo per amore, promettendo però che ci sarà un figlio di donna che schiaccerà la testa all’antico serpente (Genesi 3, 15).

"Fin dal principio, dunque, 'l’eterno consiglio' – come direbbe Dante (Paradiso, XXXIII, 3) – ha un 'termine fisso': la Donna predestinata a diventare madre del Redentore, madre di Colui che si è umiliato fino all’estremo per ricondurre noi alla nostra originaria dignità. Questa Donna, agli occhi di Dio, ha da sempre un volto e un nome: 'piena di grazia' (Luca 1, 28), come la chiamò l’Angelo visitandola a Nazareth. È la nuova Eva, sposa del nuovo Adamo, destinata ad essere madre di tutti i redenti. Così scriveva sant’Andrea di Creta: 'La Theotókos Maria, il comune rifugio di tutti i cristiani, è stata la prima ad essere liberata dalla primitiva caduta dei nostri progenitori' (Omelia IV sulla Natività, PG 97, 880 A). E la liturgia odierna afferma che Dio ha 'preparato una degna dimora per il suo Figlio e, in previsione della morte di Lui, l’ha preservata da ogni macchia di peccato' (Orazione Colletta).

"Carissimi, in Maria Immacolata noi contempliamo il riflesso della bellezza che salva il mondo: la bellezza di Dio che risplende sul volto di Cristo".

Ma il papa si è spinto ancora più a fondo, sul peccato originale, nell'udienza generale di mercoledì 3 dicembre.

Ogni mercoledì, da quando è iniziato l'Anno Paolino, Benedetto XVI dedica le sue catechesi settimanali a illustrare la vita, gli scritti, la dottrina dell'apostolo Paolo. Questa era la quindicesima catechesi della serie. Nelle due precedenti il papa aveva spiegato la dottrina della giustificazione e il nesso tra la fede e le opere. Questa volta, invece, il tema di partenza era l'analogia tra Adamo e Cristo, sviluppata da Paolo nella prima lettera ai Corinzi e più ancora nella lettera ai Romani. Ricorrendo a questa analogia, Paolo evoca il peccato di Adamo per dare il massimo risalto alla grazia salvatrice donata da Cristo.

Come generalmente avviene nelle catechesi del mercoledì, Benedetto XVI si è avvalso di un testo scritto da esperti collaboratori. Ma come già in altre occasioni, se ne è distaccato. Questa volta più ampiamente del solito. Dal terzo capoverso in avanti si è rivolto direttamente ai presenti, improvvisando.

La stessa cosa ha fatto nell'udienza del mercoledì successivo, 10 dicembre. Aveva in mano un testo scritto, ma ha parlato quasi interamente a braccio. E nella parte iniziale è tornato così sul tema del peccato originale:

"Cari fratelli e sorelle, seguendo san Paolo abbiamo visto nella catechesi di mercoledì scorso due cose. La prima è che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall'abuso della libertà creata, che intende emanciparsi dalla volontà divina. E così non trova la vera libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l'uomo e la terra. Abbiamo detto che questo inquinamento della nostra storia si diffonde sull’intero suo tessuto e che questo difetto ereditato è andato aumentando ed è ora visibile dappertutto. Questa era la prima cosa. La seconda è questa: da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo, Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non sulla superbia di una falsa emancipazione, ma sull'amore e sulla verità.

"Ma adesso si pone la questione: come possiamo entrare noi in questo nuovo inizio, in questa nuova storia? Come questa nuova storia arriva a me? Con la prima storia inquinata siamo inevitabilmente collegati per la nostra discendenza biologica, appartenendo noi tutti all'unico corpo dell'umanità. Ma la comunione con Gesù, la nuova nascita per entrare a far parte della nuova umanità, come si realizza? Come arriva Gesù nella mia vita, nel mio essere? La risposta fondamentale di san Paolo, di tutto il Nuovo Testamento è: arriva per opera dello Spirito Santo. Se la prima storia si avvia, per così dire, con la biologia, la seconda si avvia nello Spirito Santo, lo Spirito del Cristo risorto. Questo Spirito ha creato a Pentecoste l'inizio della nuova umanità, della nuova comunità, la Chiesa, il Corpo di Cristo.".

Queste improvvisazioni sono un indizio importante per capire il pensiero di Benedetto XVI. Esse contrassegnano le cose che più gli stanno a cuore, quelle che vuole imprimere di più nella mente degli ascoltatori.

Il peccato originale, questo dogma oggi così trascurato, è una di queste verità che papa Ratzinger sente il bisogno di rinverdire.

E il motivo l'ha spiegato ai fedeli così, nella catechesi del 3 dicembre, quella più diffusamente dedicata al tema, riprodotta integralmente qui di seguito:

Adamo e Cristo: dal peccato originale alla libertà (di Benedetto XVI)

Cari fratelli e sorelle, nell'odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della lettera ai Romani (5, 12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale. In verità, già nella prima lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo: “Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita... Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (1 Corinzi 15, 22-45). Con Romani 5, 12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo. Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull'umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull'umanità. La ripetizione del “molto più” riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull'umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: “Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Romani 5, 20). Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo.

D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza l'incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che “a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte” (Romani 5, 12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale, è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo.

Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell'evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell'umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento.

Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l'altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell'egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così: "C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio" (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto.

Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una "seconda natura" che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa seconda natura fa apparire il male come normale per l'uomo. Così anche l'espressione solita: "questo è umano£ ha un duplice significato. "Questo è umano" può voler dire: quest'uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma "questo è umano" può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell'essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi.

Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l'essere stesso è contraddittorio, porta in sé sia il bene sia il male. Nell'antichità questa idea implicava l'opinione che esistessero due principi ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall'origine dell'essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire.

Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se in tale concezione la visione dell'essere è monistica, si suppone che l'essere come tale dall'inizio porti in se il male e il bene. L'essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l'evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell'essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell'essere. È una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male, e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo.

E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l'essere non è un misto di bene e male; l'essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c'è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell'essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.

Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell'uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all'altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l'uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell'evoluzionismo, non possono dire che l'uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l'uomo è sanabile. E il libro della Sapienza dice: “Hai creato sanabili le nazioni” (1, 14 nella Vulgata). E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte.

Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati: presenza e attesa. Presenza: la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò preghiamo nell'Avvento con l'antico popolo di Dio: "Rorate caeli desuper", stillate cieli dall'alto. E preghiamo con insistenza: vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni dove domina la menzogna, l'ignoranza di Dio, la violenza, l'ingiustizia; vieni, Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù! (Sandro Magister, Focus, 11 dicembre 2008)

 

 

 


 

Il mistero della stella di Natale

(7 dicembre 2008)

 

Sul brano del Vangelo di Matteo che parla della stella che guida i Magi a Betlemme, per duemila anni, si sono interrogati teologi, scienziati e studiosi di ogni genere. Le ipotesi sono tante. Tra tutte, la meno convincente è quella della cometa, resa però popolare dal genio di Giotto.

Con l’inizio del mese di dicembre si cominciano ad addobbare le case e i negozi con i tradizionali simboli natalizi, come l’albero e il presepio. Il primo affonda le sue origini nelle tradizioni pagane nordiche mentre il secondo, per quanto di antica tradizione, acquisì rinnovato vigore grazie a san Francesco che, con i suoi confratelli, volle rievocare a Greccio la nascita del Redentore. Nei presepi che allestiamo nelle nostre abitazioni non può mancare una cometa, quale attrice non protagonista, con la sua silenziosa comparsa sullo sfondo della scena. Per stabilire quanto c’è di vero in quella piccola striscia di carta stagnola che appuntiamo distrattamente sul cielo del nostro presepio, bisogna innanzi tutto inquadrare il momento preciso della nascita di Cristo.

L’interrogativo ha angustiato teologi, scienziati, letterati da duemila anni a questa parte. La ragione la si deve alla scarsità di indicazioni in merito, reperibili nelle Sacre Scritture. Solo il Vangelo di Matteo narra di un segno celeste che indusse alcuni sapienti dall’Oriente (detti Magi) a intraprendere un viaggio per venire ad adorare il Bambino. Qualche spunto può giungere dai Vangeli apocrifi, che pur dovendosi rigettare dal punto di vista teologico, possono essere testimoni di un comune sentire e di antiche tradizioni, tramandate oralmente, legate anche alla vicenda dei Magi, che possono fondarsi su fatti realmente accaduti, anche se rivisitati.

Iniziamo dunque cercando di stabilire la data della nascita e poi cercheremo di incrociarla con qualche fenomeno celeste accaduto in quel periodo.

Circa l’anno si potrebbe avere gioco facile partendo dallo zero, non a caso il nostro computo si caratterizza proprio per un "a.C." o un "d.C." (avanti o dopo la nascita di Cristo). In realtà l’anno zero non esiste. Se analizziamo lo scorrere degli anni ci accorgiamo che si passa dal 1 a.C. al 1 d.C. Questo perché Dionigi il Piccolo, un monaco del VI secolo, quando stabilì la data della nascita di Gesù Cristo non numerò gli anni, come facciamo noi, con 1, 2, 3, ma primo, secondo, terzo. Poi si mutò l’uso dell’ordinale con il cardinale e così l’anno della nascita, primo anno di grazia, fu nominato 1, pur essendo lo 0 della successione, il secondo 2, pur essendo trascorso un solo anno dalla nascita, e così via. In effetti, se guardiamo, il 753 ab urbe condita (dalla fondazione di Roma) corrisponde al 1 d.C.

Ma anche l’1 d.C. sembra essere errato. Dionigi infatti si era sbagliato. Veniamo a sapere dai Vangeli che i Magi erano venuti a Gerusalemme dall’Oriente e avevano trovato re Erode con tutta la sua corte e che, adirato per il tiro mancino che gli giocarono durante il ritorno, ordinò l’uccisione di tutti i bambini sotto i due anni. Flavio Giuseppe ricorda che Erode morì dopo un’eclisse di Luna, visibile da Gerico, e che fu cremato prima della Pasqua ebraica. Con dei conteggi astronomici computerizzati possiamo stabilire quando ebbe luogo l’eclisse. Le simulazioni concordano sul 13 marzo. Questo indicherebbe per la morte di Erode una data compresa tra l’eclisse del 13 marzo e la Pasqua del 10 aprile del 4 a.C.!

Questa data stabilisce un limite superiore ma non ci dice di quanto dobbiamo andare indietro nel tempo per collocare la nascita di Cristo, anche perché, seguendo sempre i Vangeli, la Sacra Famiglia scappò in Egitto al fine di sfuggire alla strage e di là fece ritorno in Palestina, a Nazareth, quando il Bambino era ancora piccolo, senza precisarne l’età.

I Vangeli comunque ci danno un’altra indicazione piuttosto significativa. Dal racconto di Luca sappiamo che era stato emanato da Cesare Augusto un censimento di tutto l’impero e, proprio per le vicende legate al censimento, Maria e Giuseppe si erano messi in viaggio e che durante il tragitto per Maria si erano compiuti i giorni del parto, dando alla luce Gesù nella grotta di Betlemme.

Alcuni anni fa ad Ankara è stata trovata una copia originale del decreto di quel censimento, che fu ordinato nell’8 a.C. Nell’impero romano gli editti passavano da un territorio a un altro per mezzo di corrieri a cavallo abbastanza celermente ma, considerati i tempi, è presumibile che fra la promulgazione e l’effettiva attuazione in Giudea possano essere passati anche un paio d’anni, così da concludere che il censimento possa essersi svolto tra l’8 a.C. e il 6 a.C.

Se abbiamo così un’indicazione dell’anno, ben più difficile diventa stabilire il giorno, o anche semplicemente il mese della nascita. Nella fase tarda dell’impero romano si era radicata una festa pagana, di origini orientali, legata al culto del Sole: il Dies Natalis Solis Invicti. Si trattava di un culto molto diffuso in Siria ed Egitto. Le celebrazioni prevedevano che, nel giorno del solstizio (allora il 25 dicembre), i celebranti si ritirassero nel tempio per uscirne a mezzanotte annunciando che la vergine aveva partorito il nuovo Sole, raffigurato da un lattante. L’imperatore Eliogabalo (degli inizi del III secolo) fu un fervido devoto, tanto da far costruire sul Palatino un tempio a Elogabalus Sol Invictus, come si vede anche nella monetazione dell’epoca, nella quale l’imperatore stesso appare raffigurato con una raggiera in testa, simbolo dei raggi solari. Anche se alla sua morte tutto tornò come prima, la strada era stata battuta. La svolta definitiva si ebbe nel 272 quando Aureliano sconfisse le truppe della regina Zenobia con l’aiuto delle milizie provenienti da Emesa (nella Siria), dove il culto del Sol Invictus era molto diffuso. Nel 274 trasferì sul Palatino i sacerdoti e tentò una riforma del paganesimo in senso monoteistico, nella quale la divinità principale era il Sole e le celebrazioni solenni avvenivano nel solstizio invernale.

Anche Costantino, in un primo tempo, provò particolare devozione per il Sole, stabilendo il riposo nel giorno dedicato al Sole, divenuto dominicus solo dopo l’avvento del cristianesimo. I cristiani da parte loro, ravvisando in Cristo la luce del mondo, sia per soppiantare senza stravolgere una tradizione ormai radicata, sia per l’analogia con le pratiche dei sacerdoti solari, pensarono di stabilire al 25 dicembre la data della nascita di Cristo. Ma le testimonianze dei Vangeli, secondo le quali c’erano i pastori che facevano la guardia ai greggi, pernottando in mezzo ai campi, fanno propendere per una data diversa, più primaverile, forse in aprile. Clemente di Alessandria, nel II secolo, suggerì il 20 o il 21 aprile; altri invece suggeriscono l’autunno. Si deve dunque concludere di non saper in quale mese collocare la nascita, di certo però l’inizio dell’inverno pare si debba escludere.

Niente si può dire per quanto riguarda l’ora.

Fugati alcuni pregiudizi circa il periodo della nascita e con questi labili appigli possiamo cercare di stabilire cosa sia realmente accaduto nel cielo di quel periodo. Certo non possiamo escludere l’ipotesi trascendente di uno spettacolare segno celeste che solo i Magi sembrano avere visto. I Vangeli apocrifi abbondano di tali testimonianze: «...Abbiamo visto una stella grandissima che splendeva tra queste e le oscurava, tanto che le stelle non apparivano più. E così abbiamo conosciuto che era nato un re a Israele». E ancora: «(UN ANGELO) apparve sotto la forma di una stella di grande splendore che illuminò la terra dei persiani... fino a quando si fermò al di sopra della grotta. Allora cambiò la sua forma e divenne simile a una colonna di luce quando i Magi giunsero nei pressi della grotta».

Ma di tali portentosi segni non c’è traccia negli annali e nessuno, a parte i Magi, sembra aver visto niente. La nostra analisi prescinde da ogni intervento trascendente e prende in considerazione spiegazioni esclusivamente immanenti. In altre parole vogliamo propendere per la versione secondo la quale Dio si è servito di un fenomeno celeste naturale e ha scelto quel momento per nascere e manifestarsi al mondo. In un certo qual senso questa interpretazione si concilia anche con un atteggiamento agnostico, secondo il quale non c’è alcuna manifestazione divina, pur tuttavia, in un preciso quadro storico-culturale, alcuni hanno dato un significato mistico a un evento celeste che ha effettivamente avuto luogo e, con le attuali conoscenze astronomiche, tentiamo di dare una risposta.

Che cosa ebbe veramente luogo? Fu davvero una cometa a solcare i cieli primaverili o autunnali del Medio Oriente nelle notti del 6, 7 o 8 a.C.? Nel corso dei secoli si sono succedute molte ipotesi. Prima di puntare alla cometa passiamo in rassegna le altre.

Uno dei possibili fenomeni celesti potrebbe essere stato l’esplosione di una nova o di una supernova, l’immane esplosione che accompagna la fine di una stella. Di tali fenomeni non c’è traccia nelle documentazioni occidentali, ma questo non deve meravigliare visto che la nostra cultura cominciava a essere dominata dalla concezione astronomica di Aristotele, secondo la quale i cieli sono immutabili e tutti i fenomeni transienti (novae, supernovae, comete) devono essere manifestazioni del mondo sublunare, come l’arcobaleno ad esempio. Le cronache cinesi, al contrario, sono solitamente minuziose nel segnalare l’arrivo di "stelle ospiti". Effettivamente le Cronache delle ventiquattro storie (molto puntigliose) parlano di una stella "ospite" esplosa nell’anno 5 a.C. Morehouse ha analizzato la Pulsar PSR1913+16b giungendo alla conclusione che essa deve essere il residuo di qualcosa che esplose nell’inverno del 4 a.C. Con ogni probabilità la stessa delle cronache cinesi. Magari la medesima dei Magi?

Ma vi sono numerose obiezioni. Il Vangelo di Matteo è stato redatto in aramaico si pensa intorno al 50 d.C., ma l’originale venne perso durante la guerra del 70 d.C. La redazione in greco che ci è pervenuta, scritta da ignoti probabilmente di cultura ellenistica, è forse di poco posteriore al testo originario. Secondo la concezione aristotelico-tolemaica del tempo, la locuzione «astron» mai sarebbe stata utilizzata per un fenomeno transiente. Inoltre, le stelle novae e supernovae non sono dotate di un moto proprio e questo mette in seria difficoltà le parole evangeliche secondo le quali l’astro «che avevano visto al suo sorgere ora li precedeva» (Mt 2,9). C’è infine un’ulteriore obiezione, suggerita dal buon senso, che vedremo tra poco.

Altri hanno parlato di meteora o di sciame meteorico, ma questa interpretazione è quella che si presta alle più facili critiche, visto che una meteora dura al più qualche secondo, non settimane, come sembra avere fatto l’astro dei Magi. Se si considera uno sciame eccezionale, che può però protrarsi per alcune ore, oltre a non aver alcuna testimonianza, è pure in netto contrasto con il passo evangelico e con tutti gli apocrifi che parlano di un singolo oggetto celeste.

Sono state elaborate anche altre fantasiose teorie come un’aurora boreale. Effettivamente il suo scomparire e ricomparire è un comportamento che si addice alle aurore. Anche questa teoria però, a ben vedere, non regge. La straordinaria rarità di un’aurora alle basse latitudini, anche se in via eccezionale può aver luogo, si vedrebbe comparire a nord, non a oriente da dove provenivano i Magi che avevano «visto sorgere la sua stella a oriente» (Mt 2,2).

Oltre a questo, poi, il buon senso ci suggerisce di escludere sia le supernovae, sia le aurore, sia gli sciami meteorici perché sarebbero stati eventi ben visibili e ciò non spiegherebbe lo stupore del re Erode (Mt 2,3) che chiamò segretamente i Magi per farsi dire per filo e per segno tutto a proposito del Bambino: se il fenomeno fosse stato appariscente, chiunque avrebbe potuto seguire la scia luminosa. Evidentemente si doveva trattare di un segno che solo degli iniziati all’astrologia potevano interpretare.

Armati di queste convinzioni alcuni scienziati hanno ricercato fenomeni come le occultazioni di stelle o pianeti da parte della Luna. Ma questi sono fenomeni abbastanza usuali, e poi contrasterebbero con la parola «astron». Una variante a cui si possono muovere critiche analoghe è il sorgere eliaco di qualche stella. Da scartare a priori le eclissi perché, oltre a essere fenomeni ben evidenti, non ebbero luogo a quel tempo.

L’ipotesi che ancora oggi sembra avere maggiore credito fu proposta quattro secoli fa da Keplero. Secondo l’astronomo, si tratterebbe di una congiunzione tra tre pianeti: Marte, Giove e Saturno. La congiunzione stretta di tre pianeti fa sì che appaiano a occhio nudo come un corpo solo (dando ragione alla parola «astron»). Keplero, nel 1603, assistette a un fenomeno analogo e calcolò che si era verificato anche 800 e 1.600 anni prima circa, e dunque poteva essere questo l’evento citato nei Sacri Testi che aveva mosso alcuni sapienti, verosimilmente degli sciamani appartenenti alla casta sacerdotale dei Medi o di qualche altro popolo mesopotamico. L’almanacco babilonese di Sippar ci assicura di quanto i Babilonesi tenessero alle congiunzioni e in quell’epoca ne furono osservate alcune: nel 7 a.C. Giove (simbolo di regalità e divinità) e Saturno (simbolo di giustizia) si congiunsero tre volte, a partire dal 29 maggio, e per di più nella costellazione dei Pesci (simbolo della casa di David), fenomeno questo che si ripresenta una volta ogni otto secoli appunto, quindi astrologicamente rilevante, per giunta con anche Marte nei paraggi. Questa interpretazione è quella più calzante con il Vangelo, soprattutto con le parole greche «proegen» per «li precedeva» (proprio la traduzione per il termine astrologico che indica il moto retrogrado di un pianeta) ed «epano» per «sopra» (che indica in cielo la stazione di un pianeta): «... La stella, che avevano visto al suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il Bambino» (Mt 2,9).

In realtà, però, anche questa interpretazione suscita qualche critica. Le simulazioni mostrano che Giove e Saturno erano in congiunzione sì stretta, ma non tanto da apparire un corpo solo. In quanto a Marte, anch’esso in congiunzione, avrebbe fatto da protagonista osservando la scena da debita distanza rispetto agli altri due pianeti.

Molnar allora ha cercato di interpretare la nascita del Messia in chiave astrologica moderna, senza cercare una particolare configurazione, appariscente, ma attribuendo significati speciali alla posizione degli astri in un determinato periodo. Ne è emerso quanto segue: il 17 aprile del 6 a.C. si realizzarono condizioni, a suo giudizio, eccezionali. Il Sole era esaltato in Ariete e Venere nei Pesci. I governatori del trigono di Ariete (Sole, Giove e Saturno) erano tutti riuniti in Ariete, cioè nel segno della Giudea. L’effetto benefico di Giove veniva rafforzato dal suo sorgere eliaco in Ariete e dall’occultazione da parte della Luna. Giove e Saturno sorgevano prima del Sole. Marte e Venere seguivano la Luna e così gli accompagnatori esaltanti le virtù dei due luminari, Marte e Saturno, pianeti negativi, venivano schermati dalla loro posizione. Niente ha potuto dire dei punti cardinali, perché nessun documento riporta l’ora dell’evento.

Questa lettura in chiave astrologica è l’unico fenomeno che si adatta alle limitazioni imposte ed è una particolare configurazione celeste che solo per degli iniziati (astrologi, magi) aveva un potente significato regale e divino mentre per gli altri (i cortigiani di Erode) risultava osservabile ma del tutto insignificante. Tuttavia ci sentiamo di muovere qualche critica anche a questa interpretazione perché dà un po’ il senso di essere creata ad hoc e oltre tutto ignora la presenza del vocabolo «astron» che si addice a un luminare solo.

Fra tutte le teorie citate non è ancora emersa la cometa e a ben vedere, sembra essere l’ipotesi meno convincente. Scartabellando tra le cronache cinesi, pur con il beneficio dell’incertezza della registrazione, una cometa passò effettivamente nei cieli, ma intanto lo fece fuori tempo massimo, nel 4 a.C., e poi si tratta di un fenomeno piuttosto comune, affatto eccezionale. Per la cultura ellenista una cometa era un fenomeno sublunare, poco incline a essere etichettato sotto il vocabolo «astron», poi se la cometa era appariscente l’avrebbero vista anche a Gerusalemme e se era assai debole si sarebbe trattato di un fenomeno secondario, che non avrebbe certo messo in viaggio dei sapienti dalla Mesopotamia. Allora perché tanta fama? Secondo gli astronomi l’astro con la coda non c’entra niente, né con i Vangeli ufficiali, né con quelli apocrifi. La cometa, con ogni probabilità, deve la sua affermazione al colpo di genio di un maestro della pittura come Giotto. Il pittore si trovava nel suo Mugello quando osservò il passaggio della cometa di Halley, nel 1301. Tra il 1303 e il 1305 si trovava a Padova a dipingere la Cappella degli Scrovegni e, probabilmente memore dello spettacolo di qualche anno prima, pensò di immortalare l’immagine che aveva scolpito nella mente sulla parete della cappella.

La fama della pittura ha fatto sì che dopo di lui la gente si sia messa in testa di riprodurre la scena dell’affresco giottiano più che il fenomeno che ebbe veramente luogo in Palestina, tanto più che, abbiamo visto, i Vangeli non sono sufficienti a darci un’idea chiara di cosa si verificò davvero. (Lorenzo Brandi, Jesus, dicembre 2008)

 

 

 


 

Il sincretismo religioso

(1 giugno 2008)

 

La crisi della verità

Secondo i dati dell’Annuarium Statisticum Ecclesiae dal 1978 al 2002 il numero dei cattolici battezzati è cresciuto in 24 anni del 43,5%, da 757 milioni a 1 miliardo e 70 milioni. Se però si confrontano questi dati con l’aumento della popolazione mondiale si nota che dal ’78 al 2003 i cattolici sono diminuiti: dal 18% al 17%.

Sono ancora più interessanti i dati specifici per ogni continente. In Africa c’è stato un incremento del 151% a cui fa da controparte l’Europa che è rimasta sostanzialmente stazionaria (5,09%). In Asia l’aumento è stato del 74% circa e in America e Oceania intorno al 45-49%.

Un altro indicatore importante è l’andamento delle vocazioni sacerdotali in ogni continente: in Europa ogni 100 sacerdoti i candidati a sostituirli sono solo 12 mentre in Africa e in Asia ce ne sono tra i 60 e i 70. Questi dati mostrano come l’Europa sia un punto centrale per il futuro del cattolicesimo.

Cosa succede in Europa? Molti sociologi concordano su un punto fondamentale: in Europa sempre di più si è andato diffondendo un atteggiamento disinvolto e individualista nei confronti della religiosità. Proprio nella culla del cristianesimo la secolarizzazione ha portato  le persone a sentirsi sempre meno legate alla religione cristiana.

È interessante notare che in realtà questo “slegarsi” non è affatto sintomo di una perdita di “senso religioso”. Il problema principale non sembra affatto essere l’ateismo. Secondo i dati del World Christian Trends del 2001 gli atei e i non-religiosi dichiarati, rappresentano il 15% della popolazione mondiale, percentuale che dagli anni ’70 è in continuo calo.

Una nota sociologa inglese, Grace Davie, coniò l’espressione “credere senza appartenere” per indicare questa tendenza, soprattutto degli europei, a credere in un Dio nel senso generico del termine, senza però sentirsi legati ad una particolare religione. Il punto sembra essere che in Europa a poco a poco la religione e i suoi precetti si siano sempre più allontanati dalle scelte della vita privata. In altre parole la tendenza è quella di appartenere al cristianesimo nominalmente avendo però numerose riserve sugli insegnamenti “ufficiali” e, di conseguenza, cercando in altri luoghi le risposte all’anelito religioso.

Come afferma Massimo Introvigne nell’intervista che riportiamo in questo dossier: “Questo "credere senza appartenere" che è di per sé sincretistico, è la religione di maggioranza relativa nell'Unione Europea e coinvolge più del 50% delle persone”.

 È quella che si potrebbe chiamare la religione “fai-da-te” secondo la quale un credo vale l’altro e non è possibile reperire una verità unica, assoluta, una via chiara e sicura per la salvezza.

È una crisi della verità che non investe solo l’ambito della religione ma ha eco anche nella ricerca razionale. L’idea di fondo è che non esistono criteri che possano stabilire se una religione è più vera delle altre. Una religione equivale l’altra, le sue credenze e i suoi precetti non sono altro che una manifestazione circoscritta e parziale di un anelito religioso comune a tutti gli uomini.

Si arriva allora dal relativismo al sincretismo. Ognuno ritaglia sulle sue esigenze individuali  e, potremmo dire, sui suoi gusti, una religione su misura che mescola elementi di diverse culture e credi, in un mix personalizzato e soggetto a mutamenti. L’esperienza religiosa diventa individuale, privata, non c’è più la necessità della religione nel senso stretto del termine.

Indubbiamente sono molti gli elementi che hanno contribuito a questa situazione di sincretismo relativista: il materialismo della moderna società dei consumi che non riesce più ad accontentare i bisogni profondi delle persone, la chiusura nei confronti della spiritualità della cultura laica, il rigido positivismo di una medicina che considera il corpo soltanto una macchina ecc., tutti elementi che portano le persone a ricercare altrove il senso della vita. Una ricerca che sembra andare in direzione di una fusione di credenze diverse, senza pretese di verità, e che sembra non avere più bisogno di rivolgersi alle religioni.

 

Dall’esaltazione della ragione al rifugio nell’irrazionale

Per capire appieno il fenomeno della religione “fai-da-te” e del sincretismo bisogna considerare l’evoluzione della  storia del pensiero occidentale. L’agnosticismo, la negazione della conoscibilità razionale di Dio e della verità, il relativismo in campo filosofico, il concetto di autorealizzazione e di indipendenza dalla morale, in una parola la modernità, ha contribuito a creare nell’uomo moderno occidentale un senso di smarrimento degli orizzonti di riferimento e di sfiducia nei confronti della ricerca della verità, sia in campo razionale-filosofico sia in ambito religioso.

La disinvoltura con cui oggi chiunque si sente autorizzato ad abbracciare credenze più diverse semplicemente perché le preferisce o ne rimane affascinato, era impensabile fino a qualche secolo fa. In epoche passate si usava una certa prudenza nell’affrontare temi come “ciò che è giusto o ingiusto”, cosa significa “verità”, “soggetto”, “valore”, “chi è Dio”. Prudenza che non era paura di esprimersi liberamente o semplicemente cieca sottomissione all’autorità. Si trattava di una vera e propria consapevolezza che non si può parlare di qualsiasi argomento in modo spontaneo e impreparato. Consapevolezza che oggi sembra essere applicabile solo alle tematiche scientifiche. Anche se, a ben vedere, lo stesso pensiero scientifico è in profonda crisi, perché nemmeno la scienza è riuscita a dimostrare di poter risolvere i problemi dell’umanità.

In passato, questa stessa, diciamo così, prudenza, riguardava tutte le tematiche che hanno a che fare con il comportamento umano e con la religiosità. Questa consapevolezza nasceva da una diversità sostanziale rispetto al nostro modo di intendere la realtà: in passato gli uomini si sentivano parte di un ordine più alto, un ordine cosmico, la “Grande Catena dell'Essere”. In questi ordini le cose della natura e l’uomo avevano il significato conferitogli dal posto che occupavano nella “Catena”. La fonte unica e assoluta di moralità, per raggiungere la pienezza dell'essere, era trascendente (Dio, l'Idea del Bene). Lo stesso essere umano traeva il significato della sua vita dal suo essere inserito in un preciso posto in quella Catena. Inoltre, per sua stessa natura, quest’ordine era pubblicamente accessibile e condiviso ampiamente. Ciò valeva anche per possibili “eretici” rispetto agli orizzonti condivisi: le loro stesse accuse e dissociazioni erano comunque formulate nei termini di un ordine superiore e più elevato rispetto all’uomo.

L’idea di libertà moderna nacque dal discredito in cui caddero questi ordinamenti. Discredito dovuto a vari fattori che ha una radice e uno sviluppo ben preciso nella storia del pensiero occidentale. Individuabile precisamente in quell’insieme di cambiamenti che hanno portato, dalla fine del ‘600 a oggi, allo sviluppo di una nuova prospettiva profondamente diversa da quella del passato. I quadri di riferimento morali sono divenuti opzionali, sono frutto delle mutevoli interpretazioni umane e non si fondano più strettamente sulla natura delle cose.

Le fonti di moralità, e diremmo di religiosità, non sono più esterne all’uomo. Oggi assistiamo ad una sorta di democratizzazione della possibilità di fornire risposte ai problemi fondamentali della vita. I media, con lo sviluppo delle tecnologie, non hanno fatto altro che potenziare e accelerare questo processo.

Oggi questo agnosticismo che di fondo nega la possibilità di una ricerca autentica della verità, si sposa perfettamente con forme gnostiche e sincretistiche che riescono a far convivere diverse visioni dell’uomo, del mondo e Dio, senza pretesa che una sia più vera e più valida dell’altra.

 

Dal relativismo al sincretismo

Dal razionalismo illuminista, che di fatto ha dimostrato i suoi limiti essendo incapace di dare risposte definitive alle questioni fondamentali della vita, si è arrivati ad un rifiuto della razionalità e alla ricerca del significato in aspetti sentimentalistici e vitalistici. Da qui ad esempio la grande espansione della cosiddetta New Age come esaltazione dell’istintività sull’intelletto.

La questione non è più la verità né chi è Dio. La domanda sulla verità è in qualche modo diventata irrilevante essendo rimpiazzata dalla domanda più importante: cosa mi può dare una vita più ricca più interessante, più ampia, più soddisfacente. È l’impulso religioso dell’individuo ripiegato su se stesso che non ha più fiducia nella verità.    

Dio e il discorso sulla verità della fede sono esclusi dalla coscienza pubblica e relegati alla sfera privata, al “fai-da-te” del singolo.

L’allora Card. Ratzinger in una conferenza tenuta il 1 aprile 2005 a Subiaco dal titolo L’Europa nella crisi delle culture ha lucidamente esposto questa tematica: “l’Europa, sin dai tempi del Rinascimento, e in forma compiuta dai tempi dell’illuminismo, ha sviluppato proprio quella razionalità scientifica che non solo nell’epoca delle scoperte portò all’unità geografica del mondo, all’incontro dei continenti e delle culture, ma che adesso, molto più profondamente, grazie alla cultura tecnica resa possibile dalla scienza, impronta di sé veramente tutto il mondo, anzi, in un certo senso lo uniforma. E sulla scia di questa forma di razionalità, l’Europa ha sviluppato una cultura che, in un modo sconosciuto prima d’ora all’umanità, esclude Dio dalla coscienza pubblica, sia che venga negato del tutto, sia che la sua esistenza venga giudicata non dimostrabile, incerta, e dunque appartenente all’ambito delle scelte soggettive, un qualcosa comunque irrilevante per la vita pubblica”.

Questo rifiuto si è di fatto mostrato nella resistenza a menzionare nella Costituzione Europea le radici cristiane ma, come fa notare Ratzinger, questo “rifiuto del riferimento a Dio, non è espressione di una tolleranza che vuole proteggere le religioni non teistiche e la dignità degli atei e degli agnostici, ma piuttosto espressione di una coscienza che vorrebbe vedere Dio cancellato definitivamente dalla vita pubblica dell’umanità e accantonato nell’ambito soggettivo di residue culture del passato”.

Il perno di tutto questo è il relativismo “che si crede in possesso della definitiva conoscenza della ragione, ed in diritto di considerare tutto il resto soltanto come uno stadio dell’umanità in fondo superato e che può essere adeguatamente relativizzato”.

Il relativismo considera le credenze tutte sullo stesso piano, non esiste una verità oggettiva e assoluta pertanto una vale l’altra. Ciò che per qualcuno è vero non lo è per l’altro, la convinzione soggettiva ha soppiantato la possibilità di un discernimento oggettivo.

Le domande fondamentali non possono ricevere risposta proprio perché è scomparsa la possibilità di raggiungere verità definitive. Non ci sono riferimenti che possano fondare la veridicità di un ragionamento o la razionalità di un’affermazione.

Si tratta di un profondo smarrimento che non può non incidere e ripercuotersi anche a livello del discorso religioso. Il mondo delle religioni e il Cristianesimo, con la sua pretesa di verità chiara ed esplicita, non si salva da questa dinamica relativista. Il concetto di realtà, verità, valore sono frammentanti in mille diverse possibili interpretazioni e concezioni come i cocci di un vaso rotto.

 

Il sincretismo come reazione alla crisi della razionalità

Non stupisce allora che la New Age e nuove forme di religiosità, di cui ci occuperemo più avanti, abbiano trovato terreno fecondo in questo contesto culturale proponendo una fusione di credi diversi che però non pretende di indicare una via unica, una concezione precisa, ma si accontenta di una serie di concezioni sfumate e confuse, ponendo al di sopra di tutto l’io.

La conseguenza di tutto ciò è un riflusso di sincretismo religioso: non è possibile giungere ad una verità assoluta, non rimane che fare un collage di frammenti di verità a seconda del propri bisogni. Fondere assieme elementi di diverse religioni, culture, tradizioni, spesso non convergenti e addirittura non conciliabili.

Come scrive Laura Rossi in Relativismo e sincretismo, la verità religiosa è diventata un gioco di puzzle: “È, il sincretismo, la fusione di elementi presi da forme religiose diverse e non convergenti. Cioè la credenza sincretistica si fonda in genere sulla interpretazione dei sistemi di pensiero e delle correnti religiose da cui trae gli aspetti fondamentali che in alcuni casi tende a minimizzare, eliminare o sottolineare nelle loro affinità. In altri casi accosta e mescola elementi completamente inconciliabili e incompatibili tra loro. Cioè, in pratica, il sincretismo prende elementi dalle varie realtà, li mette insieme e crea una nuova concezione filosofica, religiosa o quant'altro. In questo modo il sincretismo è un atteggiamento riduttivo nei confronti delle forme dottrinali originarie da cui trae gli elementi perché li riduce, li svuota di significato per crearne uno nuovo (…) dove il soggettivismo e la fantasia regnano incontrastati”.

Non è perciò importante a quale credo si appartenga, ma l'effettivo impegno nella ricerca interiore all'interno della religione o dottrina nella quale si è stabiliti, per scelta o cultura. Il sincretismo religioso, infatti, afferma la sostanziale unità di tutte le fedi e le scuole di pensiero, al di là dei dogmi e delle differenze formali ed esteriori; secondo la visione sincretista, i concetti e princìpi fondanti di ogni credo (quali ad esempio la paternità di Dio e la fratellanza degli uomini, il valore e l'importanza della preghiera, l'amore universale, ecc.) sono gli unici e gli stessi.

Nell’enciclica Fides et Ratio, Giovanni Paolo II descrive quel lungo percorso iniziato dal Medioevo che ha portato dapprima la ragione ad erigersi al di sopra della fede per poi arrivare a credere di poterne fare completamente a meno, fino ad arrivare ad un aperto scontro: dalla ragione senza la fede alla ragione contro la fede. "La nostra epoca è stata qualificata da certi pensatori come l'epoca della ‘post-modernità'. Questo termine, utilizzato non di rado in contesti fra loro molto distanti, designa l'emergere di un insieme di fattori nuovi, che quanto a estensione ed efficacia si sono rivelati capaci di determinare cambiamenti significativi e durevoli". In questi cambiamenti sono presenti quelle "reazioni che hanno portato a una radicale rimessa in questione" della "pretesa razionalista" tipica della modernità.

Il processo di secolarizzazione fino a poco tempo fa sembrava andare nella direzione di una progressiva diminuzione della religione in relazione allo sviluppo della mentalità scientifica e del progresso tecnologico. Ma le cose oggi appaiono diverse. La crisi della razionalità scientifica ha in realtà portato ad un ribaltamento, ad una rinnovata scoperta del “religioso”. Si potrebbe quasi dire che oggi è la secolarizzazione stessa ad essere a rischio di estinzione.

Ma questa riscoperta del religioso ha caratteristiche molto singolari, come abbiamo visto, perché è un ritorno del religioso e della fede che, in qualche modo, risente del contrasto fede-ragione e, privilegiando la prima a scapito della seconda, cede facilmente all’irrazionalismo o perlomeno rinuncia ad una ricerca del soprannaturale supportata dalla ricerca della verità.

Da qui l’atteggiamento sincretista e il proliferare di nuove forme di religiosità o di correnti come la New Age.  

 

La New Age e le nuove forme di religiosità come alimentatori dell’atteggiamento sincretista

Di fronte a questa, che potremmo chiamare crisi della società occidentale, si manifestano quindi dei segnali di ricerca del “religioso” del “soprannaturale” per rispondere al disagio di una cultura ormai priva di risposte. Giovanni Paolo II nel suo discorso ai Vescovi di quattro stati Americani il 28 maggio 1993 costatava l’emergere di questo nuovo impulso: “c'è una nuova esigenza di «spiritualità» come dimostra il sorgere di molti movimenti religiosi e consolatori che tentano di reagire alla crisi di valori nella società occidentale”.

Questa “nuova esigenza di spiritualità” ha visto proliferare in tutto il mondo nuovi movimenti e credi religiosi di diversa natura, un fenomeno di portata internazionale in cui rientra in qualche modo anche la cosiddetta New Age e di cui si è occupato anche il Magistero.

I documenti più interessanti su questo tema sono la relazione finale del Concistoro straordinario del 1991 firmata dal Card. Francis Arinze, che si occupa soprattutto delle nuove forme di religiosità, e un documento del Pontificio Consiglio della Cultura e del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Gesù Cristo portatore dell’acqua viva, che viene scritto per affrontare il tema della New Age.

Il documento firmato dal Card. Arinze nel 1991, La sfida delle sette o nuovi movimenti religiosi: un approccio pastorale, è la relazione finale del Concistoro straordinario del 1991 che, accanto ai temi della difesa della vita nella società moderna, si occupò anche del fenomeno dei nuovi movimenti religiosi emergenti, soprattutto nell'ottica del diffondersi di una vera e propria nuova religiosità che interessa cerchie sempre più vaste di persone e che spesso si insinua anche nei fedeli cattolici.

Una nuova religiosità slegata dalla dottrina della Chiesa e che porta chi vi aderisce ad abbracciare credenze spesso in netto contrasto con la fede. Nel documento viene definita "preoccupante [...] la silenziosa penetrazione fra i Cristiani di movimenti non-Cristiani che favoriscono la doppia appartenenza. Questi movimenti guadagnano terreno al di là dei propri confini attraverso la diffusione di credenze e pratiche che sono contrarie alle verità essenziali della fede".

Massimo Introvigne a questo proposito nel suo La questione della nuova religiosità In appendice la relazione generale al Concistoro Straordinario del 1991, indica il caso Italia come emblematico: sebbene l’appartenenza ai nuovi movimenti religiosi è quantitativamente bassa, si assiste ad una notevole diffusione di credenze neo-religiose. I dati di dicono che il 21% degli adulti e il 31% dei giovani in Italia credono nella reincarnazione. E, sempre secondo i dati che riporta il CESNUR, in Europa un cittadino su 4 crede nella reincarnazione.

Il documento affronta il tema dei nuovi movimenti religiosi anche in una chiave potremmo dire auto-critica. Questi movimenti sono una sorta di rivelatore di alcune debolezze della presenza pastorale della Chiesa e proliferano o trovano terreno fecondo laddove in qualche modo l'azione pastorale non sembra rispondere sufficientemente ai bisogni dei fedeli. 

La relazione esamina quale sia l’origine dei nuovi movimenti religiosi e le ragioni della loro diffusione. Nella società secolarizzata, in cui Dio è stato messo al margine della vita, non è stata soppressa l’"esistenza di bisogni spirituali" che però spesso "non sono stati identificati, oppure che la Chiesa e altre istituzioni religiose non hanno percepito o a cui non hanno saputo rispondere".

Non è solo un problema di ignoranza, di cattiva formazione. Bisogna riconoscere innanzitutto la natura propriamente “religiosa” del fenomeno. In "un periodo di cambiamenti culturali, che genera un senso di smarrimento" molte persone si rifugiano in spiritualità o culti che sembrano rispondere in modo più diretto e meglio alle esigenze profonde di significato. La maggior parte di queste persone sono cristiani, spesso cattolici. Sono spinti da una "sete di conoscenza delle Scritture, di cantare, danzare, di avere soddisfazioni emotive e risposte chiare e concrete" che molte volte non trovano nella pratica religiosa “ufficiale”.

In altri casi c’è una ricerca di "guarigione fisica e psicologica" oppure della "protezione contro la stregoneria, il fallimento, la sofferenza, la malattia e la morte". Soprattutto accade in Africa dove secondo le stime ufficiali almeno il 20% della popolazione è attratto dalle nuove religioni perché si sentono da queste meglio protette dalla stregoneria e dal malocchio, rispetto alle Chiese ufficiali.

A creare quel vuoto che viene riempito da queste nuove forme di religiosità è spesso una serie di debolezze che possono presentarsi nel ministero pastorale della Chiesa. Il documento ne elenca le principali: lo scarso numero di sacerdoti, l’ignoranza della dottrina oppure la vastità e l’impersonalità delle parrocchie, in altri ancora il clericalismo che emargina i laici e ne svilisce il ruolo all’interno dell’azione pastorale. Fino ad arrivare alla freddezza nella liturgia o all’intellettualismo della predicazione.

Tale analisi deve essere di stimolo per una rinnovata attività della Chiesa. Si legge nel documento: "il dinamismo della loro azione missionaria, la responsabilità evangelizzatrice assegnata al nuovo "convertito", il loro utilizzo dei mass-media, il mettere in risalto gli obiettivi da ottenere, potrebbero farci porre domande su come rendere più dinamica l’attività missionaria della Chiesa".

Questa nuova religiosità, secondo il documento, lancia una sfida culturale di notevole portata. Una sfida che non riguarda solo gli aderenti ai nuovi movimenti religiosi: alcune idee come la reincarnazione, l’"auto-realizzazione [...] esaltata più della vita di grazia", la sfiducia nella Chiesa gerarchica, di fatto sono penetrate anche all’interno della Chiesa cattolica.

Lo studio dei nuovi movimenti religiosi è infatti interessante a partire dall’influenza che gli aderenti esercitano su molti altri. Introvigne, nel suo testo di commento a questo documento, sottolinea come esistano tre livelli: al primo si trovano gli appartenenti ai diversi gruppi, al secondo livello tutti coloro che senza aderire a movimenti specifici condividono alcune credenze e, infine, un terzo livello che include coloro che pur appartenendo alle Chiese tradizionali, compreso qualche teologo, sono influenzati dalle idee della nuova religiosità.

Ma quella lanciata dalla nuova religiosità è una sfida soprattutto di carattere dottrinale. Non ci si può limitare a vederne le conseguenze solo a livello culturale e sociale. La Chiesa va oltre e si preoccupa di queste nuove forme di religiosità soprattutto perché "allontanano i cattolici dall’unità e dalla comunione della Chiesa" e portano spesso ad  "abbandonare la [...] fede", il che accade quando chi vi ha aderito rimane deluso e finisce per  "guardare a tutta la religione come un inganno". 

Allora quale deve essere la risposta pastorale della Chiesa? Il punto di maggiore interesse sembra essere l'invito allo studio e alla conoscenza di queste nuove forma di religiosità con uno spirito ben preciso: "Non dovrebbero essere fatte condanne indiscriminate (...) i cattolici dovrebbero essere sempre pronti a studiare e identificare gli elementi o le tendenze che sono in se stessi buoni o nobili e dove sia possibile collaborare. Dovrebbero anche attendere allo studio e all’osservazione di movimenti che finora presentano un’immagine non chiara".

Perciò l’invito è allo studio e al dialogo, o meglio al dialogo che deve essere condotto "con la dovuta prudenza e discernimento" e che dovrebbe essere riservato a "persone ben preparate" altrimenti "potrebbe essere inutile e dannoso per coloro non ben preparati al confronto con il forte proselitismo di alcuni ".

Il problema, si legge nel documento, è che molti “attraggono i cattolici in luoghi dove nella comunità cattolica vi è disorientamento dottrinale o confusione". Non è solo un problema di ignoranza religiosa ma è una confusione generata anche dai "dubbi seminati da alcuni teologi cattolici e da altri che contestano alcuni insegnamenti del Magistero".

Alcuni nuovi movimenti religiosi "pongono più l’accento sull’aspetto emozionale che su quello speculativo" rispondendo peraltro a bisogni reali delle persone che sono alla ricerca di significato. Allora "la dimensione dell’esperienza religiosa non dovrebbe essere dimenticata nella nostra presentazione del cristianesimo" anche le "celebrazioni paraliturgiche e popolari" dovrebbero essere rivalutate.

E poi il fatto che queste nuove forme di religiosità hanno séguito proprio perché "mostrano una grande attività laica". Questo fa riflettere su quella tendenza al clericalismo che spesso si genera in alcune comunità cristiane che "può emarginare il fedele laico e fargli vedere la Chiesa come un’istituzione guidata da funzionari burocratici ordinati".

Insomma il documento guarda a questo fenomeno delle nuove forme di religiosità come a "una sfida e un’opportunità". Il fenomeno mostra a tutta la Chiesa come "le persone (…) hanno fame di qualcosa di più profondo nella loro vita religiosa. Il pericolo è che essi a breve termine offrano qualcosa di buono ma che a lungo termine si generi confusione. Così persone attirate da loro possono perdere le loro radici cattoliche e nonostante una crescita temporanea essere alla fine lasciate in una situazione spirituale peggiore".

Lo sviluppo delle forme di nuova religiosità va perciò ad alimentare la tendenza al sincretismo di chi, nella società pervasa dal relativismo e dalla razionalità scientifica, non trova più nella “religione ufficiale” risposte adeguate al suo bisogno di spiritualità.

Ma in questo discorso bisogna tenere presente un altro fenomeno che ha portato in epoca recente ad una notevole diffusione di spirito sincretista soprattutto in Occidente: la cosiddetta New Age.

 

Il fenomeno New Age

Così Giovanni Paolo II metteva in guardia i pastori statunitensi: “Le idee del New Age alcune volte penetrano nella predicazione, nella catechesi, nei seminari di studio e nei ritiri e quindi influenzano anche cattolici praticanti che forse non sono consapevoli dell'incompatibilità di quelle idee con la fede della Chiesa. Nella loro visione sincretistica e immanente, questi movimenti parareligiosi prestano poca attenzione all'Apocalisse e invece tentano di giungere a Dio attraverso conoscenze ed esperienze basate su elementi presi in prestito dalla spiritualità orientale e dalle tecniche psicologiche. Essi sostituiscono la responsabilità personale delle proprie azioni di fronte a Dio con un senso del dovere verso il cosmo e in tal modo ribaltano il vero concetto di peccato e il bisogno di redenzione attraverso Cristo”.

Massimo Introvigne nel suo Che cos’è la New Age spiega che la particolarità del fenomeno consiste nel fatto che la New Age non è un vero e proprio movimento. Non ci sono capi riconosciuti, né sedi o strutture, non è un gruppo a cui si "aderisce" o a cui ci si "iscrive". I sociologi della religione la definiscono piuttosto un “network” una "struttura a rete". Anzi a bene vedere, secondo lo studioso, si tratta di un “metanetwork“ ovvero del “luogo in cui network diversi si incontrano e interagiscono”.  

Appare quindi come un fenomeno difficile da definire: non ci sono  né dottrine né princìpi comuni, ma solo un "ambiente", uno "stile di vita" o una "metafora".  La New Age si potrebbe descrivere come uno stato d’animo condiviso. Le persone che vi aderiscono hanno come la sensazione di stare per entrare in un’epoca nuova, che è contrassegnata da cambiamenti radicali e qualitativi non in uno solo, ma in tutti i settori della vita dell’uomo.

La New Age risulta permeata da teorie astrologiche, in particolare dalla teoria della precessione degli equinozi, secondo cui il sole cambierebbe di segno zodiacale ogni 2160 anni circa.  “La teoria ha radici molto antiche – scrive Introvigne - se ne trovano tracce già in ambiente pitagorico - ma la sua versione moderna risale a un’opera del 1937, L’Ère du Verseau.Le secret du Zodiac, le proche avenir de l’humanité, dell’esoterista francese Paul Le Cour, nato nel 1871 e morto nel 1954”. Secondo Paul Le Cour verso l’anno 2160, l’Età dei Pesci, che corrisponderebbe all’Età Cristiana, dovrebbe cedere il passo all’età dell’Acquario. Un’epoca in cui si assisterà a qualcosa di nuovo rispetto al cristianesimo. Altri autori New Age hanno poi contestato questi calcoli riportando il presunto passaggio alla nuova età in una data tra il 1920 e il 2300. Questo tema del passaggio ad una nuova età, appunto New Age, è diventato popolare negli Stati Uniti negli anni ’60 ed ha ricevuto una diffusione tra i giovani del mondo grazie alla commedia musicale Hair del 1968, le cui canzoni inneggiavano all’Età dell’Acquario.

“La data del 1968, afferma  Massimo Introvigne, non è casuale e ci porta all’altra radice psicologica del New Age: i postumi delle rivolte studentesche del 1968, che - per quanto, come oggi si sa, si sia trattato in gran parte di fenomeni non spontanei ma sapientemente organizzati e pilotati - promettevano un futuro di cambiamenti radicali e globali, non soltanto politici, ed erano destinati a condurre molti giovani, dopo le inevitabili delusioni, verso la riscoperta del misticismo orientale o dell’occultismo, quando non verso la droga come tragica scorciatoia verso un mondo totalmente "altro"". La New Age invita ad un rapporto con la spiritualità del tutto particolare, un interesse per il sacro che, tendenzialmente, si pone come alternativo alla tradizione cristiana. In questa ricerca di una “spiritualità alternativa”, ci fa sapere Introvigne, si fondono le concezioni “più varie: le religioni non cristiane tradizionali - le religioni dell’Oriente ma anche quelle pre-colombiane, degli Indiani d’America, celtiche -; l’idealismo filosofico e le sue trascrizioni religiose nel mondo ottocentesco del "nuovo pensiero", New Thought, americano; lo spiritismo che - rivestito di panni "scientifici" - il New Age ripropone con il nome di channeling; le molteplici correnti dell’occultismo e dell’esoterismo; l’interesse per messaggi religiosi che verrebbero trasmessi dai dischi volanti; le credenze - diffusissime, anche se formulate in modi diversi - nella reincarnazione e nell’astrologia moderna”.

La caratteristica saliente della New Age è proprio l’assenza di una dottrina unica, di una visione del mondo precisa, piuttosto fomenta la libertà più assoluta da tutte le concezioni. La verità non esiste, ognuno può creare il suo mondo a suo piacimento, la religione diventa una vaga spiritualità disarticolata priva di “tesi razionalmente articolate”. Dio è “il sottofondo cosmico a cui arrivano tutte le cose”. Lo stesso Gesù non è diverso da Buddha, rappresenta solo “il principio divino all’interno dell’uomo”.

Conclude Introvigne:  “la spiritualità che il New Age propone  è  un cocktail  del relativismo e del sincretismo che costituiscono i tratti dominanti della nuova religiosità moderna”. Religiosità che ben rappresenta la crisi della razionalità scientifica moderna: ci “si immaginava un uomo materialista – prosegue Introvigne - e ci si trova invece davanti a un uomo a suo modo "religioso", ma religioso in modo sincretistico, panteistico e spesso tendenzialmente gnostico”.

A proposito di questo il Pontificio Consiglio della Cultura e del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, nel documento Gesù Cristo portatore dell’acqua viva, descrivono il New Age come un qualcosa che “prospera nella confusione”. Laddove la ragione perde terreno in nome di un vago relativismo sincretistico, e non ha più quel ruolo, da sempre presente nella tradizione cristiana, di “giustificare la fede e nel comprendere Dio, il mondo e la persona umana”, trova spazio la New Age con la sua tendenza al superamento delle distinzioni. Cosi si “sfumano consciamente e deliberatamente le differenze reali fra Creatore e creato, umanità e natura, religione e psicologia, realtà soggettiva e realtà oggettiva”.

Viene cancellato quel fondamento della mistica cristiana che è il concetto di “discesa di Dio fra le creature”, si perde il bisogno di essere liberati dal peccato e dalle proprie debolezze. Così l’uomo si trova “da solo” e cerca la “purificazione” mediante l’”immersione nel Tutto”. Da qui la convinzione che “Per cambiare, bisogna utilizzare tecniche che portino all'esperienza dell'illuminazione. Quest'ultima trasforma la coscienza di una persona e la pone in contatto con la divinità, intesa come l'essenza più profonda della realtà”. Ma si tratta, dice il documento, di “un'impresa essenzialmente umana da parte di una persona che cerca di ascendere alla divinità mediante le proprie forze”.

La valutazione che viene fatta del New Age nel documento dei due Consigli Pontifici è che esso “ha colto lo stato d'animo di quanti rifiutavano una ragione fredda, calcolatrice, disumana”. In questo senso rientra appieno in quell’insieme di pratiche della cosiddetta “nuova religiosità” permeata di relativismo e di sincretismo che proliferano proprio per la totale perdita di fiducia nelle capacità della ragione.

Per il cristianesimo al contrario, prosegue il documento, la razionalità è “una facoltà essenziale per una vita pienamente umana” perché “ha il vantaggio dell'universalità: essa è liberamente accessibile a chiunque, al contrario della natura misteriosa e affascinante della religione « mistica », gnostica o esoterica”.

Il cristianesimo ha mostrato al mondo che tutto ciò che favorisce confusione, commistione di elementi contradditori, tutto ciò che è esoterico, segreto, “invece di svelarla, nasconde la natura definitiva della realtà” e “porta a rifugiarsi nell'irrazionalità”.

Il documento del Magistero indica quindi che la sfida per i cristiani nei confronti del sincretismo, che sembra pervadere la società moderna attraverso l’influsso della New Age e di altre forme di religiosità,  è quella di risanare il conflitto che da tempo c’è tra fede e ragione. Il cristianesimo è capace di “dimostrare che una sana collaborazione fra fede e ragione migliora la vita umana e incoraggia il rispetto per la creazione”. 

La “partita”, se così ci è concesso chiamarla, si gioca allora sulla riscoperta da parte della Chiesa e dei cattolici del loro ruolo di rischiaratori delle coscienze. Ruolo che, come vedremo, i primi cristiani e la Chiesa nascente seppero ben ricoprire di fronte alle sfide delle epoche passate anche esse pervase da esoterismo, sincretismo e irrazionalismo.

 

La forza del Cristianesimo come religione vera

Quando si diffuse il cristianesimo l’ambiente culturale aveva non pochi aspetti in comune con quello dell’occidente moderno. Nell’Impero Romano le religioni pagane non godevano di buona salute ma allo stesso tempo non erano del tutto decadute. Le persone di cultura, per quanto non fossero completamente indifferenti al paganesimo, aderivano per lo più ad una sorta di religiosità filosofica che tendeva al monoteismo e manteneva elementi diversi del paganesimo con una certa dose di sincretismo.

I ceti sociali più bassi cercavano la salvezza negli antichi culti misterici o in quelli nuovi provenienti dall’oriente nei quali la caratteristica comune era che l’unione con la divinità si raggiungeva attraverso pratiche suggestive e pseudo-magiche.

La civiltà ellenistico-romana portò ad una straordinaria mescolanza di popoli e delle loro diverse concezioni religiose soprattutto nelle grandi città come Alessandria e Roma. Si generarono quindi profonde assimilazioni di culti e dèi differenti. Complice di questo anche l’unità politica dell’Impero con la sua amministrazione unitaria e la sua rete commerciale.

L’intero modo di parlare e di pensare dell’Impero erano permeati di politeismo e panteismo, di culti differenti fusi insieme, insomma una situazione di confuso sincretismo. Si era talmente abituati a pensare al divino come una serie di dimensioni e gradi intermedi, che non c’era posto per un Dio assoluto, sostanzialmente distinto da ogni altro, ma tutto sembrava derivare e ritornare ad un ciclo cosmogonico.

Proprio per questo il Cristianesimo apparve alla gente dell’epoca come qualcosa di inaudito, una novità senza precedenti. Il monoteismo del tempo non era mai riuscito a raggiungere la chiarezza e l’esclusività, tendeva in qualche modo alla conoscenza del Dio unico, ma rimaneva legato alla presenza dei numerosissimi dèi intermedi. Il concetto di Dio più che all’unicità si rifaceva alla supremazia sugli altri dei.

Un altro aspetto di rottura e novità del cristianesimo era l’esigenza di unità tra la vita e la dottrina, cosa che nel paganesimo sincretizzante non era mai stata raggiunta a pieno, in quanto la religione aveva più a che fare con l’esteriorità che con la convinzione interiore. Il cristianesimo non si poneva come semplice conoscenza, esigeva di essere vissuto pienamente e coerentemente.

In qualche modo il cristianesimo portava il concetto di religione ad essere inteso in senso nuovo: la verità coincide con una persona, Gesù Cristo, e questa verità è accessibile a tutti proprio per il disegno salvifico di Dio.

Se questo è il panorama con cui doveva avere a che fare la prima evangelizzazione, non furono meno impegnative le sfide che la giovane Chiesa dei primi secoli dovette affrontare soprattutto nei confronti della gnosi.

Di fatto la gnosi nacque prima dell’avvento del cristianesimo ma proprio per la sua natura sincretistica generò, nell’incontro con il nuovo messaggio evangelico, una serie di eresie complesse. Ecco come lo descrive Joseph Lortz nella sua Storia della Chiesa: “Questo sincretismo, nelle sue mistificazioni spesso indistricabili o non distinguibili e nelle sue molteplici varietà, nella sua mescolanza di raffigurazioni religiose, è uno dei più vasti movimenti di carattere psico-culturale del mondo; sorto in Oriente, viene importato in Occidente con la spedizione di Alessandro Magno in India e poi di nuovo, come  conseguenza della diffusione dell’Impero Romano, si espande nelle regioni delle antiche civiltà orientali. In questo processo durato per secoli, le religioni popolari, ma anche certe teorie filosofiche si compenetrano a vicenda; si ebbe così uno scambio di immagini, nomi, figure, miti e processi di origine cosmica, relativi alla liberazione dal peccato e al conferimento della grazia. Tutto fu fuso e interpretato a proprio modo da parte di persone colte, scettiche, ma religiosamente affamate, oppure fu grossolanamente materializzato dal popolo superstizioso”.

Gnosi significa conoscenza, ma una conoscenza che assume un valore salvifico, di natura religiosa. La tendenza della gnosi è quella di proporre una conoscenza segreta, accessibile solo a pochi “illuminati”, una conoscenza diversa dalla fede e ad essa superiore.

Questo è uno dei punti di principale differenza dalla dottrina cristiana: la liberazione, la redenzione è operata attraverso tecniche esoteriche e magiche e consiste nell’emancipare lo spirito buono dalla materia, che è fondamentalmente cattiva, e non comporta, come nel cristianesimo, una liberazione interiore dell’anima dal peccato.

Sono molti i motivi per cui lo gnosticismo ha avuto grande presa sulle persone dell’epoca. Da una parte questo suo esaltare il pensiero umano rendendolo la fonte della salvezza, dall’altra il fatto che queste dottrine nel loro contenuto religioso puntavano molto sulla fantasia, stimolando una sorta di creatività spirituale supportata da un esegesi allegorica e fantastica.

Il sincretismo dell’epoca, che si manifestava principalmente in teorie gnostiche, era una vera e propria epidemia spirituale che manifestava quanto gli influssi di secoli di paganesimo fossero vivi e ancora influenti nella vita delle persone. Insomma un’epoca che difficilmente riusciva a slegarsi dalla superstizione e da dottrine misteriche occulte.

Allo stesso tempo, però, un’epoca caratterizzata da un forte anelito alla redenzione, da una ricerca di salvezza e purificazione che, sebbene costituì con le varie eresie che ne sorsero, un pericolo per la purezza originaria del messaggio di Cristo, fu anche il vero humus in cui la Chiesa seppe mostrare la sua unità e la sua capacità di rispondere alle esigenze dei tempi.

Ne è in qualche un modo il simbolo la professione di fede romana, la più antica a noi nota che risale al 125 d.C., che corrisponde sostanzialmente al Credo, che afferma positivamente e chiaramente la reale Incarnazione del figlio di Dio, nato da Maria Vergine che è stato crocifisso in un preciso momento storico “sotto Ponzio Pilato”, in netto contrasto con le distorsioni spiritualistiche e allegoriche della persona e della vita di Gesù operate dagli gnostici.

È sempre in questo clima che i Pastori vengono a stabilire il canone neotestamentario come garanzia per i fedeli di corretta dottrina, giacché i vari esponenti delle dottrine sincretistico-gnostiche spesso manipolavano e riadattavano gli scritti degli apostoli se non addirittura componevano vangeli ad hoc per avallare le loro dottrine.

La Chiesa insomma fu capace di rispondere agli attacchi “esterni” e alle confusioni dottrinali “interne” fondando la purezza della dottrina fin da subito sul criterio della diretta trasmissione dai primi Apostoli a oggi della Parola di Dio senza distorsioni, aggiunte e modifiche, perché il cristianesimo era, più che una religione tra le altre, il fondamentale incontro tra l’uomo e il Cristo-Verità.

L’allora Card. Ratzinger nel suo intervento a al Convegno “2000 anni dopo cosa?” a Parigi affrontò proprio questo tema del cristianesimo come fondamentalmente diverso dalle religioni. Il messaggio cristiano non ha a che fare semplicemente con il mondo della religione, sostiene Ratzinger, ma si pone allo stesso livello della ricerca razionale della verità. Cosa che all’epoca in cui il cristianesimo si affacciò nel mondo era un’assoluta novità.

Nei primi secoli dell’era cristiana nell’Impero Romano “l'ordine cultuale, il mondo concreto della religione, non apparteneva all'ordine della res, della realtà in quanto tale, ma a quella dei mores - dei costumi. Non erano gli dei che avevano creato lo stato, era lo stato che aveva istituito gli dei, la cui venerazione era essenziale per l'ordine dello stato e la buona condotta dei cittadini”. Dio non era altro che l’anima del mondo, il Cosmo, che non era oggetto di religione ma che riguardava la ricerca razionale e filosofica della verità ed era cosa ben diversa dagli dèi a cui si rendevano i più disparati culti.

Filosofia, mito e culti religiosi erano visti su piani completamente diversi. La filosofia, la ricerca della verità aveva un ruolo quasi di demitologizzazione, di indagine razionale che di certo non credeva, anzi confutava, la nutrita schiera di dèi e divinità che popolavano le credenze popolari.

Prosegue Ratzinger: “culto e conoscenza si separavano completamente l'uno dall'altra. Il culto restava necessario nella misura in cui era una questione di utilità politica; la conoscenza aveva un effetto distruttivo sulla religione e pertanto non avrebbe dovuto essere messa sulla pubblica piazza”.

Ma il cristianesimo in questo panorama si posizionava proprio a livello della filosofia, della ricerca della verità e non nella dimensione della religione e del culto. Il cristianesimo si poneva come conoscenza razionale delle verità divine, come religio vera, ricucendo definitivamente la separazione tra razionalità e religione. Il cristianesimo si presentava come forza demitologizzante, come vittoria della conoscenza e della verità sulla superstizione e sul mito. Si proponeva al mondo come universale e valido per tutti, “non come una religione particolare – scrive Ratzinger - che ne reprimeva delle altre, non come una sorta di imperialismo religioso, ma piuttosto come la verità che rendeva superflua l'apparenza”.           

I cristiani dell’epoca erano visti come “atei”, perché non si limitavano a riformulare in nuove dottrine le figure del mito o i diversi culti. Il cristianesimo rompeva il sistema sincretistico e tollerante dei politeismi perché “non voleva essere una religione tra le altre, ma la vittoria dell'intelligenza sul mondo delle religioni. (…) Le due dimensioni della religione, che erano sempre state separate tra loro, la natura nel suo regno eterno e il bisogno di salvezza dell'uomo che soffre e che lotta, erano state congiunte tra loro. La razionalità poteva diventare religione perché il Dio della razionalità era entrato egli stesso nella religione”.

Non più l’uomo che cerca attraverso il culto e il mito di dare una risposta al suo anelito di felicità e salvezza, non più il filosofo che indagando la natura arriva ad intuire un ente supremo da cui tutto trae origine e significato. È Dio stesso che entra nella storia, si rivela, si rivolge all’uomo rendendolo partecipe del suo piano di redenzione attraverso Gesù Cristo. Non un anelito religioso umano che si fa dottrina, ma un uomo-Dio che rivela suo Padre all’uomo.

Tutto questo non basta a spiegare la forza dirompente che ebbe il cristianesimo sul mondo delle religioni. C’è un’altra componente: il cristianesimo proprio per la sua qualità di religione vera, che pone l’uomo di fronte alla conoscenza di se stesso, del cosmo e di Dio,  indica anche una Via da percorrere, indica all’uomo come essere pienamente uomo. Non rimane pura dottrina teorica ma diviene stile di vita incarnato secondo il precetto della carità, dell’amore. “Possiamo dire – prosegue Ratzinger - che la forza che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale sta nella sintesi da esso operata tra ragione, fede e vita".

Il sincretismo religioso che pervade le coscienze di molti uomini al giorno d’oggi non differisce da quella situazione di “epidemia spirituale” – come la definisce Lortz - presente agli inizi del cristianesimo. Anche oggi il razionalismo portato alle sue estreme conseguenze ha estromesso il discorso religioso dalla sfera del razionale, riconfigurando quella separazione tra religio e verità  presente in epoca precristiana.

Allora bisogna ripartire proprio da quella sfida che i primi cristiani affrontarono:  "Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie". Sono parole tratte dall'omelia del Card. Ratzinger  alla vigilia del Conclave che lo eleggerà Papa.

A queste si potrebbero aggiungere quelle di Giovanni Paolo II che parlando ai Vescovi americani a proposito del proliferare di nuovi atteggiamenti  religiosi sottolineò come “in mezzo a questa confusione spirituale (…) bisognerebbe essere in grado di individuare un'autentica sete di Dio e un intimo e personale rapporto con Lui. In sostanza la ricerca del significato è il meraviglioso bisogno della Verità e della Bontà che hanno il loro fondamento in Dio stesso Creatore di tutto ciò che esiste. Infatti è Dio stesso che risveglia questo desiderio nei cuori delle persone”.

 

Sincretismo, evangelizzazione e dialogo

Il diffuso sincretismo religioso che pervade la società, soprattutto quella occidentale, come abbiamo visto, richiama la Chiesa ad una attenta considerazione di quel bisogno religioso che c’è nell’uomo moderno, a quella sete di Dio che oggi come in passato non cessa di manifestarsi seppure in forme differenti.

Lo sforzo della Chiesa deve essere, come sempre, ancora una volta, evangelico e deve particolarmente concentrare i suoi sforzi, come indica Giovanni Paolo II nella Fides et Ratio, per “portare gli uomini alla scoperta della loro capacità di conoscere il vero e del loro anelito verso un senso ultimo e definitivo dell'esistenza”. Anelito che può trovare risposte proprio nella verità di Cristo.

In questo tempo in cui sembra che l’uomo “dovrebbe ormai imparare a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso, all'insegna del provvisorio e del fuggevole” è necessario che i cristiani sappiano riscoprire il valore dell’”intellectus fidei”, della verità che è conoscibile dall’uomo proprio perché creatura ad immagine e somiglianza di Dio. Questa rappresenta la vera cura agli eccessi dell’”ottimismo razionalista” che è stato fonte di numerose sofferenze nel XX secolo e che sta vivendo una profonda crisi gettando molte coscienze nella “tentazione della disperazione”.

Allo stesso tempo, avverte Giovanni Paolo II, “credere nella possibilità di conoscere una verità universalmente valida non è minimamente fonte di intolleranza; al contrario, è condizione necessaria per un sincero e autentico dialogo tra le persone. Solamente a questa condizione è possibile superare le divisioni e percorrere insieme il cammino verso la verità tutta intera, seguendo quei sentieri che solo lo Spirito del Signore risorto conosce”.

La proposta delle fede deve essere condotta con un atteggiamento di dialogo e il dialogo non può che fondarsi su una riscoperta della ragione umana come strumento valido per discernere la verità.

In questa stessa direzione procede la dichiarazione Dominus Iesus del 2000 che fu scritta proprio per ribadire che la salvezza può essere raggiunta solo in Gesù Cristo. Nella dichiarazione si fa riferimento al rapporto con altri credi religiosi affermando l’opportunità e la bontà di riconoscere in questi “elementi di religiosità, che procedono da Dio e che fanno parte di quanto opera lo Spirito nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni". Ma questo riconoscimento non può scadere certo nel sincretismo, confondendo il piano del dialogo e del rispetto della dignità dell’altro con il piano della verità: “Il dialogo perciò, pur facendo parte della missione evangelizzatrice, è solo una delle azioni della Chiesa nella sua missione ad gentes. La parità, che è presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali né tanto meno a Gesù Cristo, che è Dio stesso fatto Uomo, in confronto con i fondatori delle altre religioni”.

La Chiesa ha da sempre avuto questo atteggiamento nei confronti di altre concezioni filosofiche e di altre religioni: riconoscerne gli elementi che hanno valore di verità senza rinunciare a discernere ciò che si allontana dal vero. E questo è possibile solo dal momento in cui si ha fiducia che una verità unica esista, perché in questo ogni elemento può essere spunto e ricchezza per avvicinarla.

Nella lettera ai vescovi dal titolo Alcuni aspetti della meditazione cristiana, della Congregazione per la Dottrina della Fede datata 1989, si legge: "la chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni, non si dovranno disprezzare pregiudizialmente queste indicazioni in quanto non cristiane. Si potrà, al contrario, cogliere da esse ciò che vi è di utile, a condizione di non perdere mai di vista la concezione cristiana della preghiera, la sua logica e le sue esigenze, poiché è all'interno di questa totalità che quei frammenti dovranno essere riformulati ed assunti”.

Si tratta di un atteggiamento opposto a quello del sincretismo. Il sincretismo ha di fondo l’idea che un credo vale l’altro, una dottrina non ha altro valore se non quello che gli dà l’individuo o, al massimo, una ristretta cerchia di persone. Pertanto si finisce di fatto nell’annullamento di qualsiasi possibilità di individuare la validità di ciascuna concezione. Questo, a ben vedere, minaccia soprattutto la possibilità di un autentico dialogo giacché finisce per svuotare di significato ogni cosa e getta l’umanità in un irrazionalismo dell’individuo ripiegato su se stesso.

Il cristianesimo invece, come disse l’allora Card. Razinger a Subiaco nel 2005, ha “davvero delle buone carte da giocare” essendo “la religione secondo ragione (..) che ha sgombrato la strada dalle tradizioni per volgersi alla ricerca della verità e verso il bene, verso l’unico Dio che sta al di sopra di tutti gli dèi.” Ma il pensiero dell’attuale Papa si spingeva anche oltre: “l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana”.

Il cristianesimo può proporre anche all’uomo moderno una ricerca autentica di verità perché è “religione del logos”, è fede “nello Spirito creatore, dal quale proviene tutto il reale”. La fede cristiana riconosce che il mondo viene dalla mente di Dio e per questo razionale e razionalmente conoscibile.

Vale la pena riportare per intero le parole dell’allora Card. Ratzinger che rappresentano  un richiamo per tutti i fedeli: “Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta all’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini”.

Il sincretismo di oggi è la conseguenza di quell’anelito dell’uomo alla ricerca di un senso più alto, che nell’epoca contemporanea si rifugia in forme confuse proprio perché è in crisi oltre alla fede anche la fiducia nella capacità dell’uomo di conoscere la verità. Il compito di mostrare all’uomo moderno che questa fiducia può essere ritrovata, spetta ai cristiani che con il loro esempio, con la loro dedizione possono mostrare lo splendore della verità della fede. (Bruno Mastroianni, Dossier Fides, 2006)

 

 

 


 

Maria nel disegno salvifico

(8 giugno 2008)

 

Non conosco altro modo di parlare di Maria se non quello di cogliere, seguendo il cammino della fede, la realtà della sua persona e della sua vita. E’ l’unico mezzo che ci permetta veramente di entrare in contatto con essa, poiché per noi non si tratta di rapporto con un essere irreale, idealizzato, quanto con una persona pienamente viva che inoltre ha possibilità tutte particolari per conoscerci e per comunicare con noi.

La cosa più semplice è tracciare la storia di Maria, la storia della sua anima, dello sviluppo della sua fede e la storia della sua missione: missione durante la vita di Cristo e missione attuale. Noi siamo talvolta costretti a fare uno sforzo per distoglierci dall’immagine che ce ne facciamo: di colei che s’invoca in tutto il mondo con tanti nomi diversi, di colei rappresentata in forme artistiche così disparate e che ci figuriamo sempre circonfusa di gloria, per riportarci da tale immagine alla semplice fanciulla d’Israele, all’esordio della sua vita, prima che l’angelo le rivelasse quello, che Dio si aspettava.

E’ una fanciulla come le altre, di umile condizione sociale. In essa c’è stato certamente un lavoro divino, ma non come di solito immaginiamo. Poiché non dobbiamo credere, per il fatto che Maria è madre di Dio e immacolata nella sua concezione, ch’essa non abbia dovuto operare nella fede, che non sia vissuta in terra come noi, con gli stessi mezzi che noi abbiamo per prendere contatto con Dio. E’ molto importante rendersi conto di questo per comprendere quello che in essa è accaduto.

Maria nacque e visse nell’epoca della storia d’Israele, che costituiva l’ultimo periodo preparatorio alla venuta del messia. Vi era dunque un’attesa nel popolo; e questa attesa del messia nell’anima d’Israele era tanto più profonda, tanto più giusta, quanto più intimo era il contatto che le anime avevano con la Scrittura e quanto maggiore era la possibilità, in ragione della loro purezza e della loro disposizione alla luce divina, di comprenderla nel senso dovuto. Quello che Maria sapeva del messia, le era dunque venuto dalla tradizione d’Israele.

Maria radicata nell’umanità

Alcuni teologi, dopo aver catalogato la serie dei carismi che nel corso della storia Dio ha dato ai santi, hanno sostenuto che Maria, essendo la persona più santa, dovesse aver ricevuto tutto. Ora, questa affermazione non solo è falsa storicamente, ma altera proprio la sua bellezza. Essa è troppo pura, troppo santa, troppo unica, e troppo profondamente radicata nella nostra umanità per aver bisogno di tutti quei doni che non farebbero che nasconderla, se così si può dire, nella sua purezza.

Una vita disponibile intessuta di fede

Vi è poi l’annunciazione, e con essa ha inizio un nuovo stato: Maria diviene madre. E’ straordinario che in una fanciulla possa cominciare a fiorire la maternità mentre l’anima rimane quella di una vergine. E’ cosa unica e si svolgerà in un cuore umano, in una psicologia umana, nel carattere di questa donna, che non era creatura strana e anormale. Era figlia di Anna e di Gioacchino, aveva la sua famiglia e i suoi antenati; era proprio una fanciulla di nome Maria. Non è necessario che io insista; voi avrete spesso meditato sul suo atteggiamento di fronte al messaggio dell‘angelo, su questa semplicità totale, questa discrezione, questa fede immediata.

La prima domanda che dobbiamo porci è in quale misura Maria si sia fatta un’idea del proprio destino dopo il messaggio dell‘angelo.

Che cosa aveva compreso? Che cosa c’era nella sua fede? Essa conosceva troppo bene la Scrittura e le parole dell’angelo erano troppo direttamente significative perché potesse dubitare un solo istante che non si trattasse del messia. A partire da questo momento ella sapeva che ne sarebbe stata la madre. Ma qual era la vera natura del messia? Non credo che in quel momento fosse necessario alla sua fede conoscere interamente tale natura: le pagine seguenti della Scrittura e lo stupore di Maria di fronte ad alcuni episodi dell’infanzia di Gesù lo dimostrano chiaramente; ciò è molto più bello. Perché mai, infatti, il Signore avrebbe eliminato dalla sua vita l’oscurità della fede, la fiducia che deve derivarne e l’abbandono che può risultarne? Senza di questo essa non sarebbe stata completamente della nostra razza. Era abbastanza forte per vivere di fede. E il tratto predominante della sua vita, non è costituito dal fatto che il Signore ha voluto farne l’anima più forte? Dio le ha dato tutto quanto era necessario perché fosse la madre di Gesù in modo mirabile; se vogliamo definire una persona, dobbiamo pur definirla mediante ciò che le è più essenziale. Ora, Maria era la madre di Gesù nel più intimo e profondo della sua stessa natura fisica e psicologica, perché li consisterà il mistero della concezione verginale, dove si radicava la sua condizione umana di madre di Gesù. Era figlia di Dio ed era nella fede illuminata anzitutto dalle Scritture.

Neppure di ciò che seguì all’annunciazione noi ci rendiamo ormai sufficientemente conto. Ci sembra inconcepibile che essa nulla abbia detto al suo fidanzato. Nel matrimonio di Maria, poiché si trattò di vero matrimonio, vi è qualcosa di molto misterioso. Immaginate quel che dev’essere accaduto quando Giuseppe intuì qualcosa mentre essa nulla aveva detto, neppure una parola. Perché questa discrezione, quando sapeva che sarebbe stata fonte di tanto turbamento?... Un abbandono totale alla provvidenza? O forse un profondissimo pudore del mistero che le era stato rivelato? Dio ha diretto ogni cosa. Ma noi possiamo comprendere anche il dramma di Giuseppe. Credete che questo non abbia lasciato alcuna traccia dolorosa nella vita di Maria? Non v’è nulla di più sconcertante di tali incomprensioni tra persone di buona volontà. Dio non gliene ha risparmiate... Si direbbe che Dio abbia fatto soltanto quel che era necessario perchè l’incarnazione si attuasse, e poi abbia lasciato che le cose seguissero il loro corso con tutte le naturali conseguenze. E ciò non avvenne senza sofferenza. Giuseppe e Maria si amavano. Fu necessario che un angelo intervenisse e che Giuseppe fosse interiormente avvertito di non temere. E l’angelo non fu neppure molto esplicito: “Non temere, perché ciò è dallo Spirito Santo”. Parole che ci permettono di renderci conto della profondità del senso religioso di Giuseppe. Questo giovane, che aveva sposato Maria presta fede a un’affermazione così inverosimile, quando già aveva deciso di rimandarla, credendo fosse accaduto qualcosa che non osava ammettere esplicitamente. Che cosa è avvenuto nel profondo delle loro anime? Se vogliamo afferrare la realtà della loro vita di fede e comprendere l’anima di Maria, dobbiamo penetrare nella realtà della loro vita.

“Maria conservava queste cose…"

e voi sapete. in quali circostanze ebbe luogo... Tutto ciò segue il corso ordinario delle cose. Un censimento, e si è obbligati a emigrare. Ed è anche la prima volta che Maria assiste a manifestazioni esteriori nei riguardi di suo figlio, assolutamente grande, eccezionale. Ricordate le parole del Vangelo: “Maria conservava queste cose e le meditava nel suo cuore”. Essa, che non sa ancora tutt0, riflette e cerca di leggere negli avvenimenti provvidenziali. C’è la visita dei pastori, poi quella dei magi che vengono alla culla del figlio. Ma un fatto la turba assai più profondamente: la strage degli innocenti. La Scrittura ne riferisce in tre righe e noi la celebriamo nella liturgia. Ma mettetevi al posto di Maria; in tutta la sua brutale realtà si tratta di una operazione di polizia, contro dei bambini Dopo questo fatto, come poteva credere ancora che la Provvidenza governasse la sua vita? Come poteva Dio permettere una cosa simile? E non vi è nient’altro, nessuna spiegazione divina. La Provvidenza non è intervenuta a impedire la strage, quando per Dio sarebbe stato così facile.

Maria ha dovuto fuggire come una profuga, come una emigrante. E’ falso pensare che le sia stata concessa una specie di visione di ogni cosa. Al termine della sua vita, certamente ma non all’inizio, ed è questa la sua grandezza, questo che ce la rende così vicina. Ha veramente dovuto vivere di fede come noi. Giorno per giorno Dio le ha dato quel che le era necessario perché potesse comprendere ciò che doveva fare. Per il resto ha agito da madre.

E poi la presentazione al Tempio. Maria ignorava ancora il mistero di sofferenza e di contraddizione di suo figlio: glielo disse Simeone da parte del Signore. Dopo, di nuovo l’oscurità, e la vita quotidiana riprende i suoi diritti. So quanto è difficile cercare qui d’immaginare qualcosa. Ma proprio per questo, forse, non bisogna immaginare nulla.

Sofferenza d’essere la madre di Dio

E’ un periodo lungo, nella vita di una madre che si vede crescere accanto il figlio, dall’infanzia ai trent’anni. Suo figlio ha vissuto presso di lei per più di dieci anni di vita operaia, con tutto ciò che questo comporta.

Non dobbiamo cercare d’immaginare nulla. Tutto ciò che il Vangelo ci dice dei rapporti tra Maria e Gesù, ci mostra che Cristo s’è comportato con lei normalmente, come nell’ambiente che era il loro, si comportavano i figli con le madri. Tra la madre e Gesù fanciullo v’e stato un mistero di amore e di reciproci rapporti. Di questi trent’anni non conosciamo che un episodio. Il fanciullo ha dodici anni: è ormai un ragazzo. Sapete quel che ha fatto e sapete quanto sua madre ne è stata turbata. In quel momento Maria non ha compreso la psicologia di suo figlio. Dobbiamo leggere il vangelo così com’è scritto. Per la prima volta davanti al figlio dodicenne, ella sospetta qualcosa che la fa soffrire. Non so se riuscite a immaginare quali siano i sentimenti di una madre verso il proprio figlio. Questo figlio è suo, le appartiene, e tuttavia scopre in lui qualcosa che la trascende, che lo separerà da lei . E’ un mistero essere madre di Dio. Ed è pure difficile capire fino a che punto questa semplice condizione non potesse essere senza dolore. Quando suo figlio ha dodici anni ella scopre a un tratto, in un suo atteggiamento, che nella vita di questo figlio vi è un grande mistero. E il vangelo aggiunge: “E in seguito fu loro sottomesso” dopo d’allora cioè, egli non ha più manifestato nulla, non ha più agito se non come un uomo qualsiasi. Cosa certa, questa; perché sarebbe altrimenti incomprensibile che, in un ambiente orientale, di vita in comune, dove non esiste uno stile veramente intimo e familiare, e dove Maria ha vissuto come tutti gli altri, nessuno avesse mai sospettato nulla nei riguardi di suo figlio. Ricordate agli inizi della predicazione? “Non è questi il figlio del falegname che vive tra noi?”; perché non riuscivano a capacitarsi che potesse parlare come un rabbino. Il vangelo è chiaro. Nulla di più falso dell’ambiente effeminato e irreale delle immagini pie rappresentanti la ”sacra famiglia”. La verità è assai più grande e bella, appunto perché Maria e Gesù fanciullo sono esseri reali e forti. Vi è in Maria una grandissima forza, una sofferenza profondissima, la sofferenza d’essere madre di Dio: una sofferenza che penetra nella più profonda intimità della sua natura stessa di madre.

“Debbo interessarmi delle cose del Padre mio”

Dopo la normale vita di Nazaret,ha ha iniziato la missione pubblica. So che alcuni si scandalizzano nel constatare con quanta disinvoltura il vangelo passi ormai. sotto silenzio Maria.. Quando Gesù, s’è allontanato da casa, non si parla più di sua madre, se non proprio all’inizio, nel momento in cui Gesù sta per andarsene. Egli è ancora nella casa materna, ma per poco, come un figlio missionario che sta per partire. E’ chiamato altrove. Deve compiere la propria missione. Cosa può aver detto Gesù a sua madre in questo momento? Che cosa le ha rivelato della realtà della sua natura e della sua missione, e cosa sapeva essa di lui, quando egli raggiunge i trent’anni? Sappiamo che gli apostoli non hanno saputo subito: ricordate il giorno in cui Gesù ha chiesto loro chi pensassero ch’egli fosse? Credo si possa affermare che Maria è stata comunque la prima a scoprire e a credere chi fosse realmente suo figlio. E si è trattato per lei, come per tutti, di un atto di fede. Gesù lo dice: “Né la carne né il sangue ti hanno rivelato che sono figlio di Dio, il Padre mio”. Noi crediamo per fede, perché di Gesù non conosciamo che l’aspetto esteriore. Ma non ci rendiamo sufficientemente conto che anche Maria dovette compiere un atto di fede per credere alla divinità di suo figlio. E’ tanto maggiore doveva essere la sua fede, in quanto si trattava di suo figlio, carne della sua carne, e lei gli era legata unicamente nella sua natura di uomo. Credere che lui fosse Dio: quanta fede occorreva! Esteriormente Cristo non ha agito mai se non come uomo. La trasfigurazione costituisce l‘eccezione di qualche ora, un momento solo nella vita di Cristo quando, a chi l’avesse guardato, qualcosa di sensibile lasciava trapelare la sua divinità, la quale, senza distruggere la fede, s’imponeva all’uomo. Noi sappiamo che Cristo non era solo uomo, era figlio di Dio; ma nel corso solito della sua vita non appariva tale.

Il legame misterioso tra Figlio e madre

Lo sviluppo della fede e dell’amore nel cuore di Maria è precisamente ciò che costituisce sua grandezza. E se la constatazione che Gesù non fece eccezioni per sua madre, mai neppure nel momento nella passione, ci lascia perplessi, ciò accade appunto perché essa era troppo forte, e Gesù esigeva troppo da lei per cercare di alleviarne il cammino. E poi, che cosa doveva essere Maria? Un santo è perfetto nella misura in cui compie la sua missione e i doveri del suo stato. Ora, in quel momento, la sua missione non si limitava forse a una cosa sola, essere cioè – in modo perfetto – la madre del fanciullo, la madre di Gesù adolescente? Doveva essere madre nel senso pieno, completo della parola: e quindi anche nel momento in cui il fanciullo era diventato adulto, ella si è mostrata una madre perfetta, ha saputo cioè trarsi in disparte. La perfezione di una madre sta nel guidare il figlio al fine che gli è proprio. L’atteggiamento di una madre deve mutare secondo l’età del figlio, perché essa esiste in funzione del figlio; è questo il lato difficile della vocazione di una madre. Deve saper trattare suo figlio come un adulto, lasciarlo libero, non influenzarlo più, rinunciare a trattarlo come un bambino. Molte madri nuocciono ai loro figli proprio perché non si rassegnano alla necessità di mutare atteggiamento. Maria, che è così perfetta, ha saputo trarsi completamente in disparte. Ha permesso che suo figlio se ne andasse, e Gesù l’ha lasciata alla sua missione perfetta di madre. Ricordate le parole del Vangelo? Maria era costretta a seguire le donne, come una donna qualsiasi, mentre la folla dei discepoli aveva ormai la precedenza su di lei: “La madre e i fratelli di Gesù vennero a trovarlo, ma non potevano avvicinarsi a lui per la folla. E gli fu riferito: “Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti”. Ma egli rispose: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”” (Luca 8, 19-21).

Non dobbiamo scandalizzarci; dobbiamo invece cercare di comprendere un mistero, così intimo e profondo, tra Maria e suo figlio. Credo sia raro trovare un santo che nel corso della sua vita non abbia compiuto qualche miracolo; essa, invece, non ne ha mai compiuti. A Cana ha chiesto un miracolo a Cristo. Nient’altro. Che missione aveva da giustificare dinanzi agli uomini? Era la madre. Missione troppo naturale perché debba essere autenticata, un miracolo l’avrebbe anzi snaturata. Maria non doveva cercare di farsi avanti. Non c’era bisogno di rivolgersi a lei finché c’era Gesù. Per questo il vangelo non parla di lei fino al giorno della passione.

La madre “stava”

Al momento della croce il Vangelo accenna alla presenza di Maria. Con poche parole, ma nascondono un abisso. Era impossibile che in quel momento essa non sapesse tutto di suo figlio. Era il momento in cui la sua fede si compiva. Il mistero di questa madre durante la passione è che lei è più forte di tutti, più forte degli apostoli stessi che pure erano uomini. Non mi piacciono molto le rappresentazioni della passione che raffigurano Maria singhiozzante e prostrata, come una donna stravolta dal dolore. Nulla nel vangelo ci autorizza a raffigurarcela così: il vangelo ci dice anzi ch’era in piedi. In conseguenza della sua concezione immacolata ella aveva corrisposto, giorno dopo giorno e in maniera mirabile, all’azione di Dio nella sua anima, cosicché il Signore non aveva bisogno di fare cose eccezionali perché la fede e l’amore di sua madre toccassero una grandezza che a noi non è dato raggiungere.

La prova d’amore più grande

Maria giunse alla maturità della sua fede nel momento della passione di Cristo, ed ecco allora un altro mistero: la sua missione sopra la terra, in quanto madre di Gesù, finisce perché suo figlio sta per morire. Cosa può dargli ora? Non ha più nulla da dare a suo figlio. Ma in lei si è compiuto qualcosa di molto profondo, perché una madre non può non provare la sofferenza più grande a veder morire il figlio soprattutto quando non muore di morte naturale, ma giovane e crocifisso. Sappiamo che se la più grande prova d’amore sta nel dar la vita per coloro che amiamo, la più grande sofferenza è pure la prova d’amore più grande. E Dio ha condotto la sua madre fino a questo punto, affinché desse la più grande prova d’amore.

Essa era troppo intimamente legata a suo figlio perché non vi fosse anche un mistero di collaborazione, in quanto l’amore implica collaborazione. Il genere di “lavoro” che suo figlio compiva allora per la redenzione del mondo le permetteva per la prima volta una piena collaborazione. Maria ha provato quella sofferenza, che era la sofferenza redentrice, fin nel più profondo del suo essere. E poiché non v’è dubbio che in quel momento essa non conoscesse perfettamente la missione di suo figlio, voi capite quale parte unica abbia nella redenzione delle anime. Vi ha collaborato con una sofferenza che rappresenta il parossismo della sofferenza di una madre e nella piena lucidità della fede.

Donna, ecco tuo figlio

In quel momento accade pure qualcosa che la riguarda direttamente, perché suo figlio le parla - una delle rare parole che nel vangelo Gesù rivolge a sua madre. Tra lui e lei accade qualcosa di doloroso e nello stesso tempo di semplice. Si tratta, direi quasi, di due atti che s’intrecciano. Il primo atto, semplicissimo, è che Gesù sta per morire, e Gesù è figlio unico. Lascia sopra la terra la madre, che ha delle necessità e deve pur vivere in qualche modo. Chi si prenderà cura di lei? Non aveva rendite. Fin tanto che Gesù viveva la manteneva lui. In oriente i membri di una famiglia si mantengono l’un l’altro. Dopo aver lasciato il suo lavoro, Gesù era vissuto come un rabbino, gli si dava di che vivere, e si dava di che vivere a sua madre. Ora bisogna che Maria abbia il necessario. In oriente una donna non sta sola, deve tornare in famiglia; essa non aveva famiglia a Gerusalemme Le si presentavano dunque - poiché non sfuggiva a tutte queste esigenze concrete - dei problemi d’ordine pratico. Gesù le dice: “Andrai da Giovanni, nella casa di Giovanni”; e a Giovanni: “La tratterai come tua madre”, Questo, anzitutto, il fatto reale che costituisce per Maria la brutale presa di coscienza che suo figlio non è più, che tutto è finito, che egli la lascia e che un’altra casa le è ora necessaria, e che un uomo si prenda cura di lei. Tale il fatto doloroso: suo figlio non sarà più accanto a lei e le dice: “Giovanni sarà come tuo figlio”.

Sappiamo che la Chiesa ha sempre considerato questo episodio di passaggio tra le due successive missioni di Maria. Il suo primo compito, fin tanto che Gesù era rimasto sopra la terra, era stato quello d’essere sua madre: ora questo compito è terminato. Che può essa fare ora? Una nuova missione ha inizio: sarà la madre di Giovanni. Credo che di ciò essa ignori ancora il significato. Era naturale che gli apostoli, che si sentivano responsabili di lei, la considerassero come una madre. Gli apostoli, a quell’epoca, erano appena dirozzati: voi sapete che il giorno della croce erano fuggiti. Giovanni solo era rimasto fedele o quasi, per questo si trovava lì, per vedersi affidare la madre del Maestro. Maria, certo, attendeva la risurrezione di suo figlio; la sua fede era troppo profonda e Gesù l’aveva predetta. E’ ovvio che, se v’era persona capace di comprendere il senso della predizione di Cristo, era appunto lei, sua madre. Forse, se non si trovava tra la folla proprio quando Gesù aveva fatto questa predizione, non le era giunta direttamente dalla sua bocca,certo le era stata riferita. Maria credeva, ma nella oscurità della fede. Sapete anche voi che, quando qualcuno muore, il fatto di credere che un giorno risusciterà, non cambia nulla quando vediamo morire una persona cara,crediamo alla resurrezione dei corpi. Vi crediamo per fede. Maria ha avuto questa fede. Nessuna creatura umana era mai risorta. Essa mai aveva visto nulla di simile. La sua fede nella resurrezione era una certezza interiore che non toglieva nulla al dolore. Il pensiero che il vostro amico morto un giorno risusciterà, allevia forse il dolore che voi provate per la sua morte? In quel momento l’unica cosa reale per Maria era la morte, perché la morte era sensibile, rientrava nella realtà, mentre il resto rientrava nella fede. E nulla di sensibile leniva la sua pena. Essa ha vissuto la realtà concreta.

Successivamente, per Maria, ha inizio un periodo che va dalla risurrezione all’ascensione: un periodo tutto particolare. Cercate di mettervi ancora al posto di questa madre, d’immaginare che suo figlio ormai non è più come lei. Come Dio le è sempre sfuggito, ma ora le sfugge anche come uomo; ciò traspare nel suo modo di essere. Egli c’è e non c’è. Torna, ma non si è più con lui come prima. Qualcosa è mutato: sua madre sa tuttavia di essere la madre sua, la madre di quest’uomo glorioso che di quando in quando rimane con essa.

Madre della Chiesa

Un’altra missione si prepara per Maria, un’altra missione che dovrà vivere: essere la “madre della Chiesa nascente”. Le è stato affidato Giovanni e con lui gli apostoli, tutta la Chiesa di allora. Essa ne prenderà coscienza progressivamente. Solo lei poteva narrare agli apostoli il vangelo dell‘infanzia di Gesù, e sappiamo pure che quando si riunivano a pregare era con loro. Degli stretti vincoli la legavano dunque agli apostoli che erano vissuti col Maestro e ne avevano visto la figura e i gesti. Maria era sua madre e gli rassomigliava fisicamente. Tutto in lei ricordava loro Gesù, Potete quindi immaginare i sentimenti che gli apostoli dovevano provare quando era lì tra loro. Tuttavia essa non ha alcuna funzione ufficiale. La Chiesa non ama che gli si parli di Maria-sacerdote; a me questa denominazione sembra alterare la purezza del suo volto. Essa è assai di più. Appartiene un altro ordine, che è soltanto suo: è la madre del Sommo sacerdote. Non è sacerdote: è la madre del Sommo Sacerdote. E’ unica, e questa è la sua particolarità. Non dobbiamo farla uscire da questo posto unico per cercare di classificarla. E’ senza dubbio legata agli altri ordini, e in particolar modo al sacerdozio, perché è la madre del Sommo Sacerdote; ma non è essa stessa sacerdote. Ha assistito alla messa degli apostoli e ricevuto la comunione dalle loro mani. Nella sua anima non vi era alcun carattere sacerdotale: non aveva il potere di perdonare i peccati, non poteva assolvere, consacrare,rendere presente il corpo di suo figlio nell’eucaristia, mentre tale potere avevano gli apostoli infedeli, molto meno perfetti di lei. Maria è al di sopra di tutto questo perché è unicamente la madre di Gesù. Se volete comprenderla bene, dovete centrare tutto su questa realtà unica che è in lei. Si penetrerà allora assai più profondamente nella sua intimità, nella sua missione, e si comprenderà il vangelo, poiché tutta la condotta di Dio nei riguardi di Maria è stata dettata dall‘idea di farne una madre perfetta, senza alcun privilegio. Essa ha dovuto soffrire come una madre, dopo aver provato tutte le sofferenze che prova una madre accanto al figlio che si fa adulto.

Nella sua maternità universale si perpetua la maternità di Gesù

Poi c’è l’ascensione e la pentecoste - avvenimenti molto importanti perché segnano la fine di un’epoca della redenzione e l’inizio di un’altra. Fin tanto che Gesù era in terra, la Chiesa non poteva ancora esistere nella forma che le è propria, non aveva ragion d’essere. La Chiesa ha inizio con l‘ascensione, con l’assenza corporale definitiva di Gesù. Tutte le future apparizioni di Cristo sulla terra non sono che figure, salvo forse, si dice, l’apparizione di Cristo a Paolo sulla via di Damasco: Paolo è apostolo e deve aver visto Gesù uomo. Cristo dunque, nella sua condizione di uomo è definitivamente assente dalla terra. Qualcosa quindi finisce anche per Maria. A partire da quel momento, essa è più strettamente legata agli apostoli perché è con loro nella Chiesa.

Notiamo che se Maria fosse stata realmente privilegiata dal punto di vista della visione delle cose, non avrebbe avuto bisogno della pentecoste. In tale circostanza essa ha ricevuto lo Spirito Santo come gli apostoli, e il Signore aveva detto: “Vi sono cose che comprenderete (soltanto) allora”. Perché mai Maria avrebbe avuto bisogno d’essere tanto sapiente e di comprendere più di quanto riguardava i rapporti con suo figlio? Non aveva il compito d’insegnare. Non ha predicato. Ciò sarebbe esulato dalla sua missione di madre. Ha continuato, accanto agli apostoli, la sua missione di madre di Gesù: è stata per loro come un prolungamento della presenza di Gesù. Ha narrato ciò che sapeva. Ha ricevuto lo Spirito Santo. Essa era necessaria, agli inizi, perché la Chiesa potesse sussistere senza la presenza di Gesù. Ma io credo che il capovolgimento più grande nella vita di Maria cominci con la sua assunzione.

Il mistero dell’assunzione è stato definito di recente e io non so se ne comprendiamo pienamente il significato. E’ naturale, data la santità eccezionale di Maria e dato che essa era la madre di Gesù, che per lei la risurrezione sia stata anticipata; poiché in fondo, l’assunzione non è che una risurrezione, l’unione del corpo con l’anima in uno stato glorioso. Maria è risorta. Si dice che il suo corpo è stato assunto in cielo, poiché si tratta di una risurrezione non visibile sulla terra. Nessuno l’ha vista risorta, come è stato visto Cristo risorto, ma a partire da quel momento io dico che v’è qualcosa di nuovo, qualcosa d’immenso e, se ben riflettiamo, d’incomprensibile. Innanzi tutto perché Maria risorge? Era la madre di Gesù e, per essere madre, aveva bisogno del corpo. Aveva generato col suo corpo: l’anima separata madre di Maria non poteva più essere veramente la madre di Gesù. In un certo senso si può dire che la madre fosse realmente morta, anche se l’anima era viva; ma sarebbe concepibile che la realtà della madre di Gesù non fosse più? L’assunzione rivela la volontà di Dio che sua madre sussista fin da ora, in uno stato glorioso. E il fatto che Gesù abbia voluto accanto a se sua madre in quanto madre, costituisce la prova che ella ha una missione da assolvere. Poiché anche per noi Maria non avrebbe potuto essere madre in tutta l’estensione del termine se non avesse avuto più il suo corpo. E’ un mistero che ci aiuta a penetrare con maggior profondità la sua missione che è missione di maternità: la maternità per suo figlio, prima; poi quella iniziata il giorno dell’assunzione, la maternità dei cristiani.

Anche ora all’ombra del Figlio

Com’è possibile? Che cosa le chiederà Dio d’ora innanzi? Direi che nella vita di Maria vi sono due condizioni diametralmente opposte: fino all’assunzione un genere di vita, soprattutto esteriormente, del tutto comune, talmente comune che nessuno l’ha notata, salvo coloro che, amando Cristo, amavano pure la madre di Cristo. Essa scompariva all’ombra del Figlio. Ma ora, dopo l’assunzione, tutto cambia e la sua condizione attuale è strettamente legata alla natura stessa della Chiesa: il corpo mistico di Cristo non è soltanto una struttura invisibile e puramente spirituale, bensì qualcosa di misteriosamente umano. La stessa cosa vale per l’eucaristia: nell‘eucaristia è presente il corpo di Gesù, e Maria, col suo corpo glorioso, è in relazione materna con questa realtà. Così, dal momento in cui suo figlio vivrà sulla terra sotto quel nuovo aspetto che è il corpo mistico, la maternità di Maria nei confronti di Cristo continuerà in questa nuova forma, in senso direi quasi fisico. La grazia stessa è una realtà fisica che deriva da Cristo, e Maria è la madre di Cristo.

Ma sappiamo forse tutto ciò con esattezza? E come osiamo affermare una cosa simile?

Come pensare che una donna, che ha cervello e cuore umani e che per la sua umanità stessa è limitata come qualsiasi altra creatura, possa conoscere ogni uomo che vive sopra la terra e occuparsi di lui? E’ possibile? Sì, e possiamo affermarlo con certezza, perché così afferma la Chiesa, da parte di Dio. Ci rendiamo conto perché la Chiesa è per noi così grande e importante? Chi oserebbe fare tale affermazione? Ma la Chiesa l’ha veramente fatta in termini tali da impegnare la nostra vita? Per credere a un’asserzione come questa bisogna anzitutto comprendere che cosa significhi. E’ bello abbandonarsi all’immaginazione, ma dobbiamo porci di fronte alla realtà: può dunque una donna, creatura umana, conoscere ogni uomo e conoscerlo con sufficiente libertà da potersene pure occupare? Può esser vera una cosa simile? Tra tutte le denominazioni riferite a Maria, una mi sembra tanto essenziale: quella di madre di Gesù perché determina esplicitamente la maternità di Maria nella sua condizione attuale. L’estensione della maternità di Maria, fa si che essa sia necessariamente presente, in quanto madre, ovunque si determini uno sviluppo o una nuova nascita di suo figlio: ogni volta cioè che la grazia agisce nelle nostre anime. Maria non può esserne assente, perché vi è qui qualcosa di suo figlio, di cui lei è la madre.

La posizione di Maria dopo l’assunzione è quindi antitetica alla posizione che essa occupava in terra. In quel tempo, la semplicità della fanciulla, dell’umile giovinetta d’Israele, della madre di famiglia, modesta come qualsiasi altra madre, più modesta di tutti gli altri santi perché la maggior parte degli altri santi ha fatto qualcosa: hanno fondato ordini, hanno creato delle scuole di spiritualità; mentre essa non è stata altro che “madre” e nella sua missione non troverete altro. Quanto a noi, siamo personalmente impegnati in questo nuovo ordine di realtà, e questo ordine dobbiamo vivere in un senso che forse non comprendiamo ancora abbastanza: lo si voglia o no, Maria è nostra madre, e in modo tale che la vita cristiana non può svilupparsi in noi senza il suo intervento.

La vera devozione a Maria consiste nello sviluppo della nostra spiritualità cristologica e trinitaria

Vorrei che, dopo quanto abbiamo detto, voi conservaste un’idea esatta di Maria e della posizione che deve occupare. Non potete porla in primo piano, e non potete neppure considerarla la prima dei santi, sul loro stesso piano. Dovete considerarla a sé. Ho sempre notato con meraviglia quanto sia confusa la nozione che si ha in occidente di tutte queste cose; quando si entra in una chiesa ci si sente sconcertati dalla proliferazione di statue, tra le quali un santo patrono qualsiasi occupa di solito, per le proporzioni e l’ubicazione della sua effige, la posizione preminente. Come comprendere qualcosa della gerarchia della fede e delle vere realtà del mondo invisibile? Che la chiesa sia dedicata a un determinato santo, non è una ragione perché questi sia continuamente il personaggio in primo piano. Mettetevi al posto di coloro che non sono in grado di fare il necessario ridimensionamento, degli estranei, dei neofiti. Una delle grandi doti della Chiesa orientale è certamente costituita dal fatto che l’iconostasi rappresenta una meravigliosa sintesi della teologia, dove non vi è nessun errore di prospettiva: il Salvatore è sempre a destra, e a sinistra sua madre!, poi, su un altro piano, i santi.

Non so se vi siete mai recati in Sicilia, Se sostate a Palermo, entrate nella grande chiesa bizantina di Monreale, poco sopra la città. Questa cattedrale, innalzata nel medio evo, è stata interamente rivestita di mosaici a opera di artisti bizantini. Provatevi ad analizzare l’ordine delle immagini. E’ una cosa meravigliosa. Tutta la chiesa della terra e del cielo è presente in modo mirabile: Cristo re, in fondo all’abside centrale, domina tutto. Maria non occupa una posizione gerarchica nella Chiesa: non è una colonna della Chiesa terrestre. Per questo nelle absidi laterali, a fianco di Cristo, son rappresentati san Pietro e san Paolo che costituiscono le fondamenta della Chiesa. sulle pareti si svolge tutto il mistero della storia dal principio della creazione, e la storia della Chiesa: Adamo, Eva, i profeti, l’annunciazione, la vita di Cristo. E Maria dov’è? Al Centro, al di sotto di suo figlio, un po’ più piccola. Maria non rientra nella struttura della Chiesa, occupa una posizione unica, dopo suo figlio, una posizione che non appartiene che a lei:

Quando si contemplano simili capolavori, capolavori d’arte e di senso dei misteri divini, e si guarda poi alle nostre chiese, riesce difficile rassegnarsi a simile mediocrità d’espressione. Perché non tradurre in immagini la bellezza delle realtà invisibili? Perché rassegnarsi a questa negligenza che ha finito per contraddistinguere con un marchio di standardizzazione e di volgarità tutto quello che la Chiesa occidentale ha portato con sé attraverso il mondo, fin dalle lontane missioni? Quale la conseguenza e insieme la causa di tale stato di cose, se non che i nostri cristiani hanno sì delle devozioni, ma non il vero senso dei misteri della loro fede? La loro pietà è buttata via, le loro devozioni grette; non posseggono il senso della Chiesa di Cristo né di Maria sua madre. E’ forse inutile cercare altre cause sul rispetto umano che gli uomini spesso dimostrano riguardo alla devozione a Maria.

E’ probabile che, se si insegnasse loro a conoscere in modo più conforme alla realtà, essi avrebbero spontaneamente un’autentica disposizione verso di lei.

Cercate dunque di farvi un’idea esatta della parte che Maria occupa nella vostra vita; e se nella vostra vita non la trovate cercate di porvela, o, più esattamente, cercate di accorgervi che essa è nella vostra vita, prendendo coscienza di tale realtà. E’ del tutto differente rispetto a qualsiasi altro santo che, durante la vita si supplica pregandolo di interessarsi a voi: la Vergine, lo vogliate o no, è già nella vostra vita, e in modo indispensabile quanto Cristo: ma al suo proprio posto e in una maniera che ora dovete imparare a scoprire. Maria è legata al prodursi della grazia in maniera unica, come nessun altro santo. Se possiamo far si, mediante la luce della nostra fede, che Cristo sia presente nella nostra vita, abbiamo pure la possibilità che anche Maria, a suo modo, sia presente nella nostra anima. Ritengo che appunto questa presenza sia l’esatto termine della vera devozione a Maria. (+ Francesco Pio Tamburrino, Arcivescovo di Foggia, Dimensione speranza, maggio 2008))

 

 

 


 

Considerazioni sulla mistica dell'essenza e sulla mistica carmelitana

(15 giugno 2008)

 

1- Introduzione alla mistica dell’essenza

Quando si parla di mistica cristiana, si deve anzitutto fare una prima distinzione di base. Una questione è la "mistica dell'essenza", la mistica renano-fiamminga (Meister Eckhart, Ruusbroec, Suso, Taulero, "Anonimo Francofortese", ecc.), fondata sull'integrazione profonda del divino nel fondo dell'anima. Altra questione è la cosiddetta "mistica del sentimento", in cui il Tu divino è pensato in termini di relazione sponsale con l'anima: relazione destinata, però, a rimanere all'interno della drastica dicotomia tra soggetto/oggetto, amante/amato. Infatti, Meister Eckhart raccomanda sempre il "distacco" essenziale dell'anima da ogni cosa, anche da Dio stesso: "Perciò, prego Dio che mi liberi da Dio, perché il mio essere essenziale è al di sopra di Dio, in quanto noi concepiamo Dio come origine delle creature" (Meister Eckhart, Sermoni Tedeschi).Si tratta di due differenti percorsi . Il primo concerne la c.d. “mistica dell’essenza”, denominata anche renano-fiamminga. Il secondo, la mistica “dell’amore sponsale” o via amoris, si sviluppa principalmente con Bernardo di Chiaravalle, Tommaso Gallo, Ugo di Balma, Francesco d’Assisi, il monachesimo femminile, culminando nell’opera di Francesco di Sales. In realtà, la mistica renano-fiamminga fino all’inizio del secolo scorso era identificata con la mistica tedesca. Purtroppo, le gravi mistificazioni naziste del pensiero di Meister Eckhart, operate soprattutto da Alfred Rosenberg con la sua opera Il mito del XX secolo, ha reso preferibile- specialmente nei paesi latini- l’utilizzo del termine “mistica renano-fiamminga”. Recentemente, si è tentato di distinguere nuovamente la mistica tedesca da quella fiamminga, trascurando forse il fatto che nel Medioevo non esistevano confini linguistici tra le zone dell’alto e del basso Reno e che l’integrazione di scritti spirituali era una pratica scontata ed incoraggiata dalla volontà di creare una letteratura in lingua volgare. Capostipite della mistica renano-fiamminga è, ovviamente, Meister Eckhart (1266-1328), domenicano, condannato per eresia ad Avignone nel 1323 (furono messe all’Indice 28 proposizioni dei suoi libri). Altri esponenti sono Suso, Taulero, l’”Anonimo Francofortese”, Ruusbroec, Cusano.La mistica di Eckhart è denominata anche dell’”essenza”, perché rifiuta ogni concettualizzazione teologica di Dio, ma anche- cosa ben più innovativa- anche ogni dicotomia connessa al dualismo amante/amato (dove l’amante è l’anima e l’oggetto amato è Dio). La mistica eckhartiana ha le sue radici nel neoplatonismo, in particolare in Proco, e nel pensiero di Scoto Eriugena, ma soprattutto nello Pseudo-Dionigi. Per Eckhart, la vera conoscenza di Dio consiste in un “nulla volere, nulla sapere, nulla avere”. L’anima che vuole unirsi a Dio non deve volere nulla, perché la volontà appropriativa ricade nel dualismo Io/Tu, conoscente/conosciuto, amante/amato. In pratica per Eckhart la via amoris conduce ad una falsa unione, soltanto temporanea: simbolicamente quest’affermazione può essere supportata dalla considerazione che nell’amplesso sessuale la fusione estatica fra i due amanti è illusoria, gettata nell’attimo e destinata a dissolversi nella restaurazione della dualità originaria. È quindi, necessario liberarsi della volontà. L’uomo deve anche liberarsi, per Meister Eckhart, del falso sapere su Dio, riconoscendo la finitezza e la vacuità di ogni gnosi positiva. È indispensabile, però, rinunciare anche a determinare, concretamente, un luogo nell’anima in cui avvenga l’Unitas Spiritus con Dio (“non avere”). Completamente povera, priva di sapere e di volere, l’anima può così operare il distacco da ogni cosa, anche da Dio stesso. Dio che è platonicamente pensato, dapprima, come Intelligenza per esprimere la trascendenza rispetto all’essere; poi come essere stesso- ma come un essere del tutto indeterminato, diverso da tutti gli altri enti- talmente indeterminato da poter essere pensato come nulla. Importante è anche la distinzione in Meister Eckhart tra Got (“Dio”) e Gotheit (“Divinità”). Il primo resta, heideggerianamente legato all’ipostasi della presenza e quindi, in fondo, all’antropomorfismo; il secondo è considerato come l’Abisso della nuda divinità, cui può giungere l’anima che si spoglia completamente da sé stessa e che supera anche l’umanità di Cristo. Il distacco conduce l’anima, completamente distaccata e povera, all’unione con la Divinità: unione che avviene in quel fondo dell’anima che contiene la stessa scintilla divina. Lo Spirito divino, infatti, può generarsi nel fondo dell’anima. Fondo dell’anima che, come abbiamo visto, non può essere individuato in un punto preciso della coscienza: il fondo dell’anima coincide con il distacco stesso, ed è il fondo stesso di Dio. Generazione caratterizzata dal primato del momento del Filioque, ossia della conoscenza e del distacco. A questo punto, l’anima è uguale alla stessa Divinità: mentre l’uomo è Dio per grazia, Dio è Dio per natura." Diciamo dunque che l'uomo dev'essere così povero da non essere e da non avere in sè luogo alcuno in cui Dio possa operare. Finchè egli riserba un luogo, ritiene una distinzione. Perciò prego Dio che mi liberi da Dio, poichè il mio essere essenziale è al di sopra di Dio in quanto cogliamo Dio come principio delle creature; in questo stesso essere di Dio in cui Dio è al di sopra dell'essere e al di sopra della distinzione, io ero me stesso, volevo me stesso, conoscevo me stesso per fare quest'uomo (che sono). Perciò io sono causa di me stesso secondo il mio essere che è eterno, e non secondo il mio divenire che è temporaneo. Perciò sono non-nato, e secondo il modo non-nato non posso mai morire " (Meister Eckhart)La mistica renano-fiamminga respinge qualsiasi concezione antropomorfica del Divino, relegandola a mera superstizione, alienazione. È evidente che il Dio del Libro pensato come un Padrone che decide arbitrariamente chi destinare alla salvezza e chi alla dannazione, che invia diluvi universali o angeli sterminatori, è considerato- in questa prospettiva- come una superstizione, se non addirittura come una bestemmia. Il filosofo cui fai riferimento è Feuerbach che oggettiva in Dio la proiezione della coscienza umana- ai nostri tempi, parleremmo piuttosto di “Immaginario”- ed in questo caso è lecito cogliere il filo rosso che unisce la mistica renano-fiamminga con l’Illuminismo prima e l’Idealismo tedesco poi. Si ricorderà come, kantianamente, l’Illuminismo nasca per riscattare l’uomo dallo stato di minorità in cui si trova, dovuto all’imperfetto uso della Ragione. Senza qui entrare nel merito della distinzione essenziale tra Ratio ed Intellectus, s’intuisce come quel bisogno profondo di verità e limpidezza, alla base della filosofia dei Lumi, conduca al rigetto delle credenze rivelate e della Grande Narrazione veterotestamentaria. Alla base della Ragione illuminista troviamo la ricerca di Dio con i soli attributi umani, nel rifiuto di qualsiasi Rivelazione e nell’intuizione che la religione debba essere sostanzialmente interiore. L’Idealismo tedesco- anche se in parte ha anche una matrice romantica- in fondo si pone in questa prospettiva: si legga per esempio il “Saggio di una critica di ogni Rivelazione” di Fichte o la “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel. Del resto lo stesso Pietismo, pur non uscendo dal cerchio chiuso del sentimentalismo religioso, evidenziava la necessità dell’interiorizzazione della verità rivelate.I due diretti continuatori di Meister Eckhart sono Suso e Taulero, entrambi domenicani. Suso (morto, all’incirca nel 1366), in un primo tempo aveva seguito la via della mortificazione del corpo e della macerazione, ma in seguito all’apparizione di Meister Eckhart in sogno, abbandonò le mortificanti pratiche acetiche per seguire, finalmente, la via del distacco. Le sue opere principali sono: Il libretto della Verità e l’Horologium Sapientiae. Nel complesso le opere di Heinrich Seuse tracciano un cammino meno radicale ed estremo di quello di Eckhart, conservandone tuttavia, gli insegnamenti essenziali. Suso difende incessantemente il maestro dall’accusa di connivenza con i Fratelli del Libero Spirito: così egli sostiene che l’uomo veramente libero e distaccato è al di sopra delle antinomie e del principio di non contraddizione. Suso riprende da Eckhart, l’idea- che nel distacco- il massimo è il minimo, la fine è il principio: gli ossimori non sono tali nella vita dello Spirito. Nel distacco, tutte le contraddizioni svaniscono nella sintesi del Principio: Principio, però, che egli intende come Nulla, al quale si unisce l’intelletto dell’uomo distaccato. Si tratta della ripresa dell’idea eckhartiana (mutuata dallo Pseudo-Dionigi) del Gotheit come “Nulla”, che però è superiore a tutti gli esseri perché è privo di ogni determinazione e al contempo le contiene tutte (ogni determinazione è negazione). Suso si differenzia da Eckhart perché mantiene l’idea dell’umanità di Cristo, dei santi e della Vergine; mentre Eckhart sostiene che l’umanità di Cristo deve essere oltrepassata- anzi bisogna superare l’idea stessa di Dio- per sprofondare nell’abisso del Nulla-Gotheit.Taulero (Johannes Tauler, 1300-1361), si avvicina forse di più al radicalismo mistico eckhartiano. Egli sostiene che l’uomo è composto di tre nature. La prima è sensibile, la seconda è razionale, la terza è spirituale o interiore. Il percorso di perfezionamento passa attraverso l’evoluzione spirituale dalla natura sensibile a quella interiore. Fulcro di questa dialettica è l’idea del “Gemüte” che solo impropriamente deve essere tradotto in italiano con “spirito”. Il Gemüte è il punto in cui avviene l’unione dell’anima con Dio, ma non è equiparabile alla “sinderesi” o all’egemonikòn stoico utilizzato dalla mistica medievale: il Gemüte si riflette sul concetto di Dio come grunt, “Abisso”. Il Gemüte è il fondo stesso dell’anima.Importanza capitale ha in Taulero il concetto di “Notte dell’anima”. Riprendendo il sermone 63 sulla pesca miracolosa (Lc5-38), egli scrive:“questi uomini si mantengono nella più vera, assoluta, povertà e nel totale annientamento di se stessi. Essi non vogliono, né hanno, né desiderano altro che Dio e nulla di proprio, e accade che spesso essi lavorino nella notte, cioè nell’abbandono, nella povertà, in tenebre dense e fitte e nella desolazione, tanto da non trovare alcun appoggio e da non sperimentare né luce, Né ardore. E se in tali tenebre gli uomini si mantenessero in reale e vero abbandono, anche se Dio volesse da loro eternamente quella povertà, quella privazione e quella aridità, essi sarebbero disposti a starci volentieri per l’eternità secondo la sua volontà, senza pensare di guadagnarci qualcosa”. È evidente che il passo suddetto teorizza l’idea eckhartiana del Nulla divino, cui deve corrispondere, nel bene e nel male, nella gioia come nella sventura, il distacco dell’anima. L’anima completamente distaccata dal Mondo e dal vissuto, abbandonata in Dio, nel terrore della notte, finisce per trovare se stessa e Dio. Meglio ancora: finisce per riconoscere che è ella stessa Dio, al di fuori di ogni dualismo creazionista. È un percorso però molto doloroso ed angosciante, ed è anche questo il senso della “Notte” che colpisce l’anima come se Dio (si legga il “falso” Dio, il vissuto, il Mondo…), avesse abbandonato l’anima nelle tenebre. Il tema delle “Notti” fu ripreso soprattutto da Giovanni della Croce, ma è presente anche in Maria Maddalena dei Pazzi e nel Quietismo.

 

2. Il Carmelo ed il culto mariano

La tradizione ha sempre messo in relazione il profeta Elia con il monte Carmelo, una catena montuosa che si estende dal golfo di Haifa fino alla pianura di Esdrelon, in Palestina. Nella seconda metà del 1100, alcuni reduci dalle crociate, si riuniscono sul Carmelo per iniziare una vita contemplativa, dedita alle preghiere ed all’isolamento. Alberto Avogrado, patriarca di Gerusalemme, riunisce questi reduci nelle comunità e fornisce le Regole del nuovo Ordine. Nel 1200, l’Ordine emigra in Europa, in seguito all’occupazione musulmana della Terra Santa. Subito, l’Ordine si caratterizza per la forte impronta mariana. Il nome della confraternita è Ordine di Santa Maria del monte Carmelo. L’Ordine originario si fondava, oltre alla devozione mariana, sulla solitudine contemplativa, sulla preghiera, sulla povertà, sul lavoro. Intanto, l’Ordine da eremita si trasforma in mendicante. Il primo ottobre del 1247, Papa Innocenzo IV pubblica la Regola Modificata dei Carmelitani. Nel 1562, Teresa d’Ávila da avvio alla riforma, fondando il primo monastero di Carmelitane “Scalze” a San Giuseppe, con cui si propone di restaurare la primitiva rigidità. Conosce il giovane Giovanni della Croce e lo convince ad estendere la riforma anche ai frati. Nel 1568, a Duralo (Avila), sorge il primo convento di frati Carmelitani Scalzi. È restaurata, così, la Regola originaria suggellata dalla penitenza, il ritiro e la perenne orazione.

 

3. I fondatori dell’ordine dei Carmelitani Scalzi:

Teresa d’Ávila e Giovanni della CroceTeresa de Cepeda y Ahumada (1515-1582) nasce ad Avila. Già nella prima infanzia, manifesta un certo tormento spirituale. Sogna di andare a combattere i Mori e, contemporaneamente, è attratta dalle vite dei santi, instancabile lettrice d’agiografie. A venti anni, fugge da casa, per entrare in un convento Carmelitano. Subito insoddisfatta dalle “mollezze” dell’Ordine, decide di dare inizio alla riforma carmelitana, fondando i primi conventi di Carmelitane “Scalze”, in cui è restaurata l’originaria durezza dell’ascesi e della clausura. Come sovente accade, le autorità ecclesiastiche contrastano le sue iniziative, finché arriva il benestare papale. Teresa estese la sua riforma anche ai frati, con l’aiuto del giovane Giovanni della Croce, incontrato a Medina. Nel 1568 sono inaugurati i primi conventi dei Carmelitani “Scalzi”, in cui è radicalizzata la regola monastica e cenobitica, incentrata sulla meditazione e sulla preghiera.La spiritualità di Teresa d’Ávila risente dell’instabilità psichica, che la caratterizza fin dall’infanzia. Nel 1538, una gravissima malattia la rende quasi invalida. Durante la convalescenza si avvicina alla meditazione interiore del francescano Francisco de Osuna. Inizia così a gettare le fondamenta del suo castello interiore. Sempre malata, sempre tormentata, Teresa attribuisce molta importanza alla malattia fisica ed al dolore psichico come fondamento del cammino spirituale verso Cristo. Si tratta di quella concezione del dolore come gestazione introspettiva, gravidanza spirituale, che troviamo anche in Nietzsche, ma non solo. Quasi tutte le civiltà c.d. “primitive” presentano dei riti di passaggio che comportano gravi sofferenze psicofisiche, prove atroci, correlate da scarificazioni, ferite rituali, incisioni, mutilazioni (molte delle quali sugli organi sessuali). In queste culture è presente l’idea che il dolore sottrae l’iniziando alla Natura, favorendone l’ingresso comunitario. In altre parole, si diventa individui- uomini e donne- attraverso il dolore. Qualcosa di simile deve essere stato all’origine anche della spiritualità teresiana.Infatti, il secondo collante del sistema teresiano è la meditazione cristologia, focalizzata, ovviamente, sulla Passione. Concentrandosi sul Calvario del Redentore, la santa ottiene così lo scopo di sublimare il dolore, la sofferenza, il negativo. Attraverso la formula “Quanto devi aver sofferto per il nostro amore, mio buon Gesù…”, la passionaria Carmelitana riesce a rimuovere la solitudine, la malattia, il travaglio psicofisico assunto a conditio sine qua non della “mistica” delle Scalze. Vengono in mente le pagine nietzscheane sul prete-asceta della Genealogia della Morale: se il rovello ed il tormento sono le chiavi per ottenere la beatitudine, si finisce per invocare più dolore, più sofferenza- in altre parole- più “santità”…Il terzo fattore fondamentale della mistica teresiana è lo psicologismo. Se il dolore e la sofferenza sono le premesse della “santità”- il tema della Passione, l’oggetto su cui dirigere le proprie pulsioni dissimulate- il primato dello psicologico è il corollario finale. L’enorme importanza che con Teresa assume la “lettura” dell’anima comporta necessariamente una regressione dell’elemento spirituale, intellettuale (dove per “intelletto” si deve intendere l’intelletto attivo aristotelico, il noús plotiniano, l’Atman upanishadico). Prioritario diventa l’elemento passionale, sentimentale, le mercedes che consentono all’anima innamorata d’incontrare Dio. Ovviamente, con la sola dialettica dell’amore non vi può essere vera fusione, autentica unione con l’Uno (si decida di chiamarlo “Dio” o, più metafisicamente, “Spirito dell’Universo”).Il capolavoro di Teresa d’Ávila, il Castello Interiore, elabora metodicamente questo cammino personale fatto di estasi, rapimenti, ebbrezze pseudo-spirituali. Il “Castello” è il simbolo dell’anima (introdotto specialmente nella mistica tedesca) che deve attraversare sette morodas, o stanze, disposte concentricamente. Le prime tre dimore riguardano il dominio ascetico. La quarta concerne l’”orazione di quiete”, la preghiera interiore. Seguono, quindi, la quinta (l’”unione”), la sesta (“il fidanzamento”), la settima (“il matrimonio spirituale” con Dio). L’ascesa è prevalentemente psichica o sentimentale, più che spirituale, correlata a numerosi stati d’animo, a sensazioni di beatitudine e a “grazie” soprannaturali che accompagnano il cammino. Giovanni della Croce (1542-1591), consigliato ed indirizzato da Teresa d’Ávila, è stato il fondatore dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi. Più di quanto fosse avvenuto per quest’ultima, Giovanni attirò gli inevitabili strali dei Carmelitani Calzati, determinati fino all’ultimo ad ostacolare il suo progetto. Giovanni fu rapito ed imprigionato, ma riuscì a fuggire e a ripararsi presso un convento di Scalze; arrivato, infine, il nullaosta, Giovanni riuscì a portare a termine la sua riforma. Giovanni della Croce è un mistico ed un pensatore ricco di sfaccettature e di ambivalenze. Da una parte è profondamente intriso della teologia aristotelico-tomistica, appresa nell’adolescenza dai gesuiti; dall’altra, è molto vicino spiritualmente alla mistica renano-fiamminga (dell’essenza). L’influsso aristotelico-tomistico lo conduce a sviluppare una serie di dicotomie irriducibili, tra naturale/soprannaturale, soggetto/Dio, ecc. La vicinanza con il pensiero eckhartiano, del resto, lo conduce, in certi momenti, a paventare il carattere propedeutico e intermediario del cristianesimo e della religione stessa. Da qui le controversie teologiche sul suo pensiero. Per alcuni commentatori cristiani, Giovanni non si distaccò mai dal messaggio evangelico e la sua dottrina è profondamente cristiana. Per gli orientalisti, invece, egli può essere considerato il “Patañjali occidentale” (definizione di Siddhesvarananda). Quattro sono le opere fondamentali, che formano un tutto. Nella Salita del monte Carmelo, è presentata l’azione di progressivo spogliamento dell’anima in cammino verso Dio; nella Notte oscura, la purificazione, attraverso l’annichilimento, dei sensi e dello spirito durante la salita; nel Cantico Spirituale e nella Fiamma d’amor viva, l’anima, giunta al culmine dell’unione amorosa, è gratificata dalle “nozze mistiche” con Dio.La “notte” sanjuanista riprende e ripropone il tema del “niente”del “povero” eckhartiano. L’annichilimento della spoliazione purificatoria della salita conduce in quella nada (“nulla”), che equivale specularmente al distacco del “niente sapere, niente volere, niente avere”. Anche per Giovanni come per Eckhart, il Nulla è il Tutto. Tuttavia, a differenza del maestro domenicano, Giovanni non si libera mai completamente dei retaggi scolastici dell’adolescenza. Da una parte il santo spagnolo sembra spingere verso il trascendimento di qualunque forma e contenuto positivo; dall’altra mantiene viva la mentalità sistematica, forgiata da dicotomie irresolubili. In alcuni passaggi il cristianesimo diventa un mezzo, un gradino per arrivare al “niente sapere”, senza tuttavia giungere mai a postulare una ridefinizione antropologica della figura di Cristo, né, tanto meno, osare un oltrepassamento della dottrina cristologica. Questa remora, questa sorta di ritrosia nell’audacia speculativa, purtroppo, ha finito per influire pesantemente sulla profondità del pensiero sanjuanista; un pensiero che sembra come arrestarsi e tornare indietro nel momento stesso in cui intravede l’azzurro profondo delle vette immacolate.

 

4. Le Carmelitane Scalze

La “mistica” carmelitana si è sviluppata prevalentemente tra le monache, giacché l’elaborazione teresiana della via amoris ha subito trovato un fertile brodo di coltura nella psicologia femminile. La sublimazione imperfetta delle passioni e delle compulsioni affettive nei giovani animi femminili, ha trovato la sua trasposizione ideale nell’icona classica del Redentore, dalle caratteristiche fisiche accattivanti. Il volto di Gesù, reso levigato e attraente dalla pittura del tempo, dipinto sovente con tratti scarsamente semitici e molto nordici (capelli biondi/occhi azzurri/viso allungato; o anche capelli castani e fluenti/occhi chiari/zigomi alti, ecc.), sembra perfetto per suggellare ed accumulare le proiezioni delle compulsioni femminili. La bellezza fisica che irradia dalle icone del Salvatore, è in fondo una languida consolazione compensatoria per delle giovani donne che, attraverso il voto di castità, si apprestano a perpetuare la rinuncia al Mondo, al ruolo di mogli e di madri. In questo senso la mistica “sponsale” si configurava come una sorta di trasposizione “spirituale” per quello che era negato sul piano mondano; a questo si deve aggiungere come- all’inizio del Cinquecento- molte monache morissero giovanissime di tubercolosi. Una vita consumata tra sofferenze fisiche, clausura, rinunce, poteva essere giustificata soltanto da un fine altissimo. Mentre un mistico, dalla profonda preparazione teologica e filosofica, come Meister Eckhart, poteva farsi beffe dell’ascesi, o comunque subordinarla alla necessità del distacco, queste giovani donne, per lo più sprovviste della necessaria istruzione, riuscivano a farsi forza soltanto con la dedizione appassionata al Cristo, all’idea del sacrificio per il dio-uomo bello e buono. Da questo quadro sconsolante, si eleva, almeno in parte, la figura di Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607). Maria Maddalena, dalla fragile salute, si avvicina in certi punti alla speculazione di Taulero; quindi sono da ritenersi fondate quelle ipotesi che postulano una sua conoscenza della mistica renano-fiamminga. Anche la carmelitana fiorentina ricade nel tortuoso sentiero delle estasi e delle visioni, ma la sua insistenza sul “nudo patire”, sull’annichilimento anzitutto spirituale, piuttosto che corporale, richiama emblematicamente le “Notti” tauleriane. Non solo. In certi punti della sua opera, Maria Maddalena riprende anche il celebre passo eckhartiano del “nulla sapere, nulla volere, nulla sapere”. In altri ancora, si richiama al “non-amore”, all’amore “senza perché”, postulato da Margherita Porete (il cui libro, Specchio delle anime semplici, doveva circolare nella Firenze cinquecentesca). Per Maria Maddalena, come per la Porete, il sommo dell’amore è un amore morto che non cerca nulla, perché cercare qualcosa significherebbe essere eterogenei ed estrinseci all’oggetto. La negazione completa dell’amore comporta, quindi, la realizzazione totale dell’amore, perché dialetticamente, negare l’oggettività delle determinazioni (“ogni determinazione è una negazione”, scrive Spinosa), significa cogliere l’Intero, il Tutto. In altre parole, l’amore come anelito è sempre desiderio-di-qualche-cosa, quindi esclusione di ciò che rimane estrinseco all’oggetto desiderato. Per amare il Tutto, si deve perciò rinunciare alle proiezioni del desiderio e trasformare, l’anima stessa nell’Amore. L’anima non può così desiderare ed escludere nulla di determinato, perché dialetticamente essa è il Nulla. Quindi essa è il Tutto, l’Amore divino, universale.Teresa Margherita del Cuore di Gesù- morta nel 1770 di peritonite a soli 22 anni- prosegue il percorso “classico” della spiritualità carmelitana: è necessario abbandonarsi completamente a Cristo, seguendo la via del Calvario, agendo sempre con amore ed umiltà. Teresa Margherita realizzò concretamente i suoi propositi, prestando soccorso ed assistenza alle sorelle inferme.Arriviamo alla vicenda di Teresa di Lisieux (1872-1897), passata alle cronache per essere rimasta curiosamente coinvolta nell’”affare Taxil”. Emblematico come Teresa, durante il suo viaggio a Roma da papa Leone XIII, si fermi a Firenze per pregare sulla tomba di Maria Maddalena de’Pazzi. Teresa, morta di tubercolosi a 25 anni, durante la sua brevissima esistenza fu tormentata dal dubbio e dalla disperazione, alternando momenti di grande slancio emotivo ad altri in cui arrivò a sfiorare il suicidio. L’epoca in cui visse Teresa- la fine dell’Ottocento- è caratterizzata dall’affermarsi del materialismo storico e dalle teorie evoluzionistiche. Il primato culturale cattolico è destinato a dissolversi, sotto i colpi mortali degli epigoni della filosofia dei Lumi. La cristianità cattolica non vive un gran momento. Anche se ormai ha abbandonato le vecchie abitudini inquisitorie, l’uso di “purificare” nel fuoco l’eterodossia dei mistici e delle streghe, lo “spirito” cattolico rimane vigile. Niente di più scontato del continuare a sentire l’odore dello zolfo in casa d’altri.Quando Leo Taxil inventa la storia del Palladismo e della conversione al Cattolicesimo della Gran Sovrana Diana Vaughan, a molti cattolici non pare vero di vedere finalmente confermati i loro pregiudizi antimassonici. Ricordiamo brevemente la vicenda. Il massone Leo Taxil rivela in un libro le strettissime relazioni tra la Massoneria ed il Satanismo. In particolare è citato un movimento- denominato appunto “Palladismo”- in cui i confini fra tradizione libero-muratoria e dottrina satanista, appaiono alquanto labili. Il Palladismo si configura agli occhi dei cattolici come una sorta di “Massoneria Satanista”. La Gran Sovrana del Palladismo è indicata nella figura di una certa Diana Vaughan, dietro cui si nasconde, in realtà, sotto “mentite spoglie”, lo stesso Taxil. La Vaughan, alias Taxil, annuncia la conversione al cattolicesimo e abiura pubblicamente il movimento, da “lei” stessa diretto. Tutto il mondo cattolico cade nel tranello, compreso papa Leone XIII. Teresa scrive alla Vaughan/Taxil, rallegrandosi per la conversione ed inviando la sua foto di scena nei panni di Giovanna d’Arco. Teresa, completamente irretita, arriva anche a comporre una commedia teatrale sulla vicenda, presentando diavoli, angeli, forche, fiamme, ecc. il 19 aprile 1897, presso la Société de Géographie di Parigi, Taxil svela pubblicamente l’inganno e dichiara di essersi preso gioco della credulità cattolica. Taxil, per dileggiare il mondo cattolico, mostra al pubblico ed alla stampa la foto di Teresa nei panni di Giovanna d’Arco ed il poemetto composto dalla stessa santa. Teresa, cinque mesi dopo, scossa dalla vicenda, si ammala gravemente e muore. L’opera di Teresa, il suo remissivo sentimentalismo religioso è stato ripreso da due emule Carmelitane, Celine e Agnese, fautrici della c.d. “infanzia spirituale” e della “piccola via”; in breve, un insegnamento teso a postulare il ritorno allo stato d’innocenza e purezza infantile. Per concludere con il caso “Vaughan”, non si deve dimenticare che, ancora oggi, alcuni eminenti studiosi di provata fede cattolica, mettono in dubbio la dinamica degli avvenimenti e la veridicità dell’impostura ordita da Taxil. La nostra breve incursione nel monachesimo Carmelitano non può chiudersi senza citare anche Elisabetta della Trinità e Edith Stein. Elisabetta (1880-1906), continuò la tradizione, inaugurata dalla santa aviliana, dell’annichilimento completo nell’icona del Crocefisso, fino a perdere se stessa nell’amore di Dio.Edith Stein, filosofa, prestigiosa studiosa di Husserl, trovò nell’insegnamento di Teresa d’Ávila e Giovanni della Croce il compimento della fenomenologia.Ebrea, abbandonato l’ateismo per l’Ordine Carmelitano, scomparve ad Auschwitz nel 1942.

 

5. I Carmelitani Scalzi

I teologi carmelitani si applicarono invano per organizzare e strutturare sistematicamente gli straordinari insegnamenti teresiani e sanjuanisti. Il fallimento dell’operazione testimonia ancora una volta come lo Spirito non si lasci facilmente ingabbiare ed irretire nelle maglie della razionalità metodica e sistematica; la difficoltà maggiore che si presentò a livello spirituale, concerneva la distinzione tra l’ambito “naturale” e quello “soprannaturale”, autentico ginepraio teologico in cui si versarono i classici fiumi d’inchiostro.Si devono ricordare quattro nomi: Giovanni di Gesù Maria (1564-1615), Tommaso di Gesù (1564-1627), Giuseppe di Gesù Maria (1562-1628), Filippo della Santissima Trinità (1603-1671). I quattro teologi carmelitani si persero presto nel tentativo di catalogare i casi in cui si manifestano le “grazie” mistiche, dove si distingue l’influsso “diretto” di Dio da quello “indiretto”, o le dinamiche psichiche inerenti alle “notti” sanjuaniste. Per non parlare dei maldestri tentativi di trattare con i metodi delle scienze esatte, fenomeni sfuggenti ed aleatori come le estasi visionarie. Nel 1720, Giuseppe dello Spirito Santo (1667-1736) pubblica, in sei volumi, il suo Corso di teologia mistica- tentativo ormai inattuale di dare forma sistematica alla mistica dei predecessori- mentre sta cominciando a farsi strada nella cultura europea il pensiero dei Lumi e l’esperienza spirituale è declassata a sentimento ed irrazionalismo. Tra i Carmelitani Calzati, si deve ricordare soprattutto Giovanni della Croce dei Calzati (Giovanni di Saint-Simon, 1575-1636), fautore, senza dubbio, del più autorevole tentativo di estendere l’antica regola anche ai Calzati, restaurando, così, la purezza spirituale originaria.

(A. D'Alonzo).

 

Bibliografia essenziale:

Y. Pellé-Douël, Giovanni della Croce e la notte mistica, San Paolo.

D. Barsotti, La teologia spirituale di san Giovanni della Croce, Rusconi.

L. Cognet, Dictionnaire de Spiritualità.

M. Vannini, Il volto del Dio nascosto, Mondadori.

 

 

 


 

Pio X e la riforma della Rota Romana

L'asse di equilibrio della Chiesa novecentesca

(9 novembre 2008)

 

Nel pomeriggio di mercoledì 5 novembre si svolge la solenne inaugurazione del nuovo anno accademico dello Studio Rotale del Tribunale Apostolico della Rota Romana alla presenza del decano, il vescovo Antoni Stankiewicz, dei prelati uditori, degli officiali, degli avvocati e degli studenti. Pubblichiamo quasi integralmente il testo della prolusione.

di Gianpaolo Romanato

Le riforme promosse da Pio X negli undici anni del suo pontificato rappresentano un momento fondamentale nella storia della Chiesa novecentesca. Ma per comprenderne il significato e l'importanza dobbiamo tornare ai drammatici eventi ottocenteschi, che posero definitivamente fine al mondo d'antico regime.

Nell'ancien régime la Chiesa era un'istituzione sovrana, indipendente, con una giurisdizione sua propria, non derivata dall'autorità civile, fornita di strutture e poteri analoghi a quelli dello Stato, poteri che includevano anche, come sappiamo, l'uso della coercizione. Societas perfecta, secondo la ben nota definizione risalente a Roberto Bellarmino, cioè visibile, gerarchica, autonoma, autosufficiente, con vincoli non solo spirituali ma anche giuridici.

Tuttavia, nel corso del Settecento, con l'affermazione dell'assolutismo, pur conservando queste caratteristiche, la Chiesa venne progressivamente imbrigliata e ridotta sotto uno stretto controllo statale, secondo i principi del giurisdizionalismo, i cui criteri sono ben sintetizzati da quest'affermazione di Wenzel Anton von Kaunitz, ministro di Maria Teresa e di Giuseppe ii d'Austria "L'abrogazione di abusi che non toccano i principi della fede o l'intimo della coscienza e dell'anima umana, non può dipendere solo dalla Sede Romana, perché essa non ha altra autorità nello Stato al di fuori di questi due campi".

L'amministrazione ecclesiastica venne demandata perciò quasi interamente al potere civile. Basterà ricordare la soppressione della Compagnia di Gesù, decretata da Clemente XIV nel 1773 solo dopo che la Compagnia era già stata sciolta in quasi tutti i Paesi europei dai rispettivi governi, con incameramento dei suoi beni e incarcerazione o espulsione dei padri.

Alla vigilia degli eventi rivoluzionari il cattolicesimo romano era perciò una realtà totalmente diversa da quella che conosciamo noi oggi: di fatto, era una federazione di chiese nazionali, regolate dall'autorità politica molto più che dall'autorità pontificia. Da ciò il declino della sede romana nel corso del XVIII secolo.

Dopo gli eventi rivoluzionari, l'affermazione del sistema di governo liberale e della concezione separatista, nel corso del XIX secolo, cambiarono radicalmente i termini del rapporto tra la Chiesa e lo Stato. Al posto dei sovrani cattolici settecenteschi, l'intera organizzazione ecclesiastica (...) si trovò di fronte i moderni stati nazionali, retti da ordinamenti rappresentativi, sostanzialmente indifferenti rispetto al fattore religioso, ristretto al privato, al foro interno, con la conseguenza, per la Chiesa, di trovarsi chiusa dentro le maglie del diritto comune, sottomessa a un'autorità anonima, mutevole, lontana.

Questa trasformazione provocò un analogo cambiamento nell'organizzazione cattolica. In una Chiesa improvvisamente sola, senza protezioni, circondata dallo spettro della rivoluzione, il papato emerse come l'unico sicuro punto di riferimento. L'intera organizzazione ecclesiastica, non potendo più contare sulla protezione del sovrano, che era diventato un'altra cosa, cioè lo stato moderno, tornò a guardare a Roma, si strinse attorno al papato, si rese conto che solo ricompattandosi attorno alla propria struttura gerarchica avrebbe potuto fronteggiare il nuovo che avanzava. Senza più poli alternativi, né interni né esterni, il Pontefice romano si riappropriò così della piena sovranità tanto nell'ambito dottrinale quanto in quello disciplinare. Ne derivò un "monopolio di giurisdizione," come è stato definito, ben diverso dal "primato di giurisdizione "del periodo prerivoluzionario, del tutto inedito nella storia della Chiesa latina.

Ma nel vortice rivoluzionario erano sparite anche le istituzioni scolastiche, particolarmente francesi e austro-tedesche, che erano state il fulcro della cultura giurisdizionalista, dal gallicanesimo al febronianesimo al giuseppinismo. Ad esse si sostituirono le scuole e le università romane, che riorientarono il pensiero cattolico in direzione esattamente opposta, cioè verso Roma e non più contro Roma. La romanizzazione del cattolicesimo non avrebbe potuto essere più rapida e più completa. In pochi decenni la Chiesa romana si trasformò in una solida organizzazione soprannazionale, gerarchicamente sottomessa al papato tanto sul piano disciplinare quanto su quello intellettuale. Roma divenne contemporaneamente, nel corso dell'Ottocento, ciò che non era mai stata nei secoli precedenti:  la fonte del potere, il centro di formazione del personale dirigente, il luogo di elaborazione del pensiero teologico e canonistico. Il suo baricentro si capovolse:  dai sovrani cattolici passò al papato, dalla periferia al centro, da Parigi o Vienna o Monaco si spostò a Roma. Questo moto centripeto trovò consacrazione dottrinale nel 1870 al concilio Vaticano I attraverso la proclamazione dogmatica dell'infallibilità papale, non a caso coincisa con la fine dello Stato pontificio: il Papa divenne un'autorità infallibile nel momento in cui cessò di essere il Papa-re.

Fu una rivoluzione, inimmaginabile nel secolo precedente, che provocò contraccolpi immediati. Va ricordata la reazione del governo austro-ungarico, che il 30 luglio del 1870, meno di due settimane dopo l'approvazione della costituzione Pastor aeternus, denunciò unilateralmente il concordato del 1855, asserendo che questo non poteva più sussistere essendo cambiato lo status di uno dei contraenti. Oppure quella del cancelliere Otto von Bismarck, secondo il quale i rapporti fra l'impero e il papato erano stati modificati in radice dall'affermazione del centralismo romano e del potere assoluto del Pontefice, che rendeva i vescovi potenziali agenti di una potenza straniera e totalitaria. La circolare del cancelliere provocò una risposta collettiva dell'episcopato tedesco, volta a ridimensionare la portata del decreto conciliare poi confermata da Pio ix.

L'Ottocento divenne così il secolo del massimo scontro tra la Chiesa e lo Stato. Scontro ideologico (il Sillabo del 1864); scontro istituzionale a causa dell'adozione, da parte di molti governi - a partire da quello piemontese e poi italiano - di legislazioni fortemente neogiurisdizionaliste; scontro politico in conseguenza della fine del potere temporale. È importante tenere presente che la formazione di Giuseppe Sarto, il futuro Pio X, si svolse in questo clima, che in diversi casi dovette apparirgli quasi da stato d'assedio. Ricordo che quando fu nominato alla sede patriarcale di Venezia l'exequatur governativo, indispensabile per prendere possesso della funzione, gli fu negato per un anno e mezzo.

È questo lo sfondo nel quale matura la necessità di una duplice riforma:  da un lato quella dell'impianto giuridico-canonistico, che sfocerà nella creazione del Codex iuris canonici, dall'altro, quella dell'organizzazione di governo, che darà vita al rifacimento della Curia. Nel primo caso si trattava di rimettere mano ad una normativa vecchia di secoli per adeguarla ai cambiamenti sopravvenuti, liquidando la stagione dei diritti locali delle chiese d'antico regime e rifondando su nuove basi statuto giuridico e posizione internazionale della Santa Sede, compromessa, benché non annullata, dalla fine del potere temporale. In questa direzione spingeva soprattutto la scuola intransigente, nella quale si stava formando Giuseppe Sarto.

Nel secondo caso era indispensabile ripensare e ricostruire dalle fondamenta il sistema di governo ecclesiastico, che nella sostanza era ancora quello architettato da Sisto V nel 1588.

Un'impresa immane, con la quale entrava in gioco niente di meno che la questione del rapporto della Chiesa con la modernità:  modernità giuridica, modernità politica, modernità istituzionale, modernità di forme di governo, modernità culturale. E sappiamo bene che nel corso dell'Ottocento la sede romana anziché avvicinare la modernità gettando ponti, l'aveva allontanata scavando fossati e alzando trincee. Nulla si fece, infatti, durante i due lunghissimi pontificati di Pio IX e di Leone XIII, che durarono, sommati insieme, ben cinquantasette anni.

Il compito cadde sulle spalle di Pio X, eletto alla cattedra di Pietro il 4 agosto del 1903.

Giuseppe Sarto (1835-1914) era una figura decisamente anomala rispetto ai canoni ecclesiastici del tempo (...) Era nato austriaco. Il suo cursus honorum si era svolto tutto in periferia, nella pastorale di base:  cappellano e poi parroco in piccoli paesi del Veneto, cancelliere di curia e direttore spirituale del seminario di Treviso, vescovo a Mantova, patriarca e cardinale a Venezia. Roma, città nella quale si era recato per la prima volta nel 1877, per incredibile che possa sembrare, cioè a quarantadue anni, era rimasta completamente estranea al suo processo formativo. È dunque nella concreta amministrazione ecclesiastica locale, nel quotidiano lavoro pastorale accanto alla povera gente - non negli uffici del governo centrale - che Sarto maturò la convinzione della necessità di un profondo rinnovamento della Chiesa, a partire dalla sua fondazione giuridico-canonistica.

Questa convinzione fu rafforzata dall'episodio del veto imperiale, che, come è noto, sbarrò la strada del papato al cardinale Mariano Rampolla del Tindaro e la schiuse al patriarca di Venezia. Gli storici sono dell'idea che il segretario di Stato di Leone xiii non sarebbe giunto comunque alla tiara, essendo figura troppo esposta politicamente. Ma è certo che il veto austriaco, portato in conclave dall'arcivescovo di Cracovia cardinale Jan Maurycy Pawel Puzyna de Kosielsko - oggi sepolto con tutti gli onori in quel sacrario nazionale polacco che è la cattedrale sulla collina di Wawel - rafforzò in maniera definitiva la convinzione del Sarto che fossero necessari interventi rapidi e radicali per sottrarre l'istituzione ecclesiastica dall'assedio politico delle grandi potenze.

L'azione di Pio X fu immediata e cominciò proprio dal diritto di veto, soppresso con la costituzione Commissum nobis del 20 gennaio 1904 - ma resa pubblica, in considerazione delle temute implicazioni internazionali, solo nel 1909 - che il cardinale Pietro Gasparri definirà "fatto memorando", sufficiente a ritagliare un posto nella storia a chi l'aveva voluto e con la riforma del conclave, varata alla fine dell'anno - costituzione Vacante sede apostolica del 25 novembre 1904 - che imponeva l'obbligo del segreto più assoluto a tutti i partecipanti. Entrambi i documenti confluiranno nel Codex del 1917. Con ciò si alzava un'invalicabile barriera protettiva attorno ai cardinali e si riduceva l'elezione del Papa a fatto di esclusiva pertinenza ecclesiastica.

Non deve sfuggire la conseguenza epocale della soppressione dello ius exclusivae, che spiega il giudizio di Gasparri: in nome del bene superiore rappresentato dalla libertas Ecclesiae il Papa nato austriaco e ancora legato alla casa d'Austria infliggeva il colpo definitivo alla figura storica dello Stato confessionale, titolare di tale diritto.

Ma l'atto rivoluzionario, destinato a cambiare l'autopercezione della Chiesa e il suo rapporto con il mondo, fu il motu proprio Arduum sane munus (19 marzo 1904), con il quale si annunciava l'avvio della codificazione del diritto canonico. Su questa opera, finora mal compresa o sottovalutata dalla storiografia, possediamo ora l'amplissimo studio di Carlo Fantappiè, che ne ha illustrato in forma del tutto convincente la portata epocale, al quale rinvio e sul quale tornerò prima di concludere.

Il lavoro preparatorio, che comportò una mobilitazione senza precedenti dell'episcopato mondiale, delle università, dei seminari, degli istituti religiosi, degli studiosi, durò 13 anni (...) La consultazione fu talmente ampia e profonda da poter essere paragonata ad un'assise conciliare.

Nelle risposte e proposte che giunsero a Roma vi furono molte osservazioni riguardanti il cattivo funzionamento della Curia, di cui si lamentavano le competenze non definite e mal distribuite, la cattiva ripartizione del carico di lavoro, l'eccesso delle tasse, quae nunc odiosae sunt, l'abbondanza delle ferie che bloccavano spesso il lavoro, la richiesta di una maggiore internazionalizzazione del personale addetto.

A questo punto pare sia intervenuto personalmente Pio X, che impose di scorporare la riforma della Curia dai lavori del Codex e di porla in corsia preferenziale, come diremmo oggi. È noto che Pio X non aveva un alto concetto del funzionamento del governo centrale ecclesiastico. Il suo giudizio emerge da numerosi episodi della sua biografia nonché dalla sua scelta di operare valendosi largamente della sua segreteria privata - la ben nota "segreteriola" - più che degli organi curiali. Ma emerge soprattutto dal lungo promemoria manoscritto che diede ai consultori come istruzione di lavoro, un documento lucido fino ad essere spietato, nel quale emerge la sua sensibilità di uomo della periferia, senza legami, che si sentiva libero di cambiare, demolire, rifare.

"1. Alcune Congregazioni - scrive Pio X - non hanno ragione di esistere, mentre altre sono sopracariche di lavoro; 2. Alcuni uffici hanno un personale esuberante, altri invece deficiente; 3. Le retribuzioni per alcuni uffici sono troppo pingui, per altri nulle o irrisorie; 4. Le tasse sono varie, spesso arbitrarie e non sempre in tutto ragionevoli". Sul piano formale la situazione era ancora peggiore:  "1. Mentre le Congregazioni sono tribunali supremi non dovrebbero, come tali, trattare quelle cause in cui è necessario un processo giudiziario. Invece le Sacre Congregazioni agiscono spesso come tribunali inquirenti e di prima istanza; 2. La medesima materia è trattata da più Congregazioni, cosicché l'interessato può rivolgersi a suo arbitrio a quella che, fatti i calcoli, più gli conviene", oppure "viene trattata a tozzi e bocconi da parecchi". Inoltre sono diversi i criteri di giudizio e le tasse. Questo sistema "disordinato, vario ed anche arbitrario" provoca "critiche punto decorose pel governo della S. Sede".

Tutto ciò premesso, il Papa indicò come la riforma avrebbe dovuto suddividere competenze e attribuzioni delle diverse congregazioni, entrando quindi nel dettaglio di ciò che si doveva fare. Tralascio di riferire le indicazioni specifiche, tranne che per la Rota, che egli ridisegnò con le parole che seguono:  "Si deve dar vita alla S. Rota, riformandone il vecchio sistema di procedura. I giudizi si ripartiranno in civili, criminali e matrimoniali. La S. Rota avrà ordinaria giurisdizione su tutte le cause d'appello delle Curie Metropolitane o Vescovili, e sulle altre, che le saranno commesse da ciascuna Congregazione, nei limiti delle rispettive competenze. Gli Uditori di Rota avranno seduta due volte per settimana e le loro sentenze saranno definitive". L'eventuale diritto di appello era riservato a "casi gravi ed eccezionali, previa la concessione pontificia". La nota papale entrava anche nella composizione, prevedendo "dieci Prelati, con i necessari impiegati". Infine, solo alla Rota, data la natura delle materie in discussione, erano "ammessi gli Avvocati", esclusi invece, tassativamente, dalle altre congregazioni.

Fu dunque il Papa in persona a ripensare la funzione della Rota, tribunale civile nella fase terminale dello Stato pontificio, che dopo il 1870, venuto meno il potere temporale, siluit, cioè tacque.

Bisogna aggiungere che Pio X, abituato a subire dalla periferia del mondo cattolico le lungaggini romane, aggiunse che la "la riforma deve farsi "subito" - sottolineato nel testo - per essere messa in esecuzione al più presto in via di esperimento, onde, colle eventuali mutazioni, che saranno suggerite dalla pratica, venga definitivamente pubblicata nel nuovo Codice". Poi tornò sulla necessità di distinguere le competenze amministrative da quelle giudiziarie:  "Dovendosi riordinare le Congregazioni e migliorarne l'organismo, è necessario riportarle alla loro primitiva natura di collegi amministrativi, e quindi spogliarle della parte giudiziale, contenziosa, per la quale assunsero anche la funzione di Tribunali". E aggiungeva, con il buon senso di chi guardava al diritto da utente e non da professionista:  "Con ciò saranno liberate da un grande lavoro, che impedisce e ritarda la trattazione di affari più importanti, e poste al di sopra dei privati litiganti". Per questo "converrà richiamare in vita il tribunale della S. Rota Romana e a questo rimettere per commissione tutte le cause".

Con il senso pratico e la correttezza amministrativa di cui aveva dato prova fin da quando era parroco nel paese di Salzano, dove era solito affiggere alla porta della chiesa il bilancio della parrocchia, prescriveva inoltre che "gli Ufficiali di ciascun Dicastero avranno uno stipendio fisso dalla sola cassa della S. Sede, alla quale ogni mese saranno consegnate tutte le tasse dei Rescritti, delle Dispense, delle Lettere Apostoliche, dei Benefici, dei Brevi e delle Canonizzazioni dei Santi, che saranno razionalmente stabilite". La procedura delle Congregazioni, "liberate della parte giudiziale contenziosa", doveva essere segreta. Prescrive infatti il Pontefice:  "Il giuramento da emettersi da tutti gli ufficiali comprende l'obbligo di osservare il più rigoroso segreto e di non ricevere doni etiam sponte oblata come esiste nel S. Uffizio e sotto le medesime pene".

La riforma, portata avanti nella forma più discreta, silenziosa, fu realizzata in un anno, cioè in tempi insolitamente rapidi. La costituzione Sapienti consilio che la sanzionò, della quale ricordiamo il centesimo compleanno, è infatti del 29 giugno 1908. I criteri ispiratori, che mi sembra non abbiano perduto di attualità, possono così sintetizzarsi:

Una chiara suddivisione delle competenze, che poneva fine a incertezze e confusioni, distribuite fra undici Congregazioni (Sant'Uffizio, Concistoriale, Sacramenti, Concilio, Religiosi, Propaganda Fide, Indice, Riti, Cerimoniale, Affari Ecclesiastici Straordinari, Studi), tre tribunali (Penitenzieria, Sacra Romana Rota, Segnatura), cinque uffici (Cancelleria, Dataria, Camera, Segreteria di Stato, Segreteria dei brevi e delle lettere latine). Al vertice della piramide il Sant'Uffizio, che già allora si era pensato di indicare con l'attuale denominazione, De tuenda fide, idea poi scartata. È l'unica congregazione presieduta direttamente dal Papa - cui Summus Pontifex praeest, si dice nella Sapienti consilio - caratteristica che conserverà fino alla riforma di Paolo vi. La pratica, come aveva previsto Pio X, suggerirà al suo successore alcuni aggiustamenti:  la soppressione dell'Indice, incluso nelle competenze del Sant'Uffizio - ma l'indicazione era già contenuta nel progetto originario di Sarto - lo scorporo da Propaganda Fide delle Chiese Orientali, affidate ad una congregazione autonoma, come la vigilanza sui seminari, sottratta alla Concistoriale - anche in questo caso con ritorno all'originario progetto di Pio X - e attribuita ad una Congregazione autonoma.

Una radicale separazione delle competenze amministrative da quelle giudiziarie, assegnate ai tre tribunali:  la Penitenzieria, rigorosamente delimitata al foro interno; la Segnatura, come ultima istanza giurisdizionale; la Rota - Sacra Romana Rota, come viene indicata nella costituzione pontificia - alla cui competenza vengono attribuite tutte le cause contenziose. I regolamenti successivamente emanati, nel 1910 e nel 1912 - dovuti al primo decano della Rota, Michele Lega, uno dei canonisti più influenti, decisamente orientato verso la modernizzazione codicistica del diritto canonico - confluiranno nel iv libro del Codex del 1917. È da notare che inizialmente la materia sottoposta al giudizio della Rota non riguardava soltanto cause di nullità matrimoniale. Nel 1913, su cinquantaquattro sentenze rotali, solo ventidue si riferivano a questo argomento. Fu il concordato del 1929 che ne provocò un decisivo incremento. Nel 1950 ben 148 sentenze, su un totale di 153, riguardavano questo tema.

Una decisa opera di modernizzazione dell'apparato di governo ecclesiastico, che faceva propri i criteri e i canoni operativi statali. Non a caso nei lavori preparatori alla riforma della Curia si era presa in considerazione la possibilità di abbandonare le antiche denominazioni per indicare i vari officia della curia con l'espressione moderna di "Ministeri".

Gli anni del pontificato di Pio X sono stati visti dalla storiografia prevalentemente in riferimento alla condanna del modernismo, e conseguentemente sono stati gravati da un giudizio negativo, come una stagione di arresto, di regresso, di reazione conservatrice. Nel clima diffuso di "antocostituzionalismo postconciliare, come è stato definito, si è prestata scarsissima attenzione al significato, alla portata e alle conseguenze che hanno avuto la scelta della codificazione del diritto canonico e le riforme che ne fecero da corollario, a partire da quella della Curia romana, benché si debba ricordare che la loro importanza capitale non era sfuggita ai maggiori giuristi del tempo, da Francesco Ruffini a Vittorio Emanuele Orlando. Ma dopo la pubblicazione del già ricordato studio di Fantappiè sulla codificazione pio-benedettina non è più possibile continuare a seguire supinamente queste vecchie categorie interpretative. Infatti, la spinta modernizzatrice che derivò alla Chiesa romana dalle riforme di inizio secolo, modellate sulle strutture giuridiche e amministrative dello stato postrivoluzionario, fu enorme. Grazie ad esse la Santa Sede tagliò tutti i legami con l'antico regime; semplificò, unificò e universalizzò la propria normativa interna, ricostruendola attorno al primato di giurisdizione della sede papale; riacquisì un sicuro statuto internazionale; tornò a presentarsi di fronte agli Stati come un interlocutore alla pari, mentre si profilavano all'orizzonte la stagione dei totalitarismi e l'era della globalizzazione. Queste innovazioni divennero l'asse di equilibrio della Chiesa novecentesca e la riproposero con energia come istituzione pubblica e non privata, attrezzata in vista della stagione concordataria di Pio XI.

Repressione e riforma rappresentano dunque le due facce, non contrapposte ma complementari, di questo pontificato decisivo per le sorti del cattolicesimo contemporaneo, sul quale il magistero ecclesiastico e la storiografia forniscono valutazioni nettamente divergenti. (©L'Osservatore Romano - 6 novembre 2008)

 

 

 


 

La Parola di Dio: un sangue versato che parla

Intervista con il biblista card. Albert Vanhoye

(12 ottobre 2008)

 

D. Cosa si attende un grande biblista come lei dal Sinodo sulla Parola di Dio?

R. Quindici anni fa, quando ero presidente della Pontificia Commissione Biblica, studiammo l’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Passammo in rassegna tutti i metodi e gli approcci adoperati per accostarsi al testo biblico. Ma quello fu un lavoro tutto fatto dal punto di vista della scienza esegetica. Nel Sinodo c’è una prospettiva diversa. Ci sarà modo per tante riflessioni sul come la vita e la missione della Chiesa trovano appoggio e nutrimento nella Parola di Dio.

D. Secondo lei, cosa può suggerire un Sinodo del genere a tutta la Chiesa?

R. L’instrumentum laboris lo dice molto bene: non si deve identificare la Parola di Dio con la Bibbia. Al tempo di san Paolo non c’era niente di scritto del Nuovo Testamento. Ma san Paolo era consapevole di predicare la Parola di Dio, e si congratulava con i Tessalonicesi perché avevano ricevuto il messaggio proclamato da lui non come discorso umano, ma come Parola di Dio che opera in chi crede. La Parola di Dio è una cosa viva, la Bibbia è un testo scritto. Ha un’importanza speciale perché è un testo ispirato. Ma la nostra fede non è una religione del Libro, non è la religione biblica. La nostra fede è una religione della Parola di Dio viva, accolta, che ci mette in relazione personale con Gesù Cristo, e, per mezzo di Cristo, con Dio Padre.

D. «Parola di Dio, ultima e definitiva, è Gesù Cristo», sta scritto nella parte prima dell’instrumentum laboris del Sinodo. Vengono in mente alcune pagine del suo confratello Henri de Lubac...

R. De Lubac ha scritto che in Gesù Cristo Dio ha reso breve la sua Parola, l’ha abbreviata. Il Verbo si è abbreviato. La Bibbia non è una collezione di trattati filosofico-teologici, non è un percorso didascalico-simbolico per acquisire un set di verità religiose eterne. La Bibbia racconta l’iniziativa di Dio per entrare in contatto con gli uomini, nella nostra storia. Per questo l’incarnazione di Cristo è il “riassunto” di tutta la Parola di Dio. Che non rende inutili le altre parole ispirate, ma definisce il loro senso preciso. La Parola dell’Antico Testamento prende il suo senso preciso grazie alla sua relazione con Gesù Cristo. Ormai noi leggiamo l’Antico Testamento illuminati dalla venuta e da ciò che opera Cristo. Come dice Gesù stesso, nel Vangelo di Giovanni, «voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza». Questo si vede nell’apparizione ai discepoli di Emmaus: Gesù spiega tutto ciò che nell’Antico Testamento riguarda la sua persona e il suo mistero. È stimolante anche l’espressione della Lettera agli Ebrei dove si dice: ormai è un sangue che parla, «con voce più eloquente di quella di Abele». La Parola di Dio si è fatta sangue versato. E parla di un’offerta di amore che vince tutti gli ostacoli all’amore. Se uno dice: Parola di Dio, la formula può trasmettere un’idea intellettuale. Ma se si dice che è un sangue che parla, si capisce che non si tratta di un discorso, di un ragionamento.

D. Dice sant’Agostino: «Dal Signore viene la Scrittura. Ma non ha alcun interesse umano, se non vi si riconosce Cristo». Invece sembra che la lettura della Scrittura sia di per sé la sorgente dell’inizio della fede. Si diventa cristiani perché si legge la Bibbia?

R. Può succedere che la lettura della Bibbia diventi l’occasione in cui viene suscitata la fede. Penso alla Chiesa in Corea, dove la fede cristiana è arrivata a partire da alcuni intellettuali che si erano interessati alla Bibbia, e hanno poi avuto il dono della fede, senza che ci fosse l’intervento di missionari. Questi hanno incontrato la fede cristiana in occasione di un contatto con la Sacra Scrittura, e dopo sono andati a cercare missionari per tirare su la Chiesa. Ma è chiaro che all’inizio della vita di fede non c’è né la lettura della Bibbia né l’opera dei missionari. C’è l’azione dello Spirito, che si può servire di tutto: dei missionari, della lettura della Parola di Dio, ma anche di strumenti e occasioni apparentemente più lontani e casuali. Di solito è la testimonianza della vita che può attirare alla fede. Poi c’è bisogno anche della Parola viva per spiegare chi è Colui che attira a sé tramite la testimonianza.

D. Chi insiste sull’importanza della Parola di Dio spesso sembra puntare tutto sulla competenza nei confronti della Sacra Scrittura. Come se il massimo fosse che i fedeli diventino tutti esegeti, biblisti.

R. Lo scopo della Chiesa non è certo quello di fare di ogni singolo cristiano uno scienziato della Parola. È necessario che alcuni si mettano in questa prospettiva, perché occorre che la Bibbia sia studiata in un modo che sia al livello della cultura del momento. Quello che invece anche il prossimo Sinodo può favorire – e mi auguro lo faccia – è il contatto personale coi testi biblici, un contatto che sia il più possibile oggettivo, non lasciato alla fantasia di ognuno.

D. Lei si è formato negli anni in cui anche in ambito cattolico il ressourcement, il ritorno alle fonti biblico-patristiche, inaugurava il cammino di un rinnovamento che avrebbe portato al Concilio Vaticano II. Cosa ricorda di quel periodo?

R. Per me personalmente, il contatto diretto con la Bibbia è stato facilitato dal fatto che come giovane religioso sono stato professore di greco classico ad alto livello. Questo mi ha permesso il contatto diretto con il Nuovo Testamento. E mi sono appassionato subito al Vangelo di Giovanni, che rivela la persona di Gesù. Questa è stata la mia esperienza “forte”, più che il contatto con altri esegeti o altri autori. A quel tempo c’era ancora una certa lontananza dal testo biblico, per diversi motivi. In particolare, si sconsigliava la lettura dell’Antico Testamento perché vi si trovano racconti molto realistici, che sono di per sé scandalosi. Adesso il contatto con la Bibbia è molto più facile. Ci sono edizioni fatte per lettori che non hanno competenza speciale. Strumenti che aiutano a entrare nel testo. E poi ci sono gruppi biblici, qualcuno impara l’ebraico per avere un contatto diretto con il testo originale… Insomma, è tutta un’altra situazione.

D. In precedenza lei ha ricordato di essere stato presidente della Commissione Biblica negli anni in cui è stato predisposto l’importante documento sull’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. In esso, tra l’altro, vi era apertura verso il metodo storico-critico.

R. Se il Vangelo non è una favola mitica e c’entra con la storia, gli strumenti dell’indagine storica possono esservi legittimamente applicati. Debbono essere applicati. La Bibbia si presenta come un documento antico, che va studiato con gli strumenti scientifici moderni, e questo non è solo legittimo, è doveroso. Altrimenti il contatto con la Bibbia non si pone a livello delle conoscenze e delle capacità odierne. Però è vero che nell’uso del metodo storico-critico ci sono talvolta tendenze che nei confronti del testo hanno una sorta di effetto “sterilizzante”.

D. Per esempio?

R. Il cardinale Ratzinger nel 1988 fece a New York una conferenza per criticare i presupposti teorici di Bultmann e Dibelius, e in genere il metodo storico-critico nella misura in cui esso vuol rinchiudere il testo in una gabbia angusta, appiattendolo e facendone un puro prodotto delle condizioni e delle circostanze del tempo. Questo intendo per “sterilizzazione”. Così come può diventare sterilizzante lo studio delle fonti o più esattamente dei cosiddetti “strati”. Sembra che per alcuni studiosi l’esegesi consista nel distinguere diversi strati successivi: prendere due versetti e attribuirli a una fonte, prenderne altri due e attribuirli a un’altra fonte, e via dicendo. Per alcuni testi può essere utile. Ma il più delle volte, invece di dare il contatto vivo col testo se ne fa una specie di dissezione, come quelle che si fanno sui cadaveri. E si fa perdere il contatto con la corrente di vita che si manifesta nel testo. Insomma, il metodo storico-critico è necessario, ma occorre non concepirlo in maniera troppo ristretta. Se abbiamo davanti a noi un testo, dobbiamo prenderlo e interpretarlo per quello che è.

D. Il metodo storico-critico, proprio per questa sua latente “aridità”, non ha finito per “perdere punti” anche tra gli studiosi?

R. I tedeschi hanno questa tendenza a considerare tutto dal punto di vista storico... A dire il vero, il metodo storico-critico si è avviato negli anni recenti in una direzione che in un certo senso è contraria al suo indirizzo principale. L’ultima tappa è la Wirkungschichte, che significa la “storia degli effetti” di un testo. Non ci si limita più al testo considerato nel momento della sua produzione, ma lo si considera anche nella connessione con gli effetti che quel testo ha prodotto. Per esempio, il rapporto che c’è tra alcuni testi di san Paolo – con l’insistenza sulla giustificazione che viene dalla fede – e il sorgere della Riforma. Altri testi, come ad esempio il Cantico dei Cantici, hanno avuto effetti sulla vita mistica e spirituale. Ciò dimostra che un testo ha capacità di suscitare il pensiero, le emozioni, gli affetti. E alla luce di questi effetti viene compreso meglio anche il testo.
D. Gli avversari del metodo storico-critico spesso insistono sul senso spirituale delle Scritture. Nell’attuale contesto culturale, non si rischia di “andare oltre” il dato e di fare della Bibbia il grande simbolo del percorso religioso dell’umanità?

R. Anche l’instrumentum laboris ha registrato «l’insorgenza di forme gnostiche ed esoteriche nell’interpretazione della Sacra Scrittura, e di gruppi religiosi a sé stanti all’interno della Chiesa cattolica»… C’è il pericolo di prendere il testo come un pretesto di idee, riflessioni, emozioni, pensieri, senza alcuna docilità al dato della Scrittura. Il cardinale Martini, quando iniziava la sua lectio divina, spiegava bene che prima di tutto viene una lectio attenta, precisa: leggo il testo e mi attengo al testo, non vado oltre. Questa docilità davanti al testo è l’unica base per tutte le meditazioni, le contemplazioni, le applicazioni pratiche successive. La Parola di Dio vuol essere accolta come parola autorevole, che ci porta qualche cosa, non è semplicemente un pretesto per divagazioni di ogni genere.

D. Sull’onda anche del successo commerciale dei vari Dan Brown, alcune opere divulgative sono tornate a trattare il rapporto tra il “Gesù storico” e il “Gesù della fede”. Ha senso, secondo lei, cercare di “ricostruire” il Gesù storico prescindendo da come Gesù si presenta nei Vangeli?

R. Proprio pochi giorni fa ho visto un altro libro su Gesù in cui l’autore spagnolo dichiara di attenersi in modo stretto a dati e conclusioni scientifiche, evitando tutto ciò che ha a che fare con la dimensione sovrannaturale. È sempre possibile fare questa distinzione: se uno pretende di studiare il fenomeno Gesù dal solo punto di vista storico-scientifico può farlo. Dal punto di vista scientifico è sempre possibile prendere una prospettiva molto limitata, ma occorre sapere già in anticipo che anche le conclusioni saranno unilaterali e limitate, perché il fenomeno, il dato, non verrà conosciuto per quello che è. Un simile approccio non dovrà mai avere la pretesa di stabilire se Gesù è o non è il Figlio di Dio.

D. La Chiesa ha sempre riconosciuto la storicità dei Vangeli e i cattolici hanno valorizzato i vari indizi che la possano confermare. Talvolta anche in modo ingenuo o ideologico...

R. In Francia spiegavo ai miei studenti che i Vangeli non ci danno fotografie, ci danno quadri. La fotografia è più esatta. Ma non può esprimere uno spirito d’insieme, come fa il quadro. La Bibbia stessa ci educa a non essere letteralisti: su questioni importantissime ci dà due versioni diverse. Un esempio impressionante è la parola di Gesù sul calice. Secondo Matteo e Marco, Gesù prendendo il calice ha detto: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti». Secondo Luca e san Paolo, invece, ha detto: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi». Sono formule diverse, anche se ci sono elementi comuni. A fortiori, per tante altre cose meno importanti esistono differenze tra i Vangeli, che corrispondono all’orientamento di ciascuno di essi. Per cui è erroneo voler prendere da un Vangelo o dall’altro alcuni elementi per fare un racconto che sarebbe più “fedele” e completo. Ogni Vangelo ha un suo orientamento. Quello di Matteo è un Vangelo ecclesiale, che ci offre grandi discorsi di Gesù. Quello di Marco è il Vangelo dell’evento, dell’urto dell’evento. Quello di Luca è il Vangelo del discepolo che vede le cose nella relazione personale con Gesù… Ciascun Vangelo ha la sua ispirazione, che comporta differenze in molti dettagli. È una ricchezza, ma è chiaro che dal punto di vista materiale ci mette nell’imbarazzo se facciamo battaglie per voler dimostrare oltre ogni dubbio l’incontrovertibilità storica di tutto quello che è narrato nei Vangeli.

D. Al Concilio, nel dibattito sulle fonti della Rivelazione che ha portato alla costituzione conciliare Dei Verbum, ci si accalorava nella discussione sul rapporto tra Scrittura e Tradizione. Cosa rimane attualmente di quelle disputationes?

R. Adesso si insiste di più sull’esegesi patristica. L’École biblique di Gerusalemme ha il grande progetto di una Bibbia commentata sia scientificamente che patristicamente… Si vede che la gente sente l’insufficienza dell’approccio puramente scientifico. E pensa che per recepire bene la Bibbia in tutta la sua ricchezza occorra immergersi nella corrente della Tradizione. Che libera soprattutto da unilateralismi e da false dialettiche, come quelle che contrappongono senso letterale e senso spirituale. Leggere la Bibbia secondo la Tradizione fa vedere che alcune cose che possono sembrare contraddittorie sono in realtà complementari. Ad esempio, la Lettera di san Giacomo in apparenza sembra contrapporsi alle Lettere di san Paolo sul tema della giustificazione. Ma se si leggono bene i testi, secondo la Tradizione, vediamo che non c’è contraddizione, anche per san Giacomo le opere che giustificano sono opera della fede. Essere docili alla lettura della Bibbia dentro la Tradizione aiuta questa sobrietà, questa saggezza.

D. Lei in un’intervista ha detto che è salutare sfuggire alla tentazione di “appoggiare” sul testo biblico assunti a cui la Tradizione è pervenuta in seguito. Può spiegare meglio a cosa si riferiva?

R. È sempre utile distinguere. La Parola di Dio è viva, è dentro una corrente di vita. Ma è sempre utile distinguere ciò che c’è nel testo all’inizio e ciò che la Tradizione legittimamente ha aggiunto. Prendiamo il tema del sacerdozio ministeriale. Nel Nuovo Testamento, nessun apostolo viene chiamato sacerdote. Il titolo di sacerdote è dato solo ai sacerdoti leviti o ai sacerdoti pagani. Però la Chiesa, già a partire dal II secolo, ha attribuito il titolo di sacerdos ai vescovi. Questo non è fondato direttamente sulla Bibbia, ma corrisponde a una nuova idea del sacerdozio espressa proprio nelle Lettere di san Paolo. Nella Lettera ai Romani, san Paolo definisce il suo ministero in un modo che corrisponde a un nuovo concetto di sacerdozio. Dice che il suo ministero è l’opera sacra dell’annuncio, di modo che i gentili diventino un’offerta gradita a Dio, santificata nello Spirito Santo. Questa formula definisce il sacerdozio cristiano. Adesso cresce una resistenza all’uso del vocabolario sacerdotale. Non vogliono più parlare di ordinazione sacerdotale, preferiscono ordinazione presbiterale… Questa è una fedeltà materiale al Nuovo Testamento che non è una fedeltà di spirito.

D. Come si applica questa distinzione al tema del primato? Gli ortodossi, anche quelli più coinvolti nel dialogo ecumenico, non accettano di affrontare dal punto di vista esegetico il problema.

R. Si vede in tutti i Vangeli e nelle Lettere di san Paolo che Pietro ha ricevuto una missione speciale. È veramente impressionante, ad esempio, rivedere la scena della vocazione di Pietro. Ci sono almeno quattro persone, oltre a Gesù, in quella scena: Andrea e Pietro, Giacomo e Giovanni. Ma Gesù si rivolge solo a Pietro.
D. Le controversie tra “creazionisti” ed “evoluzionisti” negli Stati Uniti hanno riproposto il tema dell’inerranza delle Sacre Scritture. Cosa ne pensa?

R. L’inerranza è stata ben definita nella Dei Verbum, con quella frase, molto sfumata, in cui si dice che essa tocca tutte le cose che Dio per la nostra salvezza ha voluto rivelare. Dio non ha voluto rivelare se la terra è piatta o rotonda e se gira o meno intorno al sole. La Bibbia non fa una teoria della creazione. Afferma che Dio è creatore, e poi presenta la creazione in maniera immaginosa. Non c’è una teoria scientifica sulla creazione, nella Bibbia. Mi ha sempre colpito che la Dei Verbum ha usato quella formula: «La verità che in vista della nostra salvezza Dio ci ha voluto comunicare». Avrebbe potuto parlare semplicemente di verità salvifiche. Ma una tale espressione avrebbe fatto pensare a una serie di formule religiose. Invece le verità che ci vengono comunicate nella Sacra Scrittura in vista della nostra salvezza sono anche dei fatti, come la nascita di Gesù, la crocifissione e le apparizioni di Cristo risorto.

D. Lei ha raccontato che il cardinale Ratzinger fu molto rispettoso del lavoro della Commissione Biblica, anche quando essa valorizzò, nel documento da lei citato all’inizio, il metodo storico-critico, sul quale il prefetto dell’ex Sant’Uffizio manifestava pubblicamente le sue obiezioni.

R. La posizione dei membri della Commissione Biblica era che il metodo storico-critico non dipendesse dai presupposti teorico-filosofici di Bultmann e Dibelius. È inevitabile che ogni scienziato adoperi i propri presupposti. Ma non si devono confondere metodo e presupposti. Gli esegeti cattolici possono prendere il metodo, senza assumere i presupposti naturalistico-storicisti dei fondatori del metodo.

D. Adesso Ratzinger è diventato Benedetto XVI. E ha scritto la prima parte di un libro su Gesù che interpella da vicino le ricerche di biblisti ed esegeti. Questa situazione particolare che impatto avrà sul Sinodo?

R. Si vede bene che il Papa nella sua formazione teologica è stato a disagio con il metodo storico-critico, così come veniva adoperato in Germania. La sua prospettiva è molto più positiva: cercare la corrente profonda della Rivelazione, concentrarsi sulla vita di Gesù e non impelagarsi in discussioni infinite su dettagli secondari o interpretazioni in conflitto. È un approccio molto più “nutriente” per la fede e la vita cristiana. Naturalmente, l’ha detto lui, la sua infallibilità non è implicata nel libro su Gesù. Quella è l’opera di un professore divenuto papa. Il Sinodo non avrà difficoltà da questa situazione. Il Papa è un vescovo che contribuisce alla vita della Chiesa. Con tutte le sue capacità intellettuali e affettive. (Gianni Valente, 30 giorni, ottobre 2008)

 

 

 


 

 Il piano straordinario di Hitler per distruggere la Chiesa

(19 ottobre 2008)

 

Il Warthegau, inquietante banco di prova dell’ideologia anticristiana di Hitler. Un delirante progetto di annientamento della Chiesa in 13 punti: il Cristianesimo non avrebbe avuto alcun futuro nel Terzo Reich.

Il pensiero di Adolf Hitler riguardo al cristianesimo traspare inequivocabilmente dagli scritti ideologici nazisti, come il Mein Kampf, di cui fu lui stesso autore, e il Mythus di A. Rosenberg. Si trattava di un’avversione fanatica, unita a una passione per la distruzione. Ma come doveva essere messa in pratica e realizzata questa ideologia? In parte, naturalmente, grazie ai tradizionali metodi di violenza: arresto dei sacerdoti, chiusura di scuole e conventi, soppressione della stampa cattolica, odiosa propaganda anticristiana mirata a gettare discredito sulla Chiesa. Queste erano le forme classiche utilizzate dai poteri repressivi.

Ma la crociata di distruzione nazista si spingeva ancora più oltre, in un modo mai immaginato neppure negli anni più bui delle altre persecuzioni. Hitler mirava a colpire la struttura stessa della Chiesa, con la manifesta volontà di eliminarla completamente come forza identificabile.

Il Warthegau, banco di prova dell’ideologia anticristiana

La «prova generale» fu fatta a partire dal 1940 in un zona della Polonia Occidentale che era stata annessa tout court al Reich. Essa era denominata Warthegau e dipendeva direttamente da Hitler, che era libero di disporne a suo piacimento. Qui si verificò una drammatica battaglia contro la Chiesa, il cui significato è generalmente sfuggito all’attenzione e alla comprensione degli storici. Il piano dei nazisti rappresentava una terribile minaccia per la Chiesa, in definitiva più pericolosa della campagna di arresti e di requisizioni. Il pericolo appariva con maggiore evidenza proprio in questo angolo del nuovo impero nazista e faceva presagire il disastro finale della Chiesa nello stesso Reich. Questo era il significato dell’aggressione perpetrata ai danni della Chiesa, che fece dire a Pio XII nel 1942, rivolto ai suoi più stretti collaboratori: «Una vittoria dell’Asse significherebbe la fine del cristianesimo in Europa» (1).

Il Warthegau, o Wartheland (di cui Poznań é una delle città principali), chiamato così perché la regione ê attraversata dal fiume Warta, comprende l’arcidiocesi di Gniezno e Poznań, buona parte della diocesi di Wloclawek e di Lódź e ma piccola parte della diocesi di Varsavia e Czestochowa. Esso contava 4-500.000 abitanti, in maggioranza polacchi e cattolici. Qui gli ideologi nazisti si proponevano di creare mo Stato «modello» secondo gli autentici ideali nazisti, apertamente ostili alla Chiesa.

La storia del Warthegau ê stata principalmente considerata dagli storici solo come un tentativo particolarmente aggressivo di «germanizzazione» da pane dei nazisti. Questo è indubbiamente esatto, per quanto importante. Ma «depolonizzazione» non significava, come ai tempi di Bismarck, trasformare i polacchi in tedeschi. Il programma prevedeva piuttosto la deportazione dei polacchi fuori del Gau e, allo stesso tempo, l’insediamento, al loro posto, di migliaia di tedeschi (Volksdeutsche) provenienti dall’area dell’Est (Paesi Baltici, Bucovina, Bessarabia ecc.).

Sarebbe però sbagliato credere che tale drammatico mutamento di popolazione non avesse nulla a che vedere con la situazione religiosa. Questo significherebbe sottovalutare e ignorare i progetti a lungo termine dei nazisti. Gli ideologi del partito non potevano perdere un’occasione d’oro come quella. Avevano infatti a portata di mano l’opportunità di creare, nelle migliori condizioni desiderabili, la società del futuro, edificandola sulle fondamenta dell’ideologia nazista. Il Warthegau doveva diventare il modello, il banco di prova delle più importanti dottrine naziste. Era un Mustergau, un Versuchungsgau, un Exerzierplatz. Chi fossero i veri responsabili di questo allucinante progetto non si ê mai saputo (il principale indiziato ê Martin Bormann), ma essi rappresentavano fedelmente l’autentico pensiero del nazionalsocialismo e dello stesso Hitler. Se esso fosse stato portato. alle sue estreme conseguenze — ovvero se Hitler avesse vinto la guerra — avrebbe sicuramente significato la fine del cristianesimo in Germania.

La separazione dei cattolici

Una crisi ai vertici della Chiesa polacca nel Warthegau contribuì ad aggravare la situazione. Il primate di Polonia, card. August Hlond, arcivescovo di Gniezno e Poznań, era in esilio sin dai primi giorni della guerra e il rientro in patria gli era interdetto. Lo stesso avveniva per Carlo Radonski, vescovo di Wloclawek. Altri vescovi vennero rimossi fisicamente dalle loro sedi oppure venne loro impedito di compiere qualsiasi attività. Nel frattempo la mano pesante dell’occupazione nazista dava i suoi frutti. I preti polacchi venivano arrestati e tradotti nei campi di concentramento (oppure uccisi) in una percentuale molto superiore rispetto al resto della Polonia. Il clero polacco era infatti considerato il punto di riferimento dello spirito polacco. Venne avviata una rigorosa separazione dei tedeschi dai polacchi, con conseguenze catastrofiche per la vita religiosa.

Ai cattolici tedeschi e polacchi venne proibito d’incontrarsi in chiesa; i cattolici non potevano confessarsi in polacco e il confessore stesso era sempre esposto a facili denunce da parte di sedicenti penitenti. Un prete di lingua polacca non poteva esercitare il suo ministero neppure presso i malati in ospedale (dove uomini e donne laici portavano l’Eucaristia in segreto). Si sviluppò quindi l’abitudine dell’«assoluzione generale», al fine di eludere la proibizione delle confessioni in polacco, oppure dove il numero dei sacerdoti di lingua tedesca era insufficiente. Si giunse addirittura al punto che i polacchi non potevano neppure sposarsi prima di aver raggiunto un’età prestabilita (almeno non secondo la legge civile). Gli occupanti ritenevano che questo fosse un modo per ridurre la popolazione polacca.

In nessun altro luogo della Polonia occupata la vita pastorale e religiosa era così dura come nel Warthegau. Le misure ora descritte, infatti, sotto l’occupazione tedesca non vennero applicate da nessun’altra parte, come ad esempio nel cosiddetto Governatorato Generale. Esse non furono neppure applicate ad altre zone della Polonia, annesse, come il Warthegau, alla Germania (Danzica-Prussia Occidentale e Slesia Superore). Perché questa differenza? Perché il Warthegau occupava un posto speciale nei progetti dei nazisti e aveva più a che fare con la «decristianizzazione» che con la «depolonizzazione».

Il progetto di annientamento della Chiesa

La prima rivelazione sul minaccioso destino che incombeva sul Warthegau giunse negli ultimi mesi del 1940, dopo la campagna di Francia. L’euforia della vittoria sul nemico tradizionale aprì la strada a una discussione esplicita sul futuro del Reich e del nazismo. Un ufficiale diede notizia in via riservata delle intenzioni dei nazisti in una ristretta riunione di dirigenti del partito. Qualcuno le riportò diffusamente per iscritto e il suo resoconto riuscì a raggiungere prima i circoli evangelici (protestanti) e poi quelli cattolici. Il portavoce dei nazisti accennava esplicitamente alla morte della Chiesa e della religione a opera di Hitler. Il discorso ai funzionari nazisti fu tenuto due volte a Wiesbaden, la prima l’8 novembre 1940, la seconda due giorni dopo. Gli ospiti invitati erano gli ufficiali locali del partito nonché dirigenti delle SS, delle SA e della Gioventù Hitleriana. L’oratore era un certo Ruder, Gauschulungsleiter (responsabile per l’educazione) a Francoforte.

Il cristianesimo era destinato a scomparire dalla Germania nazista, aveva annunciato senza mezzi termini Ruder. Poi aveva spiegato come questo sarebbe avvenuto: «Il posto che il cristianesimo occupa ora in Germania non può rimanere tale. Non c’ê posto per le Chiese cristiane – evangelica o cattolica – nel nuovo assetto della Germania. Anche i conventi devono scomparire. E non si dica che l’eliminazione delle Chiese non corrisponde ai desideri del Führer e che non dovrebbe essere tentata ora, in tempo di guerra. È un’affermazione falsa. Come prova che il Führer vuole la sparizione delle chiese basti guardare alla nuova organizzazione del Warthegau. È vero che la nuova popolazione ivi stanziata é autorizzata ad avere con sé un sacerdote, ma questi non verrà pagato e dovrà quindi lavorare e non in un posto comodo. Infatti dovrà fare un lavoro molto umile. Il battesimo dei bambini non è ammesso. Chiunque voglia praticare la religione deve risultare iscritto a qualche associazione, ma non prima dei 21 anni di età. Il presidente di questa associazione può agire come un pastore. Che questi siano i desideri del Führer lo dimostra il fatto che egli ha incaricato il Gauleiter del Warthegau di seguire tale strada. Dobbiamo dedurne che tali direttive saranno valide anche per noi. Ciò che diciamo oggi ê per vostra informazione. I leader locali del partito e altri devono preparare la gente a questo, cosicché nessuno sia sorpreso quando il Führer darà ordini in tal senso» (2).

I «13 Punti» contro la Chiesa

Era un quadro molto fosco. Ed era molto più che una presa di posizione personale di un propagandista locale del partito (Redner). Ruder parlava perché era a conoscenza della strategia globale nazista. Il suo particolare contributo consisteva nel dare risalto alle finalità anticristiane, prima nel Warthegau e poi altrove. Il programma a cui Ruder fa riferimento si trova nel decreto del Reichsstatthalter e Gauleiter Arthur Greiser, datato 14 marzo 1940, ovvero addirittura prima della campagna di Francia. Esso conteneva 13 punti, ognuno dei quali era una pugnalata alla vita della Chiesa.

Possiamo riassumerli come segue:

1) Non esistono Chiese nel senso inteso dal diritto pubblico, ma solo comunità religiose, come associazioni, congregazioni od organizzazioni.

2) La direzione non spetta alle autorità (Behörden), bensì alla sola associazione.

3) Di conseguenza, nella zona non possono esserci questioni di leggi, istruzioni o decreti.

4) Queste associazioni non hanno alcun collegamento né alcun legame di carattere giuridico, finanziario o amministrativo con gruppi esterni al Gau.

5) Solo le persone adulte possono diventare membri di queste associazioni, tramite una dichiarazione scritta.

6) I movimenti confessionali, come i gruppi giovanili, vengono aboliti e proibiti.

7) Ai tedeschi e ai polacchi è vietato incontrarsi nella stessa chiesa.

8) L’insegnamento per la cresima non può essere impartito nelle scuole.

9) Alle associazioni non è permessa nessuna attività finanziaria, eccettuate le quote d’iscrizione all’associazione.

10) Le associazioni non possono avere alcuna proprietà come edifici, case, terreni o cimiteri, eccettuato lo spazio riservato al culto.

11) Alle associazioni ê vietato impegnarsi nell’assistenza sociale, che è interamente riservata alle sezioni del partito nazista.

12) Tutte le fondazioni e i conventi devono essere chiusi, in quanto non sono compatibili con lo spirito tedesco e con la politica della popolazione.

13) Nelle associazioni sono ammessi solo sacerdoti del Warthegau, che devono comunque esercitare un’altra professione.

Questo decreto (mai pubblicato ufficialmente) venne fatto pervenire in Vaticano dal card. Adolf Bertram di Breslavia il 14 aprile 1941 (3). Dalla lettura dei «13 Punti» si comprende molto bene ciò che i nazisti intendevano quando affermavano che non c’era «nessun posto» per il cristianesimo nel mondo nazista. Questo era vero alla lettera. Infatti che cosa rimane della Chiesa — cattolica o protestante — in una simile visione? È vero che era permesso a piccoli gruppi di soli adulti — guidati da un pastore part-time — di associarsi per scopi religiosi, ma questo era il massimo delle concessioni. Non esisteva più alcuna Chiesa, né giuridicamente né di fatto; non c’era più comunione ecclesiale; non c’era alcun vincolo di unione tra i credenti; la vita ecclesiale come tale non era permessa; non c’era autonomia per dirimere gli affari ecclesiali; non c’erano né vescovi né preti. Le manifestazioni ordinarie della vita della Chiesa erano state abolite: non era permessa alcuna opera di carità né l’educazione religiosa. Non solo le veniva negata la personalità giuridica, ma anche le possibilità materiali: era vietato raccogliere collette per sostenere l’opera della Chiesa. I membri della Chiesa evangelica non potevano avere rapporti con la Chiesa madre nel Reich; i cattolici, dal canto loro, non potevano avere alcun rapporto con il Papa a Roma.

Si trattava di un bisturi chirurgico ben affilato per distruggere il cristianesimo, che aveva almeno il pregio della chiarezza. Era anche una testimonianza dell’intenzione deliberata, e folle, dei nazisti di uccidere, un monumento alle fantasie degli ideologi del nazismo. Non era più questione di «separazione tra Chiesa e Stato», bensì della eliminazione della Chiesa. Naturalmente si trattava di un progetto poco realistico, nonostante lo strapotere dei nazisti sul continente. Infatti esso non prendeva in considerazione la ferma resistenza che avrebbe incontrato nella realtà da parte dei credenti impegnati, cattolici o protestanti che fossero. Inoltre era inevitabilmente destinato a essere inghiottito dalle sabbie mobili degli ultimi mesi di guerra.

Il decreto del «Gauletter» Greiser

È superfluo, a questo punto, rilevare anche che i «13 Punti» erano in diretta contraddizione con i più elementari princìpi del diritto canonico. Essi suscitarono nella Santa Sede, a livello delle idee, le più serie preoccupazioni per il futuro della Chiesa nella eventualità di una vittoria nazista.

Il momento cruciale del diabolico piano mirato a distruggere il cristianesimo fu il decreto del Gauleiter Greiser del 13 settembre 1941. In questa data venne annunciata l’esistenza giuridica della «Chiesa Cattolica Romana di Nazionalità Tedesca nel Distretto del Reich di Wartheland», che avrebbe avuto solo lo status di un’associazione di diritto privato. Uno status analogo fu attribuito alle diverse Chiese evangeliche. In altre parole, la Chiesa cattolica tradizionale e le rispettive Chiese protestanti cessarono di esistere come entità di diritto pubblico. Le nuove norme applicavano in maniera più dettagliata il «decreto», mai reso pubblico, del 14 marzo 1940. L’idea di fondo che lo motivava era la divisione delle comunità cattoliche tedesca e polacca.

Il decreto Greiser del 13 settembre 1941 fu recepito con molta preoccupazione dalle comunità tedesca e polacca. Esse scrissero piene di ansia al Papa due lettere separate ma concertate insieme, datate ambedue 26 settembre. Gli autori di parte polacca erano i due vicari generali di Gniezno e Poznań, mentre per i tedeschi tre autorevoli prelati. Già indebolite e disorganizzate dalle aggressioni naziste, le due comunità si rendevano conto che il nuovo decreto era foriero delle peggiori prospettive. La soluzione che esse proponevano era la creazione, da parte dell’autorità pontificia, di due amministratori apostolici, uno per la comunità polacca, l’altro per quella tedesca. Solo in questo modo, affermavano, la Chiesa avrebbe potuto rimanere salda nel pericolo presente. L’appello proveniente dal Warthegau era insistente e disperato e ad esso Pio XII rispose immediatamente, nominando i due amministratori apostolici come gli era stato richiesto. La nuova struttura aveva almeno il vantaggio di ripristinare una sorta di ordine e di facilitare le decisioni da prendere.

Furono avviati i negoziati con le autorità delle forze di occupazione, alla ricerca di una comune intesa, ma con scarsi risultati. Il 28 luglio 1942, l’amministratore apostolico per i cattolici tedeschi, il conventuale p. Hilarius Breitinger, scriveva al Papa in termini molto pessimistici. La situazione dei cattolici, polacchi o tedeschi che fossero, continuava a essere grave. La gente comune arrivava persino a chiedersi se il Papa non avesse dimenticato la Polonia: «Può esistere Dio se sono possibili simili ingiustizie?».

Breitinger cominciava la sua lettera spiegando che ciò che stava avvenendo nel Warthegau era in programma anche per il Reich e perciò rivestiva la massima importanza per il futuro della Chiesa in Germania. Secondo l’Amministratore apostolico, nel Warthegau i responsabili della propaganda del partito andavano divulgando il fine ultimo dei provvedimenti adottati dai nazisti: l’annientamento della vita e del pensiero cattolici nonché del cristianesimo in generale. Egli scriveva infatti: «In molti incontri dei responsabili politici, autorevoli personalità dello Stato hanno riferito indicazioni segrete secondo le quali lo scopo della politica tedesca era annientare tutti i legami confessionali nel Reich tedesco e creare un Reich libero dal cristianesimo». Messaggio analogo a quello del Gauschulungsleiter Ruder nel 1940. Breitinger venne a sapere che i mezzi e le modalità per perseguire questo fine erano stati collaudati nel Warthegau (4).

Le proteste della Santa Sede

Durante tutti quei mesi, il nunzio apostolico a Berlino, l’arcivescovo Cesare Orsenigo, bombardava di proteste il Ministero degli Esteri contro l’intrusione nella vita religiosa degli abitanti del Warthegau, ma riceveva in cambio solo risposte evasive. Infatti il Gauleiter del Warthegau, Arthur Greiser, dipendeva direttamente dal Führer e rifiutava di obbedire al Ministero, sostenendo di avere una «missione speciale». Nel Warthegau la battaglia proseguì in circostanze sempre pin difficili. Il 2 marzo 1943, il card. Segretario di Stato, Luigi Maglione, inviò a Berlino un resoconto dettagliato di tutte le lagnanze presentate dalla Santa Sede contro la politica di occupazione del Reich, soprattutto in Polonia. Per quanto riguardava il Warthegau, il Cardinale deplorava il principio della divisione della popolazione, per motivi religiosi, in polacchi e tedeschi, come il divieto dell’uso del polacco nelle funzioni sacre c addirittura nelle confessioni e specialmente la proibizione fatta ai polacchi di sposarsi entro certi limiti di età. Il Cardinale Segretario metteva in evidenza i danni causati dalle «due nazionalità», enunciando a chiare lettere la caratteristica di «separazione» del Warthegau: «Inoltre in materia di culto e di sacre funzioni ci fu la più rigorosa separazione tra fedeli di nazionalità tedesca e fedeli di nazionalità polacca, fu proibito ai cattolici polacchi di frequentare luoghi di culto officiati da sacerdoti tedeschi, come pure ai fedeli tedeschi di assistere a funzioni celebrate da sacerdoti polacchi; s’impone e si continua a imporre l’osservanza di tale separazione anche nelle più gravi circostanze, e persino in punto di morte con la conseguenza di privare frequentemente i fedeli del conforto degli ultimi sacramenti. […] Quello poi che merita particolare menzione è che, in contrasto con i diritti di natura e con le stesse disposizioni accolte dai codici di tutte le nazioni, per la celebrazione dei matrimoni da pane dei polacchi si fissò il limite minimo di 28 anni di età per gli uomini e di 25 anni per le donne».

Arthur Greiser, Obergruppenführer delle SS, ex Reichsstatthalter e Gauleiter del Wartheland, venne impiccato sulla pubblica piazza di Poznań il 21 luglio 1946. Egli era nato in quella provincia ed era stato educato nella religione evangelica, ma aveva apostatato dal cristianesimo a causa, a suo dire, della «separazione tra Stato e Chiesa». Con l’approssimarsi dell’Armata Rossa — e la dissoluzione del regno di terrore che egli aveva instaurato per cosi lungo tempo nel Warthegau — Greiser fuggi in Occidente, solo per essere arrestato e consegnato ai polacchi. A questo proposito non va tralasciato il fatto che, a seguito dell’appello rivoltogli da Greiser o dalla sua famiglia, Pio XII intervenne presso le autorità polacche affinché gli fosse risparmiata la vita. Questo gesto di carità cristiana venne duramente criticato da Mosca quale prova del desiderio del Vaticano di risparmiare i criminali di guerra. Dopo ciò che è stato detto nelle pagine precedenti, Pio XII, anche come una delle vittime principali del feroce piano nazista di distruzione del cristianesimo, aveva il diritto di decidere per conto suo se poteva e doveva invocare clemenza per uno dei più grandi persecutori del nostro tempo.

Note

(1) Cfr R. A. GRAHAM, «Ideologia Nazi-Comunista nella Seconda Guerra Mondiale», in Civ. Catt. 1994 II 359.

(2) National Archives, Washington D. C., T 81/185/0335001-05. Lo stesso testo, in forma abbreviata, è reperibile in J. NEUHAESLER, Kreuz und Hakenkreuz, vol. I, München, 1946, 284.

(3) Actes ed documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol. III, 393. Un’altra versione si trova in: P. GUERTLER, Nationalsozialismus und evangelische Kirche im Warthegau, Göttingen, 1958, 47-51. Cfr anche M. BROSZAT, Nationalsozialistische Polenpolitik 1939-1945, Stuttgart, 1961. L’Autore non fa menzione dei «Tredici Punti».

(4) Actes ed documents…, cit., 611.

(Robert A. Graham S.I., © Civiltà Cattolica, quaderno 3474, 1995. Si ringrazia il Direttore GianPaolo Salvini S.I. per aver concesso la riproduzione dell’articolo).

 

 

 


 

 Alla ricerca del simbolo perduto

L'analfabetismo biblico contemporaneo

(19 ottobre 2008)

 

Mentre il sinodo dei vescovi medita la Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, può essere utile riflettere su ciò che si potrebbe chiamare "l'analfabetismo biblico contemporaneo", sulla perdita pressoché totale degli istinti e delle tecniche, cioè, che nei secoli hanno plasmato il modo cristiano di accostarsi alla sacra pagina.

Per rendersi conto della gravità di questa situazione, basta considerare i libri miniati prodotti nei monasteri medievali per l'uso liturgico. Il fruitore moderno che viene a contatto con simili tesori nell'ambito di una mostra o di un testo di storia dell'arte, forse non capisce neanche la distanza che oggi ci separa dal mondo che li ha plasmati: tra la nostra esperienza "libraria" e quella medievale ci sono infatti differenze così basilari che rischiamo di non avvertirle. Nell'era di internet, già il concetto di "libro" comincia a sfuggirci, e alla luce di moderni studi biblici e liturgici l'idea tradizionale di un "libro sacro" similmente ha un peso diverso che in passato. In pratica, oggi è quasi impossibile concepire l'autorità sacrale che un testo biblico o liturgico aveva nel medioevo.

Lo stesso vale per le miniature che adornano il testo. Il nostro tempo, saturo d'immagini brillantemente colorate nelle riviste, sui giornali, in televisione – foto istantanee, riprese in diretta, immagini fabbricate dal computer – non riesce a cogliere la sorpresa, la deliziosa freschezza di miniature dalle tinte limpide, splendenti d'oro tra fitte colonne di scrittura in un codice. Né abbiamo modo di ripristinare il rapporto intellettuale e affettivo sussistente tra l'immagine fissa e un testo antico, conosciuto, amato, creduto.

Eppure per più di mille anni di storia europea il contesto tipico dei libri era precisamente quello di una fede intensamente vissuta, profondamente meditata, e nutrita da testi così antichi da sembrare "eterni": testi che collocavano il lettore sul confine tra la propria situazione e realtà universali, il contesto liminale che possiamo definire semplicemente con il termine "preghiera". I libri liturgici servivano infatti alla preghiera comunitaria, e le Bibbie alla "lectio divina", che a sua volta era nutrita e in qualche modo plasmata dalla liturgia e dalla devozione.

Per liturgia intendiamo qui l'intero complesso di riti ecclesiastici, con – al suo centro – la liturgia eucaristica o messa. I testi della messa, che variano secondo la festività o periodo dell'anno, effettivamente obbligano a una sorta di "lectio divina" comunitaria, a una duttilità, nell'interpretazione dell'evento o personaggio celebrato, che dobbiamo chiamare contemplativa. Ogni cosa viene continuamente riportata al mistico centro della fede cristiana, il sacrificio di se stesso che Cristo compì morendo in croce, e alla vita nuova della sua risurrezione. Perfino la notte di Natale i testi della messa obbligano a collegare la gioia di una nascita con il fatto drammatico della morte in croce; il corpicciolo nella mangiatoia, il corpo dell'uomo adulto crocifisso, il "Corpus Christi" realmente presente nel pane eucaristico e il "Corpo Mistico" costituito dalla comunità raccolta in preghiera diventano una sola cosa. Ecco perché nell'affresco della basilica di Assisi raffigurante san Francesco che pone il Bambino nella mangiatoia del presepe di Greccio, questa viene collocata sotto una grande croce e accanto all'altare.

Si tratta di un modo di vedere – e comprendere – i rapporti di causalità tra eventi storici, metastorici e soprannaturali, diverso dal nostro: un modo di vedere – e comprendere – che influiva sul modo di leggere e quindi anche d'immaginare e di raffigurare i contenuti dei testi.

Prendiamo l'esempio dell'illustrazione riprodotta sopra: una splendida iniziale dipinta nel trecentesco breviario della biblioteca civica Queriniana di Brescia; è il "B" della prima parola del salmo 1 nel latino della Vulgata: "Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum", beato l'uomo che non sta con i peccatori. I padri della Chiesa leggevano questo inizio del salmo in riferimento a Cristo, e così il miniaturista dell'iniziale "B" usa gli spazi aperti nella "B" per evocare l'intera vita di Cristo, con scene dell'annunciazione, della natività, della crocifissione e della sepoltura. Situando le parole "Beatus vir" nell'iniziale e nel bordo sotto queste scene, l'anonimo artista associa la "beatitudine" del rapporto umano con Dio – il tema del salmo – con Gesù il Cristo.

Lo stile antico di lettura aveva inoltre una dimensione parabolica che, nell'odierna epoca di studi biblici "scientifici", rischiamo di perdere. L'antifona del "Benedictus" per le lodi della solennità dell'Epifania, ad esempio, collega in modo straordinariamente suggestivo i tre eventi biblici che, nella loro sequenza cronologica, insieme costituiscono la prima manifestazione di Cristo al mondo: l'arrivo dei Magi portando doni al neonato Gesù (Matteo 2, 1-12); il battesimo di Gesù trentenne nel fiume Giordano (Matteo 3, 13-17; Marco 1, 9-11; Luca 3, 21-22); e la mutazione dell'acqua in vino alle nozze di Cana (Giovanni 2, 1-12). Ma l'anonimo autore dell'antifona inverte l'ordine cronologico e sovrappone le nozze al battesimo, dicendo: "Oggi lo Sposo celeste si unisce alla sua Chiesa che Cristo lava dal peccato nel Giordano". Avendo in questo modo evocato il matrimonio di Dio con il suo popolo promesso dai profeti, nonché l'obbligo dello "sposo" di purificare la sua "sposa", lavandola (cfr. Efesini, 5, 25-27), l'autore inserisce poi i Magi, facendoli arrivare con i doni come invitati alla festa nuziale, i cui commensali verranno infine rallegrati dall'acqua mutata in vino del primo miracolo di Cristo, avvenuto a Cana: "Hodie caelesti Sponso juncta est Ecclesia, quoniam in Iordane lavit eius crimina: currunt cum munere Magi ad regales nuptias, et ex acqua facto vino laetantur conviviae, alleluia!". Che tradotto dice: "Oggi al celeste Sposo s’è congiunta la Chiesa, poiché nel Giordano egli ha lavato i suoi peccati. Accorrono i Magi con doni alle nozze regali e s’allietano i convitati dell’acqua mutata in vino. Alleluia!".

Sono la prima parola dell'antifona e l'ultima a spiegare questo stile di lettura: "hodie" e "alleluia!". Qui i testi neotestamentari sono stati interpretati alla luce della liturgia, e nella liturgia cambia il senso del tempo, così che eventi passati e perfino tra loro sequenziali vengono vissuti in maniera estatica nell'unico "oggi" di Dio, con l'effetto di trasformare impossibili sovrapposizioni storiche in misteri compresenti e interpenetranti. Ogni evento getta luce su ogni altro evento, nell'unico progetto del Padre rivelato dalla vita-morte-risurrezione di Cristo: ecco la "forma mentis" che sottostà a innumerevoli immagini cristiane, dalle catacombe al XXI secolo.

Sia l'iniziale miniata che l'antifona dell'Epifania sono poi frutti dell'immaginazione monastica, e questa origine è di fondamentale importanza. Il monachesimo è in sé un'opera d'arte: rende visibile e tangibile un'intensità particolare della vita cristiana, perché il monaco vuole essere, come Cristo, icona o immagine della bellezza di Dio; e il monastero è quel luogo in cui, con l'aiuto di confratelli che condividono la stessa visone interiore, l'opera può essere tranquillamente perfezionata, in una sorta di laboratorio dell'anima.

La più diffusa formulazione occidentale della vita monastica, la "Regula monachorum" di san Benedetto da Norcia, invoca esplicitamente questa analogia quando paragona il monastero alla bottega di un artigiano, caratterizzando l'intera vita dei monaci come un processo creativo (Regula 4, 75-78). Questa affermazione fa eco poi a una tradizione più antica, che immaginava la vita di ogni credente impreziosita "con l'oro delle buone opere e con i mosaici della fede perseverante". Ciò che differenzia i monaci dagli altri cristiani, almeno nel pensiero di san Benedetto, è la misura dell'impegno: i monaci investono la totalità delle loro energie umane nel progetto spirituale, avendo per "attrezzi" i precetti morali della vita cristiana, "instrumenta artis spiritalis" (Regula 4, 75).

Anche se il senso di queste frasi è chiaramente metaforico, non stupisce che la metafora si sia trasformata in realtà e che i monasteri siano diventati centri propulsori delle arti, come del resto san Benedetto s'aspettava (cfr. capitolo 57 della regola, su "Gli artigiani nel monastero"). Un clima di creatività in un settore dell'esperienza suscita analoga creatività in altri settori, e inoltre la vita monastica favorisce la produzione dell'arte sacra perché, escludendo distrazioni profane, permette all'artista di immergersi nelle Scritture e nelle azioni sacramentali che danno colore e forma alla sua fede, garantendogli inoltre un "pubblico" devoto e preparato.

Nella storia del cristianesimo, i frutti culturali del monachesimo non sono stati poi limitati ai monaci, dal momento che il silenzio e la vita ritirata dei monasteri, invece di allontanare la massa dei fedeli, l'hanno attirata, e la storia monastica conferma il fascino che i monaci hanno sempre suscitato in larghe fasce della società. Molto prima che Alcuino insegnasse o Anselmo scrivesse, i cittadini di Alessandria d'Egitto si inoltravano nel deserto per ascoltare sant'Antonio abate e i romani portavano i loro figli da san Benedetto. Anche quando l'età dell'oro della cultura monastica incominciò ad attenuarsi, a partire dal XIII-XIV secolo, l'ideale di una solitudine colma di preghiera sarebbe rimasta come paradigma per gli ordini religiosi attivi del tardo medioevo e per i laici a cui essi predicavano.

Non si esagera affermando che le conquiste formali dei monaci – la loro arte e architettura, le pratiche liturgiche e devozionali, le strutture organizzative e i metodi educativi, agricoli e mercantili – abbiano plasmato la coscienza culturale d'Europa. Più ancora, la vita monastica stessa, considerata come scelta sociale creativa e libera, si è profondamente impressa nell'immaginario dei cristiani, fino al punto che alcune tra le più fondamentali aspirazioni della nostra civiltà sono leggibili solo alla luce della "impresa" monastica.

In tutto questo, è importante cogliere il duplice ruolo dell'immaginazione. Da una parte la vita monastica richiede uno sforzo d'immaginazione in chi l'abbraccia diventando monaco; dall'altra, richiede uno sforzo immaginativo in chi non si fa monaco, nella società cristiana in genere. L'uomo o donna che rinuncia ai beni legittimi della vita, ritirandosi per cercare Dio nel silenzio e nella preghiera, ha bisogno di una notevole capacità di "immaginazione" sociale e morale per perseverare nel credere in "quelle cose che occhio non vide mai, né orecchio udì, ma che Dio ha preparato per coloro che l'amano" (1 Corinzi 2, 9): questo passo è infatti citato nella regola di san Benedetto (4, 77). Soprattutto nel rapporto a volte problematico con i confratelli, oltre alla fede è anche l'immaginazione a permettere al monaco di sentire che "ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Matteo, 25, 40; cfr. Regula 36, 3).

Per un analogo atto d'immaginazione, coloro che non entrano in monastero hanno scelto, attraverso i secoli, di considerare i monaci "sapienti" e "profeti" piuttosto che pericolosi dissidenti al margine alla società. Dalle migliaia di persone che andarono dall'abate Antonio nel deserto egiziaco, chiedendo una sua parola, alle centinaia di migliaia che oggi leggono Thomas Merton, i cristiani hanno creduto che la solitudine dei monaci non implichi disprezzo per gli altri, e che dal loro silenzio possa scaturire una sapienza al servizio dell'uomo.

Commovente nella sua semplicità, questa fiducia suggerisce la più importante funzione del monachesimo nella vita immaginativa dei cristiani, quella di "simbolo" che investe di santità ciò che gli viene avvicinato. I visitatori a un monastero, come i monaci stessi, hanno l'impressione che, nel raccoglimento contemplativo del chiostro, i luoghi e gli oggetti assumono qualcosa della intenzionalità e dedizione degli abitanti di quei luoghi. Gli oggetti, anche umili, a un tratto vengono percepiti come segni che dischiudono la solidarietà tra l'uomo e il sacro, gradini in una scala che sale dalla terra al cielo. Proprio in questo spirito, san Benedetto dice che perfino gli attrezzi comuni del monastero vanno trattati come se fossero vasi sacri per la liturgia (Regula 31, 10).

Si tratta di un modo di vedere sacramentale, in cui la superficie delle cose si fa trasparente per rivelare una prospettiva infinita, investendo le immagini di efficacia. Una raffigurazione dell'Ultima Cena in un refettorio monastico, come quella di Leonardo da Vinci a Santa Maria delle Grazie, a Milano, non è solo decorazione, ma un oggetto funzionale che comunica e nutre la fede da cui nasce. Le scelte operative nella genesi formale dell'opera, che normalmente rientrano nell'ambito della storia dell'arte, qui s'intrecciano con altre scelte, non estetiche, ma esistenziali.

(Timothy Verdon, L'Osservatore Romano, 12 ottobre 2008)

 

 

 


 

Perchè non possiamo non dirci benedettini...

Un piccolo “inno di lode”

a una delle più meravigliose e benemerite istituzioni della civiltà cristiana.

(26 ottobre 2008)

 

È sorprendente scoprire che quasi tutto ciò che ci circonda era previsto ed organizzato da secoli da migliaia di mani umili e laboriose, che attraverso i monasteri ci hanno offerto con instancabile pazienza e grande generosità immensi doni sia materiali sia spirituali.

Fatto unico e “sovrumano”

Fra tutta la gran varietà delle opere umane non ve n’è una a cui i monaci non si siano applicati, per migliorarla o farla crescere. Spesso hanno anzi realizzato ciò che non c’era, dato vita a grandi invenzioni, senza le quali l’umanità tutta sarebbe molto più indietro, e soprattutto avrebbe perso troppe grandi cose che si sono rivelate necessarie per la sua sopravvivenza fisica e morale.

Dalla scrittura alla musica, dall’architettura all’artigianato, dalla bonifica dei terreni alle arti mediche, dalle officine alla produzione alimentare, i monaci non solo hanno dato al mondo intero una grande lezione di saggezza e sapienza, ma lo hanno fatto con uno spirito di servizio che tutt’oggi resta inimitato.

Il monachesimo si manifesta nella nostra storia come un fatto unico e per certi versi “sovrumano”, che con la sua grande estensione nei secoli e nello spazio, con le sue variegate ramificazioni per tutta Europa ed anche fuori di essa, aiuta l’uomo ad incontrarsi con un mistero che entra nel tempo e collabora con lui, che si posa accanto alla storia degli uomini accompagnandola verso destini di prosperità, di pace e di bene.

Un segreto di bellezza divina e umana.

Ogni cosa che viene fatta non solo è utile, non solo serve, ma ad essa è chiesto d’essere anche bella. Nulla viene creato se non regala qualche lezione di bellezza, se non riflette in qualche modo la bellezza degli ideali che quei monaci e quelle monache custodivano con fede nel cuore.

Lo stesso monastero in cui vivevano doveva essere bello, doveva educare gli animi (dei monaci come dei visitatori) all’armonia interiore, alle profondità dell’io. L’altezza e la statura dei colonnati, la geometria degli spazi, i segreti rivelati dagli spiragli di luce, la poesia dei chiostri, l’orientamento astronomico ed il suggerimento dei colori, dovevano narrare l’incontro con l’infinito, dovevano trasformare l’osservatore in protagonista, educandolo ad avvertire il segmento insignificante della propria vita come parte di un tutto.

Educazione totale della persona.

Nessun uomo, per quanto santo, avrebbe mai potuto concepire i modi di un’educazione così totale della persona. Nessun uomo e nessuna comunità. Occorrevano ininterrotte generazioni di uomini che si trasmettessero instancabilmente nel tempo i frutti della sapienza, goccia su goccia, fino ad innalzare il livello dell’umano oltre i semplici limiti della capacità dei singoli; ma è proprio questo che avviene col monachesimo.

È proprio così che i monaci riescono a dare vita a quelle meravigliose realizzazioni che ancora oggi l’uomo moderno può contemplare. E questa trasmissione di saperi e di arti non avveniva solo di generazione in generazione, ma anche da monastero a monastero, e talvolta anche importando, tramite pellegrinaggi in terre lontane, le preziose conoscenze d’altre civiltà.

È così che i monaci imparano ed insegnano il progresso di tecniche e di mestieri, a cominciare da quelli dell’arte.

La più grande civilizzazione mai avvenuta

Nascono così nuove pitture e nuovi mosaici, realizzati con tecniche così raffinate che ancora ne stiamo studiando i segreti. Nascono le preziose miniature, ove l’oro e il rosso incantano l’osservatore, ove l’azzurro è ricavato tritando finemente i lapislazzuli dell’Himalaya.

Nascono i pentagrammi e le note musicali, le melodie di nuovi strumenti. Nascono le biblioteche e le università, supportate dal meticoloso lavoro nello scriptorium, ove gli amanuensi copiavano le opere dei classici e dei filosofi antichi, opere che così giungono fino a noi inalterate, assieme a tutte quelle composte nelle epoche successive, senza le quali oggi non sapremmo quasi nulla del nostro passato.

Nascono i pregiati codici miniati, strumento non solo di evangelizzazione ma spesso anche di alfabetizzazione; autentiche opere d’arte che dalla Calabria all’Irlanda risuonano “di sonore voci all’udito di molti popoli”, come il Codice Purpureo di Rossano Calabro o i Books of Kells di Dublino. Nasce la cartografia ed il disegno tecnico, per far conoscere i mondi più lontani o per progettare una cattedrale.

Nasce la botanica come scienza, lo studio delle erbe medicamentose e la lavorazione di prodotti farmaceutici.

E poiché i monasteri sono aperti anche alla cura dei malati, nascono infermerie ed ospedali, attorno ai quali progredisce e si trasmette la scienza medica. Anche la chimica muove i primi passi, mentre l’astronomia è già da tempo applicata all’architettura dei luoghi sacri.

Nascono le dighe olandesi, come quelle realizzate verso il mille sotto la guida delle abbazie di Egmont e di Hohorst, che strappano al mare i primi polder, terre che prima erano sommerse. Nelle Fiandre l’abbazia di Les Dunes trasformò 25.000 acri di terreno sabbioso in terre coltivabili.

Nascono, grazie all’abbazia di Morimondo, le prime marcite della pianura padana, prati ondulati che permettono numerosi tagli d’erba l’anno, grazie ai percorsi inclinati dell’acqua. Nascono i primi mulini di ferro, realizzati dai cistercensi per la frangitura delle olive o la lavorazione della lana.

Nascono nuovi metodi agricoli, come la rotazione triennale delle colture. Nascono centinaia di nuovi ettari di vigneti (sorti dalla faticosa bonifica delle paludi), da cui i monaci ricavano vini, liquori e spumanti. Ad inventare lo champagne fu Dom Perignon, frate benedettino dell’abbazia di Hautvillers, studioso di viticoltura ed enologia.

I monaci si dedicarono per secoli anche all’allevamento del bestiame, alla lavorazione della frutta e dei formaggi. Nasce il parmigiano, grazie alle abbazie benedettine parmensi del XIII secolo. L’apicoltura trovò grande sviluppo, così come la lavorazione della cera.

Nascono innumerevoli laboratori artigianali, che nei cortili dei monasteri si dedicavano alla tessitura come alla falegnameria, alla costruzione di nuovi attrezzi come alla lavorazione dei diversi metalli.

I monaci avviarono anche le prime industrie minerarie; nel 1140 l’abbazia di Newbattle fu pioniera nell’estrazione del carbone in Scozia; attorno al 1250 l’abbazia cistercense di Flaxey, in Inghilterra, si dedicava all’estrazione del ferro, e possedeva quattordici fornaci in piena attività.

Il monachesimo “padre” dell’Europa

Tutti questi avvenimenti forgiarono la vita sociale dell’Europa per secoli, contribuendo alla sua crescita morale ed economica. Nella grotta di Subiaco, ove visse per tre anni San Benedetto da Norcia (padre fondatore, nel V secolo, del monachesimo occidentale), ed attorno alla quale è nato il primo dei monasteri, ancora oggi visitabile, sono appesi dodici preziosi candelieri: è un dono della Comunità Europea, segno di riconoscimento per l’opera di unificazione svolta dal monachesimo in tutti questi secoli, e di cui ha giovato l’umanità tutta.

Grazie ad esso, le diverse culture ed i diversi Paesi erano uniti da un cammino comune, compiuto quasi contemporaneamente, affratellato da scambi d’ogni genere. Cosa sarebbe l’Europa oggi senza tutto questo? Essa è figlia del monachesimo, anche se spesso è stata figlia ribelle e desiderosa di rinnegare la madre.

I monasteri conobbero tutte le tempeste che la storia può infliggere a chi si erge nel tempo. Conobbero le distruzioni dell’espansione islamica (come accadde all’antichissimo monastero benedettino di Montecassino), conobbero l’ondata individualista del protestantesimo, conobbero la violenza materialista della Rivoluzione Francese (se dell’immensa abbazia di Cluny resta ben poco è perché nel 1790 fu dichiarata pubblica cava di pietre), conobbero i saccheggi selvaggi delle armate napoleoniche, le espropriazioni dello Stato italiano, nell’Ottocento laicista e massone.

Cuore ancora battente in un mondo secolarizzato

Ma nonostante tutto questo, il monachesimo sopravvisse, fino all’attuale monachesimo moderno, che educa ancora il mondo all’amore ed alla bellezza. Un monachesimo forse più silenzioso, rispetto al chiasso del mondo, ma che, a causa delle sue continue gemmazioni, è ancora più variegato nei suoi ordini, ancora più esteso geograficamente per tutti i continenti. Un monachesimo missionario ed evangelizzatore, che mette al centro la carità, regalando operosità e servizio, cultura e salvezza.

Nei suoi diversi rami, maschili, femminili, laici, mostra come la vera amicizia, che è alla base della vita comunitaria, sia il fondamento dei legami sociali più autentici, quando vissuta con fede profonda ed accoglienza dell’altro.

Ancora oggi, tra i mistici spazi di questi monasteri nuovi e antichi, l’uomo moderno trova rifugio, scopre vie d’uscita dai suoi naufragi, riacquista la speranza, ricostruisce la propria vita, si apre alla contemplazione, avverte il trascendente di cui il resto del mondo ha cancellato ogni traccia.

Nascosti fra scorci di natura incontaminata, o, inaspettatamente, fra il cemento delle città, i monasteri sono oggi come isole nel deserto spirituale dell’umanità contemporanea, oasi che custodiscono il segreto delle nostre origini, la speranza della nostra salvezza. (Stefano Biavaschi, Radici cristiane, n. 33 - Aprile 2008)

 

Dopo Benedetto, i grandi padri del monachesimo occidentale

La storia della Chiesa è costellata di grandi figure di santi e beati che hanno testimoniato con la loro vita il grande patrimonio di fede e di spiritualità che le appartiene. Tra queste figure si annoverano anche tanti monaci che si sono distinti non solo per l’esemplarità della vita, ma anche per l’originalità della vocazione: si tratta di fondatori di ordini monastici che hanno impreziosito la storia ecclesiastica e hanno manifestato con particolare luminosità e vigore la verità rivelata da Gesù.

 

San Colombano, fondatore di monasteri

Le vicende di molti di loro sono ben conosciute, mentre la notorietà di altri è assai minore. Sarà su alcuni di questi ultimi che concentreremo la nostra attenzione, nella consapevolezza che la rassegna risulterà comunque decisamente parziale.

Il primo personaggio di cui ci occupiamo è San Colombano. Della sua vita si conosce ben poco: si sa che nacque in Irlanda, da una famiglia benestante, verso la metà del VI secolo. Fu avviato allo studio delle arti liberali, ma a vent’anni, in seguito all’incontro con una devota pellegrina, maturò la vocazione che lo condusse al monastero di Benechor, nell’Ulster, dove ricevette l’ordinazione sacerdotale.

Qui trascorse numerosi anni, finché non intraprese, insieme a dodici compagni, la peregrinatio nel continente a scopo missionario: una volta approdato in Bretagna, Colombano si proponeva infatti di annunziare il Vangelo ai franchi, che, seppur già convertiti al cristianesimo, erano però lontani dal praticare le virtù evangeliche.

Si insediò in Borgogna, a Luxeuil, che divenne il centro di irradiazione in Europa del monachesimo di tradizione irlandese. Ben presto si diffuse la sua fama di taumaturgo e fu particolarmente apprezzata l’originalità della sua dottrina: egli introdusse la pratica della confessione e della penitenza private e reiterate, e l’idea di una proporzione stabilita tra gravità del peccato e tipo di penitenza, che per questo fu detta “tariffata”.

Più tardi Colombano entrò in conflitto con Teodorico, da lui accusato pubblicamente di adulterio. Nonostante che, a motivo del suo atteggiamento rigoroso, da parte di alcuni lo si volesse allontanare, egli, quasi miracolosamente, riuscì a rimanere nel continente e si recò in Italia, alla corte del re longobardo Agilulfo.

La morte lo colse nel 615, mentre dimorava nel celebre monastero di Bobbio, da lui fondato sull’Appennino tosco-emiliano.

 

San Romualdo e la spiritualità camaldolese

Altro grande monaco è stato Romualdo, il padre dell’ordine dei Camaldolesi. La maggior parte delle notizie sulla sua personalità e sulla sua attività ci proviene dalla Vita beati Romualdi di San Pier Damiani, che è un’opera agiografica di straordinaria grandezza.

Romualdo nacque a Ravenna da una famiglia ducale verso la metà del X secolo e morì nel 1027. Si fece monaco a Sant’Apollinare in Classe, e la sua esistenza fu costantemente percorsa dal desiderio di vivere esperienze sempre più intense di vita eremitica.

Approdò al monastero di San Michele di Cuxà, sui Pirenei. Qui emerse la sua elevata statura di leader: egli coinvolse vari compagni nel progetto di  attuare una rationabilitas eremitica, ovvero un modello eremitico razionale, che rifuggisse dagli eccessi incontrollati, pur conservando una forte carica carismatica.

Fu poi nel monastero di San Michele di Verghereto, in Romagna, e per qualche tempo sul monte Catria, nell’Appennino umbro-marchigiano. Trascorse pure un significativo periodo della sua vita a Comacchio, nella palude, luogo che prediligeva sopra tutti. Si narra che ne uscisse quasi irriconoscibile, con la pelle verde per la lunga permanenza nell’acqua stagnante.

Il suo principale intento fu quello di costituire nuovi eremi e di riformare i monasteri in senso eremitico. A Camaldoli, in terra aretina, probabilmente nell’anno 1012, egli dette vita a una struttura unica nella tradizione benedettina: una comunità che si esprime nell’unità di due esperienze monastiche, quella cenobitica e quella eremitica.

 

San Giovanni Gualberto e i vallombrosani

Un’altra importante figura di fondatore è quella di Giovanni Gualberto, che è all’origine della congregazione dei Vallombrosani. Circa la sua biografia si hanno pochi dati certi: nacque a Firenze intorno al 985/995 ed entrò nel monastero di San Miniato, dal quale uscì ben presto, dopo aver denunciato l’abate per simonia.

Soggiornò per qualche tempo a Camaldoli, con gli eremiti di San Romualdo, e poi salì verso Vallombrosa, in territorio fiorentino, dove lo raggiunsero altri compagni, che avevano a loro volta abbandonato San Miniato, e con i quali, verso il 1038, creò la congregazione benedettina vallombrosana, approvata da Papa Vittore II nel 1055 e basata su un’austera vita comune, sulla povertà e sul rifiuto di qualunque dono e protezione.

Il recupero del senso originario della regola di San Benedetto costituisce uno dei principali motivi ispiratori della prassi di Giovanni, che progettò una forma monastica profondamente rinnovata, ancorata alla tradizione ma aliena da ogni degenerazione e da ogni eccesso.

I Vallombrosani ebbero un ruolo di primaria importanza nell’opera di purificazione della Chiesa dal clero indegno: i papi riformatori si servirono della loro preziosa attività per rinnovare la comunità ecclesiale secondo  l’autentico spirito evangelico. Giovanni Gualberto morì nel monastero di Passignano in Val di Pesa, circondato dalla stima e dall’affetto dei confratelli.

Roberto di Molesme, fondatore dei cistercensi

Di Roberto di Molesme, fondatore di Citeaux, ovvero del monachesimo cistercense, si hanno notizie veritiere e precise grazie alla Vita scritta agli inizi del XIII secolo.

Roberto nacque in un paese della Champagne, in Francia, da una famiglia della nobiltà locale. Fattosi monaco, dimorò in vari monasteri, fino a che, nel 1075, fondò l’abbazia di Molesme. Questa nuova fondazione ebbe grande successo e richiamò numerosi adepti, assumendo nel tempo una fisionomia sempre più simile a quella cluniacense.

Verso i settant’anni Roberto, con altri venti compagni, lasciò Molesme e si recò in una foresta nei pressi di Digione, a Citeaux, ove fondò un nuovo monastero, nel quale fosse possibile vivere osservando la regola benedettina, in spirito di povertà e semplicità, procurandosi con il proprio lavoro il necessario per il sostentamento.

I monaci rimasti a Molesme, ritenendosi danneggiati dalla partenza di Roberto, fecero pressioni sul Papa Urbano II per riavere il loro abate, che fu nuovamente assegnato a quell’abbazia. Roberto, con animo totalmente obbediente, abbandonò Citeaux e ricoprì fino alla morte, avvenuta nel 1111, la carica che gli era stata riconfermata.

 

San Bruno, fondatore dei certosini

Nativo di Colonia fu San Bruno, fondatore dei certosini. Vissuto tra il 1030 circa e il 1101, compì i suoi studi a Reims, dove percorse una brillante carriera ecclesiastica, diventando insegnante nella chiesa cattedrale. Nel 1075 fu chiamato a ricoprire il ruolo molto delicato di cancelliere dell’arcivescovo di Reims, che era notoriamente simoniaco: gli screzi tra i due si risolsero a favore dell’arcivescovo, che riuscì a stornare da sé almeno momentaneamente la condanna.

Bruno, disgustato, abbandonò la città e si recò nei pressi dell’abbazia di Molesme, per condurre una vita ascetica. Successivamente lasciò anche questo luogo e fondò un romitorio sul massiccio della Chartreuse, da cui derivò il nome della famiglia religiosa che si ispirò ai suoi insegnamenti.

Bruno preferì sempre la dimensione contemplativa, e non casualmente nell’ordine da lui fondato la vita cenobitica era ridotta al minimo. Si ritirò infine in Calabria, presso la località di La Torre, vicino a Catanzaro. Qui poté condurre un’esistenza molto simile a quella dei padri del deserto, che costituivano il suo ideale. Morì nel 1101, circondato da fama di santità.

 

Bernardo Tolomei e gli olivetani

Altra importante figura è quella di Bernardo Tolomei, che dette vita alla congregazione benedettina di Monte Oliveto. Egli nacque nel 1272 da una famosa famiglia senese. Dopo aver compiuto studi giuridici, nel 1313, insieme ad altri nobili, abbandonò la città natale e si ritirò nella solitudine di Accona, un possedimento della sua famiglia situato a qualche chilometro di distanza.

Qui, lui e i suoi compagni condussero una vita eremitica, dimorando in alcune grotte scavate nel tufo. Più tardi altri si unirono alla comunità: a quel punto Bernardo sentì il bisogno di dare una sistemazione giuridica alla nuova realtà, e per questo si recò dal vescovo di Arezzo, dal quale ottenne il riconoscimento della fondazione del monastero di Santa Maria di Monte Oliveto, che osservò una regola improntata al cenobitismo benedettino.

Una scelta innovativa operata da Bernardo fu quella di eleggere l’abate del monastero per un anno soltanto, ma a lui la nomina venne rinnovata per tutta la vita. Durante il suo abbaziato il numero dei monaci crebbe enormemente, e Bernardo poté fondare una decina di monasteri strettamente legati a quello principale e retti da un priore.

Morì a Siena nel 1348, vittima della peste contratta mentre assisteva amorevolmente i confratelli ammalati.

(Maurizio Schoepflin, Radici cristiane, n. 33, aprile 2008)

 

 

 


 

Pio XII: il Papa più citato nel Concilio Vaticano II

(2 novembre 2008)

 

 

Il cardinale Siri, nell’Aula sinodale in Vaticano, alla presenza di Giovanni Paolo II, l’8 ottobre 1983, affermò: «Se si studiano gli indici del Vaticano II, si può agevolmente rilevare che, dopo quelle tratte dalla Sacra Scrittura, le citazioni più numerose sono quelle ricavate dagli scritti di questo Pontefice»

Il tema può essere affrontato sotto diversi aspetti: tanti quanti sono stati i temi e i problemi che il Concilio ha esaminato e sui quali si è pronunciato. Mi limiterò, tuttavia, a richiamare l’attenzione su due soltanto di questi aspetti: l’uno, che direi storico; l’altro che chiamerei teologico-spirituale.

L’aspetto storico attiene allo stretto rapporto tra l’evento del Concilio Vaticano II e il contributo dato da Pio XII alla sua preparazione; l’aspetto teologico-spirituale mette in luce, a mio giudizio, come nel suo impegno finalisticamente indirizzato alla celebrazione del Concilio, Pio XII abbia offerto un’ulteriore prova della sua figura non soltanto di grande pontefice, ma di uomo di Dio, di santo pontefice.

Lo stretto rapporto tra i due aspetti è confermato dal fatto che fu lo stesso Paolo VI, a Concilio aperto, a dare inizio alla causa di beatificazione e canonizzazione di Pio XII.

Il contributo di Pio XII alla preparazione del Concilio Vaticano II

Potrei iniziare e concludere questo mio intervento sul tema “Pio XII e il Concilio Vaticano II” limitandomi a riportare una affermazione del cardinale Giuseppe Siri, pronunciata nell’Aula sinodale in Vaticano, alla presenza di Giovanni Paolo II, l’8 ottobre 1983, nel venticinquesimo anniversario della morte di papa Pacelli. Disse l’allora arcivescovo di Genova: «Se si studiano gli indici del Vaticano II, si può agevolmente rilevare che, dopo quelle tratte dalla Sacra Scrittura, le citazioni più numerose sono quelle ricavate dagli scritti di questo Pontefice»1.

In realtà, mentre giustamente si considerano la convocazione e la celebrazione del Concilio ecumenico Vaticano II come una felice e straordinaria iniziativa per il rinnovamento della vita della Chiesa del nostro tempo da parte di Giovanni XXIII, troppo spesso si ignora o si tralascia di sottolineare che il Concilio Vaticano II fu attentamente e diligentemente preparato da Pio XII sin dall’indomani della sua elezione. Ecco perché gli stessi documenti definitivi del Concilio contengono 201 citazioni o riferimenti a 92 atti del magistero del suo pontificato2. Nella sola costituzione dogmatica Lumen gentium si contano 58 citazioni che rinviano al magistero di Pio XII.

Il compianto e carissimo amico padre Giovanni Caprile s.i., nella sua monumentale opera dedicata al Concilio Vaticano II, scrive che «anche sotto il pontificato di Pio XII riaffiorò l’idea di convocare un Concilio, e si compirono diversi passi nella preparazione di esso»3. Di questi passi il padre Caprile cita i documenti, alcuni dei quali, in quel momento, del tutto inediti4.

Per me che ho partecipato a tutte le sessioni del Concilio Vaticano II, dopo che sotto il pontificato di Pio XII ebbi l’onore e la responsabilità di svolgere compiti che mi portarono ad avere contatti con lui, il legame tra il magistero di Pio XII e i documenti approvati dal Concilio Vaticano II è sempre parso fuori discussione, a conferma di una chiara continuità magisteriale.

Lo ribadì anche Giovanni Paolo II nel quarantesimo anniversario dell’elezione a pontefice di Pio XII. Infatti, all’Angelus del 18 marzo 1979, ricordando il suo predecessore, disse: «In questo quarantesimo anniversario dall’inizio di quel significativo pontificato, non possiamo dimenticare quanto Pio XII contribuì alla preparazione teologica del Concilio Vaticano II, soprattutto per quanto riguarda la dottrina circa la Chiesa, le prime riforme liturgiche, il nuovo impulso dato agli studi biblici, la grande attenzione ai problemi del mondo contemporaneo»5.

A parte, infatti, i riferimenti sopra ricordati, l’esemplificazione è ridondante ed è estendibile a molti altri documenti conciliari.

È abbastanza consueto, per esempio, parlare della costituzione pastorale Gaudium et spes come del documento conciliare più aperto al dialogo con il mondo contemporaneo. Si ignora o si dimentica che già nel 1950 era pronto il testo di una Concilii oecumenici declaratio authentica, che deve considerarsi un documento precursore dei contenuti del futuro schema 13 approdato alla Gaudium et spes6.

È sufficiente leggerlo per rendersene conto7. Peraltro, quanto ad attenzione verso temi e problemi della società contemporanea, Pio XII, con particolari iniziative, valorizzò la Pontificia Accademia delle Scienze, fondata il 28 ottobre 1936 da Pio XI. Essa costituisce l’unica Accademia di scienze a carattere sovranazionale e a classe unica esistente nel mondo. Gli accademici pontifici sono scelti senza discriminazione fra gli insigni studiosi di scienze matematiche e sperimentali di ogni Paese. E tra essi, anche ai tempi di Pio XII, vi erano illustri studiosi ebrei.

Nel suo magistero, Pio XII volle eliminare affermazioni di incompatibilità tra la fede e la scienza. Non si tenne congresso scientifico di alto e altissimo livello al quale egli non abbia dedicato un discorso perfettamente informato, illuminante al punto di meravigliare gli illustri esponenti della scienza. Discorsi che scriveva personalmente e che preparava cominciando per alcuni, come quelli per il Santo Natale, anche mesi prima, dopo aver chiesto che gli fossero fornite la bibliografia e tutte le informazioni più aggiornate sulla materia da trattare. A volte, quando doveva affrontare argomenti attinenti, ad esempio, alla medicina, alla fisica, all’astronomia e ad altre tematiche di carattere altamente scientifico, redatto il discorso, invitava una persona di sua fiducia, maestro nella materia trattata, e la pregava di trattenersi in una stanza attigua al suo studio per esaminare e correggere il testo da lui preparato e si dispiaceva se non venivano apportate delle correzioni. Personalmente ho potuto toccare con mano queste particolari circostanze.

Quando, all’indomani della sua scomparsa, raccolsi e pubblicai in volume i Discorsi ai medici di Pio XII8, fu da ogni parte riconosciuto che il Papa aveva affrontato con scrupolosa diligenza, grande saggezza, e acuto senso di anticipazione dei tempi i più gravi problemi attinenti alla medicina e alla morale.

I Discorsi ai medici di Pio XII sono un vero e proprio manuale, che si confermò, per me e i miei collaboratori, fondamentale al momento di redigere, trent’anni più tardi, la prima Carta degli Operatori sanitari9.

Sebbene temi come l’anestesiologia, la chirurgia dei trapianti, la regolazione lecita delle nascite, l’eutanasia e la stessa ingegneria genetica non avessero intorno agli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento la risonanza di oggi, i principi morali dettati da Pio XII al riguardo restano insuperati10.

Si riconosce giustamente, perciò, che con la Humani generis11 Pio XII gettò un ponte di straordinaria efficacia per l’incontro tra scienza e fede. Tale enciclica, infatti, non soltanto spaziò contro gravi errori, ma rappresentò una forte affermazione di rispetto pieno non solo per la luce che la verità attinge dalla Rivelazione, ma anche per l’apporto insostituibile della ragione umana12. Come ha scritto il cardinale Siri, «l’enciclica Humani generis rappresenta una “Summa” che deve essere tenuta presente”: una “Summa” che fece dire a Giovanni XXIII che “Pio XII aveva compiuto, nel suo pontificato, un’enciclopedia teologica”».

Anche sensibilità e problematiche sociali affrontate dalla Gaudium et spes avevano trovato puntuale riscontro nel magistero e nel ministero di Pio XII.

Sul dovere dei cristiani di impegnarsi per la soluzione della questione sociale, Pio XII aveva parlato sin dagli inizi del suo pontificato, nel Radiomessaggio del 1° giugno 1941 in commemorazione del cinquantesimo anniversario della pubblicazione della Rerum novarum di Leone XIII13.

Non mi soffermo sulle Acli, le quali, a partire dal primo incontro che ebbero con Pio XII l’11 marzo 1945 fino all’indimenticabile 1° maggio 1955 in piazza San Pietro, trovarono nel Papa una guida forte e vigile, sollecita soprattutto di una solida formazione dell’operaio cattolico14.

Mi limito, invece, sempre in tema di sensibilità di Pio XII per i problemi sociali, a ricordare due particolari15.

Nel corso della costruzione della chiesa e delle strutture parrocchiali di San Leone Magno a Roma, nel 1952, ci fu comunicato il desiderio del Papa di incontrare le maestranze impegnate nell’opera. Volle riceverci in Vaticano il 12 marzo 1952, anniversario della sua incoronazione a pontefice, e la conferma dell’udienza ci colse impreparati. Giungemmo quasi con affanno nella Sala del Trono: gli operai erano nei loro abiti di lavoro, polverosi e rappezzati, con in testa i cappelli ricavati da giornali. Il Papa fu di una straordinaria affabilità, confondendosi in mezzo agli operai e dialogando con tutti16.

Ma, a proposito della sensibilità sociale di Pio XII, voglio ricordare anche un altro particolare. La lettera pastorale collettiva pubblicata nel 1962 dall’episcopato cileno, Il dovere sociale e politico nell’ora presente, recava come testo base queste parole di Pio XII: «La pace non ha niente in comune con l’aggrapparsi duramente e ostinatamente, con tenace e infantile caparbietà, a quanto più non esiste… Per un cristiano consapevole della propria responsabilità anche verso il più piccolo dei suoi fratelli, non esiste né la tranquillità indolente né la fuga, bensì la lotta, il lavoro contro ogni inattività e diserzione, nella grande contesa spirituale che vede messa in pericolo la costruzione, anzi la stessa anima, della società futura»17.

A nessuno può sfuggire la preveggente intuizione di Pio XII sui gravi problemi che stavano emergendo nel sud del mondo. Peraltro, i suoi interventi in materia sociale occupano vasto spazio nelle raccolte dei documenti sociali dei Papi del nostro tempo18.

Quando nel 1943 venne pubblicata l’enciclica Divino afflante Spiritu19 sul rinnovamento degli studi biblici, le direttive pontificie apparvero addirittura ardite. Poiché, pochi mesi prima, il 29 giugno, il Papa aveva pubblicato l’enciclica Mystici Corporis, non mancò chi manifestò meraviglia che, nel pieno del secondo conflitto mondiale, il Papa desse tanto risalto a problemi che potevano apparire astratti. In realtà quelle due encicliche furono profetiche e a esse si richiamarono, poi, con singolare frequenza, i documenti del Concilio Vaticano II.

Per quanto attiene all’ecumenismo, come ebbe a dire il cardinale Agostino Bea, sia in riferimento all’enciclica Mystici Corporis20, sia ad altri documenti di Pio XII, «ci sarebbero da dire tante cose belle che molti forse non sospettano»21.

Un’ultima annotazione voglio riservare alla sollecitudine di Pio XII per la struttura interna della Chiesa.

Una certa abitudine invalsa a motivo di una disattenzione non encomiabile verso i meriti di Pio XII porta a ignorare, ad esempio, che fu proprio lui, dieci anni prima dell’inizio del Concilio, a volere che, anche in Italia, fosse costituita la Conferenza episcopale. Il ritardo dell’Italia in questo campo aveva molteplici motivazioni, quasi tutte riconducibili alle conseguenze della fine dello Stato pontificio e dei difficili rapporti, fino alla Conciliazione, tra la Santa Sede e lo Stato italiano.

Con lodevole iniziativa, L’Osservatore Romano, in data 20 maggio 2002, ha pubblicato come supplemento il testo della conferenza tenuta presso l’Istituto Patristico Augustinianum dal professor Andrea Riccardi sui cinquant’anni della Cei22. La ricostruzione mette in luce come sia stato proprio Pio XII a volere la costituzione della Conferenza episcopale italiana23.

Tra le più grandi innovazioni del Vaticano II si annovera la riforma liturgica. Oggi si riconosce che i suoi capisaldi furono gettati nel 1947 da Pio XII con l’enciclica Mediator Dei24. Lo stesso deve dirsi circa l’internazionalizzazione della Curia romana e del Collegio cardinalizio, e della semplificazione degli abiti dei vari gradi di prelati.

Qualcuno ha scritto che Pio XII, in un periodo in cui le vocazioni abbondavano, aveva anche previsto la crisi di vocazioni sacerdotali e religiose che sarebbe avvenuta da partire dal postconcilio. È vero. Da oltre trent’anni la Chiesa, soprattutto nei Paesi a plurisecolare tradizione cristiana, soffre di una grave crisi di vocazioni sacerdotali e alla vita consacrata. Vorrei ricordare che già nel 1950 Pio XII, con l’esortazione apostolica Menti nostrae, pur non parlando di imminente crisi di vocazioni, era andato al cuore del problema, dicendo senza mezzi termini che a garantire il fiorire di vocazioni non poteva essere il ricorso alla preghiera. In un periodo in cui i seminari minori e maggiori e i collegi religiosi ridondavano di candidati, il Papa – con grande realismo e apertura d’animo – insisteva sulla necessità «di curare in modo particolare la formazione del carattere del ragazzo, sviluppando in esso il senso di responsabilità, la capacità di giudizio, lo spirito di iniziativa». Invitava i responsabili della formazione a «ricorrere con moderazione ai mezzi coercitivi, alleggerendo, man mano che i giovani crescono di età, il sistema della rigorosa sorveglianza e delle restrizioni, avviando i giovani stessi a guidarsi da sé e a sentire la responsabilità delle proprie azioni». Infine disponeva che i candidati al sacerdozio e alla vita religiosa conseguissero i titoli di studio pubblici affinché non avesse ad accadere che la loro perseveranza fosse dovuta al timore che, abbandonando, perché non vocati, il seminario, si trovassero nella condizione ricordata dal Vangelo: «Fodere non valeo, mendicare erubesco»: «Non sono capace di lavorare la terra, ma mi vergogno di andare all’elemosina» (Lc 16, 3)25.

Queste direttive, purtroppo, furono largamente disattese; se, invece, fossero state tenute nel debito conto, forse si sarebbe evitata la dolorosa emorragia verificatasi successivamente26. Vorrei poi notare che questo documento – che avrebbe avuto l’onore di un quarto delle 48 citazioni contenute nel decreto conciliare Optatam totius, sulla formazione sacerdotale – usciva in un anno che non andrebbe ricordato soltanto per il Giubileo e la definizione dogmatica dell’Assunzione corporea di Maria al cielo, ma per alcuni eventi gravissimi che colpivano al cuore la Chiesa nell’Est europeo in via di sovietizzazione: iniziava l’era della “Chiesa del silenzio”; avveniva la soppressione dei seminari e degli istituti religiosi e l’incameramento dei loro beni; infieriva la persecuzione contro i pastori; si faceva spietata la detenzione del primate di Ungheria cardinale József Mindszenty, arrestato il 27 dicembre 1948; identica e più spietata sorte attendeva l’arcivescovo di Zagabria cardinale Alojzije Stepinac.

In Occidente prevaleva l’ottimismo della ricostruzione postbellica, ma Pio XII, nel 1952, lanciava da Roma – purtroppo anche stavolta non sufficientemente ascoltato – una missione di rinnovamento che doveva investire, partendo dal centro della cristianità, tutta la Chiesa.

Il grande Pontefice presentiva che l’ondata di laicismo, di secolarizzazione, di esasperato individualismo, di crescente edonismo e consumismo che investiva l’Occidente avrebbe colpito al suo interno anche la Chiesa.

Né va dimenticato che Pio XII comprese e valorizzò al massimo, nel suo tempo, i mezzi di comunicazione di massa. Se dalla prudenza manifestata da Pio XI con l’enciclica Vigilanti cura (29 giugno 1936) si passò alla posizione interamente a favore e costruttiva dell’enciclica Miranda prorsus (8 settembre 1957), preparando il decreto conciliare Inter mirifica, ciò si dovette soprattutto all’importanza data da Pio XII all’utilizzazione – ai fini dell’evangelizzazione – dei mezzi di comunicazione di massa.

I Radiomessaggi di Pio XII, che a partire dalla sua elezione divennero lo strumento del suo magistero universale, costituirono – negli anni della guerra – il più instancabile richiamo alla pace e, negli anni successivi, un decisivo orientamento al formarsi delle moderne democrazie. Senza dire della loro rilevanza per la guida della Chiesa e il servizio alla sua unità. Si tenga presente, infatti, che non esistevano ancora le Conferenze episcopali né si celebravano le assemblee dei Sinodi dei vescovi.

Il pontificato di un uomo di Dio

Vi è un dato che lega l’intera attività, tutto il magistero e il ministero di Pio XII e che spiega la sua fermezza nei confronti dell’errore, la sua carità smisurata verso i deboli, i perseguitati e i bisognosi, la sua attenzione a tutti i problemi della società moderna. Questo elemento unificatore era dato dalla consapevolezza forte e insieme sofferta della dimensione spirituale del suo pontificato.

La santità di Pio XII è ciò che di questo Pontefice non ha bisogno di essere difeso, bensì di essere conosciuto.

La figura ieratica di Pio XII era lo specchio del suo profilo interiore e spirituale. Non soltanto fu un grande uomo; fu un grande uomo di Dio.

La sua condanna degli errori che provocavano sciagure sul piano politico e sociale muoveva dal desiderio irresistibile di mettere in guardia dai pericoli dell’ateismo, convinto che, senza Dio, non può aversi né libertà né giustizia né pace. Della stessa persecuzione subita dalla Chiesa nell’Unione Sovietica e nei Paesi dell’Europa orientale lo feriva ed era motivo di indicibile sofferenza prima di tutto e soprattutto l’ateismo che l’ispirava. I suoi riferimenti al materialismo e al comunismo sono sempre accompagnati dalla qualifica di ateo.

Mi limito a un particolare che considero emblematico. Quando si parla, soprattutto da parte della grande stampa, di Giovanni XXIII, si richiama come sua distinzione innovatrice quella che egli era solito ripetere: la distinzione, cioè, tra errore ed errante: da condannare l’errore, da avvicinare, capire, perdonare l’errante. Posizione ovviamente ineccepibile. Ebbene, nel 1952, in un momento in cui lo scontro con il comunismo ateo era durissimo, Pio XII pubblicò una lettera apostolica indirizzata ai «carissimi popoli della Russia» nella quale, proprio in riferimento al comunismo ateo, ribadiva la suddetta distinzione e lo faceva, secondo il suo solito, con una chiarezza straordinaria. Dice il documento: «Come richiede la consapevolezza dei doveri del nostro ufficio, abbiamo certamente condannato e respinto gli errori sostenuti dai fautori del comunismo ateo e che essi tentano in ogni modo di diffondere con enorme danno dei cittadini e con somma creazione di divisione; quanto agli erranti, invece, non solo non li respingiamo, ma desideriamo ardentemente che essi ritornino alla verità e alla retta condotta»27.

Uomo di Dio, si nutriva della preghiera. Quando pregava, a volte restava tanto assorto da non sentire chiunque lo chiamasse e da non avvertire neppure il familiare canarino che si posava e squittiva sulle sue mani giunte. Fu, quella della preghiera, una caratteristica che lo distinse sin da giovane, come attesta un testimone non sospetto come Ernesto Buonaiuti28.

Pio XII, inoltre, fu un grande asceta. Uomo di acutissima intelligenza, di severa preparazione maturata in anni in cui ricoprì delicatissime responsabilità, egli raggiunse un equilibrio interiore che fu certamente frutto di un lungo tirocinio.

Lavoratore instancabile, si sottoponeva a una disciplina rigorosa. Si intratteneva al tavolo di lavoro fino a notte inoltrata. Le sue pause dal lavoro erano pause di preghiera. Il suo ascetismo si trasferiva nel suo parlare, nel suo gestire, nell’attenzione che sapeva prestare a tutto e a tutti e nel bisogno di conoscere, in ogni evento e situazione, la verità da difendere e l’errore da combattere.

La disciplina interiore era maturata in lui attraverso la formazione di una coscienza integerrima che si rifletteva nella serietà e proprietà del linguaggio, che aborriva qualsivoglia forma di ambiguità.

Fu asceta perché amante della penitenza nel significato spirituale e mistico del termine.

Infine, Pio XII fu un vero e grande pastore. Il gesuita padre Agostino Bea, che fu suo confessore e fu creato cardinale da Giovanni XXIII, scrisse: «Forse ci vorranno decenni, probabilmente secoli, per misurare la grandezza di Pio XII e il suo influsso sulla Chiesa e, diciamolo pure, sulla storia dell’umanità»29. Affermazione certamente iperbolica per quanto riguarda i tempi, ma chiara per esprimere la grandezza non comune del Pontefice veramente sommo, e assai indicativa per sostenere che la figura e l’opera di Pio XII sono una ricca miniera per i tesori naturali e soprannaturali contenuti.

Da grande pastore Pio XII, aprendosi con grandi encicliche, come la Humani generis, alle istanze della cultura moderna, chiuse, di fatto, la fase tormentata del movimento modernista.

Con la definizione del dogma dell’Assunzione corporea di Maria e con l’impulso dato alla pietà mariana, ridiede onore alla mariologia e al culto mariano.

Grandi personaggi che hanno avvicinato Pio XII, lo hanno paragonato a Leone Magno, a Gregorio VII, a Leone XIII. Senza dubbio egli ha contribuito, come pochi, a dare alla Chiesa un prestigio morale fortemente incrinato sin dai tempi della Rivoluzione francese e dell’affermarsi dei sistemi liberali del XIX secolo.

Non mi soffermo, poi, su Pio XII uomo della carità, intesa come anima e sostegno della giustizia. Mi limiterò a segnalare un libro, certamente non dei più diffusi, di don Primo Mazzolari che, anche sotto Pio XII, qualcuno si ostina a ritenere fosse bersaglio di incomprensioni e ostilità che si vorrebbero far risalire allo stesso Pontefice30.

Nel 1956, don Mazzolari – che già nel 1934 era stato rimproverato dal Sant’Uffizio per il suo commento alla parabola del Figliuol prodigo La grande avventura – accettò l’invito rivoltogli da monsignor Ferdinando Baldelli, presidente della Pontificia Opera di Assistenza, a descrivere il ministero di carità di Pio XII.

Il libro La carità del Papa è, forse, il più bel ritratto di Pio XII, Papa della carità. Mi limito a una citazione tratta da questo scritto di don Mazzolari: «La nostra generazione ebbe un’esistenza tribolatissima, ma nessuno al pari di noi ebbe la grazia di vedere su tanto male ergersi la materna pietà della Chiesa, cosicché, narrandola, sentiamo di poter ripetere con san Giovanni: “Ciò che i miei occhi hanno visto, ciò che le mie mani hanno toccato del Verbo di carità, questo ora lo annunciamo”»31.

Incontrai l’ultima volta Pio XII il 6 ottobre 1958, tre giorni prima della morte. Nonostante la malferma salute, aveva voluto parlare ai partecipanti al X Congresso nazionale della Società italiana per la chirurgia plastica. In quella circostanza, con modernissima intuizione, aveva definito la chirurgia plastica «una scienza e un’arte, ordinate, in sé stesse, a beneficio dell’umanità e, altresì, per quanto concerne la persona del chirurgo, una professione in cui si trovano impegnati anche importanti valori etici e psicologici»32. E non erano tempi in cui si ricorreva come oggi alla chirurgia plastica!

Nel 1957, con il professor Luigi Gedda, avevo ottenuto dal Papa che scrivesse di suo pugno la “Preghiera del medico”. Volle consegnarla in copia autografa. Una preghiera che salda in maniera mirabile etica ippocratica e visione cristiana della vita. La preghiera fu letta per la prima volta da padre Pio da Pietrelcina in San Giovanni Rotondo, al termine del VII Congresso nazionale dei Medici cattolici italiani, celebrato a Bari il mese di maggio nel 1957.

Più volte, Pio XII, particolarmente negli ultimi cinque anni del suo pontificato, fu gravemente malato e si temette per la sua vita.

Ridondano le testimonianze sulla sua preparazione all’incontro con il Signore e sull’esemplare coraggio con cui accettò e visse la sua sofferenza.

Conclusione

Riscoprire Pio XII è riscoprire non soltanto un grande Pontefice, una figura che ha segnato la storia del secolo XX, ma è riscoprire un santo.

Padre Burkhart Schneider, il gesuita che fu condirettore dell’opera Actes et Documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, concludendo il suo acuto profilo di Pio XII, scriveva: «Sulla vita e sul pontificato di Pio XII incombe una fatalità tragica: non potere, anzitutto, impedire né abbreviare la Seconda guerra mondiale, con tutti gli orrori ad essa connessi. Ma chi esamini e ponderi senza prevenzione le fonti dirette, finora riconosciute, dovrà ammettere che Pio XII ha voluto il meglio e ha impegnato quanto era in suo potere e tutte le sue forze, integralmente, al servizio della Chiesa di Cristo e dell’umanità»33.

(Card. Fiorenzo Angelini, 30Giorni, 9/2008)

 

Note

1 G. Siri, Pio XII a 25 anni dalla sua morte, Roma 1983, p. 10.

2 Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II. Costituzioni, decreti, , Edizioni Domenicane, Alba 1996, «Indice del magistero pontificio», pp. 608-609.

3 G. Caprile (a cura di), Il Concilio Vaticano II. Cronache del Concilio Vaticano II edite da “La Civiltà Cattolica”. L’annuncio e la preparazione, 1959-1962, vol. I, parte I, 1959-1960, p. 15.

4 Ibid., p. 15 nota 1: «Ottenute le debite autorizzazioni, abbiamo potuto consultare numerosi documenti di prima mano custoditi nell’archivio della Congregazione per la Dottrina della fede».

5 L’Osservatore Romano, 19 marzo 1979, p. 1.

6 Ibid., pp. 30-32.

7 Nelle molte relazioni e comunicazioni tenute nell’incontro mondiale (Loreto, 9-11 novembre 1995) su “Gaudium et spes. Bilancio di un trentennio”, poi oggetto di un intero numero della rivista del Pontificio Consiglio per i Laici, Laici oggi (n. 29, 1996, pp. 1-289), non si trova traccia di questo documento preparato sotto Pio XII, il quale, in tutto il fitto volume, è menzionato fuggevolmente una sola volta (p. 228).

8 Pio XII, Discorsi ai medici, a cura di Fiorenzo Angelini, Orizzonte Medico, Roma 1961.

9 Carta degli Operatori sanitari, a cura del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori sanitari, Roma 1994.

10 Un esempio tra i tanti. In risposta al quesito postogli dalla Società italiana di anestesiologia, esponendo, il 28 febbraio 1957, il pensiero della Chiesa, dichiarò lecita la somministrazione di narcotici destinati a evitare al paziente dolori insopportabili, dovuti a tumori inoperabili o a malattie inguaribili, anche se tali narcotici favorivano l’abbreviamento della vita, a condizione che non si avesse alcun nesso causale diretto tra la narcosi e l’abbreviamento della vita. Con tale insegnamento, il grande Pontefice intravvide con anticipo l’attuarsi del problema dell’eutanasia (cfr. Discorsi ai medici, cit., pp. 571-581).

11 Lett. enc. Humani generis (12 agosto 1950), in Acta Apostolicae Sedis 42 (1950).

12 G. Siri, Pio XII a 25 anni dalla sua morte, cit., p. 10.

13 Cfr. F. Storchi, I documenti di Pio XII sull’ordine sociale, Ave, Roma 1944, p. 142.

14 «Non è raro il caso in cui l’operaio cattolico, per mancanza di una solida formazione religiosa, si trova disarmato, quando gli si propongono false idee sull’uomo e sul mondo, sulla storia, sulla struttura della società e dell’economia. Non è capace di rispondere, e talvolta si lascia persino contaminare dal veleno dell’errore. Questa formazione le Acli debbono dunque sempre più migliorare, persuase come sono che esercitano in tal modo quell’apostolato del lavoratore fra i lavoratori, che il Nostro Precedessore Pio XI di f.m. auspicava nella sua enciclica Quadragesimo anno (in I. Giordani [a cura di], Le encicliche sociali dei papi, Studium, Roma 1956, p. 1041).

15 Cfr. F. Angelini, La mia strada, Rizzoli, Milano 2004, pp. 159-160.

16 Cfr. A. Bozuffi, Gli uomini hanno trent’anni, Editrice Domani, Roma 1952, pp. 243-244.

17 Citato da Visión cristiana de la Revolución en América Latina, Centro Bellarmino, Santiago de Chile 1963, numero speciale della rivista Mensaje, 115, 1963, p. 29.

18 Cfr. I. Giordani (a cura di), Le encicliche sociali dei papi, Studium, Roma 1960.

19 Lett. enc. Divino afflante Spiritu (30 settembre 1943), in Acta Apostolicae Sedis 35 (1943).

20 Lett. enc. Mystici Corporis (29 giugno 1943), in Acta Apostolicae Sedis 35 (1943).

21 A. Bea, L’unione dei cristiani, Roma 1962, p. 203.

22 Cfr. L’Osservatore Romano, 22 maggio 2002, supplemento.

23 Ibid.: «Nel 1952, il Papa convocò i presidenti delle Conferenze episcopali regionali italiane. Questa decisione del 1952 è una svolta. Il 1952 è un anno particolare. Nel febbraio 1952 partiva un’importante mobilitazione, guidata da padre Lombardi, per “un mondo migliore”: il risveglio dei cattolici si doveva accompagnare con l’impegno di rendere più compatta e presente la Chiesa. Padre Lombardi criticava la frammentazione delle iniziative e delle istituzioni e, già dal 1948, aveva avanzato l’idea di una riunione dei vescovi italiani. Pio XII, senza seguire il gesuita in tutte le sue analisi, era preoccupato per la tenuta del cattolicesimo, soprattutto dopo il 18 aprile 1948, nel confronto con le sinistre nel Paese e a Roma (il 1952 è l’anno della cosiddetta “Operazione Sturzo”): era sensibile alla visione di padre Lombardi che proponeva anche una riforma dell’attività dei vescovi e delle diocesi. Nel 1952, con il “mondo migliore”, Pio XII auspicava un “potente risveglio”, ma anche un “saggio inquadramento” e un “assennato impiego” delle forze cattoliche. In questo clima avviene la prima riunione del presidenti della Cei a Firenze sotto la presidenza del cardinale Schüster, il più anziano dei porporati. A Firenze, i vescovi sono chiamati a parlare della “vita cristiana”, del clero secolare e regolare, e del laicato, secondo quanto scrive monsignor Urbani, assistente dell’Azione cattolica e segretario della riunione. L’iniziativa dell’incontro è da ascrivere al cardinale E. Ruffini di Palermo, che era alla testa di una conferenza regionale molto operosa. Il cardinale ne aveva parlato al Papa: “... e perché no? Va bene. Lo fanno anche in altri Paesi”, avrebbe detto Pio XII. Il cardinale Siri aveva appoggiato l’idea. Ruffini spiega la funzione della riunione: “Sentire i desideri di tutti i vescovi; raggiungere su alcune questioni un’intesa comune; presentare al Papa delle conclusioni. Non potrà non tenerne conto. Pronti a obbedire. È una bella occasione per iniziative, per riforme”. Questi sono gli scopi della prima e delle successive riunioni. Remore ci sono da parte dei vescovi che non vogliono travalicare una funzione consultiva. Quando, un anno dopo, si discute sull’eventualità di una lettera collettiva dell’episcopato, lo stesso Ruffini è contrario: “Un documento dell’episcopato italiano senza la firma del suo Primate, rappresenterebbe un atto incompleto...”. In Italia – afferma – la situazione è particolare. Qui i vescovi non hanno mai avuto un’attività collettiva distinta dalla Santa Sede. Siri è favorevole come Lercaro e Roncalli. Gli anni dell’origine mettono in luce una realtà: è la Santa Sede che sente la necessità di una maggiore responsabilizzazione dei vescovi. Forse l’aspetto prevalente è la consultazione interna dell’episcopato. Il primo atto pubblico è la lettera del 2 febbraio 1954 per l’Anno mariano, firmata dai presidenti delle regioni conciliari. E non c’è la firma del Papa. I firmatari affermano di interpretare tutti i vescovi italiani».

24 Il documento venne pubblicato il 23 settembre 1950 (cfr. Acta Apostolicae Sedis 42 [1950], pp. 617-702).

25 Ibid., «Norme pratiche».

26 Cfr. E. Colagiovanni, Crisi vere e false nel ruolo del prete, Città Nuova, Roma 1973, pp. 133ss.

27 «Utique errores – quod officii Nostri conscientia postulat – damnavimus atque reiecimus, quod athei comunismi fautores praedicant, ac summo cum civium damno summaque iactura propagare enituntur: sed errantes, nedum respuamus, ad veritatem ad frugemque bonam redire cupimus» (lett. apost. Carissimis Russiae populis, 7 luglio 1952, in Acta Apostolicae Sedis 44 [1952], pp. 505-511).

28 Ernesto Buonaiuti, ricordando il giorno della sua prima messa nella Chiesa Nuova a Roma (19 dicembre 1903), scrive: «Su quel medesimo altare di san Filippo non molto tempo prima aveva celebrato la sua prima messa un sacerdote romano che abitava anch’egli nei paraggi della Chiesa Nuova e che io incontravo di frequente sotto le volte della chiesa e ammiravo per la sua edificante pietà: il sacerdote Eugenio Pacelli» (in Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, Laterza, Bari 1964, p. 46).

29 Ibid., p. 395.

30 P. Mazzolari, La carità del Papa. Pio XII e la ricostruzione dell’Italia (1943-1953), Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1991.

31 Ibid., p. 134.

32 Pio XII, Discorsi ai medici, cit., p. 717.

33 B. Schneider, Pio XII. Pace, opera della giustizia, Edizioni Paoline, Roma 1984, pp. 104-105.

 

 

 

 


 

La Divina Provvidenza non fa mai bancarotta

(16 novembre 2008)

 

L’onda della crisi finanziaria americana investe l’Europa ed è fonte di discussioni sul futuro della economia planetaria. Alcuni vi vedono il fallimento della ideologia di mercato e l’avverarsi delle previsioni sulla fine del capitalismo. Altri, confidando nella capacità dei mercati ad auto-regolarsi, la considerano come una crisi fisiologica, che porterà ad un naturale riaggiustamento dei prezzi.

Le vie di uscita, in un caso o nell’altro, vengono indicate all’interno del sistema economico vigente, basato su una filosofia dell’economia che oscilla pendolarmente tra i due modelli del liberalismo puro e dell’interventismo statale. E poiché né l’individuo, né lo Stato, né il privato, né il pubblico, hanno capacità salvifiche, per rimediare alle inadeguatezze dei due sistemi si suggeriscono “terze vie” caratterizzate dalla presenza di entrambi gli elementi – Stato e mercato – in cui ciò che cambia è solo il dosaggio degli ingredienti.

L’idea di superare la crisi attraverso una giusta combinazione tra economia pubblica ed economia privata, tra regole economiche e libertà individuale, è illusoria, perché non arriva a cogliere il fondo del problema. Si pretende di rimanere all’interno di un sistema viziato nelle sue radici, mentre si tratta di fuoriuscire dal meccanismo e comprendere la necessità di fondare l’economia su un fattore diverso dall’economia stessa.

L’economia infatti, come la politica, o qualsiasi altra pretesa scienza umana, non può essere considerata come autonoma e autoreferenziale. L’uomo non ha una pluralità di fini e la società, che è al servizio del bene comune dell’uomo, non può avere una molteplicità di “scienze” separate tra loro e prive di un fine comune. L’uomo e la società, in tutte le sue espressioni, hanno un unico fine soprannaturale, Dio stesso, da cui dipende non solo la felicità eterna e assoluta nel cielo, ma anche quella relativa e imperfetta sulla terra.

Quando la scienza si rende indipendente dalla morale e dalla filosofia, si fa essa stessa morale, filosofia e, spesso, religione. La scienza diviene scientismo e lo scientismo ha i suoi dogmi, il suo culto, i suoi sacerdoti. Ciò accade non solo per le scienze biologiche e naturali, ma anche per quelle politiche ed economiche. Lord Keynes è stato indubbiamente un “Gran sacerdote” dell’economia moderna, ma i suoi detrattori si sono spesso ispirati a una religione del mercato non meno assoluta di quella dell’economista britannico.

La produzione di beni della società contemporanea, ispirata da un radicale edonismo, è orientata ad un consumo di beni eminentemente materiali, effimeri, a buon mercato. Ciò comporta la perdita del senso del sacrificio, inteso come la capacità di rinuncia a un bene immediato e/o apparente per ottenere un bene vero, anche più remoto.

L’edonismo si combina con un relativismo morale fondato sull’idea di una libertà fuori di ogni regola. La libertà infatti è per definizione relativa, ossia è sempre libertà di un soggetto limitato nel tempo e nello spazio, per raggiungere un obiettivo specifico, relativo alla propria perfezione. La libertà non è dunque la possibilità di scegliere tra il bene o il male, ma la capacità di ordinarci a beni che la ragione ci indica come più perfetti. Si confonde altrimenti la libertà psicologica con la libertà morale. Dal punto di vista psicologico, l’uomo può fare ciò che vuole, da un punto di vista morale l’uomo è libero solo quando sceglie il bene.

La libertà è relativa, anche perché ha bisogno di limiti per orientarsi verso il suo fine e raggiungerlo più efficacemente. La vera libertà umana ha una propria natura, un oggetto definito, regole da seguire. L’idea che limitare la libertà significhi comprimerla, presuppone una falsa idea di libertà: una libertà assoluta per la quale ogni limite, in quanto tale, costituisce un elemento negativo.

In realtà, se la libertà non è assoluta, il limite deve essere inteso come il fattore positivo che ne permette lo sviluppo e la perfezione. Il limite quindi non è l’ostacolo, ma il mezzo per raggiungere il fine. Nel campo economico chi deve porre limiti e regole non è però lo Stato, ma la legge naturale e divina, con i suoi precetti che regolano ogni campo dell’attività umana. La vera libertà morale dell’uomo, o l’unico limite alla sua libertà psicologica, sta nel non violare i Dieci Comandamenti. La scienza economica non è in grado, da sola, di risolvere i problemi economici, perché si fonda su di una concezione irrealistica dell’uomo, ridotto a puro homo oeconomicus, prescindendo dal suo fine soprannaturale.

«Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà», – ha affermato Benedetto XVI il 6 ottobre, parlando all’inizio della prima congregazione generale del Sinodo dei Vescovi. «E per essere realisti – ha aggiunto il Papa – dobbiamo proprio contare su questa realtà.

Dobbiamo cambiare la nostra idea che la materia, le cose solide, da toccare, sarebbero la realtà più solida, più sicura. Alla fine del Sermone della Montagna il Signore ci parla delle due possibilità di costruire la casa della propria vita: sulla sabbia e sulla roccia. Sulla sabbia costruisce chi costruisce solo sulle cose visibili e tangibili, sul successo, sulla carriera, sui soldi. Apparentemente queste sono le vere realtà. Ma tutto questo un giorno passerà. Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente.

E così tutte queste cose, che sembrano la vera realtà sulla quale contare, sono realtà di secondo ordine. Chi costruisce la sua vita su queste realtà, sulla materia, sul successo, su tutto quello che appare, costruisce sulla sabbia. Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà, è stabile come il cielo e più che il cielo, è la realtà. Quindi dobbiamo cambiare il nostro concetto di realismo. Realista è chi riconosce nella Parola di Dio, in questa realtà apparentemente così debole, il fondamento di tutto. Realista è chi costruisce la sua vita su questo fondamento che rimane in permanenza».

Il ritorno alla realtà, naturale e soprannaturale, è il primo passo per uscire dalla crisi che attraversiamo. Questa crisi non è solo economica: è politica, culturale, morale e, nel fondo, essenzialmente religiosa. Comprenderlo e agire di conseguenza è l’unica strada per evitare che la bufera che incombe si trasformi presto in un devastante uragano.

Dio resta il fondamento di tutta la realtà. Le grandi banche possono crollare, ma la Divina Provvidenza come affermava san Giuseppe Cottolengo, non fa mai bancarotta. (Roberto de Mattei, Radici Cristiane,  n. 39 - Novembre 2008)

 

 

 


 

Il Decalogo nero dell’ideologia anti-life

(23 novembre 2008)

 

Una strategia nichilista per far accettare le pratiche contro la vita: dall’aborto all’eutanasia, dalla Fivet alle sperimentazioni embrionali. Un compendio in dieci punti degli elementi essenziali della cultura di morte. Un «segno eloquente di una pericolosissima crisi del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Di fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno» (Evangelium vitae, n. 58).

Pirandello era dell'opinione che la vita fosse regolata dal caso. Tommaso d'Aquino gli avrebbe risposto che solo alcune cose avvengono per caso ma non tutte (1). Tra queste ultime con sicurezza devono essere annoverate quelle sconfitte culturali e giuridiche subite, a livello nazionale e non, nel campo della bioetica e più in generale in quello della morale naturale. Aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, sperimentazione su embrioni, contraccezione, divorzio, riconoscimento giuridico delle convivenze comprese quelle omosessuali, legalizzazione della cannabis, et simìlia sono realtà su cui già si è legiferato - o si ha intenzione di farlo - oppure sono fenomeni ampiamente accettati dal sentire comune. Ma come si è arrivati a questo punto? Per caso? No di certo. Infatti per raggiungere simili risultati occorre una strategia coerente e ben strutturata. Proviamo ora a vedere quali sono gli elementi di questa strategia, una sorta di decalogo nero che disconosce le verità fondamentali sull'uomo (2).

 

1. Un passo alla volta. È la soluzione tattica più frequentemente usata, dagli effetti assai perniciosi e su cui perciò ci soffermeremo un poco più a lungo. Parte da una costatazione evidente: la vetta si conquista pian piano, metro per metro. Di questo sono ben coscienti coloro che vogliono sovvertire l'ordine naturale del creato. Si tratta della famosa teoria del piano inclinato. Provate a mettere una biglia su un piano inclinato: questa all'inizio si muoverà lentamente ma poi acquisterà sempre più velocità. Tale principio è rinvenibile nella legge 194 che permette l'aborto procurato.

Se si legge con superficialità tale norma, l'aborto risulta essere l’extrema ratio, l'ultima spiaggia, e non la prima soluzione a cui ricorrere per chi affronta una gravidanza indesiderata. Il fronte pro-choice in modo furbesco ha convinto un po' tutti che è lecito abortire solo dopo aver percorso obbligatoriamente un iter che prospetta alla donna una serie efficace di alternative per ovviare alla scelta abortiva: non riconoscere il figlio, chiedere aiuto per mezzo dei consultori agli enti locali e non, obbligo dei consultori di rimuovere tutti quegli ostacoli, di qualsiasi natura essi siano, che possano impedire la nascita del bambino, ecc.

Purtroppo la maggior parte di tali oneri vengono in essere solo se la donna si rivolge ai consultori. Se invece, come accade il più delle volte, si reca da un medico di fiducia (non necessariamente il medico di famiglia) o presso una struttura socio-sanitaria, molti di questi adempimenti evaporano. Così ai nemici della vita è bastato dipingere nella 194 la possibilità di abortire come ultima chance, o meglio: farla percepire alla gente come tale, ben sicuri che in poco tempo da ultima opzione si sarebbe trasformata in quella privilegiata, mutando poi gli eventuali obblighi di legge in mere formalità da trascurare.

È anche ciò che sta accadendo per il dibattito sull'eutanasia: molte forze progressiste hanno proposto progetti di legge in cui non si fa menzione esplicita della possibilità di ricorrere all'eutanasia ma si propone solo lo strumento del testamento biologico. Questo sarà il primo passo, la testa di ponte per avere l'eutanasia a tutti gli effetti. Così ha previsto Piergiorgio Welby nel suo Lasciatemi morire (3). Ecco infatti gli steps che egli suggerisce per arrivare alla legalizzazione della dolce morte. Avere una legge sul testamento biologico (fase giuridica); assegnare alla Commissione Sanità lo studio degli aspetti legati a nutrizione e idratazione (fase medica); indagine sull'eutanasia clandestina (fase sociologica); formare i medici (fase pedagogica); legge sull'eutanasia (fase finale giuridica).

L'effetto domino - fai cadere una tessera e cadranno tutte le altre — è ben riscontrabile in questa materia fuori dai confini del nostro Paese, dove sono venuti in essere scenari realmente inquietanti. In Olanda la depenalizzazione dell'eutanasia risale al 1993. Dieci anni dopo, nel giugno 2003, la prestigiosa rivista scientifica Lancet ci comunica che il 2,6% dei certificati di morte redatti in Olanda nell'anno 2001 erano da addebitarsi ad atti eutanasici (3.647 persone) di cui lo 0,7% senza consenso del paziente (982 persone).

Come vuole la logica del «un passo dopo l'altro» l'ordinamento giuridico del Paese dei tulipani cercò apparentemente di mettere riparo alla situazione rendendo lecite nel 2001 le pratiche eutanasiche ma nel rispetto di rigorose condizioni. Tale legge infatti prevedeva per la richiesta di volontaria soppressione una serie di requisiti - i famigerati paletti tanto invocati anche da molti politicanti nostrani -così stringenti e severi che parevano a prova di bomba: soggetto cosciente e maggiorenne, volontà reiterata, firma di due medici, stadio terminale, solo per atroci sofferenze e senza prospettive di miglioramento. Passa qualche anno ed Eduard Verhagen, autore del protocollo Groningen sull'eutanasia infantile in Olanda ci informa dalle colonne del New England Journal of Medicine del 10 marzo 2005 che questi paletti sono saltati tutti: su 1.000 bambini che muoiono in un anno, 600 smettono di vivere per una pratica eutanasica.

 

Libido di morte.

La libido di morte è poi di per sé diffusiva, ed è aiutata anche da una prassi abortiva che in Europa ha assunto i toni della normalità. Infatti all'inizio di quest'anno il Sunday Times rendeva nota un'intervista a John Harris, medico inglese, professore di bioetica dell'Università di Manchester, membro della Commissione governativa Human Genetic, il quale si domandava retoricamente perché possiamo uccidere il feto malformato e non un neonato malformato. Sulla stessa scia omicida si pongono i recenti pareri del Royal College di Ostetricia e Ginecologia e del Nuffield Council on Bioethics.

Il primo propone l'eutanasia attiva per i neonati disabili, così si risparmiano ai parenti shock emozionali e dissesti finanziari, affermando che una bambino disabile è una famiglia disabile (4).

Il secondo suggerisce per i prematuri nati sotto la 23a settimana la non assistenza perché hanno poche possibilità di salvezza. Proposte a cui fa eco la decisione della ginecologa Giovanna Scassellati del San Camillo di Roma, responsabile del centro per le interruzioni volontarie di gravidanza, la quale ha affermato che nel suo reparto chi decide per un aborto tardivo firma un «consenso informato» per non far rianimare il piccolo, qualora sopravvivesse (5).

Insomma: provocate una fessura nella parete di una diga e prima o poi crollerà la diga intera. Lo scivolamento verso il basso e sempre più accelerato è ben visibile nelle tecniche di fecondazione artificiale. Nate in principio per soddisfare il desiderio del figlio si sono trasformate ben presto in strumenti per soddisfare le voglie di maternità di donne single o appartenenti a coppie lesbiche, oppure di vedove che possono utilizzare gameti del marito morto da una dozzina di mesi (si veda per questi ultimi tre casi per esempio la legislazione in Spagna [6]).

Poi si sono involute in tecniche per l'uccisione di embrioni al fine di trovare improbabili terapie per malattie a oggi incurabili, magari attraverso la cosiddetta clonazione terapeutica come avviene sempre in terra iberica (7). E infine in mezzi per creare mostri. Infatti all'inizio del settembre 2007 la Hfea, forse la massima autorità di bioetica inglese, si era dichiarata favorevole alla creazione di ibridi attraverso un procedimento di clonazione: ovocita di mucca con all'interno Dna totalmente umano.

Il risultato sarebbe un essere (umano?) con il 99,9% di patrimonio genetico umano e una minima frazione di percentuale, lo 0,01%, di patrimonio genetico animale (8). «Percentuale variabile di umanità» si legge sulla prima pagina de Il Foglio di mercoledì 5 settembre. Trascorrono pochi mesi e nel maggio 2008 il Parlamento inglese ha votato a favore degli ibridi umano-animali. Anche riguardo allo snaturamento dell'istituto matrimoniale si è scelto di procedere con prudenza. Grillini nel luglio 2002 fu il primo firmatario di una proposta di legge (9) che prevedeva sic et simpliciter il matrimonio omosessuale.

Resosi conto che i tempi erano prematuri per un simile passo si risolse a chiedere successivamente forme attenuate dello stesso, cioè il riconoscimento delle convivenze anche per gli omosessuali. Infatti così lo stesso Grillini motiva la sua strategia nella Proposta di legge denominata «Disciplina dell'Unione affettiva» dell'aprile 2003 (10): «Si è [...] ritenuto di optare per un criterio gradualistico e realistico (tale cioè di rendere realistica la possibilità che la proposta di legge venga presa in seria considerazione, e che essa non possa anzi essere ignorata o accantonata)».

 

2. Chiedi 100 per ottenere 50. È una strategia opposta alla precedente. Nel suo enunciato è semplice: se chiedi molto qualcosa avrai. Così le forze politiche, che oggi si ha il vezzo di chiamare «della sinistra radicale», al tempo della legalizzazione dell'aborto procurato chiedevano che si potesse interrompere la gravidanza sempre e comunque. I cattolici, almeno quelli veri, si opponevano all'aborto, in modo esattamente speculare, sempre e comunque. Il legislatore si pose nel mezzo cercando, con malcelato spirito liberale, di accontentare tutti o scontentare tutti: aborto sì, ma a certe condizioni. Stessa idea è oggi perseguita dai radicali per il dibattito sul testamento di fine vita: chiedono l'eutanasia per avere perlomeno il Dat, le dichiarazioni anticipate di trattamento. Si possono rintracciare i segni di questa particolare tattica culturale anche nelle affermazioni dell'onorevole Fassino pronunciate nella puntata dell'8 febbraio 2006 di Otto e mezzo il quale ammise che se non fossero divenuti legge i Pacs forse era sperabile che perlomeno i Contratti di convivenza solidale proposti da Rutelli potessero passare perché forma meno radicale rispetto ai primi.

 

3. Normale = giusto: rendere lecito ciò che accade nella prassi. Se un comportamento è diffuso nei costumi delle persone vuoi dire che è normale, quindi giusto (11). Se è giusto sotto il profilo morale allora non si vede la ragione per non renderlo lecito dal punto di vista giuridico. Il sillogismo per nulla aristotelico è stato applicato molte volte nel passato e suggerito spesso nel presente. L'aborto e l'eutanasia clandestina, le separazioni di fatto all'interno dei nuclei familiari, l'uso di droghe erroneamente definite leggere, la diffusione della convivenza prematrimoniale, il ricorso alle tecniche di fecondazione artificiale, legittimano di per sé il parlamentare a produrre norme per rendere lecito ciò che è già presente come comportamento tra la gente, o supposto come tale.

L'ottica perversa attraverso la quale si vuole avere una legge afferma che è sicuramente buono ciò che accade (12). Lo Stato quindi non sceglie più quali azioni punire o semmai tollerare perché lesive del bene comune, ma semplicemente prende atto di «come vanno le cose», registra le condotte degli individui e quando queste raggiungono un numero rilevante non può che legittimarle con tanto di carta bollata. Il ragionamento è diventato verità dogmatica soprattutto riguardo alla fecondazione artificiale. Quante volte infatti abbiamo sentito o letto che la legge 40 poneva ordine in una situazione da «far west» e quindi era da salutarsi come una buona legge?

Pochi sono stati coloro che hanno invece obiettato che di fronte alle pratiche diffuse della procreazione artificiale l'opzione della legittimazione della stessa non era lecita moralmente dovendo il legislatore all'opposto vietarla (13). I costumi però mutano negli anni, o, come si sente spesso ripetere, se i tempi cambiano, cambia anche la morale. È di questo avviso Grillini che nella seduta del 21 luglio 2005 della Commissione Giustizia fa intendere che la Costituzione non parla esplicitamente di coppie conviventi dato che il fenomeno sociale era pressoché inesistente. Oggi invece essendo le convivenze numericamente più diffuse lo Stato non può far altro che tutelarle giuridicamente.

Seguendo dunque la logica che sono le condotte diffuse nella società a dettar legge è doveroso domandarsi a quando la legalizzazione di furti e omicidi, dato che — a quanto ci risulta — sono assai diffusi?

 

4. Rispettare l'opinione della maggioranza. In regime di democrazia l'unica voce che conta è quella del popolo, e poco importa che questo spesso, ma non sempre, sia bue. Caso paradigmatico in questo senso è quello della legge spagnola n. 35/88 in tema di tecniche riproduttive che parla di «un'etica di carattere civico o civile con attenzione al consenso sociale vigente». Ed ecco allora per suffragare le proprie decisioni politiche snocciolare i dati di sondaggi i quali con previdenza non possono che portare acqua al proprio mulino. Per citare uno tra i tanti casi, facciamo riferimento a un'indagine svolta dall'Eurispes su eutanasia, accanimento terapeutico e testamento biologico, svolta tra metà novembre e metà dicembre 2006.

Ben il 74% degli italiani intervistati si mostrava favorevole all'eutanasia. Peccato che la domanda fosse equivoca, potendo essere interpretata dall'uomo della strada sia come rifiuto a trattamenti che configurerebbero l'accanimento terapeutico, sia come accettazione di pratiche eutanasiche (14) Peccato poi che il sondaggio si svolse proprio nel periodo in cui il caso Welby era caldissimo, influenzando molto le risposte, date sull'onda emotiva delle immagini di Welby sofferente che milioni di italiani vedevano quotidianamente in Tv o sui principali giornali nazionali. Infatti proprio un anno prima era stata condotta un'indagine simile dando risultati ben diversi: solo 4 italiani su 10 si mostravano favorevoli alla dolce morte.

Senza contare il fatto che i dati delle ricerche vanno resi pubblici unicamente se sono di conforto alle proprie tesi. Nella bufera sui Dico di circa un anno fa, ben pochi organi di informazione resero noto che, secondo un sondaggio della società Codres di Roma (febbraio 2007), su 1.000 intervistati solo il 6% riteneva i Dico una questione importante. Tale risultato faceva da riscontro al dato della sparuta percentuale del 3,9% delle coppie di fatto che hanno voluto la registrazione della propria situazione di convivenza nel Registro delle Unioni civili, già esistente in alcuni comuni italiani così come previsto da una legge del '90 (15).

Ma se il destro non può venire dai sondaggi, rimangono sempre i referendum su cui fare affidamento. Quelli persi su divorzio e aborto vengono sempre citati per sostenere la tesi che «così vuole il popolo». Quello invece riguardante la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, disertato da più del 70% dell'elettorato, chissà perché è già caduto in prescrizione. Insomma pare proprio che la maggioranza debba essere ascoltata solo se la pensa come il politico progressista.

 

5. Sfruttare l'emozione del caso limite. È la ragione che è deputata a determinare quali atti sono leciti o illeciti sotto il profilo morale. Non il sentimento. Far leva sulle emozioni è invece una strategia furba e iniqua. Argomentare che l'aborto volontario è sempre iniquo comporta passaggi logici complessi e spesso lunghi. Raccontare invece la storia di una donna violentata che ha scelto di abortire porta molti più consensi e più velocemente. Spiegare le differenze tra atti eutanasici e accanimento terapeutico è laborioso, sbattere in prima pagina il viso gonfio e privo di espressione di Welby invece cattura più facilmente l'attenzione del telespettatore e lo recluta all'istante tra le file dei filo-eutanasici.

È inutile poi domandarsi perché solo alcuni casi pietosi hanno i meriti sufficienti per avere gli onori della ribalta. Che dire infatti di quel gruppetto di pazienti affetti dalla stessa malattia di Welby che nel settembre del 2006, mentre quest'ultimo scriveva a Napolitano, furono portati in barella davanti alla sede del Ministero della Sanità chiedendo non di morire ma più soldi per la ricerca? Che dire del professor Melazzini, primario oncologo, anch'egli colpito da sclerosi laterale amiotrofica, che muove solo tre dita e vuole continuare a vivere? Anche in questo caso i media hanno assunto come propria la regola del «due pesi e due misure».

 

6. Una specialità dei radicali: mentire. È un trucco che si impara fin da piccoli. Il problema diventa serio quando tale comportamento viene assunto da persone adulte, con responsabilità pubbliche e su temi importanti. La menzogna è una specialità propria dei radicali. Ancor oggi è possibile ascoltare qualche loro esponente il quale asserisce con sicumera che grazie alla 194 gli aborti clandestini sono diminuiti del 79%. Questo è un clamoroso autogol. Infatti come si può sapere con tale precisione a quanto ammontavano, o a quanto ammontano, gli aborti clandestini dato che sono clandestini e che quindi non esistono documenti, carte o testimonianze le quali ci potrebbero fornire qualche numero a riguardo? Senza poi tenere in considerazione il fatto che all'anno vengono celebrati nel nostro Paese dai 30 ai 50 processi per aborto clandestino.

Segno inequivocabile che il numero di interventi praticati in strutture non idonee è assai più rilevante che 30 o 50, dato che si finisce davanti a un giudice solo se qualcosa è andato storto. È insomma una prova indiretta che la 194 è ben lungi dall'aver eliminato il fenomeno delle interruzioni delle gravidanze «al buio». Falsa è anche la cifra di 25.000 donne che ogni anno morivano per aborto clandestino prima della 194. Se il numero di aborti clandestini non si può contare, non così avviene per il numero di donne che muoiono nell'arco di 12 mesi.

È bastato andare a vedere le statistiche sulle cause di morte e si è scoperto che la mortalità femminile annua, delle donne in età fertile, negli anni Settanta era atte¬stata sui 10.000-15.000 decessi, provocati non solo dall'aborto ma a seguito di qualsiasi altro fattore quali malattie, incidenti, omicidi, ecc. Menzognera è infine l'affermazione che la legalizzazione dell'aborto ha causato una diminuzione delle richieste di interrompere la gravidanza. Si affermava che prima del 1978, anno in cui fu approvata la legge 194, si praticavano 3.000.000 di aborti, quando invece nel primo anno di applicazione della legge si arrivò alla cifra di 187.000. È ben difficile immaginare che nel giro di un solo anno si sia passati da 3 milioni di aborti a 187.000, soprattutto per il fatto che prima della 194 l'aborto era reato e poteva prevedere anche la reclusione.

L'escamotage della menzogna è stato usato con successo anche nell'attuale battaglia per il riconoscimento giuridico delle unioni di fatto. Grillini, nella già citata proposta di legge dell'aprile 2003 riguardante la disciplina delle «Unioni affettive», afferma per rassicurare gli animi che in questo documento non si chiede la possibilità che una coppia omosessuale possa adottare un bambino aggiungendo che «nessuno degli ormai numerosi progetti di legge presentati negli scorsi anni alle Camere in questa materia su sollecitazione delle associazioni gay italiane ha mai affrontato la questione» (16).

Peccato che fu lo stesso Grillini a chiedere qualche mese prima, precisamente nel luglio 2002, l'adozione per la coppie omosessuali all'art. 3 della Proposta di legge n. 2.982: «Al rapporto di unione civile e al matrimonio fra persone dello stesso sesso sono estesi i diritti spettanti al nucleo familiare, secondo criteri di parità di trattamento. In particolare si applicano le norme civili, penali, amministrative, processuali e fiscali, vigenti per le coppie che hanno contratto matrimonio, ivi compresi l'accesso agli istituti dell'adozione e dell'affidamento» (17). Senza poi contare le due proposte dell'onorevole De Simone, quella dell'onorevole Malarba e un disegno di legge Malarba-Sodano, tutte antecedenti all'aprile 2003 e che chiedevano l'adozione per le coppie omosessuali.

In sintesi: la menzogna poggia su una duplice e realistica considerazione. In primo luogo pochi andranno a verificare l'affermazione fatta, e in secondo luogo è molto più facile mentire che contestare punto per punto una falsità dato che ciò comporta studio, tempo e fatica.

 

7. Usare il volto noto. Le più riuscite campagne pubblicitarie sono quelle in cui il prodotto da vendere è presentato da un personaggio conosciuto. Il viso noto sponsorizza l'articolo da mettere in commercio. Tale strategia di marketing è usata spesso anche nelle battaglie sulle questioni etiche. Pensiamo al caso della sorridente coppia Veronesi-Ferilli che si è spesa per la modifica della legge 40 al tempo del referendum del 2005; o al solo Veronesi ideatore della costituzione di un Registro nazionale per i testamenti biologici; o al presentatore Cecchi Paone e all'attore Lino Banfi, alias nonno Libero, in prima linea per il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali.

Lo sfruttamento di questi e altri testimonial si incardina su un fondamentale punto di ordine psicologico: si estende indebitamente la competenza professionale del personaggio famoso in un ambito invece che non gli è proprio (18). In tal modo la fiducia che l'uomo della strada accredita alla celebrità a motivo delle sue doti di oncologo o di showman si trasferisce poi illogicamente in campi non strettamente pertinenti allo loro attività. Le tesi più contrarie al buon senso si ammantano di autorevolezza.

Chiamare per esempio Margherita Hack, come è avvenuto in una puntata di un'edizione del Maurizio Costanzo show, a pronunciarsi sulla liceità dell'eutanasia produce uno sconfinamento delle competenze della scienziata, la quale sarà pure un'eminenza nell'astrofisica ma nel campo della morale naturale non può vantare uguale preparazione. E così l'opinione dell'accademico VIP diventa tesi scientifica assolutamente credibile. Di frequente poi la presenza del volto noto si accompagna ad atti provocatori: Pannella che distribuisce hashish ai passanti di Piazza Navona; il filosofo Gianni Vattimo che fa da testimone insieme a Grillini alla celebrazione di fìnte nozze gay da parte di due signori presso il Consolato francese a Roma, avvenuto aderendo al Pacs made in Francia, con tanto di scambio di fedi nuziali sullo scalone del Consolato a vantaggio degli obiettivi dei reporter.

 

8. Rivoluzione linguistica. Le parole. Cambiare il senso delle parole porta a cambiare la percezione della realtà. Nella battaglia culturale è di primaria importanza la rivoluzione linguistica (19). Più che il significato dei termini è importante il loro suono, la loro eufonia. Non più omicidio prenatale, ma aborto. Anzi: interruzione volontaria della gravidanza che scolora nell'ancor più asettico e mite acronimo Ivg. Non omicidio del consenziente o aiuto al suicidio: assolutamente meglio eutanasia. Ma dato che quest'ultima può evocare spettri nazisti si preferiscono le perifrasi «dolce morte», «testamento biologico» (insieme al suo «zio d'America» living will), o i termini coniati da Welby quali biodignità, ecomorire, fine cosciente (20).

Non fecondazione artificiale ma procreazione medicalmente assistita che rappresenta in modo falso la realtà dato che il medico non aiuta la coppia a procreare ma si sostituisce a essa in questo atto. Non convivenza more uxorio ma patti civili di solidarietà, così chi fosse contrario a essi verrebbe tacciato di essere incivile e poco solidale. Non marito e moglie ma semplicemente coniugi, termine che annulla in sé le differenze di sesso potendo essere i coniugi entrambi maschi o entrambe femmine. Non droghe punto e basta. Ma droghe leggere, quasi che la salute o la vita fossero cose di poco conto, pari al peso minimo di uno spinello.

 

9. L'esterofilia. Per sapere se le nostre leggi sono buone la pietra di paragone non è il bene comune, bensì spesso sono gli ordinamenti giuridici di altri Stati. L'Italia - così si sente ripetere come un mantra - è all'ultimo posto in Europa nella sperimentazione sugli embrioni, nell'accesso alle tecniche di fecondazione artificiale, nel riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali ecc. L'argomentazione è con evidenza debolissima: se il mio vicino di pianerottolo ammazza e ruba significa che anch'io posso ammazzare e rubare? Strano poi che anche in questo caso si faccia a monte una selezione all'ingresso delle leggi straniere che dovrebbero essere emulate nei nostri confini. Chissà perché non si ode un simile vociare per importare da noi le norme che permettono in Francia lo sfruttamento dell'energia nucleare, o quelle cinesi sul lavoro subordinato.

 

10. Il nemico da abbattere: la Chiesa. In ogni guerra c'è un nemico. Nel conflitto culturale quale miglior nemico da scegliere se non la Chiesa cattolica? Nell'immaginario collettivo la Chiesa è frequentemente dipinta come nemica del progresso, antagonista della felicità dell'uomo, misogina, sessuofoba, colpevole di posizioni discriminatorie contro gli omosessuali (21), ostinatamente e insensatamente contraria alla ricerca scientifica, gelosa depositaria di oscure verità inconfessabili. È lei che ha negato i funerali a Welby, è lei che fa ingerenza nella politica italiana, è lei che con una straordinaria azione di plagio parrocchiale ha mobilitato più di un milione di persone al Family Day (22).

Se la Chiesa è il nemico occorrerà ovviamente far di tutto per indebolirla. Per citare solo alcuni esempi tra i tanti: all'indomani della sconfitta sul referendum della legge 40, i radicali, non potendosela prendere con gli italiani (è sempre poco elegante avercela con l'elettorato), indirizzarono tutto il loro rancore verso Santa Romana Chiesa chiedendo a più riprese la revisione del Concordato. Questo atteggiamento polemico fece eco a una posizione emersa nell'agosto 2003 a una riunione all'Onu dell'Unglobe, associazione dei dipendenti Onu di solo orientamento omosessuale o bisessuale, in cui si individuò il principale nemico da abbattere nella Chiesa. A questo proposito è bene sottolineare che le lobbies gay esercitano un po’ dovunque e in molti ambiti.

In Scozia, per esempio, a seguito dell'Equality Act 2006 le agenzie cattoliche per l'adozione potrebbero essere obbligate ad affidare bambini anche a coppie omosessuali. Infine — a mo’ di paradigma delle discriminazioni che devono subire gli organismi di ispirazione cattolica - ricordiamo il caso di Mukesh Haikerwal della Australian Medical Association, il quale recentemente ha auspicato che gli enti legati alla Chiesa cattolica non gestiscano più gli ospedali di non forniscono servizi quali l’aborto, la sterilizzazione e la fecondazione in vitro.

Dieci mosse per mettere in scacco la cultura cristiana e ancor prima il senso comune. Ma dalle nefandezze degli altri si può sempre imparare qualcosa di utile: perché non rubare a costoro qualche trucchetto e usarlo a fin di bene?

NOTE

(1) Tommaso D'Aquino, Somma Teologica, I, q. 2, a. 3.

(2) Cfr M. Palmaro, Il male radicale, in Il Timone, n. 41, marzo (2005), pp. 12-13.

(3) Cfr P. Welby, Lasciatemi morire, Rizzoli, Milano 2006, pp. 111-112.

(4) II vescovo anglicano Tom Butler, della diocesi di Southwark, concorda con le posizioni eutanasiche del Royal College. Infatti il prelato rende noto attraverso le colonne del Sunday Times del 12 novembre del 2006 che «in alcune circostanze può essere giusto fermare o togliere una cura, sapendo che è possibile, probabile o anche certo che ciò provocherà la morte. [...] Ci sono situazioni in cui, per un cristiano, la compassione deve prevalere sul principio secondo cui la vita va preservata a tutti i costi». L'articolo chiarisce che il vescovo non si riferisce all'accanimento terapeutico bensì all'eutanasia omissiva.

(5) Cfr Corriere della Sera, 10 marzo 2007. Sul tema dell'eutanasia neonatale cfr L. Guerrini, Eutanasia neonatale, in I quaderni di Scienza & Vita, n. 3 (giugno 2007), pp. 93-107.

(6) Cfr artt. 6 e 9 Legge n. 14/2006.

(7) Cfr Ley de investigacìon biomédica, del 15/06/07.

(8) La percentuale animale deriverebbe dal patrimonio genetico mitocondriale contenuto nell'ovocita bovino.

(9) Proposta di legge n. 2.982 dell'8 luglio 2002.

(10) Proposta di legge n. 3.893 del 14 aprile 2003, p. 8.

(11) Per Benedetto Croce la storia non è giustiziera ma giustificatrice. Cfr B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Adelphi, Milano 1989.

(12) II reale è razionale, affermava Hegel. Cfr G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano 1995.
(13) Tutta ancora da provare, a parere irrilevante di chi scrive, l'affermazione che la legge 40 costituisse in quel frangente il maggior bene possibile e l'unica scelta percorribile, evitando così mali peggiori.

(14) La domanda era così formulata: «Lei è favorevole o contrario all'eutanasia, la possibilità cioè di concludere la vita di un'altra persona dietro sua richiesta allo scopo di diminuirne le sofferenze negli ultimi momenti di vita?». Riportiamo a margine, come prova della confusione in cui versavano gli intervistati su questo tema, che per il 32% di costoro tenere in vita una persona in coma era considerato accanimento terapeutico.

(15) Anche le amministrazioni comunali si mostrano scettiche nei confronti di Dico, Pacs e Cus dato che solo una trentina di comuni a oggi ha aderito in tutta Italia a tale Registro.

(16) Proposta di legge n. 3893 del 14 aprile 2003, p. 8.

(17) Proposta di legge n. 2982 dell’8 luglio 2002, art. 3.

(18) Cfr T. Scandroglio, Tv accesa Cervello spento, Edizioni Art Milano 2005, p. 58.

(19) P.G. Liverani, La società multicaotica con il Dizionario dell’antilingua, Ares, Milano 2005.

(20) Cfr P. Welby, Lasciatemi morire, cit., p. 103. Due pagine prima l’autore così motiva i neologismi: «Dobbiamo arrenderci all'evidenza, la parola “eutanasia” non piace, anzi, stimola repulsa».

(21) Cfr Proposta di legge n. 3893 del 14 aprile 2003: «Disciplina Unioni affettive», p. 8, in cui Grillini parla di «facile demagogia di gruppi clericali o razzisti».

(22) Valutazione tra l'altro un poco precisa, dato che la grande affluenza del 12 maggio è da accreditarsi soprattutto ad altre realtà diverse da quelle parrocchiali, quali movimenti, associazioni e gruppi di preghiera. (Tommaso Scandroglio, Studi Cattolici, n. 569/70, luglio-agosto 2008)

 

 

 


 

Omelie. L'anno liturgico narrato da Joseph Ratzinger, papa

(30 novembre 2008)

 

Con questo titolo è raccolta per la prima volta in un libro la predicazione di Benedetto XVI nelle messe e nei vespri, nell'arco di un anno. Una lettura d'obbligo per capire questo pontificato.

Le omelie liturgiche sono una vetta del pontificato di Benedetto XVI. La meno frequentata e conosciuta. Di lui hanno fatto notizia e rumore la lezione di Ratisbona, il libro su Gesù, l'enciclica sulla speranza. Molto meno, pochissimo, le prediche che egli rivolge ai fedeli nelle messe che celebra in pubblico.

Eppure, senza le omelie, il magistero di questo papa teologo resterebbe incomprensibile. Così come senza di esse non si capirebbero un san Leone Magno, il primo pontefice di cui sia giunta a noi la predicazione liturgica, un sant'Ambrogio, un sant'Agostino, tutti quei grandi pastori e teologi, colonne della Chiesa, che Joseph Ratzinger ha per maestri.

Anzitutto le omelie sono quanto di più genuino esce dalla mente di papa Benedetto. Le scrive quasi integralmente di suo pugno, talvolta le improvvisa. Ma soprattutto imprime in esse quel tratto inconfondibile che distingue le omelie da ogni altro momento del suo magistero: il loro essere parte di un'azione liturgica, anzi, esse stesse liturgia.

Benedetto XVI l'ha detto chiaro nell'omelia da lui pronunciata il 29 giugno 2008 nella festa dei santi Pietro e Paolo: la sua vocazione è di "servire come liturgo di Gesù Cristo per le genti". L'espressione ardita è di Paolo nel capitolo 15 della Lettera ai Romani. E il papa l'ha fatta propria. Ha identificato la sua missione di successore degli Apostoli proprio nel farsi servitore di una "liturgia cosmica". Poiché "quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, allora avrà raggiunto la sua meta, allora sarà sano e salvo".

È una visione da vertigine. Ma papa Ratzinger ha questa certezza incrollabile: quando celebra la messa sa che lì c'è tutto l'agire di Dio, intrecciato con i destini ultimi dell'uomo e del mondo. Per lui la messa non è un semplice rito officiato dalla Chiesa. È la Chiesa stessa, abitata dal Dio trinitario. È immagine e realtà della totalità dell'avventura cristiana. Non sbagliavano i pagani colti dei primi secoli, quando per identificare la cristianità la descrivevano nell'atto di celebrare. Perché questa era anche la fede di quei primi credenti. "Sine dominico non possumus", senza l'eucaristia della domenica non possiamo vivere, risposero i martiri di Abitene all'imperatore Diocleziano che proibiva loro di celebrare. E per questo sacrificarono la vita. Benedetto XVI ha richiamato questo episodio nell'omelia della sua prima messa celebrata fuori Roma da papa, a Bari, il 29 maggio del 2005.

In quella stessa omelia il papa definì la domenica "Pasqua settimanale". E con ciò la identificò come l'asse del tempo cristiano. La Pasqua, ossia la passione, la morte e la risurrezione di Gesù, è un atto unico nel tempo, compiuto una volta per tutte, ma è anche un atto compiuto "per sempre", come ben sottolinea la Lettera agli Ebrei. E questa contemporaneità si realizza nell'azione liturgica, dove "la Pasqua storica di Gesù entra nel nostro presente e a partire da lì vuole raggiungere e investire la vita di coloro che celebrano e, quindi, l'intera realtà storica". Da cardinale, nel libro "Introduzione allo spirito della liturgia", Ratzinger scrisse pagine suggestive sul "tempo della Chiesa", un tempo in cui "passato, presente e futuro si compenetrano e toccano l'eternità".

Il tempo della Chiesa è ritmato dalla domenica. Essa è "il primo giorno della settimana" (Matteo 28, 1) e quindi il primo dei sette giorni della creazione. Ma è anche l'ottavo giorno, il tempo nuovo che ha avuto principio con la risurrezione di Gesù. La domenica è dunque per i cristiani, dice Ratzinger, "la vera misura del tempo, l'unità di misura della loro vita", poiché in ogni messa domenicale irrompe la nuova creazione. Lì ogni volta la Parola di Dio si fa carne. Lo mostrano i dipinti di tante chiese del Medioevo e del Rinascimento: da un lato l'Angelo annunziante, dall'altro la Vergine annunziata, e al centro l'altare sul quale in ogni messa "Verbum caro factum est" per opera dello Spirito Santo. Ma anche la struttura della messa mostra ciò in modo lampante, come papa Benedetto ha ricordato in un suo commento alla cena di Gesù risorto con i discepoli di Emmaus, all'Angelus di domenica 6 aprile 2008. Nella prima parte della messa c'è l'ascolto delle Sacre Scritture, e nella seconda ci sono "la liturgia eucaristica e la comunione con Cristo presente nel sacramento del suo Corpo e del suo Sangue". Le due mense, della Parola e del Pane, sono indissolubilmente connesse.

L'omelia fa da ponte tra le due. Il modello è Gesù nella sinagoga di Cafarnao, nel capitolo 4 del Vangelo di Luca. Riavvolto il rotolo delle Scritture, "gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato". Nelle sue omelie, papa Benedetto fa la stessa cosa. Commenta le Scritture e dice che "oggi" esse si compiono nell'atto liturgico che si sta celebrando. Con il riverbero che ne consegue per la vita di tutti, poichè – ha scritto – "la celebrazione non è solo rito, non è solo un gioco liturgico, essa vuole essere 'logiké latreia', trasformazione della mia esistenza in direzione del Logos, contemporaneità interiore tra me e Cristo".

Le Scritture illustrate da Benedetto XVI in ogni omelia sono naturalmente quelle della messa del giorno, alla quale danno l'impronta. E qui entra in campo quell'altra grande articolazione del tempo della Chiesa che è il ciclo dell'anno liturgico. Sul ritmo fondante, quello settimanale delle domeniche, si è innestato fin dai primi secoli cristiani un secondo ritmo, a ciclicità annuale, che ha nella Pasqua il suo perno, e nel Natale e nella Pentecoste altri due centri di gravità. Questo secondo ritmo fa risplendere il mistero cristiano nei suoi aspetti e momenti distinti, lungo l'intero arco della storia sacra. Comincia con le settimane dell'Avvento e prosegue col tempo di Natale e dell'Epifania, con i quaranta giorni della Quaresima, con la Pasqua, con i cinquanta giorni del tempo pasquale, con la Pentecoste. Le domeniche al di fuori di questi tempi forti sono quelle del tempo ordinario, "per annum". In più vi sono le feste: come l'Ascensione, la Trinità, il Corpus Domini, i santi Pietro e Paolo, l'Immacolata, l'Assunta.

Ma l'anno liturgico è molto più che la narrazione a puntate di un'unica grande storia e dei suoi protagonisti. L'Avvento, ad esempio, non è solo memoria dell'attesa del Messia, perché Egli è già venuto e ancora verrà alla fine dei tempi. La Quaresima è sì preparazione alla Pasqua, ma anche al battesimo come matrice della vita cristiana di ciascuno, sacramento amministrato per antica tradizione nella veglia pasquale. L'umano e il divino, il tempo e l'eterno, Cristo e la Chiesa, la vicenda di tutti e di ciascuno sono sorprendentemente intrecciati in ogni momento dell'anno liturgico. Lo attesta una stupenda antifona della festa dell'Epifania: "Oggi allo Sposo celeste si è unita la Chiesa, perché nel Giordano Cristo lavò i suoi peccati. Corrono i Magi coi doni alle nozze regali e i convitati si allietano dell'acqua mutata in vino". I Magi, il battesimo di Gesù nel Giordano, le nozze di Cana, tutto diventa "epifania", manifestazione, dell'unione nuziale tra Dio e l'uomo, di cui la Chiesa è il segno e l'eucaristia il sacramento.

 

In questo libro è per la prima volta raccolto un ciclo di omelie di Benedetto XVI. Sono quelle dell'anno liturgico che è iniziato con la prima domenica d'Avvento del 2007, o meglio, con i vespri della vigilia di questa domenica. Questa prima omelia e quella del successivo 31 dicembre sono state pronunciate dal papa durante i vespri, prima del Magnificat. Tutte le altre durante la messa, dopo il Vangelo. La maggior parte hanno avuto luogo a San Pietro, nella basilica o nella piazza; una nella Cappella Sistina; una a San Giovanni in Laterano; una a San Paolo fuori le Mura; quattro in altre chiese di Roma; una a Castel Gandolfo; una ad Albano; le altre in altre città dell'Italia e del mondo dove il papa era in visita: a New York, Genova, Brindisi, Sydney, Cagliari, Parigi.

In due occasioni Benedetto XVI, oltre che celebrare la messa, ha amministrato il battesimo a bambini ed adulti. Una volta ha conferito la cresima a dei giovani. Una volta ha ordinato dei sacerdoti. Un'altra volta ha consacrato gli oli per l'amministrazione dei sacramenti. Un'altra volta ancora ha imposto il pallio ai nuovi arcivescovi metropoliti. In un'occasione ha consacrato una nuova chiesa parrocchiale e in un'altra il nuovo altare di una cattedrale. In tutti questi casi il papa ha dedicato una parte dell'omelia a illustrare questi gesti.

Inoltre, per tre volte la messa è stata preceduta o seguita da una processione: il mercoledì delle Ceneri, la domenica delle Palme e il Corpus Domini. La sera del giovedì santo il papa ha lavato i piedi a dodici persone. La notte di Pasqua ha presieduto la liturgia della luce, con l'accensione del cero pasquale e il canto dell'Exultet.

Il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, ha partecipato con lui alla messa – ma senza consacrare né fare la comunione – il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, il quale si è anche associato all'omelia, parlando subito prima del papa.

In ogni caso, sempre Benedetto XVI ha poggiato le sue omelie sui brani della Scrittura letti nella messa del giorno o, analogamente, nei vespri. Il lettore troverà tali brani riprodotti al termine di ciascuna omelia: corredo indispensabile per situarla nel suo contesto liturgico. I brani quasi sempre coincidono con le letture del messale romano proclamate quello stesso giorno in quasi tutte le chiese cattoliche del mondo. Dopo le omelie dei vespri d'inizio d'Avvento e del 31 dicembre il lettore troverà anche i testi del Magnificat e del Te Deum.

A leggerle in modo continuato, le omelie di Benedetto XVI disegnano l'arco dell'anno liturgico, e quindi il mistero cristiano, con una nitidezza esemplare. Il disegno ha qua e là dei vuoti, perché in non poche domeniche e feste il papa non celebra in pubblico. Ma lui stesso mostra di voler colmare questi vuoti dedicando a tale scopo i messaggi che rivolge ai fedeli e al mondo tutte le domeniche mezzogiorno prima della preghiera dell'Angelus o, nel tempo pasquale, del Regina Cæli.

Questi messaggi sono spesso delle piccole omelie. Nelle quali Benedetto XVI commenta le letture della messa del giorno. Sono inconfondibilmente di suo pugno, veri gioielli di omiletica minore. In appendice al libro il lettore ne troverà raccolte alcune. E con esse arricchirà la visione di quel capolavoro che è l'anno liturgico narrato da papa Benedetto. (Sandro Magister, Focus, 27 novembre 2008)

 

 

 

 

 

 

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