ANNO 2009
“Dio oggi non è negato, è sconosciuto” Discorso conclusivo di mons. Rino Fisichella al convegno “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto" organizzato a Roma dal Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana (20 dicembre 2009)
Scrive il Libro del Siracide: "Quando uno ha finito, allora comincia" (Sir 18,6). E' proprio così. Concludere queste giornate ricche di provocazioni su diversi fronti dalla cultura alla fede, equivale ad iniziare a riflettere con maggior intensità sui contenuti che sono stati partecipati. Nella lectio conclusiva del suo insegnamento nel 1993, l'ideatore della "teologia politica", J. B. Metz, diceva: "La crisi che ha colpito il cristianesimo europeo non è più primariamente o almeno esclusivamente una crisi ecclesiale… La crisi è più profonda: essa non ha affatto le sue radici solo nella situazione della Chiesa stessa: la crisi è divenuta una crisi di Dio. Schematicamente si potrebbe dire: religione sì, Dio no; dove questo no a sua volta non è inteso nel senso categorico dei grandi ateismi. Non esistono più grandi ateismi. L'ateismo di oggi può in realtà già di nuovo riprendere a parlare di Dio –distrattamente o tranquillamente- senza intenderlo veramente" [1]. In una parola, si ammette che la crisi odierna è determinata dal potere e sapere parlare di Dio; la cosa non può lasciare neutrali soprattutto a oltre quarant'anni dal Vaticano II che aveva tra i suoi scopi quello di parlare di Dio all'uomo di oggi in modo comprensibile. La crisi che viviamo, comunque, si potrebbe riassumere in maniera ancora più sintetica: Dio oggi non è negato, è sconosciuto. Probabilmente, all'interno di quest'espressione c'è qualcosa di vero circa il modo di porsi del nostro contemporaneo dinnanzi alla problematica che ruota intorno al nome di "Dio". Per alcuni versi, si potrebbe dire che si è passati dal "Dio: un'ipotesi inutile" di venerata memoria, al "Dio: la possibilità buona per l'uomo" di G. Vattimo nell'ultima pubblicazione di alcune settimane fa su questo tematica [2]. Questi giorni hanno permesso di riflettere, di vedere, di ascoltare e discutere sul tema "Dio" in riferimento ai diversi segmenti in cui la cultura si organizza: dalla filosofia alla teologia; dalla scienza al cinema, dalla bellezza delle arti alla letteratura; insomma, un tour de force che ha mostrato le metamorfosi della cultura contemporanea e la stabilità dell'opera d'arte che non conosce trascorrere del tempo… In una parola, potremmo affermare che si è gettato un sasso nello stagno su due fronti: quello dell'indifferenza, che spesso domina il contesto culturale su questa problematica, e quello dell'ovvietà che evidenzia quanta ignoranza domini spesso sovrana sui contenuti religiosi. Indifferenza e ovvietà, purtroppo, rodono alla base quel comune senso religioso che è ancora presente nel nostro Paese, rendendo sempre più debole la domanda religiosa e, soprattutto, la sua scelta consapevole e libera. Avere provocato un'ampia riflessione su questo tema è un servizio che si rende alle giovani generazioni più che a quanti vi hanno partecipato. Noi adulti, alla fine, siamo qui convenuti avendo un'idea chiara della fede in Dio o della sua negazione; probabilmente, l'intensità delle giornate ha permesso che qualche conoscenza ulteriore si sia aggiunta a quanto già possedevamo. Il problema, però, resta per le generazioni che seguiranno, a cui dobbiamo trasmettere con responsabilità non solo le certezze che abbiamo conquistato, ma anche il tentativo di dissolvere i dubbi che ci accompagnano per permettere che si fomenti una cultura che sappia ancora domandare, ricercare e giungere a soluzioni originali capaci di rispondere allo spirito del tempo. Ritorna immediata, per poter compiere una sintesi di quanto è stato detto in questi giorni, la scena familiare di Paolo per le vie di Atene (At 17,16-34). Non è cambiato molto da allora. Le strade delle nostre città –sempre più monotone per la ripetitività dei modelli offerti dall'appiattimento urbanistico di questi decenni, da dove sembra scomparsa ogni forma di nuova bellezza- sono cariche di nuovi idoli. L'interesse verso un generico senso religioso –venuto meno nei decessi passati- sembra voler riprendersi una sorta di rivincita in un mondo che mostra ancora la via della secolarizzazione, anche se non è più così chiara ed evidente la strada che vuole seguire, come ha mostrato la relazione del card. Angelo Scola. Espressioni religiose si moltiplicano, spesso prive di spessore razionale per dare maggior spazio all'emotività, mentre nuovi messia dell'ultima ora appaiono di nuovo all'orizzonte, predicando l'imminente fine del mondo. E' necessario chiedersi chi sono i nuovi Paolo di Tarso coscienti di essere portatori di una bella notizia che entra nell'areopago del nostro piccolo mondo con la convinzione e la certezza di voler annunciare lo Θεός άγνωστος. "Dio": il termine è tra i più usati nel linguaggio mondiale e, tuttavia, quanti sensi diversi, differenti e, a volte, contrastanti tra di loro fino ad opporsi. Ci siamo chiesti ripetutamente an sit Deus –se Dio esiste- e quid Deus sit –cosa o chi è Dio. Domande inevitabili che non possono rimanere senza risposta; anzi, diventano ancora più necessarie dopo la provocazione che proviene dalla filosofia del linguaggio di Ludwig Wittgenstein. I credenti non possono permettere né che "Dio" rimanga un termine privo di senso –data l'impossibilità della verifica sperimentale- né che rimanga confinato in un altrettanto aprioristico Sprachspiel comprensibile solo ai pochi addetti che utilizzano la stessa grammatica. Se "Dio" ha un valore allora questo deve essere universale e, pertanto, deve essere reso accessibile per tutti con un linguaggio che nessuno esclude. Da questa prospettiva, le giornate trascorse portano a comporre un percorso di cui sono rintracciabili alcune tappe. Un primo passaggio necessario da compiere si realizza a livello epistemologico. Si tratta di comprendere, infatti, il valore della conoscenza e di quale conoscenza sia necessaria per giungere a pronunciare con sensatezza il termine "Dio". Il tentativo di ritrovare nuove strade per evidenziare la ragionevolezza del nostro procedere è stato più volte ribadito. Gli interventi del Card. Camillo Ruini e del prof. Robert Spaemann, nella loro complementarità, portano a questa indicazione sostanziale. In qualche modo, cercavano di rispondere in termini moderni a quanto s. Agostino scriveva nel suo La fede nelle cose che non si vedono: "Vi sono alcuni i quali ritengono che la religione cristiana debba essere derisa piuttosto che accettata, perché in essa, anziché mostrare cose che si vedono, si comanda agli uomini la fede in cose che non si vedono. Dunque, per confutare coloro ai quali sembra prudente rifiutarsi di credere ciò che non possono vedere, noi, benché non siamo in grado di mostrare a occhi umani le realtà divine che crediamo, tuttavia dimostriamo alle menti umane che si devono credere anche quelle cose che non si vedono" [3]. Eppure, è necessario che proprio a livello epistemologico si faccia uno sforzo ulteriore per individuare il valore conoscitivo che la rivelazione possiede. La fede che pronuncia il termine "Dio" non è all'origine della problematica –come qualcuno ancora sostiene [4]- ma è istanza seconda, come forma conoscitiva corrispondente per accedere in modo coerente alla conoscenza propria della rivelazione. Il duplex ordo cognitionis, di cui si fece interprete il Vaticano I, possiede ancora oggi una sua valenza epistemologica non secondaria per il nostro discorso. Se si giunge ad ammettere l'esistenza di Dio come realtà personale altro dall'uomo, allora si deve pure ammettere inevitabilmente la sua libertà nell'esprimere se stesso secondo le forme che ritiene utili per la conoscenza della propria esistenza e della propria natura. Questa lettura non rappresenta primariamente una dimensione "teologica" –come potrebbe essere contestata a prima vista- essa possiede una prima giustificazione nell'ordine epistemologico. La filosofia, anzitutto, è chiamata a sviscerare il l'atto stesso della rivelazione (ipsa revelatio) come evento che accade nella storia, prima ancora dei contenuti che vengono rivelati. Il tentativo di Friedrich Schelling, d'altronde, manifesta proprio in questo settore tutta la sua pregnanza; la Philosophie der Offenbarung, infatti, è solo un esempio di quanto la filosofia possa e debba prendere in considerazione nella sua epistemologia la problematica circa la forma conoscitiva peculiare che proviene dalla rivelazione. Nel parlare di Dio, insomma, e nel dover trovare i differenti sentieri che sono utili per approdare a una risposta di senso circa la ragionevolezza del suo an sit et quid sit, non può essere emarginata la categoria di "rivelazione". Un secondo elemento è stato offerto. Esso si pone nell'orizzonte della nuova cosmologia che costituisce a pieno titolo una sfida nella tematizzazione della problematica intorno a "Dio". Le indicazioni che sono provenute soprattutto da George Coyne, Martin Nowak e Peter van Inwagen provocano a riflettere sulla nuova identità cosmica che si sta venendo a delineare in questi decenni di grandi scoperte scientifiche e che daranno ancora più sorprese nei prossimi anni, quando saranno messe a punto le nuove tecnologie. Basti pensare, oggi, ai tentativi che si stanno svolgendo circa la possibilità di produrre in big ban (prof. Rubbia), oppure i risultati che provengono dal satellite Plunck (prof. Bersanelli) in grado di spingersi fino all'estremo dell'universo per carpirne i segreti, per comprendere quante domande si pongono su questo terreno nel momento in cui si affronta la problematica di "Dio" in riferimento alla cosmologia. Proprio nell'anno dell'astronomia, nel quarto centenario della scoperta del cannocchiale da parte di Galileo è necessario accogliere la sfida che si pone su questo terreno. Non si dimentichi, d'altronde, che le nuove generazioni fin dai primi anni di scuola iniziano a confrontarsi con queste problematiche scientifiche e la mentalità che viene acquisita richiede una risposta corrispondente nell'ambito della fede. Insomma, la "via cosmologica" che sembrava ormai superata da quella antropologica, ritorna con maggior intensità e con provocazioni ancora più forti [5]. Da questa prospettiva, comunque, dovremmo chiederci: quale relazionalità intercorre tra cosmologia e antropologia; la questione di "Dio", infatti, appartiene a questa relazione e crea un tertium con cui è necessario confrontarsi. Il principio geocentrico di un tempo ha ceduto il passo; da un mondo chiuso e confinato si passa ora ad un universo infinito che, progressivamente, non permette più neppure di concepire un centro. L'uomo scopre che il cosmo evolve, procede sempre oltre, ha una sua storia e delle sue leggi proprie che ne determinano il movimento, il divenire e il venir meno. Questa prospettiva condiziona non solo la sua esistenza, ma anche quella del cosmo che lo circonda. Non è questa la sede per inoltrarsi nella selva interpretativa delle differenti teorie sorte a riguardo. Il principio cosmologico o quello antropico rimangono tentativi che nel corso dei decenni manifestano l'interesse per la materia e troveranno nel futuro altre evoluzioni in grado di dare voce all'intelligenza degli scienziati e dei filosofi. Al di là di questo, comunque, rimane pur sempre una questione fondamentale: esiste una reciproca determinazione tra cosmologia, antropologia e teologia? La concezione che l'uomo ha di sé si trasmette inevitabilmente sul cosmo? Ed è possibile che quanto il cosmo esprime determini la visione che l'uomo acquisisce di se stesso? Dio è all'origine o del tutto fuori gioco? Questi interrogativi non sono facilmente risolvibili rimanendo all'interno di una sola scienza. Mai come in casi simili si sente forte l'esigenza di una azione interdisciplinare che si faccia forte delle diverse competenze per raggiungere una visione d'insieme in grado di giungere a una risposta carica di senso. L'intelligibilità che si scopre nel reale –e che, non si dimentichi, è stato il presupposto esplicito dei primi artefici dell'osservazione della natura- è una proprietà insita e propria della natura oppure è una proiezione mentale del soggetto? Esiste un linguaggio oggettivo nel cosmo che io posso cogliere, perché ne porto in me gli elementi che mi permettono di costruirlo e leggerlo, oppure è tutto semplicemente una creazione arbitraria benché convenzionale a cui ci si adegua? Nella modernità l'uomo pensava che la natura non solo doveva essere rispettata, ma ad essa e alla sue leggi era necessario adeguare l'esistenza personale; oggi, al contrario, non ci si considera più ospiti del grande complesso cosmico, ma suoi architetti. Ora è l'uomo a dettare le regole e a stabilire i parametri entro cui comprendere il reale e darne spiegazione. Poiché diventiamo nuovi demiurghi non possiamo sottostare a leggi e linguaggi che non siano stati prioritariamente formulati e creati da noi. Sembra che non siamo più tenuti neppure a giustificare il nostro comportamento dopo che abbiamo delineato e progettato a tavolino, o in laboratorio, il nostro destino biologico e il resto della natura. Come si nota, la via cosmologica –pur interpretata in maniera moderna- apre certamente nuovi orizzonti per la scoperta di Dio. Benedetto XVI ha dato una sua ultima lettura proprio nei giorni scorsi quando ha scritto: "Anche oggi l'universo continua a suscitare interrogativi a cui la semplice osservazione non riesce a dare una risposta soddisfacente: le sole scienze naturali e fisiche non bastano. L'analisi dei fenomeni, infatti, se rimane rinchiusa in se stessa rischia di far apparire il cosmo come un enigma insolubile: la materia possiede un'intelligibilità in grado di parlare all'intelligenza dell'uomo e indicare una strada che va al di là del semplice fenomeno. E' proprio la lezione di Galileo che conduce a questa considerazione. Non era, forse, lo scienziato di Pisa a sostenere che Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico? Eppure, la matematica è un'invenzione dello spirito umano per comprendere il creato. Ma, se la natura è realmente strutturata con un linguaggio matematico e la matematica inventata dall'uomo può giungere a comprenderlo ciò significa che qualcosa di straordinario si è verificato: la struttura oggettiva dell'universo e la struttura intellettuale del soggetto umano coincidono, la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura sono identiche. Alla fine, è "una" ragione che le collega entrambe e che invita a guardare ad un'unica Intelligenza creatrice… Più la conoscenza della complessità del cosmo aumenta, maggiormente richiede una pluralità di strumenti in grado di poterla soddisfare; nessun conflitto all'orizzonte tra le varie conoscenze scientifiche e quelle filosofiche e teologiche; al contrario, solo nella misura in cui riusciranno ad entrare in dialogo e scambiarsi le rispettive competenze saranno in grado di presentare agli uomini di oggi dei risultati veramente efficaci" [6]. Una terza pista di riflessione è stata offerta dalla via pulchritudinis. Emarginare questo tentativo sarebbe ingiusto e pericoloso. Il pulchrum è una costante sfida posta nel sentiero della storia e molti si imbattono con questa categoria. Tutti siamo consapevoli del rapporto tra bellezza e discorso su "Dio". L'arte, la letteratura, la musica… scomparirebbero per i quattro quinti se Dio non esistesse. L'arte sarebbe solo frutto di fantasia senza rapporto con il reale, applicazione di linee senza un "perché" di senso. La letteratura e la musica sarebbero ridotti a versi e note dettate dal sentimento passeggero senza un aggancio con la solidità della persona a cui poterli indirizzare. La via della bellezza si impone perché apre alla conoscenza mediante la contemplazione, che per dirla con s. Tommaso est actus intellectus! Non è una via alternativa per parlare di Dio e per cercare di comprenderlo, al contrario. Come hanno mostrato soprattutto gli interventi di Roger Scruton con il recupero della "via positiva della bellezza" e di S. E. Mons. Gianfranco Ravasi, l'arte permane come la "narrazione visiva dell'esperienza dell'incontro con un volto". Riscoprire il tema del volto è quanto di più fondamentale il cristianesimo possegga. Non è stato facile per noi arrivare a questo punto, ma il mistero di Dio che si fa uomo obbliga a seguire questo percorso. Il mistero dell'incarnazione apre la strada per comprendere un Dio che non permane relegato nella sua trascendenza, ma rinuncia all'onore che gli è dovuto per farsi uomo con gli uomini ed insegnare loro la strada per entrare in comunione di vita con lui. Qui si rende evidente la differenza tra le religioni e le stesse religioni monoteiste; il Dio di Gesù Cristo, infatti, non indica più il percorso che parte dall'uomo per raggiungere Dio; mostra, invece, che Dio va incontro all'uomo e lo raggiunge fino a condividerne la natura. In questo spazio la bellezza trova altre forme con cui esprimersi, perché al volto che viene rivelato possano essere offerte le condizioni per dare risposta di senso a ciò che l'uomo stesso vive: la sofferenza, la gioia, la gloria, il dolore, il tradimento e perfino gli stadi della vita… tutto viene rappresentato per introdurre a Dio e per spiegare l'uomo all'uomo. Un quarto elemento per parlare di "Dio" è stato offerto dall'analisi sulle religioni e il monoteismo nei contributi dei proff. Rémi Brague e Massimo Cacciari. Probabilmente, all'interno di questo discorso si dovrebbe aprire un'ulteriore riflessione circa l'azione liturgica a cui, purtroppo, si è dato poco spazio nel nostro riflettere di questi giorni. La storia delle religioni viene in aiuto, perché evidenzia come sia un fatto comune, verificabile fin dai primordi dell'antropologia culturale, la capacità dell'uomo di creare luoghi e tempi dedicati al sacro per permettere di creare una relazione con "Dio". L'azione liturgica, il rito sono forme espressive e linguaggi con cui è necessario confrontarsi nel nostro parlare di "Dio"; illusorio pensare di emarginare questa dimensione. Equivarrebbe a eliminare tutto il tema del linguaggio dei segni e dell'evocazione per accedere all'interno di un mondo che non trova altra risorsa per esprimersi se non quella del rito. L'analisi di questa componente mostrerebbe che si apre il passaggio per verificare quale relazionalità intercorre tra "Dio" e l'uomo senza cadere in forme di alienazione o psicosi. Il rito conferisce alla conoscenza di "Dio" uno spazio di comunicazione che ingloba l'intera realtà creata e l'uomo in essa. L'azione liturgica consente di verificare che "Dio" non permane come un'illusione creata dalla mente dell'uomo, ma una realtà con cui riferirsi in maniera oggettiva nel susseguirsi dei tempi e degli spazi che assumono valore sacro. Se le religioni hanno fatto del rito un elemento determinante ciò implica che possiede un effetto essenziale e costitutivo nel discorso su "Dio", per cui la cultura contemporanea non può né deve allontanarsi. Una quinta pista di riflessione la vogliamo mediare dall'assioma anselmiano: rationabiliter comprehendis incomprehensibile esse. In una parola, è necessario pronunciare l'ultimo il termine che sta sempre all'inizio del pensare, non solo teologico, e che tutto determina: mistero. Si comprehendis non est Deus diceva giustamente Agostino; su questa lunghezza d'onda si è mossa sempre, anche se con accentuazioni diverse, la tradizione cristiana dell'oriente e dell'occidente. Se Novaziano poteva scrivere nel suo De Trinitate: "A riguardo di Dio, di ciò che gli appartiene e abita in lui, lo spirito dell'uomo non può pensare convenientemente ciò che è; quale grandezza hanno le sue perfezioni e qual è la loro natura, né l'eloquenza del discorso umano può sviluppare una potenza di parola corrispondente alla sua maestà… Dio è colui a cui appartiene di non poter essere confrontato con nulla" [7]. Secoli più tardi nel suo Proslogion Anselmo, pur con altre parole, riproponeva lo stesso concetto: "Signore mio Dio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come trovarti… Che cosa farà, o altissimo Signore, questo esule che è così distante da te, ma che a te appartiene?... Anela a vederti e il tuo volto gli è troppo discosto. Desidera avvicinarti e la tua abitazione è inaccessibile. Brama trovarti e non conosce la tua dimora. Si impegna a cercarti e non conosce il tuo volto" [8]. La visione dei Padri è sempre segnata dall'idea dell'incomprensibità di Dio. Il Crisostomo poteva perfino affermare che colui che conosce l'incomprensibilità di Dio comprende anche chi non la conosce. Lo stesso pensiero si ripropone con Abelardo, Tommaso, Maestro Eckhart, il Cusano… fino ai nostri giorni, soprattutto nella teologia di von Balthasar. In questo, se si vuole, si raccoglie tutta la differenza tra lo Θεός άγνωστος e lo θεός ακαταλήπτος; tra il mondo che non conosce "Dio" e quello che ne vede l'incomprensibilità. Il mysterion non è la conclusione del nostro discorso per l'impossibilità di trovare razionalmente una risposta alla questio de Deo; è piuttosto l'origine da cui la ragione parte, provocata dallo stupore e dalla meraviglia che esso produce. La ragione è chiamata a compiere per intero, oltre ogni suo sforzo, il percorso che le si pone dinanzi; alla fine, però, deve comprendere che Dio è incomprensibile. Questo non la umilia né indebolisce, ma la rafforza nel continuare ininterrottamente a domandare fino al momento in cui troverà le ragioni per abbandonarsi pienamente in lui come ultima e definitiva risposta alla domanda di senso. Nel mistero dell'enigmaticità della propria esistenza personale, del cosmo e di quanto ci circonda deve sorgere l'interrogativo che tocca il senso e il significato dell'esistenza. Ricorrere, mitologicamente, al "fato" –come molti oggi sono tentati di fare- potrebbe essere una scappatoia facile e già utilizzata nel passato, ma si verrebbe a compromettere il valore della libertà personale che è quanto di più geloso ognuno dovrebbe conservare. In questo richiamo ultimo e radicale alla libertà nel suo rapporto con la verità si esprime anche l'originalità del cristianesimo. Niente come la fede nel Dio che si fa uomo provoca la libertà ad assumere in prima persona il principio di responsabilità. Il Dio che ama come Gesù è il Dio responsabile del fratello che non rimane nella solitudine della morte. Senza Dio viene meno la possibilità dell'autocomprensione, dell'esercizio della libertà e della responsabilità sociale. Dunque, è proprio vero: con lui o senza di lui cambia tutto. (Zenit, 12 dicembre 2009)
NOTE: 1) In R. Fisichella (ed.), Il Concilio Vaticano II, Cinisello B. 2000, 67. 2) G. Giorgio (ed.), Dio: la possibilità buona, Rubettino 2009, 20. 3) Agostino, De fide rerum quae non videntur, I,1. 4) E', di fatto, l'obiezione mossa spesso da E. Severino ai cattolici. 5) E' sufficiente riprendere tra le mani il testo di H. U. von Balthasar, Die Gottesfrage des heutigen Menschen, Wien 1957, per verificare il passaggio su questa problematica. 6) Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI all'Arcivescovo Rino Fisichella, Rettore della Pontificia Università Lateranense, in occasione del Convegno sul tema: "Dal telescopio di Galileo alla cosmologia evolutiva. Scienza, filosofia e teologia in dialogo", 26 novembre 2009. 7) De Trinitate liber, PL III, 889.890. 8) Anselmo, Proslogion, I.
Un cardinale nelle tenebre e una fede a rischio Annotazioni su “Conversazioni notturne a Gerusalemme” di Carlo Maria Martini–Georg Sporschill (13 dicembre 2009)
È da molti anni che in ambienti ecclesiali “conservatori” circolano voci secondo cui il cardinale Carlo Maria Martini, gesuita, celebre biblista, sarebbe l’anima (o almeno uno degli esponenti di spicco) del movimento neo-progressista serpeggiante nella Chiesa italiana, con forti agganci presso altri ambienti “liberali” teologici ed ecclesiali europei e non. Nell’anno 2006, durante un Angelus in Piazza San Pietro, papa Benedetto XVI elogiò apertamente il cardinal Martini per le sue doti esegetiche, spirituali e comunicative (specialmente coi giovani). Ma a quanto pare, il cardinale non è stato altrettanto magnanimo verso Benedetto XVI e i suoi predecessori… Da qualche anno, quelle voci anti-martiniane sembrano trovare, finalmente, dei riscontri – o prove – oggettivi e testuali. Infatti, sul settimanale L’Espresso del 27 aprile 2006, è stata pubblicata l’intervista-colloquio del biologo Ignazio Marino col cardinale Martini. Secondo il cardinale Martini, scienza (laica o laicista) ed etica cristiana possono incontrarsi (cioè convenire) su temi quali: fecondazione artificiale, aborto, cellule staminali, adozione da parte di single, uso del preservativo per malati di Aids, eutanasia. Le tesi del card. Martini, in quanto contrarie alla dottrina della Chiesa Cattolica, hanno trovato consenso tra i massoni del Grande Oriente d’Italia – Palazzo Giustiniani (GOI) i quali hanno pubblicato quel colloquio Marino-Martini, nella Rassegna stampa del bollettino massonico Erasmo notizie, n. 7-8/2006 [1]. Lo “spretato” don Franco Ratti è fondatore del Mo.Co.Va. (Movimento Concilio Vaticano II), un movimento “cattolico” ultra-progressista con buoni agganci in Germania e in Austria (es.: Hans Küng e il movimento Wir sind Kirche) e con simpatizzanti tra alcuni vescovi, preti e religiosi qui in Italia [2]. Il Mo. Co. Va. rivendica tra l’altro: donne-prete, liceità in certi casi di divorzio e omosessualità, celibato sacerdotale facoltativo…[3]. In quello stesso numero, Nea Agorà ha pubblicato anche un articolo in cui don Franco Ratti rifiuta l’infallibilità pontificia ed il celibato sacerdotale e poi elogia (parole sue) «Don Tonino Bello, il vescovo cattolico-evangelico», e Martin Lutero, «profeta cattolicissimo» (secondo don Ratti) [4]. Le tesi di Ratti sono in sintonia con quelle di Martini. E ambedue sono ben visti in ambienti massonici, almeno in quelli del GOI. Altra prova lampante del progressismo del cardinal Martini è il suo recentissimo libro, scritto “a quattro mani” con padre Georg Sporschill, intitolato Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede [5]. È un libro-intervista che si legge tutto d’un fiato e con grande piacere perché, finalmente, il cardinale Carlo Maria Martini mostra in modo assai chiaro il suo progressismo teologico. Le idee di Martini sono, in un certo senso, la magna charta del neo «modernismo» teologico [6] che da 40 anni a questa parte, sta imperversando in larghi settori ecclesiali, anche a causa di un errato intendimento dello spirito del Concilio Vaticano II. Sicuramente, molti vescovi e preti (in particolare: italiani) concorderanno con le idee “martiniane” che vengo ora a esporre in modo critico.
Molto istruttiva è la recensione del vaticanista de L’Espresso, Sandro Magister, il quale a proposito del nuovo libro martiniano, scrive, tra l’altro: «In privato, ai gradi alti della gerarchia, le critiche all’autore del libro sono severe e preoccupate. Ma in pubblico la regola è di tacere. Il timore è che contestare pubblicamente le tesi di questo libro aggiunga danno a danno» [7]. Magister pubblica in allegato alle sue riflessioni, uno studio critico del prof. Pietro De Marco (docente all’Università di Firenze e alla Facoltà Teologica Centrale). Precisa e profonda è la critica anti-martiniana del prof. De Marco, di cui cito questo lungo brano, molto significativo: «[…] È evidente che quella espressa dal cardinale è stata anche la scommessa di parte della Chiesa nella lunga crisi di uomini e di fede del post-concilio. È evidente anche l’ottimismo che regge una simile pedagogia della provvidenziale realizzazione di sé nella libertà. Così però si è sottovalutata e alla fine favorita la falcidie degli uomini dell’istituzione, del clero. Non era difficile, in anni ancora vicini a noi, sentir dire dai pastoralisti che la mancanza di clero è un falso problema ed è anzi una chance per il rinnovamento della trasmissione della fede e per la sua purificazione, naturalmente in senso “non clericale”. L’ottimismo che accompagna la conversazione notturna del cardinale Martini non può essere, dunque, proposto semplicemente alla futura sperimentazione. Ha già segnato pratiche del passato. E i risultati di questo ottimismo sono sotto il giudizio di tutti. Si può sospettare che, dietro il fascino delle formule e il consenso di tanti amici non credenti, tale ottimismo abbia alimentato quell’intima contraddizione di cui il cardinale appare portatore: da un lato una visibilità cristiana dotata di un profilo “aperto”, dall’altro un messaggio reticente quanto a completezza della confessione di fede. Nel suo modello pedagogico, tra frequentazione della Bibbia e confidenza con gli articoli del Credo lo squilibrio è vistoso: uno squilibrio in cui la Tradizione e il Credo vivono in sordina come fosse superfluo menzionarli» [8]. E ora veniamo ad una nostra personale e sintetica esposizione critica di alcuni brani del libro di Martini-Sporschill. Padre Georg Sporschill (nt. 1946) è un gesuita austriaco, molto impegnato nel sociale. Ha ricevuto il premio Albert Schweitzer e nel 2004 è stato nominato austriaco dell’anno. Sporschill è stato curatore di un testo in cui Karl Rahner rispondeva a varie domande di giovani. I gesuiti Martini e Sporschill sono grandi estimatori del loro confratello Karl Rahner. Padre Sporschill ha grandi benemerenze nella pastorale “sociale”: è impegnato per i bambini di strada di Romania e Moldavia. Dal tenore delle sue domande e delle sue affermazioni si comprende che Sporschill condivide (come Martini) il secolarismo antropologico del maestro Rahner [9]. Ciò spiega perché Sporschill (con Martini) sia tanto apprezzato dal mondo (cattolico) secolare e secolarizzato.
Sporschill scrive che le risposte del card. Martini «aprono le porte ad una Chiesa coraggiosa e degna di fede» [10]. Dopo aver letto l’intero libro, delineiamo le note della “fede coraggiosa” proposta da Martini. Eccole: esistenzialistica, problematica, biblicistica (il sola Scriptura), fiduciale (Martini elogia apertamente Lutero e biblisti protestanti), giovanilistica (cioè, troppo dipendente ed indulgente verso mentalità e passioni mondane dei giovani), “aperta” al mondo secolarizzato, “libera” dall’insegnamento morale del Magistero della Chiesa (es. circa: rapporti prematrimoniali, contraccezione, omosessualità), ecumenistica (favorevole all’ordinazione in sacris delle donne). Dogmi, Magistero, Tradizione della Chiesa, vita di grazia, Sacramenti, devozione e quant’altro di “tradizionale” (o “pre-conciliare”, come direbbero in tanti) non hanno spazio vitale e manifesto nella fede-morale-pastorale “aperta e coraggiosa” dei gesuiti Martini-Sporschill. Certo, Martini dedica un intero capitolo a L’intimità con Dio (4° cap.): esercizi ignaziani, orazione, meditazione, esame di coscienza, pentimento dei propri peccati, ecc. [11], che tuttavia, nel quadro globale del pensiero martiniano, rischiano di deviare verso un intimismo soggettivista. Parlare ai giovani e agli uomini del mondo d’oggi, di peccato, ascesi, devozione, grazia… non ha senso nell’ottica martiniana; anzi, bisognerebbe evitare – secondo Martini – di moraleggiare, giudicare, dogmatizzare… Martini è apertamente ostile alla enciclica Humanæ Vitæ di Paolo VI. Martini sa ostentare questa sua “modernità” con parole e atteggiamenti “diplomatici”, “morbidi”, paternalistici, indulgenti… Martini insiste molto su: ascolto-fiducia-impegno-rischio, categorie esistenzialistiche, orizzontali, che rammentano la teologia rahneriana. La Chiesa deve saper ascoltare … Il giovane deve aver fiducia in una Chiesa che ascolta … Il giovane deve impegnarsi per Gesù, l’amico… E rischiare per Lui… Di per sé, queste sono belle parole… Peccato che, di fatto, vengano staccate dall’autentico riferimento alle verità di Fede e di Morale. Senza l’ancoraggio alla verità dogmatica, al Magistero e alla Tradizione, tali belle parole diventano pie illusioni. In effetti, scoraggiamento, delusione, fiducia (protestantica) aleggiano nelle Conversazioni notturne di Martini.
Proviamo ad entrare nel libro. Martini suggerisce a chi non è credente di «provare a vivere senza fede in Dio» [12], cioè, in altri termini, vivere in Dio pur senza credere in Lui… Martini dichiara candidamente che persino da vescovo se la prendeva con Dio dinanzi alla sofferenza ed alla morte… Perché la morte? Ecco la risposta martiniana (e rahneriana): solo con la morte possiamo dedicarci completamente a Dio! [13] Egli chiede a Dio: perché non ci dai idee migliori, perché abbiamo pochi sacerdoti e religiosi…? [14] Il cardinale mostra proprio segni di grande crisi di fede. Martini spera molto nella misericordia di Dio, forse anche troppo… Infatti spera «che presto o tardi tutti siano redenti», «che Dio ci accolga tutti»… [15]. Martini crede nell’esistenza dell’inferno, ma dice: «nessuno sa se vi si trovi qualcuno» [16]. Per “riparare” a tale agnosticismo escatologico, Martini dice che bisogna tener conto dell’inferno. Comunque per Martini, l’inferno è già sulla terra… Martini però resta sempre del parere che, inferno a parte, alla fine l’amore di Dio vincerà… [17]. Insomma, ambiguamente, Martini fa intendere che egli spera – anzi ne è convinto – la redenzione finale di tutti! Chi è il buon cristiano, secondo il cardinale? È colui che crede in Dio, ha fiducia in Cristo, lo conosce nella Bibbia, lo ascolta… [18] E – dico io – il Magistero della Chiesa, dove lo mettiamo? Dinanzi al fatto che molti uomini si costruiscono la propria religione, Martini include anche noi cattolici: «questo rischio esiste anche per noi. Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo» [19]. Martini spiega che Dio ha un cuore più vasto di noi e delle nostre definizioni. Per proteggere tale «immensità» di Dio, l’unico modo migliore proposto dal porporato gesuita è sempre la Bibbia [20]. Concili, dogmi, Magistero… non c’è spazio per tutto ciò… Per Martini (come già per Lutero): sola Scriptura. A questo punto potremmo dire che anche Martini (conforme all’immagine del suo Dio) non è cattolico ed è al di là delle definizioni dogmatiche. Il soggettivismo e biblicismo protestantico dell’anziano cardinale sono evidenti. Circa l’amore, Martini si chiede (in modo retorico): «esiste qualcosa di più grande dei giovani quando sono innamorati?» [21]. Noi invece, rispondiamo: sì, più grande è l’amore verginale e fedele di vescovi, preti, religiosi per Cristo e per la Chiesa. Martini è certo che Gesù aiuterà «tutte le Chiese, tutte le religioni» a «realizzare il bene nel mondo» e a renderlo «più luminoso» («E Gesù le aiuterà a riuscire a adempiere meglio la loro missione nel mondo») [22]. Chiediamoci: ma, allora, tutte le religioni avrebbero una missione divina? In tal caso, che senso avrebbe ancora l’evangelizzazione? È chiaro che nell’ottica martiniana, l’evangelizzazione avrebbe senso solo se resa a-dogmatica (come è appunto il pensiero di Martini). Martini vede nel «buddhismo» e nello «yoga» possibili «meravigliosi aiuti per una vita spirituale profonda», anche se poi egli dà la preminenza degli esercizi ignaziani [23]. Chi è Gesù per Martini? È il maestro, ma molto di più è «il mio amico» [24]. Come ulteriore prova della banalità antropocentrica della “cristologia” e dell’“orazione” martiniana, leggiamo che il cardinale parla a Dio «in modo normale, per nulla devoto» (parole di Martini!). Martini sente il sostegno di Dio nella preghiera, in particolare quando vede «molti problemi, come le debolezze della Chiesa» [25]. Ma il cardinal Martini riesce a vedere anche le proprie debolezze dottrinali? D’accordo col suo interlocutore, Martini osserva: «Di peccato la Chiesa ha parlato molto, a volte troppo. Da Gesù può imparare che è meglio incoraggiare gli uomini e stimolarli a lottare contro il peccato del mondo» [26]. Sembra proprio che il Gesù di Martini non sia il Gesù della Chiesa… In tema di pastorale (dalle tinte “rosse” e sessantottine), Martini esorta al dialogo-ascolto coi giovani, ma un dialogo in cui gli ecclesiastici non devono porsi come “superiori”, insomma, un «dialogo alla pari» [27]. Martini dice che un tempo egli aveva «sogni sulla Chiesa»: una Chiesa povera, umile, aperta, giovane… «Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto» [28] (ossia come Martini?). Ora il cardinale dichiara di non aver più tali «sogni» (ma i sogni martiniani sono incubi per i cattolici fedeli al Depositum Fidei). Martini dice che ha deciso «di pregare per la Chiesa» [29]. Certo, fa bene il cardinale Martini a pregare per la Chiesa. Ma farà ancora meglio la Chiesa a pregare per sua Eminenza il card. Martini! Il capitolo 5° (Imparare l’amore) mostra le idee di Martini in materia di etica sessuale. P. Sporschill è convinto che con la enciclica Humanæ Vitæ (ostile alla contraccezione), la Chiesa abbia posto una barriera tra sé e la gioventù… Purtroppo il cardinale Martini concorda con Sporschill [30]. Ecco cosa dice il card. Martini sulla Humanæ Vitæ: «[…] La cosa più triste è che questa enciclica ha contribuito a far sì che molti non prendessero più in seria considerazione la Chiesa come interlocutrice o maestra. […] Riconosco che l’enciclica Humanæ Vitæ ha purtroppo prodotto anche un effetto negativo. Molte persone si sono allontanate dalla Chiesa e la Chiesa dalle persone. Ne è derivato un grave danno» [31]. Martini afferma che molte questioni giovanili riguardano la sessualità, il matrimonio e il celibato. Circa tali questioni e le persone interessate alla loro risoluzione, così sentenzia il cardinale: «Vi è un che di tragico nel fatto che la Chiesa si sia tanto allontanata da chi ne è interessato e cerca [32]. O, forse, è Martini che si è allontanato dalla Chiesa? Secondo Martini, occorre affrontare oggi le questioni della sessualità in «un orizzonte più ampio»… Occorre cercare «una via per discutere seriamente di matrimonio, controllo delle nascite, fecondità artificiale e contraccezione» [33]. Mi domando: forse, l’insegnamento della chiesa al riguardo, non è già serio? Il lettore attento comprende che col pretesto di discussioni serie (ed “infinite”), Martini vuole aggirare e superare il Magistero della Chiesa. Nonostante una commissione di esperti dei settori di medicina, biologia, teologia, Paolo VI ha voluto pubblicare l’Humanæ Vitæ… Così commenta Martini: «A lunga scadenza, la solitudine di questa decisione non si è dimostrata un presupposto favorevole per trattare il tema sessualità e famiglia. Papa Giovanni Paolo II, una grande personalità, ha seguito la via di una rigorosa applicazione» [34]. Martini condivide la linea di dissenso dei vescovi austriaci e tedeschi (e di molti altri vescovi) allorché dice: «Dopo l’enciclica Humanæ Vitæ, i vescovi austriaci e tedeschi, e molti altri vescovi, hanno seguito, con le loro dichiarazioni di preoccupazione, un orientamento che oggi potremmo portare avanti. Quasi quarant’anni di distanza (un periodo lungo quanto il passaggio di Israele nel deserto), potrebbe consentirci una nuova visione» [35]. Martini è convinto che oggi «la direzione della Chiesa» può mostrare «una via migliore di quanto non sia riuscito all’enciclica Humanæ Vitæ». E poco oltre l’anziano gesuita sentenzia: «Sapere ammettere i propri errori e la limitatezza delle proprie vedute di ieri è segno di grandezza d’animo e di sicurezza» [36]. Più che l’insegnamento della Chiesa, sembra che per Martini conti il consenso di «molti», ovvero di «cristiani responsabili che vogliono essere solerti nell’amore» [37]. Circa l’amore (incluso la sessualità) e il Regno di Dio, l’anziano gesuita sentenzia: «[…] Nell’incontro fisico si tende verso questo traguardo [il Regno di Dio]. Guardare la meta è più importante che domandarsi se sia permesso o se sia peccato» [38]. E più avanti: «Se vogliamo proteggere la famiglia e promuovere la fedeltà coniugale, dobbiamo rivedere il nostro modo di pensare. Illusioni e divieti non portano a nulla» [39]. Sul tema omosessualità, Martini mostra maggior scaltrezza ma non minor dissenso dalle posizioni del Magistero. Alla domanda di Sporschill: «Questa liberalità vale anche per il tema Chiesa e omosessualità?», Martini risponde anzitutto: «Nel rispondere a questa domanda, conceda anche a me la riservatezza e la discrezione che a mia volta chiedo alla Chiesa in tema di sessualità. Nella mia cerchia di conoscenze vi sono coppie omosessuali, persone stimate e altruiste. Non mi è mai stato chiesto, né mai mi sarebbe venuto in mente, di giudicarle. La questione è come possiamo affrontare questo argomento. Mi riesce più facile trovare un modo quando conosco qualcuno di persona e non devo difendere tesi generali» [40]. Insomma, Martini si mostra alquanto “agnostico” in tema di omosessualità (proprio come Karl Rahner…). Condannare l’omosessualità in quanto tale (fermo restando il rispetto per le persone omosessuali), sarebbe per Martini una tesi generale da non difendere… Il cardinale Martini sostiene che la condanna biblica dell’omosessualità è motivata da «la problematica prassi dell’antichità, quando gli uomini avevano, accanto alla famiglia, amanti di sesso maschile, a volte anche ragazzi. Un famoso esempio è Alessandro Magno. La Bibbia vuole invece tutelare la famiglia, la donna e lo spazio per i figli» [41]. Che scaltro Martini! Invece, leggendo la Bibbia (AT e NT), in connessione vitale e imprescindibile con Tradizione e Magistero (es.: Catechismo della Chiesa Cattolica!), comprendiamo che la condanna dell’omosessualità non è motivata semplicemente dalla tutela della famiglia, bensì dall’intrinseca malvagità della stessa omosessualità. Rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso sono in sé atti contro natura! Martini spiega che nelle comunità protestanti e nell’ebraismo riformato, l’omosessualità non è un problema, mentre invece per gli ortodossi, l’omosessualità è un orrore… E aggiunge: «In questa pluralità cerchiamo la nostra strada. […] Di conseguenza io propendo per una gerarchia di valori e non, in linea di principio, per una parità di diritti. Ho già detto più di quanto non avrei dovuto. Percorriamo insieme e con prudenza cammini che si differenziano. Ma non dobbiamo farci la guerra a causa di questi percorsi. Ho già citato i limiti tracciati dalla Bibbia» [42]. Anche sul tema del celibato sacerdotale, Martini è alquanto “zoppicante”…: «Il celibato è un altro argomento. Questo tipo di vita è oltremodo impegnativo e presuppone una profonda religiosità, una comunità valida e forti personalità, ma soprattutto la vocazione a non sposarsi. Forse non tutti gli uomini chiamati al sacerdozio possiedono questo carisma. Da noi la Chiesa dovrà escogitare qualcosa» [43]. E passiamo al penultimo capitolo (il 6°), anch’esso molto interessante: Per una Chiesa aperta. Sotto il titolo del capitolo 44, vi sono due “opinioni”, probabilmente condivise da padre Sporschill (e da Martini). Un certo René si lamenta, tra l’altro, che l’attuale Pontefice abbia liberalizzato «la messa in latino». René commenta: «Per me si mette male. Probabilmente anche per il buon Dio»… Poi, una certa Evelina accusa la Chiesa di misoginia: all’altare e in Vaticano, solo uomini; la Chiesa usa la Bibbia «in modo sessista»; le Sante sono solo «le brave servitrici»… Sporschill-Martini sono convinti che la Chiesa non sia più aperta al mondo come negli anni del Concilio… Addirittura, per Martini: «La Chiesa si è dunque indebolita» [45]. Martini cita «teologi controversi» di quegli anni, quali «Karl Rahner, Pierre Teilhard De Chardin, Henri de Lubac»… Egli sa bene che costoro erano avversati da chi voleva salvare la neoscolastica… Il cardinale comprende bene come vescovi e docenti «conservatori» siano «tentati di tornare ai bei vecchi tempi». Tuttavia per Martini bisogna «guardare avanti»… [46] A proposito della cattedra dei non credenti (da lui istituita a Milano), Martini presenta i suoi interlocutori non credenti quali «individui pensanti» [47]. Chiediamoci: agli occhi di Martini, quei credenti che dissentono dal suo progressismo, sono ritenuti, forse, non pensanti? Anche nell’elogiare il femminismo, Martini sa essere alquanto scaltro. Egli è convinto che «gli ecclesiastici devono chiedere perdono alle donne per molte cose» [48]. La mariologia martiniana è striminzita, ovviamente in linea con la svolta antropologica di Rahner. Ecco cosa dice Martini sulla Madonna, nelle Conversazioni notturne: «Maria, la madre di Gesù, dovrebbe essere più amata dagli uomini moderni. A nessuno Dio ha attribuito un’importanza maggiore per il Messia che a questa donna» [49]. Tutto qui. Punto. Martini, en passant, scrive che nel Nuovo Testamento, fino al Medioevo, c’erano «le diaconesse»… Ma dove vuole arrivare Martini? Il lettore lo comprende dopo qualche rigo, allorché l’anziano cardinale parla del sacerdozio alle donne, sul quale Martini è favorevole! Ecco cosa dice il porporato gesuita: «Negli anni Novanta sono andato a trovare a Canterbury l’allora primate della Chiesa d’Inghilterra, l’arcivescovo dottor George Leonard Carey. L’ordinazione di donne aveva provocato tensioni nella sua Chiesa. Ho tentato di infondergli coraggio in questa impresa: potrebbe aiutare anche noi a rendere più giustizia alle donne e a comprendere come andare avanti. Non dobbiamo essere scontenti perché la Chiesa evangelica e quella anglicana ordinano donne, introducendo così un elemento fondamentale nel contesto del grande ecumenismo. E tuttavia, questo non è motivo per uniformare le diverse tradizioni» [50].
Il soggettivismo e relativismo martiniano è shockante. Martini vuole «una Chiesa aperta, una Chiesa che abbia le porte aperte alla gioventù, una Chiesa che guardi lontano» [51]. E poco oltre, rilascia altre lampanti “confessioni”, circa la riforma della Chiesa che – secondo lui – dovrebbe avvenire nella direzione luterana: «La Chiesa ha sempre bisogno di riforme. La forza riformatrice deve venire dal suo interno. […] Martin Lutero fu un grande riformatore. Il suo amore per le Sacre Scritture, dalle quali ricavò buone idee, è la cosa più importante. Io stesso devo molto nella scienza biblica ai grandi autori protestanti. In Lutero trovo problematico il punto in cui, da riforme necessarie e da ideali, crea un sistema a sé. Nel Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica si è lasciata ispirare anche dalle riforme di Lutero, avviando un processo di rinnovamento dall’interno. Per la prima volta, i tesori della Bibbia sono stati presentati ai cattolici su base allargata. Abbiamo un nuovo rapporto con il mondo, con le sue difficoltà e con il suo sapere. Anche il movimento ecumenico è una conseguenza delle riforme» [52]. Circa il rinnovamento dell’Est Europa, Martini accenna ad un amico Vescovo di quei luoghi, preoccupato del pericolo secolarista che minaccia i fedeli dell’Est. Secondo Martini bisogna abbandonare l’atteggiamento difensivo e proporre nuove idee, liberare la pratica del Sacramento della Confessione «dai pesanti fardelli del passato e far brillare l’offerta di Dio». Martini insiste sulla necessità di «sacerdoti esperti di accompagnamento spirituale». Secondo Martini bisogna guardare avanti, «non lamentarsi e non moraleggiare» [53]. Insomma Martini fa intendere che la Confessione dovrebbe esser liberata dalla classica “indagine” del confessore volta a sondare le disposizioni del penitente e dalla “tradizionale” opera di illuminazione del penitente sulle scottanti tematiche morali. La Confessione dovrebbe esser liberata da “divieti” e “moralismi”… Già sappiamo come la pensa il cardinale in tema di sessualità. Martini fa intravedere, insomma, un’amministrazione a buon mercato della Confessione, con assoluzione anche per coloro che, tutto sommato, vogliono continuare ad avere rapporti: pre-matrimoniali, contraccettivi, omosessuali… In tema di dialogo interreligioso: grandi modelli per Martini sono il Dalai Lama [54] e Gandhi [55]. Martini sostiene che «l’islam è una religione figlia del cristianesimo, così come il cristianesimo è una religione figlia dell’ebraismo» [56]. Come al solito, Martini è ambiguo. Cosa intende Martini allorché afferma che le religioni sono l’una figlia dell’altra? Forse, che l’una è generata dall’altra? Naturalismo ed evoluzionismo religioso? Come quello supposto, o proposto da Teilhard De Chardin?
Conclusioni Al termine della sua presentazione, dal titolo Per una Chiesa coraggiosa, padre Sporschill scrive: «La notte è un momento di oscurità, di immaginazione, i sensi si affinano. Se, come qualcuno ha detto, la metà della notte è il principio del giorno, queste conversazioni a Gerusalemme, nel luogo in cui ha avuto inizio la storia dei cristiani, sono conversazioni sui cammini di fede in tempi di incertezza. Le riflessioni e le risposte del cardinale, che ho registrato dalle nostre conversazioni, aprono la porta a una Chiesa coraggiosa e degna di fede» [57]. Purtroppo, nonostante le loro ottime intenzioni, dobbiamo constatare che, oggettivamente, sia il cardinale che padre Sporschill sono rimasti nell’oscurità e nell’incertezza… Le loro riflessioni non proteggono affatto i cattolici dal rischio di perdere la Fede, anzi, al contrario, suppongono e favoriscono tale perdita… Infatti, chi – come Martini – dissente apertamente dal Magistero della Chiesa (sia pure solo in tema di sessualità), dimostra di aver perduto la fede… E allora, come ho già scritto sopra, fa bene il cardinal Martini a «pregare per la Chiesa» [58]… Ma farà ancor meglio la Chiesa a pregare per il cardinal Martini. (M. Piesse, in Fides Cattolica, Rivista di apologetica cattolica, 2/2009, pp. 593-608)
NOTE [1] Cfr. C. Martini – I. Marino (Colloquio, a cura di Daniela Minerva), Dialogo sulla vita, “L’Espresso”, 27 aprile 2006, in Rassegna Stampa di Erasmo Notizie, Bollettino d’informazione del Grande Oriente d’Italia, N. 7-8, 15-30 Aprile 2006, pp. 42-47. [2] Cfr. Movimento Concilio Vaticano II, in Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni), Le religioni in Italia, Editrice Elledici, Leumann (Torino) 2006, pp. 105-106. In Italia, il Mo.Co.Va. è ad Avellino, Monopoli, Bari, Como. [3] Cfr. Le interviste di Agorà – Chi è don Franco Ratti, fondatore del Mo.Co.Va., in Nea Agorà – Rassegna di Studi e Tradizioni, «rivista bimestrale di divulgazione culturale riservata esclusivamente agli appartenenti del Grande Oriente d’Italia», Anno III, novembre-dicembre 1998, Bari, p. 34. [4] Cfr. F. Ratti, Giubileo e Crepuscolo, in Nea Agorà – Rassegna di Studi e Tradizioni, novembre-dicembre 1998, Bari, pp. 35-36. [5] Cfr. C.M. Martini – G. Sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2008, p. 124. [6] Nell’udienza generale di mercoledì 19 gennaio 1972, papa Paolo VI ha denunciato apertamente l’attualità - sotto altri nomi - del «modernismo» (parole di Paolo VI!) già condannato dal papa San Pio X col decreto Lamentabili (1907) e con l’enciclica Pascendi. Paolo VI ha citato apertamente i due suddetti documenti di Pio X (Cfr. Insegnamenti di Paolo VI, vol. X, 1972, Tipografia Poliglotta Vaticana 1973, p. 56). [7] S. Magister, Dio non è cattolico, parola di cardinale, 12 novembre 2008, in www.chiesa, Notizie, analisi, documenti sulla Chiesa cattolica, a cura di Sandro Magister, in http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/209322, website visitato il 09.XII.2008. Questo nuovo libro di Martini è stato elogiato dall’ateo Eugenio Scalfari. Per Natale 2008, la rivista dei gesuiti italiani, Popoli, regalava il libro di Martini-Sporschill a coloro che avrebbero fatto l’abbonamento per l’anno 2009. Il libro di Martini-Sporschill è stato elogiato in un articolo di Benedetta Stella, sul website del Centro di Pastorale Universitaria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Scrive l’autrice: «Dalle tematiche davvero varie - estremamente chiaro ma non per questo superficiale nei contenuti - quello di Martini, gesuita e biblista di fama internazionale, è un libro molto attuale per i giovani che cercano di dare risposta a quelli che sono gli interrogativi più profondi per la vita di un credente e non solo» (http://www.unicatt.it/centropastorale/Approfondimenti/ dettaglio.asp?id=344. C’è da riflettere… [8] P. De Marco, Osservazioni sulle “Conversazioni notturne” di Carlo Maria Martini e Georg Sporschill, in http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/209322, website visitato il 09. XII. 2008. Nel suddetto libro, Martini dice che le defezioni dalla Chiesa e dal clero non lo spaventano… È invece preoccupato dalle «persone che non pensano» (ivi, p. 64). [9] In un recente studio, don Nicola Bux ha rilevato che la base ideologica della crisi liturgica degli ultimi 40 anni è la svolta antropologica di Karl Rahner (Cfr. N. BUX, La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione, Prefazione di Vittorio Messori, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2008, pp. 25-26, 58. Don Nicola Bux è consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede e per le Cause dei Santi. È anche consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice. [10] G. Sporschill, Per una Chiesa coraggiosa, in Conversazioni notturne a Gerusalemme, p. 6. [11] Cfr. Conversazioni notturne a Gerusalemme, pp. 77-88. [12] Ivi, p. 9. [13] Cfr. ivi, p. 10. [14] Cfr. ivi, p. 12. [15] Cfr. ivi, p. 17. [16] Cfr. ivi, p. 18. [17] Cfr. ibidem. [18] Cfr. ivi, p. 19. [19] Ivi, pp. 20-21. [20] Cfr. ivi, p. 21. [21] Ivi, p. 21. [22] Cfr. ivi, p. 26. [23] Cfr. ibidem. [24] Cfr. ivi, p. 27. [25] Cfr. ivi, p. 28. [26] Ivi, p. 31. [27] Cfr. ivi, p. 47. [28] Ivi, p. 61. [29] Ivi, p. 62. Martini dice di esser stato «sempre entusiasmato» da Teilhard De Chardin che vede il mondo procedere verso Dio… Martini elogia «l’utopia» di Teilhard (Cfr. ivi, p. 62). [30] Cfr. ivi, p. 91. [31] Ivi, p. 91. [32] Ivi, pp. 91-92. [33] Cfr. ivi, p. 92. [34] Ivi, p. 93. [35] Ivi, p. 93. [36] Ivi, p. 94. [37] Cfr. ivi, pp. 94-95. [38] Ivi, p. 95. [39] Ivi, p. 96. [40] Ivi, p. 98. [41] Ibidem. [42] Ivi, p. 98. [43] Ivi, p. 100. [44] Cfr. ivi, p. 101. [45] Ivi, p. 103. [46] Cfr. ibidem. Indirettamente, Martini conferma la pericolosità di quei teologi moderni (Rahner, De Chardin…). [47] Ivi, p. 104. [48] Ivi, p. 107. [49] Ivi, p. 108. [50] Ivi, pp. 108-109. [51] Ivi, p. 109. [52] Ivi, p. 110. [53] Cfr. ivi, p. 111. [54] Cfr. ivi, p. 113. [55] Cfr. ivi, p. 114. [56] Ivi, pp. 115-116. [57] Ivi, p. 6. [58] Ivi, p. 62.
Un silenzio che contempla e adora Le preghiere apologetiche dell’Ordo Missae (6 dicembre 2009)
La sacra liturgia, che il Concilio Vaticano II qualifica come l’azione sacerdotale di Cristo, e quindi la fonte e il culmine della vita ecclesiale, non può mai ridursi ad una semplice realtà estetica, né può essere considerata come uno strumento a fini puramente pedagogici o ecumenici. La celebrazione dei santi misteri è soprattutto azione di lode rivolta alla maestà suprema di Dio uno e trino, azione voluta da Dio stesso. Con essa l’uomo, personalmente e comunitariamente, si presenta davanti al Signore per rendergli grazie, cosciente del fatto che il suo stesso essere non può raggiungere la propria pienezza se non lo loda e non compie la sua volontà, nella costante ricerca del Regno che è già presente e tuttavia verrà definitivamente nel giorno della parusia del Signore Gesù[1]. Alla luce di ciò, è chiaro che la direzione di ogni azione liturgica – che è la stessa per sacerdote e fedeli – è quella rivolta verso il Signore: al Padre attraverso di Cristo nello Spirito Santo. Perciò «sacerdote e popolo certamente non pregano uno verso l’altro, bensì verso l’unico Signore»[2]. Si tratta di vivere costantemente il «conversi ad Dominum», quel volgersi ora verso il Signore, che suppone la conversio, il dirigere la nostra anima verso Gesù Cristo e, in questo modo, verso il Dio vivente, ossia verso la luce vera[3]. In questo modo, la celebrazione liturgica è vissuta come atto di quella virtù di religione che, coerentemente alla sua natura, deve caratterizzarsi per il profondo senso del sacro. In essa, l’uomo e la comunità devono essere consapevoli di incontrarsi, in modo speciale, dinanzi a Colui che è il tre volte Santo e il Trascendente. Di qui che «un segno convincente dell’efficacia che la catechesi eucaristica ha presso i fedeli è senza dubbio la crescita in loro del senso del mistero di Dio presente in mezzo a noi»[4]. L’atteggiamento appropriato nella celebrazione liturgica non può essere altro se non quello pieno di riverenza e di stupore, che scaturisce dal sapersi in presenza della maestà di Dio. Non era forse questo ciò che Dio stesso voleva indicare, ordinando a Mosè di togliersi i sandali dinanzi al roveto ardente? Non nasceva forse da questa coscienza l’atteggiamento di Mosè ed Elia, che non osarono guardare Dio faccia a faccia?[5] In questo quadro si intendono meglio le parole del II Canone della Messa, che definiscono perfettamente l’essenza del ministero sacerdotale: «Astare coram te et tibi ministrare». Sono dunque due i compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: «Stare in presenza del Signore» e «servire alla sua presenza». Il Santo Padre Benedetto XVI, commentando simile ministero, notava che il termine servizio si adotta fondamentalmente per riferirsi al servizio liturgico. Ciò implica diversi aspetti e, tra gli altri, la vicinanza e la familiarità. Scriveva il Papa: «Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso “servire” significa vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine. Si spegne così il timore riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani»[6]. In effetti, prima di qualunque celebrazione liturgica, ma in modo speciale prima dell’Eucaristia – memoriale della morte e risurrezione del Signore, grazie al quale si fa realmente presente questo avvenimento centrale della salvezza e si realizza l’opera della nostra redenzione – dobbiamo porci in adorazione dinanzi al Mistero: Mistero grande, Mistero di misericordia. Che cosa infatti avrebbe potuto fare di più Gesù per noi? Realmente, nell’Eucaristia egli ci mostra un amore che arriva «fino alla fine» (Gv 3, 1), un amore che non conosce limiti[7]. Rimaniamo attoniti e storditi dinanzi a una realtà così straordinaria: con quanta umile condiscendenza Dio ha voluto unirsi all’uomo! Se fra poche settimane staremo, commossi, davanti al presepe, contemplando l’incarnazione del Verbo, cosa non dobbiamo sentire davanti all’altare, sul quale Cristo fa presente nel tempo il suo Sacrificio, attraverso le povere mani del sacerdote? Non resta che inginocchiarsi e adorare in silenzio il grande Mistero della fede[8]. Conseguenza logica di quanto si è detto è che il popolo di Dio deve poter vedere, nei sacerdoti e anche negli altri ministri dell’altare, un comportamento pieno di riverenza e di dignità, che sia capace di aiutarli a penetrare le cose invisibili, anche senza tante parole o spiegazioni. Nel Messale Romano detto «di san Pio V», come pure in diverse liturgie orientali, si trovano preghiere molto belle, con le quali il sacerdote esprime il più profondo sentimento di umiltà e riverenza dinanzi ai santi misteri: esse rivelano la sostanza stessa di qualunque liturgia[9]. Alcune di queste orazioni presenti nel citato Messale – che nella sua edizione del 1962 è il Messale proprio della «forma straordinaria» del Rito Romano – sono state riprese nel Messale promulgato dopo il Concilio Vaticano II. Queste preghiere sono chiamate tradizionalmente «Apologie». A queste orazioni si riferisce la Institutio Generalis Missalis Romani al n. 33. Dopo il riferimento alle orazioni che il sacerdote pronuncia come celebrante a nome di tutta la Chiesa, la IGMR afferma che «talvolta [egli prega] invece anche a titolo personale, per poter compiere il proprio ministero con maggior attenzione e pietà. Tali preghiere, che sono proposte prima della proclamazione del Vangelo, alla preparazione dei doni, prima e dopo la Comunione del sacerdote, si dicono sottovoce». Queste brevi formule pregate in silenzio invitano il sacerdote a personalizzare il suo compito, a consegnarsi al Signore anche a titolo personale. Esse sono allo stesso tempo un modo eccellente di incamminarsi – come gli altri fedeli – all’incontro con il Signore in modo interamente personale, oltre che comunitario. E questo è un primo aspetto di essenziale importanza, perché solo nella misura in cui si comprendono e si interiorizzano la struttura liturgica e le parole della liturgia, si può entrare in consonanza interiore con esse. Quando ciò succede, il sacerdote celebrante non parla con Dio solo come persona individuale, bensì entra nel «noi» della Chiesa che prega. Se la celebratio è preghiera, ossia colloquio con Dio – colloquio di Dio con noi e nostro con Dio – l’«io» proprio del celebrante si trasforma, entrando nel «noi» della Chiesa. Si arricchisce e si allarga l’«io» pregando con la Chiesa, con le sue parole, e si intavola realmente un colloquio con il Signore. In questo modo il celebrare è realmente celebrare «con» la Chiesa: il cuore si dilata – ovviamente non in senso fisico, ma nel senso che esso si mette «con» la Chiesa in colloquio con Dio. In questo processo di allargamento del cuore, le orazioni apologetiche ed il silenzio contemplativo e adorante che esse producono rappresentano un elemento importante e perciò fanno parte della struttura della celebrazione eucaristica da più di mille anni. In secondo luogo, nel cammino verso il Signore ci accorgiamo della nostra indegnità. Perciò diventa necessario durante la celebrazione chiedere che Dio stesso ci trasformi ed accetti che partecipiamo in quella actio Dei che configura la liturgia. Di fatto, lo spirito di conversione continua è una delle condizioni personali che rendono possibile la actuosa participatio (partecipazione attiva) dei fedeli e dello stesso sacerdote celebrante. «Non ci si può aspettare una partecipazione attiva alla liturgia eucaristica, se ci si accosta ad essa superficialmente, senza prima interrogarsi sulla propria vita»[10]. Il raccoglimento ed il silenzio prima e durante la celebrazione si comprendono in questo contesto e facilitano il realizzarsi delle parole di Benedetto XVI: «Un cuore riconciliato con Dio abilita alla vera partecipazione»[11]. Ne consegue di nuovo che le orazioni apologetiche svolgono un ruolo importante nella celebrazione. Ad esempio, le preghiere apologetiche «Munda cor meum», recitata prima della proclamazione del Vangelo, o «In spiritu humilitatis», che precede il lavabo dopo la presentazione delle oblate (pane e vino), permettono al sacerdote che le prega di prendere coscienza della realtà della sua indegnità e, allo stesso tempo, della grandezza della sua missione. «Il sacerdote è più che mai servo e deve impegnarsi continuamente ad essere segno che, come strumento docile nelle mani di Cristo, rimanda a Lui»[12]. Il silenzio e i gesti di pietà e raccoglimento del celebrante muovono i fedeli che partecipano alla celebrazione a rendersi conto della necessità di prepararsi, di convertirsi, data l’importanza del momento liturgico cui partecipano: prima della lettura del Vangelo, o nell’imminenza dell’inizio della Preghiera Eucaristica. Da parte loro le apologie «Per huius aquae et vini» durante l’Offertorio, o «Quod ore sumpsimus, Domine» durante la purificazione dei vasi sacri, si inquadrano perfettamente all’interno del desiderio di essere introdotti e trasformati nella e a causa della actio divina. Dobbiamo costantemente ricordare alla nostra mente e al nostro cuore che la liturgia eucaristica è actio Dei che ci unisce a Gesù attraverso il suo Spirito[13]. Queste due apologie orientano la nostra esistenza verso l’incarnazione e la risurrezione e, in realtà, costituiscono un elemento che favorisce la realizzazione di quel desiderio della Chiesa, che i fedeli non assistano alle celebrazioni come muti spettatori, ma che vi prendano parte attivamente dando grazie a Dio e imparando ad offrire se stessi insieme a Cristo[14]. Non ci sembra eccessivo, allora, affermare che le apologie svolgono un ruolo di primo piano nel ricordare al ministro ordinato che «è il medesimo Sacerdote Cristo Gesù di cui realmente il ministro fa le veci. Costui se, in forza della consacrazione sacerdotale che ha ricevuto, è in verità assimilato al Sommo Sacerdote, gode della potestà di agire con la potenza dello stesso Cristo che rappresenta (virtute ac persona ipsius Christi)»[15]. Allo stesso tempo, esse ricordano al sacerdote che, essendo ministro ordinato, egli è «il legame sacramentale che collega l’azione liturgica a ciò che hanno detto e fatto gli apostoli e, tramite loro, a ciò che ha detto e operato Cristo, sorgente e fondamento dei sacramenti»[16]. Le orazioni dette in segreto dal sacerdote costituiscono pertanto un mezzo straordinario per unirsi gli uni agli altri, per formare una comunità che è «liturga» e che partecipa tutta rivolta versus Deum per Iesum Christum. Una delle apologie, conservata nell’Ordo Missae post-conciliare, rende perfettamente ciò che andiamo dicendo: «Domine Iesu Christe, Fili Dei vivi, qui ex voluntate Patris cooperante Spiritu Sancto per mortem tuam mundum vivificasti». Di fatto, le orazioni che il sacerdote prega in segreto, e questa in particolare, possono aiutare in modo efficace sacerdote e fedeli a raggiungere la chiara consapevolezza che la liturgia è opera della Santissima Trinità. «La preghiera e l’offerta della Chiesa sono inseparabili dalla preghiera e dall’offerta di Cristo, suo Capo»[17]. Così le apologie si configurano da più di mille anni come semplici formule purificate dalla storia, piene di contenuto teologico, che permettono al sacerdote che le prega, e ai fedeli che partecipano al silenzio che le accompagna, di rendersi conto del mysterium fidei al quale partecipano e così unirsi a Cristo riconoscendolo come Dio, fratello e amico. Per questi motivi, dobbiamo rallegrarci che, nonostante il fatto che la riforma liturgica post-conciliare abbia drasticamente ridotto il numero e notevolmente ritoccato il testo di queste orazioni, esse continuino ad essere presenti anche nel più recente Ordo Missae. L’invito ai sacerdoti è a non trascurare queste preghiere durante la celebrazione e anche a non trasformarle da preghiere del sacerdote a preghiere di tutta l’assemblea, leggendole ad alta voce al pari di tutte le altre orazioni. Le orazioni apologetiche si basano su ed esprimono una teologia diversa e complementare a quella che fa da sfondo alle altre orazioni. Questa teologia si manifesta nel modo silenzioso e riverente con il quale sono pregate dal sacerdote e accompagnate dagli altri fedeli. (Traduzione dallo spagnolo di don Mauro Gagliardi, Zenit.org, 25 novembre 2009)
NOTE 1) Giovanni Paolo II, Messaggio all’Assemblea plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 21.09.2001. 2) J. Ratzinger/Benedetto XVI, Prefazione al primo volume delle Gesammelte Schriften. 3) Cfr. Benedetto XVI, Omelia nella Veglia pasquale, 22.03.2008. 4) Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 65. 5) Cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio all’Assemblea plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 21.09.2001. 6) Benedetto XVI, Omelia nella Messa Crismale, 20.03.2008. 7) Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 11. 8) Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2004. 9) Cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio all’Assemblea plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 21.09.2001. 10) Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 55. 11) Ibid. 12) Ibid., n. 23. 13) Cfr. Ibid., n. 37. 14) Cfr. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 48. 15) Pio XII, Mediator Dei, cit. in Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1548. 16) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1120. 17) Ibid., n. 1553.
Il rito del Battesimo dei bambini e l’accoglienza della vita (29 novembre 2009)
L’accoglienza che una comunità offre a un nuovo nato costituisce un momento cruciale e decisivo, tanto per il neonato quanto per la comunità. Il rito con cui tale accoglienza viene celebrata mette in scena normalmente ciò che sta al fondamento della vita e della comunità stessa e lega simbolicamente a tale fondamento anche la vita del nuovo nato, che così diventa membro della comunità a tutti gli effetti. Da questo punto di vista, si può parlare del battesimo come rito di accoglienza della vita[1]. Tuttavia questa espressione potrebbe celare una visione parziale e riduttiva del sacramento. La stessa prassi pastorale del battesimo patisce questa ambiguità, per superare la quale è necessario chiarire che cosa si intenda per «vita» e quali dimensioni venga ad assumere la sua accoglienza. In questo modo l’esperienza del rito apparirà anzitutto come apertura alla vita che viene da Dio. Su queste considerazioni si snoderà il percorso di questo contributo, avendo come guida la pratica celebrativa del Rito del battesimo dei bambini (= RBB).
1. Il tempo della celebrazione del battesimo La vicinanza cronologica tra la nascita e la celebrazione del sacramento del battesimo è così radicata, e da così tanto tempo, nelle Chiese di antica evangelizzazione, da sembrare naturale e pienamente giustificata, quasi dovuta. Tuttavia in questi ultimi decenni la proposta pastorale battesimale registra alcune modificazioni significative. Al di là della percentuale di genitori che non chiedono (ovvero non chiedono immediatamente) il battesimo dei loro figli, si dà di fatto una diminuzione della rapidità con cui si chiude la sequenza nascita-battesimo. Ciò è sancito anche dalle recenti indicazioni normative e pastorali. I Praenotanda dell’Ordo baptismi parvulorum precedente la riforma del concilio Vaticano II affermavano: «Infantes quamprimum baptizentur» (Praenotanda de sacramento Baptismi rite administrando, n. 39); l’introduzione al nuovo RBB, invece, dice: «La celebrazione del battesimo si faccia entro le prime settimane dopo la nascita del bambino» (RBB 8)[2]. Le motivazioni di questa indicazione, se da un lato ribadiscono il dovere di provvedere al battesimo senza troppa dilazione per il «bene spirituale del bambino», dall’altro fanno spazio a istanze ulteriori: le «condizioni di salute della madre», auspicandone la presenza alla celebrazione, e l’esigenza pastorale che richiede il «tempo indispensabile per preparare i genitori e disporre la celebrazione in modo che appaia chiaramente il significato e la natura del rito» (ivi)[3]. Diverse iniziative pastorali stanno saturando questo intervallo temporale, a volte dilatandolo fino a qualche mese e altre volte contenendolo nelle poche settimane. Questo rallentamento della sequenza cronologica non è, a mio avviso, un fatto trascurabile, dal momento che agisce su un costume sociale che, pur essendo già in evoluzione, rimane ancora fortemente tradizionale e culturalmente accettato. Ne fanno fede, per ragioni diverse, tanto il permanere dell’ansia dei pastori quando si verifica la mancata richiesta immediata del battesimo da parte di alcune famiglie, quanto la fatica da parte di altre famiglie di accettare proposte pastorali che impegnino per un certo tempo e che costringano a rinviare la data del battesimo. In ogni caso, il progressivo distanziarsi della celebrazione del battesimo dai giorni immediatamente seguenti alla nascita non è privo di conseguenze per la percezione del significato del battesimo stesso[4]. Dal punto di vista pastorale, la vicinanza più o meno immediata con l’evento della nascita dà al battesimo un contesto esistenziale particolarmente forte e pregnante. Il venire alla luce del figlio/figlia introduce una novità che porta con sé una domanda di senso e che rende urgente il compimento di gesti simbolici con cui fare spazio a questa nuova presenza all’interno del contesto sociale ed ecclesiale. Sembra quasi che sia lo stesso neonato (la sua condizione) a invocare presso i genitori e la comunità il riconoscimento radicale della sua presenza e la piena integrazione nel contesto relazionale. Quanto più ci si allontana dalla nascita, invece, tanto più si attenua la percezione di questa urgenza. È come se il motivo che spinge a richiedere il battesimo non venga sollecitato anzitutto dalla novità della nascita, ma sia prevalentemente a carico dei genitori e del cammino dentro il quale potranno maturare i motivi per chiedere il battesimo per il loro figlio. Le due situazioni non si escludono a vicenda, ma offrono un terreno differente per innestare l’annuncio cristiano e favorire un itinerario di fede. Forse gli stessi riti battesimali acquistano connotazioni o tonalità differenti. Occorre esserne consapevoli, per cogliere le opportunità e affrontare le sfide pastorali che sono legate alle due circostanze. In ogni caso, il profilarsi di questa situazione complessa invita a interrogarsi sul senso specifico del battesimo in relazione all’esigenza di accogliere la vita.
2. Il battesimo come rito di accoglienza? Bisogna riconoscere che l’abitudine a connettere immediatamente il battesimo con l’evento della nascita porta con sé anche il rischio di una percezione sfuocata del significato del sacramento. In effetti, per tanto tempo il rito battesimale ha svolto anche una rilevante funzione socio-culturale, dal momento che l’integrazione nella Chiesa coincideva con l’integrazione nella società[5]. Anche se oggi le cose si pongono in modo differente, rimane però la tendenza a fare del battesimo un atto solenne e festoso esigito dall’evento della nascita come momento simbolico socialmente rilevante: un rito di passaggio legato alla nascita; un rito a cui ancora si ricorre, seppur in un contesto sociale secolarizzato, perché supplisce la mancanza di un momento simbolicamente forte sul piano civile; un rito che, nello stesso tempo, rischia di esaurire il suo significato sul piano civile, attenuando la sua valenza religiosa e propriamente cristiana. In relazione a ciò, il battesimo condivide la stessa tensione che attraversa gli altri sacramenti dell’iniziazione: «Possono, in molti casi, essere sentiti come riti di nascita o riti d’infanzia, in breve, come riti di passaggio. Non ci si chiede più, del resto, qual è il passaggio che simboleggiano: il passaggio della nascita, dell’infanzia, dell’adolescenza o il passaggio alla vita in Cristo?»[6]. In questa situazione, non si può non rilevare l’ambiguità della lettura del battesimo come un rito che esprime l’accoglienza della vita, se non si chiarisce su quale piano si pone tale affermazione. Certo, il fatto che alla recezione dei sacramenti cristiani sia connessa una certa rilevanza sociale è inevitabile e non è in sé un male[7]. Questo fatto però impone di discernere con più attenzione il senso proprio del sacramento come è vissuto nella prassi pastorale, soprattutto in una società secolarizzata e pluralista, nella quale rischia di essere trascinato in una deriva di significati. Non è inutile ricordare, a questo proposito, che il legame del battesimo con la vita del battezzando non implica per necessità dogmatica una connessione immediata con il momento cronologico della nascita. Tale immediatezza non era ritenuta necessaria, ad esempio, dalla Chiesa dei primi secoli. Se anche allora si può avere traccia di pedobattesimo, rimane oltremodo evidente che la Chiesa ha iniziato la sua missione evangelizzando e portando al battesimo gli adulti che si convertivano. Il sacramento era quindi legato al sorgere della fede e alla maturazione di una domanda consapevole e convinta, verificata dal discernimento ecclesiale. È significativo, ad esempio, che Giustino, scrivendo verso la metà del sec. II, presentando il battesimo come «rigenerazione», metta in luce prevalentemente la sua differenza dalla prima generazione, insistendo piuttosto sulla scelta consapevole di essere rigenerati: «Nella nostra prima nascita, noi siamo stati generati, senza averne coscienza, né poterne fare a meno, da umido seme, per il mutuo rapporto d’unione dei genitori; e siamo stati procreati in una natura perversa e con inclinazioni malvagie; per non rimanere però figli di necessità o d’incoscienza, ma di elezione e di scienza, e per ottenere la remissione dei peccati prima commessi, per colui che ha scelto di essere rigenerato e di convertirsi dai peccati, si invoca sull’acqua il nome di Dio Padre e Signore dell’universo» (I Apologia, 61,10). Rimane vero anche oggi, del resto, che al battesimo si può giungere a qualsiasi età, in ragione del contesto di fede nel quale matura la domanda del sacramento. Evidentemente ciò non impedisce di vedere un legame del battesimo con la nascita o generazione, ma vieta di pensarlo nei termini di una successione cronologica immediata e naturale, e soprattutto proibisce di ridurre il suo significato a un semplice rito di integrazione del nuovo nato nel contesto sociale[8]. Per certi aspetti, quando il rito del battesimo viene celebrato in prossimità della nascita, non può non caricarsi della particolarità di questa situazione antropologica, e ciò rappresenta certamente anche una risorsa preziosa per la celebrazione, che potrà e dovrà raccogliere tutte le domande e le aspirazioni che tale situazione comporta. Tuttavia il rito, inserendo l’evento della nascita alla vita nella memoria dell’evento pasquale di Gesù Cristo, ha il compito di introdurre e celebrare una novità che non è immediatamente leggibile nella nascita né è deducibile da essa, anche se nel contempo risponde proprio alla domanda che ogni nascita porta con sé. Connettere il battesimo con l’accoglienza della vita significa parlare propriamente e anzitutto della vita che viene da Dio. E, di conseguenza, significa rimodulare il concetto di accoglienza alla luce di questa realtà. Questo è quanto emerge chiaramente dal RBB. Una breve analisi di alcuni suoi tratti rituali può mettere in risalto più ampiamente questa prospettiva.
3. Il Rito del battesimo dei bambini e il dono della vita che viene da Dio Già a un primo sguardo, il rituale mostra che il tema della vita e della sua accoglienza presenta diversi livelli di lettura e di profondità. All’inizio della celebrazione, è suggerito al celebrante di rivolgere un saluto ai presenti, accennando «alla gioia con cui i genitori hanno accolto i loro bimbi come un dono di Dio: è lui, fonte della vita, che nel battesimo vuole comunicare la sua stessa vita» (RBB 36). Sembra quindi che l’approdo al battesimo già presupponga l’accoglienza della vita a un livello umano e religioso, che sa scorgerne l’eccedenza del dono di Dio. Nello stesso tempo, lo sguardo viene riorientato verso la vita divina (chiamata nel rituale «vita nuova», «vita eterna», «vita immortale»...), donata da Dio; ad essa ci si apre progressivamente lungo il cammino della vita, venendo accompagnati tanto dall’aiuto di Dio (cf. RBB 56) quanto dall’aiuto dei propri cari (genitori, padrini). Dopo il richiamo all’accoglienza che i genitori hanno accordato al loro figlio, si giunge al gesto di accoglienza da parte della Chiesa, espresso nel tradizionale segno di croce tracciato sulla fronte dei bambini. L’intervento ecclesiale non è semplicemente «altro» rispetto a quello dei genitori. Significativamente, infatti, anche a loro (e ai padrini) è chiesto di fare sulla fronte del bambino il segno di croce che traccia il celebrante. Vengono posti anch’essi dal lato della Chiesa che accoglie. Si può dire che sono chiamati a ricevere il loro figlio in un’altra prospettiva, a un livello più profondo, inserendosi in una relazionalità le cui dimensioni non sono più solo quelle della famiglia e il vincolo dei legami non è più solo quello parentale/amicale, ma è la fraternità ecclesiale. Il gesto del segno della croce, infatti, dice un’iniziale appartenenza a Cristo che muta la condizione del bambino, determinando un legame di solidarietà con Cristo e con quelli che sono di Cristo. In questo modo, i genitori sono aiutati ad accogliere in modo nuovo colui che hanno generato: non solo come loro figlio, ma come loro fratello in Cristo. Sullo sfondo, naturalmente, sta sempre l’azione di Dio, continuamente invocata: Egli, comunicando al battezzato la sua stessa vita, lo introduce alla «nuova vita» e lo fa entrare a far parte del suo popolo. Si possono ulteriormente esplicitare, ora, alcuni caratteri che questo tema assume nello sviluppo della celebrazione. 3.1. Rinascere dalla pasqua: desiderabilità e affidabilità della vita in Cristo Lo svolgimento del RBB è attraversato da una tensione dinamica tra due poli: da una parte, l’invocazione del dono del battesimo e la preparazione a riceverlo; dall’altra, l’accoglienza data a questo dono e lo spazio che esso acquista nella vita del battezzato. Il primo polo è il terreno su cui fiorisce il secondo, come dall’annuncio scaturisce la risposta di fede. Punto di incontro e di svolta tra i due poli di questa tensione è il gesto battesimale compiuto invocando il «nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». La triplice immersione o infusione nel nome della Trinità è figura del nostro prendere parte alla vicenda pasquale di Gesù. Come lui e in lui, nel simbolo rituale, moriamo e risorgiamo a vita nuova, come figli del Padre che dona la vita, animati dallo stesso Spirito che unisce il Padre e il Figlio Gesù. Così, cominciata con il segno della croce sulla fronte («il segno di Cristo Salvatore»: RBB 40), la celebrazione del battesimo si compie con l’inserimento del battezzato nel mistero pasquale di Cristo, dal quale riceve significato e valore la vita, e terminerà con la recita del Padre nostro, la preghiera dei figli di Dio. Il dono della «nuova vita di figli», quindi, al quale il battesimo conduce, scaturisce dalla morte e risurrezione di Gesù. A ciò, forse, non si pensa spontaneamente, quando il battezzando è un bambino appena nato. Eppure anche il suo battesimo si intreccia con questo tema fondamentale. La rinascita battesimale ha come primo punto di partenza la morte di Gesù. Il rito ci ricorda che possiamo decifrare pienamente il senso dell’inizio della vita solo a partire dalla sua fine. Così è stato, eminentemente e in modo unico, anche per Gesù: la sua morte e risurrezione ha rivelato pienamente e compiutamente chi egli era, il valore della sua umanità, la verità della sua storia. La sua pasqua ci ha consegnato una vita totalmente vissuta nell’amore, fino alla morte; di più, ci ha consegnato una vita vittoriosa sulla morte, una vita non più soggetta ai limiti della nostra realtà, perché ormai è pienamente e per sempre compiuta nell’amore. Chiunque viene alla luce, non dispone della propria origine e non tiene in mano tutta la sua vita, il suo futuro e il suo esito. Solo in Gesù morto e risorto vediamo il tutto della vita (anche oltre la morte) e solo in lui possiamo sperare di aver parte alla pienezza della vita. Per questo motivo, l’affidarsi a Gesù che dona se stesso morendo e risorgendo rende possibile accogliere la nostra vita (la vita di ciascuno) nel suo senso più pieno e nuovo, che affronta e supera anche il contro-senso della morte. Il gesto battesimale è veramente «illuminazione», una luce proiettata sul battezzato, che gli rivela da chi attinge l’origine della propria vita e in chi può sperare il suo compimento. Appare evidente, ora, che la tensione dinamica tra l’invocazione del dono battesimale e la sua accoglienza non si pone semplicemente su un piano di successione cronologica. È sempre la stessa grazia di Cristo, infatti, che è all’opera: come muove l’annuncio del Vangelo, così muove la risposta della fede; come suscita il desiderio di invocarla e dispone a riceverla, così si dà a conoscere nel frutto che matura in chi l’accoglie. Il dono di essere come Cristo appare desiderabile, al punto da muovere alla decisione di chiedere di essere uniti a lui nel battesimo. E tale desiderabilità «graziosa» (ossia mossa dalla grazia) si fonda sull’affidabilità della vita di Gesù giunta al suo compimento, per il quale anche la nostra vita (la vita di ogni persona) può essere accolta e affrontata con piena fiducia. I riti della celebrazione battesimale possono essere vissuti come gesti che raccolgono, esprimono e fanno sperimentare nei confronti del bambino la tensione del desiderio di una vita piena e l’affidabilità del suo orientamento a Gesù. La fede dei genitori potrebbe facilmente prendere forma con autenticità dentro questi atteggiamenti e rappresenterebbe l’espressione simbolicamente più alta del loro amore genitoriale. 3.2. L’orizzonte escatologico della vita come dono e come compito Essere battezzati nella morte e risurrezione di Gesù significa anticipare nel simbolo rituale il compimento a cui vogliamo sia orientata la nostra esistenza. La vita del battezzato comincia da lì. Lo si vede chiaramente nei gesti rituali che seguono l’atto battesimale[9]. I neofiti sono rinati dall’acqua e dallo Spirito e la loro nuova identità si riflette nel modo in cui vengono accolti dalla comunità e dalla famiglia. L’unzione con il crisma sul capo allude alla consacrazione che Dio opera nel battesimo e con la quale sigilla la loro unione a Cristo, rendendoli partecipi della sua qualità sacerdotale, regale, profetica. La veste candida, con cui vengono rivestiti i bambini dopo il bagno battesimale, li mostra nella dignità propria di coloro che si sono rivestiti di Cristo[10]. La candela accesa al cero pasquale ricorda che i battezzati sono divenuti figli della luce: cominciano ad ardere dello stesso fuoco di Cristo. Ma questi riti completano la presentazione della vita cristiana con l’indicazione del compito che il battesimo rende possibile e verso cui conduce. Così la consacrazione del crisma porta a un’appartenenza attiva alla Chiesa: «Inseriti in Cristo, sacerdote, re e profeta, siate sempre membra del suo corpo per la vita eterna» (RBB 71). La dignità che hanno ricevuto coloro che sono rivestiti di Cristo li impegna a una condotta rinnovata: «Aiutati dalle parole e dall’esempio dei vostri cari, portatela [= la veste bianca] senza macchia per la vita eterna» (RBB 72). Anche la partecipazione alla luce pasquale di Cristo accompagna il cammino dei battezzati, in solidarietà con i loro cari: «Abbiate cura che i vostri bambini, illuminati da Cristo, vivano sempre come figli della luce; e perseverando nella fede, vadano incontro al Signore che viene, con tutti i santi, nel regno dei cieli» (RBB 72). È fortemente sottolineato l’orizzonte escatologico in cui è inserita la vita cristiana. Nell’esistenza del battezzato si ripete sacramentalmente quanto è avvenuto nella vita di Gesù (immersione nella sua pasqua). Questo rito definisce la nuova identità del battezzato, dando senso alla sua vita nella sua interezza. Nello stesso tempo, ciò lo impegna ad attuare l’identità cristiana nella concretezza storica; così la sua vita, rimanendo aperta alla grazia che l’ha generata, conseguirà pienamente il compimento della vita eterna. Come si vede, la tensione escatologica tra la pasqua di Cristo e la nostra partecipazione ad essa, passa dal piano sacramentale al piano esistenziale. Il rito racchiude in boccio la totalità della vita. Tutto il corso della storia personale non sarà altro che un dispiegare, nelle situazioni e nelle decisioni concrete, la grazia di essere figli, accompagnati sempre da quella promessa di compimento che precede e supera le nostre capacità. L’accoglienza della vita come dono di Dio, quindi, non si limita solennizzare la pregnanza simbolica del momento pur significativo della nascita, né si riduce a un auspicio riguardante il futuro del bambino, ma eventualmente inserisce tutto ciò nell’orizzonte escatologico aperto da Cristo risorto. Da tale orizzonte ricevono tutto il loro valore sia la vita del battezzato, sia le relazioni che egli intreccia con i suoi cari e con le altre persone: anch’esse sono coinvolte nella promessa di compimento; non si perderanno, ma si ritroveranno «per la vita eterna». 3.3. La vita alla prova del male e la potenza della risurrezione di Cristo Un altro aspetto merita di essere segnalato per comprendere adeguatamente il battesimo come accoglienza della vita. Il rito del battesimo fa emergere sempre anche la presenza del «nemico» della vita (il diavolo), lo spirito del male, l’ostilità che talora il mondo oppone alla vita cristiana. Esplicitamente tutto ciò compare, con accenti diversi, nell’Orazione di esorcismo (RBB 56) e nella Rinuncia a satana (RBB 65-66). La presenza di queste sequenze rituali può ingenerare un certo fastidio o disagio, soprattutto quando si tratta del battesimo di un bambino. La sua condizione sembrerebbe parlarci solo di innocenza, di bellezza e di tenerezza della vita, o almeno così si vorrebbe[11]. Eppure non è difficile capire l’importanza della presenza di questo tema all’interno del percorso rituale del battesimo. Gli adulti che portano il bambino al battesimo conoscono la realtà della vita. È facile, con loro, rendersi conto quanto l’esperienza del male sia presente e pesi sulla vita di ciascuno e quanto la nostra vita ne sia vulnerabile. In particolare, il male viene sperimentato sia come qualcosa che appartiene alle condizioni entro cui conduciamo la vita, sia come ciò che deriva dalle nostre scelte sbagliate. Un atteggiamento di accoglienza della vita che non si misurasse con questa realtà risulterebbe alla fine ingenuo, illusorio, precario. Il male non si esorcizza nascondendolo, ma facendo spazio a una forza superiore ad esso, alla quale ci si affida e dalla quale si viene rafforzati[12]. Il RBB fa riferimento anzitutto al male come una presenza che ci precede e che determina la condizione in cui si dà la nostra esistenza umana (cfr. il peccato originale, le seduzioni del mondo, il potere delle tenebre…). Rispetto a ciò, nelle orazioni di esorcismo si ricorda la vittoria di Cristo sul male e su colui che ne è l’origine (ha distrutto «il potere di satana, spirito del male»: RBB 56). In senso positivo, si afferma che Dio ha mandato il suo Figlio per trasferire l’uomo dalle tenebre nel regno della luce, per dargli la libertà dei figli liberandolo dalla schiavitù del peccato. Perciò si invoca il Padre chiedendo che, per la potenza della risurrezione di Cristo, i battezzandi siano liberati dal potere delle tenebre, rafforzati e protetti nel cammino della vita, consacrati come tempio della gloria, dimora dello Spirito Santo. Come si vede, davanti all’esperienza del male vengono messi in primo piano Dio, la sua potenza, ciò che lui ha operato e può ancora operare. A questo punto, l’orazione di esorcismo può risultare consolante proprio perché, di fronte alla radicalità del male e alla nostra fragilità, invoca la presenza e l’azione del «più forte», nella certezza che proprio e unicamente nella potenza di Cristo (non nella nostra) si può essere in grado di sostenere e contrastare la forza del peccato e di ciò che si oppone alla vita. Compito del battezzando, rispetto a questa contrapposizione radicale, è lasciar agire nella propria vita la potenza di Cristo. Il gesto dell’unzione con l’olio dei catecumeni ne diventa espressione tangibile: «Vi fortifichi con la sua potenza Cristo Salvatore» (RBB 57). Questa sequenza rituale appartiene ancora alla sezione della liturgia della Parola ed è pensata come un aiuto per giungere alla rinascita battesimale. Al momento dell’atto battesimale, invece, il tema del male riemerge sotto un’altra angolatura, come ciò a cui si rinuncia, prima di affermare la propria fede nella Trinità[13]. Sostenuti dalla potenza di Cristo prima invocata, ora è chiesta al battezzando questa scelta di campo radicale, che a suo modo diventa una cifra della decisione che il cristiano è chiamato a confermare in tutta la sua vita: collocarsi dalla parte di Dio, sotto la sua protezione, rinunciando alla seduzione del male e del peccato[14]. Il rito guida i partecipanti a porsi, senza presunzione ma con consapevolezza e fiducia, dalla parte del Dio della vita, di colui che promette e offre in Cristo la partecipazione a una vita sempre degna di essere vissuta, capace di sostenere anche l’esperienza del male e del limite. Il tema del male, quindi, non viene evocato per alimentare la paura, ma per annunciare anche da questo versante la novità di un Dio che nella pasqua di Gesù apre un orizzonte di speranza che dà nuovo senso e nuova luce alla vita. Si può così accogliere il bambino tenendo conto anche di ciò che lo metterà alla prova, invocando colui che ne ha già riportato la vittoria e consegnandosi a lui nella fede.
4. Per un rito significativo Le osservazioni ricavate dal RBB richiamano con evidenza in quale senso il battesimo possa essere inteso come un rito di accoglienza della vita. Esso è anzitutto il luogo nel quale si invoca il dono della vita che viene da Dio e che scaturisce dal compimento della vita di Cristo, a cui si viene associati; perciò è anzitutto il luogo dove i bambini si aprono alla «vita divina che ricevono in dono» (RBB 64). Viene in primo piano l’azione di Dio che accoglie i battezzati come figli in Cristo. In questo modo i bambini stessi sono resi recettori di un dono; la gestualità dei riti post-battesimali ha la sua verità proprio nel fatto di trattare realmente i bambini secondo la loro nuova identità. Ma anche i genitori, i padrini e tutta la comunità cristiana sono chiamati ad accogliere in modo nuovo la vita dei piccoli battezzati, segnati dalla grazia di Dio. Condividendo con loro la stessa nascita «da acqua e Spirito» (Gv 3,5), accolgono la vita filiale che in loro comincia a esprimersi in modo inedito e sono resi, insieme a loro, compagni di viaggio nella fraternità ecclesiale, verso la pienezza della partecipazione alla vita. L’orizzonte di questa accoglienza è aperto sulla totalità della vita, comprensiva dell’esperienza del male che la minaccia e dell’eternità che la attende, perché si misura sulla realtà escatologica di Colui che ha già compiuto umanamente la sua vita, oltrepassando vittorioso anche la minaccia suprema del peccato e della morte. La significatività del RBB è legata alla capacità del gesto rituale di raccogliere le istanze fondamentali della vita e di aprirle all’incontro con il Dio che Gesù Cristo ci ha rivelato. Per valorizzare la significatività del rito, non serve frammentare il corso della celebrazione con spiegazioni che tendono ad anticipare ed esaurire il significato dei gesti. Si deve ricordare che, in ultima istanza, il vero significato del rito non sta prima di esso, ma scaturisce dall’azione rituale compiuta; è frutto dell’incontro tra la grazia e tutte le variabili personali che entrano a far parte dell’evento rituale; si sviluppa non anzitutto sul piano concettuale, ma sul piano esistenziale, rispetto al quale l’intelligenza potrà esercitare il suo servizio di comprensione, verificandone anche la continuità con l’esperienza del vangelo e la sua tradizione. A servizio del rito, sarà utile piuttosto qualche intervento teso a decodificare le situazioni esistenziali per le quali i gesti rituali hanno motivo di essere compiuti[15]. Si tratta di fare in modo che le realtà della vita, implicate dai riti, possano emergere non in una didascalia, ma nello spessore del coinvolgimento esistenziale dei partecipanti. Questo aggancio può essere favorito già con l’avvio della celebrazione, che il rituale prevede con un buon margine di adattabilità (e, in parte, di informalità). Le stesse domande iniziali, relative al nome e alla richiesta dei genitori, si prestano a tale scopo. Ad esempio, si potrebbe dialogare sul senso del nome che è stato scelto per il bambino, sull’individualità che il nome esprime e sulla relazionalità a cui rimanda[16]. Nello stesso modo, si potrebbe tenere maggiormente aperta la domanda: «Per N. che cosa chiedete alla Chiesa di Dio?». Una tale domanda potrebbe far emergere i desideri e le attese più profonde dei genitori e della comunità rispetto al nuovo nato; nello stesso tempo, potrebbe dar modo di orientare tali attese e desideri a ciò che riconosciamo come più fondamentale per la vita, e quindi a ciò che possiamo invocare e ricevere unicamente come dono da parte di Dio[17]. Un’altra attenzione può riguardare il modo e il tono con cui vengono coinvolti i genitori. Nel rituale, più volte viene ricordato a loro l’impegno che si assumono con il battesimo e viene chiesto di confermarlo; ciò sembra quasi caricare in senso moralistico la figura dei genitori. Pare importante, invece, pur tenendo certamente conto delle diverse situazioni, aiutarli a vivere lo stupore di poter vedere e accogliere in modo nuovo la vita del loro figlio e a esprimere la gratitudine per l’esperienza della maternità/paternità[18]. In questo senso, anzi, anche qualora tra la nascita e il battesimo venisse interposto un considerevole lasso di tempo, è auspicabile che, nei limiti del possibile, non venga a mancare un gesto ecclesiale che aiuti i genitori a vivere cristianamente la densità di significato che l’evento della nascita porta con sé[19]. Per concludere, possiamo evocare un’attenzione di squisita (ancorché molto realistica) umanità, che il rituale precedente esigeva dai parroci al termine della celebrazione: «Curet Parochus parentes infantis admoneri, ne in lecto secum ipsi, vel nutrices parvulum habeant, propter oppressionis periculum» (Ordo baptismi parvulorum, n. 32). La stessa attenzione premurosa alla vita del battezzato potrebbe suggerire oggi di mettere in guardia i genitori rispetto a un altro rischio mortale che potrà correre il loro figlio: quello di non avere relazioni buone e significative con persone che potranno aiutarlo a crescere umanamente e cristianamente. Il valore di un simile ammonimento si basa sulla consapevolezza dell’importanza delle relazioni umane fraterne e solidali grazie alle quali ogni vita può crescere e sviluppare la propria potenzialità; nello stesso tempo, esso vorrebbe ricordare, ai genitori ma anche (e soprattutto) a tutta la comunità, la disponibilità e l’impegno della Chiesa a offrirsi come luogo in cui poter allacciare gratuitamente simili relazioni, dal momento che l’accoglienza che Dio ci ha riservato nel battesimo ci ha resi tutti figli suoi, in Gesù Cristo. (Luigi Girardi, Rivista Liturgica, 2/2009)
NOTE [1] In prospettiva ecclesiologica e in relazione all’iniziazione cristiana degli adulti, il tema è stato trattato in modo interdisciplinare in Facoltà teologica di Sicilia (ed.), L’accoglienza nella comunità ecclesiale. Il Rica a vent’anni dalla promulgazione, Edi Oftes, Palermo 1993. [2] Il corsivo è nostro. L’indicazione è stata recepita anche dal Codice di diritto canonico del 1983, al can. 867 § 1. [3] L’urgenza espressa dal quamprimum rimane, ma viene connessa con il dovere dei genitori di chiedere al parroco il battesimo per i loro figli, in modo che si possa preparare adeguatamente la celebrazione del sacramento. [4] Questo distanziamento cronologico è connesso anche con un diverso modo di percepire l’urgenza del battesimo e con un diverso rilievo che viene riconosciuto a vari aspetti del sacramento. Ad es., il tema del peccato originale pare diminuire il proprio peso nel motivare il ricorso immediato al battesimo, mentre il tema di una scelta libera e matura che porti all’appartenenza ecclesiale (da parte dei genitori, se non del battezzando) influisce nel collocare il battesimo dopo un opportuno cammino. [5] Dal tardo Medioevo, ad es., l’attribuzione del nome al bambino, che avveniva al momento del battesimo, era un atto di natura eminentemente sociale oltre che religiosa, e la sua registrazione, per i secoli passati, ha costituito una fonte documentaria di grande rilevanza pubblica e amministrativa. Si ha uno spaccato di questa stretta connessione tra dimensione religiosa e funzione sociale e pubblica dell’atto battesimale in M. Urbaniak, La registrazione dei battesimi nella Firenze del tardo Medioevo, in A. Prosperi (ed.), Salvezza delle anime disciplina dei corpi. Un seminario sulla storia del battesimo, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 159-211. [6] G. Routhier, Le devenir des rites d’initiation chrétienne dans une société marquée par le pluralisme, in B. Kaempf (ed.), Rites et ritualités, Cerf - Lumen Vitae - Novalis, Paris 2000, pp. 131-151. [7] Positivamente, all’evento battesimale dovrà essere riconosciuta quella rilevanza sociale che corrisponde alla socialità propria della Chiesa, e sarà connotata globalmente dal modo in cui la Chiesa entra in rapporto con il mondo. Del resto, l’esigenza di riconoscere il nuovo nato e di riconoscergli un’identità sociale (come grembo in cui sviluppare la sua identità personale) non è affatto trascurabile, ma è essenziale e viene assunta dalla Chiesa nel momento in cui celebra il sacramento. [8] Ovviamente queste osservazioni non mettono in discussione il riconoscimento del peccato originale e della necessità del battesimo, ma evidenziano la diversa scansione temporale entro cui può collocarsi il percorso che porta al battesimo. Allo stesso modo, non è in questione l’attuale saggia indicazione della Chiesa che fa obbligo ai genitori cristiani di far battezzare i loro bambini entro le prime settimane; piuttosto si fa riferimento alla diversità delle situazioni pastorali che possono presentarsi, anche nel contesto attuale. [9] Ritengo preferibile non chiamarli «riti esplicativi», in quanto tale dicitura facilmente li piega (tanto nella comprensione quanto nell’esecuzione) a una logica meramente didascalica, che francamente finisce per renderli artificiali e banali. In effetti, l’edizione italiana del RBB ha fatto cadere il titolo con cui venivano indicati nell’editio typica, ossia Ritus explanativi. [10] In ordine a una partecipazione piena al battesimo, non è trascurabile l’indicazione rubricale del Rituale a proposito della veste bianca: «È bene che questa sia portata dalle singole famiglie» (RBB 72). [11] Recentemente mi è capitato il caso di una coppia che avrebbe desiderato fare la Professione di fede togliendo però dal rito la Rinuncia a Satana, proprio per il disturbo che certe espressioni provocavano loro. Più in generale, il termine «esorcismo» nell’uso attuale risulta indubbiamente compromesso, e ciò che esso evoca nelle persone non aiuta a comprendere il senso della presenza di questa preghiera nell’itinerario verso il battesimo. Si potrebbe forse pensare di chiamarla con un altro nome. Cf. S. Lanza, Quali linguaggi per l’iniziazione cristiana, in APL (ed.), Iniziazione cristiana degli adulti oggi. Atti della XXVI Settimana di studio, Seiano di Vico Equense (NA) 31 agosto - 5 settembre 1997, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1998, pp. 208-210. [12] È evidente, nella pratica pastorale, quanto oggi possa influire sull’accoglienza della vita la precarietà della condizione in cui si vive, la percezione di essere in un mondo ostile dove sembra prevalere la cattiveria umana. Talvolta questa percezione fa domandare se vale la pena «mettere al mondo» una nuova vita o se si è in grado si assicurarle una prospettiva degna di vita. Il rito, affrontando anche questo tema, consente un reale e importante aggancio esistenziale da valorizzare, per disporsi a sperimentarne più pienamente l’efficacia. [13] Cf. I. Parmentier, Renonciation et acte de foi, in «La Maison-Dieu» 216 (4/1998) 111-126. [14] Va ricordato che le domande relative alla rinuncia e alla professione di fede erano anticamente rivolte al battezzando. Ciò era rimasto anche quando si battezzavano gli infanti, incapaci di parlare: rispondeva per loro il padrino. Nell’attuale riforma del RBB si è voluto che la rinuncia e la professione di fede fossero chieste direttamente ai genitori e padrini. Così è chiaro che le «promesse» del loro battesimo sono ciò che ancora li guida nel loro compito educativo. Ma esse rimangono fondamentalmente a esprimere la posizione in cui viene collocato il battezzando dall’azione rituale e rimangono in rappresentanza della fede che egli potrà in seguito ratificare personalmente: ora è costituito fidelis, partecipe della fede della Chiesa, nella quale viene battezzato. [15] Un’indicazione simile, seppure in altro contesto argomentativo, si trova nell’interessante contributo di L.-M. Chauvet, Della mediazione. Quattro studi di teologia sacramentaria fondamentale, Cittadella - Pontificio Ateneo S. Anselmo, Assisi 2006, pp. 214-219. [16] Normalmente oggi il nome del bambino è già stato scelto ed è già stato dato prima del battesimo. Quindi, anche se il battesimo fosse celebrato in prossimità della nascita, la domanda: «Che nome date al vostro bambino?», non va intesa con valore anagrafico. Si può però evidenziare il senso dell’aver scelto e dato un nome al figlio, atto che esprime il suo radicamento in un contesto di tradizione familiare e sociale. Inoltre il battesimo realizza l’inserimento del bambino come «fedele» nella comunità ecclesiale, e ciò comporta il riconoscimento e l’accoglienza dell’unicità della sua persona e la possibilità che egli possa presentarsi come tale agli altri e, in ultima istanza, davanti a Dio. [17] La risposta che il rituale indica come prima possibilità («il battesimo») appare fin troppo affrettata, rischiando di risultare persino superficiale. La trepidazione nei confronti del bambino apre un orizzonte molto più ampio, fatto di desideri, attese, sogni, ansie. Tutto ciò è un buon terreno per porre il seme di una prospettiva di vita raggiungibile per la grazia di Dio. Del resto, il dialogo con il bambino che il rito precedente la riforma proponeva (traccia di un dialogo che poteva aver luogo anticamente con l’ingresso di un adulto nel catecumenato) era certamente più profondo e più ricco: «[Sacerdote:] Che cosa chiedi alla Chiesa di Dio? [Padrino:] La fede. [Sacerdote:] E la fede che cosa ti dona? [Padrino:] La vita eterna. [Sacerdote:] Se dunque vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti. Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso». [18] Questa tonalità di gratitudine appare chiaramente nei formulari della benedizione finale (RBB 78-79). Significativa di questo aspetto, e meritevole di essere maggiormente valorizzata, è anche l’ultima indicazione rubricale: «Dopo la benedizione è bene che tutti eseguano un canto, che esprima gioia pasquale e azione di grazie; si può anche cantare il Magnificat. Dove si è soliti portare i neobattezzati all’altare della Madonna, tale consuetudine si può mantenere» (RBB 80). [19] Il Benedizionale fornisce schemi di riti di benedizione che possono essere opportunamente valorizzati o possono ispirare interventi oranti adatti a circostanze simili.
Pio XII e gli ebrei. Una difesa (22 novembre 2009)
Ancor prima che Pio XII morisse, nel 1958, in Europa già veniva messa in circolazione l’accusa — un pezzo classico della propaganda comunista contro l’Occidente — che il suo pontificato era stato favorevole ai nazisti. Dopo la morte del Papa l’accusa venne sommersa da un’alluvione di omaggi tanto da parte di ebrei quanto di gentili, per riaffiorare in occasione della prima, nel 1963, de Il Vicario (1), il dramma di uno scrittore tedesco di sinistra — già membro della Hitlerjugend, la "Gioventù hitleriana" — di nome Rolf Hochhuth. Il Vicario, romanzesco e fortemente polemico, sosteneva che la preoccupazione di Pio XII per le finanze vaticane lo aveva reso indifferente di fronte alla distruzione dell’ebraismo europeo. Ma, ciononostante, il dramma di Hochhuth — sette ore di durata — ebbe un’eco notevole, scatenando una controversia protrattasi lungo gli anni 1960. E adesso, oltre trent’anni dopo, quella controversia è riesplosa all’improvviso e per ragioni non immediatamente evidenti. Infatti, il termine "esplosa" non descrive adeguatamente l’attuale torrente di polemiche. Negli ultimi diciotto mesi sono usciti nove libri su Pio XII: Il Papa di Hitler. La storia segreta di Pio XII di John Cornwell (2), Pio XII e la Seconda Guerra mondiale negli Archivi Vaticani di Pierre Blet (3), Papal Sin di Garry Wills (4), Pio XII. Architetto di pace di Margherita Marchione (5), Hitler, the War and the Pope di Ronald J. Rychlak (6), The Catholic Church and the Holocaust, 1930-1965 di Michael Phayer (7), Under His Very Windows. The Vatican and the Holocaust in Italy di Susan Zuccotti (8), The Defamation of Pius XII di Ralph McInerny (9), e, più di recente, Constantine’s Sword. The Church and the Jews: A History di James Carroll (10). Dal momento che quattro di essi — quelli di Blet, della Marchione, di Rychlak e di McInerny — prendono le difese del Papa, e due — i libri di Wills e di Carroll — si occupano di Pio XII solo nell’ambito di un più ampio attacco contro il cattolicesimo, il quadro può apparire equilibrato. Di fatto, dopo averli letti tutti e nove, si deve concludere che i difensori di Pio XII hanno gli argomenti più forti, soprattutto con Hitler, the War and the Pope di Rychlak, il migliore e più accurato fra i lavori recenti, un elegante volume di seria critica scientifica. Eppure, quelli che hanno ottenuto maggior attenzione sono i libri che denigrano il Papa, in particolare Il Papa di Hitler, un volume ampiamente recensito e messo in vendita con l’avviso che Pio XII è stato "l’ecclesiastico più pericoloso della storia moderna", senza il quale "Hitler non avrebbe mai potuto [...] farsi strada". Il "silenzio" del Papa si sta affermando sempre più come stabile opinione nei media americani: "Il fatto che Pio XII abbia elevato l’interesse privato cattolico al di sopra della coscienza cattolica costituisce il punto più basso raggiunto dalla storia moderna del cattolicesimo", osservava quasi di sfuggita il New York Times recensendo il mese scorso Constantine’s Sword di Carroll. Strano a dirsi, quasi tutti quelli oggi su questa linea — dagli ex seminaristi John Cornwell e Garry Wills all’ex prete James Carroll — sono cattolici non praticanti o del dissenso. Per i leader ebraici della vecchia generazione, la campagna contro Pio XII sarebbe stata un colpo. Durante e dopo la guerra molti ebrei famosi — Albert Einstein, Golda Meir, Moshe Sharett, il rabbino Isaac Herzog e innumerevoli altri — espressero pubblicamente la loro gratitudine a Pio XII. Nel suo libro uscito nel 1967 Roma e gli ebrei. L’azione del Vaticano a favore delle vittime del Nazismo (11) il diplomatico Pinchas Lapide — che era stato console israeliano a Milano e aveva intervistato alcuni italiani sopravvissuti all’Olocausto — dichiarò che Pio XII "fu lo strumento di salvezza di almeno 700.000, ma forse anche 860.000, ebrei che dovevano morire per mano nazista". Ciò non significa che Eugenio Pacelli — il potente ecclesiastico che aveva prestato servizio come nunzio in Baviera e in Germania dal 1917 al 1929, e poi come Segretario di Stato vaticano dal 1930 al 1939, prima di diventare Papa Pio XII sei mesi prima dello scoppio della seconda guerra mondiale — fosse amico degli ebrei come lo è stato Giovanni Paolo II. Né che Pio XII abbia avuto in definitiva successo come difensore degli ebrei. Malgrado i suoi disperati sforzi per mantenere la pace, la guerra ci fu e, malgrado le sue proteste contro le atrocità tedesche, il massacro dell’Olocausto ebbe luogo. Anche se con il senno di poi, uno studio accurato rivela che la Chiesa cattolica perse l’occasione d’influenzare gli eventi, sbagliò ad accreditare in pieno le intenzioni dei nazisti e fu contagiata in alcuni dei suoi membri da un occasionale antisemitismo, che avrebbe approvato — e, in qualche orrendo caso, anche ratificato — l’ideologia nazista. Ma fare di Pio XII un bersaglio del nostro sdegno morale contro i nazisti e annoverare il cattolicesimo fra le istituzioni delegittimate dall’orrore dell’Olocausto significa mancare di comprensione storica. Quasi nessuno dei recenti libri su Pio XII e l’Olocausto è in realtà su Pio XII e l’Olocausto. Il loro vero tema si rivela essere una disputa fra cattolici riguardo a come è diretta la Chiesa oggi, con l’Olocausto che gioca il ruolo del randello più grosso a disposizione dei cattolici progressisti contro i tradizionalisti. Un dibattito teologico sul futuro del papato è ovviamente qualcosa in cui i non-cattolici non dovrebbero farsi coinvolgere troppo in profondità. Ma gli ebrei, quali che siano i loro sentimenti nei confronti della Chiesa cattolica, hanno il dovere di rifiutare ogni tentativo di usurpare l’Olocausto e di usarlo per ragioni di parte in questo dibattito, particolarmente quando tale tentativo scredita la testimonianza dei sopravvissuti all’Olocausto ed estende a personaggi impropri la condanna che invece appartiene a Hitler e ai nazisti. La tecnica usata nei recenti attacchi a Pio XII è semplice. Richiede solo che le prove a favore siano interpretate nella peggiore luce e sottoposte all’esame più rigoroso, mentre le prove contro siano invece interpretate nella miglior luce e non siano sottoposte ad alcun esame. Così, per esempio, quando Cornwell ne Il Papa di Hitler si propone di provare che Papa Pio è stato antisemita — un’accusa che anche i più accaniti oppositori del Pontefice hanno di rado sollevato —, fonda gran parte del suo deferimento in giudizio di Pacelli su una lettera del 1917 indirizzata "al culto ebraico", come se per un prelato cattolico italiano nato nel 1876 il termine "culto" avesse lo stesso suono che ha oggi in inglese (12), e come se lo stesso Cornwell non facesse occasionale riferimento al culto cattolico dell’Assunzione e al culto della Vergine Maria. (La parte più immediatamente utile di Hitler, the War and the Pope può essere considerata l’epilogo di trenta pagine in cui Rychlak si dedica a demolire questo genere di argomenti contenuti ne Il Papa di Hitler). Lo stesso modello è adottato in Under His Very Windows della Zuccotti. Per esempio: esiste testimonianza di un sacerdote secondo cui il vescovo di Assisi, Giuseppe Nicolini, tenendo una lettera in mano, dichiarò che il Papa gli aveva scritto per chiedere aiuto in favore degli ebrei italiani durante la retata tedesca del 1943. Ma, poiché il sacerdote non aveva effettivamente letto la lettera, la Zuccotti ipotizza che il vescovo avrebbe potuto ingannarlo, e che di conseguenza la deposizione andrebbe rigettata. Si può confrontare questo accostamento scettico alla prova giudiziale con il modo in cui fu esaminata, per esempio, un’intervista del 1967, in cui il diplomatico tedesco Eitel F. Mollhausen diceva di aver inviato informazioni all’ambasciatore nazista in Vaticano, Ernst von Weizsäcker, e che "presumeva" che Weizsäcker le avesse trasmesse a "funzionari" della Chiesa. La Zuccotti assume questa presunzione come una prova irrefutabile che il Papa aveva diretta conoscenza in anticipo della retata tedesca. (Una lettura corretta suggerisce invece che Pio XII avesse udito voci a riguardo e le avesse riferite agli occupanti tedeschi. La principessa Enza Pignatelli Aragona narrò che, quando l’interruppe portandogli la notizia della retata nel primo mattino del 16 ottobre 1943, le prime parole del Papa furono: "Ma i tedeschi avevano promesso di non toccare gli ebrei!".) Attraverso questo criterio duplice, gli scrittori recenti non hanno problemi ad arrivare a due conclusioni preconcette. La prima è che la Chiesa cattolica deve accollarsi la colpa dell’Olocausto: "Pio XII è il principale colpevole", propone la Zuccotti. E la seconda è che la colpevolezza del cattolicesimo è dovuta ad aspetti della Chiesa che ora sono rappresentati da Giovanni Paolo II. Infatti, il parallelismo diviene chiaro nel capitolo conclusivo de Il Papa di Hitler e lungo tutti Papal Sin e Constantine’s Sword: il tradizionalismo di Giovanni Paolo II fa tutt’uno con il presunto antisemitismo di Pio XII; le attuali posizioni vaticane sull’autorità del papa sono in linea diretta con la complicità nello sterminio nazista degli ebrei. Di fronte a tale mostruosa equivalenza di ordine morale e a un tale abuso dell’Olocausto, come possiamo non avere obiezioni? È vero: nel corso della disputa su Il Vicario e ancora durante il difficoltoso iter vaticano della sua causa di beatificazione — che si protrae dal 1965 — Pio XII ha avuto denigratori fra gli ebrei. Nel 1964, per esempio, Guenter Lewy diede alla luce I nazisti e la Chiesa (13), cui si aggiunse, nel 1966, Pio XII e il Terzo Reich. Documenti di Saul Friedländer (14). Entrambi i volumi sostenevano che l’anticomunismo di Pio XII lo aveva portato ad appoggiare Hitler come baluardo contro i russi. Ma, mentre dal 1989 sono aumentate le informazioni relative alle atrocità sovietiche e l’ossessione anti-staliniana pare meno assurda di quanto potesse sembrare a metà degli anni 1960, di fatto sono altrettanto aumentate le prove che Pio XII abbia accuratamente classificato le minacce incombenti. Per esempio, nel 1942 egli disse a un visitatore: "È ben vero che il pericolo comunista esiste, ma in questo momento la minaccia nazista è più seria". Egli intervenne altresì presso i vescovi americani per sostenere la concessione di prestiti ai sovietici e si rifiutò esplicitamente di benedire l’invasione nazista della Russia. (L’accusa di acceso anticomunismo è, nonostante questo, ancora viva: in Constantine’s Sword Carroll attacca il concordato del 1933, che Hitler sottoscrisse per la Germania, ponendo la domanda: "Si può immaginare che Pacelli avrebbe negoziato un accordo del genere con i bolscevichi di Mosca?", apparentemente non accorgendosi che era esattamente quello che Pacelli aveva tentato a metà degli anni 1920.) In ogni modo, Pio XII fra gli ebrei ebbe anche i suoi difensori. Oltre a Roma e gli ebrei di Lapide si potrebbero elencare Pio XII e gli ebrei, l’opuscolo scritto nel 1963 dal membro dell’Anti-Defamation League Joseph Lichten (15), nonché le graffianti recensioni di Friedländer redatte da Livia Rotkirchen, la storica dell’ebraismo slovaco allo Yad Vashem, il Memoriale israeliano dell’Olocausto. Jenö Levai, il grande storico ungherese, s’arrabbiò a tal punto davanti alle accuse di silenzio rivolte al Papa che scrisse Hungarian Jewry and the papacy. Pope Pius XII did not remain silent. Reports, documents and records from church and state archives assembled by Jeno Levai — pubblicato in inglese nel 1968 —, con una forte introduzione di Robert M. W. Kempner, sostituto procuratore capo statunitense a Norimberga (16). In risposta ai nuovi attacchi contro Pio XII, parecchi scienziati ebrei l’anno scorso hanno preso posizione. Sir Martin Gilbert ha detto a un intervistatore che Pio XII non merita biasimo bensì ringraziamenti. Michael Tagliacozzo, la principale autorità fra gli ebrei romani durante l’Olocausto, ha aggiunto: "Ho un raccoglitore sul mio tavolo in Israele intitolato Calunnie contro Pio XII [...]. Senza di lui, anche molti di noi non sarebbero vivi". Richard Breitman — l’unico storico autorizzato a studiare gli archivi della seconda guerra mondiale dello spionaggio statunitense — ha osservato che i documenti segreti provano fino a qual punto "Hitler diffidava della Santa Sede perché nascondeva gli ebrei". Tuttora il libro di Lapide del 1967 resta il più autorevole lavoro svolto da un ebreo sull’argomento, e nei trentaquattro anni trascorsi da allora molto materiale si è reso disponibile negli archivi vaticani e altrove. I nuovi centri di storia orale hanno raccolto un’impressionante massa d’interviste con sopravvissuti all’Olocausto, cappellani militari e civili cattolici. Visti i recenti attacchi, è venuto il tempo di riprendere di nuovo le difese di Pio XII, poiché, nonostante si presuma il contrario, le migliori prove di natura storica confermano ora che egli non tacque e che quasi nessuno a quel tempo pensava che lo avesse fatto. Nel gennaio del 1940, per esempio, il Papa diede istruzione a Radio Vaticana di rivelare "le tremende crudeltà di una barbara tirannia", che i nazisti stavano infliggendo agli ebrei e ai cattolici polacchi. Dando notizia della trasmissione la settimana successiva, il Jewish Advocate di Boston la lodò per quello che in realtà era: un’"esplicita denuncia delle atrocità tedesche nella Polonia nazista, che le dichiarava un insulto alla coscienza morale dell’umanità". Il New York Times pubblicò un editoriale in cui si diceva: "Ora il Vaticano ha parlato, con un’autorità che non può essere discussa e ha confermato i peggiori indizi di terrore emersi dalla tenebra polacca". In Inghilterra il Manchester Guardian salutò Radio Vaticana come "l’avvocata più potente della Polonia torturata". Qualsiasi esame onesto e scrupoloso delle prove dimostra che Pio XII è stato un tenace critico del nazismo. Basta considerare solo alcuni punti salienti della sua opposizione prima della guerra. * Dei quarantaquattro discorsi pronunciati da Pacelli in Germania come nunzio pontificio fra il 1917 e il 1929 quaranta denunciavano qualche aspetto dell’emergente ideologia nazista. * Nel marzo del 1935 scrisse una lettera aperta al vescovo di Colonia in cui chiamava i nazisti "falsi profeti con l’orgoglio di Lucifero". * In quello stesso anno attaccava le ideologie "possedute dalla superstizione della razza e del sangue" davanti a un’enorme folla di pellegrini a Lourdes. A Notre Dame di Parigi, due anni dopo, chiamò la Germania "quella nobile e potente nazione che cattivi pastori vorrebbero portare fuori strada verso l’ideologia della razza". * Ad alcuni amici disse in privato che i nazisti erano "diabolici". Hitler "è completamente invasato", disse a quella che fu per lungo tempo sua segretaria, suor Pasqualina: "Tutto ciò che non gli serve, lo distrugge [...]; quest’uomo è capace di calpestare i cadaveri". Incontrando nel 1935 l’eroico antinazista Dietrich von Hildebrand dichiarò: "Non vi può essere riconciliazione" fra cristianesimo e razzismo nazista: essi erano come "l’acqua e il fuoco". * Nel 1930, l’anno dopo che Pacelli divenne Segretario di Stato, fu fondata Radio Vaticana, che cadeva fondamentalmente sotto il suo controllo. Mentre sul quotidiano vaticano L’Osservatore Romano vi furono interventi discontinui, benché migliorassero nella misura in cui Pacelli gradatamente ne prese carico — per esempio, dando estesa notizia della Kristallnacht, la "Notte dei cristalli", del 1938 (17) —, la stazione radio si comportò invece sempre bene, con trasmissioni polemiche al punto di richiedere agli ascoltatori di pregare per gli ebrei perseguitati in Germania a seguito delle leggi di Norimberga del 1935. * Nel 1938, quando Pacelli era il principale consigliere del suo predecessore, Pio XI fece la famosa dichiarazione a un gruppo di pellegrini belgi secondo cui "l’anti-semitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti". E fu Pacelli a stendere la bozza dell’enciclica di Pio XI Mit brennender Sorge, "Con bruciante preoccupazione", una condanna della Germania fra le più dure mai emesse dalla Santa Sede. Infatti, lungo tutti gli anni 1930, Pacelli fu largamente oggetto di attacchi satirici da parte della stampa nazista come il cardinale di Pio XI "amante degli ebrei" per le oltre cinquantacinque note di protesta inviate ai tedeschi come Segretario di Stato vaticano. A questi vanno aggiunti i punti salienti dell’azione di Pio XII durante la guerra. * La sua prima enciclica, Summi pontificatus, pubblicata in fretta nel 1939 per implorare la pace, era in parte la dichiarazione che il ruolo del papato era di far appello a entrambi i campi in conflitto piuttosto che condannarne uno. Ma molto significativamente citava san Paolo — "non esiste più greco e giudeo", usando la parola "giudeo" specificatamente nel contesto di un rigetto dell’ideologia razziale. Il New York Times, il 28 ottobre 1939, accolse l’enciclica con il titolo di prima pagina Il Papa condanna i dittatori, i violatori di trattati, il razzismo. Aeroplani alleati lanciarono migliaia di copie del giornale sulla Germania nello sforzo di alimentare il sentimento antinazista. * Nel 1939 e nel 1940, Pio XII agì da intermediario segreto fra i congiurati tedeschi contro Hitler e gl’inglesi e avrebbe corso del pari un rischio avvisando gli Alleati dell’imminente invasione tedesca di Olanda, Belgio e Francia. * Nel marzo del 1940, Pio XII concesse udienza a Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri tedesco e unico nazista di alto rango a prendersi la briga di visitare il Vaticano. Che i tedeschi capissero qual era la posizione di Pio XII era almeno chiaro: Ribbentrop espresse severe critiche al Papa, accusandolo di parteggiare per gli Alleati. Dopo la qual cosa Pio XII cominciò la lettura di una lunga lista di atrocità tedesche. "Con le infiammate parole con cui parlò a Herr Ribbentrop", scrisse il New York Times il 14 marzo, Pio XII "si trovò a essere il difensore degli ebrei in Germania e in Polonia". * Quando i vescovi francesi, nel 1942, diffusero lettere pastorali che attaccavano le deportazioni, Pio XII mandò il suo nunzio a protestare presso il governo di Vichy contro "gl’inumani arresti e le deportazioni di ebrei dalla zona d’occupazione francese in Slesia e in certe parti della Russia". Radio Vaticana commentò le lettere episcopali per sei giorni di seguito, in un momento in cui ascoltare Radio Vaticana in Germania e in Polonia era un crimine per cui alcuni furono condannati a morte. (Il 6 agosto 1942 il New York Times titolava: Si dice che il Papa abbia lanciato un appello per gli ebrei in lista di deportazione dalla Francia. E il Times, tre settimane dopo, scriveva: Vichy cattura gli ebrei. Ignorato Papa Pio XII.) Come ritorsione, nell’autunno del 1942, l’ufficio di Goebbels diffondeva dieci milioni di copie di un opuscolo che definiva Pio XII "il Papa filo-ebraico" e menzionava esplicitamente i suoi interventi in Francia. * Nell’estate del 1944, dopo la liberazione di Roma e prima della fine della guerra, Pio XII disse a un gruppo di ebrei romani che erano venuti a ringraziarlo per la sua protezione: "Per secoli gli ebrei sono stati ingiustamente trattati e disprezzati. È tempo che vengano trattati con giustizia e umanità. Dio lo vuole e la Chiesa lo vuole. San Paolo ci dice che gli ebrei sono nostri fratelli. Essi dovrebbero essere accolti come amici". Dal momento che questi esempi — e centinaia di altri — nei libri che di recente hanno attaccato Pio XII sono a uno a uno screditati, il lettore perde di vista la loro enorme entità e il loro effetto cumulativo, che non lasciava nel dubbio nessuno, meno di tutti i nazisti, sulla posizione del Papa. Un esame approfondito rivela lo schema costantemente adottato. Scrittori come Cornwell e la Zuccotti considerano, per esempio, degno di nota il messaggio natalizio del Papa del 1941 in primo luogo perché sbaglia nel non usare il linguaggio che useremmo noi oggi. Ma gli osservatori contemporanei lo considerarono del tutto esplicito. Nell’editoriale del giorno seguente il New York Times dichiarava: "La voce di Pio XII è una voce isolata nel silenzio e nella tenebra che in questo Natale avvolge l’Europa [...]. Nel suo richiamo a "un autentico nuovo ordine" basato sulla "libertà, la giustizia e l’amore" [...] il Papa si schiera in pieno contro l’hitlerismo". Così pure il messaggio natalizio del Papa dell’anno seguente — in cui esprimeva la sua preoccupazione per quelle "centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento" — venne largamente inteso come una condanna pubblica dello sterminio nazista degli ebrei. In verità, gli stessi tedeschi lo videro come tale. Un’analisi di fonte interna nazista così interpreta: "Il suo discorso è un unico lungo attacco a tutto ciò che rappresentiamo [...]. Egli sta chiaramente parlando per conto degli ebrei [...]. Sta virtualmente accusando il popolo tedesco d’ingiustizia verso gli ebrei e si fa portavoce dei criminali di guerra ebraici". Inoltre, questa consapevolezza nazista poteva avere conseguenze tremende. Esistevano numerosi precedenti perché il Papa temesse un’invasione: Napoleone aveva assediato il Vaticano nel 1809 catturando Pio VII in punta di baionetta; Pio IX fuggì da Roma per salvare la vita dopo l’assassinio del suo ministro degl’Interni; e Leone XIII fu costretto a una sorta di temporaneo esilio, confinato in Vaticano per decenni, alla fine del secolo XIX. Ancora, Pio XII — inveiva il ministro degli Esteri di Mussolini — era "pronto anche ad essere deportato in un campo di concentramento, ma non a fare alcunché contro coscienza". Hitler parlava apertamente di entrare in Vaticano per "far sloggiare tutta quella masnada di puttanieri" e Pio XII era al corrente dei vari piani nazisti per rapirlo. Ernst von Weizsäcker ha scritto che egli metteva regolarmente in guardia i funzionari vaticani dal provocare Berlino. L’ambasciatore nazista in Italia Rudolf Rahn descrive in termini simili uno dei piani di rapimento hitleriani e gli sforzi dei diplomatici tedeschi per scongiurarlo. Il generale Karl Wolff testimoniò di aver ricevuto, nel 1943, ordine da Hitler di "occupare il più presto possibile il Vaticano e la Città del Vaticano, mettere al sicuro gli archivi e i tesori d’arte, di valore unico, e di trasferire il Papa, insieme alla Curia, per la loro protezione, in modo che non cadessero nelle mani degli Alleati ed esercitassero alcuna influenza politica". All’inizio di dicembre del 1943 Wolff riuscì a dissuadere Hitler dall’attuare il piano. Nel valutare quali azioni Pio XII avrebbe potuto svolgere, alcuni — e io fra loro — desiderano che fossero state comminate scomuniche esplicite. Certo, i nazisti battezzati erano già incorsi automaticamente nella scomunica per tutto quanto va dalla mancata frequenza alla Messa all’omicidio non confessato e al pubblico ripudio del cristianesimo. E, come rivelano i suoi scritti e le conversazioni a tavola, Hitler aveva smesso di considerarsi cattolico — anzi, si considerava un anticattolico — molto prima di salire al potere. Ma una dichiarazione pontificia di scomunica avrebbe potuto in qualche misura giovare. D’altra parte, avrebbe potuto anche essere inutile. Don Luigi Sturzo, fondatore del movimento democratico cristiano in Italia negli anni della guerra, fece notare che l’ultima volta in cui "fu pronunciata una scomunica contro un capo di Stato" né la regina Elisabetta I, né Napoleone mutarono la loro politica. "Le proteste di Pio XII furono inutili. Sapeva — sostiene la Marchione — che se avesse pubblicamente denunciato le atrocità di Hitler verso gli ebrei, la situazione sarebbe facilmente peggiorata. Non solo avrebbe esposto i cattolici a pericoli più gravi, ma sapeva anche che sarebbe fallita la sua azione di aiuto agli ebrei. Ogni volta che i vescovi cattolici protestarono, i nazisti aumentarono le deportazioni e le atrocità". I sopravvissuti all’Olocausto come Marcus Melchior, il rabbino capo danese, sostenne che "se il Papa avesse solo aperto bocca, probabilmente Hitler avrebbe trucidato molto più dei sei milioni di ebrei che eliminò, e forse avrebbe assassinato centinaia di milioni di cattolici, solo se si fosse convinto di aver bisogno di un tal numero di vittime". Robert M. W. Kempner — in una lettera al direttore dopo che il periodico Commentary, nel 1964, pubblicò un brano del libro di Lewy — rievocò la sua esperienza al processo di Norimberga per affermare: "Ogni mossa propagandistica della Chiesa cattolica contro il Reich hitleriano sarebbe stato non solo "un procurato suicidio" [...], ma avrebbe affrettato l’esecuzione di ancor più numerosi ebrei e sacerdoti". E questa non è solo una preoccupazione teorica. Una lettera pastorale dei vescovi olandesi, che condannava "lo spietato e ingiusto trattamento riservato agli ebrei", venne letta nelle chiese cattoliche olandesi nel luglio del 1942. La lettera, ben intenzionata — che mostrava di essere ispirata da Pio XII —, si rivelò in realtà controproducente. Come nota Lapide: "La conclusione più triste e sulla quale ci sarebbe molto da riflettere è che, mentre il clero cattolico d’Olanda protestava più vibratamente, più formalmente e più spesso contro le persecuzioni ebraiche di qualsiasi altro, è stata proprio l’Olanda che ha visto il numero maggiore di ebrei — circa 110.000, circa il 79 per cento di tutti — deportato verso i campi di sterminio, più di qualunque altro Stato dell’Europa occidentale". Il vescovo Jean Bernard del Lussemburgo, detenuto a Dachau dal 1941 al 1942, avvisò il Vaticano che "tutte le volte che venivano sollevate proteste, il trattamento dei prigionieri immediatamente peggiorava". Verso la fine del 1942, l’arcivescovo Sapieha di Cracovia e due altri vescovi polacchi, avendo sperimentato le selvagge rappresaglie naziste, pregarono Pio XII di non pubblicare le sue lettere sulle condizioni della Polonia. Perfino la Zuccotti ammette che, nel caso degli ebrei romani, il Papa "avrebbe ben potuto essere preoccupato per gli ebrei, per il fatto di nasconderli, e per i loro protettori cattolici". Si potrebbe naturalmente chiedere che cosa ci sarebbe stato di peggio dell’omicidio di massa di sei milioni di ebrei. La risposta è: il massacro di altre centinaia di migliaia. E il Vaticano ha operato nel senso di salvare quelli che poteva salvare. La sorte degli ebrei italiani è divenuta uno dei maggiori argomenti delle critiche contro Pio XII, nel senso che la mancanza di senso cattolico nella sua stessa casa dimostrerebbe apparentemente l’ipocrisia di ogni odierno richiamo del Papa alla sua autorità morale. (Si noti, per esempio, il titolo del libro della Zuccotti: Under His Very Windows, "Proprio sotto le sue finestre".) Ma resta il fatto che mentre circa l’80 per cento degli ebrei europei è perita durante la seconda guerra mondiale, l’80 per cento degli ebrei italiani furono salvati. Nei mesi in cui Roma si trovava sotto l’occupazione tedesca, Pio XII diede istruzioni al clero italiano di salvare vite con ogni possibile mezzo. (Una fonte trascurata sulla condotta di Pio XII durante questo periodo è la biografia, del 1966, But for Grace of God: the story of an Irish priest who became a resistence leader and later a father to thousand of children in the boy’s towns of Italy (18), di monsignor John Patrick Carroll-Abbing, che lavorò come soccorritore sotto la guida di Pio XII.) A partire dall’ottobre del 1943, Pio XII domandò alle chiese e ai conventi di tutta Italia di dar rifugio agli ebrei. In conseguenza di ciò — e malgrado Mussolini e i fascisti avessero ceduto alle richieste di deportazioni fatte da Hitler — molti cattolici italiani disubbidirono agli ordini tedeschi. A Roma, 155 conventi e monasteri diedero rifugio a circa cinquemila ebrei. Almeno tremila ebrei trovarono rifugio presso la residenza pontificia estiva a Castelgandolfo. Sessanta ebrei vissero per nove mesi nell’Università Gregoriana e molti furono ospitati nella cantina del Pontificio Istituto Biblico. Centinaia trovarono asilo dentro il Vaticano stesso. Seguendo le istruzioni di Pio XII, singoli sacerdoti italiani, monaci, monache, cardinali e vescovi si prodigarono a salvare la vita a migliaia di ebrei. Il cardinale Boetto di Genova ne salvò almeno ottocento. Il vescovo di Assisi nascose trecento ebrei per oltre due anni. Il vescovo di Campagna, mons. Giuseppe Maria Palatucci, e due suoi parenti ne salvarono anche di più a Fiume. Il cardinale Pietro Palazzini, allora assistente vice rettore del Seminario Romano, nascose per parecchi mesi Michael Tagliacozzo e altri ebrei italiani nel Seminario — che era di proprietà del Vaticano — nel 1943 e nel 1944. Nel 1985, lo Yad Vashem rese onore al cardinale come a un Giusto fra le Nazioni, e nell’accettare l’onorificenza Palazzini sottolineò che "il merito è interamente di Pio XII, che ci ordinò di fare tutto ciò che potevamo fare per salvare gli ebrei dalla persecuzione". Anche alcuni laici prestarono aiuto e, nelle loro deposizioni successive, attribuirono invariabilmente al Papa la loro ispirazione ad agire. Di nuovo, la testimonianza più eloquente viene dagli stessi nazisti. Documenti di provenienza fascista, pubblicati nel 1998 — e riassunti nel libro della Marchione Pio XII. Architetto di pace —, parlano di un piano tedesco, denominato Rabat-Fohn, che avrebbe dovuto essere eseguito nel gennaio del 1944. Il piano prevedeva che l’ottava divisione di cavalleria delle SS, travestita da italiani, assalisse San Pietro e attuasse "l’assassinio del Papa con tutti i cardinali in Vaticano", e menzionava specificamente quale causa "la protesta pontificia in favore degli ebrei". La stessa storia potrebbe venir ritrovata attraverso tutta l’Europa. Se vi è spazio per sostenere che la Chiesa cattolica avrebbe dovuto sforzarsi di più — in quanto restano gl’innegabili fatti che davvero Hitler salì al potere, davvero la seconda guerra mondiale si verificò e davvero sei milioni di ebrei morirono —, il punto di partenza della discussione dev’essere la verità che la gente di quel tempo, in uguale misura i nazisti e gli ebrei, compresero che il Papa era l’oppositore più chiaro dell’ideologia nazista. * Già nel dicembre del 1940, in un articolo sul Time Magazine, Albert Einstein rese così omaggio a Pio XII: "Solo la Chiesa sbarra pienamente il cammino alla campagna hitleriana per la soppressione della verità. Prima d’ora non ho avuto alcun interesse particolare per la Chiesa, ma ora sento un grande affetto e ammirazione per essa perché solo la Chiesa ha avuto il coraggio e la perseveranza di schierarsi dalla parte della verità intellettuale e della libertà morale. Sono pertanto costretto ad ammettere che quanto una volta disprezzavo, ora lo apprezzo senza riserve". * Nel 1943, Chaim Weizmann, che sarebbe diventato il primo presidente d’Israele, scrisse che "la Santa Sede sta prestando il suo potente aiuto dove può per attenuare la sorte dei miei correligionari perseguitati". * Moshe Sharett, il secondo nella serie dei primi ministri israeliani, incontrò Pio XII negli ultimi giorni di guerra e gli disse che il suo "primo dovere era di ringraziarlo e, attraverso lui, ringraziare la Chiesa cattolica da parte dell’opinione pubblica ebraica per tutto quanto avevano fatto nei vari paesi per salvare gli ebrei". * Il rabbino Isaac Herzog, rabbino capo d’Israele, nel febbraio del 1944 inviò un messaggio in cui dichiarava: "Il popolo d’Israele non dimenticherà mai quello che Sua Santità e i suoi illustri delegati, ispirati dagli eterni princìpi della religione, che formano le vere basi di un’autentica civiltà, stanno facendo per i nostri sfortunati fratelli e sorelle nell’ora più tragica della nostra storia, prova vivente dell’esistenza della divina Provvidenza in questo mondo". * Nel settembre del 1945, Leon Kubowitzky, segretario generale del Congresso Ebraico Mondiale, ringraziò personalmente il Papa per i suoi interventi e il Congresso Ebraico Mondiale donò 20.000 dollari alla opere caritative vaticane "in riconoscimento del lavoro svolto dalla Santa Sede nel salvare gli ebrei dalle persecuzioni fascista e nazista". * Nel 1955, quando l’Italia celebrò il decennale delle sua liberazione, l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane proclamò il 17 aprile Giorno della Gratitudine, per l’assistenza avuta dal Papa durante la guerra. * Il 26 maggio 1955 l’Orchestra Filarmonica d’Israele volò a Roma per un’esecuzione speciale della Settima Sinfonia di Beethoven, come espressione della duratura gratitudine dello Stato d’Israele verso il Papa per l’aiuto prestato al popolo ebraico durante l’Olocausto. Quest’ultimo esempio è particolarmente significativo. Per ragioni di Stato, la Filarmonica israeliana non ha mai suonato la musica di Richard Wagner, per la sua ben nota reputazione di "compositore di Hitler" e di santo patrono culturale del Terzo Reich. Specialmente durante gli anni 1950, l’opinione pubblica israeliana, in centinaia di migliaia dei suoi membri costituita da sopravvissuti all’Olocausto, vedeva ancora Wagner come simbolo del regime nazista. È inconcepibile che il governo israeliano avrebbe pagato le spese della trasferta di tutta l’orchestra a Roma per rendere omaggio al "Papa di Hitler". Al contrario, il concerto senza precedenti della Filarmonica israeliana in Vaticano fu un gesto unico comunitario di riconoscimento collettivo offerto a un grande amico del popolo ebraico. Centinaia di altri reperti storici potrebbero essere citati. Nella conclusione di Under His Very Windows la Zuccotti scarta — come mal diretto, male informato o perfino ambiguo — l’elogio che Pio XII ricevette dai leader e dagli scienziati ebrei, come pure le espressioni di gratitudine dei cappellani ebrei e dei sopravvissuti all’Olocausto, che diedero testimonianza personale dell’assistenza ricevuta dal Papa. Che la studiosa si comporti così è inquietante. Negare la legittimità della gratitudine da loro espressa a Pio XII equivale a negare la credibilità della loro testimonianza personale e del loro personale giudizio sull’Olocausto stesso. "Più di chiunque altro — ricordava Elio Toaff, un ebreo italiano che visse attraverso l’Olocausto e divenne in seguito rabbino capo di Roma — noi abbiamo avuto modo di beneficare della grande e caritatevole bontà e della magnanimità del rimpianto Pontefice, durante gli anni della persecuzione e del terrore, quando ogni speranza sembrava essere morta per noi". Ma la Zuccotti non è sola. Vi è un’inquietante componente in quasi tutti i lavori attuali su Pio XII. A parte il libro di Rychlak Hitler, the War and the Pope, nessuno dei libri recenti — dal brutale attacco di Cornwell ne Il Papa di Hitler alla difesa acritica che McIrnery fa in The Defamation of Pius XII — è in ultima analisi un libro sull’Olocausto. Tutti sono intenti a utilizzare le sofferenze degli ebrei di cinquant’anni fa per imporre cambiamenti in seno alla Chiesa cattolica odierna. Questo abuso dell’Olocausto deve essere rifiutato. Un resoconto veritiero su Pio XII arriverebbe, credo, all’esatto opposto delle conclusioni di Cornwell: Pio XII non fu il Papa di Hitler, bensì in lui gli ebrei ebbero il maggior sostenitore papale che abbiano mai avuto, e proprio nel momento in cui era più importante averlo. Nel 1983, scrivendo su Yad Vashem Studies, John S. Conway — la maggiore autorità in materia degli undici volumi degli Actes et Documents du Saint-Siège relatifs à la seconde Guerre mondiale — così concludeva: "Un rigoroso studio delle molte migliaia di documenti pubblicati in questi volumi offre scarso sostegno alle tesi che l’autoperpetuazione ecclesiastica sia stata il motivo principale della condotta dei diplomatici vaticani. Piuttosto, l’immagine che ne emerge è quella di un gruppo di uomini intelligenti e coscienziosi, che cercarono di perseguire le vie della pace e della giustizia in un tempo in cui questi ideali erano inesorabilmente ridotti all’irrilevanza in un mondo di "guerra totale"". Questi volumi trascurati — che il lettore inglese può trovare riassunti nel libro di Blet Pio XII e la Seconda Guerra mondiale negli Archivi Vaticani — rivelerà "ancora più chiaramente e in modo più convincente — come Giovanni Paolo II ha detto a un gruppo di leader ebrei a Miami nel 1987 — quanto profondamente Pio XII ha sentito la tragedia del popolo ebraico, e quanto intensamente ed efficacemente si è adoperato per assisterlo durante la Seconda Guerra Mondiale". Il Talmud insegna che "chiunque salva una vita, è considerato dalla Scrittura come se avesse salvato il mondo intero". Pio XII ha adempiuto questo detto talmudico più di ogni altro leader del secolo XX, quando fu in gioco la sorte dell’ebraismo europeo. Nessun altro papa è stato così largamente apprezzato dagli ebrei, ed essi non si sbagliarono. La loro gratitudine, come pure quella dell’intera generazione di sopravvissuti all’Olocausto, attesta che Pio XII fu genuinamente e profondamente un Giusto fra le Nazioni.
David G. Dalin in Pius XII and the Jews. A defense, in © The weekly Standard, volume 6, n. 23, New York 26-2-2001. Traduzione redazionale. Le note, pure redazionali, si limitano — con poche eccezioni — a dare gli estremi bibliografici delle opere esaminate dall’autore; anche le citazioni reperite in lingua italiana sono state lasciate senza rimando per non alterare il testo originale. Cfr. in Cristianità n. 304 (2001). David Gil Dalin nasce a San Francisco, in California, negli Stati Uniti d’America, nel 1949. Rabbino di osservanza conservative, appartiene alla corrente religiosa ebraica che si colloca intermediamente fra gli "ortodossi" e i "riformati" e che rappresenterebbe circa il 55% della popolazione ebraica del paese. Laureato a Berkeley, ha insegnato in vari atenei e seminari ebraici statunitensi. Attualmente è docente di studi giudaici alla Georgetown University di Washington. Dal 1989 ha pubblicato — da solo e con altri — e ha curato più volumi sulle relazioni fra la religione ebraica e lo Stato in America, fra i quali, con Alfred J. Kolatch, The presidents of the United States & the Jews, "I presidenti degli Stati Uniti e gli ebrei" (Jonathan David Publishers, Middle Village [New York] 2000); e, con Jonathan D. Sarna, Religion and State in the American Jewish experience, "Religione e Stato nell’esperienza ebraica americana" (University of Notre Dame Press, Notre Dame [Indiana] 1997). Collabora a diverse riviste americane — ebraiche e non —, fra le quali The weekly Standard di New York.
NOTE (1) Cfr. Rolf Hochhuth, Il Vicario, dramma in 5 atti, trad. it., con una prefazione di Carlo Bo, Feltrinelli, Milano 1964. (2) Cfr. John Cornwell, Il Papa di Hitler. La storia segreta di Pio XII, trad. it., Garzanti, Milano 2000. (3) Cfr. Pierre Blet S.J, Pio XII e la Seconda Guerra mondiale negli Archivi Vaticani, trad. it., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999. (4) Cfr. Garry Wills, Papal Sin. Structures of Deceit [Peccato pontificio. Strutture d’inganno], Doubleday, New York 2000. (5) Cfr. suor Margherita Marchione, delle Maestre Pie Filippini, Pio XII. Architetto di pace, Editoriale Pantheon, Roma 2000. (6) C fr. Ronald J. Rychlak, Hitler, the War and the Pope [Hitler, la guerra e il Papa], Our Sunday Visitor, Huntington (Indiana) 2000. (7) Cfr. Michael Phayer, The Catholic Church and the Holocaust, 1930-1965 [La Chiesa cattolica e l’Olocausto. 1930-1965], Indiana University Press, Bloomington (Indiana) 2000. (8) Cfr. Susan Zuccotti, Under His Very Windows. The Vatican and the Holocaust in Italy [Proprio sotto le sue finestre. Il Vaticano e l’Olocausto in Italia], Yale University Press, New Haven (Connecticut) 2000. (9) Cfr. Ralph McInerny, The Defamation of Pius XII [La diffamazione di Pio XII], St. Augustine’s, South Bend (Indiana) 2000. (10) Cfr. James Carroll, Constantine’s Sword. The Church and the Jews: A History [La spada di Costantino. La Chiesa e gli ebrei. Una storia], Hougthon Mifflin Company, Boston (Massachusetts) 2001. (11) Cfr. Pinchas Emilio Lapide, Roma e gli ebrei. L’azione del Vaticano a favore delle vittime del Nazismo, trad. it., Mondadori, Milano 1967. (12) Con il termine cult l’inglese attuale traduce sia l’italiano "culto" — è il senso in cui usa il termine Pio XII riferito alla religione ebraica — sia l’italiano "setta", in senso peggiorativo. (13) Cfr. Guenter Lewy, I nazisti e la Chiesa, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1965. (14) Cfr. Saul Friedländer, Pio XII e il Terzo Reich. Documenti, trad. it., Feltrinelli, Milano 1965. (15) Cfr. Joseph L. Lichten, Pio XII e gli ebrei, trad. it., Edizioni Dehoniane, Bologna 1988. (16) Cfr. Jenö Levai, Hungarian Jewry and the papacy. Pope Pius XII did not remain silent. Reports, documents and records from church and state archives assembled by Jeno Levai [L’ebraismo ungherese e il papato. Papa Pio XII non restò in silenzio. Resoconti, documenti e testimonianze dagli archivi ecclesiastici e statali raccolti da Jeno Levai], ed. inglese, con introduzione di Robert M. W. Kempner, Sands and Co. Ltd., Londra 1968). (18) Cfr. monsignor John Patrick Carroll-Abbing, But for Grace of God: the story of an Irish priest who became a resistence leader and later a father to thousand of children in the boy’s towns of Italy [Se non per grazia di Dio. La storia di un sacerdote irlandese divenuto un capo della resistenza e poi un padre per migliaia di fanciulli nelle città dei ragazzi d’Italia], con prefazione del card. Giuseppe Pizzardo, Secker & Warburg, Londra 1966.
(15 novembre 2009)
Durante l’anno liturgico, in genere l’attenzione si concentra sul “vangelo dell’anno” e, per ogni domenica, sulle relazioni tra i passi scelti per la prima e la terza lettura domenicale: poca o scarsa attenzione è conferita alla seconda lettura tratta, in prevalenza, dalle lettere di san Paolo. Non si hanno tutti i torti poiché si precisa che queste sono difficili e poco comprensibili per le nostre comunità contemporanee. Tuttavia, l’occasione dell’anno dedicato all’Apostolo delle genti ha offerto un’opportunità unica: quella di approfondire le relazioni tra le sue lettere e l’eucaristia, il giorno del Signore, le dossologie liturgiche, sino a coinvolgere gesti che sono diventati abitudinari, e per questo poco coinvolgenti, come il canto, lo scambio della pace e la raccolta economica per i poveri. Nel presentare, per grandi linee, il variegato rapporto tra Paolo, la liturgia e il culto, cercheremo di cogliere i tratti di continuità e di novità che ha apportato alla liturgia cristiana e che si possono, pur se con sviluppi secolari, cogliere nelle sue lettere. Qual è il tessuto comunitario nel quale nasce e si sviluppa la liturgia cristiana? Che cosa Paolo ha trasmesso del culto giudaico alle comunità cristiane della diaspora? E quale il suo contributo sul culto cristiano? L’attenzione a questo versante della teologia paolina permetterà di riconoscere come, dopo duemila anni di storia del cristianesimo, siamo debitori al suo modo di vedere la liturgia che cadenza il cammino annuale della Chiesa contemporanea.
1. Assemblee familiari Quando tra il 50 e il 60 d.C., Paolo dettava e inviava le sue lettere, il tempio, il monoteismo, le Scritture d’Israele e la legge mosaica, rappresentavano ancora i pilastri portanti della pietà giudaica: in pratica non si assisteva ancora a quella definitiva separazione delle vie tra il giudaismo e il cristianesimo primitivo che di fatto si verificherà, in modo traumatico, con la distruzione del tempio di Gerusalemme. Il contesto storico che abbiamo appena evocato permette di riconoscere che il movimento cristiano delle origini non era ancora espressione di una religione adulta, separata e nata come un fungo bensì, insieme agli altri movimenti interni al giudaismo – si pensi al fariseismo, al sadduceismo, all’essenismo o alle correnti apocalittiche – costituiva una delle correnti giudaiche del tempo. In verità quanti appartenevano ai “credenti” in Cristo, consideravano il loro movimento giudaico come la massima espressione dello stesso giudaismo, poiché attestavano la loro fede in Gesù Cristo, il Signore, nonostante la sua morte ignominiosa sulla croce. Proprio l’esplosione improvvisa del “culto di Cristo”, il Signore, induceva i primi credenti a non limitarsi a frequentare il tempio e le sinagoghe, sparse nella Palestina e nelle comunità giudaiche della diaspora, ma a «spezzare il pane» nelle loro case. Da questo versante, l’attestazione di Luca negli Atti degli apostoli presenta un alto grado di storicità: «Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa, prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Dunque, senza ignorare l’importanza del tempio e delle sinagoghe, in modo progressivo il culto cristiano andava concentrandosi nelle case private, dove ci si riuniva per ascoltare gli insegnamenti degli apostoli e per spezzare il pane. Dal punto di vista sociale, quanti frequentavano le domus ecclesiae non dovevano superare le 50-60 unità, si radunavano nella casa più spaziosa, occupando, nello stesso tempo, l’atrium e il triclinium, e provenivano, in gran parte, dalle classi più indigenti della società greco-romana. Molti dei credenti erano poveri, schiavi o liberti che, provenendo dalle loro tabernae, venivano ospitati nelle domus di quanti godevano di un migliore welfare. Tuttavia nonostante la rigida separazione sociale tra ricchi e poveri, religiosa tra giudei e greci, e sessuale tra maschi e femmine, la frazione del pane nel giorno del Signore si andava sviluppando con la convinzione che «in Cristo Gesù non c’è maschio né femmina, giudeo né greco, schiavo né libero» (Gal 3,28). Quanti condividevano il pane eucaristico, si consideravano «fratelli», accomunati dalla stessa fede nel Messia crocifisso e Signore, dall’unico battesimo e dall’azione dell’unico Spirito che li andava consolidando, come le membra di un unico corpo: quello della Chiesa. Non è fortuito allora che nelle uniche volte in cui Paolo utilizza le formule della trasmissione delle prime tradizioni cristiane («Vi trasmetto quanto ho ricevuto», in 1Cor 11,23 e in 1Cor 15,3), riporti le «parole di Gesù» durante la cena e la scansione degli eventi che cadenzano il cuore del kerygma più antico: «Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese il pane e dopo aver reo grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo per voi; fate questo in mia memoria”. Allo stesso modo, dopo aver cenato,prese anche il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo quando bevete, in mia memoria”» (1Cor 11,23b-25); «Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture, fu sepolto, è risorto nel terzo giorno, secondo le Scritture, apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5). Ogni assemblea delle prime comunità cristiane era caratterizzata dal memoriale della frazione del pane, compiuta da Gesù durante l’ultima cena, e dalla rilettura delle Scritture per dare senso al “per i nostri peccati” della sua morte e risurrezione al terzo giorno, il «giorno del Signore»: quello che diventerà per antonomasia la domenica o il giorno “Signoriale” per eccellenza. Le due tradizioni sulla celebrazione eucaristica e sul contenuto fondamentale della passione del Signore non vanno intese in modo separato, bensì con profonde connessioni, giacché le parole della cena illuminano l’oscurità del venerdì santo, sino alla luce abbagliante della domenica di Pasqua, al punto che per Paolo «Cristo nostra pasqua è stato immolato» (1Cor 5,7). La «pasqua» o l’agnello pasquale che i credenti celebrano e consumano, non è più quella degli agnelli che fa memoria della liberazione dall’Egitto, bensì Cristo stesso. Un ulteriore frammento pre-paolino della prima tradizione cristiana sostiene che lui è lo «strumento di espiazione» con cui Dio ha realizzato un nuovo percorso della riconciliazione e della giustificazione universale (Rm 3,25).
2. Fractio verbi, panis, vitae La ripresentazione degli eventi centrali della passione e della cena del Signore permette di delineare tre fasi assembleari del primo culto cristiano, che si enucleano nelle lettere paoline. Anzitutto la “frazione della Parola”, dove con la Parola s’intende la rilettura comunitaria delle Scritture d’Israele. Già in ambito sinagogale sembra che il canovaccio fondamentale fosse rappresentato dalla lettura di un passo scelto dalla Torah (o dal Pentateuco), denominato seder, e di uno tratto dai profeti (compresi i Salmi), proposto come commento o haftarah. Noti sono i collegamenti liturgico-sinagogali tra le vicende di Abramo (Gn 15-22) e le attualizzazioni profetiche mutuate da Isaia (cf. Is 54), da Abacuc (cf. Ab 2,4) e dai Salmi (cf. Sal 31,1-2). Non a caso la stessa scansione si riscontra in alcuni paragrafi delle lettere paoline, come Gal 4,21-27 e Rm 4,1-25. Gli sviluppi della liturgia cristiana proseguono nella stessa traiettoria, con la novità che il testo centrale diventa quello dei vangeli e quello a commento anticipatorio è rappresentato da tutto l’Antico Testamento. Il metodo con cui i due livelli dell’Antico e del Nuovo Testamento sono posti in relazione è quello complesso dell’allegoria e della tipologia: nel primo caso lo stesso evento della storia d’Israele acquista nuove prospettive, nel secondo si crea una relazione tra promessa antico-testamentaria e adempimento in Cristo. Ancora una volta, si deve a Paolo l’uso dei termini «allegoria» (cf. Gal 4,24) e «tipo» (cf. Rm 5,14). Ai due figli di Abramo si aggiungono i figli della schiava e della libera e Adamo è posto in relazione con Cristo. Quanto risalta dalla ripresa delle Scritture d’Israele nelle comunità cristiane è l’enorme impegno ermeneutico svolto sull’Antico Testamento: questo non è né «vecchio Testamento», né «primo Testamento», come se siano ipotizzabili due o più Testamenti, bensì l’antica alleanza, che diventa nuova alleanza ogni qualvolta si legge Mosè nelle comunità cristiane; dirà Paolo: «Infatti, sino al giorno d’oggi, lo stesso velo rimane nella lettura dell’antica alleanza; non è svelato, perché in Cristo è tolto di mezzo.Ma sino a oggi quando si legge Mosè, un velo ricopre il loro cuore.Quando però torna al Signore, il velo viene tolto» (2Cor 3,14-16). Gesù Cristo si rivela così l’ermeneuta della Scrittura, colui che con la sua risurrezione e con il dono dello Spirito, si fa compagno di viaggio di ogni persona, per aprire gli occhi del cuore alla comprensione delle Scritture. I primi credenti in Cristo sono persuasi che senza la sua morte e risurrezione, tutta la Scrittura resta un libro sigillato, in modo ermetico: soltanto l’agnello che sta diritto in mezzo al trono ma sgozzato può togliere i sigilli e trasformare la Scrittura in Parola viva (Ap 5), utile per l’insegnamento e l’ammonimento della fede (cf. 1Cor 10,11; Rm 15,4). La prima e più pericolosa tentazione delle comunità cristiane è stata quella di abbandonare l’Antico Testamento, frequentando soltanto le prime tradizioni cristiane che confluiranno nei vangeli e negli insegnamenti degli apostoli; il marcionismo darà consistenza a questo canone nel canone che giungerà sino al protestantesimo. La prospettiva di Paolo, il fariseo, costituisce il fondamento ineludibile per cui non una parte, bensì tutta la Scrittura parla di Cristo e della sua sposa; ed è lo Spirito che orienta nella comprensione cristologica ed ecclesiale della Scrittura. La frazione della Parola prosegue in quella del pane, come l’antica alleanza si rinnova nella cena del Signore, in quel memoriale per cui ogni “oggi” diventa ripresentazione dell’antico e anticipazione del futuro. Ancora a Paolo si deve questa ripresentazione dello zikkaron unico che si ripresenta ogniqualvolta si celebra la cena del Signore: «Ogni volta che mangiate a questo pane e bevete il calice, annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (cf. 1Cor 11,26) è il suo primo commento alle parole di Gesù durante la cena. Il maranatha che chiude la prima lettera ai Corinzi e l’Apocalisse (cf. 1Cor 16,22; Ap 22,20) torna quando si pronunciano le parole di Gesù: egli è il veniente, ci raggiunge nell’oggi, ed è convinzione della fede, ed è invocato come colui che deve venire, sino alla fine della storia. Sulla certezza della fede s’innesta il desidero dell’incontro tra la sposa e il suo sposo, come una vergine casta, data in sposa all’unico sposo che è Cristo (2Cor 11,2). Se, infine, durante la stessa celebrazione eucaristica, anche se spesso in modo distratto e superficiale, si compie il gesto della colletta di denaro, è perché questo gesto, di carità come qualsiasi dono di sé per gli altri, rientra nella stessa liturgia cristiana: è la frazione della Parola che, trasformandosi in frazione del pane, diventa frazione della vita o dell’agape. Per questo Paolo non esita a definire “liturgia” la colletta economica che raccomanda, con vivo afflato, alle sue comunità per i poveri della Chiesa di Gerusalemme (cf. 2Cor 9,12). Troppo spesso si assiste alla distinzione, se non alla separazione, tra l’ambito catechetico, quello liturgico e quello caritativo delle nostre comunità, come se ognuno potesse procedere in modo autonomo e a prescindere dall’altro. I paragrafi paolini che abbiamo evocato dimostrano come la frazione della Parola, senza quella del pane e della carità, si riduce a un semplice insegnamento dottrinale che non coinvolge l’esistenza, che la frazione del pane senza quella della vita crea lo stesso scandalo verificatosi a Corinto, tra ricchi e sazi e poveri o indigenti, e che senza le ragioni ultime del «per voi» detto da Gesù, la Scrittura resta occulta e la carità non è destinata a durare a lungo. Abbiamo bisogno di riscoprire le continuità tra le tre mense, che alla fine si rivelano come una sola mensa: quella della condivisione della vita di Cristo in noi.
3. Il culto razionale La raccolta di denaro per i poveri, proposta da Paolo alle sue comunità, si realizza nelle nostre celebrazioni poiché esprime non il dono del superfluo o, ancor peggio, come denuncia in 2Cor 9, una forma di spilorceria, bensì l’offerta della propria stessa esistenza. Così inizia la sezione esortativa della lettera ai Romani: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto razionale» (Rm 12,1). Si deve ancora alla sua formazione farisaica se Paolo può esortare con queste parole le comunità cristiane di Roma, giacché è della corrente farisaica pensare che il sacrificio del tempio è inconcepibile senza il sacrificio della propria esistenza. Le stesse condizioni richieste perché il sacrificio di un agnello nel tempio risulti efficace sono proposte per la propria esistenza: una santità che è integrità e interezza della propria esistenza. Di difficile traduzione è l’aggettivo logikê, che definisce il culto cristiano: certo la traduzione con «spirituale» è quella meno adeguata, poiché non c’è un culto spirituale che si distingua da uno materiale o globale, appunto integrale. Forse la traduzione più idonea è “mentale” o “razionale”, in quanto l’attenzione si concentra sul centro del proprio modo di pensare per coinvolgere l’esistenza in tutte le sue espressioni. Ed è in questa direzione che il “culto razionale” o “mentale” si sviluppa nella sezione successiva di Rm 12,2-15,13: l’offerta del proprio corpo si realizza nella valorizzazione dei carismi e dei ministeri, nella comunità cristiana, ossia in quell’operare come membra di un unico corpo. Offerta “razionale” è attaccarsi al bene, senza lasciarsi vincere dal male, rispondere al fratello non seguendo la legge del taglione, bensì quella del perdono senza ipocrisia, assolvere ai propri doveri nei confronti delle autorità civili, non aver alcun debito se non quello di un amore vicendevole, abbandonare le opere delle tenebre e indossare le armi della luce (cf. Rm 13,12), sino a farsi carico delle infermità dei deboli nella propria comunità. Non c’è aspetto dell’esistenza umana che venga tralasciato perché il proprio corpo, ossia la persona nella sua totalità si trasformi, con la potenza dello Spirito, in “culto razionale”, vivente, santo e gradito a Dio. La stessa separazione tra sacro e profano si assottiglia, sino a scomparire del tutto, quando si tratta di cercare la santità della vita. Una fede che si trasforma in carità e speranza è quella che propone Paolo alle sue comunità senza cadere, ancora una volta, nella separazione delle tre virtù fondamentali, poiché ogni credente è esortato a compiere il sacrificio e la liturgia della propria fede (cf. Fil 2,17). Allora diventa “liturgia” ossia, nello stesso tempo, azione di culto per il Signore e a favore del prossimo, la colletta in denaro (cf. Rm 15,27), l’aiuto che Epafrodito reca a Paolo stesso, durante la sua ultima prigionia (cf. Fil 2,25.30), e il proprio ministero e servizio per il vangelo o per Cristo (cf. Rm 1,9). Con il linguaggio tipico del culto, così Paolo ringrazia i Filippesi per il sostegno economico inviatogli: «Soave odore, sacrificio accolto, gradito a Dio» (Fil 4,18). Qualsiasi sostegno economico possiamo elargire per le necessità dei fratelli è, in quanto tale, come l’odore della vittima sacrificale offerta a Dio, ed è gradita al lui più di tutti gli animali portati nel tempio. Il dare la vita come e perché Cristo l’ha donata per noi, in quella imitazione irraggiungibile che diventa ragione ultima del nostro sacrificio, rappresenta uno degli aspetti più centrali del modo con cui Paolo intende la liturgia e il culto cristiano. E quando si è costretti a riconoscere che nessuno al mondo può, come Cristo «non considerare un tesoro geloso la sua uguaglianza divina, ma umiliarsi sino alla morte di croce» (cf. Fil 2,5-7), allora bisogna cercare dei modelli più a misura umana. Modelli per i credenti sono coloro che come Timoteo non cercano «i propri interessi, bensì quelli di Gesù Cristo» (cf. Fil 2,21-22) e come Epafrodito, che «a causa dell’opera di Cristo è stato vicino alla morte, mettendo a rischio l’anima, affinché potesse sostituire la vostra assenza per la mia liturgia» (Fil 2,30). Si comprende allora perché Paolo contrapponga un culto fondato sulla semplice circoncisione fisica, a uno dettato o che scaturisce dall’azione dello Spirito di Dio (Fil 3,3): il culto cristiano è azione dello Spirito; di quello Spirito che trasforma la Scrittura in Parola di Dio, il pane e il vino in corpo e sangue del Signore, e la comunità cristiana in corpo di Cristo, con la stessa importanza del corpo eucaristico che si celebra.
4. La libagione Un tipo particolare di sacrificio è la libagione che accompagnava, nel culto pagano, il sacrificio degli animali: consisteva nel versamento del sangue, dell’acqua o del latte. Per questo era rifiutato dalla religiosità giudaica, ma era diffuso nei culti pagani, presso i quali era considerato un vero e proprio sacrificio. Paolo non esita a considerare l’effusione della propria vita, sia per le quotidiane fatiche per il vangelo, sia per l’esito più o meno imminente della propria morte, come libagione: «Ma se anche sono sparso sul sacrificio e sulla liturgia della vostra fede, gioisco e congioisco insieme a tutti voi» (Fil 2,17). Il sacrificio e la liturgia principali sono quelli della fede dei Filippesi; a questi si aggiunge lo spargimento di sé e della propria vita. La metafora è molto loquace poiché, alla fine della propria vita, Paolo pone l’attenzione non sul proprio sacrificio o sulla propria liturgia esistenziale bensì su quella dei credenti: il suo è soltanto un accompagnare con la partecipazione attiva alla propria sentenza di morte il loro sacrificio. Il commento più bello a questa proposizione si trova nella seconda lettera a Timoteo, con cui la tradizione ecclesiale reinterpreta la partecipazione attiva di Paolo alla sua morte: «Io infatti sono pronto per essere versato in libagione, ed è giunto il momento della mia partenza: ho sostenuto la buona battaglia, ho concluso la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,6-7). Libagione è non soltanto l’ultimo momento della propria vita, attraversato non in modo passivo bensì attivo, poiché si segue la stessa via compiuta da Cristo sino alla morte di croce, ma tutta la propria esistenza: quella che comprende la lotta quotidiana per il vangelo, la corsa nell’annunciare Cristo a tutti e ad ognuno, e il custodire la fede in Cristo, unico Signore. Mentre Seneca avrebbe sostenuto che quotidie morimur, Paolo non avrebbe esitato a sostenere che ogni giorno offriamo noi stessi con l’effusione della vita per Cristo e per i fratelli. Non c’è momento dell’esistenza che non sia liturgia sacrificale quando è vista in questa cornice: e il tutto è accompagnato, in modo paradossale, dalla gioia diffusiva che contagia e rende solidali i fratelli. Prima di andare incontro al martirio Ignazio di Antiochia scriverà nella sua Lettera ai Romani, utilizzando lo stesso verbo scelto da Paolo in Fil 2,17: «Non procuratemi di più che essere versato in libagione per Dio…» (2,2).
5. Conclusione La liturgia cristiana è canto di gioia, nelle e nonostante le tribolazioni che non mancano. E Paolo non dimentica di esortare in questo modo i credenti di Colossi: «La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, istruendovi ed esortandovi gli uni gli altri con ogni sapienza, cantando di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali» (Col 3,16; cf. anche Ef 5,19). Sembra che sin dagli albori il movimento cristiano si sia caratterizzato per il canto: i diffusi «inni» riportati nelle lettere paoline (Fil 2,5-11; Ef 1,3-14) erano forme di canto rivolte al Signore, per mezzo di Cristo, nello Spirito, per la sua azione di grazia. Ai Corinzi, Paolo raccomanda: «Quando vi riunite, avendo ciascuno di voi un salmo, o un insegnamento, o una rivelazione, o un parlare in altra lingua, o un’interpretazione, si faccia ogni cosa per l’edificazione» (1Cor 14,26). Non sorprenderà quindi se una delle più antiche testimonianze sui cristiani, la lettera di Plinio il Giovane a Traiano (primi decenni del II sec. d.C.), il mittente ricorderà: «D’altra parte, essi affermano che tutta la loro colpa o il loro errore erano consistiti nell’abitudine di riunirsi in un determinato giorno, prima dell’alba, di cantare fra loro alternativamente un inno a Cristo, come a un dio» (Lettera 10,96,7). Non è questione soltanto di cura del particolare o dell’accessorio, ma è in questione il tipo di partecipazione che si realizza quando partecipiamo alle celebrazioni ecclesiali, che dovrebbero trasudare di gioia per la condivisione dell’unico corpo, dell’unico Spirito, dell’unica fede, dell’unico battesimo e dell’unica speranza: l’unicità delle relazioni che apre alla sinfonia del cuore e della parola, del pensiero e del canto. Se non sappiamo cantare insieme è perché partecipiamo da spettatori a quanto dovrebbe vedere tutti i credenti uniti nella diversità dei carismi e dei ministeri. Le nostre comunità, con tutte le loro manchevolezze, sono ancora comunità paoline: dai saluti iniziali (2Cor 13,13: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio padre e la comunione dello Spirito»), ai ringraziamenti che introducono le sue lettere e le nostre celebrazioni (Rm 1,7: «Prima di tutto ringrazio il mio Dio, per mezzo di Gesù Cristo»), alle dossologie e all’Amen che cadenzano la liturgia (2Cor 1,20: «Per questo per mezzo di lui [Cristo] sale a Dio il nostro “Amen” per la sua gloria»), sino al maranatha che pronunciamo dopo la consacrazione delle specie. I gesti che compiamo sono quelli delle comunità paoline: la colletta per i poveri, il bacio santo fra i credenti e la genuflessione davanti a Gesù Cristo, il Signore nostro (cfr. Fil 2,8-11). Tuttavia, se non riscopriamo il tessuto familiare e comunitario delle celebrazioni liturgiche, rischiamo di dimenticare del tutto il significato dei gesti e delle parole che compiamo. Ogni liturgia infatti è ripresentazione della vita che si trasforma. (Antonio Pitta, La rivista liturgica, 1/2009)
Omosessualità: vizio o programmazione biologica? (8 novembre 2009)
«La ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio. (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo» (Gaudium et spes, n. 36)
L’ipotesi della programmazione biologica Il biologo omosessuale americano Simon LeVay, fondatore dell’Institute of Gay and Lesbian Education, ha elaborato una teoria secondo la quale il comportamento omosessuale non sarebbe un comportamento disordinato, frutto di abitudini disordinate apprese, subite o liberamente scelte, ma una condizione biologica innata e precisamente il risultato di una "programmazione" cerebrale. L’ipotesi di Simon LeVay è che il terzo nucleo interstiziale dell’ipotalamo anteriore — INAH3 — sarebbe più voluminoso nei maschi mentre nelle donne e negli omosessuali esso sarebbe più piccolo e tale nucleo potrebbe essere determinante nella genesi del comportamento sessuale (1). William Byne, psichiatra al New York State Psychiatric Institute e ricercatore all’Albert Einstein College of Medicine della Yeshiva University di New York, presso la quale studia la struttura cerebrale dell’uomo e degli altri primati e il modo in cui i fattori biologici e sociali interagiscono nell’influenzare il comportamento, evidenzia innanzi tutto il fatto che il lavoro di Simon LeVay non è stato riprodotto sperimentalmente: studi di neuroanatomia umana come questo sono corredati da una scarsissima documentazione metodologica, che non consente la riproduzione. Infatti, procedimenti analoghi a quelli utilizzati da Simon LeVay per identificare i nuclei avevano precedentemente depistato i ricercatori (2). William Byne sottolinea che delle molte presunte differenze sessuali nel cervello umano riferite negli ultimi cento anni, solo una è risultata sistematicamente riscontrabile: la dimensione del cervello e delle sue strutture varia con la taglia corporea (3). Inoltre l’ipotesi di Simon LeVay sui meccanismi biologici proposti per spiegare il comportamento omosessuale nel maschio, non è in grado di spiegare il comportamento sessuale delle lesbiche né, tantomeno, quello degli adulti bisessuali e certo non può essere generalizzata ed estesa per dare giustificazione del comportamento nelle varie forme di deviazione e di perversione sessuale (4). Tale ipotesi non può spiegare un altro fatto alla luce del quale la sua logica deterministica risulta infondata: se la persona omosessuale vuole sottoporsi a opportune terapie psicologiche, essa può giungere a guarigione completa. Secondo l’esperienza clinica dello psichiatra olandese Gerard J. M. van den Aardweg, uno dei massimi studiosi dell’omosessualità, la guarigione è totale in una percentuale del 30% e negli altri casi, dov’è maggiore un’assuefazione ai contatti omosessuali di tipo nevrotico-ossessivo, è possibile attenuare e controllare gli impulsi emotivi. Lo studioso olandese ha pure notato che i pazienti omosessuali che vivono la loro fede religiosa in modo positivo hanno maggiori possibilità di un cambiamento radicale perché la pratica dei sacramenti — in particolare della confessione —, la speranza, l’umiltà, l’amore del prossimo hanno un effetto antinevrotico (5). L’ipotalamo fa parte del cosiddetto sistema limbico: esso è uno degli elementi centrali del sistema e intorno a esso vi sono altre strutture sotto corticali come l’area preottica, l’epitalamo, l’ippocampo, l’amigdala e così via. Tutto intorno a queste formazioni sotto corticali si trova la corteccia limbica, che comincia, sulla faccia ventrale dei lobi frontali, con l’area orbitofrontale e termina, verso la superficie ventro-mediale del lobo temporale, con il giro ippocampale, l’area piriforme e l’uncus: tutto questo complesso di strutture costituisce il sistema limbico (6). John C. Eccles, premio Nobel per la neuro-biologia, spiega che il sistema limbico è deputato soprattutto all’attività di fissare i ricordi con le relative esperienze emozionali (7). I sistemi prefrontale e limbico sono in uno stato di relazione reciproca e in grado di stabilire fra loro un’interazione a circuito continuo. Per mezzo della corteccia cerebrale prefrontale il soggetto può esercitare un’azione di controllo sulle emozioni generate dal sistema limbico (8). Questo spiega come un riflesso condizionato possa essere inibito e annullato da un condizionamento contrario mediante un "lavoro psichico" che porta alla costituzione di diversi engrammi mnemonici determinati da un nuovo apprendimento e destinati a evocare un nuovo senso di gratificazione e di castigo (9). Pertanto, un’ulteriore obiezione all’ipotesi di Simon LeVay è che le esperienze emozionali, fissate nel sistema limbico e nell’ipotalamo in particolare, possono essere sostituite da nuove esperienze emozionali perché si tratta di una sorta di "banca dati", che è soggetta al controllo e alla programmazione del pensiero cosciente. Inoltre non bisogna dimenticare che la medicina psicosomatica ha dimostrato che l’influsso della psiche sul soma è tale da trasformare le alterazioni psichiche in alterazioni somatiche, prima funzionali e successivamente organiche, anche in senso morfologico. Alcuni degli esempi più clamorosi dell’influenza che possono esercitare i fattori psichici sull’organismo sono costituiti, oltre che dai lavori del fisiologo russo Ivan Petrovic Pavlov sui riflessi condizionati, dai fenomeni isterici, dall’anestesia mediante ipnosi, dai metodi di rilassamento psico-fisico mediante la concentrazione psichica e la suggestione, dai lavori di Walter Bradford Cannon sulla funzione delle emozioni nei confronti delle attività endocrino-metaboliche: mentre nell’Ottocento si vedeva soltanto l’aspetto organicistico, oggi si tende a studiare l’intera personalità nella quale corpo e spirito formano un’unità inscindibile. Il comportamento umano nasce dal rapporto e dall’interazione fra conoscenza e volontà, apprendimento e interpretazione degli avvenimenti, processi somatici ed eventi ambientali (10). Marcello Perrotta, dell’Istituto di Sessuologia di Firenze, ricorda che la stessa neuro-biologia considera fondata l’ipotesi secondo cui il comportamento e l’ambiente possono plasmare e modificare le strutture cerebrali, amplificando o riducendo alcune differenze anatomiche. Pertanto, nell’omosessuale, il diminuito volume di un piccolo nucleo ipotalamico potrebbe essere non la causa del comportamento omosessuale, ma la conseguenza del comportamento omosessuale (11). William Byne cita il lavoro di Manfred Gahr, che lavora presso il Max-Planck-Institute, in Germania, il quale ha utilizzato una colorazione dei nuclei simile a quella impiegata da Simon LeVay. Manfred Gahr ha potuto osservare variazioni stagionali nella dimensione del nucleo coinvolto nel canto dei canarini. Tuttavia metodi di colorazione più specifici hanno rilevato che le dimensioni, in realtà, non variavano e allora ha ipotizzato che il metodo di colorazione meno specifico potesse essere stato influenzato da variazioni ormonali stagionali che alterano le proprietà delle cellule del nucleo (12). William Byne, inoltre, fa notare che il lavoro di Simon LeVay è inattendibile perché tutti i cervelli di maschi omosessuali provengono da pazienti colpiti da AIDS e, all’epoca del decesso, tutti i soggetti presentavano bassi livelli di testosterone in conseguenza della malattia stessa (13). Una ricerca di Deborah Commins e Pauline Yahr, dell’Università della California a Irvine, sostiene quest’ultima ipotesi. Le due ricercatrici hanno trovato nei gerbilli della Mongolia — roditori poco più grossi dei topi — che la dimensione di una struttura cerebrale simile, paragonabile al cosiddetto nucleo sessuale dell’area preottica, varia con la quantità di testosterone presente nel circolo sanguigno (14). Roger A. Gorski e Gary W. Arendash, dell’University of South Florida, hanno trovato che, distruggendo il nucleo cosiddetto sessuale dell’area preottica, in entrambi i lati del cervello di un ratto di sesso maschile, non se ne pregiudica il comportamento sessuale. L’elemento somatico fondamentale che determina la differenziazione delle gonadi in senso maschile o femminile è il sesso cromosomico: si tratta dell’elemento strutturale che consente l’attribuzione dell’identità sessuale somatica. Nel processo dello sviluppo e della differenziazione sessuale, le malattie che portano a un insufficiente o eccessivo tasso ormonale di androgeni provocano anomalie nello sviluppo degli organi genitali esterni, che possono avere aspetto femminile negli uomini o aspetto maschile nelle donne. Le persone affette da tali malattie hanno spesso bisogno di un doveroso intervento di chirurgia plastica per la ricostruzione di organi genitali di aspetto normale. William Byne parla delle ricerche effettuate sull’orientamento sessuale di questi individui: tali ricerche confermano la validità del modello dell’apprendimento sociale. Il comportamento sessuale di questi soggetti malformati dipende dal sesso verso il quale vengono orientati dai loro genitori, soprattutto se tale orientamento è stato fatto in modo non equivoco prima dell’età dei tre anni (15). Ruth H. Bleier, neurobiologa e studiosa della condizione femminile, ha trovato che il comportamento sessuale delle donne con organi genitali mascolinizzati non dipende dall’esposizione agli androgeni ma dall’apprendimento sulla propria identità e dalla interpretazione che esse danno della propria malformazione (16). Ma, contro l’ipotesi dell’omosessualità vista come condizione biologica, è determinante un recente studio effettuato da J. Michael Bailey, della North-Western University, e di Richard C. Pillard, della Boston University. Gli scienziati hanno effettuato una ricerca sul comportamento sessuale dei gemelli omozigoti — che hanno tutti i geni uguali e la stessa struttura biologica —, per di più allevati nella stessa famiglia, nello stesso ambiente sociale e a stretto contatto l’uno con l’altro. La ricerca ha dimostrato che, se uno dei gemelli ha scelto un comportamento omosessuale, in circa la metà dei casi l’altro gemello ha scelto un comportamento sessuale normale: il 48% dei gemelli omozigoti, allevati insieme, mostra orientamenti sessuali opposti quando uno dei gemelli ha scelto un comportamento di tipo omosessuale. Tutto questo dimostra in modo inequivocabile l’importanza del libero arbitrio e delle abitudini nella genesi del comportamento sessuale (17).
Interpretazioni non deterministe Gerard J. M. van den Aardweg sottolinea che negli ultimi decenni si sono viste confermate soprattutto le idee di Alfred Adler (1917), il primo a mettere in relazione l’omosessualità con un complesso di inferiorità nei confronti del proprio sesso. Le ricerche empiriche di I. Bieber e T. B. Bieber e di altri (1962) hanno messo in evidenza il fatto che un soggetto, per identificarsi positivamente con il suo ruolo sessuale, deve avere stima per il genitore del suo stesso sesso e deve sentirsi da lui amato e stimato. Tali ricerche hanno, inoltre, messo in evidenza che l’adulto omosessuale è uno che non ha vissuto i suoi anni di gioventù ben inserito nella vita di gruppo dei giovani dello stesso sesso. Tali esperienze giovanili portano il soggetto a drammatizzare la propria situazione, a desiderare l’affetto di quelle persone dello stesso sesso rispetto alle quali si è costruito un complesso di inferiorità riguardante la propria sessualità e la propria identità e dalle quali non si sente accettato, o dalla cui compagnia si sente escluso. La tendenza omosessuale nasce spesso da un bisogno "erotizzato" di attenzione: lo psichiatra olandese J. L. Arndt dice che dentro l’omosessuale vive un povero bambino che si strugge per desideri inappagati. Gerard J. M. van den Aardweg spiega che i complessi omosessuali possono essere curati, ma soprattutto che possono e devono essere prevenuti durante l’infanzia con una giusta educazione. Egli dice che un’educazione dei giovani mirante ad annullare le specificità maschili e femminili — tipica dei socialismi e del femminismo rivoluzionario — e la mancanza a casa dei ruoli materni e paterni può avere effetti disastrosi sulla psiche infantile, provocando l’insorgenza dei complessi nevrotici omosessuali (18). Insegna Papa Giovanni Paolo II: "Ricordatevi che la nostra fede, come dice San Paolo, non si fonda sulla "sapienza degli uomini" né si confonde con la "sapienza di questo mondo" (1 Cor. 2, 5-6). Per questo, nessuna ideologia potrà offrire un postulato che sia premessa alla quale subordinare la dottrina di fede. Al contrario, è la fede che giudica, con la "sapienza di Dio" (1 Cor. 2, 7), le conclusioni valide delle scienze umane, che, se autentiche, non potranno mai essere in contraddizione con la Verità della fede" (19). La tradizione della Chiesa insegna che la pratica omosessuale — opere, omissioni e volontaria condiscendenza a pensieri omosessuali — rientra nel vizio della lussuria. La lussuria consiste nell’uso disordinato dell’appetito sessuale e da essa nascono molti altri mali perché la ragione e la volontà ne vengono turbate in modo gravissimo: sono conseguenza della lussuria l’accecamento della mente, l’incostanza, l’egoistico amore di sé, l’incapacità di controllare le proprie passioni (20).
Il vizio Il vizio è l’abitudine ad agire in modo moralmente disordinato: tale abitudine è la conseguenza di una prolungata ripetizione di atti disordinati; tali atti possono essere sia il risultato del libero arbitrio e di scelte personali, sia il frutto di "situazioni di disordine" familiare e sociale che la persona apprende o subisce senza sua colpa, situazioni di disordine che nascono dall’accumulazione e dalla concentrazione di molti peccati personali (21). In campo psicologico molti considerano l’omosessualità come un disordine soltanto quando non è voluta dalla persona, cioè quando è ego-dystonic. Padre Bartholomew Kiely S.J., docente alla Pontificia Università Gregoriana, sottolinea che non si tratta di una posizione veramente scientifica, ma di una posizione relativista nel campo della psicologia secondo la quale "[...] la gratificazione dei bisogni più sentiti della persona è di importanza centrale per la sua realizzazione come persona; non esiste criterio oggettivo per discriminare tra bisogni moralmente accettabili e bisogni non accettabili, ma tutto dipende dalle preferenze soggettive della singola persona" (22). Per tale approccio relativista ogni considerazione sull’omosessualità deve essere non di tipo oggettivo ma di tipo soggettivo. Se il soggetto si sente gratificato dagli atti omosessuali esso è da considerarsi normale: è come dire che, se il tossico-dipendente o l’alcolizzato si sentono gratificati dalla droga o dall’alcol essi sono da considerarsi normali e vanno incoraggiati a proseguire per la loro strada. Già il marxista Herbert Marcuse rilevava che lo schiavo, nella misura in cui è stato condizionato a essere tale, desidera rimanere nella sua condizione, ma si tratta di un’alienazione e deve essere aiutato per poter ricuperare la libertà. L’alcolista, il tossicodipendente, il pedofilo, lo zoofilo, lo stupratore, il guardone, il masochista, il sadico e così via sono soggettivamente gratificati dalle loro azioni disordinate, ma si tratta oggettivamente di situazioni di deviazione e di alienazione. Scrive padre Bartholomew Kiely S.J.: "[...] gli atti omosessuali appaiono come manifestazioni di una strategia con cui la persona omosessuale cerca di difendersi [strategia difensiva disordinata, sbagliata e nevrotica] contro problemi sottostanti, più o meno inconsci, che non è riuscita a risolvere. Nell’atto omosessuale, una persona cerca di usare un’altra persona come parte del suo sistema difensivo" (23). Lo studioso gesuita cita E. Moberley, che, trattando dell’omosessualità in generale, afferma: "[...] l’omosessuale, sia maschio, sia femmina, ha patito di qualche mancanza nella relazione con il genitore dello stesso sesso; [...] esiste una tendenza corrispondente a rimediare questa mancanza, per mezzo di relazioni con persone dello stesso sesso, cioè relazioni omosessuali" (24). "In parole povere, quindi, si può dire che l’incontro omosessuale [...] sembra essere un incontro tra due persone, ciascuna delle quali si sente incompleta (come maschio o come femmina). Ciascuna persona sta usando l’altra per completare se stessa" (25). E ancora: "Gli atti omosessuali, come altre manovre difensive, possono portare un sollievo temporaneo alla persona; però, a lungo andare, non risolvono i suoi problemi più profondi, incluse le sue aspirazioni di trascendenza [...]. Gli atti omosessuali possono rappresentare una ricerca di qualche bene parziale; ma non corrispondono al bene integrale della persona" (26).
La dottrina della Chiesa cattolica sull’omosessualità Il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede Lettera ai vescovi della Chiesa Cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali, approvato dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo II il 1° ottobre 1986, opera una distinzione fra tendenza omosessuale e atti omosessuali. La tendenza o inclinazione omosessuale, finché non si manifesta in atti, non è in sé peccato anche se rimane un’inclinazione verso un comportamento intrinsecamente disordinato (27). Un uomo può sentire in sé l’inclinazione alla disonestà e all’omicidio ma non per questo è costretto a rubare e a uccidere. La Chiesa insegna che la persona con tendenze omosessuali rimane sempre una persona e, pur essendo condizionata da un punto di vista emotivo, ha in sé quella libertà della volontà che, sostenuta e illuminata dalla grazia di Dio, gli consente di resistere alla tentazione del peccato e di essere padrona dei propri atti (28). Molte deviazioni nascono dal conflitto fra il pensiero e la realtà; l’essere umano deve essere aiutato ad avere un giusto rapporto fra il pensiero e la realtà perché la liberazione da ogni disordine mentale ha luogo nella misura in cui il soggetto non si pone più in contrasto con l’ordine fondamentale delle cose, nella misura in cui giunge ad accettare il mondo reale e le sue leggi e diventa capace di soddisfare le proprie esigenze all’interno della medesima realtà. La tendenza omosessuale è una tendenza ad agire in modo disordinato rispetto alle finalità del proprio corpo: si tratta di un disordine evidente fra il pensiero e la realtà e tradurre la tendenza omosessuale in atto omosessuale significa aggravare questa situazione di disordine. La Chiesa insegna che l’atto omosessuale è un atto contro natura e pertanto immorale e ogni attività immorale "[...] impedisce la propria realizzazione e felicità perché è contraria alla sapienza creatrice di Dio. Quando respinge le dottrine erronee riguardanti l’omosessualità, la chiesa non limita ma piuttosto difende la libertà e la dignità della persona, intese in modo realistico e autentico" (29).
Felicità e piaceri Che cos’è la felicità? Felice è il termine corradicale di fecondo: fecondo significa che produce frutti e poiché produce frutti è propizio, cioè procede favorevolmente raggiungendo il proprio fine. La felicità non va confusa con il piacere momentaneo: il piacere, da solo, non soddisfa le esigenze più profonde della persona perché c’è in ogni uomo il bisogno d’integrare e coordinare le passioni con la volontà, la volontà con la ragione e la ragione con la verità. La felicità è un processo che porta all’unione dell’uomo con sé stesso e con l’ordine fondamentale della realtà e il vero piacere risulta come conseguenza della realizzazione di un tale significato. Inoltre bisogna sottolineare che per l’uomo esistono due tipi di felicità: una felicità naturale, incipiente e imperfetta, e una sovrannaturale perfetta che consiste nel possesso di Dio: infatti nessun bene naturale contribuisce al pieno appagamento dei desideri dell’uomo. Per l’uomo occorre un bene infinito perché è il solo adeguato alla capacità infinita delle sue facoltà spirituali, l’intelletto e la volontà (30). Il piacere è propriamente la quiete che si ha nel raggiungere e possedere l’obbiettivo del proprio desiderio. Quando l’obbiettivo del proprio desiderio è inadeguato — in quanto non naturale e non conforme alla giustizia — il possesso è imperfetto rispetto alle aspettative per colpa dell’inadeguatezza della cosa posseduta nei confronti delle esigenze più profonde della persona, il piacere momentaneo viene frustrato perché l’uomo si sente insoddisfatto e diviso, contemporaneamente schiavo del male fatto e deluso dal piacere ottenuto: il movimento del desiderio non cessa ma diventa ossessivo e non si ha il vero piacere che è la quiete di tutte le facoltà dell’uomo nel bene amato. "Questa è la profonda natura del peccato: l’uomo si stacca dalla verità, mettendo la sua volontà al di sopra di essa. Volendo liberarsi di Dio ed essere lui stesso dio, egli si inganna e si distrugge. Egli si aliena da se stesso" (31). "Peccando, l’uomo intende liberarsi da Dio, ma in realtà si rende schiavo. [...] Per questo il suo cuore è in balìa dell’inquietudine. "L’uomo peccatore, che rifiuta di aderire a Dio, è portato necessariamente ad attaccarsi in modo errato e distruttivo alla creatura. In questo suo volgersi alla creatura (conversio ad creaturam) egli concentra su questa il suo desiderio insoddisfatto di infinito. Senonché, i beni creati sono limitati, per cui il suo cuore trascorre dall’uno all’altro, sempre in cerca di un’impossibile pace" (32). La ribellione contro Dio ha prodotto la ribellione delle potenze inferiori dell’anima, le passioni, contro le superiori, la ragione e la volontà, per cui l’uomo spesso non fa il bene che vuole ma il male che non vorrebbe. Il peccato originale ha portato in noi la divisione: ognuno può apprezzare in sé stesso l’esistenza di due tendenze. La tendenza a riconoscere e ad approvare la giustizia e la tendenza al piacere disordinato. "La carne infatti ha voglie contrarie allo spirito; lo spirito, a sua volta, ha voglie contrarie alla carne. E queste cose si oppongono a vicenda, in modo che voi non fate ciò che vorreste" (33). La tendenza al piacere può essere buona o cattiva: essa è cattiva se il piacere contrasta con la giustizia che la ragione ha riconosciuto. Esiste un’esperienza fondamentale che facciamo tutti: vediamo con certezza che dovremmo fare una certa cosa che riconosciamo essere buona e tralasciare un’altra che riconosciamo essere cattiva. Potremmo farlo con un po’ di fatica, però non lo facciamo perché non abbiamo voglia di superare la nostra repulsione di fronte a qualche cosa che, momentaneamente, non ci piace e implica uno sforzo. Il filosofo cattolico Marcel De Corte scrive che "essere nella verità significa conformare la propria intelligenza a una realtà che l’intelligenza non ha né costruita, né sognata, e che a lei si impone. Fare il bene non vuol dire abbandonarsi agli istinti, agli impulsi affettivi e alla volontà propria, ma ordinare e subordinare le proprie attività alle leggi prescritte dalla natura e dalla Divinità che la intelligenza scopre nella sua instancabile ricerca della felicità" (34). "[...] l’uomo sa, fin dalla nascita, di essere inserito in un universo fisico e metafisico che egli non ha fatto, in un ordine che non è alla sua mercé, in una gerarchia di esseri di cui non può alterare la distribuzione senza danneggiare se stesso. Qualunque cosa faccia, l’uomo riconosce di non poter divenire diverso da ciò che è per sua natura, per vocazione o per grazia: nessuno può evadere dall’essere proprio. Superarsi in qualche modo, aggiungere un cubito alla sua statura, volere essere di più esclude l’uomo dall’universo e dall’ordine. Il concetto cristiano del peccato, come violazione della legge imposta da Dio a ognuna delle sue creature, si incontra qui col concetto greco dell’hybris, della dismisura, secondo la quale ogni uomo che esorbita dai suoi limiti è immediatamente punito della propria temerarietà dalla frantumazione del suo medesimo essere incontinente" (35). Quando criterio di giudizio della realtà diventa il desiderio al posto della ragione, quando la verità viene sostituita dall’immaginazione, sostituzione operata dalla volontà di potenza, l’intelligenza, "privata dell’oggetto suo proprio, [...] mai saziata dal vacuo nutrimento che le viene offerto, ne reclama un altro e si sfinisce in questa immersione in un mondo immaginario come un naufrago torturato dalla sete nel mare "che sempre ricomincia"" (36). "Il culto della novità, del cambiamento, del progresso, della rivoluzione che infuria da due secoli, non ha altra origine se non questo asservimento della nostra attività intellettuale operato dalla immaginazione e dalla volontà di potenza" (37). L’uomo deve dominare la natura ma la natura si lascia dominare solo conoscendone le leggi e applicandole, pertanto il dominio dell’uomo sulla natura non è assoluto ma relativo, cioè non può andare oltre il limite costituito dalle finalità stesse dell’ordine naturale: tale limite è quello che distingue il Creatore dalla creatura. "Il dominio accordato dal Creatore all’uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e abusare", o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di "mangiare il frutto dell’albero" (cf Gen. 2, 16-17), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire" (38).
La cura pastorale delle persone omosessuali La Chiesa insegna che, mentre gli omosessuali "[...] devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza" (39), l’omosessualità non può e non deve essere tutelata e promossa come un valore, non può e non deve essere equiparata al comportamento sessuale ordinato e naturale che porta alla costituzione di una famiglia e alla possibilità di adottare dei figli (40). La Chiesa invita le persone omosessuali a compiere un cammino di liberazione: "La persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, non può essere definita in modo adeguato con un riduttivo riferimento solo al suo orientamento sessuale. Qualsiasi persona che vive sulla faccia della terra ha problemi e difficoltà personali, ma anche opportunità di crescita, risorse, talenti e doni propri" (41). "Alcuni sostengono che la tendenza omosessuale, in certi casi, non è il risultato di una scelta deliberata e che la persona omosessuale non ha alternative, ma è costretta a comportarsi in modo omosessuale. Di conseguenza si afferma che essa agirebbe in questi casi senza colpa, non essendo veramente libera. "A questo proposito è necessario rifarsi alla saggia tradizione morale della Chiesa, la quale mette in guardia dalle generalizzazioni nel giudizio dei casi singoli. Di fatto in un caso determinato possono essere esistite nel passato e possono tuttora sussistere circostanze tali da ridurre o addirittura da togliere la colpevolezza del singolo; altre circostanze al contrario possono accrescerla. "Dev’essere comunque evitata la presunzione infondata e umiliante che il comportamento omosessuale delle persone omosessuali sia sempre e totalmente soggetto a coazione e pertanto senza colpa. In realtà anche nelle persone con tendenza omosessuale dev’essere riconosciuta quella libertà fondamentale che caratterizza la persona umana e le conferisce la sua particolare dignità. "Come in ogni conversione dal male, grazie a questa libertà, lo sforzo umano, illuminato e sostenuto dalla grazia di Dio, potrà consentire ad esse di evitare l’attività omosessuale. "Che cosa deve fare dunque una persona omosessuale, che cerca di seguire il Signore? Sostanzialmente, queste persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, unendo ogni sofferenza e difficoltà che possano sperimentare a motivo della loro condizione, al sacrificio della croce del Signore. Per il credente, la croce è un sacrificio fruttuoso, poiché da quella morte provengono la vita e la redenzione. Anche se ogni invito a portare la croce o a intendere in tal modo la sofferenza del cristiano sarà prevedibilmente deriso da qualcuno, si dovrebbe ricordare che questa è la via della salvezza per "tutti" coloro che sono seguaci di Cristo. "In realtà questo non è altro che l’insegnamento rivolto dall’apostolo Paolo ai Galati, quando egli dice che lo Spirito produce nella vita del fedele: "amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé", e più oltre: "Non potete appartenere a Cristo senza crocifiggere la carne con le sue passioni e i suoi desideri" (Gal. 5, 22.24). "Tuttavia facilmente questo invito viene male interpretato, se è considerato solo come un inutile sforzo di auto-rinnegamento. "La croce è sì un rinnegamento di sé, ma nell’abbandono alla volontà di quel Dio che dalla morte trae fuori la vita e abilita coloro, che pongono in lui la loro fiducia, a praticare la virtù invece del vizio. "Si celebra veramente il mistero pasquale solo se si lascia che esso permei il tessuto della vita quotidiana. Rifiutare il sacrificio della propria volontà nell’obbedienza alla volontà del Signore è di fatto porre ostacolo alla salvezza. Proprio come la croce è il centro della manifestazione dell’amore redentivo di Dio per noi in Gesù, così la conformità dell’autorinnegamento di uomini e donne omosessuali con il sacrificio del Signore costituirà per loro una fonte di autodonazione che li salverà da una forma di vita che minaccia continuamente di distruggerli. "Le persone omosessuali sono chiamate come gli altri cristiani a vivere la castità. Se si dedicano con assiduità a comprendere la natura della chiamata personale di Dio nei loro confronti, esse saranno in grado di celebrare più fedelmente il sacramento della penitenza, e di ricevere la grazia del Signore, in esso così generosamente offerta, per potersi convertire più pienamente alla sua sequela" (42). Il Catechismo della Chiesa Cattolica ribadisce che le persone omosessuali "attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un’amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana" (43). Il cammino di liberazione dal vizio, che la Chiesa propone alle persone omosessuali, è un cammino che difende in modo realistico e autentico la loro libertà e dignità di persone e trova conferma in fenomeni sociali come la crescita del movimento internazionale "ex gay", a cui aderiscono omosessuali ed ex omosessuali che non sono disposti a rassegnarsi alla loro tendenza disordinata. Si tratta di un autentico movimento di base che si è organizzato, negli Stati Uniti d’America, in enti come Exodus international e Courage: omosessuali ed ex omosessuali si aiutano per promuovere un miglioramento e un cambiamento di vita in modo da liberarsi dal vizio dell’omosessualità (44). (Bruto Maria Bruti, Cristianità n. 243-244/1995)
NOTE (1) Cfr. Simon LeVay e Dean H. Hamer, Le componenti biologiche dell’omosessualità maschile, in Le Scienze. Edizione italiana di Scientific American, anno XXVII, vol. LIII, n. 311, luglio 1994, pp. 18-23; cfr. le informazioni sugli autori ibid., p. 4. (2) Cfr. William Byne, I limiti dei modelli biologici dell’omosessualità, ibid., p. 28; cfr. le informazioni sull’autore ibid., p. 4. (3) Cfr. ibid., p. 25. (4) Cfr. ibid., p. 24. (5) Cfr. Gerard J. M. van den Aardweg, L’omosessualità si può curare?, in 30 Giorni nella Chiesa e nel mondo, anno IV, n. 11, dicembre 1986, p. 43; cfr., più ampiamente, Idem, Omosessualità e speranza, terapia e guarigione nell’esperienza di uno psicologo, trad. it., Ares, Milano 1995, pp. 117-152. (6) Cfr. Arthur G. Guyton, Trattato di fisiologia medica, trad. it. dalla IV ed. inglese a cura di Alfredo Curatolo, Piccin, Padova 1977, p. 745. (7) Cfr. John C. Eccles, Connessioni del sistema limbico, in Karl R. Popper e John C. Eccles, L’Io e il suo cervello, strutture e funzioni cerebrali, trad. it., vol. II, Armando, Roma 1986, pp. 307-308. (8) Cfr. J. C. Eccles, Connotazione emozionale delle percezioni coscienti, in K. R. Popper e J. C. Eccles, L’Io e il suo cervello, strutture e funzioni cerebrali, cit., pp. 335-336. (9) Cfr. Rodolfo Margaria, Fisiologia, Fabbri, Milano 1975, pp. 274-275; e A. G. Guyton, op. cit., pp. 746-747. (10) Cfr. Giuseppe Campailla, Manuale di Psichiatria, 2a ed. aggiornata, Minerva Medica, Torino 1982, pp. 49-50. (11) Cfr. Gianna Milano, Gay nella testa, in Panorama, anno XXIX, n. 1326, 15-9-1991, pp. 149-151. (12) Cfr. W. Byne, art. cit., p. 28. (13) Cfr. ibidem. (14) Cfr. ibidem. (15) Cfr. ibid., pp. 28 e 27. (16) Cfr. ibid., p. 27. (17) Cfr. ibid., p. 29; cfr. John Horgan, L’eugenetica rivisitata, in Le Scienze. Edizione italiana di Scientific American, anno XXVI, vol. LII, n. 300, agosto 1993, p. 88. (18) Cfr. G. J. M. van den Aardweg, Omosessualità: verso la liberazione, in Studi Cattolici, anno XXXVII, n. 394, dicembre 1993, p. 810; Idem, L’omosessualità si può curare?, cit., p. 43; e Idem, Omosessualità e speranza, terapia e guarigione nell’esperienza di uno psicologo, cit., pp. 57-107 e 173-175. (19) Giovanni Paolo II, Discorso al clero diocesano e religioso nella cattedrale di Natal, in Brasile, del 13-10-1992, n. 5, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XIV, 2, p. 838. (20) Cfr. san Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIa-IIae, q. 153, a. 5. (21) Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1865; cfr. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia sulla riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa oggi, del 2-12-1984, n. 16. (22) Bartholomew Kiely S.J., La cura pastorale delle persone omosessuali. Nota psicologica, in L’Osservatore Romano, 14-11-1986, n. 1. (23) Ibid., n. 6. (24) Ibid., n. 4. (25) Ibidem. (26) Ibid., n. 6. (27) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali, del 1°-10-1986, n. 3; cfr. anche, a esposizione e commento, Massimo Introvigne, La "Lettera" "sulla cura pastorale delle persone omosessuali", in Cristianità, anno XIV, n. 139-140, novembre-dicembre 1986, pp. 9-10. (28) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali, cit., n. 11. (29) Ibid., n. 7. (30) Cfr. san Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, Ia-IIae, q. 62, a. 1; q. 2, a. 1-8; sul problema del piacere, cfr. ibid., q. 34, a. 1-2. (31) Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su libertà cristiana e liberazione "Libertatis conscientia", del 22-3-1986, n. 37. (32) Ibid., n. 40. (33) Gal. 5, 17. (34) Marcel De Corte, L’intelligenza in pericolo di morte, trad. it., Volpe, Roma 1973, pp. 15-16. (35) Ibid., pp. 16-17. (36) Ibid., p. 46. (37) Ibidem. (38) Giovanni Paolo II, Enciclica Sollicitudo Rei socialis nel ventesimo anniversario della Populorum progressio, del 30-12-1987, n. 34. (39) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2358. (40) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali, cit., nn. 3, 9, 10 e 17; ed Eadem, Alcune considerazioni concernenti la risposta a proposte di legge sulla non-discriminazione delle persone omosessuali, in L’Osservatore Romano, 24-7-1992, nn. 10, 11 e 12, trascritto in Cristianità, anno XX, n. 209-210, settembre-ottobre 1992, pp. 25-27 (p. 27). (41) Eadem, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali, cit., n. 16. (42) Ibid., nn. 11 e 12. (43) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2359. (44) Cfr. G. J. M. van den Aardweg, Omosessualità: verso la liberazione, cit., p. 812.
Il messaggio conclusivo del Sinodo Africano (1 novembre 2009)
Nella Diciottesima Congregazione Generale di venerdì 23 ottobre 2009, i Padri sinodali hanno approvato il Nuntius (Messaggio) a conclusione della II Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi. Pubblichiamo qui di seguito la versione in italiano del testo integrale (redatto in italiano, inglese, francese e portoghese). INTRODUZIONE 1. È stato un dono speciale della grazia, e come ultima volontà e testamento per l’Africa, quando il Servo di Dio, Papa Giovanni Paolo II, verso la fine della sua vita, il 13 Novembre 2004, annunciò la sua intenzione di convocare una Seconda Assemblea Speciale per l’ Africa del Sinodo dei Vescovi. Questa stessa intenzione fu confermata dal suo successore, il nostro Santo Padre, Papa Benedetto XVI, il 22 giugno 2005, in una delle prime grandi decisioni del suo pontificato. Mentre siamo riuniti qui per questo Sinodo, da tutti i paesi dell’Africa del Madagascar e delle isole adiacenti, coi fratelli vescovi e colleghi di tutti i continenti, insieme e sotto il Capo del Collegio Episcopale, con la partecipazione di alcuni delegati fraterni di altre tradizioni cristiane, noi ringraziamo Dio per questa possibilità provvidenziale di celebrare le benedizioni del Signore sul nostro continente, per riflettere sul nostro ufficio di Pastori del gregge di Dio e cercare nuova ispirazione e incoraggiamento per i compiti e le sfide che ci stanno davanti. Sono già passati quindici anni dalla prima Assemblea nel 1994. Gli insegnamenti e le direttive dell’Esortazione post-sinodale Ecclesia in Africa non hanno cessato di rappresentare una valida guida per la nostra attività pastorale. In questa seconda Assemblea, comunque, il Sinodo ha potuto concentrarsi su un tema di massima urgenza per l’Africa: il nostro servizio per la riconciliazione, la giustizia e la pace in un continente che ha davvero un pressante profondo bisogno di queste grazie e virtù. 2. Abbiamo iniziato il nostro lavoro qui a Roma con una celebrazione inaugurale della Santa Eucaristia, presieduta da Sua Santità il Papa Benedetto XVI, invocando lo Spirito Santo di “condurci verso la verità tutta intera” (Gv 16,13). In quella occasione, il Papa ci ha ricordato che il Sinodo non è’ in primo luogo una sessione di studio. Piuttosto, è l’iniziativa di Dio, che ci chiama ad ascoltare: ascoltare Dio, ascoltarci a vicenda e ascoltare il mondo che ci sta attorno, in un’atmosfera di preghiera e di riflessione. 3. Mentre siamo in procinto di disperderci verso i vari luoghi della nostra missione, con rinnovato impegno e coraggio, indirizziamo questo messaggio alla Chiesa tutta intera, Famiglia di Dio, e in special modo alla Chiesa in Africa: ai nostri fratelli vescovi in nome dei quali siamo qui; ai sacerdoti, ai diaconi, ai religiosi e a tutti i fedeli laici e a chiunque Dio apra il cuore per ascoltare le nostre parole. PARTE I: UNO SGUARDO ALL’AFRICA D’OGGI 4. Viviamo in un mondo pieno di contraddizioni e in piena crisi. La scienza e la tecnologia fanno passi da gigante in tutti gli aspetti della vita, fornendo all’umanità tutto ciò che occorre per fare del nostro pianeta un luogo meraviglioso per tutti noi. Tuttavia situazioni tragiche di rifugiati, povertà estrema, malattie e fame uccidono tuttora migliaia di persone ogni giorno. 5. In tutto questo, l’ Africa è la più colpita. Essa è ricca di risorse umane e naturali, ma molti del nostro popolo sono lasciati a dibattersi nella povertà e nella miseria, in guerre e conflitti, fra crisi e caos. Molto raramente tutto ciò è causato da disastri naturali. Piuttosto è dovuto in larga misura a decisioni e azioni umane di persone che non hanno nessuna considerazione per il bene comune e ciò spesso per tragica complicità e cospirazione criminale tra responsabili locali e interessi stranieri. 6. Ma l’Africa non deve disperare. Le benedizioni di Dio sono ancora abbondanti e aspettano di essere sfruttate con prudenza e giustizia a favore dei suoi figli. Dove le condizioni sono giuste, i suoi figli hanno dimostrato che possono raggiungere, e in effetti hanno raggiunto, il più alto grado di impegno umano e competenza. Ci sono molte buone notizie in diverse parti dell’Africa. Ma i mezzi di comunicazione moderna spesso prediligono le cattive notizie e sembrano concentrarsi sulle nostre disgrazie e difetti, piuttosto che sugli sforzi positivi che stiamo compiendo. Nazioni sono uscite da lunghi anni di guerra e si muovono gradualmente sui sentieri della pace e della prosperità. Il buon governo sta avendo un notevole impatto positivo in alcuni paesi africani, stimolando così altri paesi a riconsiderare le cattive abitudini del passato e del presente. Abbondano segnali di molte iniziative che cercano di dare un’effettiva soluzione ai nostri problemi. Questo Sinodo, proprio per la scelta del suo tema, spera di essere una di queste iniziative positive. Invitiamo tutti indistintamente a collaborare per raccogliere le sfide della Riconciliazione, della Giustizia e della Pace in Africa. Molti stanno soffrendo e morendo: non c’è tempo da perdere. PARTE II: ALLA LUCE DELLA FEDE 7. Il nostro ufficio di vescovi ci obbliga a considerare ogni cosa alla luce della fede. Poco tempo dopo la pubblicazione di Ecclesia in Africa (EIA), i vescovi d’Africa, tramite il Simposio delle Conferenze Episcopali d’Africa e Madagascar (SECAM), pubblicarono una lettera pastorale intitolata: “Cristo nostra pace” (cfr. Documento Finale dell’ Assemblea Plenaria del SECAM a Rocca di Papa, 1-8 Ottobre 2000, pubblicato ad Accra nel 2001). Durante questa assemblea abbiamo spesso ricordato che l’iniziativa per ogni riconciliazion e pace viene da Dio. Come dice l’Apostolo Paolo: “In Cristo, Dio ha riconciliato a sé il mondo”. Questo avviene per un suo dono gratuito di perdono senza condizioni, “senza imputare loro i peccati”, per introdurci nella sua pace(cfr. 2 Cor 5, 17-20). Per quanto riguarda la giustizia, anch’essa è azione di Dio, attraverso la grazia giustificante, in Cristo. 8. Nello stesso testo San Paolo continua dicendo che Dio “affida a noi la parola della riconciliazione”, e in effetti ci ha nominati “ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro”. Questo è l’altissimo mandato che abbiamo ricevuto dal nostro Dio, misericordioso e compassionevole. La Chiesa in Africa, sia come famiglia di Dio sia come singoli fedeli, ha il dovere di essere strumento di pace e riconciliazione, secondo il cuore di Cristo, che è la nostra pace e riconciliazione. E sarà capace di far questo nella misura in cui essa stessa è riconciliata con Dio. Le sue strategie per la riconciliazione, la giustizia e la pace nella società devono andare oltre e più in profondità di quanto il mondo tratti queste questioni. Con San Paolo, il Sinodo invita tutti i popoli d’Africa: “ Vi supplichiamo in nome di Cristo, lasciatevi riconciliare con Dio” ( 2 Cor 5,20). In altre parole, invitiamo tutti a lasciarsi riconciliare con Dio. È questo che apre la via alla riconciliazione vera fra persone. È questo che può spezzare il circolo vizioso dell’offesa, della vendetta e del contrattacco. In tutto questo, la virtù del perdono è cruciale, anche prima di qualsiasi ammissione di colpa. Quelli che dicono che il perdono non funziona, dovrebbero provare a vendicarsi e vedere cosa succede. Il vero perdono promuove la giustizia del pentimento e della riparazione, che conducono a una pace che va alle radici del conflitto e che fanno di quanti erano vittime e nemici, degli amici, fratelli e sorelle. Poiché è Dio che rende possibile questo tipo di riconciliazione, in questo ministero dobbiamo dare uno spazio adeguato alla preghiera e ai sacramenti, specialmente il Sacramento della Penitenza. PARTE III: ALLA CHIESA UNIVERSALE 9. Questo proietta la sua luce di attenzione e solidarietà sul continente africano. Ringraziamo il Santo Padre per la sua vicinanza all’Africa nelle sue lotte e per la difesa che ne fa con tutto il peso della sua enorme autorità morale. Come i suoi predecessori, è sempre stato un vero amico dell’Africa e degli Africani. Confrontandoci con le nostre sfide, siamo stati arricchiti e guidati dai tesori e dalla saggezza del magistero dei Papi sugli aspetti socio-politici. A questo proposito, il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa è un vademecum e una risorsa che vivamente raccomandiamo in questo messaggio a tutti i fedeli laici, specialmente a quelli che hanno grandi responsabilità nelle nostre comunità. 10. La Santa Sede ha promosso molte iniziative mirate allo sviluppo e al benessere dell’Africa. Un caso specifico è la Fondazione per il Sahel per combattere la desertificazione nelle regioni del Sahel. Non possiamo neanche sminuire i grandi servigi che rendono i rappresentanti pontifici nelle nostre chiese locali. Oggi la Santa Sede ha Nunzi in 50 paesi africani, su 53. Questa è una forte indicazione dell’impegno della Santa Sede a servizio del continente, per il quale il Sinodo esprime un profondo apprezzamento. 11. Salutiamo con affetto fraterno la Chiesa tutt’intera, oltre le coste dell’Africa, noi tutti membri della stessa Famiglia di Dio sparsa in tutto il mondo. La presenza e la partecipazione attiva di delegati da altri continenti in questa assemblea, conferma il nostro legame di collegialità effettiva ed affettiva. Ringraziamo tutte quelle Chiese locali che si sono impegnate per offrire servizi in Africa e per l’Africa, sia nell’ambito spirituale che materiale. Nell’area della riconciliazione, della giustizia e della pace, la Chiesa in Africa continuerà a contare sull’effettivo patrocinio dei responsabili della Chiesa in quei paesi ricchi e potenti le cui politiche, azioni e omissioni contribuiscono a causare o aggravare la difficile situazione dell’Africa. C’e uno speciale legame storico fra l’Europa e l’Africa. A questo proposito, dunque, la relazione che oggi esiste fra i due organismi episcopali a livello continentale, il Consiglio delle Conferenze Episcopali d’ Europa (CCEE) e SECAM, deve essere rafforzata e approfondita. Accogliamo pure con gioia i nascenti rapporti fraterni tra la Chiesa in Africa e la Chiesa nelle Americhe. 12. Molti figli e figlie d’Africa hanno lasciato la loro casa per cercar dimora in altri continenti. Molti di loro stanno bene e contribuiscono validamente alla vita del loro nuovo paese di residenza. Altri lottano per sopravvivere. Li raccomandiamo tutti all’adeguata attenzione pastorale della Chiesa, Famiglia di Dio, dovunque siano. “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35) non è solo una parabola circa la fine del mondo, ma è anche un dovere da soddisfare oggi. La Chiesa in Africa ringrazia Dio per i suoi numerosi figli e figlie che sono missionari in altri continenti. In questo santo scambio di doni, è importante che tutte le parti coinvolte continuino a lavorare per costruire una relazione cristiana trasparente, corretta, dignitosa. Durante i lavori del Sinodo, la Chiesa in Africa ha accettato la sfida di interessarsi delle persone di discendenza africana in altri continenti, specialmente d’America. 13. A questo punto, questo Sinodo sente il dovere d’esprimere profondo apprezzamento per i molti missionari, sacerdoti, religiosi e fedeli laici che da altri continenti hanno portato la fede alla maggior parte dei paesi in Africa, molti dei quali vi stanno ancora lavorando con zelo e dedizione eroica. Grazie in special modo a quelli che sono rimasti con la loro gente anche in tempo di guerra e di gravi crisi. Alcuni hanno anche pagato con la propria vita la loro fedeltà. PARTE IV: LA CHIESA IN AFRICA 14. Ricordiamo, con giusto orgoglio, che il Cristianesimo è presente in Africa fin dai sui primi inizi, in Egitto ed Etiopia e subito dopo in altre parti del Nord Africa. Questa antica Chiesa ha arricchito la Chiesa universale con prestigiose tradizioni, teologiche e spirituali, con famosi santi e martiri, come Papa Giovanni Paolo II ha messo in evidenza così eloquentemente (EIA, n. 31). Le Chiese dell’Egitto e dell’Etiopia, che sono sopravvissute a numerose prove e persecuzioni, meritano un’alta considerazione e una collaborazione più stretta con le Chiese, molto più giovani, nel resto del continente. Tale collaborazione è particolarmente importante se consideriamo le migliaia di migranti e di giovani studenti dal sud del Sahara che fanno i loro studi superiori nel Maghreb. Molti di loro sono cattolici e portano con sé il loro attaccamento alla fede, cosa che rianima grandemente la Chiesa locale di residenza. La Chiesa, formata in questi luoghi e in altri soprattutto da stranieri, conta sulla solidarietà delle Chiese sorelle d’Africa perché mandino sacerdoti Fidei Donum ed altri missionari. 15. In tutto il continente, la Chiesa continuerà a camminare in solidarietà con il suo popolo. Le gioie e i dolori, le speranze e le aspirazioni del nostro popolo sono anche le nostre (cfr. Vat. II, Gaudium et spes, 1). Siamo convinti che il primo e specifico contributo della Chiesa ai popoli d’ Africa è la proclamazione del Vangelo di Cristo. Siamo perciò impegnati a continuare vigorosamente la proclamazione del Vangelo ai popoli d’ Africa, perché “la vita in Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo”, come Papa Benedetto XVI dice in Caritas in veritate (CV, 8). Infatti l’impegno a favore dello sviluppo proviene da quel cambiamento del cuore che deriva dalla conversione al Vangelo. In questa luce, accettiamo la nostra responsabilità d’essere strumenti di riconciliazione, di giustizia e di pace nelle nostre comunità, “ambasciatori per Cristo” (2 Cor 5,20) che è la nostra pace e riconciliazione. A questo proposito, tutti i membri della Chiesa, clero, religiosi e fedeli laici, devono essere mobilizzati a lavorare insieme nell’unità che fa la forza. Siamo provocati e incoraggiati dal proverbio africano che dice che “un esercito di formiche ben organizzate può abbattere un elefante”. Non dovremmo aver paura e ancor meno essere scoraggiati, dall’enormità dei problemi del nostro continente. 16. La Chiesa in Africa accoglie con gioia l’invito fatto nella sala del Sinodo per una collaborazione ‘Sud-Sud’ nei nostri sforzi. Molti dei problemi dell’Africa, e molte delle pressioni sull’Africa, si trovano anche in Asia e nell’America Latina. Noi crediamo che abbiamo molto da guadagnare non solo scambiandoci informazioni ma anche collaborando. Che il Signore ci mostri la via per continuare in questa direzione. 17. Il SECAM è l’istituzione della solidarietà pastorale organica della gerarchia della Chiesa in Africa (EIA, n. 16). Sfortunatamente, questo organismo insostituibile non ha ricevuto il sostegno che dovrebbe ricevere, neanche dai vescovi in Africa. Ringraziamo Dio che questo Sinodo ha rappresentato un opportunità benedetta di mettere in luce l’importanza del SECAM. Abbiamo molte ragioni di credere che gli inviti fatti da molti Padri sinodali per un maggior impegno verso il SECAM non sono caduti nel vuoto. Mentre ci prepariamo a ritornare a casa, ci siamo impegnati a dare al SECAM quel poco di cui ha bisogno per svolgere la sua missione. Creata per iniziativa del SECAM e operante in comunione leale con esso, la Confederazione delle Conferenze dei Superiori Maggiori d’ Africa e di Madagascar (COSMAM), sta crescendo gradualmente per diventare uno strumento effettivo per promuovere nel continente una solidarietà pastorale organica nella vita e nell’apostolato dei religiosi in Africa. Il Sinodo accoglie con gioia il loro valido contributo alla vita e missione della Chiesa in Africa. 18. Come vescovi accettiamo la sfida di lavorare in unità nelle nostre varie Conferenze Episcopali, dando ai nostri paesi un modello di istituzione nazionale riconciliata e giusta, pronti ad offrirci come artigiani di pace e di riconciliazione, ogni volta e in ogni luogo ne siamo richiesti. Lodiamo quei vescovi che hanno avuto tali ruoli, specialmente in ambito ecumenico e/o insieme a religioni differenti, come abbiamo visto avvenire in luoghi come il Mali, la Repubblica Democratica del Congo, il Burkina Faso, il Senegal, il Niger e altri. L’unità dell’episcopato è fonte di grande forza, mentre la sua assenza spreca le energie, rende vani gli sforzi e apre uno spazio ai nemici della Chiesa per neutralizzare la nostra testimonianza. Un’area importante dove una tale cooperazione nazionale e coesione sono molto utili è nei mezzi di comunicazione. Da quando EIA è stata pubblicata, è avvenuta una vera esplosione di stazioni radio cattoliche in Africa, da soltanto 15 circa nel 1994 a più di 163 oggi, in 32 paesi. Lodiamo quei paesi che hanno incoraggiato questo sviluppo. Invitiamo quei paesi che hanno ancora delle riserve a questo proposito, a riconsiderare le loro politiche, per il bene dei loro paesi e della loro gente. 19. Ogni vescovo deve porre le questioni della riconciliazione, della giustizia e della pace come un’alta priorità nell’agenda pastorale della sua diocesi. Dovrebbe assicurare la creazione di Commissioni di Giustizia e Pace a tutti i livelli. Dovremmo continuare a lavorare sodo nel formare le coscienze e nel cambiare i cuori, tramite una catechesi efficace a tutti i livelli. Questo deve andare oltre il “semplice catechismo” per bambini e catecumeni che si preparano ai sacramenti. Abbiamo bisogno di organizzare un programma di formazione continua per tutti i nostri fedeli, specialmente per quelli che sono in alte posizioni di autorità. Le nostre diocesi devono essere modelli di buon governo, di trasparenza e di buona gestione finanziaria. Dobbiamo continuare a fare del nostro meglio per combattere la povertà, grande ostacolo alla pace e alla riconciliazione. Qui i suggerimenti per creare programmi di micro-finanza meritano un’attenzione particolare. Come ultimo punto, il vescovo, in quanto capo della sua Chiesa locale, ha il dovere di mobilizzare tutti i suoi fedeli e coinvolgerli nei ruoli loro propri nel pianificare, formulare, attuare e valutare politiche e programmi diocesani per la riconciliazione, la giustizia e la pace. 20. Il sacerdote è “il collaboratore necessario e più stretto del vescovo”. In questo Anno Sacerdotale, cari fratelli nel sacerdozio, ci indirizziamo a voi in modo speciale: voi occupate una posizione chiave nell’apostolato della diocesi. Voi rappresentate per la gente la faccia più visibile del clero, sia all’interno della Chiesa, che all’esterno. Il vostro esempio di vita insieme e in pace, superando le barriere tribali e razziali, può essere una potente testimonianza per gli altri. Questo viene dimostrato per esempio quando accogliete con gioia chiunque la Santa Sede nomina come vostri vescovi, senza distinzioni di luogo di nascita. Molto della realizzazione dei piani pastorali diocesani per la riconciliazione, la giustizia e la pace dipenderà da voi. La catechesi, la formazione del laicato, la cura pastorale delle persone di alta responsabilità: niente di tutto questo andrà lontano senza il vostro pieno impegno nelle parrocchie e nei vari luoghi di vostra competenza. Il Sinodo vi esorta a non trascurare il vostro dovere in questo ambito. Raggiungerete un successo più grande se sarete capaci di lavorare in un ministero basato sulla cooperazione, coinvolgendo tutti gli altri agenti della comunità pastorale; diaconi, religiosi, catechisti, laici, uomini e donne e i giovani. In molti casi, il prete è fra quelli meglio formati nella comunità locale e talvolta ci si aspetta che svolga un ruolo di leader negli affari della comunità. Dovreste sapere qual è il modo migliore di offrire il vostro servizio pastorale ed evangelico, senza schieramenti di parte. La vostra fedeltà agli impegni sacerdotali, in particolare a una vita di celibato nella castità, come pure a un distacco dalle cose materiali, è una testimonianza eloquente al Popolo di Dio. Molti di voi hanno lasciato l’Africa per la missione in altri continenti. Quando lavorate con rispetto e ordine, voi date una buona immagine dell’Africa. Il Sinodo loda il vostro impegno nell’opera missionaria della Chiesa. Possiate ricevere tutti la ricompensa promessa a coloro “che hanno lasciato la loro casa ..... per causa del Regno” (Lc 18,28). 21. L’Africa in questi ultimi anni è divenuta pure un terreno fertile per numerose vocazioni: sacerdoti, fratelli e suore. Ringraziamo Dio per questa grande benedizione. Cari uomini e donne di vita consacrata, vi siamo grati per la testimonianza della vostra vita religiosa nei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, che spesso vi rendono profeti e modelli di riconciliazione, giustizia e pace in circostanze di estrema pressione. Il Sinodo vi esorta a dare la massima efficacia al vostro apostolato attraverso la comunione leale e impegnata con la gerarchia locale. Il Sinodo si congratula specialmente con voi, religiose, per la dedizione e lo zelo nel vostro apostolato nel campo della sanità, dell’educazione e di altri aspetti dello sviluppo umano. 22. Questo Sinodo si rivolge con profondo affetto ai fedeli laici d’Africa. Voi siete la Chiesa di Dio nei luoghi pubblici della società. È in voi ed attraverso di voi che la vita e la testimonianza della Chiesa sono visibili al mondo. Voi quindi condividete il mandato della Chiesa di essere “ambasciatori per Cristo” impegnati per la riconciliazione del popolo con Dio e tra di loro. Ciò esige che lasciate che la vostra fede permei ogni aspetto ed angolo della vostra vita; in famiglia, al lavoro, nella professione, in politica e nella vita pubblica. Non è un impegno facile. Per questo dovete accostarvi assiduamente alle sorgenti della grazia, tramite la preghiera ed i sacramenti. Il testo scritturistico del tema del Sinodo, indirizzato a tutti I seguaci di Cristo, si riferisce in modo particolare a voi: “Voi siete il sale della terra…Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,13-14). A questo punto vogliamo reiterare la raccomandazione di Ecclesia in Africa a proposito delle Piccole Comunità Cristiane (EIA, 93).Oltre alla preghiera, vi dovete armare con una sufficiente conoscenza della fede cristiana per essere capaci di “dare prova della speranza che portate” (1 Pt 3,15) nei luoghi pubblici dove si formano le idee. Coloro tra voi che sono più in alto hanno il dovere di acquisire un livello proporzionale di cultura religiosa. In particolare raccomandiamo caldamente le fonti basilari della fede cattolica: la Santa Bibbia, il Catechismo della Chiesa Cattolica, e ciò che è più rilevante per il tema del sinodo, il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa. Tutti questi sono disponibili a prezzi accessibili. Non ci sono scuse per restare ignoranti della propria fede. Al riguardo Ecclesia in Africa raccomandava ardentemente la fondazione di università cattoliche. Ringraziamo Dio che negli ultimi 15 anni sono emerse molte di tali istituzioni, e molte altre sono in arrivo. Questo progetto ha una importanza capitale. Ma è necessario, se dobbiamo investire su un futuro di un laicato cattolico ben formato, specialmente di intellettuali, pronti e capaci di ergersi a testimoniare la propria fede nel mondo contemporaneo. Questo è certamente un campo dove la solidarietà universale della Chiesa Famiglia di Dio è imprescindibile. 23. Il Sinodo ha un messaggio molto importante e speciale per voi, cari cattolici africani impegnati nella vita pubblica. Lodiamo i tanti tra voi che si sono offerti per il servizio pubblico nel vostro popolo, senza preoccuparsi di tutti i pericoli e delle incertezze della politica in Africa, prendendolo come un apostolato per promuovere il bene comune ed il regno di Dio, che è regno di giustizia, di amore e di pace, secondo l’insegnamento della Chiesa (cfr. Vat. II Gaudium et spes, 75). Potete sempre contare sull’incoraggiamento e sull’appoggio della Chiesa. Ecclesia in Africa esprimeva la speranza che emergano in Africa politici e capi di stato santi. Questo non è certamente un desiderio vuoto. È incoraggiante che la causa di canonizzazione di Julius Nyerere della Tanzania sia già in corso. L’Africa ha bisogno di santi in rilevanti uffici politici: politici santi che sgombreranno il continente dalla corruzione, che lavoreranno per il bene della gente e che sapranno come galvanizzare altri uomini e donne di buona volontà al di fuori della Chiesa ad unirsi contro i mali comuni che assillano le nostre nazioni. Il Sinodo ha raccomandato fortemente che le Chiese locali intensifichino il loro apostolato per la cura spirituale di quanti sono in cariche pubbliche, designino zelanti cappellani per loro ed organizzino uffici di collegamento ad alto livello per evangelizzare i parlamenti. Vi esortiamo, tutti voi fedeli laici in politica, di approfittare pienamente di tali programmi là dove esistono. Molti cattolici in posizioni di prestigio deplorevolmente non hanno corrisposto adeguatamente all’esercizio delle loro cariche. Il Sinodo invita tali persone a pentirsi o a lasciare la pubblica arena e così cessare di causare rovina al popolo dare cattiva fama alla Chiesa Cattolica. 24. Rivolgiamo ora l’ attenzione alle nostre care famiglie cattoliche in Africa. Ci congratuliamo con voi per essere rimaste tenacemente fedeli agli ideali della famiglia cristiana e per aver conservato i valori migliori della nostra famiglia africana. Vi mettiamo in guardia contro gli attacchi di velenose ideologie provenienti dall’estero, che pretendono di essere cultura “moderna”. Continuate ad accogliere i bambini come dono di Dio ed allevateli nella conoscenza e nel timore di Dio, per essere persone di riconciliazione, di giustizia e di pace nel futuro. Siamo coscienti che molte delle nostre famiglie sono oggetto di grande pressione. La povertà spesso rende i genitori incapaci di prendersi buona cura dei propri figli, con conseguenze disastrose. Invitiamo i governi e le autorità civili a ricordare che il paese la cui legislazione distrugge le famiglie, lo fa a scapito proprio. La maggior parte delle famiglie chiedono solo quanto è sufficiente per sopravvivere. Esse hanno il diritto a vivere. 25. Il Sinodo ha una parola speciale per voi, care donne cattoliche. Voi siete spesso la spina dorsale della nostra Chiesa locale. In molti paesi le Organizzazioni delle Donne Cattoliche sono una grande forza per l’apostolato della Chiesa. Ecclesia in Africa raccomandava che nella Chiesa “le donne, adeguatamente formate, vengano rese partecipi, ai livelli appropriati, dell’attività apostolica della Chiesa” (n. 121). In molti luoghi si registra un progresso in questa direzione. Ma ancora molto resta da fare. Il contributo specifico delle donne dovrebbe essere riconosciuto e promosso, non solo in casa come mogli e madri, ma più generalmente anche nella sfera sociale. Il Sinodo raccomanda alle nostre Chiese locali di spingersi al di là dell’affermazione generale di Ecclesia in Africa e di creare strutture cpncrete per assicurare la reale partecipazione delle donne “a livelli appropriati”. La Santa Sede ci ha dato il buon esempio a questo riguardo nominando donne a cariche dei più alti livelli. Ovunque in Africa si parla molto dei diritti delle donne, specialmente attraverso i piani d’azione preparati da alcune agenzie dell’ONU. Molto di ciò che dicono è giusto e corrisponde a quanto la Chiesa va dicendo. Ma c’è bisogno di grande cautela nei progetti concreti da loro proposti, spesso per secondi fini. Noi incarichiamo voi, donne cattoliche, ad essere pienamente coinvolte nei programmi per le donne dei vostri paesi, con gli occhi della fede ben aperti. Munite di una buona informazione e della dottrina sociale della Chiesa, dovreste fare in modo che le buone idee non vengano distorte dagli spacciatori di ideologie straniere e moralmente velenose che riguardano il genere e la sessualità umana. Nel far questo vi guidi Maria nostra Madre, sede della Sapienza. 26. Il Sinodo chiede ugualmente a voi, cari uomini cattolici, di svolgere i vostri importanti ruoli di padri responsabili e di mariti retti e fedeli. Seguite l’esempio di S. Giuseppe (cfr.Mt 2,13-23) nella cura della famiglia, nella protezione della vita dal momento del concepimento e nell’educazione dei figli. Fate in modo di organizzarvi in associazioni ed in gruppi di Azione Cattolica che vi rendano capaci di migliorare la qualità della vita cristiana e l’impegno per la Chiesa. Ciò vi metterebbe anche in una posizione migliore per interpretare ruoli di guida nella società e per diventare testimoni più efficaci e promotori di riconciliazione, giustizia e pace, come sale della terra e luce del mondo. 27. Infine ci rivolgiamo a voi, nostri figli e figlie, giovani delle nostre comunità. Voi non siete solo il futuro della Chiesa: voi siete già il presente in grande numero. In molti paesi d’Africa più del 60% della popolazione è sotto i 25 anni. La percentuale nella Chiesa non dovrebbe essere molto differente. Voi dovete essere strumenti di pace e all’avanguardia di un cambiamento sociale positivo. Sentiamo di dover dare un’attenzione particolare a voi, giovani adulti. Voi siete spesso trascurati, lasciati alla deriva come bersagli per ideologie e sette di ogni tipo. Voi siete molto spesso reclutati ed assunti per pratiche violente. Esortiamo tutte le Chiese locali a considerare l’apostolato verso i giovani come un’alta priorità. 28. Gesù ha detto: “Lasciate che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli”(Mt 19,14). Il Sinodo non ha dimenticato voi, cari bambini. Voi siete sempre oggetto di della nostra tenera attenzione. Ma noi riconosciamo e desideriamo valorizzare il vostro entusiasmo ed impegno come forze attive di evangelizzazione, specialmente tra i vostri coetanei. A voi pure deve essere assicurato uno spazio adeguato, mezzi e direzione per abilitarvi all’apostolato. Vi raccomandiamo specialmente l’organizzazione per i bambini delle Pontificie Opere Missionarie: l’ Opera della Santa Infanzia. PARTE V: UN APPELLO ALLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE 29. La famiglia di Dio si estende al di là dei confini visibili della Chiesa, essa include l’umanità intera. Quando pensiamo ad argomenti come riconciliazione, giustizia e pace, tutti ci incontriamo al livello più profondo della nostra comune umanità. Questo progetto riguarda tutti e richiede un’azione comune. Noi allora alziamo la nostra voce per un appello a tutti gli uomini e donne di buona volontà. In modo particolare ci rivolgiamo a coloro con i quali professiamo la stessa fede in Gesù Cristo, e anche a uomini e donne di altre fedi. 30. In genere le agenzie dell’ONU svolgono un buon lavoro in Africa, per lo sviluppo, il mantenimento della pace, la difesa dei giusti diritti delle donne e dei bambini, la lotta alla povertà, alle malattie,al HIV/AIDS, alla malaria, alla tubercolosi ed altri problemi. Il Sinodo loda il lavoro positivo che stanno svolgendo. Tuttavia chiediamo loro di essere più coerenti e trasparenti nel realizzare i loro programmi. Raccomandiamo vivamente i paesi di Africa a valutare con attenzione i servizi che sono offerti alla nostra gente, di assicurarsi che essi sia buoni per noi. In particolare il Sinodo denuncia tutti i tentativi furtivi di distruggere e scalzare i preziosi valori Africani della famiglia e della vita umana (per esempio: il detestabile art. 14 del Protocollo di Maputo ed altre proposte simili). 31. La Chiesa non è seconda a nessuno nella lotta contro l’HIV/AIDS e nella cura delle persone infette e contagiate da esso. Il Sinodo ringrazia tutti quelli che sono generosamente coinvolti in questo difficile apostolato di amore e di attenzione. Invochiamo un appoggio prolungato perché possiamo coprire i bisogni dei molti che chiedono assistenza (EIA, 31). Con il Santo Padre Benedetto XVI, questo Sinodo avverte che il problema non può essere superato con la distribuzione di profilattici. Chiediamo a tutti coloro che sono genuinamente interessati ad arrestare la trasmissione sessuale dell’ HIV/AIDS di riconoscere il successo già ottenuto dai programmi che consigliano l’astinenza tra i non sposati e la fedeltà tra gli sposati. Questo modo di procedere non solo offre la miglior protezione contro la diffusione di questa malattia ma è pure in armonia con la morale cristiana. Ci rivolgiamo particolarmente a voi, giovani. Non permettete che nessuno vi inganni nel pensare che non potete autocontrollarvi: sì, con la grazie di Dio, lo potete. 32. Ai grandi poteri di questo mondo rivolgiamo una supplica: trattate l’Africa con rispetto e dignità. L’Africa da tempo reclama un cambiamento nell’ordine economico mondiale a riguardo delle strutture ingiuste accumulatesi pesantemente su di essa. La recente turbolenza nel mondo finanziario mostra il bisogno di un radicale cambiamento di regole. Ma sarebbe una tragedia se le modifiche fossero fatte solo negli interessi dei ricchi ed ancora a discapito dei poveri. Molti dei conflitti, guerre e povertà dell’Africa derivano principalmente da queste strutture ingiuste. 33. L’umanità ha molto da guadagnare se ascolta le parole sapienti del Santo Padre Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate. Un ordine mondiale nuovo e giusto non è soltanto possibile, ma necessario per il bene di tutta l’umanità. Un cambiamento è richiesto circa il debito che pesa sui paesi poveri, uccidendo letteralmente i bambini. Le società multinazionali devono cessare la devastazione criminale dell’ambiente per il loro ingordo sfruttamento delle risorse naturali. È una politica miope quella di fomentare guerre per ottenere profitti rapidi dal caos, al prezzo di vite umane e di sangue. E’ possibile che nessuno sia capace e voglia interrompere questi crimini contro l’umanità? PARTE VI: “AFRICA, ALZATI!” 34. Si dice che la culla del genere umano si trovi in Africa. Il nostro continente ha una lunga storia di grandi imperi e di civiltà illustri. La storia futura del continente deve essere ancora scritta. Dio ci ha benedetto con ampie risorse naturali ed umane. Nella quotazione internazionale dello sviluppo materiale, i paesi dell’Africa sono spesso agli ultimi posti. Non è questa una ragione per disperare.. Ci sono stati gravi atti di ingiustizia storica, come la tratta degli schiavi ed il colonialismo, le cui conseguenze negative ancora persistono. Ma queste non sono più scuse per non muoverci in avanti. Di fatto molte cose stanno accadendo. Lodiamo gli sforzi per liberare l’Africa dall’alienazione culturale e dalla schiavitù politica. Ora l’Africa deve affrontare la sfida di dare ai propri figli un degno livello di condizioni di vita. A livello politico, c’è un progresso verso l’integrazione continentale: l’Organizzazione per l’Unità Africana (OAU) è diventata l’Unione Africana (AU). L’Unione Africana ed altri raggruppamenti regionali, a volte in collaborazione con le Nazioni Unite, hanno intrapreso iniziative per risolvere conflitti e per mantenere la pace in molte situazioni di crisi. A livello economico, l’Africa ha cercato di tagliarsi su misura una struttura strategica per lo sviluppo chiamata NEPAD (Nuovo Partenariato Economico per lo Sviluppo Africano). Ha previsto anche un APRM (African Peer Review Mechanism) per il monitoraggio e la misura dell’attuazione di ciò da parte dei vari paesi. Il Sinodo loda questi sforzi poiché questi programmi collegano chiaramente l’emancipazione economica dell’Africa con l’insediamento di un buon governo. Purtroppo qui sta il punto di stallo. Per la gran parte dei paesi africani i bei documenti del NEPAD restano ancora lettera morta. Ci attendiamo perciò un miglioramento generale del buon governo in Africa. 35. Il Sinodo felicemente si congratula con i pochi paesi in Africa che hanno intrapreso la strada di una genuina democrazia. Essi stanno già mostrando i buoni risultati del metodo di fare le cose bene. Alcuni di essi sono usciti da molti anni di guerre e conflitto e stanno gradualmente ricostruendo la loro nazione disastrate. Noi speriamo che il loro buon esempio solleciti altri a cambiare le cattive abitudini. 36. Il Sinodo nota con tristezza che la situazione in parecchi paesi resta molto vergognosa. Pensiamo in particolare alla triste situazione della Somalia, immersa in un conflitto virulento da quasi due decenni che coinvolge già i paesi vicini. Non dimentichiamo la tragica condizione di milioni di persone nella regione dei Grandi Laghi e la crisi che ancora perdura nell'Uganda settentrionale, nel Sudan meridionale, nel Darfur, in Guinea Conakry ed in altri luoghi. Coloro che controllano le sorti di queste nazioni devono assumersi piena responsabilità per il loro deplorevole comportamento. Nella maggior parte dei casi, abbiamo a che fare con avidità di poter e di ricchezza a spese della popolazione e della nazione. Qualunque sia l’incidenza di interessi stranieri, c'è sempre la vergognosa e tragica collusione dei leader locali: politici che tradiscono e svendono le loro nazioni, uomini d’affari corrotti che sono in collusione con multinazionali rapaci, commercianti e trafficanti di armi africani, che fanno fortuna con il commercio di piccole armi che causano grande distruzione di vite umane, e agenti locali di alcune organizzazioni internazionali che vengono pagati per diffondere letali ideologie in cui essi stessi non credono. 37. La conseguenza negativa di tutto ciò sta davanti al mondo intero: povertà, miseria e malattie; rifugiati dentro e fuori del paese e oltremare, la ricerca di più verdi pascoli che porta alla fuga dei cervelli, emigrazione clandestina e traffico di persone umane, guerre e spargimento di sangue, spesso su commissione, l'atrocità dei bambini soldato e indicibile violenza contro le donne. Come si può essere orgogliosi di “presiedere” su un tale caos? Che ne è del nostro tradizionale senso africano di vergogna? Questo Sinodo lo proclama forte e chiaro: è tempo di cambiare abitudini, per amore delle generazioni presenti e future. PARTE VII: UNIONE DELLE FORZE SPIRITUALI 38. Noi desideriamo richiamare nuovamente ciò che il Papa Benedetto XVI ha detto nella sua omelia durante la messa di inaugurazione del Sinodo: l'Africa è il “polmone spirituale” dell'umanità di oggi. Questa è una preziosa risorsa, più preziosa dei nostri minerali e del petrolio. Ma egli ci ha messi in guardia che questo polmone corre il rischio di essere infettato dal duplice virus del materialismo e del fanatismo religioso. Nella sua determinazione a preservare il nostro patrimonio spirituale, contro tutti gli attacchi e le infezioni il Sinodo invita a una sempre più grande collaborazione ecumenica con i nostri fratelli e sorelle di altre tradizioni cristiane. Desideriamo anche che ci sia più dialogo e cooperazione con i mussulmani e gli aderenti alla Religione Tradizionale Africana (RTA) e persone di altre fedi. 39. Il fanatismo religioso si sta diffondendo in tutto il mondo. Esso è causa di rovina in molte parti dell'Africa. Dalla cultura religiosa tradizionale gli Africani hanno assorbito un profondo senso di Dio Creatore. Hanno portato questo nella loro conversione al Cristianesimo e all'Islam. Quando questo fervore religioso è male indirizzato dai fanatici o manipolato dai politici, si creano conflitti che tendono a sommergere ognuno. Ma, dirette e guidate in modo appropriato, le religioni sono una grande forza di bene, specialmente per la pace e per la riconciliazione. 40. Il Sinodo ha ascoltato la testimonianza di molti padri sinodali che hanno percorso con successo la strada del dialogo con i musulmani. Hanno dato testimonianza del fatto che il dialogo è efficace e la collaborazione è possibile e spesso efficace. I temi della riconciliazione, della giustizia e della pace generalmente interessano in intere comunità a prescindere dal loro credo. Lavorando sui molti valori condivisi tra le due fedi, musulmani e cristiani possono dare un grande contributo a ristabilire la pace e la riconciliazione nelle nostre nazioni. Questo si è già verificato in molti casi. Il Sinodo loda questi sforzi e li raccomanda per altri. 41. Il dialogo e la collaborazione prospereranno quando c’è rispetto reciproco. Come vescovi cattolici, abbiamo chiare direttive per il dialogo per restare saldi nella nostra fede, ma lasciando agli altri la libertà di scelta. Il Sinodo ha avuto buone notizie a riguardo di comunità islamiche che concedono alla Chiesa libertà di culto. Esse anche accolgono lietamente e traggono benefici dalle opere sociali della Chiesa. Nel lodare tutto ciò, noi insistiamo nel dire che questo non è sufficiente. La libertà di religione comprende anche la libertà di condividere la propria fede, di proporla, non di imporla, di accettare e accogliere coloro che si convertono. Quelle nazioni che per legge proibiscono ai loro cittadini di abbracciare la fede cristiana privano i loro cittadini del diritto umano fondamentale di decidere liberamente sul credo da abbracciare. Sebbene questo continui da molto tempo, è ora di rivedere la situazione alla luce del rispetto dei diritti umani fondamentali. Questo Sinodo denuncia tale restrizione di libertà perché sovverte un dialogo sincero e frustra un’autentica collaborazione. Poiché i cristiani che decidono di cambiare la loro religione sono ben accolti tra le fila mussulmane, ci deve essere reciprocità in questo campo. Il rispetto reciproco è la strada da percorrere. Nel nuovo mondo che sta nascendo, abbiamo bisogno di dare spazio ad ogni fede perché contribuisca pienamente al bene dell'umanità. CONCLUSIONE 42. Cari fratelli nell'episcopato, cari figli e figlie della Chiesa, Famiglia di Dio in Africa, tutti voi uomini e donne di buona volontà in Africa e altrove, condividiamo con voi la forte convinzione di questo Sinodo: l'Africa non è impotente. Il nostro destino è ancora nelle nostre mani. Tutto ciò che essa chiede è lo spazio per respirare e per prosperare. L'Africa si è già messa in moto e la Chiesa si muove con lei, offrendole la luce del Vangelo. Le acque possono essere burrascose, ma con lo sguardo puntato su Cristo Signore (cfr. Mt 14,28-32) arriveremo sicuri al porto della riconciliazione, della giustizia e della pace. Africa, alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina! (Gv 5,8) “Per il resto, fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi” (2Cor 13,11). Amen.
Il dibattito attuale sulla teologia della liberazione (25 ottobre 2009)
La domanda iniziale, fatta fin da metà degli anni ’90 del XX secolo, può essere formulata così: la teologia della liberazione (TdL) è morta? Non l’hanno già divorata i denti roditori del tempo che passa? Di fatto, la teologia della liberazione – e, in maniera più ampia, il «cristianesimo della liberazione», ecumenico, socialmente impegnato con le utopie e le trasformazioni delle società latinoamericane – è apparsa con molto vigore negli anni ’60 e ’70, si è confrontata con autorità politiche ed ecclesiastiche, ha avuto martiri, ha influenzato altri continenti e perfino altre religioni, ma sarebbe entrata in declino negli anni ’90 [1]. Gustavo Gutiérrez, a cui si è soliti fare riferimento come principale esponente della TdL, si è lamentato con il suo proverbiale senso dell’ironia, dicendo che se la TdL è morta, egli non è stato invitato al funerale. Ma se così fosse, dice, sarebbe molto contento, perché allora saremmo arrivati a un mondo giusto, al regno di Dio, regno di libertà escatologica, senza aver più la necessità degli sforzi e della fedeltà sempre soggetta a tentazione e alla fatica di tendere alla liberazione! Il regno di Dio è regno di libertà, perché è regno di giustizia e di riconciliazione realizzata. Così la libertà in pienezza dispensa dalla liberazione. G. Gutiérrez ripete frequentemente: non mi interessa la sopravvivenza della teologia, che è uno strumento storico delle ragioni della fede; quello che mi interessa soprattutto è la fede viva nella presenza liberatrice di Dio tra i poveri e i segnali di tale liberazione perché i poveri vivano. «Il principio liberazione», ben oltre tutta la TdL, è essenziale al vangelo in quanto è annuncio della liberazione ai poveri (cfr. Lc 4,18). Al contrario di quanti sostengono la morte della TdL, si può affermare che, tra crisi e salti di qualità, questa teologia si è pluralizzata, è divenuta più complessa, ha guadagnato profondità religiosa e culturale, ha assunto molte voci e volti, e si è globalizzata. Il dibattito attuale può essere articolato in tre punti: – In un primo punto si tratta di chiarire bene le sue origini, di fronte al cliché prefabbricato secondo cui la TdL ebbe le sue radici nel marxismo. Anche perché c’è sempre una memoria da recuperare quando si parla di un pensiero così implicato con la storia. La questione del rapporto tra TdL e marxismo è stata già discussa da tanto tempo, ma è ora di chiarire, davanti alle recenti discussioni circa l’evento conciliare nella storia della chiesa, che genere di relazione ci fu e in quale misura tra concilio e TdL. – Un secondo punto è quello delle trasformazioni e connessioni della TdL con le differenti teologie contestuali, femministe, ecc. E ciò va visto attraverso le sue ripetute crisi e incorporazioni. – Un terzo punto è quello dell’attuale dibattito circa la centralità dei poveri, da una parte, e, dall’altra, l’implicanza della TdL con la teologia delle religioni. Infine, le possibilità di futuro in un pianeta minacciato e bisognoso di liberazione ci obbligano a pensare una teologia «ecologica» della liberazione, che interessi tutta l’umanità e tutta la vita sulla terra.
Un’impressionante convergenza storica La storia della TdL è intimamente connessa a un consenso convergente, che si è creato a partire da diverse origini: il ritorno alle fonti evangeliche, la missione e la sua inserzione in culture popolari, le comunità cristiane di base, la sensibilità ecumenica, le lotte per la giustizia e contro le oppressioni politiche. «Ritorno alle fonti» e teologia della liberazione Dopo quarant’anni di TdL, una delle sue origini appare oggi di trasparenza cristallina: per quanto riguarda l’ambito cattolico, essa comincia nel movimento di ritorno alle fonti del concilio Vaticano II. Ma anche in area protestante, si tratta di un ritorno biblico al Gesù dei Vangeli. In una certa maniera, la famosa affermazione di Alfred Loisy, all’inizio del sec. XX, secondo il quale «Gesù annunciava il regno di Dio e quello che venne fu la chiesa»[2], se costituì la miccia simbolica per la reazione antimodernista, poi rivista dalla Lumen gentium 5 – «Gesù iniziò la sua chiesa annunciando il regno di Dio» – può essere presa come un’affermazione ermeneutica di quello che successe con la TdL: il regno di Dio deborda dalle pareti delle chiese e queste sono a suo servizio. In termini conciliari, la chiesa si è aperta al mondo di oggi, all’uomo contemporaneo. Senza questa uscita dall’ecclesiocentrismo non si può capire la TdL: è la «svolta antropologica» conciliare. Ma l’essere umano in carne e ossa, in America Latina, è eminentemente il povero, il popolo povero. Durante il Vaticano II, vere «eminenze» tra i cardinali, nel significato più concreto della parola, impressionarono i vescovi conciliari con la loro sensibilità e preoccupazione per una «chiesa dei poveri». Non solamente Giovanni XXIII – che sognava e voleva un concilio per una «chiesa di tutti, specialmente dei poveri» – ma anche diversi cardinali, tra i quali emergeva il card. Gaicomo Lercaro, che aveva trasformato la sede episcopale di Bologna in una casa di accoglienza per bambini, suscitarono adesione a un movimento di chiesa che tendesse a maggiore semplicità ecclesiale e attenzione verso i poveri. Tale movimento si organizzò attorno al cosiddetto Patto delle catacombe, che alla fine del concilio riunì un gruppo di padri conciliari di diversi continenti nelle catacombe romane di Domitila, dove firmarono l’impegno di portare avanti la riforma delle loro chiese locali in direzione della semplicità e dell’attenzione al mondo dei poveri. È un testo che vale la pena di essere rivisitato[3]. Alla fine, il concilio, preoccupato pastoralmente di cercare l’aggiornamento davanti alle sfide della modernità, soprattutto davanti alla ripresa del mito del progresso e dello sviluppo, riuscì a produrre un’allusione breve ai poveri, anche se preziosa, introdotta, infatti, nel paragrafo iniziale della Gaudium et spes: Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, soprattutto (praesertim) dei poveri e di tutti quelli che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (GS 1). Il carattere pastorale del concilio, e questa intuizione dell’evangelizzazione dei poveri come verifica del ritorno alle fonti, incontrò terreno fertile in America Latina. In quegli anni l’America Latina viveva un periodo di grande inquietudine, con i movimenti guerriglieri, da una parte, e con le dittature militari fortemente repressive, dall’altra. Il mondo era diviso tra un’area comunista – in America Latina sarebbero stati i guerriglieri – e area capitalista: l’Occidente cristiano! I vescovi latinoamericani, riuniti nell’assemblea continentale di Medellin (Colombia), nel 1968, erano capeggiati da persone di grande sensibilità profetica come Manuel Larraín, del Cile, Leonidas Proaño, dell’Ecuador e Helder Câmara del Brasile. L’assemblea emise un documento dal titolo: La presenza della chiesa nell’attuale trasformazione dell’America Latina alla luce del concilio Vaticano II. Riprese e inserì in apertura del documento il nucleo dell’affermazione di Paolo VI, proferita in occasione della chiusura del concilio e ripetuta nel suo discorso di inaugurazione di Medellin: La chiesa latinoamericana, riunita nella seconda Conferenza del suo episcopato, ha centralizzato la sua attenzione sull’uomo di questo continente che vive un momento decisivo del suo processo storico. In questa maniera essa non si è «allontanata», ma «si è fatta prossima all’uomo», consapevole che «per conoscere Dio è necessario conoscere l’uomo»[4]. E per conoscer ciò che è veramente umano, e quindi anche l’umano di questo continente formato in grande maggioranza da poveri, Medellin cita la GS 22: Dato che in Cristo si rivela il mistero dell’uomo, la chiesa si sforza di comprendere questo momento storico dell’uomo latinoamericano alla luce della Parola che è Cristo»[5]. In seguito, ancora nell’introduzione del documento, Medellin opera un parallelismo tra la storia del popolo di Dio nella Bibbia – Israele durante l’esodo – e la condizione dei popoli dell’America Latina, alla ricerca di una «patria grande» di giustizia. Si tratta di un’ermeneutica biblica di Parola e vita come sarebbe stata chiamata più tardi, un circolo ermeneutico che illumina sia la parola di Dio sia la realtà popolare. Questo clima di Medellin, con parole franche e senza preoccupazioni di tipo retorico caratteristiche dei documenti ecclesiali, porterà molti frutti di ordine pastorale e teologico. Medellín inaugura la relazione tra «luogo teologico», dove Dio si lascia incontrare, e «luogo sociale»: non sono fonti teologiche solamente i testi biblici e dottrinali e la tradizione della fede, ma anche la realtà sociale, storica, guadagna un peso specifico come luogo teologico, luogo sociale di rivelazione e di salvezza. Un decennio successivo, nel 1979, riuniti a Puebla (Messico), i vescovi latinoamericani scriveranno circa Medellin: Medellin diffonde questa nuova visione (di popolo di Dio) tanto antica quanto la propria storia biblica[6]. La priorità della missione Intanto, l’America Latina come l’Africa e l’Asia riceveva un contributo generoso e intenso da parte dei missionari e delle missionarie provenienti dall’Europa. Il sec. XX, dentro il progetto di romanizzazione sviluppato nell’arco dell’era «piana», da Pio IX a Pio XII, è diventato un secolo eminentemente missionario con una grande partecipazione di congregazioni religiose e del clero dall’Europa verso gli altri continenti. E due cambiamenti sono avvenuti a partire dalla missione. a) Il contatto delle congregazioni missionarie e dei sacerdoti fidei donum con le comunità popolari ha permesso uno scambio culturale e spirituale in dose doppia. Non soltanto nomi conosciuti della teologia come Jon Sobrino, José Comblin, Ignacio Ellacuría, Victor Codina, Pedro Trigo, José María Vigil, Paulo Suess o vescovi come Pedro Casaldáliga o animatori missionari con il carisma e il talento di Ivan Illich e Gérard Cambron, ma un grande numero di missionari e missionarie provenienti dai paesi europei e dall’America del Nord hanno vissuto uno «sradicamento» ecclesiale e spirituale, una mutazione di luogo sociale e culturale, accompagnata da una «rottura epistemologica»: è avvenuto un cambiamento di pensiero e di linguaggio teologico, che ha sviluppato nuove categorie e ha messo l’accento sulle intuizioni del Vaticano II. La chiesa come popolo di Dio e la sua relazione con il regno di Dio guadagnò un realismo che finì con il provocare entusiasmo, autostima e speranza[7]. Ma creò anche alcune difficoltà, perché le interpretazioni non sempre erano positive: «basismo», avanguardismo, influenze marxiste, moderniste, ecc. b) L’intenzione conciliare di apertura ecumenica si tradusse in una possibilità concreta naturale e feconda: i membri delle differenti chiese si uniscono più facilmente sotto l’orizzonte del regno di Dio che attrae e dà speranza a tutti, riunendo tutti su impegni comuni. Per questo la TdL è nata e sempre si è conservata naturalmente ecumenica entro l’orizzonte comune del regno di Dio e dei suoi segnali storici. L’ecumenismo non è un tema della TdL, ma una forma di pensare a partire da un’esperienza comune. Tale forma di vivere ecumenicamente il cristianesimo non livella le differenti tradizioni ecclesiali, ma rende le relazioni facilmente cooperative e arricchenti. Oggi, per esempio, per ragioni storiche legate all’attualità, mentre grande parte delle istituzioni cattoliche di teologia evitano di esplicitare almeno il nome di «teologia della liberazione» (dietro un vescovo c’è sempre un nunzio), in alcune istituzione evangeliche dell’America Latina essa è chiaramente assunta. L’esplosione pentecostale attuale ha introdotto un fattore di complicazione ecumenica. Il substrato delle nuove chiese pentecostali è il cristianesimo senza chiesa, sono i «cattolici culturali», soprattutto in quelle regioni dove la chiesa non è riuscita, per ragioni diverse, a diventare realmente una «chiesa che si fa popolo»[8] (allora il popolo crea le sue proprie chiese: il popolo si fa chiesa!). Stiamo assistendo, di fatto, a una vera e propria «riforma» prodotta a partire dalla gente del popolo, senza grandi leadership teologiche com’è stata la Riforma protestante del sec. XVI, che unisce naturalmente tre grandi segni dei tempi: il tempio, il teatro e il mercato[9]. I suoi frutti non possono essere analizzati soltanto in base ad alcuni effetti collaterali negativi. Al contrario, ci sono molti elementi positivi, più o meno fluttuanti, di identità, dignità e senso morale in questa nuova forma del cristianesimo disperso nelle varie chiese. Le comunità ecclesiali di base Le regioni più periferiche e missionarie hanno dato vita a comunità cristiane di base molto vive nella misura in cui hanno guadagnato spazio per diventare «soggetti ecclesiali». Nel caso brasiliano, il decennio degli anni ’60 ha conosciuto il Movimento di educazione di base (MEB), capeggiato dall’Azione cattolica nella linea del metodo pedagogico di Paulo Freire, la coscientizzazione degli oppressi. Ma nelle zone interne del Nordest brasiliano il metodo era ancora più semplice dando, in ogni caso, frutti eccellenti rispetto alla presa di coscienza e al rafforzamento popolare. Così in città come Recife, mons. H. Câmara incentivò, al termine delle celebrazioni, i «dialoghi tra fratelli». Nella città di San Paolo, le comunità sostennero il movimento operaio e le lotte per la casa. Sono alcuni esempi di relazione tra fede e vita vissuta in maniera comunitaria e sociale tra le classi popolari. In un tempo di grande esodo rurale, furono fattori decisivi anche l’inserimento attivo di comunità religiose e la formazione sacerdotale ispirata al desiderio ardente di un cambiamento sociale. Tutto sommato, si è realizzato un grande consenso storico tra le comunità popolari, gli intellettuali, i vescovi, il clero e le chiese storiche, in maniera tale che la TdL ha finito con il rappresentare teoricamente tutto questo. I teologi cominciarono a comprendersi come «intellettuali organici» (un’espressione presa in prestito da Antonio Gramsci), di questo grande momento storico del cristianesimo latinoamericano. Discussione e sistematizzazione della teologia della liberazione La TdL non è mai stata esente da dibatti intensi e critiche complessive. La principale di queste è rappresentata dal documento della Congregazione per la dottrina della fede del 1984, allora sotto la direzione di Joseph Ratzinger, migliorato da un altro documento più ampio emesso nel 1986[10]. In questo documento, la critica si concentra sull’influenza dell’ideologia marxista, in quanto si intravedono categorie marxiste sotto parole evangeliche. In tale critica il documento della Congregazione non era solo: diverse leadership ecclesiastiche importanti in America Latina muovevano le medesime critiche. Per questo il tema merita un po’ della nostra attenzione[11]. Il privilegio del «luogo teologico ed ecclesiologico» dei poveri e di coloro che soffrono, in qualche maniera già annunciato all’inizio della GS, con «l’evangelica opzione preferenziale per i poveri», fatta propria nei documenti pastorali dell’America Latina, esigeva una serie di rotture che, in gran parte, non sono state fatte. Ma divenne teologicamente chiaro che non ci sono alternative se si vuole essere fedeli alle origini evangeliche, a Gesù. Sembrava più facile buttare tutto questo sforzo di fedeltà evangelica nel bidone della spazzatura delle ideologie, che fin d’allora si mostravano decadenti come il comunismo. Mons. H. Câmara era tacciato sistematicamente di essere un «vescovo rosso» dal regime militare brasiliano. Altri governi militari perseguitavano i responsabili ecclesiali, tra cui vescovi, come mons. Enrique Angelelli, in Argentina. Tale situazione si aggravò in America centrale, culminando con il martirio e l’uccisione di mons. Oscar Arnulfo Romero, dei gesuiti dell’Università centroamericana «José Simeón Cañas» (UCA) di El Salvador, di mons. Juan José Gerardi in Guatemala e di numerosi missionari e cristiani responsabili di comunità ecclesiali. Il silenzio e la politica della chiesa di Roma indicavano altre opzioni: la vittoria sul mondo comunista e la repressione nei confronti di coloro che univano fede e politica nel continente latinoamericano. Ma la confusione della TdL con l’ideologia marxista si deve a un’interpretazione maggiormente teorica: il marxismo segna la seconda ondata illuminista in Europa, dove si afferma che non basta comprendere e interpretare il mondo, ma che è necessario cambiarlo. Quanto di Karl Marx coincide con alcune affermazioni di Gesù nel vangelo non è colpa della TdL. Le «affinità elettive» con Marx percepite nella TdL vengono da un terreno più antico: il vangelo dei poveri. In diversi spazi accademici dell’America Latina, come quello di Santiago del Cile e di Lima (Perù), ci fu un dialogo critico tra la teologia e il marxismo. Nessun teorico della TdL, del resto, ha accettato le categorie marxiste di analisi della società nella loro totalità e ancora meno le loro proposte metodologiche di trasformazione, come, per esempio, l’enfasi sulla lotta di classe. Dal momento che una cosa è constatare che lo sfruttamento e la lotta di classe esistono, altro è proporre la stessa lotta di classe come metodo per raggiungere la giustizia. D’altra parte, rivendicazioni di maggior giustizia sono esigenze profetiche che non dovrebbero essere confuse con il marxismo o, ancor peggio, essere ridotte a questo. In un’intervista con Fidel Castro, Frei Betto (Carlos Alberto Libânio Christo) ha chiarito un punto chiave: è il cristianesimo della liberazione e la sua teologia che mostrano l’equivoco di Marx dal momento che la religione non è necessariamente alienante[12]. Al contrario, l’esperienza latinoamericana ha mostrato che la fede può essere trasformatrice. Lo stesso Max Weber, che non può essere considerato un pensatore di sinistra, affermava che la religione può giocare tanto un ruolo di stabilizzazione e di conservazione, quanto un ruolo rivoluzionario e che i grandi momenti fondanti e riformatori della religione sono sempre stati altamente rivoluzionari. Le tensioni si estesero allo sforzo di sistematizzazione della TdL: attraverso il controllo ancora più rigoroso di quello che chiede il diritto canonico, divenne più difficile pubblicare nuovi volumi nella collana organizzata per fare una rilettura globale di tutta la teologia nell’ottica dell’esperienza della liberazione. Rimane vero che le difficoltà di dar continuità al lavoro non sono ascrivibili solo ai problemi di autorizzazione ecclesiastica, ma anche perché i tempi sono cambiati e hanno chiesto nuove visioni (insights) da parte delle teologia latinoamericana.
Un albero ben piantato, tronco vigoroso e molti rami Clodovis Boff insiste sul principio ermeneutico della liberazione come principio prezioso della TdL[13]. Quando le analisi di ordine sociologico ed economico si mostrarono insufficienti e le commemorazioni dei 500 anni del cristianesimo in America Latina provocarono l’incontro della teologia con le culture indigene e afro discendenti, con le loro specifiche categorie religiose di pensiero e la loro ricchezza di tipo antropologico, c’è stata una vera re-inaugurazione della TdL. La teologia femminista, dal canto suo, prese il principio ermeneutico della liberazione e lo ha reso operativo per la relazione di genere nella società, nella cultura, nella storia. Oggi la teologia india, afro e anche quella femminista producono frutti un po’ dappertutto, non solo in America Latina, e sono le più forti teologie della liberazione come appare nei dibattiti interni a queste teologie. In una certa maniera, la teologia delle religioni, il pluralismo religioso e il dialogo interreligioso traggono molto guadagno dal principio «liberazione». Qui, infatti, non si tratta di un pluralismo quale frutto dell’accento tipicamente moderno posto sull’individualità e sulle sue lotte di liberazione, che in realtà sono più precisamente lotte per l’emancipazione dell’individuo. Qui, piuttosto, si tratta di un pluralismo ancestrale dei popoli e delle loro forme di religione, finalmente libere dalla coercizione in modo da partecipare alla scena del dialogo. Il «luogo» sociale e storico, culturale e di genere, come il luogo geografico, diventano sempre più importanti come «luoghi teologici». Si deve al lavoro decisivo di Ignacio Ellacuría la chiarificazione di questa connessione, che va molto oltre i loci theologici di Melchior Cano circa la comprensione della storia come luogo di rivelazione e di salvezza: i processi di liberazione storica sono i luoghi dell’esperienza della presenza divina e della salvezza umana[14]. Dopo il concilio Vaticano II, e più precisamente dopo la Dei Verbum, è possibile chiarire la differenza tra una «fonte» di rivelazione e un «luogo» di rivelazione. Le Scritture, i Padri, la tradizione, il magistero sono «fonti» (o «canali» secondo C. Boff) di un’unica grande fonte di rivelazione, la parola di Dio. Ma il «luogo» è il contesto, il paesaggio in cui sorge questa fonte e soprattutto dove si «espande» storicamente, nell’oggi della realtà sociale. Abbiamo abbandonato, allora, la mera ripetizione di testi, di documenti, di un teologia già data per cercare una teologia viva insieme alle differenti realtà vive. Si è dato, per tali teologie, il nome di «teologie contestuali». C’è qui, di fatto, un’importanza decisiva dei contesti, del punto di vista metodologico ed epistemologico; e non solamente di contesti dietro i testi, ma di contesti che leggono e interpretano, quindi di contesti «davanti» ai testi, come indica Paul Ricoeur. Come leggono i poveri, dalla loro fatica di vivere e dalle loro speranze, il Vangelo di Luca, di Marco? Le loro intuizioni teologiche sono preziose per comprendere dove passa Dio in questo mondo contemporaneo. Si possono allora comprendere le teologie attuali della liberazione come metafore di un grande albero che è radicato nella parola di Dio, nel cuore della predicazione e della vita di Gesù – il vangelo del regno di Dio annunciato ai poveri e la vita data per questo –; e il cui tronco è la storia umana viva e portatrice di linfa evangelica che si apre alle differenti regioni della realtà, in ramificazioni che si nutrono di Spirito Santo e che danno frutti abbondanti. Al tempo stesso, come reclama con buona argomentazione il giovane teologo argentino Ivan Petrella, la TdL non può essere ridotta a una teologia contestuale fra le tante. Essa deve mantenersi fedele alla sua vocazione universale ancora di più in questo mondo globalizzato. In verità, essa è la prima teologia realmente globalizzata e che può confrontarsi con i saperi attuali del mondo globalizzato e i suoi effetti. E l’argomento più contundente è dato dal fatto che un mondo in cui continua costante la dura statistica di due terzi di persone in situazioni di povertà e miseria, con mancanza di sufficiente autonomia per vivere con dignità la propria libertà, i processi di liberazione e, conseguentemente, la TdL, sono esigenze profetiche e cristiane non negoziabili[15]. Si chiamano dalit in India o minjug in Corea, ma è l’universalità concreta della TdL.
Le questioni contemporanee della teologia della liberazione Nel 2005, allora, è nato il Forum mondiale su teologia e liberazione («World forum on theology and liberation»)[16]. La piccola modifica («e» e non «della») non è semplice retorica. Si tratta, piuttosto, di un processo che riunisce differenti teologie cristiane presenti nel mondo, dando per scontato il pluralismo contestuale che le contraddistingue, ma unite dallo stesso principio «liberazione». Il forum nacque all’interno del Forum sociale mondiale («World Social Forum», WSF) sotto lo stesso slogan: Un altro mondo è possibile. Come ogni forum, ospita una grande diversità di iniziative e pensieri, con esperienze di liberazione e di cambiamento a partire dal basso, di contesti locali e regionali. È un mercato di scambi, di dibattiti e di ispirazioni, di forma ecumenica. Nei forum, la partecipazione di uomini e donne, di teologi professionisti e agenti di pastorale, di membri di differenti denominazioni cristiane avviene in maniera intensa, soprattutto nei workshops e nelle comunicazioni, nei gruppi di celebrazioni e di interesse. Evidentemente, secondo la più tradizionale maniera scolastica, la teologia è parlare di Dio e di tutte le cose dal punto di vista di Dio. Gli spazi dei forum curano entrambi i livelli, con il pudore necessario per parlare di Dio e con la preoccupazione di parlare di tutte le cose che accadono in questo mondo sotto l’ottica della preoccupazione e delle attenzioni di Dio. Non sarebbe molto difficile parlare di Dio limitandosi alle fonti. Più complicato si rivela parlare dei luoghi dove Dio si rivela come Padre di Gesù e Dio di amore e di giustizia. L’ultimo – il terzo – Forum Mondiale di teologia e liberazione, che si è svolto immediatamente prima del Forum sociale mondiale, nel gennaio del 2009, ebbe luogo a Belém nel Pará (stato nel Nordest del Brasile, n.d.t.) alle porte d’ingresso nell’Amazzonia. Si tratta di un «luogo teologico» di carattere profetico: quella regione è attraversata dai gemiti dell’ecologia, è duramente colpita per l’avarizia degli affari legati all’industria agroalimentare; è una delle frontiere del capitalismo senza limiti che ha fatto diventare la zona una «frontiera predatoria» della maggior riserva forestale del mondo. Ci sono popoli amazzonici che convivono da millenni con la foresta, da sempre abitata da un’infinita biodiversità, compresa quella umana. Ma questi popoli sono violentati insieme con la foresta e la regione diventa una fucina di conflitti, di tensioni, di morti innocenti e di abbandono politico. E, al tempo stesso, rappresenta ancora la promessa di una terra dove gli uccelli del cielo, i fiori dei campi e i pesci dei fiumi testimoniano la gloria di Dio. La famosa espressione di Ireneo che «la gloria di Dio è l’uomo vivente»[17] è stata interpretata concretamente da O. Romero come «la gloria di Dio è che il povero viva», ma ora diventa drammaticamente: «La gloria di Dio è che la vita, tutta la forma di vita, sia glorificata». L’ecologia invoca la liberazione e la TdL sta ponendo il suo orizzonte maggiore, il suo luogo più ampio, nel luogo teologico dell’ecologia. Ci sono buoni autori e buoni testi che aiutano a progredire innanzi all’urgenza del cambio di paradigma umano e di civilizzazione per la salvaguardia della vita sulla terra[18]. Nel frattempo, mentre i vescovi latinoamericani riuniti in assemblea ad Aparecida (San Paolo, Brasile 2007) riprendevano nel loro documento le opzioni pastorali della chiesa latinoamericana (l’opzione preferenziale per i poveri, l’urgenza dello sviluppo delle comunità ecclesiali di base, ecc.), è scoppiato un vivace dibattito tra C. Boff e diversi teologi circa il punto centrale nel metodo della TdL[19]: questa teologia, per confusione metodologica ed epistemologica, avrebbe scambiato Cristo per i poveri in una maniera tale che, invece di avere Cristo e la fede in Cristo come principio primo della teologia, avrebbe eretto il povero al posto privilegiato di Cristo. La teologia sarebbe dunque diventata, secondo un’espressione ironica – forse offensiva per i poveri – una «poverologia»? Infine, secondo C. Boff, se da Cristo sempre si arriva ai poveri, non sempre dai poveri si arriva a Cristo: ci si può fermare alla politica. Faccio parte di questo dibattito, anche se come teologo minore: quando un cristiano incontra veramente un povero, un piccolo, incontra sempre Cristo. E quando un cristiano cerca Cristo in maniera non adeguata, inautentica, non arriva né a Cristo, né, evidentemente, ai poveri e ai piccoli. Se la ricerca di Cristo ha come motivazione, ad esempio, l’autodifesa davanti alle sofferenze, è chiaro che ciò diventa muro di difesa contro la sofferenza dei poveri. In ogni caso, nessun teologo che risponda del suo incarico, nella storia della TdL ma anche attualmente, ha mai messo in dubbio la centralità della fede e di Cristo. Detto in questa maniera è perfino elementare: ma allo stesso modo è importante il «luogo» dove Cristo si lascia incontrare per gli impegni della missione cristiana. Ossia, in un mondo intensamente globalizzato dalla tecnologia e dalla comunicazione, dove tutti noi siamo diventati più prossimi gli uni agli altri, il luogo fisico è diventato meno rilevante: da qualsiasi continente è possibile oggi essere presenti in qualche maniera in altro continente. Quello che è importante è il «luogo sociale» più di quello fisico: da dove guardiamo, discerniamo, giudichiamo, dove mettiamo la nostra parte nel mondo. La totalità, di fatto, può essere avvicinata solamente a partire dalle parzialità, di scelte e di preferenze: chi viene prima, Lazzaro oppure il ricco (cf. Lc 16,19-31)? E oltretutto in tempi di ecoteologia: chi viene prima, 18 mila indios yanomani indifesi o 8 fazendeiros che occupano e riducono le loro terre a immensi campi di riso nell’estremo Nord del Brasile? Ma è anche vero che, nell’incontro intenso e di grande ricchezza con le tradizioni indigene, il Forum Mondiale di teologia e liberazione ha finito con l’interrogarsi circa l’identità della teologia cristiana e la sua posizione specifica dentro questo mondo sempre più vasto e plurale. Che cosa vuol dire essere cristiano e come può il pensiero cristiano essere capace di liberare e trasformare questo mondo che emette gemiti di parto, senza nascondersi o scivolare verso altri saperi, nell’ambito dell’interdisciplinarietà con le scienze e con la cultura, con le ricchezze di altre tradizioni religiose indigene, africane, asiatiche, andando oltre l’ambito delle tre tradizioni abramitiche? Questo è un altro compito per il pensiero della TdL. Nel frattempo, anche in mezzo a un percorso più lungo, è importante constatare i frutti di tanti sforzi e perfino dei martiri, come il recente martirio di suor Dorothy Stang in Amazzonia, che ha amato allo stesso tempo il popolo e la foresta nell’amore di Dio e ha dato la sua vita per difendere il popolo e la foresta dall’ingordigia dell’industria agroalimentare illegale e violenta. Lei, che aveva un sorriso dolce e una parola pacifica, mentre moriva è stata un vangelo per i suoi assassini, mentre veniva sepolta nel mezzo della foresta è stata anche «piantata» come il chicco di frumento del vangelo: ci sono molte Dorothy nella regione per continuare una scelta che onora Cristo e feconda la teologia. Nel «morire per Cristo», ha sottolineato la dignità e la vocazione del popolo e di tutte le creature della foresta e della terra, a essere regno di Dio, per il quale, come Cristo, vale la pena di morire. Suor Dorothy ci rende possibile pensare teologicamente la morte come liberazione e il pensiero della morte è sempre il più difficile, anche, tra l’altro, dal punto di vista teologico.
NOTE: [1] Traduzione di Marco Dal Corso. [2] A. Loisy, L’évangile et l’église, Picard, Paris 1902 (ed. it. Il vangelo e la chiesa - Intorno a un piccolo libro, introd. L. Bedeschi, Ubaldini, Roma 1975). [3] Cf. B. Kloppenburg, Concílio Vaticano II quarta sessão set - dez. 1965, V, Vozes, Petrópolis 1965, pp. 526-528. (cf. testo italiano in appendice all’articolo nel fascicolo a stampa). [4] Documento di Medellín [Presencia de la iglesia en la actual transformación de America Latina a la luz de concilio Vaticano II], n. 1. La citazione di Paolo VI è tra virgolette nel testo originale. Il corsivo è mio. Per il testo completo dell’omelia di Paolo VI, del 7 dicembre 1965 cf. Enchiridion Vaticanum (= EV) 1, 448*-465*, qui 462*. [5] Documento di Medellín 1. [6] Documento de Puebla: la evangelizacion en el presente y en el futuro de America Latina (23.3.1979) (= Puebla), n. 234 (ed. it. L’evangelizzazione nel presente e nel futuro dell’America Latina, EMI, Bologna 1985). [7] Cf., per es., I. Ellacuría, Conversión de la iglesia al reino de Dios. Para anunciarlo y realizarlo en la história, Sal Terrae, Santander 1985 (tr. it., Conversione della chiesa al regno di Dio. Per annunciarlo e realizzarlo nella storia, Queriniana, Brescia 1992). [8] Cf. L. Boff, E a Igreja se fez povo, Vozes, Petrópolis 1986 (tr. it. Una prospettiva di liberazione: la teologia, la chiesa e i poveri, Einaudi, Torino 1987). [9] L.S. Campo,Teatro templo e mercado. Organização e Marketing de um Empreendimento Neopentecostal, Vozes, Petrópolis 1997 (2ª ed.). [10] Cf. Congregazione per la dottrina della fede, Istruzione Libertatis nuntius (6 agosto 1984), in EV 9, 866-987; Id., Istruzione Libertatis conscientia (22 marzo 1986), in EV 10, 196-344. [11] Uno studio attento, tra i molti esistenti, si può trovare in E. Dussel, Teología de la Liberación y marxismo, in I. Ellacuría - J. Sobrino (edd.), Mysterium liberationis. I concetti fondamentali della teologia della liberazione, Cittadella - Borla, Assisi - Roma 1992; cf. anche M. Löwy, La guerre des dieux. Religion et politique en Amérique Latine, Editions du Felin, Paris 1998; C. Boff, Teoria do método teológico, Vozes, Petrópolis 1998, pp. 385-387 (tr. it., Teoria del metodo teologico (versione didattica), EMP, Padova 2000). [12] Cf. F. Castro - Frei Bento, Fidel and religion. Fidel Castro in conversation with Frei Betto on marxism and liberation theology, Ocean Press, New York 20062 (or. Simon & Schuster, New York 1980). [13] Boff, Teoria do método, cit., pp. 637-639. Clodovis afferma che ogni teologia, per essere cristiana, deve prendere sul serio la dimensione liberatrice della fede: «Infatti, se c’è una teologia che non accoglie questa sfida, ci si può domandare se sia sufficientemente “cristiana” o se non sia invece “neo-liberale” […]. Non colloco più la teologia della liberazione come una corrente tra le altre, lottando per ottenere un posto al sole e disputando per raggiungere l’egemonia nel campo teologico e pastorale. Ritengo la liberazione sociale come dimensione costitutiva di tutta la teologia cristiana. In tal modo, ciò che si richiede non è tanto un’opzione particolare per una corrente, quanto un’opzione per la vocazione della propria teologia, se si desidera che sia ancora cristiana» (C. Boff, Como vejo a teologia trinta anos depois, in L.C. Susin [ed.], O mar se abriu. Trinta anos de teologia na América Latina, Loyola, São Paulo 2000, p. 90). [14] Cf. I. Ellacuría, Historicidad de la salvación cristiana, in Ellacuría - Sobrino (edd.), Mysterium liberationis, cit., vol. I, pp. 323-372. [15] Cf. I. Petrella, On expanding the scope of liberation theology: two theses, in: www.wftl.org/pdf/010.pdf (5/05/09). [16] C’è una letteratura disponibile sull’inizio e lo sviluppo dei Forum mondiali di teologia e liberazione: L.C. Susin (ed.), Teologia para outro mundo possível, Paulinas, São Paulo 2006 (tema del I Forum mondiale; testi anche in spagnolo e inglese); cf. M. Getui - L.C. Susin - B. Churu, Spirituality for another possible world, Kolbe Press, Limuru (Kenya) 2008 (analisi del tema del II Forum mondiale); L.C. Susin, Un forum mondial pour une théologie actuelle, in «Lumen Vitae» 1 (2005) 53-65; cf. anche la monografia Un altro mondo è possibile della rivista «Concilium» 5 (2004). [17] Ireneo di Lione, Contro le eresie, 4,20,5-7. [18] Cf. i testi di questo III Forum mondiale nel sito www.wftl.org (6.05.2009). [19] I testi principali e gli articoli di questo recente dibattito si trovano tutti nella «Revista Eclesiástica Brasileira» (= REB): C. Boff, Teologia da libertação e volta ao fundamento, in REB 67 (2007) 1001-1022; L.C. Susin - E.J. Hammes, A teologia da libertação e a questão de seus fundamentos: em debate com Clodovis Boff, in REB 68 (2008) 277-299; F. de Aquino júnior, Clodovis Boff e o método da Teologia da libertação. Uma aproximação crítica, in REB 68 (2008) 597-613; C. Boff, Volta ao fundamento: réplica, in REB 68 (2008) 892-927; J. Comblin, As estranhas acusações de Clodovis Boff, in REB 69 (2009) 196-202. Sul dibattito si veda anche la documentazione edita dalla rivista «Il Regno»: L. Prezzi, Brasile - Teologia della liberazione: i due Boff, in «Il Regno.Attualità» 16 (2008) 509-510; C.M. Boff, Ritorno al fondamento, in «Il Regno.Documenti» 17 (2008) 557-567; L. Pacchin, Teologia della liberazione. I due Boff: Cristo e il povero. Dibattito sul metodo, , in «Il Regno.Attualità» 2 (2009) 20-22 (n.d.t.). (Luiz Carlos Susin, Credere Oggi, 171/209, pp. 35-53)
La «vita eterna» nella testimonianza biblica e nella tradizione cristiana (18 ottobre 2009)
La vita è fragile e precaria. Di questo come essere umani abbiamo coscienza, con questo dato siamo chiamati a confrontarci, implicitamente o esplicitamente, in tutto ciò che pensiamo e operiamo. «Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni...»[1]: non è detto sia l’ultima parola possibile per descrivere la nostra condizione, ma è una voce che non sarebbe giusto mettere a tacere in modo troppo sbrigativo. Da dove sorge allora la prospettiva di una vita non minacciata dall’estinzione, sottratta alla provvisorietà, tutelata rispetto all’azione divorante della morte e in grado di adempiere le promesse di bene che sembrano trovare posto anche nelle pieghe delle più tormentate esistenze? Dal desiderio, forse. Da uno sguardo che non si rassegna e non si limita a constatare il nulla che sta dietro e di fronte agli attimi che ci sono da vivere, ma ardisce volgersi al di là del tempo che consuma. Cosa però ci assicura che questo levarsi in alto degli occhi del desiderio non sia un’illusione, una proiezione al di fuori di noi di un abisso che è solo nostro, oppure una strategia adattiva, effetto di una serie di mutazioni più o meno casuali, che ci permette di sopravvivere a un ambiente ostile grazie alla costruzione mentale di un mondo stabile e sicuro? Se la via del desiderio sembra poco praticabile, almeno a prima vista, si può pensare che la speranza nella reale possibilità di un’esistenza umana che permane nella e oltre la morte sia il dono offerto da una parola che non nasce dal cuore dell’uomo, ma da un “Altro”, il quale dice: «Tu non morrai» perché egli stesso è più forte della morte, avendola sofferta, combattuta e sconfitta. Il cristianesimo, con la sua storia complessa e i suoi volti differenziati, si propone nel quadro variegato delle esperienze religiose dell’umanità come annuncio di quella parola. Essa ha preso corpo in un momento particolare, all’interno della lunga storia di un piccolo popolo, ma si rivolge a tutti, al di là di ogni appartenenza, offrendo motivi per credere che se è vero che nel mezzo della vita facciamo sempre esperienza della morte, è ancor più vero che nella morte e oltre la morte ci è donata una vita «eterna». Vita eterna è una delle formule che i cristiani hanno privilegiato per esprimere il contenuto della speranza sorta dall’incontro, nella fede, con il Crocifisso risorto[2]. Una formula paradossale: come può la vita (realtà che sembra implicare, in qualche modo, il divenire) essere eterna (appartenere all’ambito di ciò che non muta)? Ci si può effettivamente chiedere se ci sia un contenuto di verità nell’affermazione: «credo la vita eterna», o se si tratti solo dell’espressione di un sentimento per mezzo di un ossimoro, una poetica accoppiata di opposte qualità, come “una dolce amarezza”, “una lieta tristezza”. Prima però di liquidare come falsa o persino dannosa la nozione di vita eterna, o prima di ribadirne semplicemente la legittimità, come se il suo significato fosse da sempre chiaro e univoco, è opportuno interrogarsi su ciò che queste parole hanno inteso e intendono effettivamente comunicare[3]. Non possiamo occuparci delle differenti rappresentazioni della condizione umana nella morte e al di là della morte, alcune delle quali (non tutte!) sono chiaramente associate alla prospettiva di una vita “altra” rispetto a quella sperimentata nel tempo dell’esistenza cosiddetta «terrena»[4]. Il nostro percorso si colloca all’interno dell’orizzonte di comprensione della realtà che si lascia istruire dal vangelo di Gesù Cristo, così come risuona nell’uno e nell’altro Testamento e in alcune figure significative della tradizione cristiana. Senza ricapitolare i contenuti della speranza cristiana (a cui si riferisce quell’ambito della riflessione teologica che, con termine moderno, viene chiamato escatologia), ci concentreremo su una delle sue nozioni chiave, quella appunto di vita eterna, considerandone sinteticamente la storia. 1. Passaggi e tensioni nell’Antico Testamento È necessaria una certa cautela quando, leggendo una traduzione italiana dell’Antico Testamento, ci imbattiamo in espressioni quali «amore eterno», «alleanza eterna», «vita eterna». Il termine ebraico ‘olam, tradotto generalmente in greco con aión e in italiano con eterno, non indica di per sé una condizione che si colloca «al di là» del tempo, quanto piuttosto un tempo lontano, passato da molto o proiettato nel futuro. Espressioni quali «amore eterno», «alleanza eterna», «regno eterno» e simili, non vanno riferite immediatamente a un futuro definitivo (escatologico) di tipo personale o collettivo: dicono piuttosto il carattere durevole dell’alleanza, dell’amore, del regno[5]. Non è difficile, del resto, osservare come dai libri dell’Antico Testamento non traspaia un’idea univoca del destino che attende l’uomo al momento della morte. La fede che dà stabilità al popolo d’Israele (cf. Is 7,9b) – la fede di Abramo – è fondata su una promessa e, come tale, è rivolta al futuro. Questo futuro però non si configura subito come esistenza personale oltre la morte, essendo sufficientemente rappresentato dalla discendenza, dal possesso della terra, dalla possibilità di godere in essa lo shalom («pace») donato da Dio. I defunti stanno nel «mondo sotterraneo» (lo sheol) come «ombre»: non «anime» in senso platonico, ma esistenze depotenziate, sottratte alla relazione con Dio, al quale non possono «dar lode» (cf. Sal 88,11). La prospettiva del permanere della relazione personale fra Dio e l’uomo (il giusto) nella morte e oltre la morte emerge nei testi risalenti all’epoca post-esilica. Il tema del «rapimento al cielo» di personaggi particolari (Enoch, Elia), l’esperienza della fedeltà di Dio nel momento della prova, l’esigenza di una ricompensa per il giusto sofferente di fronte alla prosperità del malvagio, interagiscono fra loro e portano a esprimere in alcuni salmi (ad es.: 49,16; 73,24; cfr. anche 16,10) l’idea di un legame tra Dio e il giusto tale non solo da permettere la salvezza “dalla morte” ma anche da permanere (almeno secondo un lettura possibile dei testi) “al di là della morte”. Intorno al II secolo a.C., all’epoca delle rivolte contro la politica anti-giudaica dei Seleucidi, diventa esplicita la consapevolezza di un «risveglio» dei morti (nella totalità del loro essere personale) al momento dell’instaurazione definitiva della signoria di Dio, in vista della ricompensa dei giusti e della punizione dei malvagi. Così in Daniele: «Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Dn 12,2-3)[6]. Se in questo passo l’attesa è quella di un risveglio dei morti a una vita «eterna» (su questa terra), il secondo libro dei Maccabei dà voce anche alla speranza che i giusti, uccisi a causa della loro fedeltà alla legge, siano accolti «in cielo» al momento stesso della morte: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna [letteralmente: in una reviviscenza eterna di vita]» (2Mac 7,9). Il contrasto fra la sorte degli empi e quella dei giusti è in primo piano nei capitoli iniziali (1-5) del libro della Sapienza: «La speranza dell’empio è come pula portata dal vento, come schiuma leggera sospinta dalla tempesta; come fumo dal vento è dispersa, si dilegua come il ricordo dell’ospite di un solo giorno. I giusti al contrario vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore e di essi ha cura l’Altissimo» (Sap 5,14-15). Vita «eterna» è quindi la relazione personale con Dio che continua, per chi è fedele all’alleanza, anche oltre la morte, non come prolungamento indefinito dell’esistenza terrena, ma come partecipazione alla vita di Dio, l’Eterno, il Vivente, che si manifesta tale rimanendo fedele alla sua promessa. La speranza nell’adempimento delle promesse di Dio può essere espressa con immagini diverse e con linguaggi non sempre facilmente sovrapponibili. L’interpretazione cristiana delle Sacre Scritture del popolo ebraico coglie volentieri una dinamica progressiva nel modo in cui la speranza d’Israele passa da una rappresentazione del futuro promesso da Dio come legato alla terra, a una coscienza più marcatamente “escatologica” di tale futuro, orientato al compimento che è il Cristo. Questa prospettiva, in sé legittima, non dovrebbe far dimenticare i caratteri specifici di ogni tradizione (legge, profeti, scritti) o le tensioni presenti all’interno dell’esperienza di fede d’Israele, con le quali il Nuovo Testamento si confronta a partire dal criterio interpretativo rappresentato dalla vicenda di Gesù, dalla sua morte e risurrezione[7]. 2. Prospettive nel Nuovo Testamento Bíos, psyché, zoé sono i tre termini del greco neotestamentario che in italiano possono essere tradotti con «vita». Se i primi due si riferiscono al dato biologico, la condizione dell’uomo in quanto essere vivente tra gli altri esseri viventi o, nel caso di bíos alle esigenze dell’esistenza materiale, il terzo dice una modalità dell’esistenza possibile solo grazie a una particolare iniziativa di Dio. Anche quando non viene qualificato dall’aggettivo «eterna» (aiónios), il sostantivo zoé ha una connotazione teologica: è tuttavia alla formula vita eterna che intendiamo prestare ora attenzione[8]. – In Paolo, vita eterna è la ricompensa che Dio concede «a coloro che, perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità» (Rm 2,7). Contesto e linguaggio non sono lontani da quelli dell’apocalittica, con al centro il tema del giudizio di Dio (cfr. Dn 12,2): la novità è rappresentata dal riferimento a «Gesù Cristo nostro signore», per mezzo del quale regna la grazia «mediante la giustizia per la vita eterna» (Rm 5,21). La vita eterna è il destino / il fine (télos) e il dono (chárisma) concesso a quanti, tramite la fede e il battesimo, per l’azione dello Spirito (principio datore di vita), sono resi partecipi della morte e della vita di Cristo crocifisso e risorto (cfr. Rm 6,22-23). La comunione con Cristo inizia nella vita terrena, ma si compie nella risurrezione dei morti: «Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita (zoopoiethésovtai)» (1Cor 15,22). – Lo sguardo rivolto al futuro accompagna l’utilizzo, non frequente, della nostra espressione nei Sinottici. Vita eterna è ciò che il giovane di Mt 19,16-22 desidera avere: «Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?» (Mt 19,16, cfr. Mc 10,17; Lc 18,18). Per Gesù, essa è l’eredità («nel tempo che verrà») di quanti avranno lasciato «case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi» per il suo nome (cfr. Mt 19,29; Mc 10,30; Lc 18,30); è la condizione a cui avranno accesso «i giusti», coloro che si sono messi a servizio «di uno dei fratelli più piccoli» (Mt 25,46). – Anche negli Atti degli Apostoli, la vita eterna è quella a cui sono «destinati» (tetagménoi) quanti accolgono nella fede la parola di Dio annunciata da Paolo e Barnaba (At 13,4-48). – A enunciare il carattere non solo futuro della vita «eterna» sono soprattutto gli scritti giovannei. La vita eterna è il dono del Figlio unigenito, inviato dal Padre. Ad essa si accede fin da ora tramite la fede e l’obbedienza, accogliendo cioè la rivelazione («l’esegesi», cfr. Gv 1,18) offerta da Gesù, il Logos incarnato, del Dio che «nessuno ha mai visto»: «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna [altra traduzione possibile: «perché chiunque crede, in lui abbia la vita eterna»]. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna [...] Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui» (Gv 3,15-16.36; cfr. anche 6,47). Il luogo in cui avviene il passaggio «dalla morte alla vita» è l’ascolto della parola di Gesù (cfr. Gv 5,24: «In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita») e, insieme, l’osservanza del comandamento dell’amore (cfr. 1Gv 3,15: «Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui»). La parola di Gesù è «sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14) e «cibo che rimane per la vita eterna» (Gv 6,27). Egli «ha parole di vita eterna» (Gv 6,68) e «dà la vita eterna» alle pecore di cui è pastore e dalla cui mano non potranno essere rapite (Gv 10,28). Gesù stesso, come si legge all’inizio della prima lettera di Giovanni, è «la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi» (1Gv 1,2; cfr. anche la conclusione della lettera, 1Gv 5,20: «Egli è il vero Dio e la vita eterna»). La vita eterna che Dio ci ha dato è la vita «nel suo Figlio» (1Gv 5,11). Se la vita eterna è sperimentata fin da ora nella relazione con Gesù (la fede), il suo compimento è collegato all’evento escatologico della risurrezione: «Questa infatti è la volontà del Padre: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,40). È una realtà data ora e, allo stesso tempo, “promessa” (cfr. 1Gv 2,25). Il carattere insieme “presente” e “futuro” della vita eterna, con la tensione che ne deriva, è analogo a quello che connota l’immagine del «regno di Dio», a cui ricorrono con maggior frequenza i Sinottici per dire l’attuarsi di una situazione nuova e definitiva nel rapporto fra Dio e l’umanità. “Presente” e “futuro” s’intrecciano, tanto nella nozione di vita eterna, tanto in quella di «regno di Dio». Abbiamo lasciato per ultimo un testo giovanneo nel quale la nozione di vita eterna viene caratterizzata come «conoscenza». Rivolgendosi al Padre, nel momento della sua «ora», Gesù chiede che sia manifestata la sua «gloria» di Figlio e aggiunge: «Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,2-3). Non si tratta di una conoscenza di tipo puramente intellettuale o gnostica (abbiamo appena visto come la vita eterna presupponga e implichi l’obbedienza ai comandamenti e come essa sia mediata da un evento storico), quanto piuttosto dell’esperienza diretta e intima del Padre resa possibile da Gesù, dalla fede in lui, che pure non esclude una dimensione “dottrinale”, almeno incoativamente[9]. Il v. 17,3 assume un rilievo particolare se considerato in rapporto ad altri due passi neotestamentari (uno giovanneo, l’altro paolino) nei quali il compimento futuro della storia della creatura umana viene rappresentato nei termini della «visione di Dio». Così in 1Gv 3,2: «Sappiamo [...] che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è» e in 1Cor 13,12: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto». È partendo da questi testi che la tradizione cristiana successiva ha in molti casi privilegiato l’idea della «visione di Dio» come contenuto proprio del concetto di vita eterna[10]. 3. Ireneo, Agostino, la tradizione orientale, Tommaso d’Aquino – Il motivo del «vedere Dio» occupa un posto di rilievo nell’elaborazione del tema escatologico proposta verso la fine del II secolo da Ireneo di Lione (130-202), come si ricava da un passaggio giustamente celebre del quarto libro della sua opera Contro le eresie: «L’uomo [...] non può vedere Dio da sé; ma egli di sua volontà si farà vedere dagli uomini che vuole, quando vuole e come vuole. Dio è potente in tutte le cose: fu visto allora profeticamente mediante lo Spirito, fu visto poi adottivamente mediante il Figlio e lo sarà poi anche nel regno dei cieli paternalmente, perché lo Spirito prepara in precedenza l’uomo per il Figlio di Dio, il Figlio lo conduce al Padre e il Padre gli dà l’incorruttibilità per la vita eterna che tocca a ciascuno per il fatto di vedere Dio. Come coloro che vedono la luce sono nella luce e partecipano del suo splendore, così coloro che vedono Dio sono in Dio, partecipando del suo splendore. Perché lo splendore di Dio vivifica! Dunque coloro che vedono Dio parteciperanno della vita. E per questo colui che è incomprensibile, inafferrabile e invisibile si presenta agli uomini come visibile, afferrabile e comprensibile, per vivificare coloro che lo comprendono e lo vedono. Come la sua grandezza è imperscrutabile, così è inesprimibile anche la sua bontà, grazie alla quale si fa vedere e dà la vita a coloro che lo vedono. Infatti, è impossibile vivere senza la vita, l’esistenza della vita è possibile grazie alla partecipazione di Dio e la partecipazione di Dio consiste nel vedere Dio e godere della sua bontà. Gli uomini, dunque, vedranno Dio per vivere, divenendo immortali, grazie a questa visione, e arrivando fino a Dio» (IV, 20,5-6)[11]. Nei testi patristici in cui la vita eterna è associata alla «visione di Dio» – oltre a Ireneo, dobbiamo ricordare Clemente di Alessandria, Origene, Gregorio di Nissa, Basilio di Cesarea, per i greci; Ambrogio e Agostino, per i latini[12] – non è difficile riconoscere l’intrecciarsi della tematica propriamente scritturistica con la spiccata preferenza, non priva di problemi, che la tradizione greca (e, in genere, occidentale) accorda al “vedere”, considerato come il modo migliore per entrare in rapporto con la realtà[13]. – La dimensione affettiva, non solo intellettuale, del «vedere Dio» è tuttavia ben presente in Agostino di Ippona (354-430): basti pensare al modo in cui egli collega desiderio di verità e desiderio di felicità (di una vita “beata”), giungendo a definire quest’ultima come gaudium de veritate, «piacere del vero»[14]. Tutta la storia è chiamata a sfociare nella visione, nell’amore, nella lode: «Là [nel sabato senza tramonto, nell’ottavo giorno della vita eterna, consacrato nella risurrezione di Cristo] riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo»[15]. Possiamo aggiungere che, per Agostino, vita eterna significa «essere in Dio»: è lui «il nostro luogo», come spiega commentando il v. 21 del Sal 31(30): «Tu li nascondi al riparo del tuo volto[16]. In questo modo egli offre un importante criterio ermeneutico delle affermazioni ricavate dalla Scrittura, riprese tanto dai Padri quanto dagli autori medievali, dalla predicazione e dalla catechesi, relative a una localizzazione “in cielo” della vita eterna. – La riflessione sulla vita eterna come “visione di Dio” è stata approfondita dalla teologia dell’Oriente cristiano soprattutto in reazione agli scritti di Eunomio (330 ca. - 392/5), avversario della dottrina nicena della omousia («consustanzialità») del Figlio rispetto al Padre e sostenitore della tesi secondo la quale la ragione può conoscere Dio come egli stesso si conosce. Tra IV e V secolo, autori come Teodoreto di Ciro e Giovanni Crisostomo svilupparono l’idea di una distinzione tra la visione della «gloria» e la visione dell’«essenza» di Dio: solo la prima è accessibile all’uomo, mentre la seconda rimane incomprensibile. Su questa distinzione s’innesteranno dibattiti di lunga durata, all’interno del mondo teologico di lingua greca e nel confronto tra questo e l’Occidente latino[17]. – Un esempio efficace del modo in cui la vita eterna era intesa nell’ambito della riflessione latina medievale si può trovare in un testo che deriva da una serie di prediche nelle quali, durante la quaresima del 1273, Tommaso d’Aquino (1224-1274) ha commentato il Simbolo apostolico. Ecco quanto si legge a proposito dell’articolo conclusivo: «La vita eterna, in quanto meta finale di tutti i nostri desideri, giustamente nel Simbolo viene posta al termine di tutte le altre verità da credere, quando vi si dice: “Credo la vita eterna”. Sono contrari a questa verità coloro che sostengono che l’anima muore col corpo. Ma se ciò fosse vero, non ci sarebbe differenza tra l’uomo e i bruti. [...]. L’anima, invece, per la sua immortalità è simile a Dio, è simile ai bruti solo per la parte sensitiva [...]. In questo articolo della nostra fede dobbiamo innanzitutto considerare che tipo di vita sia la vita eterna. Orbene, essa consiste: 1. Nell’unione con Dio. Premio e fine di tutte le nostre fatiche è infatti Dio in persona [...]. Questa unione consiste poi innanzitutto in una perfetta visione di lui [...]. Consiste poi anche in un ferventissimo amore, perché più uno lo si conosce, e più lo si ama; e in una somma lode di lui [...]. 2. Nell’appagamento totale e perfetto di ogni desiderio. Nella vita eterna ogni beato troverà l’appagamento di quanto ha desiderato e sperato. La ragione è, che niente nella vita presenta può appagare pienamente i desideri dell’uomo, né vi è alcunché di creato che possa soddisfare le sue aspirazioni. Soltanto Dio può saziarle e sorpassarle infinitamente [...]. Tutto ciò che può recare diletto si trova infatti nella vita eterna e in sovrabbondanza. Se si desiderano godimenti, là vi sarà il sommo e perfetto godimento, perché avrà come oggetto Dio che è il sommo bene [...]. Se si desiderano onori, là si avranno tutti [...]. Se poi si desidera la scienza, là sarà perfettissima, perché conosceremo la natura delle cose, ogni verità e tutto quello che vorremo sapere. E quanto vorremo avere, lo avremo con la vita eterna [...]. 3. Nella perfetta sicurezza. Mentre, infatti, in questo mondo non c’è perfetta sicurezza, perché quanto più ricchezze uno possiede e più onorifiche sono le sue cariche, tanto più ha paura di perderle e gli mancano inoltre tante altre cose, nella vita eterna non c’è invece alcuna tristezza, nessuna fatica, nessun timore [...]. 4. Nella lieta compagnia dei beati. Trovarsi insieme a tutti i buoni sarà una compagnia massimamente piacevole, perché ciascuno avrà così tutti i beni in comune a tutti i loro e là ciascuno amerà l’altro come se stesso e godrà di quello altrui come del proprio bene. E ciò farà sì che, aumentando la gioia e la felicità di uno, aumenti la felicità di tutti, come dice il salmista: «Quelli che sono in te, sono tutti lieti e festosi (Sal 87 [86],7)»[18]. Le opere maggiori di Tommaso offrono abbondante materiale per sviscerare quanto è qui ricapitolato. Merita in ogni caso sottolineare come sia il tema del fine ultimo dell’uomo, declinato nei termini di “visione essenziale” di Dio, ad avere un deciso rilievo strutturale. L’uomo è creato per «vedere Dio», al di fuori del quale non può, per sua natura, trovare il pieno compimento del desiderio di conoscere e di amare che lo caratterizza. Tale compimento, a cui l’uomo non giunge da se stesso ma in quanto abilitato dalla grazia, lo pone in un rapporto immediato con Dio, oggetto ma anche mezzo («forma») della visione[19]. Tommaso va segnalato anche per i testi nei quali, in una prospettiva che si collega a quella giovannea, egli raccorda il presente dell’esistenza umana nella fede e nella grazia con la sua condizione futura nella gloria. In questo senso, egli propone di definire la fede come l’inclinazione o disposizione stabile dello spirito (habitus mentis) grazie alla quale «inizia in noi la vita eterna»[20]. 4. Questioni relative alla visione beatifica Se la tradizione cristiana registra un ampio consenso nell’identificazione della vita eterna con la “visione beatificante di Dio”, i problemi sorgono quando si va a considerare il modo in cui è pensata tale «visione». La storia della teologia ci consegna due momenti, in parte connessi e cronologicamente vicini (siamo nel XIV secolo), nei quali il tema è stato oggetto di controversie e di intensi dibattiti. – Nel mondo latino, la discussione si è incentrata sul carattere immediato o meno della retribuzione dei giusti (visione di Dio) e dei malvagi (dannazione) al momento della loro morte. La vicenda è nota: dal 1331 al 1334 papa Giovanni XXII pronunciò una serie di sei omelie nelle quali, riprendendo idee presenti in alcuni autori dell’antichità cristiana e appoggiandosi all’autorità di san Bernardo, sosteneva che prima della risurrezione e del giudizio finale le anime dei giusti possono contemplare solo l’umanità di Cristo, non l’essenza stessa di Dio. L’opinione del papa fece scalpore e suscitò una vasta opposizione, nella quale s’intrecciavano motivi dottrinali e politici. Dopo aver incaricato una commissione di studiare l’argomento, Giovanni XXII fece in tempo a preparare una bolla, sottoscritta il 3 dicembre 1334, un giorno prima della sua morte, con la quale prendeva le distanze da affermazioni da lui pronunciate che fossero eventualmente apparse dissonanti dalla fede cattolica[21]. Poco più di un anno dopo, il suo successore, Benedetto XII, con la costituzione Benedictus Deus (19 gennaio 1336) definì come verità di fede la retribuzione immediata, dopo la morte, per i giusti e per i malvagi. Le anime dei giusti «subito dopo la loro morte, e la purificazione [...] in coloro che erano bisognosi di tale purificazione, anche prima della risurrezione dei loro corpi e del giudizio universale [...] furono, sono e saranno in cielo, nel regno dei cieli e del celeste paradiso, con Cristo, associate alla compagnia degli angeli santi; e [...] queste [anime] [...] hanno visto e vedono l’essenza divina con una visione intuitiva e, più ancora, faccia a faccia, senza che ci sia, in ragione di oggetto visto, la mediazione di nessuna creatura, rivelandosi invece a loro l’essenza divina in modo immediato, scoperto, chiaro e palese»[22]. – Un secondo motivo di dibattito riguarda la possibilità per l’uomo di vedere “l’essenza” di Dio che la Scrittura dichiara essere invisibile e inaccessibile[23]. La ripresa operata da Gregorio Palamas (1296-1359) della distinzione tra «essenza» (inaccessibile) ed «energie divine increate» (che agiscono, come la luce del Tabor, “divinizzando” la creatura umana) indicò un percorso seguito volentieri dalla tradizione orientale ma accolto con perplessità dall’Occidente latino, dove si preferì ribadire la dottrina della grazia “creata” e la differenza fra «visione» e «comprensione» di Dio: la prima possibile grazie a un dono (il lumen gloriae) che permette all’intelligenza umana di partecipare, rimanendo nella sua finitezza, alla vita di Dio; la seconda inaccessibile anche nella gloria all’intelletto umano finito. 5. Istanze di rinnovamento nell’escatologia del XX secolo L’esigenza di andare oltre la concezione piuttosto individualistica e spiritualistica della vita eterna – quale si era imposta nell’insegnamento, nella predicazione, nella catechesi e nella devozione dei cristiani, anche in seguito ai dibattiti a cui abbiamo accennato – ha segnato il vivace rinnovamento dell’escatologia promosso all’inizio del XX secolo da una rilettura dei testi biblici e, in particolare, del tema del «regno di Dio», accompagnato da una spiccata sensibilità per la dimensione storica e comunitaria dell’esperienza cristiana e dall’individuazione del principio cristologico come chiave di lettura della rivelazione. Il cattolicesimo ha recepito questi stimoli con il concilio Vaticano II, esplicitando nei nn. 48-51 della Lumen gentium la coscienza della dimensione ecclesiale e insieme cosmica della vita eterna: la vicenda di ogni singola persona, nei suoi diversi passaggi, non può essere interpretata al di fuori del cammino che, in modi diversi e non sempre visibili, la lega agli altri (alla chiesa) e a tutte le realtà che costituiscono il nostro mondo (aspetto, questo, sviluppato nel n. 39 della Gaudium et spes)[24]. Anche la questione del cosiddetto «stato intermedio» (come pensare la condizione dell’individuo tra la morte e il pieno compimento nella risurrezione dei morti?), alla quale nei decenni scorsi hanno prestato attenzione tanto alcuni teologi di diverse confessioni cristiane (O. Cullmann, G. Greshake, N. Lohfink, K. Rahner, J. Ratzinger) quanto alcune istanze dottrinali cattoliche[25], va ripensata in questa prospettiva ecclesiale e cosmica: lo «stato intermedio» è il tempo della chiesa, in cammino verso la piena comunione con Dio uno e trino, nella diversità di condizioni in cui si trovano i suoi membri (Maria, i santi, coloro che «vengono purificati»). In questo quadro, perdono significato le obiezioni di quanti ritengono che l’idea di vita eterna sia sinonimo di staticità e, in definitiva, di noia. Al di là di tutte le rappresentazioni concrete, per loro natura inadeguate, il compimento definitivo annunciato dalla rivelazione cristiana è pienezza e ricchezza di vita, per la singola persona, per l’umanità nel suo insieme e anche per il mondo materiale[26]. Le immagini trasmesse dalla Sacra Scrittura per dire la vita eterna (il banchetto, le nozze, la città illuminata dall’Agnello...) vanno continuamente riprese e interpretate (non “concettualizzate”). L’eternità – la comunione piena con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che è insieme comunione con tutte le creature liberate dalla corruzione del peccato e della morte – è oggetto di speranza, ma può essere anche oggetto di pensiero, partendo anche dalle piccole «esperienze di eternità» che ci sono donate nel tempo: l’esperienza dell’amore, della bellezza, della scoperta di piccole o grandi verità, della gioia di condividere quello che siamo e possediamo. NOTE: [1] W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, in Id., Tutte le opere, a cura di M. Praz, Sansoni, Firenze 19829, p. 1207. [2] Il Simbolo apostolico, una delle principali professioni di fede della tradizione cristiana, risalente a un’antica professione di fede battesimale della chiesa di Roma, termina con le parole: «Credo [...] la risurrezione della carne, la vita eterna» (H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, ed. bilingue a cura di P. Hünermann, EDB, Bologna 20045, n. 30 [= DenzH]). [3] La verità della nozione religiosa di vita eterna viene piuttosto sbrigativamente negata, ad es., dal filosofo spagnolo Savater nel suo libro F. Savater, La vita eterna, Laterza, Roma-Bari 2007. [4] Una raccolta suggestiva di testi dedicati a questo tema si può leggere in L. Moraldi, L’aldilà dell’uomo nelle civiltà babilonese, egizia, greca, latina, ebraica, cristiana e musulmana, Mondadori, Milano 1985. [5] Cf. H.D. Preuss, ‘ôlâm - ‘âlam, in G.J. Botterweck - H. Ringgren - H.-J. Fabry (edd.), Grande Lessico dell’Antico Testamento, vol. VI, Paideia, Brescia 2006, coll. 526-543. [6] Il testo di Daniele «non contrappone vita eterna gloriosa / vita eterna ignominiosa, ma vita eterna / ignominia eterna. Furono invece le apocalissi posteriori a sviluppare quest’idea germinale, con descrizioni fantastiche della vita degli uni e degli altri nei loro rispettivi posti. Ancora con sobrietà nei Salmi di Salomone: 3,16; 14,9. Con particolari maggiori in Henoc 103,7ss: “Precipiteranno nell’inferno per passarsela male, per soffrire una grande tribolazione [...] oscurità, catene e fuoco ardente”, 108,5ss: “Illuminato da una fiamma, mescolato di grida, pianti e urla di dolore”» (L. Alonso Schökel - J.L. Sicre Diaz, I profeti, Borla, Roma 1989, p. 1489). [7] Basti pensare alle diverse figure della speranza escatologica attribuite a farisei e sadducei, e al modo in cui Gesù e Paolo sono presentati nel confronto con esse (cf. Mt 22,23-33 e par., At 23,6-8). Per la questione ermeneutica a cui si è accennato, rinviamo all’ampio studio della Pontificia commissione biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, LEV, Città del Vaticano 2001 (in particolare la seconda parte, pp. 46-152). [8] Cf. H. Balz, aiónios, in H. Balz - G. Schneider (edd.), Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, vol. I, Paideia, Brescia 1995, coll. 122-127; L. Schottroff, zo, zoé, in ibid., coll. 1520-1530. [9] Si può leggere, a questo proposito, la spiegazione offerta da R. Brown, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, Cittadella, Assisi 19862, pp. 915-917. [10] Cf. L.F. Ladaria, Vie éternelle, in G. Mathon - G.-H. Baudry (edd.), Catholicisme hier, aujourd’hui, demain, vol. 15, Letouzey et Ané, Paris 2000, coll. 1040-1049. [11] Ireneo di Lione, Contro le eresie e gli altri scritti, a cura di E. Bellini - G. Maschio, Jaca Book, Milano 19972, pp. 347-348. [12] Riferimenti in J.-M. Maldamé, Visione beatifica, in J.-Y. Lacoste (ed.), Dizionario critico di teologia. Borla - Città Nuova, Roma 2005, p. 1471. [13] Si può risalire fino a Eraclito (VI-V sec. a.C.), per il quale «gli occhi son delle orecchie testimoni più esatti» (Diels 101a). Cf. S. Petrosino, Visione, in Fondazione Centro studi filosofici di Gallarate (ed.), Enciclopedia filosofica, vol. 12, Bompiani, Milano 2006, pp. 12183-12188. [14] «...io chiedo a ciascuno: preferisci godere del falso o del vero, e nessuno ha qualche dubbio nel pronunciarsi per il vero, non più di quanti ne abbia ad ammettere che desidera essere felice. Perché è appunto il piacere del vero, la felicità. Dunque è gioire di te, che sei la verità, luce e salvezza dei miei occhi, mio Dio» (Agostino, Le confessioni X,23,33, a cura di R. De Monticelli, Garzanti, Milano 1990, p. 383). [15] È quanto si legge nel paragrafo conclusivo de La città di Dio (XXII,30,5): Aurelio Agostino, La città di Dio, a cura di L. Alici, Rusconi, Milano 19902, p. 1193. [16] «Li nasconderai nel segreto del tuo volto. Qual luogo è questo? Non ha detto: li nasconderai nel tuo cielo; non ha detto: li nasconderai in paradiso; non ha detto: li nasconderai nel seno di Abramo. Infatti per molti fedeli i luoghi dove staranno in futuro i santi sono indicati nelle Sacre Scritture. Sia stimato poco tutto quanto è all’infuori di Dio! Colui che ci protegge nel luogo di questa vita, sia egli stesso il nostro luogo dopo questa vita; poiché questo già prima il salmo stesso dice a lui: sii per me un Dio protettore, e un luogo di rifugio. Saremo dunque nascosti nel volto di Dio» (Enarr. in Ps. 30,3,8, in Sant’Agostino, Opera omnia. Esposizione sui salmi (1-50), vol. 25, Città Nuova, Roma 19672, p. 497). [17] Un classico, su questo tema, è il saggio La visione di Dio di V.N. Lossky (1903-1958): V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d’Oriente. La visione di Dio, Il Mulino, Bologna 1967, pp. 245-400. [18] Tommaso d’Aquino, Il Credo. In symbolum apostolorum scilicet «Credo in Deum» expositio, in Id., Opuscoli spirituali. Commenti al Credo, al Padre nostro, all’Ave Maria e ai dieci Comandamenti, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1999, pp. 111-114. Nel testo riportato sono stati omessi, non certo perché poco importanti, i riferimenti biblici e patristici. [19] Un approfondimento di questo aspetto del pensiero di Tommaso, attento al contesto del dibattito filosofico e teologico del suo tempo, segnato dalle discussioni sull’interpretazione averroistica di Aristotele, si trova in A. Valsecchi, Il fine dell’uomo nella teologia di Tommaso d’Aquino. Un percorso attraverso le opere maggiori, PUG, Roma 2003. Vengono prese in esame le questioni dedicate alla beatitudo e alla visio Dei nel commento alle Sentenze (IV,49,1-2) nella Summa contra Gentiles (III, 2-63) e nella Summa Theologiae (I, q. 12, aa. 1-13; I-II, qq. 1-5). [20] «Fides est habitus mentis, qua inchoatur vita aeterna in nobis, faciens intellectum assentire non apparentibus» (Summa Theologiae II-II, q. 4 a. 1, cf. anche Quaestiones disputatae de veritate, q. 14 a. 2). Tommaso parla anche della grazia come «inizio, in qualche modo, della gloria in noi» («...gratia est nihil aliud quam quaedam inchoatio gloriae in nobis» (Summa Theologiae II-II, q. 24, a. 3, ad 2um). [21] Giovanni XXII, Bolla Ne super his (3 dicembre 1334), in DenzH 990-991. [22] Benedetto XII, Costituzione Benedictus Deus (20 gennaio 1336), in DenzH 1000-1002. La più accurata ricostruzione della vicenda è quella di C. Trottmann, La vision béatifique. Des disputes scolastiques à sa définition par Benoît XII, École française de Rome, Roma 1995. [23] Cfr. Es 33,20: «Nessun uomo può vedermi e restare vivo»; 1Tm 6,16: Dio è «il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo». [24] Cfr. di recente: Benedetto XVI, Enciclica Spe salvi (30 novembre 2007) nella quale ha ribadito la necessità di superare una concezione individualistica della speranza cristiana nella vita eterna. [25] Cfr. l’intervento della Sacra Congregazione per la dottrina della fede, Lettera Alcune questioni di escatologia (17 maggio 1979), in Enchiridion Vaticanum, vol. 6 (EDB, Bologna 1980), nn. 1528-1549. [26] Una presentazione dell’escatologia cristiana, e quindi anche del tema della vita eterna, che tiene conto delle istanze qui enunciate si trova nella parte sistematica del volume di G. Ancona, Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 2003, pp. 259-366. (Riccardo Batocchio, Credere oggi, settembre ottobre 2009)
Immigrazione: la Chiesa ci spiega finalmente le sue idee (11 ottobre 2009)
Mercoledì 23 settembre il cardinale segretario di Stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, ha ricevuto Umberto Bossi col figlio Renzo e altri maggiorenti della Lega Nord. Hanno parlato anche di immigrazione, uno dei temi su cui più sono scoccate scintille tra la Chiesa e l’attuale governo. Lo stesso giorno il ministro degli interni Roberto Maroni, anche lui della Lega, ha visitato a Mazara del Vallo le attività a sostegno degli immigrati messe in opera dalla diocesi, retta dal vescovo Domenico Mogavero che è uno dei più critici della politica governativa in materia. Bene. Il giorno dopo, nel pomeriggio del 24 settembre, “L’Osservatore Romano” è uscito con un’intervista col più alto responsabile vaticano in materia di immigrazione: l’arcivescovo Antonio Maria Vegliò, presidente del pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti. L’intervista è a largo raggio, non tratta solo dell’Italia ma del mondo intero. È la prima, così ampia e approfondita, che Vegliò ha dato da quando ha assunto l’incarico. Grazie ad essa si sa finalmente – dopo le tante sparate polemiche di un monsignor Marchetto o di un cardinal Martino – qual è in proposito il pensiero ufficiale del governo centrale della Chiesa. Eccola riportata qui per intero: D. – Il Catechismo della Chiesa cattolica afferma che la Chiesa difende il diritto dell’uomo a emigrare e tuttavia non ne incoraggia l’esercizio, riconoscendo che “la migrazione ha un costo molto elevato e a pagarne il conto sono sempre i migranti”. Non c’è contraddizione tra queste due asserzioni? R. – Poste nei rispettivi contesti, le due affermazioni non si contraddicono, ma si completano. In effetti, il fenomeno migratorio esige di essere analizzato e interpretato da diverse angolature, per la vastità e la complessità dei fattori che lo compongono. La visione del Pontificio Consiglio anzitutto coglie le migrazioni come conseguenza di situazioni di ingiustizia e come “male minore” per milioni di donne e uomini, anziani e bambini che ne sono coinvolti. Tuttavia, è pure importante non trascurare l’elemento positivo e provvidenziale delle migrazioni, che il magistero della Chiesa non ha mancato di mettere in luce già a partire da quando, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, si verificavano migrazioni di massa specialmente dal continente europeo verso quello americano. Del resto, la migrazione è un fatto complesso e ambivalente, con elementi positivi e negativi, nei quali siamo interpellati a riconoscere il progetto di Dio, in una dimensione cristiana. Dunque, si tratta spesso di coniugare aspetti diversi, in modo che non accada che nell’interpretazione sociologica prevalgano gli elementi negativi, mentre in quella teologica si intravedano improvvisamente ingenui bagliori. D. – Il Pontificio Consiglio si occupa di varie categorie di persone, tra le quali i nomadi, i rifugiati, la gente del mare e della strada. A proposito del dramma della tratta degli esseri umani, che colpisce spesso bambini e donne, quali iniziative concrete promuove il dicastero? R. – Secondo stime ufficiali, nel mondo sarebbero 2,5 milioni le vittime della tratta degli esseri umani. Per rispondere alla sua domanda, prendo lo spunto da un esempio concreto: l’osservatorio pastorale della Conferenza episcopale dell’America Latina (Celam) ha recentemente diffuso le cifre sulla tratta dei migranti secondo un’inchiesta della commissione nazionale dei diritti umani messicana, durata da settembre 2008 a febbraio di quest’anno. Ebbene, ogni mese in Messico spariscono più di 1.600 persone dirette irregolarmente negli Stati Uniti d’America. È lo scandalo del sequestro massiccio di immigrati, che sono oltraggiati e, spesso, vengono liberati solo dopo aver pagato un gravoso riscatto a bande organizzate, che contano su reti e risorse. Il Messico – come Paese di origine, transito, meta e ritorno di migranti – rappresenta una delle frontiere con la maggiore affluenza migratoria al mondo. Ogni anno, secondo le cifre del Consiglio nazionale della popolazione, circa 550.000 messicani emigrano negli Stati Uniti. Allo stesso tempo, negli ultimi tre anni l’Istituto nazionale per la migrazione ha riscontrato una media annuale di 140.000 migranti senza documenti, in maggioranza dei Paesi dell’America Centrale, che cercano di arrivare nel Paese nordamericano. L’ampiezza di questo fenomeno costituisce una singolare sfida dovuta alla complessità che caratterizza l’immigrazione internazionale attuale. Inoltre questa situazione risulta aggravata dalla grande estensione e dall’alto rischio dei tragitti che le persone devono percorrere, che spesso le espone e le rende vulnerabili a differenti violazioni dei loro diritti umani. Di solito i migranti sono catturati a bordo dei treni che li portano oltre confine, oppure mentre si nascondono nelle stazioni in attesa di partire. Dopo averli maltrattati, i trafficanti chiedono ai migranti un riscatto dai 1.500 ai 5.000 dollari a persona. Cifre alla mano, il traffico potrebbe aver fatto guadagnare ai malviventi almeno 25 milioni di dollari in soli sei mesi. In questo contesto, come in altre situazioni simili in diverse zone del mondo, il nostro Pontificio Consiglio esercita una particolare azione di promozione e di sostegno alle conferenze episcopali, agli istituti religiosi e a tutti quegli organismi, soprattutto di ispirazione cristiana, che già sono presenti sul territorio e si occupano, nel vasto fenomeno della mobilità umana, anche della tratta dei migranti. Come dice la Costituzione apostolica “Pastor bonus”, all’articolo 149, nostro compito è quello di assistere il Papa per dirigere “la sollecitudine pastorale della Chiesa alle particolari necessità di coloro che sono stati costretti ad abbandonare la propria patria o non ne hanno affatto”. Ecco perché incoraggiamo il lavoro “in rete” di tutte quelle cristallizzazioni regionali e continentali in favore dei migranti, dei rifugiati e di altre persone in mobilità. È di esempio la recente costituzione dell’International network of religious against trafficking in persons (Inratip), una rete di religiose che opera sia nelle nazioni di provenienza che in quelle di destinazione delle vittime della tratta, che sono in maggioranza donne e bambini. In tal modo, si promuovono solidi legami tra Chiese, organizzazioni caritative e istituzioni locali, per avviare progetti in grado di studiare e stroncare il tragico fenomeno. D. – Il Papa ha definito “doverosa” l’accoglienza di quanti fuggono da situazioni di guerra e persecuzione, pur ammettendo che essa “pone non poche difficoltà”. Come si può salvaguardare il dovere dell’accoglienza di fronte alle obiettive difficoltà che essa comporta? R. – Quello dell’asilo è un diritto umano fondamentale, come recita la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo all’articolo 14. Il rispetto di tale diritto viene prima dei problemi concreti legati alla sua attuazione. Si costituisce in tal modo la piattaforma di uno Stato di diritto, il quale deve sentirsi impegnato a fare tutto il possibile per rispettare i diritti umani fondamentali. Bisogna ricordare che l’80 per cento dei rifugiati del mondo – che solo lo scorso anno 2008 sono stati 42 milioni – si trova nei Paesi in via di sviluppo, così come la stragrande maggioranza degli sfollati, stando ai dati diffusi dal Global Trends, il rapporto statistico annuale pubblicato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). L’Unhcr si occupa di 25 milioni di persone, fra i quali 14, 4 milioni di sfollati e 10,5 milioni di rifugiati. Sono, invece, 4,7 milioni i rifugiati palestinesi sotto la competenza dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi (Unrwa). Dai dati provvisori del 2009, poi, si assiste a un consistente movimento forzato di popolazioni, principalmente in Pakistan, Sri Lanka e Somalia. Concretamente, se fissiamo l’attenzione sui Paesi dell’Unione europea, emergono chiare indicazioni sul diritto d’asilo: la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la Carta europea dei diritti dell’uomo e le direttive dell’Unione sul diritto d’asilo esplicitano la prassi concordata da adottare nei confronti dei rifugiati riconosciuti come tali. I problemi sorgono, come sempre, laddove vi sono risorse da condividere e ricchezze da distribuire, vale a dire alloggio, casa, sanità, istruzione, impiego lavorativo, e via dicendo. Lo Stato, in tale contesto, deve vigilare e agire in modo da garantire questi beni a tutti, autoctoni e non, comprese le fasce di popolazione più vulnerabili, tra cui vi sono i rifugiati. Ora, per il fatto che essi pesano, soprattutto inizialmente, sulle casse dello Stato – sono gli ultimi arrivati e sono stranieri – negli ultimi decenni è stato facile per alcune frange di certi Paesi europei, come Germania, Svizzera, Gran Bretagna, Austria e Olanda, identificarli come intrusi e approfittatori dei sistemi di assistenza sociale. Invece, nei recenti Paesi di rifugio – come Italia, Grecia, Malta e nazioni dell’Est europeo – il rifugiato è ancora troppe volte confuso con l’immigrato per motivi economici e non gode dei dovuti sostegni sociali. In effetti, non bisogna dimenticare che i motivi di fuga sono molto complessi e spesso le persone non scappano da persecuzioni politiche direttamente rivolte alle loro persone, ma da situazioni generali di pericolo e di violazione dei diritti umani, che rendono la vita impossibile in numerosi Paesi, per cui risulta difficile distinguere tra migranti “economici” e rifugiati. Il vero problema, poi, risiede nell’accesso allo status di rifugiato. Dal momento, infatti, che esso reclama diritti, gli Stati tendono a concederlo a un numero limitato di persone per risparmiare denaro e strutture, anche perché tendenzialmente le domande si moltiplicano. Di anno in anno, comunque, le leggi riguardanti l’asilo in Europa si fanno sempre più restrittive. La tendenza recente sviluppata dai Paesi dell’Unione europea è quella della esternalizzazione del diritto d’asilo, che mira a impedire l’accesso al territorio dell’Unione e a obbligare i richiedenti asilo a fermarsi nei Paesi di transito. Non compete al magistero della Chiesa valutare le scelte politiche in questo campo, ma certo non posso eludere una considerazione generale, indirizzata a tutte le persone di buona volontà, che domanda conto alla retta coscienza del dovere di solidarietà verso coloro che vivono condizioni di maggiore vulnerabilità, come rifugiati e migranti, ma anche, mutatis mutandis, anziani, disabili e malati terminali, nei confronti dei quali non possiamo tollerare che si avvallino tentativi che vanno contro il diritto alla vita. È ovvio che bisogna fare i conti con la limitatezza delle risorse, ma dobbiamo anche chiederci: si sta già facendo il possibile per l’equa distribuzione delle ricchezze? A che punto siamo con l’impegno, a livello internazionale, per risolvere conflitti di lunga durata? Quali comportamenti vengono adottati nei confronti di Governi dittatoriali che “producono” migranti e rifugiati? Quali orientamenti stanno indirizzando la gestione del fenomeno migratorio, in maniera lungimirante e non populista? D. – La tutela della sicurezza e della legalità è conciliabile con le dimensioni e le caratteristiche del flusso immigratorio che attualmente interessa il continente europeo? R. – È probabile che sicurezza e legalità, in equa e armonica simbiosi, non possano essere raggiunte pienamente in nessuna società. Si constata, infatti, che nelle “società aperte”, come quelle dei Paesi democratici, caratterizzate dall’economia di mercato e dal libero movimento di alcune categorie di persone, è quasi impossibile non correre rischi. D’altra parte, un eccessivo apparato di sicurezza rallenta la mobilità e gli scambi necessari ai sistemi economici e, ciò che maggiormente conta, lede la libertà di cui i cittadini sono legittimamente gelosi. Nello specifico ambito migratorio, legalità e sicurezza possono essere favorite da politiche lungimiranti, che si basano sulla conoscenza approfondita e oggettiva del fenomeno a livello internazionale e cercano di gestirlo tenendo in dovuta considerazione i suoi differenti aspetti, senza sottovalutare le conseguenze delle scelte politiche. Per fare qualche esempio, possiamo senz’altro accertare che un’eccessiva chiusura delle frontiere determina l’aumento dell’immigrazione irregolare e alimenta le organizzazioni malavitose che trafficano esseri umani; poi, il mancato investimento in progetti di inserimento dei figli degli immigrati nell’area della formazione crea insuccesso e abbandono scolastico, alimentando il disagio giovanile e la conseguente criminalità o devianza; ancora, l’insufficiente attenzione alla situazione abitativa di immigrati e cittadini autoctoni più poveri favorisce la crescita di ghetti e di aree socialmente degradate; infine, le paure dei cittadini possono essere alimentate o sottaciute da chi amministra la cosa pubblica e da chi gestisce i canali dell’informazione, anche in risposta a propri interessi. Tutto ciò non può essere ingenuamente ignorato e deve essere affrontato con oggettività, per non rischiare di creare reazioni xenofobe e razziste. A ogni buon conto, sicurezza e legalità si raggiungono solo con il positivo apporto di tutti, anche degli immigrati. Allo stesso tempo, sia gli immigrati che gli autoctoni devono poter vivere sicuri e rapportarsi in egual misura alle leggi del Paese in cui vivono. D. – Le paure che si diffondono tra la gente nei confronti degli immigrati sono gestibili attraverso appositi provvedimenti politici e legislativi oppure è necessario coinvolgere anche le istanze culturali, educative e sociali? R. – Senza dubbio non bastano le leggi per favorire la crescita di una società integrata, in cui le varie componenti convivano pacificamente e mutuamente si arricchiscano. Tutte le istanze culturali ed educative devono essere coinvolte in un processo che è epocale e riguarda tutti gli ambiti di vita. L’Europa presenta già un volto multietnico, multireligioso e multiculturale, ma ancor più manifesterà tali caratteristiche nel futuro, in un dinamismo che investirà anche le rimanenti aree del pianeta. Questo dato attualmente non può essere messo in discussione. Negare la metamorfosi che sta avvenendo a livello internazionale non solo è un’assurdità – smentita comunque dalla realtà dei fatti – ma è anche una scelta pericolosa e irresponsabile, perché non accetta di gestire un fenomeno che ha già assunto tratti strutturali e globali, cercando di favorirne gli aspetti positivi e di ridurre quelli negativi. È necessario, quindi, offrire adeguati percorsi di formazione alle nuove generazioni, in modo particolare, ma anche a tutta la popolazione – sia autoctoni che immigrati – per prepararsi alla convivenza con le diversità. Certamente in questo processo i Governi devono essere in prima linea, soprattutto legiferando e adottando opportuni provvedimenti per dare impulso in misura corretta ed equilibrata a tale cammino di apprendimento. D. – La sfida che gli immigrati pongono alle comunità si gioca anche a livello ecclesiale oltre che sociale. Non vi è il rischio di perdere l’identità cristiana di fronte a consistenti afflussi di rifugiati appartenenti ad altre religioni? R. – Il rischio potrebbe essere reale, quantunque io sia convinto che l’arrivo di migranti e rifugiati appartenenti ad altre religioni sia uno stimolo più che una minaccia per l’identità cristiana. In effetti, essi arricchirebbero se stessi e il nuovo ambiente se si trovassero a confronto con una diversa identità religiosa davvero solida e coerente. A mettere in pericolo l’identità cristiana è piuttosto il processo di avanzata secolarizzazione, che talora sta degenerando in secolarismo intollerante e, nel vecchio continente, sta ormai facendo perdere le radici cristiane dell’Europa, negate in sede istituzionale e in alcuni ambiti della società. Di fatto, mediante il laicismo e il relativismo, l’Europa sta costruendo una comunità senza Dio e ciò non è solo un ostacolo alla sua identità, ma è anche un impedimento alle politiche di integrazione. Se fossimo coraggiosi testimoni del Vangelo, forse un numero maggiore di migranti e di rifugiati, in ricerca e in fuga da realtà oppressive, anche sul piano religioso, sarebbe affascinato dalla fede cristiana o, quanto meno, essa sarebbe apprezzata per il suo contributo nell’ambito culturale, storico e artistico. Mi pare, invece, che il cristianesimo in Europa sia guardato con sospetto da migranti e rifugiati non cristiani allorquando si lascia identificare con uno stile di vita che lo contraddice e con la mancanza di genuina religiosità da parte degli autoctoni. Talvolta, poi, si paventa l’espansione demografica dei non cristiani in Europa. Ma anche in questo caso dovremmo chiederci perché non siamo in grado di equilibrare il dinamismo demografico e, soprattutto, di trasmettere la fede cristiana alle nostre nuove generazioni, che, per quanto in calo, sono ancora numericamente in maggioranza. D. – Sul terreno del rispetto dei diritti e della dignità della persona, crede che le Chiese siano adeguatamente impegnate nel sollecitare le coscienze dei fedeli e della società? R. – Le Chiese locali sono molto impegnate a sensibilizzare cittadini e società al rispetto dei diritti e della dignità della persona umana, a seconda dei vari contesti nazionali in cui si trovano. Talora, in verità, esse corrono il rischio di limitarsi all’annuncio dei principi fondamentali o alla risposta immediata alle emergenze umanitarie, forse senza tenere sufficientemente in conto che è necessaria anche un’adeguata formazione ed educazione cristiana, soprattutto delle giovani generazioni. Infatti, accanto agli interventi sociali e alle opere caritative, è importante investire molto anche nella formazione dei cristiani, affinché possano comprendere a fondo e applicare negli ambiti della società il rispetto dei diritti e della dignità della persona. Infine, per quanto riguarda i migranti, è urgente superare il tono assistenzialista, che prevale talvolta nelle prese di posizione di chi vede nel migrante soltanto il povero disgraziato, mentre anch’egli è portatore di diritti e di doveri. Così come è indispensabile operare una corretta sensibilizzazione dei media perché offrano un’informazione obiettiva e realistica. D. – Quali sono le prossime iniziative e gli appuntamenti che ha in programma il Pontificio Consiglio? R. – I migranti non hanno pausa e anche durante il periodo estivo il Pontificio Consiglio, sebbene a ritmo meno serrato, ha continuato senza interruzioni la sua attività di promozione della pastorale specifica della Chiesa nel mondo della mobilità umana. Ora, comunque, ci prepariamo a importanti appuntamenti, che ci porteranno in varie parti del mondo. Dopo il terzo incontro nazionale di pastorale della mobilità umana, che si è svolto a Brasilia, dal 16 al 18 settembre, celebreremo, nella sede del nostro Pontificio Consiglio, il primo incontro europeo per la pastorale della strada, dal 29 settembre al 2 ottobre. Nei giorni 27 e 28 novembre, a Bhopal, in India, parteciperemo alla conferenza nazionale per la pastorale dei nomadi nel continente indiano, mentre sempre nella sede del dicastero organizzeremo l’incontro dei direttori nazionali della pastorale per i circensi e i fieranti, l’11 e 12 dicembre. Nel frattempo, offriremo il nostro contributo a diversi incontri dell’apostolato del mare in Finlandia, Australia, India, Oceania, Giappone e Corea. Ma l’evento più significativo sarà senza dubbio il vi congresso mondiale per la pastorale dei migranti e dei rifugiati, che si svolgerà in Vaticano dal 9 al 12 novembre. È un appuntamento quinquennale di verifica, studio e progettazione, che convocherà oltre trecento esperti e operatori internazionali della pastorale dei migranti e dei rifugiati sul tema “Una risposta al fenomeno migratorio nell’era della globalizzazione”. (Sandro Magister, Settimo Cielo, 24 settembre 2009)
Un «perito» a servizio del Vaticano II e della Riforma Liturgica (4 ottobre 2009)
1. Prologo: la riforma liturgica, opera corale Scrivere di padre Cipriano Vagaggini nel centenario della nascita e nel decimo anniversario del suo passaggio alla vita eterna non è cosa semplice, per di più se l’oggetto dello studio è il suo contributo alla riforma liturgica conciliare, sia in ordine agli altiora principia, contenuti nella Costituzione liturgica, sia in ordine alla loro traduzione pratica nella riforma, avviata da papa Paolo VI subito dopo la promulgazione di Sacrosanctum concilium (= SC). La riforma seguita all’evento conciliare non può infatti essere considerata opera di un gruppo ristretto di esperti che ha operato a tavolino, per cui si possa facilmente risalire con precisione al contributo dell’uno o dell’altro. Essa, nell’intento di Paolo VI e nel suo svolgimento, è stata opera corale, che ha visto in ideale comunione di intenti il papa, i numerosi cardinali e vescovi coinvolti, l’ancor maggior numero di consultori ed esperti[1]. Così si esprimeva Paolo VI nel discorso per la chiusura del secondo periodo del concilio (4 dicembre 1963): «Perché ciò avvenga facilmente, non vogliamo che nessuno vada contro le regole delle preghiere pubbliche della Chiesa, introducendo modifiche private o riti personali; non vogliamo che nessuno si arroghi il potere di applicare a suo arbitrio la Costituzione sulla sacra liturgia che oggi promulghiamo, prima che in merito siano divulgate norme opportune e fisse e siano legittimamente approvati i mutamenti che avranno predisposto le Commissioni da istituire appositamente dopo il concilio. Questa nobile preghiera della Chiesa risuoni con voce concorde in tutto il mondo: nessuno la turbi, nessuno la violi»[2]. Il merito di Paolo VI fu proprio quello di aver condotto con saggezza e prudenza tutta la fase di attuazione evitando, per quanto fu possibile, tensioni e contrapposizioni. Un merito che gli ha ampiamente riconosciuto Benedetto XVI, ricordandone il trentesimo anniversario della morte: «Man mano che il nostro sguardo sul passato si fa più largo e consapevole, appare sempre più grande, direi quasi sovrumano, il merito di Paolo VI nel presiedere l’assise conciliare, nel condurla felicemente a termine e nel governare la movimentata fase del post-concilio. Potremmo veramente dire, con l’apostolo Paolo, che la grazia di Dio in lui “non è stata vana”: ha valorizzato le sue spiccate doti di intelligenza e il suo amore appassionato alla Chiesa e all’uomo. Mentre rendiamo grazie a Dio per il dono di questo grande papa, ci impegniamo a fare tesoro dei suoi insegnamenti»[3]. Questo impegno «quasi sovrumano» di Paolo VI ha trovato leale e operosa collaborazione nel Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra liturgia. Esso, come dichiarava lo stesso pontefice, fu composto da «uomini autorevolissimi ed espertissimi, sapientemente compaginati fra loro, provenienti da varie parti del mondo e portanti i frutti dei loro studi e della loro pietà»[4]. Frutti che lo stesso papa presagiva felici e copiosi: «La Chiesa, che dopo il concilio guarda all’attività che deve compierne l’opera e metterne in esecuzione i decreti, può essere lieta di cotesta pia e nobile fatica, sia quanto allo spirito di fedeltà alle prescrizioni conciliari, che tutta la informa e la muove, sia quanto alla mole del lavoro in via di esecuzione, e sia anche quanto alla celerità, con cui il lavoro è compiuto, per quanto la sua natura delicata e complessa e l’esigenza di perfezione, con cui dev’essere condotto a buon termine, lo consentono»[5]. Proprio per questo il papa manifestava loro piena fiducia: «Continuate laboriosi e fidenti, diciamo; e vi assista il sapere che la nostra fiducia e la nostra benevolenza vi è assicurata»[6].
2. Il contributo di Cipriano Vagaggini Analizzare con soddisfacente completezza l’apporto di C. Vagaggini come perito al concilio e al Consilium ad exsequendam necessiterebbe di una pubblicazione a se stante. In questa sede cercheremo di offrire un iniziale approccio al tema, ma al tempo stesso sufficientemente rivelatore del contributo del nostro autore. Prima di tutto notiamo che il nome di Vagaggini compare tra i membri della Commissione liturgica per la preparazione del concilio (1959-1962), tra i periti per la liturgia al concilio stesso (1962-1965) e tra quelli chiamati a dare attuazione alla riforma liturgica (1963-1967)[7]. 2.1. La fase preparatoria La Commissione liturgica preparatoria venne costituita nel giugno 1960, presieduta dal card. Gaetano Cicognani. Nominato il segretario, nella persona del padre Annibale Bugnini, venne subito avviato il lavoro, che vide all’opera 65 membri e consultori, che si suddivisero in 13 sottocommissioni. Padre Vagaggini fu segretario della prima sottocommissione: De mysterio sacrae liturgiae eiusque relatione ad vitam Ecclesiae e consultore della quinta: De sacramentis et sacramentalibus e della decima: De linguae aptatione ad traditionem et ingenium populorum. Non c’è bisogno di sottolineare il fatto che la prima sottocommissione fu sicuramente la più importante. Venne costituita con il compito di introdurre tutto il futuro documento sulla liturgia con un capitolo di carattere teologico-ascetico sul mistero della liturgia nella vita della Chiesa. Il lavoro della sottocommissione sfociò nel primo capitolo dello schema di Costituzione. Non abbiamo documenti certi per individuare lo specifico apporto di Vagaggini, procediamo quindi a un saggio di confronto tra il pensiero del nostro autore, espresso soprattutto nella sua opera Il senso teologico della liturgia[8], e alcune tematiche presenti nel primo capitolo della Costituzione liturgica. 2.1.1. Liturgia e «storia sacra» Possiamo constatare con immediata evidenza che l’approccio conciliare alla liturgia si discosta dal tradizionale metodo dei manuali preconciliari che, dalla generale riflessione sulla natura del culto e sulle sue forme di attuazione, giungevano a definire la liturgia come il culto pubblico e ufficiale che la Chiesa rende a Dio[9]. SC 5-7 pone invece come punto di partenza della riflessione teologica sulla liturgia la volontà salvifica universale di Dio, che trova attuazione nella storia dell’uomo e compimento negli eventi pasquali di Cristo morto e risorto, dai quali è scaturito il mirabile sacramento della Chiesa. Notiamo immediatamente come il ricentramento cristologico della liturgia avviene a partire dalla categoria teologica di «storia della salvezza»[10]. A questo punto non sfuggirà, nemmeno al lettore più distratto, che il primo capitolo del volume di Vagaggini inserisce e avvia la riflessione sulla liturgia a partire da quello che egli chiama il «mondo della rivelazione»: «La liturgia, infatti, non è altro che una certa fase e un certo modo in cui si attua tra noi il senso della rivelazione. Per questo è indispensabile considerare sempre la liturgia sullo sfondo generale della storia sacra perché la storia sacra è appunto la visuale generale propria in cui la rivelazione considera ogni cosa»[11]. Fuori da questa storia, la liturgia è incomprensibile. Vagaggini individua alcune tappe di questa storia, che rimane comunque unitaria, per cui le singole fasi sono tra loro intrinsecamente connesse: le antecedenti preparano le susseguenti. Al centro abbiamo il mistero di Cristo, la cui apparizione sulla terra segna l’inizio degli ultimi tempi: «Capire che tutta la storia sacra è mistero di Cristo, che in essa prima di lui tutto tende a lui, e dopo di lui tutto deriva da lui; capire che dopo la sua venuta non c’è da aspettare niente di radicalmente nuovo, ma c’è solo da riprodurre nelle creature fino alla fine dei tempi, il suo mistero, far sì che esse vi partecipino e si dissetino alla sua pienezza, è capitale per entrare nel mondo della liturgia. La liturgia, infatti, non è altro che un certo modo per cui Cristo, nel presente tempo intermedio che corre dalla pentecoste alla parusia, in questo tempo escatologico già in atto, comunica la pienezza della sua vita divina alle singole anime, riproduce in esse il suo mistero, le attrae nel suo mistero»[12]. Il tempo intermedio dalla pentecoste alla parusia è poi il tempo della Chiesa, in essa «Cristo, mandando visibilmente gli apostoli e i loro successori nella gerarchia, muniti di specifici poteri di santificazione, di magistero e di governo, e mandando nello stesso tempo invisibilmente lo Spirito Santo… realizza il suo mistero nelle anime e adempie così il senso della storia[13]. La Chiesa è appunto quel quadro di vita umano e divino, visibile e invisibile, spirituale e pur socialmente strutturato, voluto da Cristo e da lui sempre sostenuto e vivificato, per mezzo dello Spirito che gli comunica»[14]. Da qui la sua definizione di liturgia, che attinge dalla Mediator Dei di Pio XII[15] e che ritroviamo in SC 7: «La liturgia è il complesso dei segni sensibili e di cose sacre, spirituali, invisibili, istituiti da Cristo o dalla Chiesa, efficaci, ognuno a suo modo, di quello che significano [per signa sensibilia significatur et modo singulis proprio efficitur sanctificatio hominis] e per i quali Dio (il Padre per appropriazione), per mezzo di Cristo capo, e nella presenza dello Spirito Santo, santifica la Chiesa, e la Chiesa nella presenza dello Spirito Santo, unendosi a Cristo suo capo e sacerdote [omnis liturgica celebratio, utpote opus Christi sacerdotis, eiusque corporis quod est Ecclesia], per mezzo di lui rende come corpo il suo culto a Dio (al Padre per appropriazione) [et a mystico Iesu Christi corpore, capite nempe eiusque membris, integre cultus publicus exercetur]»[16]. 2.1.2. Liturgia disciplina teologica L’eco della teologia liturgica di Vagaggini risuona anche nelle indicazioni sul valore e sul ruolo della liturgia come disciplina teologica. SC 16 afferma che la liturgia deve essere computata tra le discipline necessarie e più importanti e nelle facoltà teologiche tra le materie principali[17]. Questa indicazione deriva dal fatto che, come scrive Vagaggini, la liturgia è disciplina teologica e «quest’aspetto teologico costituisce la parte essenziale e di gran lunga prevalente della liturgia»[18]. Da qui la tesi «della necessaria prevalenza del punto di vista teologico come punto di vista determinante, sintetizzante e coordinativo anche per l’insegnamento della liturgia che voglia essere un’iniziazione integrale a questa materia nei suoi diversi aspetti»[19]. Il citato articolo della Costituzione liturgica, oltre all’aspetto teologico aggiunge quelli storico, spirituale, pastorale e giuridico. Questi aspetti sono richiamati anche dal Vagaggini. Per il nostro autore il punto di vista storico è la base e il presupposto dell’elaborazione del pensiero liturgico, l’aspetto ascetico richiama il valore di vita spirituale della liturgia, l’aspetto giuridico è sussidiario allo studio del pensiero liturgico teologico e quindi dei problemi pastorali che solleva la liturgia. Egli si dilunga poi sull’aspetto pastorale, che vede strettamente correlato all’oggetto stesso della scienza liturgica: «La scienza liturgica ha per oggetto un’azione, la liturgia essendo un’azione; ora la scienza di un’azione comporta necessariamente lo studio, almeno teorico, del modo in cui realizzarla all’atto pratico»[20]. Se poi ricordiamo che Vagaggini fu anche consultore della Congregazione per l’educazione cattolica fino al 1979, non possiamo non notare la ripresa di questo tema nell’Istruzione In ecclesiasticam futurorum[21] sulla formazione liturgica nei seminari. È significativo notare infatti come il documento abbini sempre lo «studio» della liturgia alla «prassi» liturgica della comunità del seminario. Possiamo dire che istituisce un nesso profondo tra la liturgia in quanto scienza e la liturgia intesa come esperienza celebrativa. Nella vita del seminario e nella redazione degli ordinamenti che la regolano, vanno curati a un tempo lo studio della liturgia e l’impostazione della vita liturgica della comunità (n. 6). Si comprende bene come il documento abbia un orizzonte di comprensione della liturgia che la colloca nella sfera dell’azione. È la prospettiva della Costituzione liturgica conciliare che associa, senza confonderle, liturgia e vita. Lo studio della presenza dei misteri della salvezza nell’azione rituale della Chiesa non può essere dissociato dal viverne la concreta esperienza nella vita liturgica della comunità del seminario[22]. 2.1.3. «Actuosa participatio» e lingua latina L’attenzione alla dimensione pastorale della liturgia è fortemente presente nella Costituzione liturgica conciliare, che la declina attorno alla fondamentale questione della partecipazione plena, conscia e actuosa dei fedeli alle celebrazioni liturgiche (SC 14). Tale desiderio della Chiesa (valde cupit Mater Ecclesia) ha trovato poi eco in due questioni fondamentali: la lingua liturgica e l’adattamento all’indole e all’ingegno dei diversi popoli. Come abbiamo indicato sopra, Vagaggini fu presente come consultore anche nella Sottocommissione decima che si occupò di queste questioni. Ci limitiamo alle considerazioni del nostro autore sul problema della lingua da utilizzare nelle celebrazioni liturgiche. Notiamo in lui un grande equilibrio, lontano da ogni estremismo. Dopo una sintetica esposizione dell’evoluzione storica della questione, egli osserva: «Sebbene la Santa Sede inculchi continuamente, in linea di massima, il principio del latino come lingua liturgica, è tuttavia molto lontana da quella rigidità che alcuni estremisti fautori di tesi opposte le attribuiscono. Non sembra azzardato concludere che ci s’incammina, lentamente e prudentemente sì, come è giustamente della Santa Sede in simili materie, ma sicuramente, non già a un’estromissione del latino, come alcuni inavvedutamente sembrano temere… ma a una più larga immissione del volgare limitato a quelle celebrazioni liturgiche alle quali il popolo deve prendere una parte che tutti desiderano attiva e sentita»[23]. Vagaggini ha anche ben presenti le motivazioni che alcuni suoi contemporanei portavano per negare la possibilità dell’uso della lingua volgare. Una di queste era che il latino avrebbe preservato il carattere sacro e il senso del mistero. Ad essi Vagaggini risponde sapientemente: «In regime cristiano, il carattere sacro, venerando e misterioso, di cui deve essere penetrato il fedele che partecipa alla liturgia, ha fondamenti ben più solidi e profondi della misteriosità a fior di pelle proveniente dall’antichità e dall’incomprensione della lingua, perché proviene dallo stesso mistero di Cristo sempre in atto che si compie sotto il velo dei segni sensibili ed efficaci della santificazione e del culto della Chiesa… L’essenziale è che il fedele sia messo in contatto e introdotto in questo mistero e in questa sacralità che non scompaiono, ma anzi sono maggiormente accentuate, dinanzi a chi, comprendendo la lingua liturgica, intuisce più facilmente la realtà spirituale di cui è portatrice. Altrimenti, bisognerebbe dire che il carattere sacro, venerando, misterioso della liturgia non esisteva per i primi cristiani e non esiste oggi per il clero che comprende il latino…»[24]. Il nostro autore, infine, con spiccata sensibilità pastorale, è anche consapevole che l’uso della lingua volgare non risolve ogni problema della pastorale liturgica e della partecipazione del popolo alla liturgia. È sempre necessaria la catechesi. Infatti, «passato il primo effetto di novità psicologica, senza un’intensa catechesi ci si ritroverebbe sempre daccapo»[25]. La catechesi rimane dunque il mezzo principale e indispensabile per «elevare il popolo alla liturgia e ottenere da lui quella partecipazione attiva che sia anche sintonia d’animo… La lingua volgare è un mezzo non indifferente che vi può aiutare; ecco tutto»[26]. Alla luce di queste considerazioni possiamo comprendere meglio le indicazioni del concilio che, da un lato, ribadisce l’uso della lingua latina nei riti latini e, dall’altro, concede l’uso del volgare specialmente nelle letture, nelle monizioni, in alcune preghiere e canti (SC 36). In particolare, nelle messe con il popolo, si concede ulteriore spazio alla lingua parlata non solo nelle letture, ma anche nelle parti che spettano al popolo, aprendo infine la possibilità di un uso ancora più ampio, applicando anche alla lingua quanto previsto da SC 40 per un adattamento più radicale della liturgia (profundior liturgiae aptatio)[27]. 2.2. Vagaggini e il «Consilium» Il contributo di Vagaggini non si è limitato alla fase preparatoria del concilio, ma si è prolungato anche a quella di attuazione. Fu membro del Consilium fin dal gennaio 1965, in particolare divenne relatore del gruppo sulla concelebrazione e del coetus XI De lectionibus biblicis in missa[28]. Venne inoltre chiamato tra i cosultori che prepararono l’istruzione Eucharisticum mysterium (25 maggio 1967), che intese calare in campo pratico l’insegnamento teologico dell’enciclica Mysterium fidei (3 settembre 1965). Sempre nel campo della celebrazione eucaristica Vagaggini elaborò riflessioni e schemi di possibili nuove preghiere eucaristiche da introdurre accanto al Canone Romano. Il suo lavoro, con annessa documentazione, fu poi pubblicato in un volumetto[29]. Infine, si occupò della questione riguardante i ministeri: a lui venne affidato il compito di presentare una panoramica dei problemi annessi. 2.2.1. «De lectionibus biblicis in missa» Tra i frutti più significativi e pastoralmente più fecondi della riforma liturgica è senz’altro da annoverare il nuovo Ordo lectionum missae, promulgato il 25 maggio 1969. La Costituzione liturgica aveva prescritto di introdurre una lettura più abbondante, più varia e più selezionata della Sacra Scrittura (SC 35), così da offrire ai fedeli una mensa più abbondante della parola di Dio (SC 51). Come abbiamo sopra segnalato, padre Vagaggini fu chiamato a essere relatore del gruppo di studio undicesimo, al quale venne affidato uno dei compiti più ardui di tutta la riforma: la riorganizzazione delle letture della messa. Il lavoro venne svolto con la collaborazione di biblisti, di storici della liturgia e di esperti di ecumenismo. In forma di liturgia comparata vennero infatti confrontati Lezionari in linea sia diacronica, esaminando i cicli delle letture delle antiche liturgie, sia sincronica, valutando le scelte delle altre Chiese e comunità ecclesiali. Il risultato fu l’odierno Lezionario. Riteniamo che il contributo del Vagaggini, più che sul versante del ciclo delle letture, vada ricercato nei principi teologici che lo hanno ispirato. Principi esposti nei Praenotanda dell’Ordo lectionum missae[30]. Al primo posto troviamo l’unità dei due Testamenti e della storia della salvezza, incentrata in Cristo e nel suo mistero pasquale[31]. Sappiamo come questo tema sia fortemente presente nell’opera di Vagaggini. Egli infatti afferma: «La liturgia legge la Scrittura alla luce del principio supremo dell’unità del mistero di Cristo, e dunque dei due Testamenti e di tutta la storia sacra, unità organico-progressiva sotto il primato del Nuovo Testamento sull’Antico e delle realtà escatologiche sulla realtà dell’economia attuale»[32]. Questo climax che, partendo dall’Antico Testamento, giunge alle realtà escatologiche viene chiamato dal Vagaggini «approfondimento». Esso si ottiene mettendo in relazione il testo biblico proclamato nella liturgia con le realtà accadute nella vita storica del Redentore, con le realtà del mistero di Cristo, che si verificano in modo reale e mistico ogni giorno nelle anime, con le realtà future dell’escatologia. La liturgia quindi dà un «prolungamento» di senso al testo biblico[33]. È quello che oggi chiamiamo ermeneutica liturgica della Sacra Scrittura[34]. L’altro grande principio presente è quello della lettura tipologica della Scrittura, che ha guidato la scelta delle pericopi veterotestamentarie nelle domeniche del tempo ordinario, individuate in riferimento alle rispettive pericopi del Vangelo[35]. Vagaggini ha pagine interessanti sulla tipologia[36], che presenta come la lettura specificamente cristiana della Scrittura. La tipologia costituisce anche il modo «liturgico» per eccellenza di leggere la Bibbia, è infatti «il modo in cui fu letta da Cristo, dagli apostoli, dalla primeva catechesi cristiana, dai Padri della Chiesa»[37]. 2.2.2. «De concelebratione» Vagaggini si occupò anche di questioni decisive riguardanti la celebrazione dell’eucaristia. Pensiamo al suo contributo alla redazione dell’Eucharisticum mysterium e alla questione della preghiera eucaristica con la revisione del Canone Romano e l’introduzione di nuove anafore. Qui ora prendiamo in considerazione un aspetto particolare[38], quello della concelebrazione. Il nostro autore infatti fu relatore anche del coetus XVI De concelebratione et de communione sub utraque specie, incaricato di attuare il mandato di SC 58 e 55. Il rito della concelebrazione fu il primo rito completamente nuovo della riforma liturgica, pubblicato il 7 marzo 1965[39]. Ne Il senso teologico della liturgia è presente solo un breve cenno alla questione della concelebrazione, che comunque Vagaggini ritiene sia da contemplarsi tra gli aspetti da tenere presente in un’eventuale riforma liturgica in quanto connessa con la rivalorizzazione dell’aspetto comunitario e gerarchico della messa[40]. Egli riprende però il tema in un articolo, apparso subito dopo la pubblicazione del Decreto Ecclesiae semper [41]. Nelle sue considerazioni, non prive di qualche annotazione critica[42], egli richiama il valore liturgico, teologico e spirituale di questa speciale forma di celebrazione, che individua soprattutto nel fatto che la concelebrazione è espressione eloquente dell’unità del sacrificio del Nuovo Testamento, dell’unità del sacerdozio e della natura comunitaria della messa, come azione di una comunità gerarchicamente strutturata[43].
3. Conclusioni
Al termine di questa prima disamina sulla
partecipazione di C. Vagaggini ai fermenti che hanno preceduto e seguito
il concilio Vaticano II è difficile proporre delle conclusioni
definitive, o anche solo tendenzialmente tali. Riteniamo però di aver
sufficientemente mostrato come Vagaggini abbia offerto un contributo per
certi aspetti determinante all’elaborazione della riflessione conciliare
e alla sua pratica attuazione.
NOTE: [1] Per conoscere il metodo di lavoro e la vastità del coinvolgimento attuato, oltre alla nota opera di A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), CLV-Ed. Liturgiche, Roma 19972, cf. P. Marini (ed.), Elenco degli «schemata» del «Consilium» e della Congregazione per il culto divino (marzo 1964 - luglio 1974), in «Notitiae» 18 (1982) 455-772. L’opera certosina di catalogazione di P. Marini può offrire una visione della mole di lavoro nel suo complesso e nel suo sviluppo cronologico, ma anche la possibilità di seguire la successione progressiva verificatasi nella preparazione dei nuovi libri liturgici e nei documenti della riforma. Gli schemata infatti sono una testimonianza concreta della vitalità e del funzionamento del Consilium e della Congregazione per il culto divino, che hanno attuato la riforma. [2] «Quod ut feliciter contingat, nolumus ullus regulae pubblicarum Ecclesiae precum refragetur, immutationes privatas vel ritus singulares inducendo; nolumus ullus sibi sumat potestatem Consitutionem de sacra liturgia, quam hodie promulgamus, suo arbitrio usurpandi, antequam normae opportunae et certae hac de re edantur, atque immutationes legittime approbentur, quas Consilia ad hoc instituenda post concilium apparaverint. Haec igitur praeclara Ecclesiae praecatio concordi modulatione per totum resonet orbem terrarum: nemo eam perturbet, nemo violet». Paulus PP. VI, Allocutio secunda Ss. Concilii periodo exacta, in Concilio Vaticano II. Costituzioni, decreti, dichiarazioni. Testo ufficiale e traduzione italiana, LEV, Città del Vaticano 1998, pp. 1196-1197. [3] Benedetto XVI, Angelus, Bressanone 3 agosto 2008 (cf. http://www.vatican.va/holy_father/ benedict_xvi/angelus/2008/documents/ hf_ben-xvi_ang_20080803_it.html [5.5.2009]). [4] «Ecce revera collegium amplissimum, constans e viris gravissimis et peritissimis, qui inter se sapienter coniuncti et e variis orbis terrarum partibus oriundi, fructus proferunt studiorum et pietatis suae, ut una simul opus summi momenti perficiant, id est ut textus liturgicos Ecclesiae recognoscant, novo ordine constituant normas formasque, quibus eadem Ecclesia germani cultus divini sancta mysteria celebret, populum fidelem instituat ad iis participandum, ad preces publicas et communitatis proprias fundendas, ad vitam ducendam spiritualem, eamque impensiorem reddat et virtute sanctificatrice uberius alitam». Allocutio Summi Pontificis Pauli PP. VI ad «Consilum» (13 ottobre 1966), in «Notitiae» 2 (1966) 297-311 anche in http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/speeches/1966/ documents/ hf_pvi_spe_19661013_sacra-liturgia_it.html (5.5.2009). [5] «Gaudeamus etiam de accurato et recte disposto labore in quo Consilium versatur eo cum studio se devovendi, quod aliis in exemplum praelucet, et iis cum effectibus, qui iam sunt felices et copiosi et quos tales futuros esse licet presagire. Ecclesia, quae post celebratum Concilium ad opus attendit, quo huius incepta compleantur ac decreta ad usum deducantur, laetatur de hoc pio ac nobili labore, quatenus pertinet sive ad fidelitatem erga praescripta Concilii, qua totus conformatur ac ducitur, sive ad magnitudinem negotiorum, quae expediuntur, sive ad celeritatem, qua opus fit, quantum eius ratio difficilis et multiplex atque necessitas perfectionis, qua res oportet absolvantur, id sinit». Ibid., p. 301. [6] «Quemadmodum diximus, pergite naviter atque fidenter; et adiuvet vos persuasio vobis non deesse, immo certam esse fiduciam et benevolentiam Nostram». Ibid., p. 303. [7] Non dimentichiamo, inoltre, che dal 1969 al 1980 fu membro della Commissione teologica internazionale e che per il quinquennio 1974-1979 fu consultore della Congregazione per l’educazione cattolica e i seminari. Cf. Bugnini, La riforma liturgica, cit.; A. Bugnini, Lettera all’editore, in G.J. Békés - G. Farnedi (edd.), Lex orandi lex credenti. Miscellanea in onore di P. Cipriano Vagaggini, Editrice Anselmiana, Roma 1980, pp. 11-15. [8] C. Vagaggini, Il senso teologico della liturgia. Saggio di liturgia teologica generale, Paoline, Roma 19582 (= STL). [9] Cf. alcune definizioni: «La liturgie, dans son acception actuelle qui n’est pas fort ancienne, peut se définir le culte pubblic et officiel que l’Église chrétienne rend à Dieu»: F. Cabrol, Liturgie, in Dictionnaire de théologie catholique, vol. IX/I, Letouzey et Ané, Paris 1926, p. 787; «La liturgie est le culte extérieur que l’Église rend à Dieu»: M. Festugiere, Qu’est-ce que la liturgie? Sa définition, se fins, sa mission. Un chapitre de théologie et de sociologie surnaturelle, Abbaye de Maredsous, Paris 1914, p. 28; «Quia omnes functiones sacri ministerii nomine cultus divini comprehendi possunt, liturgia definiri potest “cultus publicus ab Ecclesia praestitus”... Brevissime definitio est: cultus publicus familiae Dei»: M. Gatterer, Annus liturgicus cum introductione in disciplinam liturgicam, Felizian Rauch, Oeniponte 19355, pp. 4-5. [10] Cf. G. Pasquale, La teologia della storia della salvezza nel secolo XX, EDB, Bologna 2002. [11] STL, p. 17. cf. anche la relazione C. Vagaggini, De loco et momento historiae salutis in methodo theologica integra delineata a Concilio Vaticano II, in A. Schönmetzer (ed.), Acta Congressus internationalis de theologia Concilii Vaticani II, Typis polyglottis vaticanis 1968, pp. 499-504. [12] STL, p. 27. [13] Cf. le assonanze con SC 6: «Ideoque, sicut Christus missus est a Patre, ita et ipse apostolos, repletos Spiritu Sancto, misit, non solum ut, praedicantes Evangelium omni creaturae, annuntiarent Filium Dei morte sua et resurrectione nos a potestate satanae et a morte liberasse et in regnum Patris transtulisse, sed etiam ut, quod annuntiabant, opus salutis per sacrificium et sacramenta, circa quae tota vita liturgica vertit, exercerent». [14] STL, pp. 27-28. Non sfugge un certo parallelismo con SC 2, dove viene detto a proposito della natura della Chiesa: «… cuius proprium est esse humanam simul ac divinam, visibilem invisibilibus praeditam, actione ferventem et contemplationi vacantem…». [15] Pio XII, Lettera enciclica Mediator Dei (20 novembre 1947), in Enchiridion delle encicliche 6. Pio XII (1939-1958), Edizioni bilingue, EDB, Bologna 1995 (20032), nn. 430-632. [16] STL, p. 33. Nel testo, tra [ ], inseriamo in corsivo le corrispondenti espressioni di SC 7. Cf. anche C. Vagaggini, Commento al proemio e agli articoli 5-13 della Costituzione del Vaticano II sulla liturgia, in F. Antonelli - R. Falsini (edd.), Costituzione conciliare sulla sacra liturgia, OR-Vita e Pensiero, Milano 1964, pp. 143-160. [17] La liturgia, secondo le indicazioni della Costituzione apostolica allora in vigore, la Deus scientiarum Dominus (Pio XI, 24 maggio 1931), e dei successivi documenti applicativi, era materia secondaria e in posizione ancillare rispetto agli altri trattati. [18] STL, p. 499. Cf. anche il successivo articolo C. Vagaggini, Liturgia e nuova strutturazione degli studi teologici, in «Rivista di pastorale liturgica» 6 (1970) 540-543. [19] Ivi. [20] In questo contesto Vagaggini esemplifica questa correlazione tra teologia e pastorale: «Scoperto il carattere comunitario della messa, ne deriva spontaneamente una serie di questioni come ricondurre la massa dei fedeli a viver nuovamente la messa come atto comunitario. E in genere, scoperta la vera natura e la ricchezza della liturgia e constatata la separazione tra popolo e liturgia, si pone necessariamente la questione come ricondurre il popolo alla liturgia e la liturgia al popolo». STL, p. 500. [21] Cf. Sacra Congregazione per l’educazione cattolica, Istruzione In ecclesiasticam futurorum (3 giugno 1979), in Centro di azione liturgica (ed.), Enchiridion liturgico, Piemme, Casale M. 1989, pp. 57-91. [22] Cf. a questo proposito tutta la quinta parte di STL dedicata a «liturgia e vita» (pp. 505-726). Prima dell’Istruzione egli si occupò del tema in diverse occasioni: C. Vagaggini, L’eucaristia come centro della vita liturgica e l’insegnamento della teologia, in «Seminarium» 19 (1968) 49-67; Id., Formazione sacerdotale e formazione alla preghiera, in «Seminarium» 10 (1969) 25-58. [23] STL, p. 716. Vagaggini aveva interpretato bene la linea di tendenza della Santa Sede su questo tema. Dal 1947, infatti, la Congregazione dei riti aveva dato avvio a una serie di concessioni sull’uso della lingua volgare. Particolarmente emblematica la concessione del Messale in lingua cinese del 14 aprile 1949, che prevedeva l’uso del cinese mandarino «a principio missae usque ad initium canonis et a postcommunione usque in finem missae; dum Canon manet in lingua latina, tamen partes quae alta voce recitantur (Pater noster, Pax Domini et Agnus Dei) iterum sunt in lingua sinensi». Cf. C. Braga - A. Bugnini, Documenta ad instaurationem liturgicam spectantia (1903-1963), CLV-Ed. Liturgiche, Roma 2000, p. 663. [24] STL, p. 713, nota 104. [25] STL, p. 719. [26] Ivi. [27] Cf. SC 54: «Sicubi tamen amplior usus linguae vernaculae in missa opportunus esse videatur, servetur praescriptum art. 40 huius Constitutionis». Sulla necessità della catechesi liturgica cf. SC 35 e 48. [28] Il gruppo aveva inizialmente come relatore G. Diekmann, che però nel giugno del 1965 chiese di essere sostituito a causa dei suoi impegni in patria (USA) e della difficoltà ad assicurare un’assidua presenza a un lavoro di équipe. A Diekmann subentrò, dunque, Vagaggini. [29] C. Vagaggini, Il Canone della messa e la riforma liturgica, LDC, Torino - Leumann 1966. [30] Come sappiamo, questi Praenotanda hanno conosciuto una seconda edizione, più ricca e meglio articolata, nel 1981 (cf. M. Sodi [a cura], Ordinamento generale del Lezionario Romano. Annunciare, celebrare e vivere la parola di Dio, EMP, Padova 2007). Qui invece citiamo dalla prima edizione: Ordo lectionum missae (= OLM), Praenotanda, in Enchiridion Vaticanum 3 (EDB, Bologna 198212), pp. 690-735. [31] OLM 3a: «Quaelibet missa tres exhibet lectiones: primam ex Antiquo Testamento, alteram ex Apostolo (…), tertiam ex Evangelio. Hac ratione optime illustratur unitas utriusque Testamenti et historia salutis, cuius centrum est Christus in suo paschali mysterio recolendus: quod unum e praecipuis obiectis catecheseos esse debet». [32] STL, p. 348. [33] Cf. STL, pp. 354-363. [34] Cf. A. Lameri, L’anno liturgico come itinerario biblico, Querianiana, Brescia 1998, pp. 31-44. [35] OLM 3c: «Optima compositio harmonica inter lectiones Veteris et Novi Testamenti tunc habetur, quando eadem ab ipsa Scriptura innuitur, quatenus scilicet doctrina et facta quae exponuntur in textibus Novi Testamenti relationem plus minusve explicitam habent ad doctrinam et facta Veteris Testamenti. In praesenti Ordine lectionum, textus Veteris Testamenti seliguntur imprimis ob eorum respondentiam ad textus Novi Testamenti, praesertim vero Evangelium, qui in eadem missa leguntur». (cf. anche OLM 17,2). [36] Cf. STL, pp. 363-367. [37] STL, p. 371. [38] Per le questioni inerenti al Canone Romano cf. in questo stesso fascicolo il contributo di G. Di Napoli, Dall’ipotesi di revisione del Canone Romano all’elaborazione di nuove preghiere eucaristiche: l’apporto determinante di Cipriano Vagaggini, alle pp. 385-396. [39] Sacra Congregatio rituum, Decretum generale Ecclesiae semper quo ritus concelebrationis et communionis sub utraque specie promulgantur (7 marzo 1965), in Enchiridion Vaticanum 2 (EDB, Bologna 198112), pp. 396-403. [40] «Un altro problema oggi discusso è quello della concelebrazione da ristabilire o meno, almeno come facoltativa, specialmente il giovedì santo e in alcune circostanze speciali come nei monasteri, nei convegni e nei corsi di esercizi spirituali dove sono molti sacerdoti» (STL, p. 712). [41] C. Vagaggini, Il valore teologico e spirituale della messa concelebrata, in «Rivista Liturgica» 52 (1965) 189-218. [42] «E quanta meraviglia desta – è pur necessario confessarlo! – che il Decreto Ecclesiae semper, che pur vuole illustrare i motivi teologici e spirituali della concelebrazione, non faccia parola del presbyterium e dell’unità che lega i suoi membri attorno al vescovo: tutte realtà così profondamente espresse e nutrite appunto nella concelebrazione, e così rispondenti alle visuali del Concilio Vaticano II» (Ibid., p. 200). [43] Cf. Ibid., pp. 196-197. (Angelo Lameri, Rivista Liturgica, maggio-giugno 2009)
Un'apostasia che inquieta l'Europa (27 settembre 2009)
Cosa comporta per l'Europa il distacco dal cristianesimo? Nel 2005 il cardinale Joseph Ratzinger, lamentava la crisi religiosa e morale del continente europeo, dove "si è sviluppata una cultura che costituisce la contraddizione in assoluto più radicale non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali dell'umanità" (L'Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Siena, Cantagalli, 2005, p. 37). E difatti nella Costituzione europea manca ogni riferimento a Dio e alle radici cristiane della sua civiltà. In tal modo si dimentica che la struttura profonda di una società è spirituale e culturale, più che politica ed economica. E si sfigura l'identità europea. L'accento sulle radici cristiane dell'Europa è un'offesa ai non cristiani, oggi massicciamente presenti nel vecchio continente? La motivazione di questo duplice "no", a Dio e alla radici cristiane, risiede nel presupposto che soltanto la cultura razionalistica radicale può costituire l'identità europea. Ma la tragica storia dell'Europa del secolo scorso ha dimostrato che la libertà umana, sganciata da Dio e dalla sua legge, conduce a un dogmatismo che, alla fine, umilia l'uomo, sopprimendone la libertà. Le ideologie atee naziste e comuniste non hanno prodotto paradisi terrestri, ma solo tragici regimi di terrore, che hanno negato dignità e libertà all'essere umano, alle vittime e agli stessi carnefici. La risposta cristiana al secolarismo ateo è fondata sull'esperienza dei secoli, sulla regula aurea, secondo la quale "vivere nella verità può cambiare quello che nella storia sembra incambiabile". Nell'Europa contemporanea l'emancipazione da Dio e la negazione della sua legge produce comportamenti pratici biasimevoli. Come per l'economia e la politica, anche per la biomedicina e la biotecnologia, una ricerca sganciata dall'etica permette all'uomo di disporre impunemente della vita di altri esseri umani, soprattutto dei più deboli e indifesi. Una "biopolitica", che non fa riferimento alla legge naturale, può permettere, ad esempio, l'annientamento dei feti, la manipolazione degli embrioni considerati semplice materiale biologico, la clonazione, l'ibridazione, la contraccezione, l'eutanasia. La vita perde la sua inviolabilità e l'essere umano smarrisce la sua identità. Si intacca, poi, la stessa nozione di "famiglia" come comunità composta dal padre, dalla madre e dai figli. Si permette il "matrimonio" non più solo tra uomo e donna e si ammette l'adozione di bambini anche da parte di coppie omosessuali. Se questa è l'Europa - ci si può chiedere - perché insistere sulle sue radici cristiane dal momento che essa si riscopre culturalmente aliena al cristianesimo? La risposta risiede nel fatto che l'Europa non si comprende senza il cristianesimo. Essa perde la sua identità e la sua originalità. La storia europea mostra che il "concetto Europa" è una costruzione plurimillenaria costituita da strati diversi e complementari (Joseph Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1987, pp. 207-221). Il primo strato è offerto dalla civiltà greca. L'Europa come parola e come concetto geografico e spirituale è una creazione greca. Gli elementi di questa grecità potrebbero essere così sintetizzati: diritto della coscienza, relazione tra ratio e religio, affermazione della democrazia in armonia vincolante con ciò che è giusto e retto. Il secondo è dato dall'eredità cristiana, dal suo umanesimo, che in Gesù Cristo opera la sintesi tra la fede d'Israele e lo spirito greco. Il terzo strato è costituito dall'eredità latina. Nella storia l'Europa è stata identificata con l'occidente, e cioè con la sfera della cultura e della Chiesa latina, che, però, abbracciava, oltre ai popoli romanici, anche i germani, gli anglosassoni e una parte degli slavi. La res publica christiana non era certo una realtà europea politicamente costituita, ma si muoveva in un insieme di cultura unitaria, visibile nei sistemi giuridici, nelle università, nei concili, negli ordini religiosi, nella circolazione della vita ecclesiale. Il tutto aveva Roma come suo centro. Infine, l'eredità dell'era moderna costituisce il quarto strato dell'Europa. Gli elementi di tale eredità sono: la distinzione tra Stato e Chiesa, la libertà di coscienza, i diritti umani e l'autoresponsabilità della ragione. Tutti questi diversi elementi sono stati portati a unità dalla Chiesa di Cristo, che è stata la matrice della civiltà europea, della sua difesa e della sua diffusione nel mondo. Nel volume Come la Chiesa cattolica ha costruito la civiltà occidentale (Siena, Cantagalli, 2007, pagine 272, euro 18,50), Thomas E. Woods jr. elenca il molteplice contributo che la Chiesa cattolica ha apportato alla civiltà europea, con i monasteri, le università, la ricerca scientifica, l'arte, il diritto internazionale, l'economia, la carità, l'etica, e soprattutto con la libertà. Di conseguenza, l'Europa del futuro non può essere solo il prodotto di una unificazione politica ed economica, ma anche la sintesi dei valori ereditati dalla tradizione. Dovrebbe, quindi, tener conto delle sue radici greche e dell'intima relazione tra democrazia ed eunomìa, fondando le sue leggi su norme morali rispettose della legge naturale. Dovrebbe, inoltre, vincolare il suo diritto pubblico al rispetto dei valori morali del cristianesimo, non relegando Dio nel solo spazio privato, ma riconoscendolo pubblicamente come valore supremo. Un ateismo esasperato non garantirebbe la sopravvivenza di uno Stato di diritto. Per questo la Chiesa cattolica, soprattutto mediante il magistero papale sia di Giovanni Paolo II con la sua esortazione postsinodale Ecclesia in Europa, sia di Benedetto XVI, con le tre esemplari lezioni di Ratisbona (12 settembre 2006), di Roma (università La Sapienza, 18 gennaio 2008) e di Parigi (13 settembre 2008), non si appiattisce sull'agenda del secolarismo ideologico e politico, ma continuamente sollecita un atteggiamento di "laicità positiva", che valorizzi l'apporto del cristianesimo, con il suo "sì" alla vita, alla libertà, alla democrazia, al rispetto della dignità di ogni essere umano. Questo atteggiamento sembra richiamare l'appello che Blaise Pascal rivolgeva ai suoi amici non credenti, invitandoli a vivere veluti si Deus daretur. In tal modo nessuno perde la sua libertà e le decisioni morali trovano un fondamento sicuro, di cui hanno urgentemente bisogno. Con la sua avversione al cristianesimo, la comunità europea è un corpo che cresce sempre di più, ma senza anima. Joseph H. H. Weiler - un ebreo ortodosso, nato in Sud Africa, professore di diritto alla New York University School of Law - analizzando il progetto della costituzione europea, riconosce l'assurdità storica di eliminare il cristianesimo dalla storia moderna europea. Giunge anzi ad affermare che una costituzione europea, che deliberatamente ignora le radici cristiane dell'Europa, sarebbe costituzionalmente illegittima (cfr. Un'Europa cristiana: Un saggio esplorativo, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2003, pagine 197, euro 7,50). Un'Europa cristiana, infatti, rispetterebbe i diritti di tutti i cittadini, credenti e non credenti, cristiani e non cristiani. Il deficit delle radici cristiane porta al deficit di democrazia. Anche Weiler parla di "cristofobia" che si manifesta con accenti e motivazioni diverse. Ad esempio, con l'errata convinzione degli intellettuali euro-pei che considerano la tragedia della Shoah come logica conclusione dell'antigiudaismo storico, mentre è la diretta conseguenza della concezione atea del nazionalsocialismo. Una seconda componente della cristofobia è presente negli epigoni della rivoluzione giovanile degli anni Sessanta che fu sostanzialmente anticristiana. Inoltre, la cristofobia è il contraccolpo psicologico e ideologico alla caduta del comunismo nel 1989 nell'Europa dell'Est dovuta all'influenza straordinaria della personalità di Giovanni Paolo II. Ma è impensabile sognare un'Europa come "un'area speciale di speranza umana" (preambolo del progetto di costituzione europea) senza gli uomini e le donne, grandi e piccoli, che hanno dato ingegno e creatività alla civiltà europea. Così come è impensabile che l'Europa difenda "i valori universali degli inviolabili e inalienabili diritti della persona umana" senza il fondamento della civiltà cristiana. Questa apostasia dal cristianesimo, che viene propagandata dalla cronaca quotidiana, in realtà sta sprofondando l'Europa in una grave crisi morale e sociale: "Relativismo, laicismo, scientismo e tutto quello che oggi viene messo al posto della fede sono i veleni, non gli antidoti, i virus che aggrediscono il corpo già malato, non gli anticorpi che lo difendono" (Marcello Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo l'Europa l'Etica, Milano, Mondadori, 2008, p. 5). L'esperimento che è in corso oggi in Europa - e cioè vivere come se Dio non esistesse - non sta dando i frutti promessi per tre ragioni. Anzitutto perché il secolarismo, che sta alla base dei diritti civili, non si autogiustifica senza un riferimento forte al bene e al vero. Il secolarismo resta senza fondamento. Mentre, il cristianesimo, con l'idea dell'uomo immagine di Dio, apporta alla società il valore incommensurabile della dignità personale, senza la quale non c'è né libertà, né uguaglianza, né solidarietà, né giustizia (ibidem, p. 6). Inoltre, da una parte, l'Europa si vanta di essere diventata la terra più scristianizzata dell'Occidente, ritenendo il cristianesimo un ostacolo al suo sviluppo civile; dall'altra, gli europeisti si lamentano di una mancanza di "identità europea" e cercano un'anima alla nuova Europa. Ma senza l'identità cristiana l'Europa non risulta più aperta, più tollerante, più pacifica. Al contrario: "Senza la consapevolezza dell'identità cristiana, l'Europa si distacca dall'America e divide l'Occidente; perde il senso dei propri confini e diventa un contenitore indistinto; non riesce a integrare gli immigrati, anzi li ghettizza o si arrende alla loro cultura; non è in grado di vincere il fondamentalismo islamico, anzi favorisce il martirio dei cristiani in tante parti del mondo e anche in casa propria" (ibidem). In terzo luogo, si afferma che la libertà consiste nel dare cittadinanza a tutte le libertà e quindi non bisognerebbe insistere sulla religione cristiana, dal momento che la democrazia è religione in se stessa. Si scopre, però, come aveva già visto Platone, che una tale democrazia relativistica è autofagica, divora se stessa. (cfr. Platone, La Repubblica, VIII, 11-14). Se non c'è più la verità, ma solo la somma delle varie credenze; se non c'è più la legge morale naturale, ma solo l'assoluta libertà dell'individuo, "allora il bene morale può essere solo sottoposto al voto e il voto, si guardi alle nostre legislazioni in materia di bioetica, può decidere che è bene qualunque cosa" (M. Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani, p. 7). L'Europa se vuole ritrovare la sua anima, la sua identità, i suoi fondamenti e la verità delle cose deve dirsi cristiana. I grandi teorici del liberalismo, John Locke, Thomas Jefferson, Immanuel Kant esaltavano la libertà umana, ma ponevano una condizione precisa per poterla realizzare: il rispetto della legge naturale. Ciò che assicurava questo rispetto, per Kant e per gli altri, era il dovere di coscienza di aderire al principio del bene e non a quello del male. E il bene al quale Kant si riferiva con la sua religione nei limiti della ragione era proprio l'etica cristiana. Sono molte le ragioni che dovrebbero motivare gli europei a dirsi cristiani: la memoria della loro origine; la possibilità di superare la crisi della loro società; la disumanità di un secolarismo autosufficiente e ateo; il mantenimento della stabilità sociale; l'orgoglio dell'universalità della civiltà europea; la fondazione razionale e non pregiudiziale della distinzione tra Stato e Chiesa; la sopravvivenza delle istituzioni sociopolitiche. Nel 1942 Benedetto Croce scrisse il saggio Perché non possiamo non dirci cristiani. Per lui il cristianesimo era la più grande rivoluzione dell'umanità, che ha prodotto una straordinaria civiltà umana, che ancora oggi sostiene la società contemporanea. Il cristianesimo è al fondo del pensiero moderno e del suo ideale etico. Per Kant, ad esempio, è proprio dell'uomo vivere velut si Deus daretur, anzi, è moralmente necessario ammettere l'esistenza di Dio (Critica della ragion pratica, Bari, Laterza, 1966 p. 156). Velut si Deus daretur è la condizione moralmente necessaria perché l'Europa possa ritrovare la sua identità e coltivare la speranza. L'Europa deve ricordare che all'inizio e in tutto il corso della sua storia c'è il Vangelo: "Il Cristianesimo è l'anima dell'Europa, non perché non si sia mescolato con altre culture, ma perché le ha portate ad unità, le ha articolate, fuse, composte in un quadro che ha fatto della terra in cui sbarcarono Pietro e Paolo il continente cristiano" (Perché dobbiamo dirci cristiani, p. 96). La tradizione cristiana dell'Europa ha amalgamato nella croce di Cristo la ratio dei Greci, il diritto delle genti dei Romani, le leggi di Mosè. L'Europa è oggi senz'anima perché rifiuta quella cristiana che la storia le ha dato. Non è sufficiente parlare di unità nella diversità o di meticciato di culture, formule evasive e ambigue perché non forniscono identità. Una integrazione presuppone un soggetto integrante. Integrare non significa solo ospitare, accogliere o aggregare. In conclusione, l'Europa deve dirsi cristiana se vuole unificarsi, se vuole affermarsi come civiltà dei diritti umani fondamentali; se vuole difendersi ed evitare guerre di religione; se vuole superare la stagione tragica del suo recente passato; se intende battere la sua profonda crisi morale. Perché milioni di persone da altri continenti e da altre culture non cristiane bussano non solo alle porte degli Stati Uniti d'America, ma anche a quelle dell'Europa, invadendola? Lo fanno solo per trovare un lavoro e una migliore condizione di vita? Forse. Ma la ragione più profonda è una sola: perché qui trovano libertà, perché la vera patria dell'uomo non è il suolo dove è nato, ma la terra dove può vivere libero. Se l'Europa vuole continuare a vivere nella libertà per tutti deve continuare a vivere etsi Deus daretur e a fondarsi sulla tradizione cristiana. Se l'Europa vuole integrare persone provenienti da altre culture non può essere senza identità, ma deve avere ancora fiducia nei suoi valori identitari, apprezzarli e anche avere la serenità di considerarli buoni e, forse, anche migliori di altri. Se non lo fossero, non sarebbero desiderati da milioni di immigrati. Integrazione significa allora conversione al cristianesimo? Non necessariamente. Integrazione significa adesione ai valori fondamentali della civiltà europea: "Se l'Europa non è un melting pot ma solo un contenitore, è perché non ha energia identitaria sufficiente a fondere il contenuto" (ibidem). La comunità senza Dio che l'Europa mediante il laicismo, il relativismo, lo scientismo e il multiculturalismo sta costruendo non è solo un ostacolo alla sua identità, è anche un impedimento alle politiche di integrazione. Con ciò si propone un nuovo fondamentalismo cristiano? No, perché il cristianesimo, pur riconoscendosi come religione della salvezza universale nel mistero di Cristo, evita il fondamentalismo mediante l'antidoto della libertà religiosa, del rispetto della coscienza individuale, della distinzione tra errore ed errante, del comandamento della carità verso tutti, anche verso i nemici. L'atteggiamento della Chiesa nei confronti dell'Europa contemporanea rispecchia il messaggio evangelico della carità e della libertà: "Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo" (Marco, 16, 15-16); "Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto. A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio" (Giovanni, 1, 11-12). La Chiesa propone non impone il Vangelo. Il Vangelo è essenzialmente una buona notizia anche per oggi. Per questo la nostra riflessione sulla situazione del cattolicesimo nell'Europa secolarizzata intende essere una buona notizia. Il compito della Chiesa in Europa è triplice: proclamare il Vangelo; testimoniarlo con coerenza; annunciare il Vangelo nei moderni areopaghi della cultura, della politica, dei massmedia, dell'educazione dei giovani. Per l'Europa il Vangelo resta anche per il terzo millennio il suo Libro per eccellenza, un libro di vita, di verità e di luce, come è vita, verità e luce Cristo, Parola di Dio incarnata. Riprendiamo in mano questo Libro, divoriamolo, gustiamolo e celebriamolo: questa era l'esortazione del servo di Dio Giovanni Paolo II. Dal canto suo Benedetto XVI, grande studioso dell'Europa e della sua identità cristiana, a più riprese ha incoraggiato l'Europa a non vergognarsi del Vangelo, ma ad apprezzarlo e a viverlo. A Parigi, nell'incontro con gli intellettuali francesi il 12 settembre 2008, ha affermato: "Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto (...). Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell'umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell'Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura". (Angelo Amato, L'Osservatore Romano, 9 agosto 2009)
Per una pastorale del matrimonio indissolubile Nessuno è escluso dall'amore di Cristo (20 settembre 2009)
Per tutta la vita Eugène Ionesco ha cercato Dio, verità ultima (14 giugno 2009)
«Le immagini che conservo di Ionesco non sono tante quanto avrei voluto. Ma sono nitide e non si cancelleranno dalla memoria. Da quale cominciare? Era il 1983. La Romania era a quel tempo sotto il potere di una coppia di rinoceronti a due corna, i Ceausescu. Noi eravamo in California, nei pressi del lago Tahoe. Le strade che s'inerpicavano verso quel vasto lago di montagna erano costeggiate da alti cumuli di neve e lungo il cammino c'era un posto - del quale non ricordo il nome - con un motel e una sala riunioni. Non so quale organizzazione aveva deciso di rendervi omaggio a Eugène Ionesco. Forse l'American Romanian Academy. Alcune studentesse americane, alte e belle, inscenarono per noi diverse opere brevi, o piuttosto degli sketch. Si divertivano da morire e la loro recitazione era piena di brio e di freschezza. Non eravamo in molti. Io ero l'unico della mia nazione, con Eugène e Rodica, contrariamente a quanto era stato detto a Ionesco, che si aspettava un pubblico internazionale. Tutti gli altri erano romeni, emigrati negli Stati Uniti che, nella maggior parte dei casi, insegnavano non so bene cosa, in università poco prestigiose. Uomini e donne isolati, non ricchi, non noti, che sopportavano la crudeltà dell'esilio, perché l'aria di libertà - per amore della quale avevano varcato con difficoltà le mura che circondavano il loro Paese - non basta a rendere felici quando ci si ritrova persi in un angolo sperduto delle grandi solitudini americane. Ma lì erano felici grazie a Ionesco. Chi era Ionesco per loro? Un uomo libero che era sempre stato dalla parte della libertà contro i regimi di oppressione e che non si faceva scrupolo di dire e di scrivere che il comunismo sovietico, romeno, francese - di dove non importa - era un orrore per quanti lo subivano e una vergogna per quanti lo professavano o ne approfittavano. Trent'anni fa una simile opinione non era ben vista persino negli ambiti universitari americani dove la moderazione era di rigore. Si veniva presto giudicati semplicisti, viscerali, rabbiosi. Nei riguardi del comunismo Ionesco forse non provava rabbia rabbioso perché era una persona dolce, né semplicista perché era intelligente e informato. Piuttosto era semplice, perché di quella realtà aveva una conoscenza globale frutto di una visione semplice, e "viscerale". Sì, lo era, fino al dolore. Vedere il mondo così com'è - ci ritorneremo - era la sofferenza principale di Ionesco, la sua croce. I romeni presenti non erano probabilmente tutti ancora in lotta per la libertà, al contrario, e Ionesco ne era un po' dispiaciuto. La libertà ora l'avevano, e con essa nuove preoccupazioni, ma avevano sotto i loro occhi un eroe di una causa che ricordava loro vecchie battaglie. Ionesco era anche un grande scrittore, noto in tutto il mondo. In America si cade facilmente in un anonimato senza fondo. Non si sa molto bene dove si trova l'Europa, soprattutto in California. Quanto alla Romania... L'immigrazione romena era allora poco consistente. Ma ecco che Ionesco, illustre, conosciuto in tutte le università, "soggetto di tesi" di innumerevoli studenti, portava gloria al suo popolo. Quel popolo povero - così era considerato in quel luogo banale - ne era fiero; ne traeva lustro e conforto. E poi c'era la personalità di Ionesco. Dire che era modesto è poco. Incredibilmente timido, non sapeva di fatto dove mettersi. Riceveva come poteva gli omaggi infinitamente calorosi dei suoi compatrioti. Non era questo a fargli piacere, ma sentiva il bene che la sua presenza faceva loro, e ne traeva gioia. Aveva dunque la sua espressione abituale, un po' clownesca e malinconica. Il suo eloquio era piuttosto lento, le parole gli uscivano con difficoltà, come se la sua lingua fosse un po' troppo grossa per la sua bocca, eppure era eloquente e il suo stile era originale anche quando diceva cose molto comuni. L'umile pubblico presente percepiva la sua bontà e si sentiva consolato. Ionesco è sempre, credo, etichettato dai manuali di letteratura come il fondatore del "teatro dell'assurdo". Viene regolarmente messo in concorrenza con Beckett o con Adamov. Sapeva bene di avere scoperto prima di loro una nuova forma teatrale, e nel suo giornale lo afferma con orgoglio. Ma ciò che contesto radicalmente è la nozione di "assurdo" applicata al suo teatro. Si addice meglio a Beckett, che apparentemente nega qualsiasi senso all'esistenza e trae il suo pathos dalla messa in scena del nulla. I dialoghi del teatro di Ionesco hanno su di me tutt'altro effetto. Sebbene siano pieni di battute, di giochi di parole, s'involino in tutte le direzioni, e girino a vuoto - come si dice di un bullone che non si avvita più, o di una vite sulla quale il cacciavite non ha più presa - provocano il riso e nello stesso tempo stringono il cuore poiché introducono alla realtà. Se non riguardasse il reale, il teatro di Ionesco sarebbe assurdo e non ci interesserebbe. In ogni caso non a me. Noi parliamo tutti più o meno come i personaggi di questo teatro, ma non ce ne rendiamo conto. Ionesco ce lo mette sotto il naso, ce ne rimanda l'eco. Quando noi parliamo, le parole che pronunciamo sono avvolte, come lo sono gli organi del nostro corpo, da un tessuto connettivo neutro, che serve da riempimento. "Parole superflue" che non importa cosa dicano, ma che aiutano gli altri a definirci. Noi crediamo di esprimerci perché udiamo solo la nostra voce, ma i nostri interlocutori percepiscono anche un'altra cosa, una sorta di sfondo sul quale inserire le nostre parole e nel quale indovinano bene o male ciò che pensano di sapere di noi. Di fatto, Ionesco traspone questo continuum della parola, recupera il suo "eccesso", il suo traboccare, e lo trasforma in poesia. "Direi persino che il linguaggio alla fine esplode nel silenzio della non comprensione, lo fa brillare, lo infrange per ricomporlo in altro modo. Un linguaggio più puro che è giunto fino alla frontiera, fino ai confini del silenzio". Quello che mi ha sempre colpito nel suo teatro, e che mi stupisce, è che introduce alla vita in modo molto concreto e diretto. In questo è un classico. I personaggi di Andromaca o di Fedra, ad esempio, parlano una lingua strana, una lingua che nessuno ha mai parlato - neanche ai tempi di Racine, neppure a corte - e inoltre parlano in versi alessandrini con cesura al sesto piede e alternanza delle rime maschili e femminili. Allora perché si dice di Racine che ci rivela il cuore umano, la forza delle nostre passioni, gli orrori dell'amore, l'imminenza della morte, e non lo si dice di Ionesco che ci rivela la stessa cosa per mezzo di un linguaggio da lui inventato, ma che noi comprendiamo spontaneamente, senza sforzo, e che ci commuove? Senza aver preso lezioni. Il reale che ci rivela non è il nulla. Ionesco può essere considerato sia allegro che triste. Non credo sia tragico. Le sue opere non sono del tutto comiche, anche quando fanno ridere, né del tutto tragiche, anche quando ci lasciano in una desolazione straziante. L'intenzione del comico è di guarire, mostrando allo spettatore i suoi difetti e le conseguenze grottesche e odiose che comportano, l'avarizia, la misantropia, la lussuria, la pigrizia. Ma Ionesco non pretende di guarire. I difetti, i lati ridicoli, le cattiverie di ognuno, li presenta come parte del mondo comune. Guarda a loro con l'indulgenza costernata che ha Dio quando acconsente di contemplare il mondo che ha creato piuttosto che se stesso. Il tragico si basa su un gioco di passioni e di circostanze che conduce inevitabilmente alla morte. Fa nascere una paura dalla quale ci libera con la sua stessa rappresentazione. Ma per Ionesco, la morte sopraggiunge in ogni caso, vi siano o no passioni, vi siano o no circostanze. Per questo le opere comiche fanno ridere, ma contengono una tristezza di fondo e le opere tragiche non gettano nella disperazione perché si concludono con una morte normale e inevitabile che bisogna accettare. Né comiche, né tragiche; che cosa allora? Ebbene, diciamo "drammatiche", in mancanza di meglio. Nel dramma ci sono andirivieni, ribaltamenti, ripensamenti del personaggio, possibilità di pentirsi, tempo per un'eventuale conversione. Così sono molte opere spagnole, il teatro di Corneille, in generale il teatro cristiano. In ambito cristiano, l'esito tragico è raramente possibile, perché sarebbe la dannazione, e la dannazione eterna è più che tragica, insopportabile nel teatro. Racine, autore tragico, ha trasposto le sue opere nell'antichità dove la posta in gioco era meno grave perché non ci si dannava. Prendiamo ad esempio Il re muore. La moglie Margherita dice al re all'inizio dell'opera: "Morirai fra un'ora e mezza, morirai alla fine dello spettacolo". E il re: "Cosa dici, mia cara? Non è divertente". Invece lo è, e anche molto. Questo annuncio è fatto all'inizio. Il programma è annunciato. Non vi è suspense. Il resto dell'opera consiste nella lunga preparazione spirituale di questo re scellerato, grottesco, stupido, alla sorte comune degli uomini. La sua morte non è nobile e grande come si confà alla tragedia, ma è come quella di tutti, morte umile, normale, spaventosa naturalmente, ma non più di qualsiasi altra. Siamo dunque in un dramma, con ruoli da farsa. Il re si mostra abominevole, veramente atroce e folle. Ma la situazione gli sfugge e perde tutto, la vanitas vanitatum di tutta la sua vita. Non è la seconda moglie ad accompagnarlo fino alla fine, ma la prima, la vecchia, la legittima, l'abbandonata. "Calma! Non avrai più bisogno di queste scarpe di ricambio. Né di questa carabina, né di questo mitra... Né di questa cassetta degli arnesi... Né di questa sciabola". E alla fine di un mirabile monologo di diverse pagine Margherita gli dice con dolcezza: "Abbandona a me il braccio destro, il braccio sinistro. Ecco, non hai più la parola, il tuo cuore non ha più bisogno di battere, non devi più sforzarti di respirare. È un'agitazione inutile, no?" Mi si permetta di paragonare Il re muore a La scarpina di raso. Immagino che il paragone sembrerà terribilmente forzato. Eppure, nei due casi si tratta di un cammino spirituale di due eroi che, sul punto di morire, al termine di una lunga "conversione", si abbandonano alle cose, al destino, alla provvidenza. Margherita è tanto brutta quanto Prouhèze è bella, e il re è tanto sordido quanto Rodrigo è nobile. Le due donne sono nondimeno lo strumento predestinato a "liberare le anime prigioniere", l'anima spezzata di Rodrigo e l'anima spregevole del re, due anime umane tuttavia, "a uguale distanza da Dio", come diceva Ranke a proposito delle civiltà o dei secoli diversi e imparagonabili. So che Ionesco ammirava immensamente Claudel e in particolare La scarpina di raso. Penso non vi sia stata la minima influenza di questa opera su Il re muore. Sono tuttavia a modo loro due drammi sacri, due autos sacramentales. Figureranno per sempre nel repertorio del teatro francese come due capolavori, a mio parere i più grandi che il ventesimo secolo abbia prodotto. È forse la loro eccezionale grandezza che isolandole invita a paragonarle. Bisogna ora penetrare maggiormente nell'intimità di Ionesco. Mi occuperò di tre aspetti: l'infanzia, l'angoscia, l'amore. Eugène Ionesco era nato nel 1909 a Slatina, a 150 chilometri da Bucarest. Il padre era romeno e la madre, Thérèse, francese, figlia di un ingegnere che lavorava per le ferrovie dello Stato romeno. Il padre aveva un carattere difficile ed era spesso assente. La famiglia si stabilì in Francia, ma il padre, nel 1916 l'abbandonò e ritornò in Romania. Là ottenne il divorzio e si risposò senza neanche informare la sua ex moglie, né d'altronde la nuova. Thérèse, rimasta in Francia, visse due anni - a quel tempo Eugène ne aveva dieci - in un paese della Mayenne, La Chapelle-Anthenaise, vicino a Laval. "Tutto era presente. Una giornata, un'ora mi sembrava lunga, senza limiti. Non ne vedevo la fine. Quando mi parlavano del prossimo anno avevo la sensazione che il prossimo anno non sarebbe mai arrivato. Quando ero a La Chapelle-Anthenaise, vivevo fuori dal tempo, dunque in una sorta di paradiso. Verso undici o dodici anni, non prima, ho iniziato ad avere l'intuizione della fine". Questa pienezza, questa beatitudine atemporale non tornerà mai più. Fu il punto luminoso, il momento di grazia di una vita che non smise fino alla fine di essere dolorosa. La vita successiva di Ionesco, il ritorno a tredici anni in Romania, dove non smise di sentirsi in esilio, gli inizi letterari a Bucarest, i vincoli di amicizia che vi stabilì, le letture che vi fece, i primi scritti - come sono riportati dalle biografie e dall'esterno - non sembrano distinguersi dal modello comune, quello di un giovane scrittore che cerca la sua strada nell'ambiente letterario all'apparenza abbastanza intenso della Romania degli anni Venti. Tornato in Francia nel 1938 - considerandosi ormai francese - divenne, attraverso le comuni difficoltà che incontravano allora gli artisti nella vasta Parigi dell'anteguerra, uno scrittore di lingua francese, che preparava vagamente una tesi su "Il tema del peccato e della morte nella poesia francese dopo Baudelaire". È nel 1950 - Ionesco ha poco più di trent'anni - che fa rappresentare, nel teatro des Noctambules, La cantatrice calva, inizio di una notorietà, poi della gloria. Non è dall'esterno che bisogna guardare Ionesco. Il suo sguardo era volto verso l'interno, verso la vita della sua anima che gli interessava molto di più di qualsiasi successo, a cui tuttavia non era insensibile in quanto lo rassicurava e lo confortava. Il punto luminoso era sempre l'infanzia, non più per un attaccamento sentimentale al paese normanno - che immagino alquanto banale - ma come parametro di una visione del mondo innocente e perennemente stupita dalla presenza della cattiveria, della stupidità, del male, soprattutto della morte. Lo stupore è il passo iniziale della filosofia. Ma in Ionesco il punto di partenza è lo stupore del bambino. È il punto di vista che può avere un bambino sensibile, ferito, scioccato, fragile. Il bambino vede più di quello che comprende, più di quello che ha di fronte agli occhi. Ionesco fece a undici anni una lettura decisiva che impresse una direzione alla sua vita interiore, quella di Un cuore semplice. Felicité vede, o sente, alla luce dell'infanzia le cose nascoste ai saggi e ai sapienti. Ionesco invidiava la felicità di Felicité. Ha spesso ricordato le parole evangeliche perché corrispondevano esattamente alla sua esperienza intima. Quest'ultima, trasformata, coscientemente metabolizzata, è la fonte della sua arte, l'inesauribile serbatoio della sua fantasia e della sua poesia. Ma lasciamolo parlare: "C'è innanzitutto il primo stupore: presa di coscienza dell'esistenza, uno stupore nella gioia e nella luce, uno stupore puro, senza giudizio sul mondo. Un secondo stupore si è innestato sul primo. Un giudizio stupito, constatazione che il male esiste o, più semplicemente, che le cose vanno male (...) Voglio semplicemente dire che in quanto scrittore, l'infelicità universale è una questione che mi riguarda personalmente e intimamente (...) Poiché non c'è nulla da fare, perché siamo votati alla morte, siamo allegri! Ma non lasciamoci ingannare". E cita l'esempio del suo amico Cioran, che viveva nel pessimismo come nel suo elemento naturale, che ne faceva quasi una professione, e tuttavia era allegro. Allegro, però, io Ionesco non l'ho mai visto. L'angoscia era il fardello straordinariamente pesante che dovette portare fino alla fine. Un'angoscia, a quanto pare, atroce. C'era sicuramente una parte di malattia, di quelle che si curano con gli ansiolitici, che però al suo tempo non c'erano. Dubito che sarebbero stati efficaci. La sua angoscia proveniva da una realtà più profonda della chimica alterata delle proteine. "A quattro o cinque anni mi sono reso conto che stavo divenendo sempre più vecchio, che sarei morto. Intorno ai sette od otto anni, mi dicevo che mia madre un giorno sarebbe morta". È ciò che scrive all'inizio del suo primo diario. Alla fine del secondo appare una litania della morte che occupa cinque o sei pagine: "1) È morto all'alba. 2) È morto la notte nel sonno. 3) Era notte. Fu prima risvegliato da un terribile incubo, urlò, poi si addormentò per sempre". La litania continua, non finisce: "65) Per una scheggia di granata. 66) Per una bomba. 67) Seppellito dalla terra in un terremoto. 68) Sotterrato vivo prima di essere seppellito". Si ha la sensazione che abbia vissuto sensibilmente questi 68 modi di morire. È un'ossessione, è anche uno strano tour de force. Mi fa pensare alla litania dei giochi infantili in Gargantua. I giochi infantili contrapposti ai giochi della morte, in Rabelais e Ionesco. Il parallelismo non gli sarebbe dispiaciuto. Era un uomo che con lo spirito di un bambino sopportava un eterno scandalo. La menzogna comunista, la persecuzione degli innocenti, l'umiliazione dei piccoli, lo ferivano. Non li sopportava. L'angosciavano. Il male ultimo, descritto da san Paolo, il nemico supremo, è la morte. Man mano che la sua vita andava avanti, si distaccava dalla letteratura, anche dalla sua: "La qualità letteraria che mi appassionava tanto un tempo (che m'interessava in primo luogo), oggi mi è indifferente". Inner-oriented, Ionesco non si richiudeva però in se stesso. Non si separava dall'umana condizione: "Che lo vogliano o no, gli uomini capiscono tutti gli altri uomini: la fame, la sete, la morte, l'amore, l'odio, l'angoscia, la paura, l'avarizia, l'invidia e la gelosia, la curiosità, il desiderio di possedere o di farsi da parte, il bisogno di Dio, tutto si capisce, degli uni da parte degli altri (...) Si capiscono come si capiscono i bambini". Grazie a ciò, nelle sue opere egli non si racconta, ma si fa trasportare. Il clima di angoscia, che pervade anche le opere di carattere comico, è il suo e s'introduce naturalmente, senza nulla di artificiale, di applicato, di sistematico. Nel suo teatro Ionesco è allo stesso tempo fuori e dentro. Lavorava tantissimo. Come drammaturgo, la sua produzione è più abbondante di quella di Racine, di Molière e di Claudel. Questo lavoro enorme era un rimedio all'angoscia. Ma ne aveva un altro, assolutamente vitale, l'amore. L'amore. Ne ha avuto tanto quanto era possibile averne. Ionesco sta per sposarsi: "Mia madre andò dalla mia fidanzata e quando questa le aprì la porta, mia madre la guardò un istante". Rodica rispose allo sguardo di Teresa. "Era una comunicazione muta, una sorta di rituale breve che riscoprivano spontaneamente e che doveva essere stato loro trasmesso dai secoli dei secoli: era una sorta di passaggio di poteri. In quel momento mia madre cedeva il suo posto, e cedeva anche me, alla mia futura moglie". Un passaggio d'amore, bisognerebbe dire. Thérèse morì tre mesi dopo il matrimonio, ma Ionesco non soffrì per la sua morte perché aveva una nuova famiglia: "Ero accolto, ero al riparo, sistemato, reinserito". Rodica gli diede una figlia, Marie France. Loro tre formavano, agli occhi degli amici, una sorta di "sacra famiglia" inseparabile, in un reciproco bagno d'amore. Senza dubbio Eugène ne assorbiva più di quanto ne donava, tanto ne aveva bisogno, ma ne donava quanto poteva. Questa intercomunione familiare, fedele e amorosa, non è frequente nella storia della letteratura del XX secolo e indica anch'essa a modo suo l'originalità dello scrittore. Nell'immagine che conservo di Ionesco, vedo saldata a lui la minuta Rodica, con il suo aspetto un po' cinese, che emana un'autorità e una dignità impressionanti, e quella sorta di grandezza che conferisce un amore di totale dedizione. Resistette fino alla morte di suo marito, e un po' oltre. Quelli che si sono fatti un'idea di Ionesco come di un divertente autore di vaudevilles, farebbero bene a leggere i suoi scritti non teatrali. Pochi scrittori del suo tempo si sono dedicati a letture così serie e difficili. La sua biblioteca era piuttosto quella di un filosofo e di un teologo. Questo perché per tutta la vita è stato alla ricerca della verità ultima, della verità assoluta che non ha mai chiamato in altro modo che Dio. In questo ambito, il Dio personale che Ionesco cercava era un interlocutore difficile da conoscere, un Dio nascosto, e noi non sappiamo cosa Egli pensava di Ionesco. E neppure Ionesco lo sapeva, il che era per lui un cammino d'inquietudine e insieme un cammino di guarigione. Ionesco leggeva dunque libri di spiritualità, in particolare quelli che maggiormente disorientano quanti non sono abituati a percorrere certe strade. Innanzitutto san Giovanni della Croce, la Filocalia, Caterina da Siena, la grande e la piccola Teresa, i mistici spagnoli, fiamminghi e tedeschi. Soprattutto quelli che sviluppano la cosiddetta mistica negativa. Per esprimersi semplicemente, coloro che pongono Dio al di là di ogni visione possibile, che lo dichiarano al di là della bontà, al di là del sapere, e infine al di là dell'essere. Quando si è là, Dio è sul punto di svanire nell'inconoscibilità. Se Egli è al di là dell'essere, è esistente in modo supremo, come ritenevano i mistici ortodossi, o piuttosto non esiste e scompare completamente nella nube della non conoscenza? Ionesco era stato battezzato nella Chiesa ortodossa, con la quale non ruppe mai, sebbene fosse perfettamente consapevole delle vergognose implicazioni di questa Chiesa con lo Stato comunista. Allo stesso tempo era amico della Chiesa cattolica e, una volta divenuto accademico, stabilì un legame molto stretto con uno dei suoi colleghi, il domenicano padre Carré. Da giovane, nel 1936, aveva insegnato il francese nel seminario ortodosso di Curtea de Arges, poi nel liceo san Savva di Bucarest. Per un istante pensò di diventare monaco. Sarebbe stato allora perso per la letteratura e noi ringraziamo il cielo per la decisione che presero insieme e che era, per Ionesco, di rientrare nella vita secolare. La Ricerca intermittente - è il titolo dell'ultimo volume del suo diario - non ha portato a un risultato definitivo. Ionesco non ha mai potuto far affidamento su un'ortodossia dogmatica chiara e sicura. La sua ricerca ha imboccato strade che non conducono da nessuna parte. Mi accorgo che ha letto molto Barruzzi, che lo ha introdotto a san Giovanni della Croce. Barruzzi aveva un'ortodossia e persino una fede piuttosto incerte, per quel che si sa. Uno degli amici più intimi di Ionesco era Mircea Eliade. Questo studioso era un esperto della storia e della sociologia delle religioni. Si era fatto una grande reputazione in quel campo. Ai miei occhi di non esperto, non sono certo che la meritasse così tanto. Eliade, che non aveva l'animo religioso, era decisamente un comparatista, metteva tutte le religioni sullo stesso piano. Osservava fra di esse punti di convergenza o di divergenza. Era forse perché era uno studioso, ma trascinava Ionesco, suo attento lettore, sulle vie del relativismo generalizzato. Insomma, sarebbe improprio fare di Ionesco un parrocchiano tranquillo della Chiesa ortodossa o della Chiesa cattolica. Pregava però il Dio cristiano, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Le ultime righe del suo diario sono: "Pregare il Non So Chi. Spero: Gesù Cristo". Ionesco morì il 28 marzo 1994. Le esequie ebbero luogo nella chiesa dei Santi Arcangeli, una delle rare vestigia del quartiere latino medievale. Si tratta in effetti della cappella dell'antico collegio di Beauvais, piuttosto in cattivo stato, come ho potuto constatare quel giorno. La liturgia ortodossa era bella, come anche gli inni. Re Michele di Romania era fra i presenti. Da quel giorno, ogni anno, vengo invitato da Marie France al panikhide - un servizio funebre celebrato sulla tomba di Eugène e di Rodica Ionesco - nel cimitero di Montparnasse, non lontano dal loro domicilio su questa terra. Mangiamo la koliva, un dolce speciale per i morti, beviamo un bicchiere di vino, e il sacerdote dice l'ufficio, corto e semplice. È un momento di pace e di gioia». (Alain Besançon, ©L'Osservatore Romano, 8-9 giugno 2009)
(7 Giugno 2009)
Fermate gli orologi, quando dai vapori del Mar Egeo vedete sbucare la cima dell'Athos. Perchè lì sono cose d'altri tempi. Il calendario è il giuliano, in ritardo di 13 giorni su quello latino che ha invaso il resto del mondo. Le ore non si contano a partire da mezzanotte, ma dal tramonto del sole. E non è sotto il sole meridiano, ma nel buio notturno che l'Athos più vive e più palpita. Di canti, di luci, di misteri. Il Monte Athos è vera terra santa, che incute timor di Dio. Non è per tutti. Intanto non è per le donne, che già sono una buona metà degli umani. L'ultima pellegrina autorizzata vi ha messo piede sedici secoli fa. Si chiamava Galla Placidia, quella dei mosaici blu e oro di una chiesa di Ravenna a lei intitolata. A nulla le valse d'esser figlia del grande Teodosio, imperatore cristiano di Roma e Costantinopoli. Entrata in un monastero dell'Athos, un'icona della Vergine le ordinò: férmati! e le ingiunse di lasciar la montagna. Che doveva restare da lì in poi inviolata da donna. Dal secolo XI – dicono – neanche gli animali femmina, vacche, capre, coniglie, osano più salire impunemente il santo monte.
URANÚPOLIS Uranúpolis, città del cielo, ultimo villaggio greco prima del sacro confine, è posto di frontiera specialissimo. Cartelli di ferro smaltato vi avvertono fino all'ultimo che non la passerete liscia se siete donna travestita da uomo o se vi scoveranno senza i giusti permessi. La sacra epistassía, il governo dei monaci, vi consegnerà a un tribunale di Grecia. Il quale è sempre severo nel tutelare l'extraterritorialità dell'Athos e le sue leggi di autonoma teocrazia, sancite nella costituzione ellenica e forti di riconoscimento internazionale. Sudati monaci in tonaca e cappello a cilindro tengono a freno la calca dei viaggiatori in cerca d'un lasciapassare. Molti i chiamati ma pochi gli eletti, dice il Vangelo. E pochissimi sono i visti d'ingresso timbrati ogni mattina col sigillo della Vergine. Chi finalmente riceve la similpergamena che autorizza la visita corre al molo d'imbarco. Perché nell'Athos si entra solo via mare, su navigli che hanno nomi di santi. Lo sbarco è un porticciolo a metà penisola che si chiama Dafne, come la ninfa di Apollo. Ma il lontano Olimpo, che da lì si scorge nelle giornate ventose, dimenticàtelo. Un vecchio autobus panciuto, del color della terra anche nei finestrini, arranca sulla salita fino a Kariès, ombelico amministrativo dell'Athos, sede dalla sacra epistassìa.
KARIÈS A Kariès ci sono la gendarmeria, un paio di viuzze con botteghe che vendono semi di farro, icone, grani d'incenso e tonache monacali; ci sono il finecorsa dell'autobus e una trattoria. C'è anche un telefono pubblico, che ha tutta l'aria d'essere il primo e l'ultimo. Kariès è uno strano paesetto senza abitanti. Quei pochi che compaiono sono tutti provvisori: monaci itineranti, gendarmi, operai di giornata, viaggiatori smarriti. Da lì in avanti si procede a piedi, ore di marcia su strade sterrate, senz'ombra, in nuvole di polvere impalpabile come cacao. Oppure su camionette prese a nolo da un altro degli strani greci provvisori. Oppure saltando su jeep di passaggio, di proprietà dei monasteri più ammodernati. Ma sempre con grande supplizio corporeo. L'Athos è per tempre forti, ascetiche. Da subito vi torchia. Ogni giorno di visita avrà la sua via crucis di polvere e sassi e precipizi: perchè sul prezioso vostro permesso c'è scritto che non potete fermarvi più di una notte in un monastero e tra l'uno e l'altro ci sono ore di cammino. Il pellegrinare è d'obbligo.
GRANDE LAVRA Ma quando arrivate esausti in uno dei venti grandi monasteri, che paradiso. La Grande Lavra, il primo nella gerarchia dei venti, vi accoglie tra le sue mura sospese tra terra e cielo, verso la punta della penisola proprio sotto la santa montagna. Compare un giovane monaco e vi ritira pergamena e passaporto. Ricompare come l'angelo dell'Apocalisse dopo un silenzio in cielo di circa mezz'ora, ristorandovi con un bicchier d'acqua fresca, un bicchierino di liquor d'anice, una zolletta di gelatina di frutta e un caffè alla turca, speziato. È il segno che siete stato ammesso tra gli ospiti. Vi tocca un letto in una camera a sei tra mura vecchie di secoli, con le lenzuola fresche di bucato e l'asciugamano. Da lì in avanti farete vita da monaci. Ossia farete come vi pare. I monasteri dell'Athos non sono come quelli d'Occidente, cittadelle murate dove ogni mossa, ogni parola sono sotto regola collettiva. Sull'Athos c'è di tutto e per tutti. C'è l'eremita solitario sullo strapiombo di roccia, cui mandano su il cibo di tanto in tanto con una cesta. Ci sono gli anacoreti nelle loro casupole sperdute tra ginestre e corbezzoli, sulla costa della montagna. Ci sono i senza fissa dimora, sempre in cammino e sempre irrequieti. Ci sono i solenni cenobi di vita comune retti da un abate, che qui si chiama igúmeno. Ci sono i monasteri villaggio dove ciascun monaco fa un po' a ritmo suo. La Grande Lavra è uno di questi. Dentro le sue mura ci sono piazze, stradine, chiese, pergole, fontane, mulini. Le celle fanno blocco come in una kasbah orientale. Spiccano gli intonaci azzurri, mentre il rosso è il sacro colore delle chiese. Quando suona il richiamo della preghiera, con campane dai sette suoni e con il martellare dei legni, i monaci s'avviano al katholikón, la chiesa centrale. Ma se qualcuno vuol pregare o mangiare in solitudine, niente gli vieta di restare nella sua cella. Anche per il visitatore è così, salvo che lui di alternative ne ha proprio poche. Al vespero accorre impaziente. Alla preghiera notturna ci prova, presto indotto a ripiegare dal sonno. Alla liturgia mattutina ci riprova, vagamente stordito. O inebriato? C'è profumo d'Oriente, di Bisanzio, nella Grande Lavra. C'è aroma di cipresso e d'incenso, fragranza di cera d'api, di reliquie, di antichità misteriosamente prossime. Perchè i monaci dell'Athos non patiscono il tempo. Vi parlano dei loro santi, di quel sant'Atanasio che ha piantato i due cipressi al centro della Lavra, che ha costruito con forza erculea il katholikón, che ha plasmato il monachesimo athonita, come se non fosse morto nell'anno 1000 ma appena ieri, come se l'avessero incontrato di persona e da poco. Santi, secoli, imperi, città terrene e celesti, tutto par che oscilli e fluisca senza più distanza. Ai visitatori sono offerti in venerazione, al centro della navata, i tesori del monastero: scrigni d'oro e d'argento con zaffiri e rubini, che incastonano la cintura della Vergine, il cranio di san Basilio Magno, la mano destra di san Giovanni Crisostomo. La luce del tramonto li accende, li fa vibrare. E s'accendono anche gli affreschi di Teofane, maestro della scuola cretese del primo Cinquecento, le maioliche azzurre alle pareti, le madreperle dell'iconostasi, del leggio, della cattedra. Dopo il vespero si esce in processione dal katholikón e si entra, dirimpetto sulla piazza, nel refettorio, che ha anch'esso l'architettura di una chiesa ed è anch'esso tutto affrescato dal grande Teofane. È la stessa liturgia che continua. L'igúmeno prende posto al centro dell'abside. Dal pulpito un monaco legge, quasi cantando, storie di santi. Si mangia cibo benedetto, zuppe ed ortaggi in antiche stoviglie di ferro, nelle feste si beve del vino color ambra, su spesse tavole di marmo scolpite a corolla, a loro volta poggianti su sostegni marmorei: vecchie di mille anni ma che evocano i dolmen della preistoria. Anche l'uscita avviene in processione. Un monaco porge a ciascuno del pane santificato. Un altro lo incensa con tale arte che anche in bocca ve ne resta a lungo il profumo.
VATOPÉDI Dopo la Grande Lavra, nella gerarchia dei venti monasteri, viene Vatopédi. Sorge sul mare tra dolci colline vagamente toscane. Lì, raccontano, si salvò il naufrago Arcadio, figlio di Teodosio. E lì dovette riprendere il largo la sorella, Galla Placidia, la prima delle donne interdette dall'Athos. Come la Lavra è rustica, così Vatopédi è raffinato. E lo fu sin troppo, in qualche tratto della sua storia passata: opulento e decadente. Ancora non molti anni fa albergava monaci sodomiti, disonore dell'Athos. Ma poi è venuta la sferza purificatrice d'un manipolo di monaci rigoristi giunti da Cipro, che hanno messo al bando i reprobi e imposto la regola cenobitica. Oggi Vatopédi è tornato monastero tra i più fiorenti. Accoglie giovani novizi fin dalla lontana America, figli di ortodossi emigrati. Vatopédi è l'aristocrazia dell'Athos. Dice solenne l'igúmeno Efrem, barba color rame, occhi chiari e voce melodiosa: "L'Athos è unico. È il solo Stato monastico al mondo". Ma se è città del cielo sulla terra, allora tutto lì dev'essere sublime. Come le liturgie, che a Vatopédi sublimi lo sono per davvero. Specie nelle grandi feste: Pasqua, Epifania, Pentecoste. Il pellegrino vinca il sonno e non perda, per niente al mondo, i suoi meravigliosi uffici notturni. Già la chiesa è di grande suggestione: è a croce greca come tutte le chiese dell'Athos, mirabilmente affrescata dai maestri macedoni del Trecento, con un'iconostasi fulgentissima d'ori e d'icone. Ma è il canto che a tutto dà vita: canto a più voci, maschio, senza strumenti, che fluisce ininterrotto anche per sette, dieci ore di fila, perché più la festa è grande e più si prolunga nella notte, canto ora robusto ora sussurrato come marea che cresce e si ritrae. I cori guida sono due: grappoli di monaci raccolti attorno al leggio a colonna del rispettivo transetto, con il maestro cantore che intona la strofa e il coro che ne coglie il motivo e lo fa fiorire in melodie e in accordi. E quando il maestro cantore si sposta dal primo al secondo coro e traversa la navata a passi veloci, il suo leggero mantello dalle pieghe minute si gonfia a formare due ali maestose. Sembra volare, come le note. E poi le luci. C'è elettricità nel monastero, ma non nella chiesa. Qui le luci sono solo di fuoco: miriadi di piccoli ceri il cui accendersi e spegnersi e muoversi è anch'esso parte del rito. In ogni katholikón dell'Athos pende dalla cupola centrale, tenuto da lunghe catene, un lampadario a forma di corona regale, di circonferenza pari alla cupola stessa. La corona è di rame, di bronzo, di ottone scintillanti, alterna ceri e icone, reca appese uova giganti che sono simbolo di risurrezione. Scende molto in basso, fin quasi a esser sfiorato, proprio davanti all'iconostasi che delimita il sancta sanctorum. Altri fastosi lampadari dorati scendono dalle volte dei transetti. Ebbene, nelle liturgie solenni c'è il momento in cui tutte le luci vengono accese: quelle dei lampadari e quelle della corona centrale; e poi i primi sono fatti ampiamente oscillare, mentre la grande corona viene fatta ruotare attorno al suo asse. Almeno un'ora dura la danza di luce, prima che pian piano si plachi. Il palpito delle mille fiammelle, il brillare degli ori, il tintinnio dei metalli, il trascolorare delle icone, l'onda sonora del coro che accompagna queste galassie di stelle rotanti come sfere celesti: tutto fa balenare la vera essenza dell'Athos. Il suo affacciarsi sui sovrumani misteri. Quali liturgie occidentali, cattoliche, sono oggi capaci d'iniziare a simili misteri e d'infiammare di cose celesti i cuori semplici? Joseph Ratzinger, ieri da cardinale e oggi da papa, coglie nel segno quando individua nella volgarizzazione della liturgia il punto critico del cattolicesimo d'oggi. All'Athos la diagnosi è ancor più radicale: a forza d'umanizzare Dio, le Chiese d'Occidente lo fanno sparire. "Il nostro non è il Dio dello scolasticismo occidentale", sentenzia Gheorghios, igúmeno del monastero athonita di Grigoríu. "Un Dio che non deifichi l'uomo non può avere alcun interesse, che esista o meno. È in questo cristianesimo funzionale, accessorio, che stanno gran parte delle ragioni dell'ondata di ateismo in Occidente". Gli fa eco Vassilios, igúmeno dell'altro monastero di Ivíron: "In Occidente comanda l'azione, ci chiedono come possiamo rimanere per così tante ore in chiesa senza far nulla. Rispondo: cosa fa l'embrione nel grembo materno? Niente, ma poiché è nel ventre di sua madre si sviluppa e cresce. Così il monaco. Custodisce lo spazio santo in cui si trova ed è custodito, plasmato da questo stesso spazio. È qui il miracolo: stiamo entrando in paradiso, qui e ora. Siamo nel cuore della comunione dei santi".
SIMONOS PETRA Simonos Petra è un altro dei monasteri che sono alla testa della rinascita athonita. Si erge su uno sperone di roccia, tra la vetta dell'Athos e il mare, coi terrazzi a vertigine sul precipizio. Eliseo, l'igúmeno, è appena tornato da un viaggio tra i monasteri di Francia. Apprezza Solesmes, baluardo del canto gregoriano. Ma giudica la Chiesa occidentale troppo "prigioniera di un sistema", troppo "istituzionale". L'Athos invece – dice – è spazio degli spiriti liberi, dei grandi carismatici. All'Athos "il logos si sposa alla praxis", la parola ai fatti. "Il monaco deve mostrare che le verità sono realtà. Vivere il Vangelo in modo perfetto. Per questo la presenza del monaco è così essenziale per il mondo. Scriveva san Giovanni Climaco: luce per i monaci sono gli angeli, luce per gli uomini sono i monaci". Simonos Petra fa scuola, anche fuori dei confini dell'Athos. Ha dato vita a un monastero per monache, un'ottantina, nel cuore della penisola Calcidica. Un altro ne ha fatto sorgere vicino al confine tra Grecia e Bulgaria. E ha aperto tre altri suoi nuclei monastici persino in Francia. È un monastero colto, dotato d'una ricca biblioteca. A notte alta i suoi ottanta monaci, prima della liturgia antelucana, vegliano in cella da tre a cinque ore leggendo e meditando i libri dei Padri. Athos insonne. Senza tempo che non sia quello delle sfere angeliche. Lasciarlo è una dura scossa anche per il visitatore più disincantato. A Dafne si risale sul traghetto. Il cadenzato ronfare dei motori vi rimette in pari con gli orologi mondani. La ragazza greca, la prima, che a Uranúpolis vi serve il caffé, vi viene incontro come un'apparizione. Con la folgorante bellezza d'una Nike di Samotracia. (Sandro Magister, www.chiesa, 30 maggio 2009)
San Benedetto Abate, Padre del monachesimo occidentale (31 maggio 2009)
“Chiedo a san Benedetto di aiutarci a tenere ferma la centralità di Cristo nella nostra esistenza. Egli sia sempre al primo posto nei nostri pensieri e in ogni nostra attività!” (Benedetto XVI, udienza generale del 27 aprile 2005)
Introduzione Il 24 maggio Papa Benedetto XVI si è recato a Montecassino. Questa visita non è certo solo un segno di ammirazione e devozione da parte del Papa per il grande Santo di cui porta il nome, ma anche un riconoscimento del posto che S. Benedetto ha nella storia della Chiesa e della civiltà. Lo scopo di questo Dossier è di sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda, approfondendo, sia pure con un breve excursus, la figura e l’opera del Patriarca dei monaci di occidente e quello che ancora può dire ai giorni nostri. Anche oggi si può ripetere ciò che alla fine del 1980 l’Abate Padre Sebastiano Bovo OSB (maestro dei novizi nel periodo della mia esperienza monastica) riassumeva così: «Alla chiusura del XV centenario del nostro santo Padre, abbiamo tutti la mente e il cuore pieni del ricordo di san Benedetto. Si ha però l’impressione che, fra tante cose buone, rette e giuste, forse il filo conduttore di questo centenario sia stato un po’ falsato, o almeno un po’ spostato su aspetti del nostro Padre e della sua opera, che non erano fondamentali. L’opera sua è stata visualizzata in questa direzione: S. Benedetto, Padre dell'Europa; quindi: “ora et labora”, “croce, libro e aratro”... Giustissimo! Chi può contestare che S. Benedetto sia stato l’iniziatore di una nuova cultura da cui è nata l’anima europea? Ma S. Benedetto non è sostanzialmente lì». Di fatto, S. Benedetto intendeva essere lui stesso, e quindi fare del suo monaco, semplicemente un cristiano perfetto, che tendesse a portare fino alle estreme conseguenze il Vangelo di Cristo, gli insegnamenti di quell’Uomo-Dio al cui amore nulla deve essere anteposto. Quindi, come scrive S. Gregorio «se alcuno vuol conoscere i costumi e la vita del santo con più accuratezza, può scoprire nell’insegnamento della regola tutti i documenti del suo magistero, perché l’uomo di Dio non ha affatto insegnato diversamente da come è vissuto». Sempre l’Abate Bovo continua: «Perenne rinnovata disponibilità allo Spirito: questa la cosa fondamentale della Regola… Ci troviamo di fronte a una spiritualità che ha riscoperto la gloria di Dio, per cui conosce e ama l’uomo perché lo vede nella gloria di Dio. Poter vedere l’uomo con la stessa bontà con cui lo vede Dio! Se questo è l’iter di san Benedetto vuol dire che questo deve essere anche il nostro iter, come è tracciato nella Regola». Ma vediamo le tappe essenziali della vita di Benedetto, ispirandoci agli scritti di Madre M. Ildegarde Cabitza OSB, che fu una pietra miliare nella storia recente dell’Abbazia di Rosano.
Premessa Benedetto è visto da S. Gregorio, che ne narra la vita nel suo Secondo Libro dei Dialoghi, come il «vir Dei, l’uomo di Dio» che fin dalla prima giovinezza non esita a fare una scelta coraggiosa e radicale tra le offerte di una agiata e promettente vita terrena e le supreme esigenze di Dio. È l’eremita che brama l’assoluto e si nasconde con «Cristo in Dio» per essere ignorato da tutti e noto solo al suo luminoso ed amoroso sguardo. Il giovane Benedetto è già l’asceta che non risparmia penitenze e lotte per vincere l’impulso del male e liberarsi da ogni forma negativa per immergersi in Dio e lasciarsi trasformare totalmente da Lui. È il coraggioso e leale seguace del volere divino che sa abbandonare perfino il programma scelto ed amato di vita solitaria per divenire il maestro che insegna, la guida che conduce, la luce che rischiara, la forza che sprona e sostiene. Ma Benedetto è soprattutto il Padre. È l’«Abba» che genera a Dio dei figli, che li forma, che li accompagna con il suo esempio e con la sua parola, ma ancor più con la sua donazione e la sua fede. Egli è, di conseguenza, l’organizzatore che con sapienza sa cogliere ogni lato dell’esistenza quotidiana, spirituale e materiale, perché tutto possa divenire uno strumento d’amore e di pace, un mezzo per sciogliere a Dio il canto dell’offerta, del sacrificio. della lode, soprattutto dell’amore. È il legislatore che traccia le norme di un cammino audace e che le fissa per sempre nelle parole di quella Regola che egli trae dal tesoro del suo cuore per i figli che gli vivevano accanto e ancor più per quelli che Dio gli avrebbe donato nei secoli avvenire. E tutto questo in vista di un fine soprannaturale che deve essere e rimane sempre la molla ardita di ogni esistenza e di ogni Comunità: Benedetto vuole formare delle anime che credano fino in fondo al Vangelo, che ne realizzino le parole di salvezza con assoluta coerenza di sentimenti e di vita. Cerca creature che vogliano e sappiano approfondire il mistero della vita spirituale, di quel miracolo della grazia che fa di poveri e miseri essere umani dei figli di Dio, chiamati a una eternità di gloria. A tutti egli non propone che un modello, il Cristo. È Cristo infatti l’unica realtà della vita, è lui a cui «nulla deve essere preposto» che deve divenire la forma interiore, il modello su cui si plasma ogni pensiero ed ogni azione, il centro d’amore a cui tutto converge. È da questa sequela di Cristo che il monaco diventa l’uomo della semplicità, la creatura della preghiera e del lavoro, colui che può forse fare tante cose ma che in realtà non ne compie che una sola, perché nel suo intimo si è creata l’unità e tutto in lui si trasforma in preghiera ininterrotta, in un inno incessante di adorazione, di offerta, di impetrazione. Che egli sia in Coro a cantare le lodi del suo Creatore, che egli sia curvo sul lavoro faticoso che la sua essenziale povertà gli chiede, che egli offra se stesso nell’obbedienza amata e desiderata a colui che sulla terra «tiene le veci di Cristo», che si doni con casto amore ai fratelli che camminano con lui verso il cielo, il monaco non si divide, non si fraziona, non si scinde. Egli è l’uomo dell’unità perché è «l’uomo di Dio», è colui in cui Cristo è divenuto il tutto, in cui l’amore è diventato respiro, in cui Dio si è fatto l’unico centro e l’unica realtà vitale, per il tempo e per l’eternità.
Giovinezza S. Gregorio, dopo averci comunicato in modo telegrafico che Benedetto era «nato da nobile famiglia nella regione di Norcia» ce lo presenta subito giovane studente a Roma, in un ambiente che forse, in tanti aspetti, era simile a quello delle moderne scuole. Niente ci lascia supporre che egli abbia anche per poco ceduto all’incanto di quella festa perpetua che narcotizzava l’agonia morale di un popolo che aveva conosciuto la vera grandezza; siamo piuttosto indotti a pensare che il contrasto si manifestasse stridente, tra la sua anima raccolta e meditativa e quel violento esteriorizzarsi di sentimenti che si esauriva in un tumulto irrequieto e senza fine. A Roma le scuole, sugli inizi del secolo VI, non erano più quelle dell’età aurea dell’Impero, non perché ne fosse ridotto il numero o sminuita la dignità, ché anzi Teodorico si adoperava in ogni modo alla diffusione della cultura, ma perché erano venute meno alla loro funzione essenziale di plasmare degli uomini ai grandi e forti ideali di vita civica e morale. Il loro compito sembrava esaurirsi nella trasmissione meccanica dell’eredità letteraria ricevuta dai secoli precedenti e questo amore geloso dei classici voleva forse stabilire un compenso al vuoto desolante del presente. Inoltre in una città come Roma, dove San Girolamo trova anche tra il clero degli elementi tutt’altro che edificanti e di una mondanità che oggi stentiamo a concepire, e dove Ammiano Marcellino ci attesta che, in tempo di carestia, dovendosi allontanare da Roma quanti non fossero strettamente necessari, furono però lasciati indisturbati gli istrioni e non meno di seimila tra ballerine e cantanti, si può ben capire come la condotta morale degli studenti non dovesse offrire garanzie di serietà e di morigeratezza. L’immoralità dilagava del resto senza alcun ritegno, e penetrava nella scuola stessa, se dobbiamo credere alla testimonianza di Sant’Agostino il quale afferma che «i ragazzi sono costretti dagli anziani a leggere e a imparare, pur tra gli studi che si dicono nobili e liberali» le turpi produzioni di un teatro che non conosceva più alcun ritegno di moralità. Tale situazione doveva accentuare la fisionomia scapigliata e gaudente della popolazione studentesca, che se ovunque godeva fama di indisciplinatezza, nella Roma di allora si abbandonava sfrenata a ogni licenza. Tutto questo non equivale a dire che non si studiasse: sarebbe esagerato e ingiusto l’affermarlo, e ne dà una smentita il grado stesso di maturità intellettuale raggiunto da Benedetto, che pure abbandonò incompleti i suoi corsi di studio, ma non si può negare che la compagine scolastica fosse un qualche cosa di affatto inefficace a produrre profonde impressioni o ad eccitare un ideale superiore. Questo l’ambiente col quale venne a trovarsi a contatto, nel periodo della sua formazione culturale, lo studente umbro maturato nel silenzio della sua terra, perfettamente cosciente del vero valore dell’esistenza: una maturità precoce, un abito meditativo che faceva contrasto con la sua giovinezza, lo spingevano come per istinto a scoprire l’essenza stessa di quella vita che si fasciava d’orpello per nascondere la sua miseria. Non gli dovette essere ignota la tristezza profonda che ogni anima grande prova dinanzi alla prodigalità incosciente con la quale si fa getto, con la più sfrenata spensieratezza, degli anni più belli, più ricchi di energie: la sensualità divenuta norma e fine dell’esistenza, anziché sedurlo, creava in lui ripugnanza e disgusto, accentuando il senso di fierezza e di rettitudine morale che era la sacra eredità della sua gente. Al di là di ogni apparenza egli sentiva il bisogno di incontrarsi faccia a faccia, senza veli, con la realtà vera degli uomini e delle cose, e la realtà di quella Roma dove tutto appariva splendido, gli si scopriva ogni giorno più come una miseria senza nome, soprattutto a confronto del problema urgente di una vita ordinata a un fine supremo che trascende il tempo e la contingenza delle vicissitudini umane, e che anche nei suoi riguardi puramente terreni, ha un valore incommensurabile. Con la vigoria di una convinzione robusta che, come frutto di serena riflessione, scaturisce dal confronto dei valori, si rafforza in Benedetto il senso cristiano, divenuto ormai esperienza vissuta della vanità di tutto ciò che passa e logora l’esistenza, senza avvicinarsi individualmente e socialmente a Dio. Alla sua anima profondamente seria si imponeva con una specie di necessità la decisione della scelta tra l’accettazione di quel compromesso di vita cristiana nel quale cozzavano gli interessi più disparati, o l’eroica fedeltà a una attuazione integrale della vita evangelica, vissuta senza mezzi termini, fino alle conclusioni estreme. Non sappiamo quanto sia durato questo periodo di travaglio intimo, certo prevalsero i diritti dello spirito: Benedetto non era fatto per le accomodanti transazioni. In una società nella quale norma suprema del vivere appariva il godimento e l’ambizione, egli sarebbe stato il «Vir Dei» (l’uomo di Dio), nel senso assoluto ed esclusivo della parola.
L’eremo Lo studente riflessivo e puro che si è allontanato da Roma per rispondere una vocazione della quale non abbraccia per ora tutta l’estensione, ma che è deciso di seguire sino in fondo, è ancora su un piano ordinario di vita. Prese dimora ad Affile, piccolo paese a circa ottanta chilometri dalla capitale, ma anche da qui, per motivi diversi, decise di allontanarsi. In quel momento la sua vitalità soprannaturale ha raggiunto un grado così intenso, la sua anima è entrata in una così profonda intimità con Dio da darci già la sensazione di trovarci di fronte a un Santo autentico. Tra questi due estremi che possono aver racchiuso un periodo di tempo non eccessivamente lungo, si pone una realtà essenziale: Benedetto si è dato a Dio, e di questo servo fedele sempre teso in ascolto, sempre docile a seguire la parola accolta nel cuore, il Signore ha fatto un amico, un santo, un essere pronto a rispondere ai disegni di Dio; il modo, è il segreto divino; che vale analizzarne le operazioni con le nostre indagini curiose? Lasciato Affile, Benedetto si spinse fino ad una grotta, quasi irraggiungibile, nei pressi di Subiaco e lì, per tre anni interi, vide i giorni succedersi ai giorni, nel solleone estivo o nei gelidi inverni che assideravano la terra, senza che mai nessun contatto umano venisse a rompere la sua solitudine. Eppure non furono tre anni di abbrutimento o di deplorevole inerzia morale: li dobbiamo anzi pensare come gli anni più intimamente fecondi di tutta la sua vita, quelli nei quali fermentava nell’anima, travagliata dalla grazia, il lievito di un rinnovamento interiore che avrebbe un giorno investito il mondo. Lui non sapeva. Che importa, del resto, all’uomo, scoprire in antecedenza i disegni di Dio? Ciò che vale e lasciarsi forgiare dallo Spirito, in generosità di fede, con la duttilità dell’amore che vince ogni resistenza della natura. Benché non abbiamo che scarsissime notizie, per non dire quasi nulla, su questo periodo della sua vita, pure non è difficile pensare come l’eremita ventenne, nascosto «nel cavo della roccia» abbia vissuto quei tre anni; segregandosi nello speco egli sapeva bene quale vasto programma si proponesse di attuare. Bisognava risarcire le ferite aperte nell’anima dal peccato originale: sensualità, amore eccessivo dei beni terreni, orgoglio; stabilire un robusto dominio sulle passioni, mediante l’atto volontario illuminato e diretto dall’intelletto; addestrarsi nella lotta contro lo spirito del male per giungere a smascherarne le insidie e a vincerle; divincolarsi dal mondo rifacendosi, attraverso il contatto diretto con la Verità, una coscienza cristiana schietta, senza imposture e senza incoerenze. E tutto questo già complesso lavoro interiore non era ancora se non l’aspetto negativo, condizione preliminare che doveva permettere al monaco di elevarsi fino a quello stato di «ininterrotta orazione» che nel nostro linguaggio moderno chiameremmo lo «stato d’unione» con le sue intraducibili esperienze di Dio presente e operante in noi.
Subiaco Come si sa, trascorsi tre anni, nel giorno di Pasqua un angelo rivela ad un prete dei dintorni il luogo dove Benedetto dimora. Da quel momento finisce la sua solitudine. I monaci di un Monastero vicino, nonostante le sue resistenze, lo eleggono loro Abate ma, in seguito, non volendo convertirsi dai loro pessimi costumi, tentano di avvelenarlo. Salvato da un miracolo, Benedetto ritorna allo Speco, ma la sua vita ormai sarà diversa. In questi tre anni la sua anima ha acquistato un vigore nuovo ed egli ha soprattutto raggiunto la consapevolezza piena della sua miseria e della potenza della grazia: la lunga abitudine di fissare l’occhio in Dio, di dipendere da Lui, l’assimilazione profonda dei libri Santi, della dottrina ascetica dei Padri del deserto, hanno elevato la sua vita interiore fino a quel grado nel quale è possibile effondersi senza depauperarsi. La grotta rimane rifugio di gioia dello spirito che si abbandona all’intimità cuore a cuore col suo Signore: il contatto con le anime sarà espansione di carità spontanea quasi necessaria, come la luce che illumina senza per questo esaurirsi, ma la sua vita vera, la più profonda, la più intima, è quella della sua totalitaria donazione a Dio, per la quale ogni forma di servizio compiuto in spirito di adorazione segna un arricchimento di vita spirituale. L’ascesi austerissima, alla quale aveva costretto il suo corpo in quegli anni, aveva avuto il valore di mezzo, non di fine e questo valore conservava intatto nella sua essenza di mortificazione e di rinunzia: rinunzia alla solitudine totale ora che era per lui tanto dolce, come al conforto delle relazioni più care prima, quando era necessario sradicare dal cuore il fascino dei rapporti con le creature per imparare a conoscere il sapore della parola intima del Creatore. Il monachesimo orientale era stato un movimento di proporzioni gigantesche, e a decine di migliaia i monaci avevano popolato i deserti dell’Egitto, addestrandosi nella solitudine ad un’ascesi di rigore inaudito; il mondo ne fu colpito di ammirazione entusiastica, e Roma stessa se ne lasciò affascinare, offrendo all’ideale monastico delle reclute che, per splendore di santità e di rinuncia potevano gareggiare con gli asceti dell’Oriente. A Benedetto però non poteva sfuggire il fatto che l’eroismo non è mai per le masse, difatti la rapida diffusione della vita monastica anche nell’Occidente dove penetrò tutti gli ambienti sociali, non tornò certo a vantaggio della sua vigoria interiore; l’adattamento necessario dei principi che la reggevano, lasciato alla prudenza dei singoli, non fu sempre molto felice, e ai primi fervori ben presto era venuta a succedere una inevitabile e quasi generale condizione di rilassamento. Il problema fondamentale si riduceva quindi a inserire in maniera vitale e feconda i canoni tradizionali dell’ascesi monastica nel temperamento, nella mentalità, nelle abitudini di vita, negli stessi postulati naturali del mondo occidentale. Fra tutti quei discepoli di buona volontà che venivano a lui desiderosi di una robusta disciplina di vita interiore, forse nessuno avrebbe potuto affrontare l’asprezza dell’eremo, soprattutto sotto l’aspetto di un reale ed efficace mezzo di sviluppo dello spirito in una ascensione sostenuta dalla grazia divina, certo, ma pure con l’indispensabile concorso della volontà senza una conveniente preparazione, che li allenasse alla lotta nella solitudine, la più ardua, la più dura fra tutte. Sembrava da preferirsi, quindi, una forma di vita associata, una «scuola» per le anime desiderose –ed erano già molte – di dare a Dio un servizio perfetto, in spirito e verità. Questo ideale esigeva però tutta una organizzazione materiale ed economica non indifferente, in proporzione allo sviluppo che il monastero avrebbe avuto. Da tale necessità non si poteva prescindere a garantire il normale sviluppo del monastero stesso. La colonia monastica organizzata da Benedetto a Subiaco, nucleo operoso di intensa attività spirituale, non tardò a manifestare un singolare potere di attrazione. Anche i più lontani, i distratti, i superficiali forse senza ancora approfondirne il senso vero, erano indotti a riflettere sul fenomeno che era lì, aperto allo sguardo di tutti, e che assumeva proporzioni sempre più vaste. Non si poteva sfuggire alla certezza che esisteva una forza soprannaturale, capace di strappare violentemente al mondo e di trasformare quegli uomini che, fino a ieri, erano stati come tutti, che con gli altri avevano diviso la stessa meschina vita ingombra di interessi terreni, e che ora, venissero dal patriziato o dalla più umile plebe, accomunati nell’ideale e resi fratelli dalla carità, erano impegnati nella rude battaglia per la liberazione totale della creatura nuova, nata dalla grazia, dalle pastoie del vecchio uomo di peccato, impigliato nelle sue passioni. Per i frequentatori dei monasteri sublacensi il Vangelo non suonava più come qualche cosa di astratto, irrimediabilmente lontano dalla vita, ma appariva attuato in tutta la sua santità dai monaci di Benedetto che, come lui, «avevano creduto all’Amore» e si erano impegnati a riprodurre in sé, nella maniera più perfetta, l’immagine del Cristo povero, umile, obbediente, fatto uomo per offrirsi a noi Via per la Vita. Quella muta lezione, che senza strepito di parole affermava la veracità sempre nuova delle divine promesse, esperimento vissuto delle beatitudini evangeliche, si imponeva alle anime. La buona gente dei dintorni non era più trascinata all’ammirazione di un uomo solo, dotato di doni e di virtù fuori dell’ordinario da venerarsi come un Santo, ma sempre nella categoria delle eccezioni, ora molti potevano considerare nella luce di questa vita nuova i propri figli, i propri fratelli, nati e cresciuti sotto i loro occhi, senza indizi che facessero presagire niente di speciale, e che un giorno, gioiosamente, con semplicità, avevano lasciato ogni cosa per seguire la chiamata del Signore. Dagli anni ormai lontani della segregazione nello speco, il pellegrinaggio delle anime più bisognose verso l’uomo di Dio non aveva mai conosciuto soste, ed egli non si era mai stancato di accogliere tutti, senza deludere la fiducia che induceva a cercare in lui rimedio e conforto per ogni pena del corpo o dello spirito, rimandando i fratelli sempre più illuminati, consolati di speranze eterne. Molti, sotto l’influsso di quella parola, allo spettacolo di un lavoro che non era più incentivo a maledire chi ne imponesse il peso opprimente ma mezzo di redenzione, di elevazione, compiuto in spirito di penitenza e di adorazione, avevano l’intuizione che solo sottoponendosi a quella disciplina la vita avrebbe acquistato il suo senso pieno, e chiedevano, sempre più numerosi, di abbracciarla integralmente, mentre altri tentavano di trasfonderne lo spirito nelle loro quotidiane occupazioni.
Montecassino Ma non era Subiaco, con i suoi dodici piccoli Monasteri, la missione ultima di Benedetto. Un contrasto, legato alla gelosia di un prete delle vicinanze, fu l’occasione per lui di comprendere la nuova chiamata di Dio ed egli, senza esitare, certo della sua via, si dette con impegno all’attuazione di questo suo definitivo progetto di fondazione monastica. Compiute le formalità legali alla Corte di Ravenna per entrare in possesso della rocca di Montecassino, e presi a Roma, dove non era ormai uno sconosciuto, gli opportuni accordi con le autorità ecclesiastiche, non dovette durare fatica a ottenere pieni poteri spirituali e temporali per la nuova missione alla quale si sapeva destinato dalla Provvidenza. Riordinati i dodici monasteri sublacensi sotto la direzione di superiori che ne garantissero la continuazione del tranquillo ritmo di vita, sul finire dell’inverno del 529, senza rumore, prese con sé pochi monaci e lasciò il paese che aveva visto fiorire la sua santità e dove le anime avevano così generosamente risposto all’invito della grazia. Attraverso la lunga esperienza sublacense, Benedetto aveva costruito idealmente il progetto di un unico Monastero, di tale vastità da poter accogliere tutti i monaci senza imporre frazionamenti in tante piccole comunità autonome e capace di contenere quanto sia richiesto dalla necessità della vita, acqua, mulino, orto, forno e altre eventuali dipendenze indispensabili a garantire una piena efficienza alla famiglia monastica, eliminando così l’inconveniente, grave per i monaci, di doversene allontanare con frequenza per provvedere ai bisogni più elementari. Nella nuova concezione l’edificio materiale dovrà piegarsi a garantire una delle esigenze fondamentali perché il monaco possa raggiungere il fine della sua vocazione: la separazione dal mondo, mediante l’eliminazione dei più legittimi pretesti a contatti col di fuori che inevitabilmente sarebbero a danno dell’anima. I lavori compiuti, soprattutto in contrasto allo stato di desolata incuria che presentavano le campagne circostanti, di dove, per un senso di sfiducia in un avvenire sempre incerto a motivo delle continue devastazioni barbariche, si cercava di ricavare appena il necessario a una miserabile esistenza, dovettero colpire profondamente i contemporanei. Erano un canto di speranza, un atto di fede nella vita, mentre intorno gravava l’incubo della desolazione. A Montecassino la concezione monastica di Benedetto raggiunge la sua pienezza. Lo schema della giornata monastica, e la vita dai lineamenti così ben definiti da dar quasi un’impressione di fissità, non è che l’ossatura indispensabile a reggere l’attuazione coraggiosa e concreta dell’ideale più alto che all’uomo sia dato porsi sulla terra: il raggiungimento dell’unione col suo Dio, nella maniera più intima e reale possibile, sia pure attraverso il velo della fede dal quale, finché siamo viatori, ci è vietata la visione beatifica, la consumazione dell’unione nel possesso pieno e perfetto della carità increata. Quegli uomini che, piegandosi alla inflessibile e squisitamente paterna disciplina di Benedetto, sul monte di Cassino, protetti dalla clausura che ne fa dei segregati dal mondo, lavorano e pregano, racchiudono nel loro silenzio un potente dinamismo di vita interiore, che li tiene protesi con tutto l’essere a una mèta soprannaturale, nella quale trovano il principio e il termine della loro esistenza, in apparenza incomprensibile, assurda, se ci lasciamo prendere dalla tentazione di valutarla con le nostre meschine unità di misura, fatte per le cose della terra. Essi sono, in realtà, degli appassionati cercatori di Dio che fanno faticosamente la via, in una virile ascesa di liberazione e di purificazione, per ricongiungersi al Principio della loro vita, a Dio, che aveva creato il primo uomo in una purezza perfetta, così da renderlo capace di intimità «come di amico ad amico». A sanare questa miseria senza nome, nella quale si assommano tutte le miserie umane, e che noi chiamiamo «peccato», è intervenuta la Redenzione, operata attraverso il mistero dell’Incarnazione, Passione e Morte del Figlio di Dio, il Cristo. Ma quest’opera redentrice, di una potenza e di un’efficacia infinita in sé, è, per una provvidenziale disposizione divina, limitata nei suoi effetti dal grado della nostra cooperazione ad essa, perché, secondo la bella espressione di Sant’Agostino, il Dio che ci ha creato senza di noi non ci vuol salvare senza di noi, elevandoci, conforme la nostra dignità di creature intelligenti, al grado di suoi cooperatori nell’opera di ricostruzione interiore che, dalle rovine create dalla colpa, può condurci fino agli splendori della santità. Ogni vita cristiana racchiude in sé in potenza, questa capacità di ascesa fino alla restaurazione dei più intimi rapporti con Dio, attraverso i gradi e le forme diverse della santità, che tutte implicano però rinunzia al male e adesione al bene, in un cammino senza soste che ha per termine Dio stesso. In atto, pochi uomini, nella massa immensa, si impegnano per questa via, e quelli che consentono ad attuare in sé con pienezza la Redenzione, secondando le esigenze dello spirito in perpetuo contrasto con la carne, rimangono solitari su una via poco battuta, guardati dagli altri con una specie di stupore misto a pietà. A coloro che vengono a lui, e gli chiedono di essere formati alla vita monastica, Benedetto porrà questo quesito fondamentale: se veramente cerchino Dio «si revera Deum quaerant». Se abbiano cioè ben chiaro nel pensiero la mèta da raggiungere: il possesso di Dio, l’unione a Lui, attuata progressivamente attraverso una carità ardente e inesauribile nelle sue esigenze, e, insieme, una volontà tesa al conseguimento di questo ideale, pronta a dar tutto per il Tutto, a tutte le rinunzie in misura totalitaria, senza mezzi termini. Una volontà, in una parola, che è decisa a non contentarsi di nessun bene intermedio, ma vuole, in maniera assoluta ed esclusiva, il Bene per essenza, Dio. Se un’anima ha questa disposizione iniziale, si può tentare la prova, altrimenti sarebbe inutile. La vita monastica non offre un clima adatto per gli ideali attenuati, per le mezze volontà disposte a trovarsi soddisfatte di molti beni raggiungibili con minor sforzo e con una più immediata soddisfazione: esige dei forti. A questi verrà proposto un modello: il Cristo. Tutto il metodo ascetico nel quale dovranno esercitarsi potrà ridursi a questo: guardare il Cristo e riprodurre in sé i tratti fino ad essere configurati perfettamente a Lui, fino a rendere conformi ai suoi i loro pensieri, e amare ciò che Egli ha amato, a parlare, ad agire come ha insegnato. I gradi di questa configurazione, vivificata dalla carità, segneranno i gradi dell’unione, fino a raggiungere, con aderenza perfetta, il grido dell’Apostolo: «Vivo non più io, ma vive in me Cristo». (Gal 2, 20) San Benedetto concepisce la vita del monaco come un’attività somma, lotta, corsa, ascesa faticosa. Non è infatti senza sforzo rude che si compie nell’anima questo lavoro che implica operazioni varie di eliminazione del male e di assimilazione del bene, lavoro che dura quanto la vita, e che deve proseguire senza interruzione pur negli inverni gelidi dell’anima quando tutto vi sembra morto, attraverso la violenza di suggestioni contrarie, nella deprimente constatazione di una miseria della quale non giungiamo mai a toccare il fondo. Il Monastero sul monte di Cassino non potrà essere un comodo rifugio per anime fiacche che sognano una pace idilliaca nella quale poter vivere al riparo dalle molestie della vita. Benedetto lo ha concepito come una palestra dove, in schiere compatte ci si addestra alla lotta; una fucina dell’arte spirituale dove si impara a forgiare la vita secondo le esigenze di un ideale supremo, consentendo a essere battuti sotto il maglio, attuando in sé una morte quotidiana nella gioiosa consapevolezza di dar così alla vita il suo valore più alto. Si impongono, come è logico, delle condizioni preliminari, e prima fra tutte la rinuncia radicale e definitiva a qualunque bene inferiore che potrebbe essere di impedimento alla esclusiva ricerca di Dio, o anche solo ritardarne l’impulso. Rinunzia progressiva che investe i beni materiali, le ricchezze, i beni del corpo con le soddisfazioni anche legittime che vi sono connesse, i beni stessi dello spirito, compendiati nella volontà, ciò che è più nostro, più intimo, che Dio stesso rispetta. Queste tre rinunzie mettono il monaco in uno stato di segregazione perfetta, recidendo ogni legame terreno fra lui e il mondo, dandogli, nell’atto stesso in cui si compiono il bene di una libertà che è condizione imprescindibile per il suo pellegrinaggio verso l’Assoluto. L’atto della rinuncia introduce però in uno stato nel quale bisogna custodirsi contro gli elementi che vorrebbero ritrarne il monaco, elementi esteriori ed elementi intimi i quali impongono un doppio ordine di barriere, quella esterna della clausura monastica, quella tutta interiore dell’esercizio generoso delle virtù. Esse mirano a neutralizzare l’azione della triplice concupiscenza inerente alla nostra condizione di natura decaduta, sempre in agguato per riassoggettare a sé l’uomo che le sfugge attraverso questo poderoso superamento di sé per il quale lo spirito, sorretto dalla grazia, si impone su tutti i valori della carne. Della separazione materiale dal mondo, Benedetto è geloso, con un rigore che potrebbe, a prima vista, apparire eccessivo: il monaco non appartiene più al mondo, deve con ogni cura eliminare i contatti che potrebbero mantenere o far rinascere in lui una mentalità alla quale ha rinunziato per stabilire la sua vita su un piano superiore, e regolarla esclusivamente in vista del possesso pieno del regno di Dio. Egli deve impegnarsi a superare la molteplicità che ne disperde le energie spirituali, tendendo all’unità, all’adesione totale all’«unum necessarium». Un giorno fu riferito a San Benedetto che l’eremita Martino, celebre nei dintorni per la singolare santità della sua vita, per costringersi a non uscire dalla spelonca che aveva scelto per sua dimora, dopo essersi legato un piede con una catena ne aveva fissata l’altra estremità alla roccia, costituendosi così in una rude per quanto volontaria prigionia. Tra i santi, qualche volta, ci sono delle intimità ardite e l’abate di Montecassino mandò un suo discepolo all’eremita di Monte Marsico con una singolare raccomandazione: «Se sei servo di Dio, o Martino, non ti trattenga una catena di ferro, ma la catena di Cristo». C’è in queste parole rivelatrici tutta l’anima di Benedetto, lo spirito riformatore della sua vita, della Regola che ha scritto per i suoi figli. Egli li concepisce fondamentalmente «cercatori di Dio», uomini che hanno intuito nella luce della grazia, un bene, anzi, il Bene, al quale tendono con tutte le loro energie, che sono, in altre parole, dominati da un grande amore. L’intensità di questo amore segna la profondità e la serietà dello sforzo nella ricerca, e garantisce da sola la fedeltà ai mezzi che devono condurre al fine; senza amore, a volerla misurare con le nostre banali unità di misura, la vita che Benedetto propone ai suoi figli, quella che egli stesso ha vissuto, è un assurdo. Uno dei suoi precetti più profondi è quello che chiede al monaco di non anteporre assolutamente niente all’amore di Cristo, e che esige per Dio l’amore totale con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Il motivo ultimo dell’obbedienza più assoluta, persino nelle cose che potrebbero apparire impossibili, è un solo: l’amore di Dio. Questo stesso amore che insegnerà al monaco a pregare per i nemici, ad abbracciare con generosità e con slancio, anzi a «custodire» la sua Regola, a prestare all’abate una umile e devota riverenza, non per le sue qualità umane, ma «amore Christi». L’amor di Cristo! La frase che ritorna attraverso i vari capitoli della Regola con una frequenza che non ha nulla di studiato, come la spiegazione suprema delle esigenze spirituali più austere, a tal punto, che parlando dell’obbedienza monastica, il Santo potrà dirla la virtù che conviene «a coloro che non stimano di avere niente che per essi sia più caro di Cristo»; gli altri, quelli che non amano, come potrebbero comprendere il valore di questo olocausto che è il dono più alto che una creatura possa fare a Dio? Ed è così che al culmine dei dodici gradi di umiltà, che racchiudono un rude cammino ascensionale di perfezione, la mèta, il compenso che giustifica ogni sforzo sarà il raggiungimento della carità perfetta, la gioia dell’esercizio della virtù, il possesso pieno di Dio. Come la vera forza vincolatrice del monaco, che lo lega indissolubilmente al suo monastero, sarà la «catena Christi» l’amore che trascende ogni altro amore, la gioia e la inesauribile forza della sua vita di cercatore di Dio. In questa luce non stupisce il modo con cui Benedetto è morto: giunto il momento – da lui stesso previsto – della sua morte volle essere trasportato nell’oratorio dove, circondato dalla corona dei figli, che sostenevano in piedi il suo corpo sfinito dalla febbre, si munì del viatico di vita, di misericordia, di carità per il passo estremo, cioè del Corpo e del Sangue di Cristo, poi, tese le mani al Cielo in una preghiera di ringraziamento nella quale vibrava intensa l’ansia della comunione eterna, sempre in piedi, buon soldato di Cristo, dopo aver combattuto la buona battaglia, rispondendo pronto all’invito, entrò nel gaudio del suo Signore. In quello stesso giorno, due monaci lontani da Montecassino ebbero, l’uno nella propria cella, l’altro molto lontano da lui, una identica visione. Apparve loro infatti una via trionfalmente ornata di drappi e scintillante per la luce di lampade innumerevoli che congiungeva la cella del loro Santo Padre col cielo. Su di essa, un uomo dall’aspetto nobile e venerando chiese loro che via fosse quella, e avendo essi risposto che non lo sapevano, spiegò: «Questa è la via attraverso la quale Benedetto, il diletto di Dio, ascese al cielo».
Conclusione E possiamo terminare con le notissime espressioni di un altro grande Papa, Paolo VI, che proprio a Montecassino il 24 ottobre 1964 in occasione della consacrazione della chiesa dell’Archicenobio disse: «… sì, la Chiesa ed il mondo, per differenti ma convergenti ragioni, hanno bisogno che San Benedetto esca dalla comunità ecclesiale e sociale, e si circondi del suo recinto di solitudine e di silenzio, e di lì ci faccia ascoltare l’incantevole accento della sua pacata ed assorta preghiera, di lì quasi ci lusinghi e ci chiami alle sue soglie claustrali, per offrirci il quadro di un’officina del «divino servizio», d’una piccola società ideale, dove finalmente regna l’amore, l’obbedienza, l’innocenza, la libertà dalle cose e l’arte di bene usarle, la prevalenza dello spirito, la pace in una parola, il Vangelo. San Benedetto ritorni per aiutarci a ricuperare la vita personale; quella vita personale, di cui oggi abbiamo brama ed affanno, e che lo sviluppo della vita moderna, a cui si deve il desiderio esasperato dell’essere noi stessi, soffoca mentre lo risveglia, delude mentre lo fa cosciente. Ed è questa sete di vera vita personale, che conserva all’ideale monastico la sua attualità. (Al tempo di S. Benedetto il ritirarsi dal mondo era motivato) dalla decadenza della società, dalla depressione morale e culturale d’un mondo, che non offriva più allo spirito possibilità di coscienza, di sviluppo, di conversione; occorreva un rifugio per ritrovare sicurezza, calma. studio, preghiera, lavoro, amicizia, fiducia. Oggi non la carenza della convivenza sociale spinge al medesimo rifugio, ma l’esuberanza. L’eccitazione, il frastuono, la febbrilità, l’esteriorità, la moltitudine minacciano l’interiorità dell’uomo; gli manca il silenzio con la sua genuina parola interiore, gli manca l’ordine, gli manca la preghiera, gli manca la pace, gli manca se stesso. Per riavere dominio e godimento spirituale di sé ha bisogno di riaffacciarsi al chiostro benedettino». (Dossier a cura delle Monache benedettine di Santa Maria di Rosano, Agenzia Fides 23 maggio 2009)
Crisi e rinnovamento della morale (24 maggio 2009)
L'attuale crisi della morale ha avuto un lungo processo di gestazione. Anzitutto c'è stata la crisi del riferimento trascendente. Il cammino dell'autonomia della morale inizia con Grozio (1583-1645), che sostiene che dobbiamo imparare a vivere moralmente come se Dio non esistesse. Il fondamento del nostro agire morale non viene più cercato nel Dio trascendente, ma nella nostra stessa natura umana. Si è mossi non dalla volontà di rimuovere l'idea di Dio, ma di trovare una base comune al di là delle contrapposizioni sul piano religioso, al di là delle differenze confessionali, causa di guerre e lacerazioni. Il passaggio da una morale fondata sulla religione ad una morale fondata sulla natura ha l'elaborazione più compiuta in Kant. Kant non bandisce l'idea di Dio dall'ambito del discorso morale, ma non fa più di Dio il presupposto della morale. Nel passato la morale veniva fatta derivare dall'idea di Dio creatore. Si partiva dal mondo per dimostrare l'esistenza di Dio, da cui venivano fatte derivare le regole di condotta per l'uomo (Dio principio dell'essere e del dover essere). Kant nega la passibilità per l'uomo di risalire dal mondo all'esistenza di Dio (l'ambito del conoscere è quello dell'esperienza). L'uomo può cogliere il carattere vincolante delle norme etiche prescindendo dal principio di Dio come dover essere attraverso la ragione esistenziale etica pratica. Abbiamo direttamente una intuizione dei valori morali, dell'imperativo categorico senza condizioni. Non "devi" perché Dio comanda così, ma il "devi" ha la trasparenza e la capacità di legittimare se stesso. Il mio io, individuo, è portatore di questo mistero-voce-valore-presenza di valore universale. È dentro di me: non io prendo lui, ma lui prende me. Senza togliere nulla della sua assolutezza Kant porta dentro l'uomo la voce-legge che è la fonte del comportamento morale dell'uomo. L'autonomia della morale non significa che io sono legge a me stesso, ma che la legge è in me senza appartenermi, anzi alla quale io appartengo. L'uomo diventa adulto in quanto non riceve più dall'alto, ma ha in sé la capacità di giudicare le realtà fondamentali che orientano la sua vita. Maturità è la vera statura intellettuale e morale per cui l'uomo sa regolarsi da sé (Tommaso d'Acquino: l'uomo virtuoso giudica il male e il bene per connaturalità e non perché gli viene detto da una legge esterna). Kant dà una formulazione rigorosa alla linea dell'interiorità della legge morale. Storicamente, ben oltre le intenzioni di Kant, la sua posizione è il primo passo di un processo che porta alla crisi morale di oggi. Un secondo momento del processo di crisi della morale è il passaggio dall'universalità delle leggi morali alla loro relatività e condizionatezza storica, causato dall'incontro con le culture "altre". Nel Cinquecento vi è la scoperta dell'America (ma non degli americani), vi è la scoperta di una terra, ma non di coloro che vivevano su quella terra con una propria identità e cultura. Vi sono due reazioni: una di condanna nei confronti di costumi diabolicamente diversi; un'altra di identificazione, per la scoperta di popoli che avevano una sostanziale identità di condotta morale nonostante l'assenza di evangelizzazione. In ogni caso non veniva riconosciuta la loro alterità. Invece proprio la diversità di culture divenne oggetto di studio da parte dell'etnologia nell'Ottocento. La cultura è l'insieme della prassi dell'uomo e delle espressioni in cui questa prassi si oggettiva dalle più elementari alle espressioni più alte (dagli strumenti, ai disegni, ai miti, ai riti...). Fu un cambiamento radicale di prospettiva: non siamo noi europei ad essere la civiltà nei confronti degli altri, ma ogni civiltà è un valore in sé, autonomo, che va giudicato per se stesso. I valori morali non sono più universali, ma sono funzionali all'interno di una certa cultura. Il terzo passo di erosione del sistema delle sicurezze morali avviene con Marx, il quale sostiene che la morale dominante è la morale delle classi dominanti. La classe borghese, detentrice dei mezzi di produzione materiale, detiene anche l'ideologia che giustifica questo possesso. Il disordine morale non è più solo legato alle scelte individuali difformi dall'ordine sociale, ma il disordine morale è già dentro l'ordine sociale stesso. Quarta figura dell'itinerario di crisi della morale è il passaggio da una concezione del valore assoluto delle norme morali al loro valore relativo, cioè funzionale, secondo la metapsicologia di Freud. Per Freud principio del piacere (ricerca della propria soddisfazione) e principio di realtà sono alla base della costituzione del soggetto. Non è possibile convivere se non si disciplina il principio di piacere sulla realtà (presenza di ostacoli e presenza di altri). L'istanza del principio di realtà è rappresentata per il bambino dai genitori, in particolare dalla figura paterna, che viene progressivamente interiorizzata (super-io). La morale è questo super-io, io ideale che fa da normatore, da disciplinatore della ricerca del piacere che, lasciata a se stessa, diventerebbe minacciosa per gli altri e per contraccolpo per l'individuo stesso. La morale è funzionale alla conservazione dell'individuo e della specie. L'imperativo categorico o la voce della coscienza non è altro che la interiorizzazione delle norme di comportamento che la società impone all'individuo. Qui si consuma il processo di perdita di consistenza del principio morale. Anche l'idea di bene non è che l'espressione del nostro bisogno di conciliare il soddisfacimento dei nostri bisogni con i bisogni degli altri. Anche il bene è funzione per campare su questa terra. Figure fondamentali della morale: morale della natura La si ritrova in tutta la storia delle civiltà dalle più primitive alle più elaborate. Natura (dal latino nascere) è il principio da cui nasce tutto ciò che esiste e contemporaneamente è l'insieme ordinato di tutto ciò che esiste. La natura è percepita come divina, trascendente nel senso che l'uomo si trova immerso in questo grande organismo vitale, da cui sa di dipendere. Non solo il suo essere ma anche il suo dover essere è imposto dalla appartenenza alla natura. Per millenni questa concezione è stata patrimonio comune dell'umanità, in parole tradotte in simboli e miti. I miti, che non sono leggende o favole, sono racconti che esprimono in forma narrativa (non in forma concettuale come facciamo noi oggi) le leggi profonde della vita, la legge radicale della natura che dà all'uomo l'essere e gli impone il dover essere, perché solo assecondando la natura l'uomo può salvaguardare la propria vita e prolungarla e passarla ai figli. L'uomo deve ripetere i gesti compiuti originariamente dagli dei o dagli eroi "in illo tempore". La condotta dell'uomo è buona o giusta quando rispecchia il comportamento divino. In termini concettuali diciamo che l'uomo non inventa la propria condotta, non progetta la propria esistenza, ma cerca di cogliere le movenze della natura per assecondarle nella propria condotta. È un'etica naturale. Di fronte a nuove situazioni e in assenza di modelli da seguire subito nasce l'esigenza di inventarne di nuovi e di mitizzarli, di divinizzarli nel racconto mitico. Anche con l'avvento del logos nella cultura greca permane, anche se in modo più articolato, questo rapporto con la natura come principio di condotta dell'uomo. Ogni cosa partecipa del mondo, come cosmos ordinato. Dentro il cosmo ordinato c'è la polis, l'aggregazione umana con le sue leggi che sono un riflesso delle leggi cosmiche. Dentro la polis c'è l'individuo, piccolo cosmos, che deve vivere in armonia con il cosmo. L'uomo, a differenza delle altri parti del cosmo, ha il logos e deve pertanto conoscere i ritmi del mondo per adeguarvisi. La virtù è emanazione automatica della conoscenza (illuminismo greco). Questa concezione passerà nella tradizione cristiana: ciò che costituisce la bontà della condotta umana è la conformità all'ordine naturale delle cose, percepito come frutto dell'intervento creatore di Dio. La natura, insieme sdivinizzata (è creatura) e ridivinizzata (concetto di partecipazione), esige una grande rispetto. Questa concezione di natura come espressione della verità di Dio è alla base della lettera enciclica Humanae vitae (1968) che ritiene illecite le manipolazioni dei ritmi della natura. Nella tradizione cristiana però c'è la convinzione che la coscienza ha valore normativo, che deve essere seguita (anche nel caso di giudizi non corrispondenti allo stato delle cose). Nel naturalismo pesante dell'etica cristiana c'è così una breccia: l'assecondamento della natura non è l'unica fonte della rettitudine morale dell'uomo. L'etica del progetto Qui la ragione ultima della condotta dell'uomo è la stessa libertà del soggetto umano, la sua autoprogettualità. L'uomo non è buono perché si commisura ad una bontà del mondo, a una bontà della propria essenza, a una bontà del disegno di Dio. Inizialmente l'uomo non è né buono né cattivo. È buttato nel mondo e si trova ad esistere col dinamismo di progettare, di scegliere. L'uomo è l'esistente la cui esistenza consiste nel formulare progetti di sé. La libertà trae da se stessa i suoi ordinamenti (Sartre). Non è libertà pura e deve tener conto della realtà per non fallire. La realtà non presenta norme, ma solo ostacoli o opportunità da sfruttare. Questa concezione dell'etica si sta ulteriormente diffondendo con il trionfo della tecnologia, che tende a ritenere la natura non più un cosmo ordinato ma un insieme di materie prime disponibili all'intervento umano. Al di fuori di me ci sono o materiali non ancora toccati dal progetto dell'uomo, o materiali già elaborati da altri, ma privi di valori per me. Il valore è circoscritto all'autore di ogni singolo progetto. La situazione attuale è però anche di confusione: nelle stesse persone albergano una visione progettuale e una visione naturalistica (giovani che insieme sono abortisti ed ecologisti). Morale della persona Un'etica della persona è irriducibile ad un'etica naturalistica (semplice gestione dell'esistente) o ad un'etica progettuale. Questa irriducibilità appare già nella tradizione biblica, in cui non esiste il concetto teorico di natura come il tutto, né il concetto dell'uomo che si costruisce in assoluta autonomia. L'etica nella bibbia si esprime nell'uomo di fronte al Dio-altro che lo chiama. Il riferimento biblico non ha valore solo per chi parte da presupposti di fede. La morale della persona coinvolge l'uomo nel nucleo della sua soggettività e si costituisce di fronte ad una istanza originaria, l'istanza del giusto, del bene. Nella tradizione biblica l'etica si costituisce nel rapporto di alleanza tra Dio e Israele. Israele conosce Dio per quello che Dio fa per lui, per l'atto di liberazione dall'Egitto, atto con cui Dio si fa Signore di questo popolo. Questo atto è sollecitato dal grido di Israele oppresso. Alle spalle del rapporto tra Dio e Israele non c'è già una certa idea filosofica o anche religiosa per quello che Dio sarebbe in se stesso o per quello che avrebbe fatto sul piano universale, il suo essere creatore del cielo e della terra. Solo successivamente Israele rifletterà sul rapporto tra Dio e l'intera umanità. L'idea che Israele ha di Dio non è ricavata dall'idea generale di un Dio creatore o causa del mondo, ma dall'esperienza del rapporto a partire dalla quale risalirà all'idea di Dio creatore. Una morale della persona che parta dall'idea di Dio creatore per concludere con un Dio principio dell'etica compie un salto non permesso dalla logica. Affermare: Dio ti ha creato dunque gli devi obbedienza, contraddice con il fatto che non mi ha chiesto di crearmi. Così pure è illogico dedurre l'obbedienza dall'asserzione: Dio è buono perché mi ha dato la vita. Resta da dimostrare che la vita è buona. È buona perché me l'ha data lui? È un circolo vizioso. La mia esperienza del mondo è tale che la bontà del reale è estremamente problematica. Dopo Auschwitz è possibile parlare di bontà ma anche di malignità o indifferenza. Il cammino religioso di Israele dimostra che la base di partenza non è l'idea di Dio creatore, ma l'esperienza diretta. Prima c'è l'alleanza, poi la creazione. È un primum come istanza di giustizia. L'etica della persona nasce qui, in questo comprendermi come alla presenza di una istanza assoluta. Ciò che qualifica la mia esistenza è la libertà che porta dentro di sé una vocazione, una libertà che crea responsabilità. La natura agisce secondo come è fatta, la libertà sceglie, vuole, decide di agire. L'etica è la libertà che emerge al di sopra della natura. Non è libertà di fronte ad un vuoto di indicazioni, ma è libertà chiamata, restando libertà. Ciò che mi fa persona è che la mia adesione al bene porta dentro di sé la vittoria della possibilità del male. Il mio sì mi segna come persona positiva, il no come persona negativa. Dio non ha creato il male nel mondo, ma ha creato questa situazione di discrimine tra il bene e il male che comporta la possibilità che io introduca il male nel mondo. Essere persona è assumere tutta la propria natura dentro un atto di libera scelta. Una scelta che sceglie di accettare la misura che le viene offerta da questo senza volto che è l'istanza di giustizia, di bene. Morale della persona di fronte agli altri Noi siamo per costituzione biopsichica egocentrici, il nostro rapporto con l'altro è in relazione con le sue qualità. Accogliamo l'altro se le sue qualità ci possono servire, lo espelliamo se ci minacciano. Persino l'amore materno può essere una forma di egocentrismo. Nell'atto etico non vedo l'altro come strumento per la mia realizzazione. La nuda presenza dell'altro diventa la misura del mio esistere, negativamente nel non uccidere (non posso disporre dell'altro, l'altro anche il più indegno, anche Caino, non mi appartiene), positivamente nel promuovere la vita dell'altro. L'esempio evangelico è la parabola del buon samaritano. La presenza del principio di giustizia e di bontà mi fa libertà responsabile nei confronti dell'altro. L'altro diventa mio fratello restando altro. È l'amore di agape di Paolo (1Cor) senza il quale non sono nulla anche se mi faccio in quattro. È un amore molto concreto e che non tramonta mai. Nel mondo delle realtà ultime ci sarà il pieno dispiegamento di cos'è l'amore. Io sono persona in quanto sono libertà responsabile e tratto l'altro come persona, come qualcosa che non mi appartiene, come fine in sé e non come mezzo. C'è questo triangolo: Dio come signore dell'esistenza dell'uomo, l'altro come povero radicale, io come libertà responsabile. Morale della persona di fronte alle cose Il rapporto con l'altro è rivestire, nutrire, scaldare quella carne bisognosa: è un rapporto che passa attraverso le cose. Le cose sono lì per essere assunte dalla mano che si lascia guidare dalla libertà responsabile e messe a disposizione della carne bisognosa. Le cose sono create buone, cioè sono al servizio della bontà come rapporto interpersonale. Nel concetto biblico di creazione non c'è il tema della produzione dal nulla, ma della destinazione delle cose all'altro. La dimensione più profonda delle cose è la intenzionalità di dono: dalla persona come libertà responsabile alla persona come esistenza bisognosa. La dimensione strumentale e fruitiva delle cose è avvolta dentro la intenzionalità ultima. L'essere è definito dal dover essere, l'ontologia dall'etica. morale della persona di fronte a se stessi Anch'io sono carne bisognosa, piena di esigenze, di attese, di bisogni di cose. Anch'io sono povertà radicale. Sono come l'altro e scoprendo l'altro scopro me stesso. Scopro cos'è l'amore giusto alla presenza dell'altro. È l'altro che mi viene anzitutto affidato e poi, attraverso la mediazione di questa presenza, scopro l'altro che è in me ed amo anche me stesso di un amore giusto. Un'etica della persona è anche un'etica della cura di se stessi, un'etica che ritrova l'istanza della felicità dentro l'istanza della obbligazione. Nell'esodo verso l'altro sotto il segno dell'istanza di giustizia, si può tornare a riprendere se stessi. (Armido Rizzi, Relazione tenuta all’Associazione Culturale "don G. Giacomini", Verbania Pallanza, 15-16 dicembre 1984)
La devozione alla Madonna di Fatima (17 maggio 2009)
Nel 1985, il Cardinale Joseph Ratzinger, allora
prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, venne
interrogato dal giornalista italiano Vittorio Messori a proposito della
terza parte del «segreto di Fatima», che non era ancora stata svelata.
Al giornalista che si mostrava preoccupato di qualche cosa di
«terribile» che si supponeva ci fosse in questo segreto, il futuro Papa
rispondeva: «Se anche ci fosse, ebbene, questo non farebbe che
confermare la parte già nota del messaggio di Fatima. Da quel luogo è
stato lanciato un segnale severo, che va contro la faciloneria
imperante, un richiamo alla serietà della vita e della storia, ai
pericoli che incombono sull'umanità. È quanto Gesù stesso ricorda assai
spesso, non temendo di dire: Se non vi convertite tutti, perirete (Lc
13,3). La conversione – e Fatima lo ricorda in pieno – è un'esigenza
perenne della vita cristiana» (Rapporto sulla fede: Vittorio Messori a
colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, Edizioni Paoline, Cinisello
Balsamo (Milano), 1985, p. 111).
La Bibbia, il bestseller del mondo (10 maggio 2009)
In principio era la "Bibbia di Gutenberg". Non solo un capolavoro dell’arte tipografica, ma il primo libro che si conosca nella storia della stampa nel mondo occidentale. Correva infatti l’anno 1455 quando, a Magonza, Johannes Gutenberg, assistito da Johann Fust e Peter Schoeffer, dava inizio alla rivoluzionaria impresa che avrebbe impresso una svolta alla cultura e all’economia europea. Naturalmente, essendo la Bibbia in latino ed essendo state tirate un numero limitato di copie (35 su pergamena e 150 su carta) – come peraltro era d’uso a quel tempo (200-250 esemplari) – non ci poteva essere all’inizio una grande circolazione. Ma intanto la strada era spalancata. Da Gutenberg in poi, la Bibbia diventerà infatti un punto di riferimento costante della vita culturale ed editoriale e, nel momento in cui cominceranno a uscire le versioni in volgare – la prima delle quali, in tedesco, pubblicata nel 1466 a Strasburgo da Johann Mentelin – la diffusione si estenderà a dismisura. Ogni Paese ha delle date importanti da ricordare nella storia editoriale delle Bibbia. Per l’Italia, l’anno d’inizio si può fissare al 1471, quando viene stampata la prima Bibbia (in latino): esattamente a Roma, per merito di Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz, i due tipografi che, da Magonza, si erano inizialmente trasferiti a Subiaco, introducendo l’arte della stampa in Italia. Ma il 1471 è anche l’anno in cui viene pubblicata a Venezia, per i tipi di Wendelin von Speyer (Vindelino da Spira), la prima versione italiana della Vulgata, per le cure di Niccolò Malerbi, che diventerà subito celebre e della quale, nel 1490, si farà a Venezia anche un’elegante edizione illustrata, con xilografie riprese più volte nelle edizioni degli anni successivi. Per la Chiesa l’invenzione della stampa a caratteri mobili era certo una grande opportunità ma, al tempo stesso, anche una sfida di vasta portata. La Chiesa era infatti consapevole degli enormi vantaggi offerti dalla moltiplicazione e dalla circolazione dei libri, e non solo se ne serviva, ma si poneva in prima fila nel promuovere e incoraggiare le attività editoriali. In realtà, l’opera di evangelizzazione e formazione della Chiesa trovava subito nel libro un mezzo di comunicazione estremamente rapido ed efficace e, fin dai suoi primi inizi, infatti, gli scritti religiosi erano di gran lunga i più stampati, i più letti e i più ricercati in tutta Europa. D’altra parte, però, più la stampa dilatava la propria sfera di penetrazione e d’influenza, più crescevano le preoccupazioni per i pericoli derivanti dalla diffusione di scritti poco ortodossi o decisamente contrari alla fede e alla morale cattolica. I primi allarmi arrivavano proprio dalla Germania, dove l’arte della stampa aveva trovato il suo atto di battesimo ufficiale, e nei Paesi in cui – primo fra tutti l’Italia, con Venezia in testa – essa aveva conosciuto un più rapido e consistente sviluppo. Le autorità locali cominciavano a sottoporre i libri a censura, si ponevano sotto controllo autori e tipografi, si faceva divieto di stampa senza licenza ecclesiastica, si cominciavano a ricercare le opere sospette e a mandarle al rogo. Con la bolla Inter multiplices di Innocenzo VIII (17 novembre 1487) questi interventi di censura preventiva e repressiva venivano sanciti in forma ufficiale: il documento pontificio rappresenta, in realtà, il primo tentativo di definire in modo chiaro e organico l’azione da intraprendere per porre un argine alla diffusione di errori dottrinali o di idee ritenute comunque lesive dell’integrità della fede e generatrici di confusione nelle menti dei fedeli. Una nuova bolla, con lo stesso titolo, veniva emanata da Alessandro VI il 1° giugno 1501 ed era indirizzata prevalentemente alla Germania e agli Stati tedeschi, dove stavano circolando da diverso tempo – come attestano gli interventi censori e le sanzioni comminate a Colonia, Magonza, Basilea, Würzburg tra il 1479 e il 1483 – scritti eterodossi, libri di magia, edizioni scorrette della Bibbia. La bolla non modificava la sostanza del precedente atto pontificio, ma piuttosto, ribadendolo, ne sollecitava quell’applicazione rapida e severa che esso non aveva avuto. In realtà, se non mancavano da parte della Chiesa periodici e anche solenni richiami – come la bolla Inter sollicitudines di Leone X (4 maggio 1515), emanata durante il V Concilio Lateranense –, disposizioni di scomuniche e sanzioni pecuniarie, non si intravedevano tuttavia provvedimenti e azioni di controllo efficaci che di fatto li attuassero. La questione andava facendosi preoccupante con il passare degli anni. Le prediche e le lezioni di Lutero si diffondevano e la Riforma cominciava a prendere il largo. La bolla Exsurge Domine (15 giugno 1520) contro gli errori di Lutero; il rogo pubblico dei suoi libri, prima a Lovanio, poi a Liegi, Colonia, Magonza e Wittenberg – città dove, tra il 1522 e il 1524, verrà pubblicata per la prima volta in tedesco la cosiddetta "Bibbia di Lutero" e, nel 1545, la versione definitiva e ufficiale –; infine la bolla di scomunica Decet Romanum Pontificem (3 gennaio 1521) non scalfiranno minimamente la sua influenza. Anche in Italia, intorno al 1520, facevano la loro comparsa scritti luterani, introdotti clandestinamente da librai, mercanti, studenti forestieri e mercenari d’oltralpe, ma diffusi anche in traduzione dai primi simpatizzanti italiani. Venezia, centro attivo del commercio librario e crocevia del traffico e degli scambi internazionali, era diventata anche il più importante punto di smistamento, produzione e sostegno del movimento protestante. Ma anche in Lombardia, Toscana, Emilia, a Roma e a Napoli i libri ereticali si stavano propagando con notevole rapidità, innescando un processo di reazioni a catena. Disposizioni e provvedimenti si moltiplicavano ovunque. A Milano il duca Francesco II Sforza è il primo ad andare oltre l’episodico sequestro di libri e a emanare severi provvedimenti contro chiunque fosse stato trovato in possesso di testi protestanti (marzo 1523). E, sempre a Milano, il Senato della città emanerà il primo – per l’Italia – Indice dei libri proibiti (18 dicembre 1538). Per quanto sia improbabile che questo indice abbia avuto effetti concreti e quindi restando più che altro un atto dimostrativo, non è però da sottovalutare il notevole significato che esso rivestiva, soprattutto in relazione al fatto che neppure a Roma si era preso un provvedimento del genere. Più tardi (8 gennaio 1543), un altro editto del governatore della città e dello Stato di Milano contro l’introduzione di scritti protestanti in genere e in particolare di quelli di Bernardino Ochino (le cui Prediche saranno bruciate pubblicamente nel febbraio del 1543) dava il via ad analoghi decreti in varie parti d’Italia: nello stesso anno la Repubblica di Venezia (12 febbraio), la Congregazione del Sant’Uffizio per Roma, Bologna, Ferrara e Modena (12 luglio) e successivamente – tra il 1544 e il 1550 – Mantova, Lucca, Napoli e Firenze seguivano il capoluogo lombardo nel prescrivere divieti e nel decretare sanzioni. Lucca (1545), Siena (1548) e Venezia (1549) saranno – dopo Milano – le prime città in cui si promulgheranno indici di libri proibiti. Questo contesto è necessario per capire anche il clima in cui si diffonde la Bibbia in Italia. Già negli anni Trenta del Cinquecento si tocca una tappa fondamentale nella storia delle traduzioni bibliche: la versione in lingua italiana di Antonio Brucioli dell’intera Bibbia (1532), condotta non sul testo latino della Vulgata, ma sui testi originali. Sul finire del secolo, poi, la "Bibbia Sistina" (1590) e, due anni dopo, la "Bibbia Sisto-Clementina" (edizione rivista e emendata della precedente) metteranno un punto fermo, ufficiale e definitivo, al testo della Vulgata. Quanto queste edizioni saranno diffuse nel mondo cattolico, altrettanto lo sarà nel mondo protestante la versione italiana della Bibbia di Giovanni Diodati, pubblicata per la prima volta a Ginevra nel 1607 e – a partire dalla nuova edizione rivista del 1641 – destinata a diventare classica. Nel Seicento e nel Settecento – soprattutto per il moltiplicarsi in tutta Europa di edizioni in lingua volgare e in formati maneggevoli – la Bibbia conoscerà un periodo di grande espansione. In Italia un successo straordinario avrà la traduzione italiana della Bibbia realizzata da Antonio Martini, poi arcivescovo di Firenze (1781). Fra il 1769 e il 1781 escono infatti a Torino, presso la Stamperia Reale, i 23 volumi della sua edizione della Bibbia, ristampati a Napoli nelle Officine Simoni tra il 1777 e il 1781; poi a Firenze, nella Stamperia Arcivescovile, tra il 1782 e il 1792 (in 16°, anziché in 8° come le precedenti edizioni). Questa traduzione – continuamente ripresa – diventerà per tutto l’Ottocento e il primo Novecento la Bibbia di riferimento dei cattolici italiani. Nella seconda metà dell’Ottocento un cenno particolare meritano i due volumi in folio, pubblicati a Milano da Treves nel 1869-1870, dell’edizione illustrata con i disegni di Gustavo Doré: edizione di successo, con numerose ristampe ed edizioni anche nella prima metà del secolo scorso. Si arriva così al Novecento, con edizioni che non solo si moltiplicano, ma segnano, per un aspetto o per l’altro, dei momenti importanti nella storia della diffusione della Bibbia in Italia. Nel 1933 viene pubblicata dal Pontificio Istituto Biblico di Roma l’edizione critica del testo greco e latino curata da Augustin Merk; nel 1936 viene riprodotta per la prima volta dall’editore Bestetti la magnifica "Bibbia di Borso d’Este", capolavoro della miniatura rinascimentale, che si conserva alla Biblioteca Estense di Modena; tra il 1943 e il 1958, esce in dieci volumi la "Bibbia Salani", tradotta dai testi originali sotto la direzione di Alberto Vaccari; nel 1960 Marietti pubblica un’apprezzata Bibbia in tre volumi, a cura e sotto la direzione di Salvatore Garofalo; nel 1963, Enrico Galbiati, Angelo Penna e Piero Rossano pubblicano per la Utet una nuova e storicamente fondamentale traduzione della Bibbia, che servirà anche come base per la traduzione della Conferenza episcopale italiana (1971). Fra il 1967 e il 1980 le Edizioni Paoline di allora (oggi Edizioni San Paolo) lanciano la "Nuovissima versione della Bibbia dai testi originali" (in 48 piccoli volumi), che avrà larghissima diffusione, soprattutto nel volume unico pubblicato a partire dal 1983. Nel 1985 le Edizioni Dehoniane di Bologna propongono con grande successo l’edizione italiana della celebre Bible de Jerusalem, nella sua nuova edizione (1984), così come nel 1992, per le cure del Centro catechistico salesiano, viene apprezzata la traduzione italiana delle note e dei commenti della Tob (Traduction Oecuménique de la Bible), nella sua nuova edizione (1985). Infine, nel 1995, su progetto di Luciano Pacomio, esce l’importante edizione – estesamente introdotta e commentata da numerosi specialisti – della "Bibbia Piemme". Il nuovo capitolo della storia della Bibbia in Italia nel Novecento comincia comunque nel 1971. Come 500 anni prima, anche il 1971 determina infatti una svolta, perché in questo anno esce, sotto la guida di Salvatore Garofalo, la versione ufficiale e tipica per l’uso liturgico promossa dalla Conferenza episcopale italiana. Questo capitolo si è ora riaperto con la nuova traduzione della Bibbia Cei (2008) che – a partire dal 2009 – è la base anche di tutte le altre edizioni, integrali o parziali, che già sono presenti sul mercato (Edizioni San Paolo, Periodici San Paolo, EDB, Àncora, Paoline, Città Nuova...) o che stanno per arrivarvi (come la " Bibbia Tob" della ElleDiCi). Con la speranza, naturalmente, che poi questo permanente bestseller (che in Italia, tra edizioni complete e parziali, vende diversi milioni di copie ogni anno, non resti un soprammobile tra gli scaffali di casa, ma diventi Parola per la vita. (Giuliano Vigini, Jesus, 5 maggio 2009)
L’utopia di Francesco, realizzata, realizzabile? (26 aprile 2009)
Il termine «utopia», tratto dal greco, fu inventato da Tommaso Moro, che lo pose come titolo del suo libro, pubblicato nel 1516. Uomo di stato e pensatore, Moro fu decapitato sotto Enrico VIII e proclamato santo e martire dalla chiesa cattolica. «Utopia» significa letteralmente «un luogo che non esiste», «un nessun luogo». Nell’uso corrente ai nostri giorni questo termine designa qualcosa di ideale, generalmente positivo, bello, una promessa di felicità che ci si augura e che si desidera, ma che non esiste – per lo meno non ancora – nella realtà. Volendo utilizzare le parole di un filosofo (H. Deroche), si tratta di una «realtà irreale», di «una presenza assente», di «un altrove nostalgico». Da quando l’umanità esiste e prende coscienza della sua reale condizione, dove la vita e la morte, il bene e il male, la felicità e la sofferenza sono sempre presenti, coabitando e opponendosi reciprocamente, gli esseri umani non cessano di sognare, di immaginare un luogo e un tempo, sia del passato – paradiso – sia del futuro, dove ciò che limita, che fa soffrire, scomparirebbe, dove non ci sarebbe nient’altro secondo il poeta (C. Baudelaire) che «ordine e bellezza, lusso, piacere e voluttà». Già nell’antichità greca e latina, in Omero, Platone, Ovidio e Virgilio, si parlava dell’Atlantide, di «isole di felicità totale», di una razza d’oro che viveva in una primavera eterna, «di un paese dei frutti dorati», di una «Repubblica» governata da leggi ideali.
L’utopia religiosa Secondo il filosofo Antonio Gramsci, «la più gigantesca utopia sorta nella storia sono le religioni»; grazie alle loro prospettive ed esigenze, le religioni offrono infatti orizzonti che si possono qualificare a giusto titolo come «utopici». Ciò che propongono, supera, relativizza, scuote la pesantezza del reale e l’orienta verso un mondo che deve venire: è la «vita venturi saeculi». Limitandoci al cristianesimo e alle sue radici ebraiche, già l’antica alleanza annuncia e promette nuovi cieli e nuova terra (Is 65,17), dove «il lupo dimorerà con l’agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà, […] il lattante si trastullerà sulla buca della vipera, il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. Non agiranno più in modo iniquo o violento […] perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare (Is 11,6-9». Verrà pure un giorno in cui Dio «eliminerà la morte per sempre, asciugherà le lacrime su ogni volto e preparerà per tutti i popoli un banchetto di festa» sul suo monte santo (cf. Is 25,6-8). E benché sia «grande la malvagità degli uomini sulla terra» (Gn 6,5) e il loro «cuore sia pieno sempre di cattivi progetti» – ed è qui la radice di tutti i mali personali e sociali – tuttavia un giorno le esigenze della legge che è fonte di vita e che non si riesce mai a compiere perfettamente, saranno scritte da Dio stesso «dentro il cuore dell’uomo, nel profondo del suo essere» (cf. Ger 31,33). Inaugurando la nuova ed eterna alleanza, Gesù proclama «l’evangelo», la gioiosa notizia della venuta del regno di Dio. Il volto di questo Dio, chiamato sempre Padre, è un volto d’amore e di tenerezza, rivolto a tutti gli omini, buoni o cattivi che siano. È un Dio che li salva per mezzo del Figlio, venuto nel mondo come umile servitore che si consegna alla morte per loro amore. Questo Dio introduce gli uomini in una intimità inaudita, quando insieme al Figlio discende in essi per porvi la sua dimora (Gv 14,23). Gesù stesso, una volta glorificato, li prenderà con sé, affinché siano anch’essi là dove c’è lui (Gv 14,3), seduti su troni, mangiando e bevendo alla tavola nel suo regno (Lc 22,30): è questo il mondo meraviglioso che ci descrive l’Apocalisse. Questa prossimità, questa umanità di Dio, la felicità di cui fa partecipe l’uomo, supera tutto quanto si potrebbe immaginare e desiderare; è veramente una «realtà irreale», un’«utopia». La stessa cosa, sotto un altro aspetto, avviene per tutto quello che riguarda il comportamento nuovo richiesto a coloro che accettano l’evangelo di Gesù. Ad essi viene domandato di cambiare radicalmente modo di vivere, è la metanoia, la conversione: bisogna amare Dio sopra ogni cosa, come pure il prossimo, anche i nemici; perdonare, evitare la violenza, condividere i beni, essere pronti a lasciare questi beni per amore di Gesù, mettersi al servizio gli uni degli altri, pur sapendo che si è «servitori inutili». Sapendo di che cos’è fatto l’uomo, conoscendo le sue tendenze egoiste e il male di cui è capace, si vede fino a che punto queste esigenze radicali sembrano se non impossibili, almeno difficilmente realizzabili, tanto che in questa vita possono apparire utopistiche. Queste prospettive ebraiche e cristiane mostrano che la fede è un’uscita, un superamento della realtà del mondo e dell’uomo, certamente non per negarlo o rifiutarlo, ma per aprirlo a qualcosa di più grande, più bello, più desiderabile, assolutamente gratuito, che non è ancora presente se non parzialmente e che non si riesce mai a mettere in pratica del tutto. Ci sarà sempre una tensione tra ciò che è e ciò che viene promesso e desiderato. L’utopia che Francesco ha concepito, vissuto e proposto ai suoi eredi, va situata in questo quadro di riferimento.
L’utopia di Francesco Quando mi è stato proposto di redigere questo articolo, il tema era intitolato: «L’utopia realizzata e realizzabile di Francesco d’Assisi», ma poi – errore o ripensamento – il titolo definitivo diceva invece: «Utopia realizzata e irrealizzabile». È vero: un’utopia realizzata non è più un’utopia. Nel corso della storia il regno di Dio, cioè Dio manifestato in pienezza, uomo e mondo trasfigurati, salvati, è soltanto un desiderio, una visione di un futuro che deve venire. Una volta che i «tempi saranno compiuti», solo allora la città di Dio, la nuova Gerusalemme, non sarà più un sogno, ma una realtà in tutto il suo splendore. Quanto a Francesco, quando si parla delle sue scelte radicali, è allora che talvolta si utilizza il termine «utopia». Per la maggior parte del tempo, se non sempre, l’aspetto radicale più spettacolare che viene sottolineato è quello della povertà. Tuttavia il progetto di Francesco, da lui vissuto e proposto ai suoi frati, comportava altre scelte, egualmente radicali, e dunque in tal senso «utopiche». Così appare la sua concezione delle relazioni umane – la fraternità – come pure il suo modo di descrivere e vivere il rapporto con il mistero di Dio: avere «il cuore rivolto al Signore».
Utopia della povertà Se la povertà intesa come un uso sobrio e misurato, una condivisione con i poveri, una messa in comune dei propri beni, era riconosciuta come un valore evangelico e praticata nella chiesa, soprattutto dal monachesimo, Francesco ne ha radicalizzato alcuni aspetti: prossimità, se non addirittura identificazione con il mondo dei poveri, e anzitutto rifiuto di ogni possedimento o proprietà, non solo individuale, ma anche collettiva – cosa questa che superava il marxismo! – e proibizione di usare il denaro. Si trattava sicuramente di un’«utopia»; la sua messa in pratica, per opera di Francesco e dei suoi frati ha richiesto certi adattamenti. Senza essere proprietari legali delle loro abitazioni e terreni, i frati ne godevano egualmente; senza utilizzare denaro, si giovavano di quello dei loro benefattori. Ma si dimentica che Francesco aveva una concezione della povertà fondata su una base spirituale altrettanto radicale: il bene che l’uomo è e che compie, non è sua proprietà, bensì un dono gratuito di Dio, al quale bisogna restituirlo, renderlo a lui con un atto di ringraziamento. Di nostro non abbiamo altro che «i nostri vizi e i nostri peccati», come pure le prove e le sofferenze. Questi due aspetti – materiale e spirituale – si condizionano e si completano reciprocamente, ma entrambi hanno qualcosa di utopico, poiché, pur essendo come un orizzonte, un appello permanente e doloroso, non si può dire che l’utopia è diventata realtà in una vita personale.
Utopia della fraternità Nella storia della vita religiosa, Francesco è il primo che designa con insistenza il gruppo formatosi attorno a lui con il nome di fraternità. Vuole che i frati si amino come una madre si prende cura amorosa del figlio, si rispettino, si rallegrino di stare insieme, si sostengano misericordiosamente senza essere turbati dal male, accolgano ogni essere umano, amico o nemico, ladro o brigante. Con il medesimo radicalismo da lui mostrato riguardo alla povertà, considera il servizio dell’autorità. Tutti sono fratelli, nessuno di loro sarà chiamato padre, non porteranno titoli onorifici e colui che esercita l’autorità deve comportarsi come un servo incaricato di lavare i piedi degli altri. Questi atteggiamenti vanno applicati a ogni rapporto con gli esseri umani. Bisogna essere sottomessi a tutti, non rivendicare alcun privilegio, «evitare i litigi, le dispute di parole, non giudicare gli altri, ma essere miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, parlando con tutti gentilmente» (cf. Rb III,10: FF 85). Si sa e lo si mette abbastanza – forse troppo – in risalto che Francesco, con un’intuizione profonda, estendeva questo trattamento fraterno non solo agli animali e alle piante, ma anche al cosmo e ai suoi elementi: sole, luna, stelle, acqua, fuoco, aria, terra; perfino la morte! Chi non vede quanto ciò che abbiamo evocato coincide con la visione utopica di una società ideale, senza classi, libera, egualitaria, fraterna, capace di abbracciare l’universo. Ma anche qui, perfino nella vita di Francesco, tutto non è stato così semplice e meraviglioso. Se in un brano dei suoi Scritti dice che bisogna accogliere con benevolenza e perdono un fratello che abbia peccato «mille volte» (cf. Lmin 10: FF 235), gli capita di escludere altri per una sola colpa grave e di non considerarli più come frati…(cf. Lord 44: FF 229). Secondo il vangelo di Gesù e le parabole della zizzania e della rete (cf. Mt 13,24-30. 47-50), anche Francesco deve accettare e sopportare pazientemente la coesistenza, dentro di sé e nella sua comunità, del bene e del male, senza tuttavia rinunciare al sogno e alla esigenza della perfezione, ed è qui che consiste precisamente la funzione dell’utopia.
Utopia del «cuore rivolto verso il Signore» L’utopia principale attribuita a Francesco è quella della povertà nei suoi aspetti materiali, in parte anche la fraternità concreta e universale. Ma non si parla mai della sua utopia nei confronti delle relazioni tra l’uomo e Dio. Ora, nell’esperienza di Francesco e nelle esortazioni sulle quali insiste maggiormente, la realtà prima, centrale, desiderabile sopra ogni cosa, era di «avere il cuore rivolto senza posa verso il Signore» (Rnb XXII, 19: FF 59). In questo Dio – di cui nella pergamena della Verna, scritta di suo pugno, tenta di suggerire con una trentina di nomi la suprema elevazione e la vicinanza piena di tenerezza – bisogna che «dovunque noi tutti, in ogni luogo, in ogni ora e in ogni tempo, ogni giorno e ininterrottamente crediamo veracemente e umilmente e [lo] teniamo nel cuore e amiamo, onoriamo, adoriamo, serviamo, lodiamo e benediciamo, glorifichiamo ed esaltiamo… » (Rnb XXIII, 11: FF 71). «Nient’altro dobbiamo desiderare, nient’altro volere, nient’altro ci piaccia e diletti se non il Creatore e Redentore nostro» (Rnb XXIII, 9-11: FF 70-71). Questo è l’appello vibrante che Francesco rivolge a se stesso senza dubbio e ai suoi frati, ma egualmente agli uomini di tutti i tempi. Una gran parte dei suoi scritti, più sviluppata di quella riguardante la povertà, tratta di questo tema, cuore ardente del suo messaggio. La visione che Francesco presenta di Dio e che suppone un’esperienza personale unica, è di una ricchezza immensa. Lo stesso si può dire quando enumera le esigenze positive e negative che si impongono a chi vuol cercare e trovare Dio: bisogna amare il Signore Dio «con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutta la capacità e la fortezza, con tutta l’intelligenza, con tutte le forze, con tutto lo slancio, tutto l’affetto, tutti i sentimenti più profondi, tutti i desideri e le volontà…» (Rnb XXIII, 8: FF 69). Bisogna togliere ogni impedimento: «Niente ci ostacoli, niente ci separi, niente si interponga» (Rnb XXIII, 10: FF 71). Riconosciamolo, questi brani non ci toccano particolarmente; ci sembrano talmente lontani dal nostro linguaggio, soprattutto dalle nostre esperienze e preoccupazioni, anche religiose. Ma dato che parlano di ciò che sta al centro della nostra fede, toccano il punto nevralgico del nostro essere di credenti. È un linguaggio di utopia, che invita a lasciare ogni sicurezza e routine, a interrogarci a che punto siamo quando diciamo: «Credo in Dio», oppure: «Dio, ti amo». Francesco ha vissuto tutto ciò, anche lui alternando luce e tenebre, sia nei momenti abbaglianti della visione, sia nel cammino quotidiano oscuro e difficile. È questa infatti la condizione del credente in ogni tempo, oggi più che mai.
Utopia «realizzabile» o «irrealizzabile»? L’espressione lapidaria con cui, alla fine della vita, Francesco ha voluto caratterizzare l’essenziale del progetto, che Dio gli aveva rivelato e che la chiesa ha confermato, viene formulata così: osservare il santo vangelo di Gesù Cristo. Si può dire con buoni motivi che non c’è nulla di più utopico di una simile affermazione, se si considera il contenuto di queste parole e i destinatari ai quali sono rivolte: Francesco, la sua posterità ossia i suoi futuri seguaci e in definitiva tutti gli uomini. Il vangelo è un annuncio gioioso e sfolgorante della vita di comunione trinitaria, di cui Dio fa partecipi gli uomini, è rivelazione del destino finale che li aspetta insieme a tutta la creazione, è un invito ad accogliere questa gratuità inaudita, con le esigenze che ciò comporta. Nel concreto dell’esistenza credente, ciò richiede di manifestarsi in primo luogo mediante la fede e l’abbandono fiducioso di se stessi in Dio e nelle sue promesse; viene poi la conoscenza, difficile da accettare, della propria grandezza e nello stesso tempo della propria insondabile povertà, e ancora l’amore esigente verso il prossimo, nello sforzo, sempre ricominciato, di dimenticare se stessi, di rinunciare al proprio io, di aprirsi a Dio e agli altri. Di fronte all’enormità di questo compito, si vede meglio che una simile «utopia» è nello stesso tempo realizzabile e irrealizzabile. Realizzabile in quanto interpella, scuote, impedisce di installarsi, spinge sempre a ricominciare, apre orizzonti nuovi, senza che si possa mai dire: abbiamo fatto tutto! Sì, che si tratti di sogni umani circa un mondo perfetto o della fede di uomini che accolgono gli annunci, le promesse e le richieste di Dio, finché il mondo e l’umanità, condizionati dal tempo e dallo spazio, camminano nella storia, nessun sforzo umano, nessun potere, neppure quello divino, realizzerà definitivamente un mondo senza difetti o un’umanità perfetta: è sempre il sogno del «paradiso delle origini» o l’annuncio di «figura escatologica». Nel tempo storico, l’utopia intesa in senso stretto, rimane irrealizzabile nella sua totalità.
L’utopia francescana nella storia Dopo aver delineato sommariamente la triplice utopia di Francesco e il suo modo di «realizzarla», è legittimo chiedersi come questa dimensione è stata vissuta dai suoi eredi e continuatori a distanza di otto secoli. Certamente nel suo Ordine, preso nella sua globalità – sia gli uomini, i frati, come le donne, le suore, che con santa Chiara hanno adottato la medesima strada evangelica – ci si è sempre sforzati nel corso di questo lungo periodo di vivere qualcosa almeno delle esigenze centrate su questi tre poli: povertà, fraternità, ricerca di Dio. Come si è osservato in precedenza, soprattutto in riferimento alla povertà si sono manifestate maggiormente l’insoddisfazione, l’inquietudine, le dispute e le «separazioni». Si sarebbe però nel torto se si dimenticasse che vi ha giocato un ruolo egualmente molto importante l’inquietudine spirituale, più profonda, ma forse meno spettacolare, che riguarda il rapporto con Dio. L’Ordine dei frati minori ha espresso, se si può parlare così, con una profusione abbondante e anarchica, il suo rapporto con l’«utopia» mediante movimenti costanti – e rotture – di «riforma», fra i quali la storia ne conta almeno sei che sono statti canonicamente riconosciuti: osservanti, cappuccini, riformati, alcantarini, recolletti, riformella. Tre rami sussistono fino al giorno d’oggi: conventuali, francescani e cappuccini. Aggiungiamo che un fenomeno simile – senza dubbio più accentuato e frammentato nel caso dei minori – si osserva nel corso della storia anche in altre forme di vita religiosa della chiesa, in particolare nel monachesimo. Ciò non è altro che la messa in pratica del motto: ecclesia semper reformanda, che è un’esigenza evangelica permanente. Il destino di Francesco e della sua esperienza storica è nel concreto una manifestazione particolare di ciò che vivono i credenti nella grande comunità della chiesa, tentata anch’essa di istallarsi e di tanto in tanto risvegliata e scossa da movimenti di riforma o – ahimè – di scisma, che avvengono nell’amore, ma talvolta giungono fino alla rottura nella fede. In un senso positivo, l’«utopia» consiste nell’ammettere che quanto viene proposto deve essere accolto e compiuto, e lo può essere fino a un certo punto. Sicuramente l’uomo si scontrerà di continuo con i propri limiti e con quelli degli altri; si troverà al di sotto di ciò che considera come un ideale e un dovere; farà costantemente esperienza dei propri insuccessi. Ma non ne ricaverà la conclusione che ciò sia un’impresa impossibile, cui bisognerebbe rinunciare, dato che non fa per lui. Accetterà di vivere la lacerazione e il rimprovero che l’ideale rappresenta in quanto utopia sempre sognata e mai realizzata. L’utopia evangelica presa sul serio crea la tensione senza della quale la vita cristiana si affievolisce e diventa piatta. L’utopia è l’elemento che crea la perturbazione necessaria al dinamismo, all’insoddisfazione, all’attesa di ciò che deve avvenire, ma non è ancora realizzato.
Conclusione Queste «libere riflessioni» sull’«utopia» e la loro applicazione a Francesco e al suo progetto hanno fatto ricorso a linguaggi diversi: letterario, biblico, teologico, storico. Ma penso che l’aspetto più misterioso del tema non può essere affrontato se non con un approccio poetico. In effetti, l’utopia è un sogno, aspirazione e desiderio che sfugge a ogni formulazione chiara; è come una ferita che segna l’umanità, la spinge a mettersi in cammino, ad andare oltre, più lontano e in avanti. Perciò vorrei concludere questo mio contributo sommario e frammentario con una breve poesia, che è stata dedicata a Francesco da uno dei più grandi poeti polacchi contemporanei, Jan Twardowski, da poco scomparso. In modo paradossale, con immagini e parole ordinarie, di ogni giorno, egli coglie e rivela il punto centrale dell’esperienza «utopica» di Francesco: essere minore e sottomesso a tutti, «come l’erba bassa, la piccola sorella, su cui tutti passano». «San Francesco d’Assisi imitarti non so, la mia santità non vale un soldo, a leggere la Bibbia, mi viene il mal di testa. I pesci non mi vengono a sentire, agli uccelli non so parlare, il cane del parroco mi ha morsicato e il mio cuore non ha tanto coraggio. Sono belli i monti e le foreste, mi attraggono sempre le rose, ma di tutte le meraviglie della terra, preferisco l’umile erba. Bassa com’è, ci cammino sopra, non ha né frutti, né spighe; erba, mia piccola sorella, carmelitana dai piedi scalzi».
(Thaddée Matura, Credere Oggi, marzo-aprile 2009. Articolo tradotto dal francese a cura di L. Dal Lago)
"Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe la croce" (12 aprile 2009)
Il Cenacolo di Leonardo da Vinci fu dipinto in un refettorio: la cena di Cristo in un luogo dove si mangia. Ha importanza poi il fatto che il refettorio era quello di una comunità consacrata, i domenicani del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano. L'Ultima Cena, nel corso della quale il protagonista, Cristo, assunse un gravoso impegno, fu dipinta per dei cristiani impegnati a seguirlo. È inoltre significativo che questo refettorio si trovi a pochi passi dalla chiesa in cui i consacrati ascoltavano le Scritture che davano senso al loro impegno, e dove venivano alimentati del corpo e sangue originariamente offerti da Cristo nel contesto dell'evento raffigurato da Leonardo. Ed è fondamentale ricordare che i frati si recavano al refettorio dalla chiesa: andavano a pranzo – almeno nelle grandi occasioni e nei giorni di festa – subito dopo la solenne messa comunitaria. Vedevano cioè il Cenacolo di Leonardo nel contesto di un impegno che coinvolgeva tutta la loro vita, e dopo aver ascoltato il Vangelo e ricevuto l'eucaristia. Ovviamente tale modo di guardare l'opera non era l'unico, e anche all'epoca il dipinto suggeriva altri significati. La raffigurazione del Cenacolo più celebre di tutti i tempi illustra, ad esempio, in maniera singolare, il rapporto con i coevi "misteri" teatrali. Eseguita tra il 1495-97, riassume inoltre l'ardita ricerca stilistica iniziata, elaborata e codificata da altri maestri fiorentini: in primo luogo Giotto, poi Donatello e Masaccio, infine Leon Battista Alberti. Il cenacolo fu subito riconosciuto come una pietra miliare della cultura artistica del Rinascimento. Le due cose non sono affatto contraddittorie. L'Ultima Cena venne commissionata a Leonardo dall'allora duca di Milano, Ludovico Sforza, nel contesto di un progetto di ammodernamento e abbellimento del convento e della chiesa di Santa Maria delle Grazie, in cui il principe intendeva situare la propria sepoltura. Nel quadro globale del progetto, diretto dall'architetto Donato Bramante, la Cena di Leonardo aveva una duplice funzione: da una parte doveva essere un'opera d'arte sacra – l'immagine della "coena Domini" nella sala dove i frati prendevano i loro pasti – e dall'altra doveva appagare l'ambizione del duca di dare lustro alla sua capitale con opere di architettura e arte nello stile moderno. Oltre gli elementi di contenuto religioso nel dipinto, Leonardo vi creò infatti l'esempio più perfetto mai visto in Italia settentrionale della nuova prospettiva inaugurata dall'arte fiorentina, aprendo la parete di fondo del refettorio con l'illusione di una stanza spaziosa dal soffitto a cassettoni. Questa stanza – come il grandioso presbiterio a cupola che Bramante realizzava contemporaneamente per la chiesa – aggiornava una struttura preesistente, definendone un'estensione ideale, a un livello più alto: lo spazio di Cristo nel convento dei frati. In realtà i due aspetti del Cenacolo – quello tecnico e quello mistico – si sovrappongono, perché è anche grazie all'uso della prospettiva che Leonardo riesce a mostrare che la vita della comunità religiosa è un'estensione della vita di Cristo e degli apostoli. Attraverso la sua costruzione prospettica, l'artista focalizza l'attenzione su Cristo, facendo della sua figura il punto d'incrocio dell'intero cosmo pittorico definito dalla sala. Infatti le linee diagonali che portano l'occhio in profondità conducono inevitabilmente a Cristo, tutto si ricollega a Lui, è Lui il perno della logica visiva oltre che narrativa dell'insieme. Egli non è il punto ultimo, il punto di fuga prospettica; le linee diagonali convergono piuttosto dietro Cristo, nell'aria vespertina che è oltre la finestra; ma quel punto ultimo rimane nascosto. Cercando l'infinità, il nostro sguardo si ferma a Cristo, come se egli ancora dicesse: "Chi ha visto me ha visto il Padre" (Giovanni 14, 9). La forza di questa concentrazione prospettico-cristologica ideata da Leonardo diventa chiara se si raffronta la sua Cena con altre interpretazioni del tema nella pittura coeva. Domenico Ghirlandaio, ad esempio, negli anni 1480-1490 ne dipinse due, quasi identiche, nei conventi di Ognissanti e San Marco a Firenze. Come Leonardo, questo artista si servì della prospettiva per dare l'illusione di uno spazio reale, senza però costruire lo spazio in diretto rapporto a Cristo. Nelle Cene dipinte dal Ghirlandaio, l'occhio avanza da sinistra a destra, fermandosi su ciascuna delle tredici figure separate ma più o meno uguali, senza cogliere immediatamente quale di esse rappresenti Gesù. Due sono in posizioni diverse dagli altri: Giuda, seduto dalla nostra parte della tavola, e il giovane san Giovanni che si riposa, con la testa tra le braccia incrociate sulla tavola. Per un processo di eliminazione, si capisce che la figura su cui Giovanni si poggia – l'uomo posto di fronte a Giuda – deve essere Cristo. Ma la cosa non è subito chiara. Questa impostazione – che era classica nell'arte fiorentina, adoperata sin dal Trecento nei refettori – aiuta a capire la novità della lettura di Leonardo da Vinci. Sappiamo da un suo disegno ora conservato a Venezia che, in un primo momento, pure Leonardo aveva pensato di sistemare gli apostoli lungo la tavola come tante unità separate, con san Giovanni addormentato accanto a Cristo e Giuda dall'altra parte. A un certo punto però Leonardo sembra aver capito che l'effetto di tale frammentazione sarebbe stato come nel Ghirlandaio: dodici uomini isolati gli uni dagli altri, che reagiscono alla spicciolata, ognuno a modo suo, all'annuncio sconvolgente che invece interessa tutti: l'annuncio che li mette in crisi non tanto come individui ma come gruppo, come comunità: "In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà" (Giovanni 13, 21). Per evitare tale frammentazione narrativa, Leonardo ha preferito allora unire i dodici intorno a Cristo in quattro grandi gruppi, in cui l'elemento che colpisce è appunto l'eloquenza corale di più persone accomunate da un solo impeto emotivo. Con particolare attenzione alla diversità di tipologie e gesti, il pittore rappresenta ciò che poteva essere veramente accaduto in una comunità di uomini vissuti insieme per tre anni. I dodici si suddividono naturalmente in gruppi diversificati gli uni dagli altri ma connessi tra loro; all'interno di ogni gruppo si discute sul significato di quanto Cristo ha detto, ma l'attenzione psicologica, espressa mediante sguardi e gesti, dai due lati della tavola torna necessariamente verso il centro, verso Cristo. Tale movimento centripeto ha perciò, in superficie, la stessa funzione che hanno le linee prospettiche in profondità: conducono l'attenzione sull'attore principale, nel momento stesso del suo grande discorso, del gesto misterioso e commovente: il dono della sua vita nei segni del pane e del vino. Notiamo poi come, nei gruppi posti immediatamente a destra e sinistra di Gesù, il movimento viene invertito: gli apostoli ai lati di Cristo si tirano indietro, il flusso dei loro sentimenti non raggiunge il Salvatore, che pronuncia il suo discorso e compie il suo gesto in maestosa solitudine. I movimenti dei corpi a destra e a sinistra, i gesti delle mani, non lo toccano: sono come onde che lambiscono un promontorio senza bagnarne la cima. Eppure intuiamo che l'intensità di sentimento in questi uomini – la loro capacità di agire con "un cuore solo e un'anima sola", il loro comune desiderio di trasparenza davanti alla commozione di un Maestro che si è fatto servo e che ora parla loro di tradimento e di morte – dipende da Gesù, nasce in rapporto a Gesù: è Lui che motiva e fonda l'apertura con cui, ad esempio, Filippo, a destra, con le mani invita a leggere nel suo cuore. Nel corso della cena Gesù si è aperto a loro, ha lasciato vedere la propria angoscia, ne ha parlato, si è dato totalmente in un modo nuovo, corpo e spirito insieme, e ora gli apostoli si trovano capaci anch'essi di aprirsi, disposti anch'essi a darsi. A contatto con la realtà di questo Signore-Servo, di quest'uomo che parla da Dio, i suoi discepoli scoprono una capacità di risposta oltre i normali limiti della natura, una capacità soprannaturale simile all'apertura di Gesù stesso. "Il nuovo e grande mistero che avvolge la nostra esistenza – aveva scritto san Gregorio Nazianzeno mille anni prima di Leonardo – è questa partecipazione alla vita di Cristo. Egli si è comunicato interamente a noi: tutto ciò che Egli è, è diventato completamente nostro. Sotto ogni aspetto noi siamo Lui. Per Lui portiamo in noi l'immagine di Dio dal quale e per il quale siamo stati creati. La fisionomia, l'impronta che ci caratterizza è ormai quella di Dio" (Discorso 7, Patrologia Greca 35, 786-87). Nel Cristo di Leonardo convergono le linee portanti all'infinità, convergono i sentimenti di molti cuori, e convergono – s'intrecciano, si sovrappongono, s'identificano – la natura divina con quella umana. In questa straordinaria figura il pittore raccoglie tutti i fili del racconto evangelico: il "desiderio ardente" di condivisione in Gesù; la piena consapevolezza di ciò che gli sarebbe accaduto; il senso poi di essere arrivato al momento supremo, di compiere per l'ultima volta un gesto comune, aprendone il significato verso un orizzonte sconfinato. La composizione piramidale che suggerisce quiete e forza; l'eloquenza con cui Cristo apre le braccia e allunga le mani: quella destra (alla nostra sinistra) verso il bicchiere di vino, quella sinistra (alla nostra destra) che mostra il pane; il regale isolamento in mezzo agli apostoli, la testa stagliata contro la luce del tardo pomeriggio, senza aureola ma incorniciata dalla nobile architettura della sala; e l'aria di sottile tristezza nell'inclinazione del capo come anche in ciò che rimane dell'espressione in questo dipinto danneggiato: tutto è fedele all'immagine che il Nuovo Testamento offre del Salvatore la notte in cui fu tradito, l'immagine di uno che si dona spontaneamente e nel contempo istituisce un rito eterno; uno che parla del suo regno, quindi un re; e soprattutto un uomo consapevole di andare incontro alla morte che accettava liberamente, "sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani, e che era venuto da Dio e a Dio ritornava" (Giovanni 13, 3); "sapendo", "accettando", ma soffrendo umanamente, "rilassando le redini dell'emotività", come dirà Gianfrancesco Pico della Mirandola in un trattato sull'immaginazione stilato negli stessi anni. Cerchiamo di cogliere l'impatto di questa figura nel suo contesto d'uso originario. Le costitutioni dell'ordine domenicano, riformulate dal capitolo generale tenutosi a Milano nel 1505 nel convento di Santa Maria delle Grazie, lo stesso del Cenacolo di Leonardo, descrivono con precisione il rituale d'ingresso a un refettorio, indicando anche la funzione di eventuali immagini collocate in tali spazi comunitari. "Suonata la campana – leggiamo – i fratelli debbono recarsi silenziosamente ma con decorosa rapidità al luogo in cui dovranno lavarsi le mani. Lavate le mani, devono andare poi, nell'ordine consueto, a sedersi sulla panca disposta fuori del refettorio, e in quella posizione recitare il 'De profundis'. Quando infine il priore suonerà per l'ingresso nel refettorio, devono entrare a due a due, incominciando dai più giovani. E quando sono in mezzo al refettorio, devono fare un inchino alla croce o all'immagine dipinta ivi collocata, e, fatto il segno della croce, devono andare a sedere a tavola". Come suggerisce questo testo, il significato religioso del Cenacolo e di altre immagini nei refettori va meditato all'interno di un sistema di riti e segni elaborato dalla tradizione monastica attraverso molti secoli. La "croce o immagine dipinta" nel refettorio dove si mangiava, e il salmo recitato prima di entrare mentre i frati si lavavano le mani, riportavano al senso eterno di azioni ordinarie, quotidiane: la pulizia e l'alimentazione. Il Salmo 130, chiamato il "De profundis", attribuiva ad esempio un significato spirituale al comune atto d'igiene. "Dal profondo" della propria colpevolezza, il salmista (e con lui il frate che si lavava) esprimeva la sua fede che Dio è capace di purificarlo: "Presso il Signore è la misericordia e grande presso di Lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe". Nello stesso modo, la croce o immagine dipinta sulla parete del refettorio dava un senso religioso all'atto di mangiare, invitando i commensali a leggere nel pasto un significato spirituale oltre a quello fisico: non solo sostentamento del corpo, ma sostegno della vita interiore. In pratica, i significati dei due momenti – del "De profundis" fuori della porta e dell'inchino all'immagine della passione dentro il refettorio – erano collegati. Se l'atto di lavarsi esprimeva la fede nel perdono divino, quello di accostarsi alla mensa comunicava il coraggio di vivere. Il peccatore perdonato mangia e si mantiene in vita perché accetta il perdono del Dio misericordioso; s'inchina davanti alla croce o altra immagine nel refettorio perché in essa ravvisa l'espressione di tale misericordia: Cristo che offre la propria vita in riscatto per i peccati degli uomini. La croce esprime sempre questa "redenzione", e la "immagine dipinta" più usata nei refettori, l'ultima cena, lo comunica ugualmente: nel racconto evangelico, Gesù durante la cena dà il vino ai suoi discepoli con le parole: "Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti in remissione dei peccati" (Matteo 26, 27-28). Tornando a guardare l'Ultima Cena che gli estensori delle costituzioni domenicane avevano davanti agli occhi nel 1505, il dipinto di Leonardo, dobbiamo ancora notare che nel refettorio di Santa Maria delle Grazie ci sono due dipinti, a entrambi dei quali ci si doveva inchinare. Negli stessi anni, infatti, in cui Leonardo dipinse l'Ultima Cena, un artista milanese, Donato Montorfano, affrescò la parete di fronte a essa con una monumentale Crocifissione, tuttora visibile all'altro capo della sala. Di conseguenza, "lavate le mani" con fede nella misericordia divina, i frati che accedevano al refettorio si trovavano abbracciati d'ambo le parti da quella misericordia: davanti e dietro di sé avevano immagini della "grande redenzione" operata a favore dei peccatori da Cristo. Su una delle due pareti di fondo vedevano, nell'Ultima Cena, l'impegno di Gesù a offrire il suo corpo e sangue "per la remissione dei peccati", e sulla parete opposta vedevano nella Crocifissione l'adempimento dell'impegno, quando Cristo offrì la sua vita fisicamente sulla croce. Avendo rammentato il loro bisogno di perdono, i frati andavano cioè a tavola tra i due momenti nei quali tale perdono era stato realizzato: tra il giovedì sera e il venerdì pomeriggio dell'"ora" di Gesù, tra la Cena e la Croce. Che Leonardo stesso abbia concepito i due dipinti del refettorio come componenti di un programma unitario è confermato dalla sua decisione di abbandonare il suo primo progetto compositivo, quello del disegno veneziano, per l'impianto che abbiamo descritto. Al posto del Cristo che si sporge per dare il boccone a Giuda, l'artista ha ideato un Cristo regale e sacerdotale che, allargando le braccia, mostra il pane e sta per prendere il vino. Cioè al posto di una figura narrativa – il Cristo del disegno veneziano, che interagisce con Giuda – Leonardo ha preferito un Signore tutto interiore, che invita all'introspezione psicologica. Lo sguardo velato di tristezza, la testa inclinata, l'isolamento della figura suggeriscono un momento di profonda interiorità. Leonardo deriva la composizione del suo Cristo da tre fonti. La prima è l'immagine del re e giudice fornita dal grande Cristo a mosaico del Battistero della sua città, Firenze: l'eterno sacerdote vestito del cielo e della terra, con le braccia estese per accogliere o respingere in virtù del mistero della sua passione. La seconda è l'immagine del legislatore tipica dell'arte paleocristiana e medievale: il Signore che allarga le braccia per trasmettere il rotolo o libro del suo Vangelo ai credenti. La pala d'altare dell'Orcagna in Santa Maria Novella, la chiesa dell'ordine domenicano a Firenze, presenta Cristo in questo modo: un re legislatore, che con la destra affida a san Tommaso d'Aquino il libro della teologia, mentre con la sinistra dà le chiavi del regno celeste a san Pietro. Tra i temi toccati da Gesù nella cena c'erano infatti quelli del "regno" e della "nuova legge" dell'amore. San Tommaso, nel suo commento teologico al discorso dell'ultima cena, collega proprio queste idee, ricordando che all'ultimo pasto preso con i suoi discepoli Cristo fungeva simultaneamente da re, da legislatore e da sacerdote. Inoltre san Tommaso – la cui interpretazione doveva essere familiare ai domenicani di Santa Maria delle Grazie – dice che queste tre funzioni, che normalmente interessano categorie distinte di persone, in Cristo "confluiscono". Ma è la terza fonte del suo Cristo che permette a Leonardo di fondere perfettamente le altre due. La posa del Salvatore con le braccia estese e la testa inclinata in segno di tristezza o di morte corrisponde a quella comunemente adoperata all'epoca per le immagini del "Vir dolorum", dell'Uomo dei dolori, che facevano vedere il corpo di Gesù deposto dalla croce con la testa inclinata e le braccia estese per mostrare le piaghe. La maestà regale, la ieraticità sacerdotale e la dignità legale sono comprese, ricapitolate, approfondite all'infinito in quest'allusione visiva al Servo Sofferente, perché Cristo regna dalla croce quando offre se stesso come sacerdote, vittima e altare, per istituire con il proprio sangue la nuova alleanza per il perdono dei peccati. Nella Cena del refettorio di Santa Maria delle Grazie, Cristo apre le braccia nel gesto compiuto il giorno dopo sulla croce. La posa del Cristo leonardiano è stata cioè ideata in funzione dell'atto successivo del dramma sacro, raffigurato sulla parete opposta del refettorio. La maestosa presenza psicologica, l'insondabile interiorità sono attributi di chi contempla e accetta la propria morte. Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe infatti la croce del giorno seguente. La testa inclinata, la mano aperta che indica il pane, sono preannunci di ciò che deve venire dopo. E la vita dei frati – il loro mangiare, il coraggio con cui, peccatori perdonati, si mantengono in vita – è compresa in quel "mentre": nell'interstizio tra l'accettazione e la realizzazione, nello spazio quotidiano della sequela, in una fedeltà spesso sofferta, che li configura a Cristo. (Timothy Verdon, L’Osservatore romano, 30 marzo 2009)
(5 aprile 2009)
«Cercate la scienza foss'anche in Cina» recita una frase di Muhammad, sempre ripetuta nel mondo islamico, e circa 750 versetti del Corano (più o meno un ottavo del Libro) esortano i credenti a studiare. In effetti il "Profeta" ripete spesso che il sapere è da ricercare sempre e che la cultura è un dovere per ogni buon credente, uomo o donna che sia. E si hanno esempi molteplici di centri culturali in cui anche le donne sono iniziate alle scienze più diverse fin dai primi secoli dell'islam. L'islam eredita dal mondo greco-cristiano un immenso patrimonio che dal VII al X secolo studia, copia e traduce in arabo, e da cui acquisisce le principali informazioni. Il contributo che da è la rielaborazione delle nozioni trovate e soprattutto l'attenzione al particolare, attenzione forse meno cara al mondo antico. L'originalità sta proprio nell'aver saputo integrare e dotare di nuova fisionomia elementi che non erano di sua invenzione. L'islam introduce la puntigliosa ricerca del calcolo esatto, l'idea della misurazione precisa, l'attenzione all'esperimento, soprattutto con Ibn Sina (Averroè). Secondo Alessandro Bausani, il suo pensiero è anticipatore di quello che Alexandre Koyré definisce «l'universo della precisione», cioè l'impostazione che si affermerà in Europa dal secolo XVII. Questo atteggiamento, importantissimo per il successivo sviluppo della tecnologia anche in Occidente ma nello stesso tempo potenzialmente distruttivo rispetto ai fondamenti ultimi della scienza, proviene in larga parte da un'impostazione coranica.
Il Corano e la scienza Secondo il Corano, tutto è ascrivibile a Dio e tutto avviene per puntuale intervento divino. Ne consegue che affermare l'esistenza di leggi astratte e immutabili come quella di causa-effetto o spiegare i fenomeni naturali con le causae secundae è atteggiamento inaccettabile perché implica porre dei limiti all'assoluta libertà di Dio. L'unica legge certa è quella di Dio che però è assolutamente imprevedibile e guidato solo dalla sua libera volontà. Il suo agire non può essere incatenato ad alcuna legge né codificato dalla mente umana. Quella che a noi sembra una relazione causale certa è in realtà solo un'abitudine di Dio che tende a far seguire certi effetti a certe cause, ma se volesse potrebbe in qualsiasi momento cambiare il normale corso della natura. Il Corano insegna, ad esempio, che il sole ogni giorno sorge ad Oriente, ma che in qualsiasi momento, e forse lo farà alla fine dei tempi, Dio potrebbe farlo sorgere ad Occidente. Mentre in una mentalità cristiana il miracolo è visto come una sospensione delle leggi naturali per intervento divino, in arabo si dice kharq al-'àdàt. cioè "rottura della consuetudine". Non si può mai essere sicuri della verità di un fenomeno fino a quando lo si verifichi con l'osservazione diretta: da qui l'attitudine sperimentale della mentalità islamica. Ad esempio, lo scorrere del tempo, che ha una grande importanza anche religiosa perché in base alla luna e al sole si regolano tutti i tempi legali della preghiera o il succedersi dei mesi, non può essere stabilito in anticipo, ma solo con l'esatta osservazione del fenomeno. Questo ha fatto spesso avvicinare la mentalità islamica a certe forme di occasionalismo diffuse in Europa nel XVII secolo o alla filosofia di Hume. Ma la scienza può fondarsi solo sull'esperimento'' Lo sviluppo dell'Occidente sembra negare questo presupposto. Se l'esperimento è importante per verificare una legge, solo dalla convinzione che l'universo sia stato creato secondo un progetto razionale e quindi abbia in sé delle leggi che la mente umana (essa pure razionale ad immagine e somiglianza di quella del Creatore) può conoscere, può nascere una vera ricerca scientifica. Oltre a questo presupposto fondamentale, occorre guardare come si è sviluppato il rapporto tra sapere e religione nel mondo islamico. Per indicare la scienza si usa la parola 'ilm che però indica, senza chiare distinzioni, sia lo studio dell'uomo, sia la ricerca della Tradizione del ' “Profeta", sia ancora lo studio delle regole per la recitazione coranica. Il fatto che le tre aree siano confuse causa uno scivolamento graduale ma inevitabile verso uno sguardo di tipo religioso e fideista sulla natura. Secondo Giovanni Canova, per secoli lo studio della natura nell'islam ha avuto un aspetto principalmente devozionale. Se Jabir ibn Hayyan (Geber) nelI'VIII secolo, ha messo a punto l'uso della bilancia intuendo il passaggio da un sistema qualitativo a uno quantitativo nelle scienze, è pur vero che per secoli i suoi discepoli hanno tentato di usare la bilancia soprattutto per pesare la presenza dell’ “Anima del Mondo” nelle sostanze. E in un altro campo, Ibn al-Haytham (vissuto nell'X-XI secolo nell'attuale Iraq) ha messo a punto le principali nozioni di ottica scoprendo le leggi della visione e ha anticipato il principio di tempo minimo di Fermat, spiegando che «Un raggio di luce, passando attraverso un mezzo, prende la via più semplice e più veloce». Ma in terra islamica il suo sapere è stato prima di tutto usato per lo sviluppo della mistica della luce, e solo in Europa ha ricevuto un'attenzione che ha portato a sviluppi propriamente scientifici. Nel mondo islamico, poi. con la nascita delle scuole teologiche e giuridiche nei secoli IX e X e il loro successivo consolidarsi, la scienza (‘ilm) ha perso sempre più il suo carattere di studio del mondo e dell'uomo per spostare la sua attenzione sullo studio della Tradizione e della recitazione del Corano. Questo ha provocato lo slittamento dell'attenzione dalla ricerca sulla natura allo studio di ciò che è utile per la pratica religiosa. Per conoscere il mondo - cioè la volontà di Allah e i suoi modi d'intervento nell'universo - ci si è rivolti sempre di più quasi esclusivamente al Corano, anziché usare la ragione.
L'islam e l'uso della ragione Vi è inoltre un altro aspetto non marginale da considerare. Nel libro del Genesi è scritto «(...) il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche» (Gn 2,19-20). L'uomo è chiamato da Dio stesso a prendere conoscenza della creazione e ad avere su di essa una certa sovranità (dare il nome indica in qualche modo un possesso). Dio, in un certo senso, affida la creazione all'uomo perché questi la usi, in modo ragionevole e giusto, a proprio vantaggio. Da questa convinzione è nato il costante tentativo dei cristiani di "umanizzare" il mondo, di trasformare l'ambiente in cui operano in un ambiente gradevole e confortevole, e per far questo l'ingegno umano deve continuamente cercare di andare oltre, di ampliare il suo sapere, di varcare nuove frontiere alla scoperta di quel magnifico dono che Dio gli ha fatto. Una scoperta non illimitata ma guidata dalla ragione e dalla consapevolezza che questa non può mai essere autonoma dal suo Creatore, unico e vero Logos del mondo. La scienza è quindi, per il cristiano, l'applicazione della ragione umana su una creazione effettuata secondo un piano razionale e per questo conoscibile. Il mondo è a vantaggio dell'uomo e la scienza è per l'uomo, per rendere migliore la sua vita e quella del prossimo. Tante scoperte sono proprio frutto del desiderio di operare a vantaggio del prossimo, prospettiva che purtroppo nella spiritualità islamica è veramente marginale. Come papa Benedetto XVI ha mostrato nel celebre discorso del 12 settembre 2006 a Ratisbona, gli sviluppi della scienza in Occidente non sono casuali. Le radici del divorzio tra islam e scienza nell'epoca moderna non sono dovute, come pensa qualche marxista, a ragioni economiche, ma alla teologia. Se Dio non ha creato né governa il mondo secondo leggi razionali (che possono essere talora sospese dal miracolo, cioè dal Suo intervento straordinario, ma che ordinariamente l'uomo può conoscere), anzi può modificare continuamente i principi che regolano l'universo, allora non vi può essere una ricerca teoretica che fondi la vera scienza e il prezzo che l'islam paga è la negazione dei fondamenti del vero sapere scientifico. (Silvia Scaranari, Il Timone, n. 81 marzo 2009)
Bibliografia Gutas Dimitri, Pensiero greco e cultura araba, Einaudi, 2002, Seyyed Hossein Nasr, Scienza e civiltà nell'Islam, Feltrinelli, 1977. Carmela Baffoni, Filosofia e religione in Islam, La Nuova Italia Scientifica, 1997. Alessandro Bausani, II contributo scientifico, in Gli Arabi in Italia, Scheiwiller, 1979, pp. 629-660. Ahmed Djebbar, Storia della scienza araba. Il patrimonio intellettuale dell'Islam, Raffaello Cortina, 2002.
Aids: il preservativo non preserva. Documentazione di una truffa (29 marzo 2009)
Preservativo si, preservativo no. Un falso dilemma. Un dilemma, la cui soluzione per il si, ritorna puntuale, ad intervalli regolari, con grandi campagne pubblicitarie. Questa volta il pretesto è stato offerto alle cassandre mondiali dall’intervento del Papa nella conferenza stampa a bordo dell’aereo diretto in Camerun. E ovviamente l’occasione era troppo ghiotta per non afferrarla al volo e sferrare un nuovo attacco in grande stile a Benedetto XVI e alla Chiesa cattolica. Gli interessi in gioco sono enormi, inimmaginabili. Le potenze occulte che si arricchiscono sulle calamità di intere popolazioni, sono una piaga che trova radici molto lontane. Problematiche già ampiamente risolte, teorie di sedicenti esperti e di autorità politiche interessate che decantano con estrema sicurezza l’uso del preservativo come rimedio infallibile contro il propagarsi dell’epidemia AIDS, sono state ampiamente sconfessate e dichiarate inattendibili da scienziati e studiosi di tutto il mondo. Ma la memoria ha le gambe corte. E allora perché non ribattere puntigliosamente le solite tesi? Tanto c’è sempre chi abbocca, chi grida al miracolo tecnologico, chi è ancora convinto dell’esistenza di prodotti infallibili, commercializzati guarda caso dalle solite lobby farmaceutiche che non disdegnano di arricchirsi sulla pelle dei poveri e dei derelitti. Pensiamo quindi che valga la pena riproporre qui alcuni interventi illuminanti che, proprio perché datati, si posizionano al di fuori dell’attuale polemica. Li riteniamo pertanto in grado di fornire ulteriori elementi di valutazione e di approfondimento. Siamo nel 1994. Nello sconcerto causato dall’imperversare dell’epidemia di Aids i corifei della «libertà sessuale» si aggrappano al preservativo come ultima ancora di salvezza per salvare la loro ideologia dal naufragio. «I preservativi vi augurano buone vacanze», si leggeva quest’estate su parecchi cartelloni pubblicitari giganteggianti negli angoli d’Europa. Allo stesso tempo, con un’insistenza crescente, si ritorce la colpa dell’epidemia su chi, come il Magistero cattolico, non è disposto a raccomandare l’uso di questo mezzo profilattico, la cui diffusione è un’ulteriore spinta verso la degradazione della sessualità. Ma questo articolo del prof. Joannes P.M. Lelkens, emerito di anestesiologia all’Università di Maastricht e attualmente docente di fisiologia all’Istituto «Medo» di Kerkrade (Paesi Bassi) per la famiglia e l’educazione e membro del direttivo della fondazione «Medische Ethiek», mostra il volto sconosciuto di una campagna mondiale che, dietro gli enormi interessi economici in gioco, nasconde gravi limiti scientifici, in conseguenza dei quali il «magico» preservativo si rivelerebbe come la più grande bufala del secolo. Ci scusiamo con i lettori per la crudezza di certi dettagli, ma, per smontare un mito, a volte non c’è altro mezzo che il nudo realismo.
Il governo olandese promuove fin dal 1987 campagne pubblicitarie intese a raccomandare ai giovani il «sesso sicuro», cioè l’uso del preservativo. A prescindere dalla valutazione morale che merita un govemo che si comporta così, è legittimo il sospetto che questo nmedio sia piuttosto un veicolo del contagio che un profilattico. Come «sesso sicuro», oggigiomo, s’intendono gli atti sessuali compiuti in modo da impedire che diano luogo alla trasmissione dello Hiv (Human Immunodeficiency Virus), un virus che provoca l’Aids. L’Aids a sua volta non è propriamente una malattia, ma, come dice il nome (Acquired Immune Deficiency Syndrome) una sindrome. La vera malatti è l’infezione da Hiv, di cui l’Aids costituisce lo stadio finale. Chi ne è affetto ne resta per tutta la vita portatore; e risulta sempre più confermato che nella grande maggioranza dei casi questa infezione è mortale (la ricerca attualmente colloca la percentuale di mortalità accertata attomo all'80%). Pertanto i sieropositivi, cioè coloro nel cui sangue un apposito test rivela l’esistenza dello Hiv, anche se non mostrano ancora sintomi della malattia, non si possono dire «portatori sani»: sono «morituri», e rappresentano per giunta un pericolo mortale per i loro partner sessuali. Adesso che in Olanda, oltre alla Commissione Nazionale Aids, sempre più organizzazioni, alcune addirittura cattoliche, si mettono a far propaganda del preservativo come toccasana per evitare l’infezione da Hiv, è urgente porsi la questione: «Il preservativo perde o non perde? E se perde, che cos’è che lascia o non lascia passare?». Sia chiaro che è una questione di vitale importanza quando ci sono di mezzo malattie veneree come un’infezione da Hiv, contro la quale in dodici anni di ricerca non è stata trovata alcuna terapia, e che, lungi dall’essere un pericolo esciusivo per gli omosessuali, ormai si diffonde rapidamente anche tra gli eterosessuali e fa sempre più vittime tra donne e bambini. Fino al 1960 il preservativo veniva usato come il più importante anticoncezionale, accanto al «coitus interruptus», ma nel 1960 fu soppiantato dalla «pillola», grazie a una propaganda massiccia che strombazzò a dritta e a manca l’inaffidabilità del preservativo. Una propaganda tutt’altro che infondata, dal momento che la letteratura denuncia una probabilità di insuccesso dal 9% al 14%. Il che è come dire che su 100 coppie che per un anno come anticoncezionale usano esciusivamente il preservativo, circa 12 donne rimangono incinte. A proposito di questi «insuccessi», però, bisogna tener conto del fatto che anche senza preservativo la probabilità di contrarre gravidanza non è del 100%, ma dell’89%. Quindi 89 gravidanze su 100 coppie in un anno. Il rapporto 0,12/0,89 (=0,13) indica pertanto una probabilità di insuccesso del 13%, o, in altre parole, un’efficacia dell’87% nella prevenzione della gravidanza per mezzo di preservativi (1). E il 13% è una percentuale di insuccesso molto alta, se si tiene conto del fatto che una donna è feconda soltanto da 3 a 6 giorni a! mese (da 36 a 72 giorni all’anno), il che è come dire: dal 10% al 20% del tempo. Per quanto sia difficile immaginarselo, il preservativo è permeabile agli spermatozoi. La «cortina di gomma» Eppure — incredibile ma vero! — negli anni Ottanta, infierendo già l’epidemia di Aids, il preservativo tapino e vilipeso si vide proclamato rimedio per antonomasia contro la diffusione del virus; grazie a lui il sesso da allora in poi poteva dirsi «safe». Grande fu lo stupore e la preoccupazione degli «insiders», perché sapevano bene che il virus dell’Aids e più piccolo degli spermatozoi, e pertanto capace di superare ancor più facilmente la «cortina di gomma». Ma grande fu pure il sollievo di chi aveva temuto che l’Aids avrebbe messo il punto finale alla conquistata libertà sessuale e che adesso si sentiva dire, addirittura da fonti governative, che i preservativi sono sicuri. Giacché è questo che ci insegnano oggi in Olanda manifesti e spot televisivi: «Faccio l’amore sicuro o non lo faccio per niente», strategicamente piazzati dalla Fondazione «Affezioni a trasmissione sessuale» (Soa, «Sexueel Overdraagbare Aandoeningen») sovvenzionata dallo Stato. Il messaggio è chiaro: si fa vedere un uorno, impegnato in un atto sessuale, con in mano un pacchetto di preservativi che, stando al testo, dovrebbero offrire una difesa sicura contro la trasmissione dello Hiv. A parte l’offesa che questa pubblicità comporta per alcuni settori della popolazione, viene da domandarsi se con l’illusione di diffondere un consiglio salutare non si stiano sperperando soldi dello Stato in una propaganda dagli effetti micidiali. Nel frattempo in altri Paesi non si dà tanto per scontata la sicurezza dei preservativi. La Federal Drugs Administration (Fda), per esempio, l'ente che negli Stati Uniti controlla i medicinali, nota che il preservativo di gomma può fare qualcosa per prevenire le malattie veneree, ma non elimina il rischio (2). Il contatto diretto con sperma infetto è la causa principale della trasmissione per via sessuale del virus dell’Aids. In una eiaculazione vengono emessi circa 3,5 milliuitri di sperma, e il liquido seminale di un uomo sieropositivo contiene più o meno 100.000 particelle di virus per microlitro (0,001 millilitri). Una caratteristica dei virus è proprio la loro dimensione incredibilmente ridotta. Al microscopio elettronico si è potuto costatare che ii virus Hiv è una pallina del diametro di appena 100 nm (nanometri), cioè 0,1 micron (1 micron = 0,001 mm e 1 nanometro è un miliardesimo di metro). Ciò significa che il diametro della parte più grossa dello spermatozoo, la testa, che è di 3 micron, è trenta volte più grande dello Hiv (3). Il che è come dire che, se lo spermatozoo ce la fa a oltrepassare la parete del preservativo, il transito è trenta volte più comodo per il virus. «Sì, però... i preservativi, non vengono testati?». Certo; e in Olanda si continua a pensare — ci credono pure il govemo e la Commissione Nazionale Aids — che si possa star sicuri di come vengono controllati prima di essere messi in vendita. Che siano impermeabili — si dice — basterebbe a dimostrarlo il fatto che non lasciano passare nemmeno una molecola d’acqua: «Figuriamoci se passa uno Hiv!». Ma siamo proprio tanto sicuri che i preservativi non presentino pori abbastanza larghi (più di un 0,1 micron) da lasciar passare lo Hiv, e allo stesso tempo abbastanza piccoli da sfuggire al controllo dei test? Per rispondere a questa domanda la bibliografia medica ci aiuta poco. Dobbiamo rivolgerci ai manuali e alle nviste dell’industria della gomma. La permeabilità dei preservativi viene valutata con il cosiddetto «test di permeabilità», noto con la sigla Astm D 3492-89. Questo test è basato sullo standard originale Astm, consistente nella percezione visiva di perdite (gocce d’acqua) su un preservativo appeso e riempito con 300 ml di acqua; altro elemento del test è il metodo, usato dalla Fda, di far rototare il preservativo su carta, in modo da scoprire più facilmente gocce d’acqua fuoriuscite. Se più dello 0,4% (4 per mille) della partita di preservativi esaminata mostra delle perdite, si scarta tutta la partita. È noto l’esito di un esperimento che fu fatto per scoprire se fosse possibile che, nonostante questa prova, piccole perdite passassero inosservate. Furono aperti, con l’aiuto di un microscopio elettronico, dei forellini di 1 micron in preservativi nuovi, di marche diverse, che avevano già superato il test (4). Di questi preservativi, con forellini dieci voile più grandi dello Hiv, il 90% (!) superò un secondo test, cioè non mostrò alcuna perdita di acqua. In un altro esperimento vennero introdotte, in preservativi che avevano superato il test di permeabilità, microsfere fluorescenti di polistirene del diametro di 0,1 micron, cioè dello stesso diametro dello Hiv (5). Una volta riempiti, questi preservativi vennero esposti a variazioni fisiologiche di pressione, analoghe a quelle che si verificano durante un coito; dopodiché vennero contate le microsfere fuoriuscite. Risultò che un terzo di questi preservativi, pur testati e approvati, mostrava perdite di liquido di un volume tra gli 0,4 e gli 1,6 nanolitri. Si noti che la quantità di liquido minima percepibile a occhio nudo è di 1 microlitro (1 milionesimo di litro, pari a 1000 nanolitri). Il che è come dire che, se questo microlitro di liquido fosse di sperma di un uomo infetto da Hiv, ben centomila particelle di virus sfuggirebbero alla nostra osservazione. E questa è proprio la quantità media di particelle di virus che presenta per microlitro lo sperma infetto. Supponiamo che un coito duri in media 2 minuti, con un preservativo che perde 1 nanolitro per secondo. Il calcolo (1/1000 x 100.000 x 120) ci dà un prodotto pari a 12.000 virus che attaccano il partner, quando uno solo basta a infettarlo. Se, per ipotesi, un coito durasse 30 minuti arriveremmo a (15 x 12.000 =) 180.000 particelle. Il test elettrico A quanto pare dunque il test di permeabilità in uso per i preservativi non è abbastanza sensibile da rintracciare quei pori minimi che bastano a far passare i virus. L’apertura minima percepibile con il test di permeabilità è tra i 10 e i 12 micron, quindi cento volte piü grande del virus Hiv. Oltre al test di permeabilità ne esiste un altro, anch’esso di uso frequente: è un test elettrico, basato sulle capacità isolanti della gomma. Un preservativo viene infilato su una forma di metallo. Se gli viene avvicinato un elettrodo, dovrebbe passare corrente elettrica per quei punti in cui il preservativo presenta dei fori. Ma soltanto se ci sono aperture di una certa grandezza la resistenza non impedisce che si formi questa corrente; il che è escluso nel caso dei micropori. Anche questo test non è abbastanza sensibile e non serve quindi a rintracciare fori piccolissimi. Costatato che i test in uso non riescono a scoprire aperture inferiori a 10 micron di larghezza, è importante studiare la natura di questi fori che si possono osservare nei preservativi e vedere se siano difetti inerenti al materiale usato, il latice. I preservativi di latice dell’albero della gomma hanno infatti da lungo tempo soppiantato quelli, più cari, di intestino animale. È possibile produrli anche in gomma sintetica; ma non accade di frequente, perché la minore elasticità e altre caratteristiche li rendono meno attraenti per il consumatore. La fabbricazione di preservativi di latice di gomma è abbastanza semplice. Si immerge una forma cilindrica di vetro in un serbatoio di latice liquido, che è una sospensione di particelle di gomma con un diametro variabile tra gli 0,1 e i 5 micron. Lo spessore dello strato di gomma che aderisce alla forma è determinato dalle sostanze solide contenute nella soluzione e dal tempo di immersione (generalmente si compiono due immersioni successive). Poi la forma viene tirata fuori e asciugata e vulcanizzata. La vulcanizzazione è un procedimento chimico durante il quale il latice di gomma, con l’aggiunta di zolfo e additivi minerali in soluzione, viene sottoposto a una temperatura di circa 140 °C per quattro o cinque ore. Da termoplastica la gomma diventa così elastica; la sua capacità di trazione aumenta e migliora la resistenza al calore. Successivamente il materiale viene lisciviato, in modo da eliminare sostanze idrosolubili. Alla fine il preservativo viene sfilato dalla forma. In pratica attualmente abbiamo fabbriche pressoché interamente automatizzate che immergono allo stesso tempo moltissime forme in enormi contenitori pieni di latice. L’integrità strutturale del materiale di latice dipende dalla formazione di una pellicola di particelle di gomma saldate fra loro. Il materiale deve soddisfare a requisiti severissimi, se si vuole che formi una barriera per i virus, che sono incredibilmente piccoli. È possibile che talora la saldatura delle particelle di gomma sia impedita dalla presenza di sostanze idrosolubili, dando luogo, dopo la lisciviatura, a strutture capillari. Per quanto l’intenzione dei produttori sia che queste strutture capillari dopo l’asciugatura della pehhicola si saldino tra loro, l’osservazione al microscopio elettronico dimostra che di fatto la pellicola continua a presentare, alla fine del processo, una grande quantità di pori. Descrivendo questa ricerca in un articolo nella rivista specializzata Rubber World del 1993 (6), C.M. Roland, Capo della sezione «Proprietà dei polimeri» del Naval Research Laboratory di Washington, scrive: «Sulla superficie del preservativo la struttura onginale appare al microscopio come un insieme di crateri e pori. I crateri hanno un diametro di circa 15 micron e sono profondi 30 micron. Più importante per la trasmissione dei virus è la scoperta di canali del diametro medio di 5 micron, che trapassano la parete da parte a parte. Ciò significa un collegamento diretto tra l’interno e l’esterno del preservativo attraverso un condotto grande 50 voile il virus». Questa scoperta portö Roland a scrivere una lettera allo Washington Post (7), nella quale raccomandava, come profilassi contro lo Hiv, di usare due preservatiVi, l’uno sopra l’altro. La legge di Poisseulle Alla luce della scoperta di questi canali fatta da Roland si può anche capire meglio perché mai questo test di permeabilità non sia affidabile. Infatti il test di permeabilità ha per oggetto il flusso di una certa quantità di liquido che, nel caso del preservativo, scorre attraverso un tubo breve e molto stretto. La legge di Poisseulle dice che la quantità «q» di liquido che fuoriesce è direttamente proporzionale alla quarta potenza del raggio «r» del tubo. Se la differenza di pressione tra le estremità del tubo nmane uguale, come pure la viscosità del liquido e la lunghezza del tubo, è chiaro che se il tubo si restringe (=diminuzione del raggio «r») la sensibilità del test (=la quantità di liquido «q») diminuisce rapidissimamente (alla quarta potenza di «r») in tubetti dalle misure capillari, che cioè raggiungono rapidamente valori minori di 1 microlitro, che e il limite della percepibilità visiva. L’applicazione del test di permeabilità ai preservativi si fonda sulla supposizione erronea che preservativi che non lasciano passare l’acqua — per lo meno non in quantità visibili — impediranno anche il passaggio dello Hiv, dal momento che le molecole d’acqua sono più piccole del virus. Il test di permeabilità, come lo si applica attualmente, riesce a rintracciare soltanto quelle perdite e rotture che sono così grandi che l’acqua fuoriuscitane è visibile a occhio nudo. A quanto pare l’hanno già capito i Centers for Disease Control (Cdc) americani, che hanno commissionato all’Università di Atlanta lo studio di un nuovo test per i preservativi. I canaletti individuati nelle pareti di preservativi e guanti di gomma sono vasi capillari; e nel passaggio di liquidi nei vasi capillari non agisce solo la pressione idrostatica, ma anche la tensione superficiale. Se si usano mezzi che riducono questa tensione superficiale, la permeabilità non farà che aumentare. È quello che succede quando i preservativi vengono bagnati con lubrificanti e spermicidi, che spesso sono composti di oli e grassi. Ecco perché alcuni produttori di preservativi raccomandano di usare per questo trattamento solo prodotti a base di acqua. Si sente talora obiettare che il virus Hiv non circola libero nello sperma ma si trattiene nei globuli bianchi (cellule «helper» Cd4); tutto dipenderebbe allora dalla risposta alla questione se queste cellule o linfociti, che sono piü grandi del virus, possano o no oltrepassare la parete del preservativo. La risposta è duplice. In primo luogo è vero che i virus contenuti nello sperma si trovano per lo più, come avviene pure nel sangue, rinchiusi in questi linfociti e non negli spermatozoi; ma solo per un tempo limitato. A un certo momento, infatti, le cellule ospitanti scoppiano e i virus si diffondono nel liquido seminale. In secondo luogo le cellule helper Cd4 sono fatte in modo tale da poter raggiungere qualsiasi punto del corpo, come i globuli rossi. Il loro diametro varia da 5 a 20 micron e possono quindi essere più grandi del diametro dei canaletti individuati in preservativi e guanti. Ma sono deformabili e possono passare pertanto attraverso le ramificazioni più sottili del sistema circolatorio, cioè vasi di diametro tra i 5 e i 10 micron; tali condizioni possono benissimo verificarsi pure nei preservativi. Sara bene tener presente che tutte queste ricerche sono state eseguite su guanti e preservativi di recente fabbricazione, senza tener conto dello scadimento di qualità che sopravviene col passare del tempo. Per esempio la possibilità di lacerazioni aumenta dal 3,6% per i preservativi nuovi al 18,6% per i preservativi che hanno già un po’ di anni (8), e aumenta pure in ragione dell’aumento della temperatura ambientale; sbaglia pertanto chi pensa di combattere l’Aids in Africa stimolando l’uso del preservativo, dato che in molti Paesi di questo continente funestato dall’epidemia il clima è molto caldo. Com’è la situazione di fatto? Questi risultati di ricerche di laboratorio trovano riscontro nel fallimento della prevenzione dell’Aids? Su questo argomento sono già state pubblicate molte statistiche e segnalate percentuali di insuccesso. Ma la maniera migliore per testare nella realtà la sicurezza offerta dai preservativi è lo studio della frequenza della trasmissione del virus tra coppie eterosessuali Hiv-discordi, cioè le coppie di marito e moglie nelle quali uno solo dei due è sieropositivo. Una probabilità del 30% Una sola ricerca (9) è stata fatta partendo da questo requisito e allo stesso tempo soddisfacendo alle condizioni che la sieropositività fosse stata costatata in base all’esame del sangue (test Elisa e Western Blot) e che i preservativi si usassero regolarmente nel corso di un anno. Furono esclusi dall’esperimento soggetti che si drogavano per via endovenosa e soggetti che avevano subito trasfusioni di sangue. I risultati hanno dimostrato che l’uso del preservativo diminuisce del 69% la probabilità di contrarre l’infezione da Hiv. Ma nei casi in cui entravano in gioco fattori come una notevole gravità delle condizioni del paziente, la pratica del coito anale, l’essere stati affetti da malattie a trasmissione sessuale, rapporti sessuali con un gran numero di partner diversi e l’uso della «spirale», non si poteva piü parlare di una diminuzione significativa del rischio per chi usava i preservativi (10). Quindi il preservativo diminuisce la possibilità di contrarre l’infezione da Hiv, ma non la esciude affatto. Quello che rende particolarmente significativa una tale ricerca, condotta su coppie di marito e moglie Hiv-discordi, è la certezza che due coniugi che sanno chi dei due è sieropositivo, il preservativo lo useranno con regolarità, per evitare che l’altro partner venga infettato. Sara un caso, ma la probabilità di infezione del 30% che risulta da questa ricerca coincide con l’esito della prova anteriormente descritta fatta con le microsfere fluorescenti, in cui la terza parte dei preservativi esaminati risultò permeabile per queste palline delle stesse dimensioni del virus Hiv. Di che sicurezza gode, allora, chi segue il consiglio dello slogan olandese «Faccio l’amore sicuro o non lo faccio per niente» o obbedisce al più secco e imperativo «Mettitelo!» della campagna pubblicitaria dei nostri vicini belgi? Vediamo un po’ di pareri autorevoli. La Dr. Helen Singer Kaplan, sessuologa e direttrice dello «Human Sexuality Program» del Medical Center della Cornell University di New York, dcrive nel suo libro The Real Truth about Women and Aids (Simon and Schuster, 1987): «Counting on condoms is flirting with death» («Contare sui preservativi è far la corte alla morte»). La «Rivista Medica Olandese», 135 (1991), n. 41: «La pratica dimostra che c’è un grande bisogno di un mezzo che prevenga tanto lo Hiv quanto la gravidanza. Purtroppo la gente non si è ancora resa ben conto che questo mezzo non può essere il preservativo». In una lettera di un medico del Ministero della Sanità olandese, datata 26 maggio 1993 e indirizzata a un cittadino che aveva manifestato la sua preoccupazione, si legge: «Le norme qualitative in Olanda sono esigenti. Le ricerche effettuate hanno dimostrato che la probabilità di perdite e lacerazioni è tra l’1% e il 13%. Ciò significa che il preservativo diminuisce notevolmente la possibilità di contrarre per via sessuale un’infezione da Hiv». Un fax del 14 giugno 1993 di una fabbrica danese a un importatore olandese dice che i consumatori di preservativi possono aspettarsi nei prossimi anni «uno scadimento di qualità pari al 36%, come conseguenza dell’equiparazione delle direttive di fabbricazione in ambito Cee: i requisiti sono infatti molto meno severi in Paesi come la Spagna, il Portogallo e l’Italia che da noi». Si potrà a questo punto obiettare che l’insuccesso del preservativo nella prevenzione della gravidanza e dell’infezione da Hiv non è dovuto esclusivamente a perdite. Ci sono infatti anche altre cause come le lacerazioni, l’uso sconsiderato, lo sfilamento, ecc. Ma con tutto ciò sarebbe irragionevole prescindere dai risultati delle ricerche sulle perdite dei preservativi, condotte da esperti nel campo della gomma. Tanto più che la pubblicazione delle loro conclusioni è prova della loro obiettività, dal momento che tali risultati non si può certo dire che depongano a favore dei prodotti della loro stessa industria. Al contrario, voci maliziose insinuano che, pubblicando questi risultati, l’industria della gomma cerchi di mettere le mani avanti per prevenire eventuali richieste di risarcimento di danni da parte di consumatori di preservativi che abbiano contratto l’infezione da Hiv. In netto contrasto con quesste dichiarazioni e pubblicazioni, il Consiglio olandese per la pubblicità (Nederlandse Reclameraad), interpellato da un esposto che sosteneva il carattere mistificatorio e scandaloso dello slogan «Faccio l’amore sicuro o non lo faccio per niente» ha emesso l’11 agosto 1993 una decisione che suona così: «A giudizio del Consiglio la frase “faccio l’amore sicuro” non può essere intesa nel senso assoluto che questa parola ha secondo l’autore dell’esposto e secondo il “Grande vocabolario Van Dale della lingua neerlandese”. La sicurezza assoluta in pratica non esiste. [...] Nel contesto in cui viene usata, la parola “sicuro” (“veilig”) non la si può intendere altrimenti che nel senso che un preservativo offre un grado elevato di sicurezza, per cui il pericolo di infezione da virus dell’Aids viene notevolmente ridotto». Ma a prescindere dalla presunzione del Reclameraad di ritenersi piü autorevole del Van Dale come interprete della lingua neerlandese, lo slogan contro cui si è sporto il reclamo, alla luce delle ricerche di cui abbiamo parlato, risulta essere tutt’altro che un consiglio sicuro. Soprattutto per i giovani, che non pare si preoccupino tanto di che cosa ci sia di vero in questa millantata sicurezza, un simile consiglio può essere piuttosto uno stimolo a «provarci» ogni tanto. proprio perché invogliati da questa propaganda del preservativo. Un’infezione da Hiv è tuttora una malattia mortale, ma a chi mette in giro questa pubblicità col finanziamento, in questo caso, del Ministero della Sanità non pare che importi molto di avere cadaveri sulla coscienza. Sarebbe ora che non solo queste persone, ma tutti noi cominciassimo a capire che soltanto il recupero di una visione cristiana della vita e della concezione monogamica della sessualità garantiscono una difesa contro la diffusione dello Hiv. La vera causa delI’Aids sta infatti nella «Acquired “Integrity” Deficiency Syndrome», cioè nella perdita di integrità morale che ci ha regalato l’ideologia della «libertà» sessuale. Chi non arriva a capirlo o fa finta di non vederlo sappia per lo meno che di sicurezza, il preservativo, ne offre tanta quanta il tamburo di un revolver nella roulette russa.
NOTE: (1) J. TRUSSEL - K. KOST, Contraceptive Failure in the United States: a Critical Review of the Literature, in «Studies of Family» 18 (1987), pp. 237-283. (2) FDA, Letter to U.S. Condom Manufacturers, 7 aprile 1987. (3) JOHN HOPKINS UNIVERSITY, «Population Reports», vol. XVIII, n. 3, serie H, n. 8, 1990; «American Journal of Nursing», ottobre 1987, p. 1306. (4) G.B. DAVIS - L.W. SCHROEDER, in «Journal of Testing and Evaluation», 18 (1990) 352. (5) R.F. CAREY e altri, Sexually transmitted Diseases, 19 (1992), p. 230. (6) C.M. ROLAND, The Barrier Performance of Latex Rubber, in «Rubber World», giugno 1993, p. 15. (7) «Washington Post», 39 (1992), 3 luglio, p. 22. (8) M. STEINER e altri, Contracception, 1992. pp. 46,279. (9) SUSAN C. WELLER, A Meta-Analysis of Condom Effectiveness in reducing sexually transmitted Hiv, in «Soc. Sci. Med.», vol. 36 (1993), n. 12, pp. 1635-1644. (10) EUROPEAN STUDY GROUP, Risk Factors for Male to Female Transmission of Hiv, in «British Medical Journal», 298 (1989), pp.411-415. (J.P.M. Lelkens, © Studi cattolici, Edizioni Ares, n. 405, novembre 1994)
La chiesa di Santa Maria in Via: la piccola Lourdes nel cuore di Roma (22 marzo 2009)
Madonna degli assetati, e dei ritardatari. Madonna della soglia, che sta in fondo, appena si entra, subito sulla destra, nella cappella degli ultimi arrivati e degli ultimi ad andarsene. A Santa Maria in Via c’è la Madonna del Pozzo, chiamata così perché da un pozzo aggallò una sua immagine, portata in superficie dall’acqua che esondava, in una remota notte del 1256. Il dolce e materno volto di Maria dipinto su un pezzo di silice (o forse di lavagna, o su una tegola, forse), probabilmente da un artista di scuola romana del XIII secolo, ora guarda, dalla parete principale della cappella a Lei dedicata, le persone che ogni giorno s’affacciano, anche soltanto per un minuto, a bere un sorso dell’acqua dell’antico pozzo. Un sorso che, se Dio vuole, può essere una preghiera in cui ognuno esprime tutto l’affetto che nutre per Lei e chiede tutte le grazie di cui ha bisogno. Il gesto più semplice, come bere un bicchiere d’acqua. Barboni carichi di buste piene di carta straccia e politici gravati da borse colme di preziose carte da siglare, romani a spasso, liberi da qualsiasi sporta, e turisti appesi alle didascalie dei loro postmoderni baedeker si inginocchiano ogni giorno davanti all’immagine di Maria, nelle mani i bicchierini di plastica bianca distribuiti da un infaticabile sacrestano che si muove con la rapidità del consumato barista dietro a un lavandino e a un esile rubinetto. La domenica, quella cappella è aperta fino alle dieci di sera, perché nella chiesa di largo Chigi i padri Servi di Maria – alla cui cura Santa Maria in Via fu affidata nel 1512 – celebrano, alle 21, l’ultima messa festiva di Roma, per chi, avendo avuto un gran daffare, non è riuscito ad assistervi prima, per chi s’era dimenticato del precetto, per chi era indeciso se andarci o no, a messa, per chi passa da quelle parti per caso e per caso si ricorda di Maria, che sta là, paziente come solo una madre sa essere, da quasi otto secoli, felice di aspettarti, di stare a sentire le tue povere preghiere e di offrirti, se ne hai voglia, un bicchiere d’acqua fresca del suo pozzo. Le mani nude del cardinale La cappella nel 1256 era una stalla adiacente all’antico edificio di Santa Maria in Via, la cui presenza nella zona – vicino all’attuale via del Corso, all’altezza di piazza Colonna – è attestata già nel X secolo da una bolla di papa Agapito II. Una semplice stalla di proprietà del cardinale Pietro Capocci, fiero nobiluomo di fiera e nobile famiglia romana imparentata coi Colonna, gli Orsini e i Cenci, hidalgo capitolino dalle mani esperte d’armi e di battaglie, mani che avevano difeso Gregorio IX durante i cruenti torbidi cittadini sorti dall’eterno conflitto tra quel Papa e lo “Stupor mundi”, l’imperatore Federico II. Ma nella notte tra il 26 e il 27 settembre, i servitori spaventati dall’improvviso tracimare delle acque del pozzo e da quella “cosa” galleggiante che, giocando a rimpiattino con loro, non si lasciava acchiappare, svegliarono il cardinal Pietro, il quale si alzò in gran fretta presentandosi a mani vuote e, naturalmente, senza armatura, per vedere ciò che stava accadendo nella sua stalla. La lastra di pietra che ondeggiava a fior d’acqua pareva proprio stesse aspettando la povera preghiera del ricco porporato prima di abbandonarsi delicatamente dentro le sue mani nude scivolando sull’ultimo tenue trabocco: in quel momento il pozzo tacque, l’acqua rientrò nella sua sede e l’uomo si inginocchiò di fronte al dipinto. L’indomani chiese a papa Alessandro IV di recarsi sul posto, gli raccontò l’evento e gli spiegò che desiderava trasformare, a proprie spese, la stalla in una cappella dedicata a Maria. Il Papa, dopo le dovute verifiche, approvò l’idea e fece portare per le strade circostanti la sacra immagine in processione, alla quale pure lui prese parte. La cappella fu costruita, e tra quelle della chiesa, riedificata alla fine del XV secolo, è la più profonda, per contenere il pozzo generoso d’acqua e di grazie e per permettere a tutta la gente pellegrina di visitare questa piccola Lourdes nel cuore di Roma. Le soluzioni di Dio Padre Franco Azzalli, procuratore e vicario generale dell’Ordine dei Servitani, ha vissuto a Santa Maria in Via dal 2000 al 2005, celebrando spesso l’ultima messa domenicale e godendo quotidianamente per cinque anni della compagnia della Madonna del Pozzo e della freschezza di quei sorsi d’acqua. «Leone X affidò al nostro Ordine mendicante la custodia della chiesa all’inizio del XVI secolo, più di duecento anni dopo l’evento prodigioso», spiega padre Franco. «Eppure, l’inizio della storia dei Servi di Maria ha uno stretto legame con quell’episodio, legame impersonato proprio dal cardinal Capocci, grande estimatore dei sette mercanti fiorentini che attorno al 1233 diedero vita all’Ordine. Come legato apostolico era venuto infatti in contatto coi Servi di Maria e nel 1250 concesse loro di poter ricevere nell’Ordine come religiosi – liberandoli dalla scomunica – i ribelli che avevano seguito Federico II nella sua guerra contro la Chiesa. Quelli erano tempi difficili...». Tempi di battaglie sanguinose fra cristiani, di eresie diffuse, come quella gnostica dei Catari. «Ma il Signore risponde sempre a modo Suo alle necessità della Sua Chiesa... Mi pare che vi sia sempre uno scarto imprevedibile, e una bellezza imparagonabile, tra le Sue mosse e quelle che tanti cristiani, magari i più volenterosi e zelanti, si affaticano a studiare e a mettere in atto per combattere le avversità del mondo. Allora “si inventò” gli ordini mendicanti, i Francescani, i Domenicani e, appunto, i Servi di Maria... Una soluzione, io credo, divinamente bella e semplice». Come bere un bicchiere d’acqua. Vengono in mente i versi di Péguy, quelli che recitano: «Ciò che dappertutto altrove è ottenuto nel disaccordo / qui non è che un fiume chiaro vicino alla sorgente».
Saziata da Colui che era assetato Adina viene dalla Romania, da Timisoara, e ha superato la quarantina. Ogni mattina, dopo aver assistito alla messa, trascorre qualche minuto in preghiera nella cappella del Pozzo. Poi beve un paio di bicchierini d’acqua, esce fuori e si siede in un angolo, sugli scalini d’accesso alla chiesa, proprio sotto la facciata alla cui realizzazione contribuirono Giacomo Della Porta alla fine del Cinquecento e, quasi un secolo dopo, Carlo Rainaldi. Così Adina, rannicchiata nel chiasso del trafficato incrocio di largo Chigi, inizia la sua giornata di mendicanza silenziosa. Conosce bene tutti i parrocchiani e i frequentatori abituali della chiesa, li saluta con un cenno del capo quando entrano e quando escono, e, chissà, forse non si sente straniera in quel posto che di poveri e stranieri ne ha visti passare parecchi. Non soltanto per il fatto che proprio da quelle parti, per un lungo periodo a partire dal VI secolo, fu attivo uno xenodochio, letteralmente “luogo per accogliere gli stranieri”, gli ospiti, i pellegrini. Ma soprattutto perché Roma i poveri e gli stranieri li ha avuti, e li ha, sempre con sé. Anche la Samaritana che incontrò Gesù presso il Pozzo di Giacobbe era una “straniera”, e un giorno, Gesù, stanco per il viaggio, le chiese da bere dell’acqua. Poi i ruoli si invertirono, per quella «sete natural che mai non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia» (Purg. XXI, 1-3): «Signore, gli disse, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete» (Gv 4, 15). «Quella samaritana presso il pozzo», osserva sant’Agostino, «sentì che il Signore aveva sete, e fu saziata da Colui che era assetato» (naturalmente è più bello l’originale, con una di quelle allitterazioni che Agostino amava utilizzare: «Samaritana illa ad puteum sitientem Dominum sensit, et a sitiente satiata est»): assetato «della fede di quella donna» (Enarr. in ps. 61, 9 e In Io. ev. XV, 11). Fu proprio una scheggia del Pozzo di Giacobbe che il cardinal Capocci fece cadere in quello di Santa Maria in Via: era contento della devozione che incominciò a diffondersi da subito e delle grazie che ben presto fiorirono dalla fontana vivace della sua stalla, e quella reliquia gli sembrò la più appropriata. Nunc et in hora In più di sette secoli di storia, favori speciali e grazie sono zampillati senza sosta dal rubinetto di Santa Maria in Via. Memorie per la maggior parte perdute nel tempo come lacrime di gioia nella pioggia, o sparse in accenni d’inchiostro sulle pagine rugose di antichi registri parrocchiali. I padri servitani hanno però voluto raccogliere in un’antologia (La Madonna del Pozzo. Grazie e favori. Testimonianze, a cura di padre Paolo M. Erthler, Avagliano Editore, Roma 2006) le testimonianze scritte di alcuni episodi legati alla devozione alla Madonna del Pozzo, cronache di guarigioni in forma di ringraziamento, ex voto molto spesso composti di pochissime parole e consegnati ai religiosi della parrocchia tra il 1960 e il 2006. Padre Azzalli dice che senz’altro alcune di queste persone hanno conosciuto padre Manetto Maria Salvador, vissuto a Santa Maria in Via per settantacinque anni, dal 1933 al 2008. A chi è andato qualche volta a messa la domenica sera, quella dei ritardatari, può darsi sia capitato di confessarsi da lui. Difficile scordarselo. Eri sicuro di trovarlo seduto nella cappellina adiacente a quella del Pozzo di Maria. Su quella sediola pareva esserci cresciuto. «Padre Manetto», racconta un parrocchiano, «era uno che ti comunicava fisicamente un sentimento di speranza, ti diceva col sorriso che con Gesù si può sempre ricominciare, e che ricominciare è bello... era uno che alla fine della confessione, mai lunga, t’assolveva con una carezza sulla testa e tu te ne andavi contento». Padre Manetto è morto l’11 agosto del 2008, e padre Franco racconta che quel giorno l’anziano sacerdote era tornato in stanza in tarda mattinata, dopo aver celebrato la messa delle 11. «Si sentiva un po’ stanco, e allora ha chiesto a un confratello che era lì con lui di portargli un bicchiere d’acqua, che viene dalla stessa fonte cui attinge il Pozzo di Maria. Dopo aver bevuto, glielo ha riconsegnato. Il confratello, tornato dalla cucina dove era andato a riporre il bicchiere, lo ha ritrovato addormentato sulla poltrona». Così Maria ha voluto accompagnare l’anziano sacerdote nella sua ultima ora. L’ha fatto con il gesto di sempre, il più facile. Come bere un bicchiere d’acqua. (Paolo Mattei, 30Giorni, Marzo 2009)
Date a Darwin quel che è di Darwin. Ma la creazione è di Dio (15 marzo 2009)
A duecento anni dalla nascita di Charles Darwin e a centocinquanta dalla sua opera più famosa, il pontificio consiglio della cultura presieduto dall'arcivescovo Gianfranco Ravasi ha patrocinato un sontuoso convegno internazionale dal titolo: "L'evoluzione biologica: i fatti e le teorie. Una valutazione critica 150 anni dopo 'L'origine delle specie'". Il convegno si è tenuto dal 3 al 7 marzo a Roma, alla Pontificia Università Gregoriana. Ed è stato promosso da questa università assieme all'americana University of Notre Dame. Vi hanno preso la parola i maggiori specialisti mondiali nelle diverse discipline, dalla biologia alla paleontologia, dall'antropologia alla filosofia alla teologia. Molto varie anche le posizioni messe a confronto. C'erano studiosi cattolici, protestanti, ebrei, agnostici, atei. Da Darwin in poi, poche teorie scientifiche sono state così aspramente discusse come l'evoluzione e hanno determinato un tale cambiamento di paradigma nella comune interpretazione dell’intera realtà, uomo compreso. Sia nel campo scientifico, sia nella visione della Chiesa cattolica, creazione ed evoluzione di per sé non si escludono. Nell'uno e nell'altro campo vi sono però tendenze ad erigere delle costruzioni teoriche che sono sì tra loro escludenti. Nel presentare ufficialmente il convegno, in Vaticano, il gesuita Marc Leclerc, professore di filosofia della natura alla Gregoriana, ha così sintetizzato le due opposte derive ideologiche: "La novità del paradigma ha spinto parecchi seguaci di Darwin ad oltrepassare i confini della scienza per erigere qualche elemento della sua teoria, o della sintesi moderna realizzata nel corso del XX secolo, a 'Philosophia universalis', secondo la giusta espressione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, a chiave d’interpretazione universale di una realtà in perpetuo divenire. "Ma lungo questa scia si sono diretti troppo spesso anche gli avversari del darwinismo, confondendo la teoria scientifica dell’evoluzione con l’ideologia onnicomprensiva che la snaturava, per rigettarlo del tutto in quanto totalmente incompatibile con una visione religiosa della realtà. Tale situazione potrebbe spiegare il ritorno odierno di concezioni 'creazioniste' o di ciò che si presenta a volte come una teoria alternativa, il così detto 'intelligent design'. A questo livello siamo lontani dalle discussioni scientifiche". In effetti nessun relatore, al convegno, ha difeso l'una o l'altra di queste costruzioni ideologiche. Tutte sono state discusse e valutate criticamente. L'intento comune era di esercitare le singole discipline – scientifiche, filosofiche, teologiche – con le specificità e le ricchezze di ciascuna, a beneficio di tutte. Dopo cinque giorni intensissimi, con trentacinque relazioni tenute da altrettanti specialisti, si può dire che l'obiettivo sia stato raggiunto. La pace tra creazione ed evoluzione appare oggi più solida. Una prova luminosa di come le due visioni del mondo possano convivere e integrarsi è nel saggio che segue, pubblicato alla vigilia del convegno da "La Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il preventivo controllo della segreteria di stato vaticana. L'autore insegna nella Pontificia Università Gregoriana, la stessa che ha ospitato il convegno su Darwin. Nel suo saggio egli mostra come il racconto biblico della creazione non solo non è incompatibile con la razionalità moderna, ma ha segnato "una emancipazione del sapere scientifico", consegnando il creato alla responsabilità dell'uomo. Del saggio, uscito sul numero 3807 della "Civiltà Cattolica" con la data del 7 febbraio 2009, è qui riprodotto un estratto:
"L'origine delle specie". Genesi 1 e la vocazione scientifica dell'uomo di Jean-Pierre Sonnet Quando si parla delle origini, per i cristiani del nostro tempo la sfida è vivere una doppia cittadinanza: una fedeltà intelligente all’insegnamento di Genesi 1 e un’apertura attenta alle proposte della ricerca scientifica. [...] Oggi tuttavia essi devono affinare tale duplice lealtà, in un tempo in cui alcuni si divertono a porre l’una contro l’altra le nozioni di creazione e di evoluzione, sotto forma di ideologie – creazionismo ed evoluzionismo – reciprocamente esclusive. Per i sostenitori dell’evoluzionismo, rifarsi al poema iniziale della Genesi significa regredire in una forma di oscurantismo incompatibile con la razionalità dell’età moderna. In questo saggio cercheremo di dimostrare che il riferimento ai primi capitoli della Genesi non implica affatto una resa dell’intelligenza. [...] Una razionalità luminosa attraversa questi testi, capaci di parlare a ogni uomo ragionevole, e in particolare all’uomo di scienza contemporaneo. [...] Genesi 1 potrebbe avere come sottotitolo "Process and Reality": l’atto creatore vi è distribuito in momenti successivi, nella sequenza di una settimana. [...] Lungi dall’essere un’esplosione di potenza cieca, la creazione – secondo il poema narrativo di Genesi 1 – è un’azione che si svolge progressivamente, in una sequenza ordinata, in cui si enuncia un disegno. La progressione – come ha mostrato Paul Beauchamp nel saggio "Création et séparation" – è anzitutto quella di separazioni successive, espresse dapprima mediante la radice verbale "badal": "E Dio separò la luce dalle tenebre" (1,4; cfr. anche 1,6.7.14.18). A partire dal terzo giorno, una volta costituiti i macroelementi del cosmo, non compare più il verbo della separazione (tranne in 1,14.18, a proposito delle "grandi luci"), sostituito da un’altra espressione: "secondo la propria specie". Tale formula, ripetuta dieci volte, si riferisce prima alle specie vegetali (1,11-12) e poi a quelle animali (1,21.24-25). Fin dall’origine, Dio salva dall’informe e dall’indeterminato, costituendo progressivamente un mondo differenziato. Nella loro sequenza, i giorni della creazione amplificano la successione già legata alla parola. Fin dal primo giorno gli atti divini, per quanto immediati, si manifestano in modo discorsivo. [...] La successione è senza dubbio una legge del linguaggio e, in particolare, del discorso narrativo, che può dire le cose soltanto l’una dopo l’altra. In un riflesso di "realismo" teologico, il racconto di Genesi 1 si preoccupa di far risalire tale successione alla stessa libertà divina. [...] Seguendo passo dopo passo le iniziative divine, il narratore si preoccupa di accentuare ciò che il disegno divino ha di costruito e di finalizzato. L’atto creatore, nella sua sequenza, non è un processo aleatorio o una stravagante dispersione di energia. Il gesto divino – afferma il narratore – si dispiega tra "principio" (1,1) e "compimento" (vedi il verbo "portare a compimento" in 2,1), e in una serie ("primo giorno", "secondo giorno" ecc.) che appare progressivamente nella sua compiutezza, quella dei sei giorni più uno. Infine, al termine del racconto scopriamo che Dio porta a compimento proprio ciò che aveva iniziato a creare all’origine, "il cielo e la terra" (2,1; cfr. 1,1). In altri termini, il processo si inserisce nell’intelligenza di un disegno, che presiede a ciascuno dei suoi momenti. Il dominio divino in Genesi 1 ha paradossalmente la sua più bella dimostrazione nelle pause che ritmano la sequenza creatrice. Infatti Dio unisce alle sue iniziative creatrici un cenno di pausa e di meraviglia: "Dio vide che la luce era cosa buona" (1,4). [...] In ognuna di queste pause Dio rivela che non è affatto schiavo della propria potenza; questa invece è, fino in fondo, l’espressione della sua libertà, come si scopre il settimo giorno, quando Dio "cessa da ogni suo lavoro" ("wayysbot", dalla radice "sabat") e consacra un giorno intero a questa sosta (2,2). Anziché occupare il settimo giorno della serie a "esaurire" la propria potenza creatrice e a riempire il tutto del mondo, il Dio biblico è colui che pone un limite al gesto creatore, "dominando il suo dominio", per parlare come Salomone: "Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza" (Sapienza 12,18). In questa sosta Dio fissa il suo rifiuto di riempire tutto e, correlativamente, la sua volontà di aprire uno spazio di autonomia all’universo, in particolare all’umanità. [...] Infine questo processo, con la sua disposizione, rivela la finalizzazione che lo sottende: gli elementi progressivamente costituiti disegnano una curva, che va dal "buono" del v. 4 al "molto buono" del v. 31. L’asse della parola è quello che meglio rivela tale curva dello spazio creato. Se fin dalla creazione della luce Dio parla, e se parla di tutti gli elementi che crea – "Sia la luce... Si raccolgano le acque… Ci siano luci nel firmamento…" –, egli parla in seconda persona soltanto ai viventi, a partire dal quinto giorno: "Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari…" (v. 22). Fino ad allora le creature non erano interpellate, ma erano al massimo destinatarie di ordini in terza persona. Da questo momento Dio parla a creature viventi, capaci di capirlo. Ma è nel sesto giorno, con la creazione dell’uomo, che la persona grammaticale mancante – la prima persona – fa la sua apparizione sulla bocca di Dio. Prima al plurale: "Facciamo l’uomo " (v. 26), poi al singolare: "Io vi dò ogni pianta come vostro cibo " (v. 29). Ed è con l’apparizione della coppia umana che la parola divina si dà un interlocutore esplicito: "Dio disse loro" (v. 28). Dio si rivolge – e in prima persona – all’essere che sarà lui pure essere di linguaggio, "l’essere a immagine", destinato al dominio dolce della parola. La sequenza era dunque, in ogni sua parte, ordinata al proprio fine. E la forma narrativa, in particolare nel suo modo di rappresentare le variazioni nella parola divina, è stata il veicolo efficace di tale finalizzazione. Genesi 1 potrebbe avere anche come sottotitolo "L’origine delle specie", tanto il disegno divino è legato alla diversità delle specie. Certamente, qui non si tratta del processo di evoluzione delle specie. Se Genesi 1 evoca un processo, questo si deve cercare nella sequenza dei giorni, nel corso dei quali Dio fa sorgere le specie vegetali, le specie animali dell’acqua e dell’aria e quelle della terraferma. I diversi biotipi sono rispettati (acqua, firmamento, terra), però l’intervento divino non è rivolto a "classi" di animali, ma va dritto alle specie particolari: i vegetali e gli animali appaiono tutti "secondo la propria specie" (vv. 11-12, 21.24-25). E queste specie appaiono "tali quali", cioè nello stato in cui le incontra dal v. 28 lo sguardo dell’uomo. La flora e la fauna consacrate da Dio nella loro bontà sono quelle che accompagnano la famiglia umana nel suo destino. [...] Se le specie sono portate ognuna all’esistenza con un intervento immediato di Dio, sono pure create nella loro autonomia. Le specie vegetali sorgono provviste del loro principio di riproduzione: "La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie" (1,11). Quanto ai rappresentanti delle specie animali, questi si sentono dire: "Siate fecondi e moltiplicatevi" (1,22). Se l’eteronomia è presente in ogni istante del poema narrativo di Genesi 1 – poiché le creature hanno il loro segreto in questo Altro che le fa sorgere –, l’autonomia delle specie nella durata vi è pure manifesta: Dio crea i viventi affidandoli alla loro autonomia riproduttiva, a ciò che li renderà "uguali" di età in età. C'è un altro testo del Pentateuco, il capitolo 11 del Levitico, in cui diventa pienamente evidente l’argomento del "discorso sulle specie" di Genesi 1. [...] Il trattato sugli animali mondi e immondi che si legge in Levitico 11 costituisce infatti una messa in atto sofisticata dei dati e delle distinzioni introdotti in Genesi 1. Una nuova luce è stata portata su Levitico 11 con i lavori di Mary Douglas, antropologa inglese, che ha pubblicato nel 1966 "Purity and Danger". Già nel 1962 Claude Lévi-Strauss nel suo "La Pensée sauvage" aveva [...] dimostrato attraverso l’analisi di vari miti e della loro struttura che il pensiero primitivo detto "selvaggio" era invece guidato da una logica rigorosa, classificatrice. In "Purity and Danger" Douglas dimostra che Levitico 11 illustra perfettamente tale logica. [...] Di tutte le creature animali, inclusi i mostri marini, Dio ha dichiarato la bontà, consacrando la loro divisione per specie (Genesi 1,21- 25). Perché allora Levitico 11 introduce distinzioni supplementari tra animali mondi e immondi? Le differenze introdotte in Levitico 11 valgono unicamente per il popolo che è stato "distinto": sono di ordine pratico e si riferiscono al regime alimentare degli israeliti e alla loro pratica sacrificale; riguardano un popolo chiamato a entrare nella santità di Dio – e dunque nella sua "differenza" – entrando in un mondo più ricco di differenze. Un passaggio del Levitico riassume tale vocazione singolare: "Io, vostro Dio, vi ho separati dagli altri popoli. Farete dunque separazione tra animali mondi e immondi, fra uccelli immondi e mondi, e non vi renderete abominevoli mangiando animali, uccelli o esseri che strisciano sulla terra e che io vi ho fatto separare come immondi. Sarete santi per me, perché io, vostro Dio, sono santo e vi ho separati dagli altri popoli, perché siate miei" (20,24-26). [...] Unita alle altre distinzioni introdotte dal Levitico, la distinzione degli animali mondi e immondi è tra quelle che pongono i figli di Israele dal lato di [...] un rispetto più attento, negli altri e in se stessi, del primo dono di Dio che è questa vita. Ancora una volta, la visione biblica non sostiene affatto una religiosità irrazionale, ma si rivela legata a una saggia articolazione del mondo, rispettosa delle distinzioni interne al reale e della finalità da esse indicate. Genesi 1 potrebbe infine avere il sottotitolo dato da Karl Popper alla sua ultima opera: "Questioni intorno alla conoscenza della natura". Adamo prolunga l’opera creatrice della separazione delle specie. Così facendo, esercita, a immagine di Dio, il "dominio dolce" del mondo che gli è affidato (1,28). Un testo del libro dei Re afferma inoltre che egli esercita in questo una funzione reale e, per così dire, "scientifica". L’elogio della sapienza di Salomone termina con questi versetti: "La sapienza di Salomone superò quella di tutti gli orientali e tutta la sapienza dell’Egitto. [...] Pronunziò tremila proverbi; i suoi canti furono millecinque. Parlò di piante, dal cedro del Libano all’issopo che sbuca dal muro; parlò di quadrupedi, di uccelli, di rettili e di pesci" (1 Re 5,10-13). Nello stato-giardino che sono Giuda e Israele (cfr. 1 Re 5,5), Salomone, ripieno della saggezza che ha ricevuto, prolunga il gesto di Adamo che "impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche" (Genesi 2,20) e avvia anche il governo del mondo con il linguaggio. Dopo Herder e Heidegger, non sono mancate le interpretazioni che hanno visto nei nomi dati da Adamo agli animali la nascita della vocazione poetica dell’uomo, quella di "abitare poeticamente questa terra" (Hölderlin). A dire il vero, il sottofondo culturale della doppia scena (in Genesi 2 e in 1 Re 5) invita a vedere Adamo e Salomone rappresentati sia come poeti sia come uomini di scienza. La saggezza enciclopedica di Salomone nel citato ritratto di 1 Re 5,12-13 è vicina infatti al sapere classificatore e alla "scienza delle liste" degli abitanti della Mesopotamia, da cui derivano pure gli inventari del libro dei Proverbi e dei codici di leggi bibliche. Di tale "scienza delle liste" elaborata fra il Tigri e l’Eufrate, René Labat scrive: "Anche se non era rivolta all’universalità, essa si trova in pratica estesa a tutti gli ordini della conoscenza: scienze della natura nelle liste di minerali, di piante e di animali; scienza delle tecniche nelle liste di utensili, di vesti, di costruzioni, di cibi e bevande; scienza dell’universo nelle liste degli dei, di stelle, di paesi o contrade, di fiumi e di montagne; infine scienze dell’uomo nelle liste dei particolari fisici, delle parti del corpo, dei mestieri e delle classi sociali". Tale classificazione dei fenomeni del reale si organizza in particolare a partire dai loro nomi. Nella Bibbia c’è un’eco dell’attività creatrice di Dio che crea le cose dando loro un nome. "La cerchia delle conoscenze di Salomone, zoologica e botanica, è un altro giardino di Adamo", scrive Paul Beauchamp. Adamo e Salomone attestano entrambi – uno alle origini e l’altro nella "modernità" della storia – la vocazione dell’uomo ad abitare "scientificamente" la terra che Dio ha loro affidato. Labat nella sua nomenclatura menziona l’elaborazione delle "liste degli dei". Ma questo è un compito che non spetta più all’uomo biblico, il cui Dio unico si rivela irriducibile ai fenomeni del mondo. Bisogna infatti rilevare come il monoteismo biblico ha trasformato il rapporto del "sapere" dell’uomo con il mondo che lo circonda: nel mondo biblico la "scienza delle liste" ha un nuovo senso. I politeismi dell’antico Vicino Oriente, egiziani, mesopotamici e cananei [...] erano strettamente legati ad ambienti cosmici: il cielo, la pioggia, le costellazioni, l’aria, il vento, le acque dolci. Questo non è più pensabile nel contesto biblico: se Dio penetra con il suo sguardo e la sua cura il mondo che ha creato, fin nei punti più inaccessibili (cfr. Giobbe 38-39), è però "separato" nella sua assoluta trascendenza (cfr. Isaia 40,25; 46,5; 66,1-2). Le società religiose dell’antico Vicino Oriente si caratterizzano inoltre per un fondo oscuro in cui regnano dèmoni e forze malefiche. Il pensiero biblico ha notevolmente riorientato questo dato. [...] Liberata dalle immanenze divine e demoniache, la terra dell’uomo biblico gli è interamente consegnata: "I cieli sono i cieli di Dio, ma egli ha dato la terra ai figli dell’uomo" (Salmo 115,16). Essa gli è affidata in tutta la sua estensione, cielo, mare e terra, come canta il Salmo 8, con il dovere di ricerca che ne segue: "È gloria dei re investigare le cose" (Proverbi 25,2). Tale compito reale dell’uomo biblico riceve la forma più "moderna", quasi secolarizzata, nella ricerca di Salomone, come è presentata nel libro del Qoelet: "Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo" (1,13). Certamente tale impresa è distante dalle scienze moderne: per diventare operative, queste dovranno varcare altre soglie di razionalità, a cominciare da quella della concettualità greca. È vero tuttavia che il pensiero biblico della consegna del creato al sapere e al potere dell’uomo costituisce una delle condizioni dell’emancipazione del sapere scientifico. Genesi 1 è dunque, a modo suo, un manifesto dell’intelligibilità del mondo. [...] Questo capitolo e quelli che seguono nella Genesi non affermano affatto una forma di concorrenza tra la scienza divina e quella dell’uomo. L’accesso dell’uomo al sapere del linguaggio non è una prerogativa sottratta alla divinità, come un fuoco prometeico, nonostante le false promesse del serpente in Genesi 3,1-5. La vocazione "scientifica" dell’uomo è invece enunciata nei momenti di presenza di Dio all’uomo, sia che si tratti di un discorso rivolto da Dio ad Adamo in Genesi 1, o della vicinanza di Dio all’uomo nel giardino in Genesi 2, o dell’esperienza mistica in 1 Re 3, dove Salomone chiede a Dio la saggezza, che in particolare prenderà la forma del suo governo del mondo attraverso la parola. Questo sapere non è al riparo da deviazioni, ma procede anzitutto dall’"essere a immagine", come il compito reale affidato da Dio a Adamo. Il Salmo 8 pone le cose nella giusta prospettiva, quando celebra la signoria di Dio celebrando quella dell’uomo: "Tu l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato; gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi". (Sandro Magister, Chiesa.it, 9 marzo 2009)
Incontro di Benedetto XVI con il clero romano: domande e risposte (8 marzo 2009)
Giovedì mattina, nell’Aula della Benedizione, Benedetto XVI ha incontrato i parroci e i sacerdoti della Diocesi di Roma per il tradizionale appuntamento di inizio Quaresima. Dopo l’indirizzo di omaggio del Cardinale Vicario Agostino Vallini, sono intervenuti 8 sacerdoti. Di seguito riportiamo la sintesi degli interventi dei sacerdoti e le risposte del Santo Padre.
1) Santo Padre, sono Don Gianpiero Palmieri, parroco della parrocchia di San Frumenzio ai Prati Fiscali. Volevo rivolgerle una domanda sulla missione evangelizzatrice della comunità cristiana e, in particolare, sul ruolo e sulla formazione di noi presbiteri all'interno di questa missione evangelizzatrice. Per spiegarmi, parto da un episodio personale. Quando, giovane presbitero, ho cominciato il mio servizio pastorale nella parrocchia e nella scuola, mi sentivo forte del bagaglio degli studi e della formazione ricevuta, ben radicato nel mondo delle mie convinzioni dei miei sistemi di pensiero. Una donna credente e saggia, vedendomi in azione, scosse la testa sorridendo e mi disse: don Gianpiero, quand'è che metti i pantaloni lunghi, quand'è che diventi uomo? È un episodio che m'è rimasto nel cuore. Quella donna saggia cercava di spiegarmi che la vita, il mondo reale, Dio stesso, sono più grandi e sorprendenti dei concetti che noi elaboriamo. Mi invitava a mettermi in ascolto dell'umano per cercare di capire, per comprendere, senza aver fretta di giudicare. Mi chiedeva di imparare a entrare in relazione con la realtà, senza paure, perché la realtà è abitata da Cristo stesso che agisce misteriosamente nel suo Spirito. Di fronte alla missione evangelizzatrice oggi noi presbiteri ci sentiamo impreparati e inadeguati, sempre con i calzoni corti. Sia sotto l'aspetto culturale — ci sfugge la conoscenza attenta delle grandi direttrici del pensiero contemporaneo, nelle sue positività e nei suoi limiti — e soprattutto sotto l'aspetto umano. Rischiamo sempre di essere troppo schematici, incapaci di comprendere in maniera saggia il cuore degli uomini di oggi. L'annuncio della salvezza in Gesù non è anche l'annuncio dell'uomo nuovo Gesù, il Figlio di Dio, nel quale anche la nostra umanità povera viene redenta, resa autentica, trasformata da Dio? Allora la mia domanda è questa: condivide questi pochi pensieri? Nelle nostre comunità cristiane viene tanta gente ferita dalla vita. Quali luoghi e modi possiamo inventarci per aiutare nell'incontro con Gesù l'umanità degli altri? E anche come costruire in noi preti un'umanità bella e feconda? Grazie, Santità! R. Grazie! Cari confratelli, innanzitutto vorrei esprimere la mia grande gioia di essere con voi, parroci di Roma: i miei parroci, siamo in famiglia. Il Cardinale Vicario ci ha detto bene è che un momento di riposo spirituale. E in questo senso sono anche grato che posso iniziare la Quaresima con un momento di riposo spirituale, di respiro spirituale, nel contatto con voi. E ha anche detto: stiamo insieme perché voi potete raccontarmi le vostre esperienze, le vostre sofferenze, anche i vostri successi e gioie. Quindi non direi che qui parla un oracolo, al quale voi chiedete. Siamo invece in uno scambio familiare, dove per me è anche molto importante, tramite voi, conoscere la vita nelle parrocchie, le vostre esperienze con la Parola di Dio nel contesto del nostro mondo di oggi. E vorrei così imparare anch'io, avvicinarmi alla realtà dalla quale chi è nel Palazzo Apostolico è anche un po' troppo distante. E questo è anche il limite delle mie risposte. Voi vivete nel contatto diretto, giorno per giorno, con il mondo di oggi; io vivo in contatti diversificati, che sono molto utili. Per esempio, adesso ho avuto la visita «ad limina» dei Vescovi della Nigeria. E ho potuto vedere così, tramite le persone, la vita della Chiesa in un Paese importante dell'Africa, il più grande, con 140 milioni di abitanti, un grande numero di cattolici, e toccare le gioie e anche le sofferenze della Chiesa. Ma per me questo è ovviamente un riposo spirituale, perché è una Chiesa come la vediamo negli Atti degli Apostoli. Una Chiesa dove c'è la fresca gioia di aver trovato Cristo, di aver trovato il Messia di Dio. Una Chiesa che vive e cresce ogni giorno. La gente è gioiosa di trovare Cristo. Hanno vocazioni e così possono dare, nei diversi Paesi del mondo, sacerdoti fidei donum. E vedere che non c'è solo una Chiesa stanca, come si trova spesso in Europa, ma una Chiesa giovane, piena di gioia dello Spirito Santo, è certamente un rinfresco spirituale. Ma è anche importante per me, con tutte queste esperienze universali, vedere la mia Diocesi, i problemi e tutte le realtà che vivono in questa Diocesi. In questo senso, in sostanza, sono d'accordo con lei: non è sufficiente predicare o fare pastorale con il bagaglio prezioso acquisito negli studi della teologia. Questo è importante e fondamentale, ma deve essere personalizzato: da conoscenza accademica, che abbiamo imparato e anche riflettuto, in visione personale della mia vita, per arrivare alle altre persone. In questo senso vorrei dire che è importante, da una parte, concretizzare con la nostra esperienza personale della fede, nell'incontro con i nostri parrocchiani, la grande parola della fede, ma anche non perdere la sua semplicità. Naturalmente parole grandi della tradizione — come sacrificio di espiazione, redenzione del sacrificio del Cristo, peccato originale — sono oggi come tali incomprensibili. Non possiamo semplicemente lavorare con formule grandi, vere, ma non più contestualizzate nel mondo di oggi. Dobbiamo, tramite lo studio e quanto ci dicono i maestri della teologia e la nostra esperienza personale con Dio, concretizzare, tradurre queste grandi parole, così che devono entrare nell'annuncio di Dio all'uomo nell'oggi. E, direi, dall'altra parte, non dovremmo coprire la semplicità della Parola di Dio in valutazioni troppo pesanti di avvicinamenti umani. Mi ricordo un amico che, dopo aver ascoltato prediche con lunghe riflessioni antropologiche per arrivare insieme al Vangelo, diceva: ma non mi interessano questi avvicinamenti, io vorrei capire che cosa dice il Vangelo! E mi sembra spesso che invece di lunghi cammini di avvicinamento, sarebbe meglio — io l'ho fatto quanto ero ancora nella mia vita normale — dire: questo Vangelo non ci piace, siamo contrari a quanto dice il Signore! Ma che cosa vuole dire? Se io dico sinceramente che a prima vista non sono d'accordo, abbiamo già l'attenzione: si vede che io vorrei, come uomo di oggi, capire che cosa dice il Signore. Così possiamo senza lunghi circuiti entrare nel vivo della Parola. E dobbiamo anche tener presente, senza false semplificazioni, che i dodici apostoli erano pescatori, artigiani, di questa provincia, la Galilea, senza particolare preparazione, senza conoscenza del grande mondo greco e latino. Eppure sono andati in tutte le parti dell'impero, anche fuori l'impero, fino all'India, e hanno annunciato Cristo con semplicità e con la forza della semplicità di quello che è vero. E mi sembra anche questo importante: non perdiamo la semplicità della verità. Dio c'è e Dio non è un essere ipotetico, lontano, ma è vicino, ha parlato con noi, ha parlato con me. E così diciamo semplicemente che cosa è e come si può e si deve naturalmente spiegare e sviluppare. Ma non perdiamo il fatto che noi non proponiamo riflessioni, non proponiamo una filosofia, ma proponiamo l'annuncio semplice del Dio che ha agito. E che ha agito anche con me. E poi per la contestualizzazione culturale, romana — che è assolutamente necessaria — direi che il primo aiuto è la nostra esperienza personale. Non viviamo sulla luna. Sono un uomo di questo tempo se io vivo sinceramente la mia fede nella cultura di oggi, essendo uno che vive con i mass media di oggi, con i dialoghi, con le realtà dell'economia, con tutto, se io stesso prendo sul serio la mia esperienza e cerco di personalizzare in me questa realtà. Così siamo proprio nel cammino di farci capire anche dagli altri. San Bernardo di Chiaravalle ha detto nel suo libro di considerazioni al suo discepolo Papa Eugenio: considera di bere dalla tua propria fonte, cioè dalla tua propria umanità. Se sei sincero con te e cominci a vedere con te che cosa è la fede, con la tua esperienza umana in questo tempo, bevendo dal tuo proprio pozzo, come dice san Bernardo, anche agli altri puoi dire quanto si deve dire. E in questo senso mi sembra importante essere attenti realmente al mondo di oggi, ma anche essere attenti al Signore in me stesso: essere un uomo di questo tempo e nello stesso tempo un credente di Cristo, che in sè trasforma il messaggio eterno in messaggio attuale. E chi conosce meglio gli uomini di oggi che il parroco? La canonica non è nel mondo, è invece nella parrocchia. E qui, dal parroco, vengono gli uomini spesso, normalmente, senza maschera, non con altri pretesti, ma nella situazione della sofferenza, della malattia, della morte, delle questioni in famiglia. Vengono nel confessionale senza maschera, con il loro proprio essere. Nessun'altra professione, mi sembra, dà questa possibilità di conoscere l'uomo com'è nella sua umanità e non nel suo ruolo che ha nella società. In questo senso, possiamo realmente studiare l'uomo come è nella sua profondità, fuori dai ruoli, e imparare anche noi stessi l'essere umano, l'essere uomo sempre alla scuola di Cristo. In questo senso direi che è assolutamente importante imparare l'uomo, l'uomo di oggi, in noi e con gli altri, ma anche sempre nell'ascolto attento al Signore e accettando in me il seme della Parola, perché in me si trasforma in frumento e diventa comunicabile agli altri.
2) Sono Don Fabio Rosini, parroco di Santa Francesca Romana all'Ardeatino. A fronte dell'attuale processo di secolarizzazione e delle sue evidenti ricadute sociali ed esistenziali, quanto mai opportunamente abbiamo, a più riprese, ricevuto dal Suo magistero, in mirabile continuità con quello del suo venerato Predecessore, l'esortazione all'urgenza del primo annuncio, allo zelo pastorale per l'evangelizzazione o rievangelizzazione, all'assunzione di una mentalità missionaria. Abbiamo compreso quanto sia importante la conversione dell'azione pastorale ordinaria, non più presupponendo la fede della massa e accontentandoci di curare quella porzione di credenti che persevera, grazie a Dio, nella vita cristiana, ma interessandoci, più decisamente e più organicamente, delle molte pecore perdute, o perlomeno disorientate. In molti e con diversi approcci, noi presbiteri romani abbiamo cercato di rispondere a questa oggettiva urgenza di rifondare o, addirittura, spesso fondare la fede. Si stanno moltiplicando le esperienze di primo annuncio e non mancano risultati anche molto incoraggianti. Personalmente posso constatare come il Vangelo, annunciato con gioia e franchezza, non tarda a guadagnare il cuore degli uomini e delle donne di questa città, proprio perchè esso è la verità e corrisponde a ciò di cui più intimamente ha bisogno la persona umana. La bellezza del Vangelo e della fede, infatti, se presentati con amorevole autenticità, sono evidenti da se stessi. Ma il riscontro numerico, talvolta sorprendentemente alto, non garantisce di per sè la bontà di un'iniziativa. La storia della Chiesa, anche recente, non manca di esempi. Un successo pastorale, paradossalmente, può nascondere un errore, una stortura di impostazione, che magari non appare immediatamente. Ecco perchè vorrei chiederle: quali devono essere i criteri imprescindibili di questa urgente azione di evangelizzazione? Quali sono, secondo lei, gli elementi che garantiscono di non correre invano nella fatica pastorale dell'annuncio a questa generazione a noi contemporanea? Le chiedo umilmente di segnalarci, nel suo prudente discernimento, i parametri da rispettare e da valorizzare per poter dire di compiere un'opera evangelizzatrice che sia genuinamente cattolica e che porti frutto nella Chiesa. La ringrazio di cuore per il suo illuminato magistero. Ci benedica. R. Sono contento di sentire che si fa realmente questo primo annuncio, che si va oltre i limiti della comunità fedele, della parrocchia, alla ricerca delle cosiddette pecore sperdute; che si cerca di andare verso l'uomo d'oggi che vive senza Cristo, che ha dimenticato Cristo, per annunciargli il Vangelo. E sono felice di sentire che non solo si fa questo, ma che si conseguono anche dei successi numericamente confortanti. Vedo, quindi, che voi siete capaci di parlare a quelle persone nelle quali si deve rifondare, o addirittura fondare, la fede. Per questo lavoro concreto, io non posso dare ricette, perchè sono diverse le strade da seguire, a seconda delle persone, delle loro professioni, delle varie situazioni. Il catechismo indica l'essenza di quanto annunciare. Ma è chi conosce le situazioni che deve applicare le indicazioni, trovare un metodo per aprire i cuori ed invitare a mettersi in cammino con il Signore e con la Chiesa. Lei parla dei criteri di discernimento per non correre invano. Vorrei innanzitutto dire che tutte e due le parti sono importanti. La comunità dei fedeli è una cosa preziosa e non dobbiamo sottovalutare — anche guardando ai tanti che sono lontani — la realtà positiva e bella che costituiscono questi fedeli, i quali dicono sì al Signore nella Chiesa, cercano di vivere la fede, cercano di andare sulle orme del Signore. Dobbiamo aiutare questi fedeli, come abbiamo detto già poco fa rispondendo alla prima domanda, a vedere la presenza della fede, a capire che non è una cosa del passato, ma che oggi mostra la strada, insegna a vivere da uomo. È molto importante che essi trovino nel loro parroco realmente il pastore che li ama e che li aiuta a sentire oggi la Parola di Dio; a capire che è una Parola per loro e non solo per persone del passato o del futuro; che li aiuta, ancora, nella vita sacramentale, nell'esperienza della preghiera, nell'ascolto della Parola di Dio e nella vita della giustizia e della carità, perchè i cristiani dovrebbero essere fermento nella nostra società con tanti problemi e con tanti pericoli ed anche tanta corruzione che esiste. In questo modo credo che essi possano anche interpretare un ruolo missionario «senza parole», poiché si tratta di persone che vivono realmente una vita giusta. E così offrono una testimonianza di come sia possibile vivere bene sulle strade indicate dal Signore. La nostra società ha bisogno proprio di queste comunità, capaci di vivere oggi la giustizia non solo per se stessi ma anche per l'altro. Persone che sappiano vivere, come abbiamo sentito oggi nella prima lettura, la vita. Questa lettura all'inizio dice: «Scegli la vita»: è facile dire sì. Ma poi prosegue: «La tua vita è Dio». Quindi scegliere la vita è scegliere l'opzione per la vita, che è l'opzione per Dio. Se ci sono persone o comunità che fanno questa scelta completa della vita e rendono visibile il fatto che la vita che hanno scelto è realmente vita, rendono una testimonianza di grandissimo valore. E vengo a una seconda riflessione. Per l'annuncio abbiamo bisogno di due elementi: la Parola e la testimonianza. È necessaria, come sappiamo dal Signore stesso, la Parola che dice quanto lui ci ha detto, che fa apparire la verità di Dio, la presenza di Dio in Cristo, la strada che ci si apre davanti. Si tratta, quindi, di un annuncio nel presente, come lei ha detto, che traduce le parole del passato nel mondo della nostra esperienza. È una cosa assolutamente indispensabile, fondamentale, dare, con la testimonianza, credibilità a questa Parola, affinché non appaia solo come una bella filosofia, o come una bella utopia, ma piuttosto come realtà. Una realtà con la quale si può vivere, ma non solo: una realtà che fa vivere. In questo senso mi sembra che la testimonianza della comunità credente, come sottofondo della Parola, dell'annuncio, sia di grandissima importanza. Con la Parola dobbiamo aprire luoghi di esperienza della fede a quelli che cercano Dio. Così ha fatt0 la Chiesa antica con il catecumenato, che non era semplicemente una catechesi, una cosa dottrinale, ma un luogo di progressiva esperienza della vita della fede, nella quale poi si dischiude anche la Parola, che diventa comprensibile solo se interpretata dalla vita, realizzata dalla vita. Quindi mi sembra importante, insieme con la Parola, la presenza di un luogo di ospitalità della fede, un luogo in cui si fa una progressiva esperienza della fede. E qui vedo anche uno dei compiti della parrocchia: ospitalità per quelli che non conoscono questa vita tipica della comunità parrocchiale. Non dobbiamo essere un cerchio chiuso in noi stessi. Abbiamo le nostre consuetudini, ma dobbiamo comunque aprirci e cercare di creare anche vestiboli, cioè spazi di avvicinamento. Uno che viene da lontano non può subito entrare nella vita formata di una parrocchia, che ha già le sue consuetudini. Per costui al momento tutto è molto sorprendente, lontano dalla sua vita. Quindi dobbiamo cercare di creare, con l'aiuto della Parola, quello che la Chiesa antica ha creato con i catecumenati: spazi in cui cominciare a vivere la Parola, a seguire la Parola, a renderla comprensibile e realistica, corrispondente a forme di esperienza reale. In questo senso mi sembra molto importante quanto lei ha accennato, cioè la necessità di collegare la Parola con la testimonianza di una vita giusta, dell'essere per gli altri, di aprirsi ai poveri, ai bisognosi, ma anche ai ricchi, che hanno bisogno di essere aperti nel loro cuore, di sentir bussare al loro cuore. Si tratta dunque di spazi diversi, a seconda della situazione. Mi pare che in teoria si possa dire poco, ma l'esperienza concreta mostrerà le strade da seguire. E naturalmente — criterio sempre importante da seguire — bisogna essere nella grande comunione della Chiesa, anche se forse in uno spazio ancora un po' lontano: e cioè in comunione con il vescovo, con il Papa, in comunione così con il grande passato e con il grande futuro della Chiesa. Essere nella Chiesa cattolica, infatti, non implica soltanto essere in un grande cammino che ci precede, ma significa essere in prospettiva di una grande apertura al futuro. Un futuro che si apre solo in questo modo. Si potrebbe forse proseguire nel parlare dei contenuti, ma possiamo trovare un'altra occasione per questo.
3) Padre Santo, sono Don Giuseppe Forlai, vicario parrocchiale presso la parrocchia di San Giovanni Crisostomo, nel settore nord della nostra Diocesi. L'emergenza educativa, di cui autorevolmente la Santità Vostra ha parlato, è anche, come tutti sappiamo, emergenza di educatori, particolarmente credo sotto due aspetti. Prima di tutto, è necessario avere un occhio maggiore sulla continuità della presenza dell'educatore-prete. Un giovane non stringe un patto di crescita con chi se ne va dopo due o tre anni, anche perché già impegnato emotivamente a gestire relazioni con genitori che lasciano casa, nuovi partner della mamma o del papà, insegnanti precari che ogni anno si danno il cambio. Per educare bisogna stare. La prima necessità che sento è, dunque, quella di una certa stabilità sul luogo dell'educatore-sacerdote. Secondo aspetto: credo che la partita fondamentale della pastorale giovanile si giochi sul fronte della cultura. Cultura intesa come competenza emotivo-relazionale e come padronanza delle parole che i concetti contengono. Un giovane senza questa cultura può diventare il povero di domani, una persona a rischio di fallimento affettivo e un naufrago nel mondo del lavoro. Un giovane senza questa cultura rischia di rimanere un non credente o, peggio ancora, un praticante senza fede perché l'incompetenza nelle relazioni deforma la relazione con Dio e l'ignoranza delle parole blocca la comprensione dell'eccellenza della parola del Vangelo. Non basta che i giovani riempiano fisicamente lo spazio dei nostri oratori per passare un po' di tempo libero. Vorrei che l'oratorio fosse un luogo dove si impara a sviluppare competenze relazionali e dove si riceve ascolto e sostegno scolastico. Un luogo che non sia il rifugio costante di chi non ha voglia di studiare o di impegnarsi, ma una comunità di persone che elaborino quelle domande giuste che aprono al senso religioso e dove si faccia la grande carità di aiutare a pensare. E qui si dovrebbe anche aprire una seria riflessione sulla collaborazione tra oratori e insegnanti di religione. Santità, ci dica una parola autorevole in più su questi due aspetti dell'emergenza educativa: la necessaria stabilità degli operatori e l'urgenza di avere educatori-sacerdoti culturalmente capaci. Grazie. R. Allora, cominciamo con il secondo punto. Diciamo che è più ampio e, in un certo senso, anche più facile. Certamente un oratorio nel quale si fanno solo dei giochi e si prendono delle bevande sarebbe assolutamente superfluo. Il senso di un oratorio deve realmente essere una formazione culturale, umana e cristiana di una personalità, che deve diventare una personalità matura. Su questo siamo assolutamente d'accordo e, mi sembra, proprio oggi c'è una povertà culturale dove si sanno tante cose, ma senza un cuore, senza un collegamento interiore perché manca una visione comune del mondo. E, perciò, una soluzione culturale ispirata dalla fede della Chiesa, dalla conoscenza di Dio che ci ha donato, è assolutamente necessaria. Direi proprio questa è la funzione di un oratorio: che uno non solo trovi possibilità per il tempo libero ma soprattutto trovi formazione umana integrale che rende completa la personalità. E, quindi, naturalmente il sacerdote come educatore deve essere egli stesso formato bene e essere collocato nella cultura di oggi, ricco di cultura, per aiutare anche i giovani a entrare in una cultura ispirata dalla fede. Aggiungerei, naturalmente, che alla fine il punto di orientamento di ogni cultura è Dio, il Dio presente in Cristo. Vediamo come oggi ci sono persone con tante conoscenze, ma senza orientamento interiore. Così la scienza può essere anche pericolosa per l'uomo, perché senza orientamenti etici più profondi, lascia l'uomo all'arbitrio e, quindi, senza gli orientamenti necessari per divenire realmente un uomo. In questo senso, il cuore di ogni formazione culturale, così necessaria, deve essere senza dubbio la fede: conoscere il volto di Dio che si è mostrato in Cristo e così avere il punto di orientamento per tutta l'altra cultura, che altrimenti diventa disorientata e disorientante. Una cultura senza conoscenza personale di Dio e senza conoscenza del volto di Dio in Cristo, è una cultura che potrebbe essere anche distruttiva, perché non conosce gli orientamenti etici necessari. In questo senso, mi sembra, abbiamo noi realmente una missione di formazione culturale e umana profonda, che si apre a tutte le ricchezze della cultura del nostro tempo, ma dà anche il criterio, il discernimento per provare quanto è cultura vera e quanto potrebbe divenire anti-cultura. Molto più difficile per me è la prima domanda — la domanda è anche a Sua Eminenza — cioè la permanenza del giovane sacerdote per dare orientamento ai giovani. Senza dubbio una relazione personale con l'educatore è importante e deve avere anche la possibilità di un certo periodo per orientarsi insieme. E, in questo senso posso, essere d'accordo che il sacerdote, punto di orientamento per i giovani, non può cambiare ogni giorno, perché così perde proprio questo orientamento. D'altra parte, il giovane sacerdote deve anche fare delle esperienze diverse in contesti culturali diversi, proprio per arrivare, alla fine, al bagaglio culturale necessario per essere, come parroco, punto di riferimento per lungo tempo alla parrocchia. E, direi, nella vita del giovane le dimensioni del tempo sono diverse dalla vita di un adulto. I tre anni, dall'anno sedicesimo al diciannovesimo, sono almeno così lunghi e importanti come gli anni tra i quaranta e i cinquanta. Proprio qui, infatti, si forma la personalità: è un cammino interiore di grande importanza, di grande estensione esistenziale. In questo senso, direi che tre anni per un vice parroco è un bel tempo per formare una generazione di giovani; e così, dall'altra parte, può anche conoscere altri contesti, imparare in altre parrocchie altre situazioni, arricchire il suo bagaglio umano. Questo è sempre un tempo non tanto breve per una certa continuità, un cammino educativo dell'esperienza comune, dell'imparare l'essere uomo. Peraltro, come ho detto, nella gioventù tre anni sono un tempo decisivo e lunghissimo, perché qui si forma realmente la personalità futura. Mi sembra, quindi, che si potrebbero conciliare i due bisogni: da una parte, che il sacerdote giovane abbia possibilità di esperienze diverse per arricchire il suo bagaglio di esperienza umana; dall'altra, la necessità di stare un determinato tempo con i giovani per introdurli realmente nella vita, per insegnare loro a essere persone umane. In questo senso, penso a una conciliabilità dei due aspetti: esperienze diverse per un giovane sacerdote, continuità dell'accompagnamento dei giovani per guidarli nella vita. Ma non so che cosa il Cardinale Vicario ci potrà dire in questo senso. Cardinale Vicario: Padre Santo, naturalmente condivido queste due esigenze, la composizione tra le due esigenze. A me sembra, per quel poco che ho potuto conoscere, che a Roma in qualche modo si conservi una certa stabilità dei giovani sacerdoti presso le parrocchie per almeno alcuni anni, salvo eccezioni. Possono sempre esserci delle eccezioni. Ma il vero problema talvolta nasce da gravi esigenze o da situazioni concrete, soprattutto nelle relazioni tra parroco e vicario parrocchiale — e qui tocco un nervo scoperto — e poi anche dalla scarsezza di giovani sacerdoti. Come ho avuto anche modo di dirle quando mi ha ricevuto in udienza, uno dei gravi problemi della nostra Diocesi è proprio il numero delle vocazioni al sacerdozio. Personalmente sono convinto che il Signore chiama, che continua a chiamare. Forse noi dovremmo fare anche di più. Roma può dare vocazioni, le darà, sono convinto. Ma in tutta questa complessa materia talvolta interferiscono molti aspetti. Sicuramente una certa stabilità credo sia stata garantita e anche io, per quello che potrò, nelle linee che ci ha indicato il Santo Padre, mi regolerò.
4) Santità, sono Don Giampiero Ialongo, uno dei tanti parroci che svolge il suo ministero nella periferia di Roma, fisicamente a Torre Angela, al confine con Torbellamonaca, Borghesiana, Borgata Finocchio, Colle Prenestino. Periferie, queste, come tante altre, spesso dimenticate e trascurate dalle istituzioni. Sono felice che questo pomeriggio ci abbia convocato il presidente del Municipio: vedremo che cosa potrà scaturire da questo incontro con la municipalità. E, forse, più di altre zone della nostra città, le nostre periferie avvertono veramente forte il disagio che la crisi economica internazionale inizia proprio a far pesare sulle condizioni concrete di vita di non poche famiglie. Come Caritas parrocchiale, ma soprattutto anche come Caritas diocesana, portiamo avanti tante iniziative che sono volte prima di tutto all'ascolto, ma anche poi a un aiuto materiale, concreto, verso quanti — senza distinzione di razza, di culture, di religioni — a noi si rivolgono. Nonostante ciò, ci andiamo sempre più rendendo conto che ci troviamo dinanzi una vera e propria emergenza. Mi sembra che tante, troppe persone — non solo pensionati ma anche chi ha un regolare impiego, un contratto a tempo indeterminato — trovino grandi difficoltà a far quadrare il proprio bilancio familiare. Pacchi-viveri, come noi facciamo, un po' di indumenti, talvolta dei concreti aiuti economici per pagare le bollette o l'affitto, possono essere sì un aiuto ma non credo una soluzione. Sono convinto che come Chiesa dovremmo interrogarci di più su cosa possiamo fare, ma ancor più sui motivi che hanno portato a questa generalizzata situazione di crisi. Dovremmo avere il coraggio di denunciare un sistema economico e finanziario ingiusto nelle sue radici. E non credo che dinanzi a queste sperequazioni, introdotte da questo sistema, basti soltanto un po' di ottimismo. Serve una parola autorevole, una parola libera, che aiuti i cristiani, come già in qualche modo ha detto, Santo Padre, a gestire con sapienza evangelica e con responsabilità i beni che Dio ha donato e ha donato per tutti e non solo per pochi. Questa parola, come già ha fatto altre volte — perché altre volte abbiamo ascoltato la sua parola su questo — sarei desideroso di ascoltare ancora una volta in questo contesto. Grazie, Santità! R. Innanzitutto vorrei ringraziare il Cardinale Vicario per la parola di fiducia: Roma può dare più candidati per la messe del Signore. Dobbiamo soprattutto pregare il Signore della messe, ma anche fare la nostra parte per incoraggiare i giovani a dire sì al Signore. E, naturalmente, proprio i giovani sacerdoti sono chiamati a dare l'esempio alla gioventù di oggi che è bene lavorare per il Signore. In questo senso, siamo pieni di speranza. Preghiamo il Signore e facciamo il nostro. Adesso questa questione che tocca il nervo dei problemi del nostro tempo. Io distinguerei due livelli. Il primo è il livello della macroeconomia, che poi si realizza e va fino all'ultimo cittadino, il quale sente le conseguenze di una costruzione sbagliata. Naturalmente, denunciare questo è un dovere della Chiesa. Come sapete, da molto tempo prepariamo un'Enciclica su questi punti. E nel cammino lungo vedo com'è difficile parlare con competenza, perché se non è affrontata con competenza una certa realtà economica non può essere credibile. E, d'altra parte, occorre anche parlare con una grande consapevolezza etica, diciamo creata e svegliata da una coscienza formata dal Vangelo. Quindi bisogna denunciare questi errori fondamentali che sono adesso mostrati nel crollo delle grandi banche americane, gli errori nel fondo. Alla fine, è l'avarizia umana come peccato o, come dice la Lettera ai Colossesi, avarizia come idolatria. Noi dobbiamo denunciare questa idolatria che sta contro il vero Dio e la falsificazione dell'immagine di Dio con un altro Dio, «mammona». Dobbiamo farlo con coraggio ma anche con concretezza. Perché i grandi moralismi non aiutano se non sono sostanziati con conoscenze delle realtà, che aiutano anche a capire che cosa si può in concreto fare per cambiare man mano la situazione. E, naturalmente, per poterlo fare è necessaria la conoscenza di questa verità e la buona volontà di tutti. Qui siamo al punto forte: esiste realmente il peccato originale? Se non esistesse potremmo far appello alla ragione lucida, con argomenti che a ognuno sono accessibili e incontestabili, e alla buona volontà che esiste in tutti. Semplicemente così potremmo andare avanti bene e riformare l'umanità. Ma non è così: la ragione — anche la nostra — è oscurata, lo vediamo ogni giorno. Perché l'egoismo, la radice dell'avarizia, sta nel voler soprattutto me stesso e il mondo per me. Esiste in tutti noi. Questo è l'oscuramento della ragione: essa può essere molto dotta, con argomenti scientifici bellissimi, e tuttavia è oscurata da false premesse. Così va con grande intelligenza e con grandi passi avanti sulla strada sbagliata. Anche la volontà è, diciamo, curvata, dicono i Padri: non è semplicemente disponibile a fare il bene ma cerca soprattutto se stesso o il bene del proprio gruppo. Perciò trovare realmente la strada della ragione, della ragione vera, è già una cosa non facile e si sviluppa difficilmente in un dialogo. Senza la luce della fede, che entra nelle tenebre del peccato originale, la ragione non può andare avanti. Ma proprio la fede trova poi la resistenza della nostra volontà. Questa non vuol vedere la strada, che costituirebbe anche una strada di rinuncia a se stessi e di una correzione della propria volontà in favore dell'altro e non per se stessi. Perciò occorre, direi, la denuncia ragionevole e ragionata degli errori, non con grandi moralismi, ma con ragioni concrete che si fanno comprensibili nel mondo dell'economia di oggi. La denuncia di questo è importante, è un mandato per la Chiesa da sempre. Sappiamo che nella nuova situazione creatasi con il mondo industriale, la dottrina sociale della Chiesa, cominciando da Leone XIII, cerca di fare queste denunce — e non solo le denunce, che non sono sufficienti — ma anche di mostrare le strade difficili dove, passo per passo, si esige l'assenso della ragione e l'assenso della volontà, insieme alla correzione della mia coscienza, alla volontà di rinunciare in un certo senso a me stesso per poter collaborare a quello che è il vero scopo della vita umana, dell'umanità. Detto questo, la Chiesa ha sempre il compito di essere vigilante, di cercare essa stessa con le migliori forze che ha le ragioni del mondo economico, di entrare in questo ragionamento e di illuminare questo ragionamento con la fede che ci libera dall'egoismo del peccato originale. È compito della Chiesa entrare in questo discernimento, in questo ragionamento, farsi sentire, anche ai diversi livelli nazionali e internazionali, per aiutare e correggere. E questo non è un lavoro facile, perché tanti interessi personali e di gruppi nazionali si oppongono a una correzione radicale. Forse è pessimismo, ma a me sembra realismo: fino a quando c'è il peccato originale non arriveremo mai a una correzione radicale e totale. Tuttavia dobbiamo fare di tutto per correzioni almeno provvisorie, sufficienti per far vivere l'umanità e per ostacolare la dominazione dell'egoismo, che si presenta sotto pretesti di scienza e di economia nazionale e internazionale. Questo è il primo livello. L'altro è essere realisti. E vedere che questi grandi scopi della macroscienza non si realizzano nella microscienza — la macroeconomia nella microeconomia — senza la conversione dei cuori. Se non ci sono i giusti, anche la giustizia non c'è. Dobbiamo accettare questo. Perciò l'educazione alla giustizia è uno scopo prioritario, potremmo dire anche la priorità. Perché san Paolo dice che la giustificazione è l'effetto dell'opera di Cristo, non è un concetto astratto, riguardante peccati che oggi non ci interessano, ma si riferisce proprio alla giustizia integrale. Dio solo può darcela, ma ce la dà con la nostra cooperazione su diversi livelli, in tutti i livelli possibili. La giustizia non si può creare nel mondo solo con modelli economici buoni, che sono necessari. La giustizia si realizza solo se ci sono i giusti. E i giusti non ci sono se non c'è il lavoro umile, quotidiano, di convertire i cuori. E di creare giustizia nei cuori. Solo così si estende anche la giustizia correttiva. Perciò il lavoro dei parroco è così fondamentale non solo per la parrocchia, ma per l'umanità. Perché se non ci sono i giusti, come ho detto, la giustizia rimane astratta. E le strutture buone non si realizzano se si oppone l'egoismo anche di persone competenti. Questo nostro lavoro, umile, quotidiano, è fondamentale per arrivare ai grandi scopi dell'umanità. E dobbiamo lavorare insieme su tutti i livelli. La Chiesa universale deve denunciare, ma anche annunciare che cosa si può fare e come si può fare. Le conferenze episcopali e i vescovi devono agire. Ma tutti dobbiamo educare alla giustizia. Mi sembra che sia ancora oggi vero e realistico il dialogo di Abramo con Dio (Genesi, 18, 22-33), quando il primo dice: davvero distruggerai la città? forse ci sono cinquanta giusti, forse dieci giusti. E dieci giusti sono sufficienti per far sopravvivere la città. Ora, se mancano dieci giusti, con tutta la dottrina economica, la società non sopravvive. Perciò dobbiamo fare il necessario per educare e garantire almeno dieci giusti, ma se possibile molti di più. Proprio con il nostro annuncio facciamo sì che ci siano tanti giusti, che sia realmente presente la giustizia nel mondo. Come effetto, i due livelli sono inseparabili. Se, da una parte, non annunciamo la macrogiustizia quella micro non cresce. Ma, d'altra parte, se non facciamo il lavoro molto umile della microgiustizia anche quella macro non cresce. E sempre, come ho detto nella mia prima Enciclica, con tutti i sistemi che possono crescere nel mondo, oltre la giustizia che cerchiamo rimane necessaria la carità. Aprire i cuori alla giustizia e alla carità è educare alla fede, è guidare a Dio.
5) Santo Padre, sono Don Marco Valentini, vicario presso la parrocchia Sant'Ambrogio. Quando ero in formazione non mi rendevo conto, come ora, dell'importanza della liturgia. Certamente le celebrazioni non mancavano, ma non capivo molto come essa sia «il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e la fonte da cui promana tutta la sua energia» (Sacrosanctum Concilium, 10). La consideravo, piuttosto, un fatto tecnico per la buona riuscita di una celebrazione o una pratica pia e non piuttosto un contatto con il mistero che salva, un lasciarsi conformare a Cristo per essere luce del mondo, una fonte di teologia, un mezzo per realizzare la tanto auspicata integrazione tra ciò che si studia e la vita spirituale. D'altro canto pensavo che la liturgia non fosse strettamente necessaria per essere cristiani o salvi e che bastasse sforzarsi di mettere in pratica le Beatitudini. Ora mi chiedo cosa sarebbe la carità senza la liturgia e se senza di essa la nostra fede non si ridurrebbe ad una morale, un'idea, una dottrina, un fatto del passato e noi sacerdoti non sembreremmo più insegnanti o consiglieri che mistagoghi che introducano le persone nel mistero. La stessa Parola di Dio è un annuncio che si realizza nella liturgia e che con essa ha un rapporto sorprendente: Sacrosanctum Concilium 6; Praenotanda del Lezionario 4 e 10. E pensiamo anche al brano di Emmaus o del funzionario etiope (Atti, 8). Perciò arrivo alla domanda. Senza nulla togliere alla formazione umana, filosofica, psicologica, nelle università e nei seminari, vorrei capire se la nostra specificità non richieda una maggiore formazione liturgica, oppure se l'attuale prassi e struttura degli studi già soddisfino sufficientemente la Costituzione Sacrosanctum Concilium 16, quando dice che la liturgia va computata tra le materie necessarie e più importanti, principali, e va insegnata sotto l'aspetto teologico, storico, spirituale, pastorale e giuridico e che i professori delle altre materie abbiano cura che la connessione con la liturgia risulti chiara. Ho fatto tale domanda perché, prendendo spunto dal proemio del decreto Optatam totius, mi sembra che le molteplici azioni della Chiesa nel mondo e la nostra stessa efficacia pastorale, dipendano molto dall'autocoscienza che abbiamo dell'inesauribile mistero del nostro essere battezzati, crismati e sacerdoti. R. Dunque, se ho capito bene, si tratta della questione: quale sia, nell'insieme del nostro lavoro pastorale, molteplice e con tante dimensioni, lo spazio e il luogo dell'educazione liturgica e della realtà del celebrare il mistero. In questo senso, mi sembra, è anche una questione sull'unità del nostro annuncio e del nostro lavoro pastorale, che ha tante dimensioni. Dobbiamo cercare che cosa è il punto unificante, affinché queste tante occupazioni che abbiamo siano tutte insieme un lavoro del pastore. Se ho capito bene, lei è del parere che il punto unificante, che crea la sintesi di tutte le dimensioni del nostro lavoro e della nostra fede, potrebbe proprio essere la celebrazione dei misteri. E, quindi, la mistagogia, che ci insegna a celebrare. Per me è importante realmente che i sacramenti, la celebrazione eucaristica dei sacramenti, non sia una cosa un po' strana accanto a lavori più contemporanei come l'educazione morale, economica, tutte le cose che abbiamo già detto. Può accadere facilmente che il sacramento rimanga un po' isolato in un contesto più pragmatico e divenga una realtà non del tutto inserita nella totalità del nostro essere umano. Grazie per la domanda, perché realmente noi dobbiamo insegnare a essere uomo. Dobbiamo insegnare questa grande arte: come essere un uomo. Questo esige, come abbiamo visto, tante cose: dalla grande denuncia del peccato originale nelle radici della nostra economia e nei tanti rami della nostra vita, fino a concrete guide alla giustizia, fino all'annuncio ai non credenti. Ma i misteri non sono una cosa esotica nel cosmo delle realtà più pratiche. Il mistero è il cuore dal quale viene la nostra forza e al quale ritorniamo per trovare questo centro. E perciò penso che la catechesi diciamo mistagogica è realmente importante. Mistagogica vuol dire anche realistica, riferita alla vita di noi uomini di oggi. Se è vero che l'uomo in sé non ha la sua misura — che cosa è giusto e che cosa non lo è — ma trova la sua misura fuori di sé, in Dio, è importante che questo Dio non sia lontano ma sia riconoscibile, sia concreto, entri nella nostra vita e sia realmente un amico con il quale possiamo parlare e che parla con noi. Dobbiamo imparare a celebrare l'Eucaristia, imparare a conoscere Gesù Cristo, il Dio con il volto umano, da vicino, entrare realmente con Lui in contatto, imparare ad ascoltarLo e imparare a lasciarLo entrare in noi. Perché la comunione sacramentale è proprio questa interpenetrazione tra due persone. Non prendo un pezzo di pane o di carne, prendo o apro il mio cuore perché entri il Risorto nel contesto del mio essere, perché sia dentro di me e non solo fuori di me, e così parli dentro di me e trasformi il mio essere, mi dia il senso della giustizia, il dinamismo della giustizia, lo zelo per il Vangelo. Questa celebrazione, nella quale Dio si fa non solo vicino a noi, ma entra nel tessuto della nostra esistenza, è fondamentale per poter realmente vivere con Dio e per Dio e portare la luce di Dio in questo mondo. Non entriamo adesso in troppi dettagli. Ma è sempre importante che la catechesi sacramentale sia una catechesi esistenziale. Naturalmente, pur accettando e imparando sempre più l'aspetto misterico — là dove finiscono le parole e i ragionamenti — essa è totalmente realistica, perché porta me a Dio e Dio a me. Mi porta all'altro perché l'altro riceve lo stesso Cristo, come me. Quindi se in lui e in me c'è lo stesso Cristo, anche noi due non siamo più individui separati. Qui nasce la dottrina del Corpo di Cristo, perché siamo tutti incorporati se riceviamo bene l'Eucaristia nello stesso Cristo. Quindi il prossimo è realmente prossimo: non siamo due «io» separati, ma siamo uniti nello stesso «io» di Cristo. Con altre parole, la catechesi eucaristica e sacramentale deve realmente arrivare al vivo della nostra esistenza, essere proprio educazione ad aprirmi alla voce di Dio, a lasciarmi aprire perché rompa questo peccato originale dell'egoismo e sia apertura della mia esistenza in profondità, tale che possa divenire un vero giusto. In questo senso, mi sembra che tutti dobbiamo imparare sempre meglio la liturgia, non come una cosa esotica, ma come il cuore del nostro essere cristiani, che non si apre facilmente a un uomo distante, ma è proprio, dall'altra parte, l'apertura verso l'altro, verso il mondo. Dobbiamo tutti collaborare per celebrare sempre più profondamente l'Eucaristia: non solo come rito, ma come processo esistenziale che mi tocca nella mia intimità, più che ogni altra cosa, e mi cambia, mi trasforma. E trasformando me, dà inizio anche alla trasformazione del mondo che il Signore desidera e per la quale vuol farci suoi strumenti.
6) Beatissimo Padre, sono padre Lucio Maria Zappatore, carmelitano, parroco della parrocchia di santa Maria Regina Mundi, a Torrespaccata. Per giustificare il mio intervento, mi riallaccio a quanto lei ha detto domenica scorsa, durante la preghiera dell'Angelus, a proposito del ministero petrino. Lei ha parlato del ministero singolare e specifico del vescovo di Roma, il quale presiede alla comunione universale della carità. Io le chiedo di continuare questa riflessione allargandola alla Chiesa universale: qual è il il carisma singolare della Chiesa di Roma e quali sono le caratteristiche che fanno, per un dono misterioso della Provvidenza, unica al mondo? L'avere come vescovo il Papa della Chiesa universale, cosa comporta nella sua missione, oggi in particolare? Non vogliamo conoscere i nostri privilegi: una volta si diceva: Parochus in urbe, episcopus in orbe; ma vogliamo sapere come vivere questo carisma, questo dono di vivere come preti a Roma e cosa si aspetta lei da noi parroci romani. Fra pochi giorni lei si recherà al Campidoglio per incontrare le autorità civili di Roma e parlerà dei problemi materiali della nostra città: oggi le chiediamo di parlare a noi dei problemi spirituali di Roma e della sua Chiesa. E, a proposito della sua visita al Campidoglio, mi sono permesso di dedicarle un sonetto in romanesco, chiedendole la compiacenza di ascoltarlo. Er Papa che salisce al Campidojo / è un fatto che te lassa senza fiato / perchè 'sta vortas sòrte for dar sojo, / pe creanza che tiè 'n bon vicinato. / Er sindaco e la giunta con orgojo / jànno fatto 'n invito , er più accorato, / perchè Roma, se sà, vojo o nun vojo /nun po' fa' proprio a meno der papato. / Roma, tu ciài avuto drento ar petto / la forza pè portà la civirtà. / Quanno Pietro t'ha messo lo zicchetto / eterna Dio t'ha fatto addiventà. / Accoji allora er Papa Benedetto / che sale a beneditte e a ringrazià! R. Grazie. Abbiamo sentito parlare il cuore romano, che è un cuore di poesia. È molto bello sentir parlare un po' in romanesco e sentire che la poesia è profondamente radicata nel cuore romano. Questo forse è un privilegio naturale che il Signore ha dato ai romani. È un carisma naturale che precede quelli ecclesiali. La sua domanda, se ho capito bene, si compone di due parti. Anzitutto, cosa è la responsabilità concreta del vescovo di Roma oggi. Ma poi lei estende giustamente il privilegio petrino a tutta la Chiesa di Roma — così era considerato anche nella Chiesa antica — e chiede quali siano gli obblighi della Chiesa di Roma per rispondere a questa sua vocazione. Non è necessario sviluppare qui la dottrina del primato, la conoscete tutti molto bene. Importante è soffermarci sul fatto che realmente il Successore di Pietro, il ministero di Pietro, garantisce l'universalità della Chiesa, questa trascendenza di nazionalismi e di altre frontiere che esistono nell'umanità di oggi, per essere realmente una Chiesa nella diversità e nella ricchezza delle tante culture. Vediamo come anche le altre comunità ecclesiali, le altre Chiese avvertano il bisogno di un punto unificante per non cadere nel nazionalismo, nell'identificazione con una determinata cultura, per essere realmente aperti, tutti per tutti e per essere quasi costretti ad aprirsi sempre verso tutti gli altri. Mi sembra che questo sia il ministero fondamentale del Successore di Pietro: garantire questa cattolicità che implica molteplicità, diversità, ricchezza di culture, rispetto delle diversità e che, nello stesso tempo, esclude assolutizzazione e unisce tutti, li obbliga ad aprirsi, ad uscire dall'assolutizzazione del proprio per trovarsi nell'unità della famiglia di Dio che il Signore ha voluto e per la quale garantisce il Successore di Pietro, come unità nella diversità. Naturalmente la Chiesa del Successore di Pietro deve portare, con il suo vescovo, questo peso, questa gioia del dono della sua responsabilità. Nell'apocalisse il vescovo appare infatti come angelo della sua Chiesa, cioè un po' come l'incorporazione della sua Chiesa, alla quale deve rispondere l'essere della Chiesa stessa. Quindi la Chiesa di Roma, insieme con il Successore di Pietro e come sua Chiesa particolare, deve garantire proprio questa universalità, questa apertura, questa responsabilità per la trascendenza dell'amore, questo presiedere nell'amore che esclude particolarismi. Deve anche garantire la fedeltà alla Parola del Signore, al dono della fede, che non abbiamo inventato noi ma che è realmente il dono che solo da Dio stesso poteva venire. Questo è e sarà sempre il dovere, ma anche il privilegio, della Chiesa di Roma, contro le mode, contro i particolarismi, contro l'assolutizzazione di alcuni aspetti, contro eresie che sono sempre assolutizzazioni di un aspetto. Anche il dovere di garantire l'universalità e la fedeltà all'integralità, alla ricchezza della sua fede, del suo cammino nella storia che si apre sempre al futuro. E insieme con questa testimonianza della fede e dell'universalità, naturalmente deve dare l'esempio della carità. Così ci dice sant'Ignazio, identificando in questa parola un po' enigmatica, il sacramento dell'Eucaristia, l'azione dell'amare gli altri. E questo, per tornare al punto precedente, è molto importante: cioè questa identificazione con l'Eucaristia che è agape, è carità, è la presenza della carità che si è donata in Cristo. Deve sempre essere carità, segno e causa di carità nell'aprirsi verso gli altri, di questo donarsi agli altri, di questa responsabilità verso i bisognosi, verso i poveri, verso i dimenticati. Questa è una grande responsabilità. Al presiedere nell'Eucaristia segue il presiedere nella carità, che può essere testimoniata solo dalla comunità stessa. Questo mi sembra il grande compito, la grande domanda per la Chiesa di Roma: essere realmente esempio e punto di partenza della carità. In questo senso è presidio della carità. Nel presbiterio di Roma siamo di tutti i continenti, di tutte le razze, di tutte le filosofie e di tutte le culture. Sono lieto che proprio il presbiterio di Roma esprima l'universalità, nell'unità della piccola Chiesa locale la presenza della Chiesa universale. Più difficile ed esigente è essere anche e realmente portatori della testimonianza, della carità, dello stare tra gli altri con il nostro Signore. Possiamo solo pregare il Signore che ci aiuti nelle singole parrocchie, nelle singole comunità, e che tutti insieme possiamo essere realmente fedeli a questo dono, a questo mandato: presiedere la carità.
7) Santo Padre, sono padre Guillermo M. Cassone, della comunità dei padri di Schoenstatt a Roma, vicario parrocchiale nella parrocchia dei santi Patroni d'Italia, San Francesco e Santa Caterina, in Trastevere. Dopo il Sinodo sulla Parola di Dio, riflettendo sulla Proposizione 55, «Maria Mater Dei et Mater fidei», mi sono chiesto come migliorare il rapporto fra la Parola di Dio e la pietà mariana, sia nella vita spirituale sacerdotale e sia nell'azione pastorale. Due immagini mi aiutano: l'annunciazione per l'ascolto, e la visitazione per l'annuncio. Vorrei chiederle, Santità, di illuminarci con il suo insegnamento su questo tema. La ringrazio per questo dono. R. Mi sembra che lei ci abbia dato anche la risposta alla sua domanda. Realmente Maria è la donna dell'ascolto: lo vediamo nell'incontro con l'Angelo e lo rivediamo in tutte le scene della sua vita, dalle nozze di Cana, fino alla croce e fino al giorno di Pentecoste, quando è in mezzo agli apostoli proprio per accogliere lo Spirito. È il simbolo dell'apertura, della Chiesa che attende la venuta dello Spirito Santo. Nel momento dell'annuncio possiamo cogliere già l'atteggiamento dell'ascolto — un ascolto vero, un ascolto da interiorizzare, che non dice semplicemente sì, ma assimila la Parola, prende la Parola — e poi far seguire la vera obbedienza, come se fosse una Parola interiorizzata, cioè divenuta Parola in me e per me, quasi forma della mia vita. Questo mi sembra molto bello: vedere questo ascolto attivo, un ascolto cioè che attira la Parola in modo che entri e diventi in me Parola, riflettendola e accettandola fino all'intimo del cuore. Così la Parola diventa incarnazione. Lo stesso vediamo nel Magnificat. Sappiamo che è un tessuto fatto di parole dell'Antico Testamento. Vediamo che Maria realmente è una donna di ascolto, che conosceva nel cuore la Scrittura. Non conosceva solo alcuni testi, ma era così identificata con la Parola che le parole dell'Antico Testamento diventano, sintetizzate, un canto nel suo cuore e nelle sua labbra. Vediamo che realmente la sua vita era penetrata della Parola; era entrata nella Parola, l'aveva assimilata ed era divenuta vita in sé, trasformandosi poi di nuovo in Parola di lode e di annuncio della grandezza di Dio. Mi sembra che san Luca, riferendosi a Maria, dica almeno tre volte, forse quattro volte, che ha assimilato e conservato nel suo cuore le Parole. Era, per i Padri, il modello della Chiesa, il modello del credente che conserva la Parola, porta in sé la Parola; non solo la legge, la interpreta con l'intelletto per sapere cosa è stata in quel tempo, quali sono i problemi filologici. Tutto questo è interessante, importante, ma è più importante sentire la Parola che va conservata e che diventa Parola in me, vita in me e presenza del Signore. Perciò mi sembra importante il nesso tra mariologia e teologia della Parola, del quale anche hanno parlato i Padri sinodali e del quale parleremo nel documento post-sinodale. È ovvio: Madonna è parola dell'ascolto, parola silenziosa, ma anche parola della lode, dell'annuncio, perché la Parola nell'ascolto diventa di nuovo carne e diventa così presenza della grandezza di Dio.
8) Santo Padre, sono Pietro Riggi e sono un salesiano che opera al Borgo ragazzi Don Bosco, le volevo chiedere: il Concilio Vaticano ii ha portato tante importatissime novità nella Chiesa, ma non ha abolito le cose che già vi erano. Mi sembra che diversi sacerdoti o teologi vorrebbero far passare come spirito del Concilio ciò che invece non c'entra con il Concilio stesso. Ad esempio le indulgenze. Esiste il Manuale delle indulgenze della Penitenzieria apostolica, attraverso le indulgenze si attinge al tesoro della Chiesa e si possono suffragare le anime del Purgatorio. Esiste un calendario liturgico in cui si dice quando e come si possono lucrare le indulgenze plenarie, ma tanti sacerdoti non ne parlano più, impedendo di fare arrivare suffragi importantissimi alle anime del Purgatorio. Le benedizioni. Vi è il Manuale delle benedizioni in cui si prevede la benedizione di persone, ambienti, oggetti e prefino di alimenti. Ma molti sacerdoti sconoscono queste cose, altri le ritengono preconciliari, così mandano via quei fedeli che chiedono quello che per diritto dovrebbero avere. Le pratiche di pietà più conosciute. I primi venerdì del mese non sono stati aboliti dal Concilio Vaticano II, ma tanti sacerdoti non ne parlano più, oppure, addirittura, ne parlano male. Oggi vi è un senso di avversione a tutto questo, perché le vedono antiche e dannose, come cose vecchie e preconciliari, mentre ritengo che tutte queste preghiere e pratiche cristiane sono attualissime e molto importanti, che vanno riprese e spiegate adeguatamente al Popolo di Dio, nel sano equilibrio e nella verità a completezza del Vaticano II. Volevo anche chiederle: una volta lei parlando di Fatima ha detto che vi è un legame tra Fatima e Akita, le lacrimazioni della Madonna in Giappone. Sia Paolo vi che Giovanni Paolo II hanno celebrato a Fatima una messa solenne ed hanno utilizzato lo stesso brano della sacra Scrittura, Apocalisse 12, la donna vestita di sole che lotta una battaglia decisiva contro il serpente antico, il diavolo, satana. C'è affinità tra Fatima e Apocalisse 12? Concludo: l'anno scorso un sacerdote le ha regalato un quadro, io non so dipingere ma volevo anch'io farle un regalo, così ho pensato di farle dono di tre libri che ho scritto di recente, spero che le piacciano. R. Sono realtà delle quali il Concilio non ha parlato, ma che suppone come realtà nella Chiesa. Esse vivono nella Chiesa e si sviluppano. Adesso non è il momento per entrare nel grande tema delle indulgenze. Paolo vi ha riordinato questo tema e ci indica il filo per capirlo. Direi che si tratta semplicemente di uno scambio di doni, cioè quanto nella Chiesa esiste di bene, esiste per tutti. Con questa chiave dell'indulgenza possiamo entrare in questa comunione dei beni della Chiesa. I protestanti si oppongono affermando che l'unico tesoro è Cristo. Ma per me la cosa meravigliosa è che Cristo — il quale realmente è più che sufficiente nel suo amore infinito, nella sua divinità e umanità — voleva aggiungere, a quanto ha fatto lui, anche la nostra povertà. Non ci considera solo come oggetti della sua misericordia, ma ci fa soggetti della misericordia e dell'amore insieme con Lui, quasi che — anche se non quantitativamente, almeno in senso misterico — ci volesse aggiungere al grande tesoro del corpo di Cristo. Voleva essere il Capo con il corpo. E voleva che con il corpo fosse completato il mistero della sua redenzione. Gesù voleva avere la Chiesa come suo corpo, nel quale si realizza tutta la ricchezza di quanto ha fatto. Da questo mistero risulta proprio che esiste un tesaurus ecclesiae, che il corpo, come il capo, dona tanto e noi possiamo avere l'uno dall'altro e possiamo donare l'uno all'altro. E così vale anche per le altre cose. Per esempio, i venerdì del sacro Cuore: è una cosa molto bella nella Chiesa. Non sono cose necessarie, ma cresciute nella ricchezza della meditazione del mistero. Così il Signore ci offre nella Chiesa queste possibilità. Non mi sembra adesso il momento di entrare in tutti i dettagli. Ognuno può più o meno capire cosa è meno importante di un'altra; ma nessuno dovrebbe disprezzare questa ricchezza, cresciuta nei secoli come offerta e come moltiplicazione delle luci nella Chiesa. Unica è la luce di Cristo. Appare in tutti i suoi colori e offre la conoscenza della ricchezza del suo dono, l'interazione tra capo e corpo, l'interazione tra le membra, così che possiamo essere veramente insieme un organismo vivente, nel quale ognuno dona a tutti, e tutti donano il Signore, il quale ci ha donato tutto se stesso. [© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]
Chiesa e società civile. Controversia sulla laicità (1 Marzo 2009)
Due fatti recenti hanno riacceso la controversia sulla "laicità", ossia sull'azione dei cristiani nella società civile. Due fatti accomunati da un'identica questione, riguardante la vita umana "dal concepimento alla morte naturale". Il primo di questi fatti è apparentemente minore. Mercoledì 18 febbraio, al termine dell'udienza generale, Benedetto XVI ha incontrato brevemente Nancy Pelosi, in un precedente incontro a Washington, speaker della camera dei rappresentanti degli Stati Uniti. Pelosi è cattolica, e ha tenuto a rimarcarlo: ha mostrato al papa le foto di una sua visita con i genitori in Vaticano negli anni Cinquanta e si è complimentata per l'azione della Chiesa nel combattere la fame e la povertà. Ma al termine dell'incontro, il comunicato diffuso dalla sala stampa vaticana è stato di tutt'altro tenore: "Il papa ha colto l'occasione per illustrare che la legge morale naturale e il costante insegnamento della Chiesa sulla dignità della vita umana dal concepimento alla morte naturale impongono a tutti i cattolici, e specialmente ai legislatori, ai giuristi e ai responsabili del bene comune della società, di cooperare con tutti gli uomini e le donne di buona volontà per promuovere un ordinamento giuridico giusto, inteso a proteggere la vita umana in ogni suo momento". Nancy Pelosi, infatti, come altri cattolici della nuova amministrazione americana, è attiva sostenitrice di politiche pro aborto. E il papa non ha esitato a rivolgerle questo richiamo pubblico, incurante di dare esca con ciò alle ricorrenti accuse di "invadenza" del campo politico che tanti difensori della "laicità" lanciano contro la Chiesa. Il secondo fatto è di dimensioni più ampie. Ed è la sorte inflitta in Italia a Eluana Englaro, una giovane donna in stato vegetativo persistente, privata di cibo e di acqua per sentenza di tribunale e così fatta morire, lo scorso 9 febbraio. Come quattro anni fa per Terri Schiavo negli Stati Uniti, anche per Eluana c'è stato in Italia un crescendo di azioni tese a salvarne la vita, sia da parte di cattolici che di non credenti, sia sul terreno religioso che su quello civile e politico. La battaglia ha naturalmente portato a una fase acuta la polemica sulla "laicità". Da più parti si è accusata la Chiesa di prevaricare sulla libertà delle scelte individuali. Ma non solo. La polemica ha diviso anche il campo cattolico. Per alcuni, il parlare e l'agire in difesa della vita di Eluana erano "indegni dello stile cristiano", uno stile che dovrebbe essere fatto di silenzio, di riserbo, di misericordia, di non invasione dello spazio più intimo e personale di ciascuno. La voce più emblematica di questa tendenza è stata quella del fondatore e priore del monastero di Bose, Enzo Bianchi, in un articolo sul quotidiano "La Stampa" di domenica 15 febbraio: Vivere e morire secondo il Vangelo. Bianchi è personaggio con largo seguito, in Italia e in altri paesi. È autore di libri di grande diffusione, predica ritiri a sacerdoti e vescovi, scrive su giornali laici ma anche su "Avvenire", il giornale della conferenza episcopale italiana, il più impegnato nella campagna in difesa della vita di Eluana, e quindi anche il maggiore imputato di "indegnità". Alle tesi di Enzo Bianchi ha replicato implicitamente – senza farne il nome – il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, in un editoriale su "Avvenire" del 20 febbraio. Ma in questo stesso editoriale il cardinale Scola ha analizzato la questione della "laicità" a più largo raggio, in quanto rapporto generale tra la Chiesa e la sfera pubblica. E lo stesso ha fatto nei medesimi giorni – nella forma più estesa e più argomentata di una conferenza – un altro cardinale di spicco della Chiesa italiana, Camillo Ruini, già presidente della CEI e vicario del papa per la diocesi di Roma dal 1991 al 2007.
Qui di seguito sono riprodotti, integrali, entrambi gli interventi: l'editoriale del cardinale Scola su "Avvenire" del 20 febbraio e la conferenza tenuta dal cardinale Ruini a Genova il 18 febbraio. Sulla questione della "laicità" – con le variazioni intervenute negli ultimi tempi – i due testi sono quanto di più autorevole e rappresentativo si possa leggere oggi da parte di due alti uomini di Chiesa, entrambi culturalmente molto vicini a papa Joseph Ratzinger. In più, il lettore italiano troverà di seguito altri due testi su una questione strettamente connessa: la configurazione concreta che ha preso in Italia il dialogo tra laici e cattolici. A giudizio del professor Ernesto Galli della Loggia questo dialogo ha avuto un momento felice agli inizi degli anni Novanta, ma poi è praticamente fallito. Mentre a giudizio del professor Pietro De Marco le cose non stanno affatto così. Ha aperto la disputa Galli della Loggia con un editoriale sul "Corriere della Sera" del 15 febbraio. E De Marco gli ha replicato qui e sul giornale on line "l'Occidentale".
1. Cattolici, laici e società civile (di Angelo Scola) L'Occidente deve decidersi a capire quale peso ha la fede nella vita pubblica dei suoi cittadini, non può rimuovere il problema". Queste parole fulminanti, espresse da un vescovo mediorientale ad Amman durante il comitato scientifico internazionale della rivista "Oasis", mi sono tornate alla mente in questi giorni, nei quali si è acceso sui media un vivo dibattito circa l'azione dei cristiani nella società civile, il dialogo tra laici e cattolici – che secondo qualcuno sarebbe addirittura giunto al capolinea –, la presunta sconfitta del cristianesimo e l'ingerenza degli uomini di Chiesa nelle vicende pubbliche. In una parola, circa lo stile con cui i cattolici dovrebbero intervenire o meno sui delicati temi della vita comune, quali quelli della bioetica. Mi sembra che spesso si perda di vista il cuore della questione: ogni fede va sempre soggetta a un'interpretazione culturale pubblica. È un dato inevitabile. Da una parte perché, come scrisse Giovanni Paolo II, "una fede che non diventi cultura sarebbe non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta". Dall'altra, essendo la fede – quella giudaica e quella cristiana – frutto di un Dio che si è compromesso con la storia, ha inevitabilmente a che fare con la concretezza della vita e della morte, dell'amore e del dolore, del lavoro e del riposo e dell'azione civica. Perciò è essa stessa inevitabilmente investita da diverse letture culturali, che possono entrare in conflitto tra di loro. In questa fase di "post-secolarismo", nella società italiana si confrontano, in particolare, due interpretazioni culturali del cristianesimo. A me sembrano entrambe riduttive. La prima è quella che tratta il cristianesimo come una religione civile, come mero cemento etico, capace di fungere da collante sociale per la nostra democrazia e per le democrazie europee in grave affanno. Se una simile posizione è plausibile in chi non crede, a chi crede deve essere evidente la sua strutturale insufficienza. L'altra, più sottile, è quella che tende a ridurre il cristianesimo all'annuncio della pura e nuda Croce per la salvezza di "ogni altro". Occuparsi, per esempio, di bioetica o biopolitica distoglierebbe dall'autentico messaggio di misericordia di Cristo. Come se questo messaggio fosse in sé astorico e non possedesse implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche. Un simile atteggiamento produce una dispersione, una diaspora dei cristiani nella società e finisce per nascondere la rilevanza umana della fede in quanto tale. Al punto che di fronte ai drammi anche pubblici della vita si giunge a domandare un silenzio che rischia di svuotare il senso dell'appartenenza a Cristo e alla Chiesa agli occhi degli altri. Nessuna di queste due interpretazioni culturali, secondo me, riesce ad esprimere in maniera adeguata la vera natura del cristianesimo e della sua azione nella società civile: la prima perché lo riduce alla sua dimensione secolare, separandolo dalla forza sorgiva del soggetto cristiano, dono dell'incontro con l'avvenimento personale di Gesù Cristo nella Chiesa; la seconda perché priva la fede del suo spessore carnale. A me sembra più rispettosa della natura dell'uomo e del suo essere in relazione un'altra interpretazione culturale. Essa corre lungo il crinale che separa la religione civile dalla diaspora e dal nascondimento. Propone l'avvenimento di Gesù Cristo in tutta la sua interezza – irriducibile ad ogni umano schieramento –, ne mostra il cuore che vive nella fede della Chiesa a beneficio di tutto il popolo. In che modo? Attraverso l'annuncio, ad opera del soggetto ecclesiale, di tutti i misteri della fede nella loro integralità, sapientemente compendiati nel catechismo della Chiesa. Giungendo però ad esplicitare tutti gli aspetti e le implicazioni che da tali misteri sempre sgorgano. Essi si intrecciano con le vicende umane di ogni tempo, mostrando la bellezza e la fecondità della fede per la vita di tutti i giorni. Solo un esempio: se credo che l'uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, avrò una certa concezione della nascita e della morte, del rapporto tra uomo e donna, del matrimonio e della famiglia. Concezione che inevitabilmente incontra e chiede di confrontarsi con l'esperienza di tutti gli uomini, anche dei non credenti. Qualunque sia il loro modo di concepire questi dati elementari dell'esistenza. Rispettando lo specifico compito dei fedeli laici in campo politico, è tuttavia evidente che se ogni fedele, dal papa all'ultimo dei battezzati, non mettesse in comune le risposte che ritiene valide alle domande che quotidianamente agitano il cuore dell'uomo, cioè se non testimoniasse le implicazioni pratiche della propria fede, toglierebbe qualcosa agli altri. Sottrarrebbe un positivo, non contribuirebbe al bene civile di edificare la vita buona. Oggi poi, in una società plurale e perciò tendenzialmente molto conflittuale, questo paragone deve essere a 360 gradi e con tutti, nessuno escluso. In un simile confronto, che porta i cristiani, papa e vescovi compresi, a dialogare umilmente ma tenacemente con tutti, si vede che l'azione ecclesiale non ha come scopo l'egemonia, non punta a usare l'ideale della fede in vista di un potere. Il suo vero scopo, a imitazione del suo Fondatore, è offrire a tutti la consolante speranza nella vita eterna. Una speranza che, già godibile nel "centuplo quaggiù", aiuta ad affrontare i problemi cruciali che rendono affascinante e drammatico il quotidiano di tutti. Solo attraverso questo instancabile racconto, teso al riconoscimento reciproco, rispettoso delle procedure pattuite in uno stato di diritto, si può mettere a frutto quel grande valore pratico che scaturisce dal fatto di vivere insieme.
2. Laicità e bene comune (di Camillo Ruini). Riflettere sulla laicità in rapporto al bene comune mi sembra un approccio fondamentale, e assai stimolante, in ordine alla comprensione e all'apprezzamento della laicità, in particolare per il discernimento e la valutazione dei vari e molto diversi significati che il concetto di laicità ha ormai assunto. A questo scopo, però, dobbiamo anzitutto avere un'idea il più possibile chiara e determinata del significato dell'espressione "bene comune", alla luce della quale cercheremo di renderci conto dei fondamenti e delle funzioni della laicità. Come è noto, "bene comune" è un concetto tipico – anche se non esclusivo – del pensiero sociale cattolico. Sembra giusto pertanto riferirsi al significato che gli viene attribuito in questo contesto. Il "Compendio della dottrina sociale della Chiesa", pubblicato nel 2004 dal pontificio consiglio della giustizia e della pace, considera il bene comune come il primo dei principi di questa dottrina e lo fa derivare "dalla dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone". Esso indica anzitutto "l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alla collettività sia ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente". In concreto il bene comune è "bene di tutti gli uomini e di tutto l'uomo", dato che "la persona non può trovare compimento solo in se stessa, a prescindere cioè dal suo essere 'con' e 'per' gli altri". Il bene comune, pertanto, "non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro". Pur essendo così fondato nella natura e dignità del nostro essere, il bene comune ha una sua evidente storicità: infatti "le esigenze del bene comune derivano dalle condizioni sociali di ogni epoca e sono strettamente connesse al rispetto e alla promozione integrale della persona e dei suoi diritti fondamentali" ("Compendio", nn. 164-166). Non è possibile, e forse non sarebbe nemmeno utile ai nostri fini, disporre di una determinazione altrettanto chiara e organica del concetto di laicità. È indispensabile però una precisazione iniziale: in questo contesto parliamo di "laicità" non nel senso teologico ed ecclesiale, per il quale, come dice il Concilio Vaticano II nella "Lumen gentium" (n. 31), "Col nome di laici si intendono... tutti i fedeli a esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso..., i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati in Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio... per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano". Dei laici così intesi è proprio e peculiare "il carattere secolare", nel senso che "per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio". Questo carattere secolare e il rapporto con le realtà temporali costituiscono in qualche modo il ponte che consente un collegamento e un passaggio all'altro grande significato dei termini "laici" e "laicità", che è quello a cui ci riferiremo d'ora in poi. Qui laico e laicità sono infatti concetti che indicano e implicano un'autonomia e una distinzione da ciò che è ecclesiastico e che fa capo alla Chiesa, e più ampiamente al cristianesimo e ad ogni religione. Per la genesi di questo concetto resta fondamentale il grande studio di G. de Lagarde "La naissance de l'esprit laïque, au déclin du moyen âge". Indicativo della pluralità e anche del contrasto delle interpretazioni che vengono date oggi di tale concetto è il modo in cui Giovanni Fornero, nella terza edizione da lui stesso curata del "Dizionario di filosofia" di Nicola Abbagnano, tratta la voce "Laicismo", che nel linguaggio comune sta ad indicare una versione dura, polemica ed "esclusiva" della laicità. Per Fornero con "laicismo" si intende "il principio dell'autonomia delle attività umane, cioè l'esigenza che tali attività si svolgano secondo regole proprie, che non siano ad esse imposte dall'esterno, per fini o interessi diversi da quelli a cui esse si ispirano". Ma questa autonomia è affermata, in termini formalmente assai simili, dal Concilio Vaticano II ("Gaudium et spes", n. 36), che afferma: "Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e la stessa società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di un'esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche è conforme al volere del Creatore. Infatti è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l'uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte". È anche assai interessante che Fornero riconduca l'origine del concetto di laicismo a papa Gelasio I il quale, alla fine del V secolo, formula con chiarezza il principio della distinzione dei due poteri del papa e dell'imperatore e su queste basi rivendica l'autonomia della sfera religiosa da quella politica. In termini simili si esprime l'allora cardinale Joseph Ratzinger, nel libro "Senza radici" (pp. 51-52), che individua qui anche la matrice di una profonda differenza tra cristianesimo d'Occidente e d'Oriente, tra cattolicesimo e ortodossia, nella quale invece l'imperatore era capo anche della Chiesa e questa appariva quasi identificata con l'impero. Ma questa convergenza, o consenso, sul principio della laicità non può nascondere le divergenze che si sono formate nella storia e che oggi emergono sempre di nuovo. Il tornante decisivo è quel "nuovo scisma" – per usare le parole del cardinale Ratzinger nel libro già citato (pp. 56-57) – che si è verificato soprattutto in Francia tra la fine del secolo XVIII e l'inizio del XIX e che tuttora è tipico soprattutto dei paesi latini di matrice cattolica. È qui che la rivendicazione della ragione e della libertà affermatasi con l'illuminismo assume un volto decisamente ostile alla Chiesa e, non di rado, chiuso ad ogni trascendenza, mentre la Chiesa a sua volta fatica e tarda a lungo nel distinguere tra le istanze anti-cristiane, a cui evidentemente non poteva non opporsi, e la rivendicazione della libertà sociale e politica, che invece avrebbe potuto e dovuto essere accolta positivamente. Il "nuovo scisma" è pertanto tra cattolici e "laici", dove la parola "laico" assume un significato di opposizione alla religione che prima non aveva. È interessante notare che uno scisma analogo non si è verificato nel mondo protestante, perché il protestantesimo, che fin dall'inizio ha concepito se stesso come un movimento di liberazione e purificazione dai vincoli dell'autorità ecclesiastica, ha sviluppato facilmente un rapporto di parentela con l'illuminismo, con il rischio però – e a volte non soltanto il rischio – di svuotare dall'interno la verità cristiana e di ridursi a un dato di cultura, piuttosto che di fede in senso autentico. Il terreno più immediatamente sensibile – anche se a mio parere non il più profondo – delle tensioni tra cristianesimo e illuminismo è stato quello dei rapporti tra Chiesa e Stato. E qui si è sviluppata una seconda e importantissima divaricazione, anzitutto all'interno del mondo protestante. Mentre in Europa le Chiese nate dalla Riforma si sono costituite come Chiese di Stato, in una maniera assai più pregnante di quel che è avvenuto nel cattolicesimo, dove le Chiese di Stato hanno sempre dovuto fare i conti con l'unità e l'universalità transnazionale della Chiesa cattolica, del tutto diversa è la vicenda degli Stati Uniti d'America. La loro stessa nascita infatti è dovuta, in larga misura, a quei gruppi di cristiani protestanti che erano fuggiti dal sistema delle Chiese di Stato vigente in Europa e che formavano libere comunità di credenti. Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle Chiese libere, per le quali è essenziale non essere Chiese dello Stato ma fondarsi sulla libera unione dei credenti. In questo senso si può dire che alla base della società americana c'è una separazione tra Chiesa e Stato determinata, anzi, reclamata dalla religione e rivolta anzitutto a proteggere la religione stessa e il suo spazio vitale, che lo Stato deve lasciare libero. Non siamo dunque lontani dagli intenti e dagli obiettivi della distinzione affermata da papa Gelasio I. Siamo invece lontanissimi da quella separazione fondamentalmente "ostile" alla religione e tendente a subordinare le Chiese allo Stato che è stata imposta dalla Rivoluzione francese e dai sistemi statali che ad essa hanno fatto seguito. Per conseguenza, tutto il sistema dei rapporti tra sfera statale e non statale in America si è sviluppato diversamente che in Europa, attribuendo anche alla sfera non statale un concreto carattere pubblico, favorito dal sistema giuridico e fiscale. In questa America, con la sua specifica identità, i cattolici si sono integrati bene, nonostante le resistenze di quell'ideologia che voleva riservare la piena titolarità "nordamericana" soltanto ai protestanti. In concreto i cattolici hanno riconosciuto ben presto il carattere positivo della separazione tra Stato e Chiesa legata a motivazioni religiose e l'importanza della libertà religiosa così garantita.
Fino al Concilio Vaticano II però rimaneva una difficoltà, o una riserva di principio, che non riguardava i cattolici americani come tali, ma la Chiesa cattolica nel suo complesso. Questa difficoltà si riferiva al riconoscimento della libertà religiosa, non semplicemente come accettazione di un dato di fatto, ma come affermazione di un diritto, fondato sulla dignità che appartiene per natura alla persona umana. Non per caso la dichiarazione conciliare "Dignitatis humanae" sulla libertà religiosa, che afferma chiaramente tale diritto – evitando però di fondarlo su di un approccio relativistico che metta in forse la verità del cristianesimo –, è stata redatta con il forte contributo dei vescovi e dei teologi nordamericani. Il Vaticano II non si è limitato a togliere di mezzo l'ostacolo riguardante la libertà religiosa, ma ha rappresentato il superamento, almeno in linea di principio, di quel ritardo storico del cattolicesimo a cui ho accennato in precedenza. Esso infatti ha posto le basi di una vera conciliazione tra Chiesa e modernità e della riscoperta della profonda corrispondenza che esiste tra cristianesimo e illuminismo. In concreto, il Concilio ha fatto propria la "svolta antropologica" che fin dall'inizio dell'età moderna aveva posto l'uomo al centro: ha mostrato infatti le radici cristiane di questa svolta e l'infondatezza dell'alternativa tra centralità dell'uomo e centralità di Dio. Analogamente ha affermato, come si è visto, la legittima autonomia delle realtà terrene, i diritti e le libertà degli uomini e dei popoli, riconoscendo al contempo la validità del grande sforzo che l'umanità sta compiendo per trasformare il mondo. Con il Vaticano II, pertanto, è stata inaugurata una nuova stagione dei rapporti tra Chiesa e laicità, come tra religione cattolica e libertà: una stagione nella quale si è coltivata inizialmente la speranza che ogni contenzioso sulla laicità fosse ormai alle nostre spalle. Non era una speranza priva di ragioni concrete, anche e particolarmente per quanto riguarda il terreno "sensibile" dei rapporti tra Chiesa e Stato. Con il pieno riconoscimento della libertà religiosa da parte del Concilio Vaticano II veniva meno, infatti, la giustificazione di principio di una "religione di Stato", che aveva costituito l'ostacolo sostanziale alla laicità dello Stato stesso e delle sue istituzioni. Anche la differenza tra regimi "concordatari" e regimi di separazione tra Stato e Chiesa diventava a questo punto meno rilevante, dato che anche i Concordati – come mostra esemplarmente l'accordo di revisione del Concordato stipulato tra lo Stato italiano e la Santa Sede nel 1984 – si pongono ormai espressamente al di fuori di un'ottica di religione di Stato. Si legge infatti nel protocollo addizionale di tale accordo, in relazione all'articolo 1: "Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano". Le vicende degli ultimi decenni sembrano però smentire crudamente una tale speranza: ci troviamo infatti dentro a una fase nuova, e acuta, della contesa intorno alla laicità. A ben vedere, tuttavia, l'oggetto del contendere si è profondamente modificato: non si tratta più, almeno in linea principale, dei rapporti tra Chiesa e Stato come istituzioni. A questo riguardo infatti la distinzione e l'autonomia reciproca sono sostanzialmente accettate e condivise sia dai cattolici sia dai laici, e con esse l'apertura pluralista degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità. Le polemiche che vengono sollevate su queste tematiche sembrano dunque piuttosto pretestuose e sono probabilmente il riflesso dell'altro e ben più consistente contenzioso di cui ora dobbiamo occuparci. Oggetto di quest'ultimo sono principalmente le grandi problematiche etiche ed antropologiche che sono emerse negli ultimi decenni, a seguito sia dei profondi cambiamenti intervenuti nei costumi e nei comportamenti sia delle nuove applicazioni al soggetto umano delle biotecnologie, che hanno aperto orizzonti fino ad un recente passato imprevedibili. Queste problematiche hanno infatti chiaramente una dimensione non soltanto personale e privata ma anche pubblica e non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell'uomo a cui si fa riferimento: in particolare della domanda di fondo se l'uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell'evoluzione cosmica e biologica, o invece abbia anche una dimensione trascendente, irriducibile all'universo fisico. Sarebbe strano, dunque, che le grandi religioni non intervenissero al riguardo e non facessero udire la loro voce sulla scena pubblica. Come è naturale, di questo si fanno carico anzitutto, nelle diverse aree geografiche e culturali, le religioni in esse prevalenti: in Occidente quindi il cristianesimo e in particolare in Italia la Chiesa cattolica. In concreto la loro voce risuona con una forza che pochi avrebbero previsto quando una secolarizzazione sempre più radicale era ritenuta il destino inevitabile del mondo contemporaneo, o almeno dell'Occidente: quando cioè sembrava fuori dall'orizzonte quel risveglio, su scala mondiale, delle religioni e del loro ruolo pubblico che è una delle grandi novità degli ultimi decenni. Vorrei ricordare, a questo proposito, la sorpresa e lo sconcerto che provocarono, anche in ambito cattolico, le affermazioni fatte da Giovanni Paolo II al convegno della Chiesa italiana a Loreto, nell'ormai lontano aprile 1985, quando invitò a riscoprire "il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell'uomo e per il bene dell'Italia, nel pieno rispetto, anzi, nella convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica". Giovanni Paolo II domandò pertanto alla Chiesa italiana di "operare, con umile coraggio e piena fiducia nel Signore, affinché la fede cristiana abbia o ricuperi – anche e particolarmente in una società pluralista e parzialmente scristianizzata – un ruolo-guida e un'efficacia trainante nel cammino verso il futuro". Il contenzioso riguardo alla laicità incentrato sulle grandi problematiche etiche ed antropologiche ha oggi d'altronde un altro protagonista, che proprio riguardo a tali problematiche si pone in modo antitetico rispetto alla Chiesa e al cristianesimo. Il suo nucleo concettuale è la convinzione che l'uomo sia integralmente riconducibile all'universo fisico, mentre sul piano etico e giuridico il suo assunto fondamentale è quello della libertà individuale, in rapporto alla quale va evitata ogni discriminazione. Questa libertà, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico e giuridico: ogni altra posizione può essere quindi lecita soltanto finché non contrasta ma rimane subordinata rispetto a questo criterio relativistico. In tal modo vengono sistematicamente censurate, quanto meno nella loro valenza pubblica, le norme morali del cristianesimo. Si è sviluppata così in Occidente quella che Benedetto XVI ha ripetutamente denominato "la dittatura del relativismo", una forma di cultura cioè che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce una contraddizione radicale non solo del cristianesimo ma più ampiamente delle tradizioni religiose e morali dell'umanità. Proprio questo taglio radicale è però lontano dall'essere da tutti condiviso in quello che si suole chiamare "il mondo laico". Anzi, molti "laici" ritengono di dover rifiutare un simile taglio per rimanere fedeli alle radici e motivazioni autentiche del liberalismo, che giudicano incompatibili con la dittatura del relativismo. L'allora cardinale Ratzinger, nel libro che ho già ricordato, ha fornito una motivazione storica e anche teologica di questa nuova sintonia tra laici e cattolici, arrivando a sostenere che la distinzione tra gli uni e gli altri "dev'essere relativizzata" ("Senza radici", pp. 111-112). In una lettera scritta a Marcello Pera in occasione della recente pubblicazione del libro di quest'ultimo "Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l'Europa, l'etica", Benedetto XVI ha preso di nuovo e fortemente posizione a favore del legame intrinseco tra liberalismo e cristianesimo. Inoltre, nella relazione tenuta a Subiaco il 1° aprile 2005, il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, aveva avanzato "una proposta ai laici": sostituire la formula di Ugo Grozio "etsi Deus non daretur" – anche se Dio non esistesse –, ormai storicamente consunta perché nel corso del secolo XX è progressivamente venuta meno quella larga coincidenza di contenuti tra etica pubblica civile e morale cristiana che costituiva il senso concreto di tale formula, con la formula inversa, "veluti si Deus daretur" – come se Dio esistesse –. Anche chi non riesce a trovare la via dell'accettazione di Dio dovrebbe cioè cercare di vivere e indirizzare la propria vita come se Dio ci fosse: "Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgente bisogno" (J. Ratzinger, "L'Europa di Benedetto nella crisi delle culture", pp. 60-63). È doveroso aggiungere che non tutti, tra i cattolici, condividono l'apertura cordiale a questo genere di laici. Non mancano infatti coloro che li vedono con sospetto – a mio parere ingiusto –, temendo che strumentalizzino la fede cristiana a fini ideologici e politici. Il motivo principale di tale diffidenza è che non pochi, sebbene cattolici, non appaiono realmente convinti della necessità di un impegno forte nel campo dell'etica pubblica. In concreto questi cattolici rimangono piuttosto legati in materia di laicità al quadro classico della divisione di competenze tra istituzioni civili ed istituzioni ecclesiastiche e sembrano non cogliere pienamente la portata della novità costituita dall'emergere delle attuali problematiche etiche ed antropologiche.
L'analisi del concetto di laicità nel suo concreto articolarsi storico consente di tentare una risposta non generica alla questione del rapporto tra laicità e bene comune. Quando è intesa come autonomia delle attività umane, che devono reggersi secondo norme loro proprie, e in particolare come indipendenza dello Stato dall'autorità ecclesiastica, la laicità è certamente richiesta dal bene comune, come del resto ha ampiamente mostrato la storia dell'Europa moderna a partire dalle guerre di religione. Ernst-Wolfgang Böckenförde, nel suo classico saggio su "La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione", è tra coloro che hanno meglio evidenziato come soltanto l'indipendenza dello Stato dalle diverse confessioni religiose poteva assicurare la pace delle nazioni e la stessa libertà dei credenti. Diverso è invece il discorso quando il concetto di laicità viene esteso ad escludere ogni riferimento delle attività umane e in particolare delle leggi dello Stato e dell'intera sfera pubblica a quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell'essenza stessa dell'uomo, oltre che a quel "senso religioso" nel quale si esprime la nostra costitutiva apertura alla trascendenza. Come infatti ha mostrato lo stesso Böckenförde alla fine del saggio che ho ricordato, lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi, come già sosteneva Hegel, sembrano svolgere un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente. Molto recentemente Rémi Brague, in un intervento su "Fede e democrazia" pubblicato sulla rivista "Aspenia" nel 2008 (pp. 206-208), ha proposto un assai interessante aggiornamento della tesi di Böckenförde: anzitutto estendendola dallo Stato all'uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa di quella sua riduzione alla natura e di quel totale relativismo che sono all'origine delle predette interpretazioni della laicità. È l'uomo dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso. In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici, come sembra pensare Böckenförde. Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita, e questa è, fin dall'inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non "come" vivere, ma "perché" vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla. Sono questi i motivi per i quali Benedetto XVI ha ripetutamente proposto una laicità da lui stesso definita "sana" e "positiva", che congiunga all'autonomia delle attività umane e all'indipendenza dello Stato non già la preclusione ma l'apertura nei confronti delle fondamentali istanze etiche e del "senso religioso" che portiamo dentro di noi. Solo una laicità così intesa sembra realmente corrispondere alle esigenze attuali del bene comune, perché capovolge quelle strane tendenze che sembrano compiacersi di prosciugare le riserve di energia vitale e morale di cui vive ciascuno di noi, il nostro popolo e l'intero Occidente, senza darsi pensiero di come sostituirle, o meglio non avvertendo che esse in concreto non sono sostituibili. Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che invece accomuna oggi molti cattolici e laici e che, a mio parere, indica un grande compito comune che ci attende: dare qualcosa di noi stessi per rinvigorire, e non per depauperare, tali riserve.
3. L'incontro tra laici e cattolici: una stagione al tramonto (di Ernesto Galli della Loggia) Una stagione al tramonto. Tutto sembra indicare che una stagione italiana sta finendo: la stagione che è andata sotto il nome di incontro o dialogo tra laici e cattolici. Si capisce a quale stagione, a quale incontro mi riferisco: a quella che si aprì intorno agli inizi degli anni Novanta, nel momento della crisi della Prima Repubblica e con essa della Democrazia cristiana, del centro sinistra, ma anche del Partito comunista colpito a morte dalla fine dell'Urss, e che ricevette una spinta decisiva dall'attentato newyorkese dell'11 settembre. Quegli eventi, nonché la sensazione più generale che si stesse chiudendo un'intera epoca storica, aprirono o catalizzarono una serie di interrogativi e di problemi riguardanti l'Italia e il mondo: immaginare una nuova collocazione e una nuova «missione» politica sia per i cattolici che per le forze laiche non attratte nell' orbita del vecchio Partito comunista; elaborare l'avvicinarsi di una temperie culturale nuova aperta dai progressi impressionanti della tecnoscienza in settori quali l'ingegneria genetica; affrontare le inedite tensioni geopolitiche, vieppiù dominate da componenti fondamentalistiche, che sembravano imporre un ripensamento/rilancio della categoria di Occidente. Dunque un dialogo tra laici e cattolici che però aveva poco a che fare con quello tradizionale della storia politica italiana, a suo tempo avviato dal Pci togliattiano, e proseguito per decenni, con la sinistra cattolica poi ribattezzata con il nome di «cattolicesimo democratico». Diversi i contenuti, ancora più diversi i protagonisti.
I risultati non sono mancati: soprattutto, direi,
la nascita di quotidiani, riviste, libri, iniziative culturali varie,
dove, per la prima volta in modo così continuo e sistematico nella
storia italiana, la tradizione liberale e il cristianesimo cattolico
hanno intrecciato analisi, rilevato coincidenze e scambiato punti di
vista; dove si sono stabiliti importanti rapporti e consuetudini anche
personali. Da tempo però tutto sembra avviato verso una ripetitività
sempre più stanca, i contenuti non si rinnovano, non si aggiungono
energie nuove mentre all'opposto si sommano nuove ostilità. E mentre
continua ad apparire sempre assai lontano, quasi irraggiungibile, il
traguardo della nascita nel nostro Paese di una cultura civica capace di
coniugare quotidianamente, senza contrasti ultimativi, una dimensione
pubblica della religione e un ethos democratico condiviso. Innanzi tutto tale dialogo, che aveva una natura sostanzialmente culturale (anche se con possibili, evidenti, conseguenze politiche), si è trovato fortemente squilibrato per la scarsissima presenza in campo cattolico di un'opinione pubblica colta non orientata a sinistra. Sul versante cattolico i pochi interlocutori disponibili sono stati perlopiù figure di giovani intellettuali, quasi sempre cresciuti nei movimenti, e alcuni di quegli stessi movimenti (penso specialmente a Comunione e Liberazione). Dominati tuttavia, gli uni e gli altri, da un fortissimo spirito di parte, orientati a un forte radicalismo, pronti assai spesso a perdere repentinamente interesse, e magari a guardare con sospetto, proprio coloro dell'altro campo con i quali fino al giorno prima si erano trovati a discutere insieme. E' accaduto così che il dialogo ha finito per vedere protagonisti, da parte cattolica, soprattutto gli esponenti della gerarchia, la Chiesa. Molti prelati vi hanno visto un'occasione, nel caso migliore per uscire dal proprio ruolo intellettualmente non troppo appagante, nel caso peggiore per mettersi in mostra, per acquistare un'immagine pubblica di maggior rilievo. Ne sono derivate due conseguenze negative intrecciate insieme. Che l'incontro tra laici e cattolici, non avendo visto alcun impegno di parti significative del laicato cattolico, non ha potuto ricevere l'apporto di energie culturali vaste e profonde che non fossero quelle di qualche vescovo o cardinale (pochi per la verità, ben pochi!). Con il che, però, esso è divenuto di fatto un incontro con la Chiesa, caricandosi in tal modo di un significato immediatamente e inevitabilmente politico, o comunque potendo facilmente essere così etichettato. E dunque facilmente suscitando, da parte dei laici intransigenti e della sinistra, un fuoco d'interdizione rivelatosi alla fine efficace. Il ruolo assunto dalla Chiesa ha evidenziato un ulteriore fattore negativo. Ha infatti reso ancora più chiara l'autoreferenzialità con la quale il mondo cattolico è abituato da un paio di secoli a improntare il suo rapporto con chi non ne fa parte storicamente, e che nel caso dell'organizzazione ecclesiastica raggiunge l'apice. Autoreferenzialità significa difficoltà di stabilire rapporti realmente paritari con chi è fuori da quel mondo, difficoltà di farsi persuaso che perché ci sia una reale interlocuzione con chiunque è necessario dare nella stessa misura in cui si riceve, non lesinare riconoscimento e visibilità, capire che se si vogliono conseguire obiettivi di rilievo non si può prendere come bussola solo se stessi, solo il proprio immediato tornaconto. E' così accaduto tante volte, per esempio, che pur mostrandosi molto interessata al dialogo con i laici di orientamento liberale la Chiesa e i suoi esponenti fossero pronti, però, con lo stesso interesse (anzi assai spesso di più), a incontrarsi con i più aspri avversari di quelli, con quei laici intransigenti che magari vituperavano gli altri proprio a causa — colmo dei paradossi — del dialogo da essi intrattenuto con il mondo cattolico: fossero pronti a invitarli, a scrivere sui loro giornali, a chiederne la collaborazione. Forse qualcuno potrebbe giudicare tutto ciò una manifestazione di quella malizia e spregiudicatezza talvolta considerate proprie della più sofisticata abilità politica. Sono convinto del contrario. A ben vedere, infatti, l'autoreferenzialità — di cui tanto spesso la Chiesa e il suo mondo ancora non riescono a liberarsi, e che è emersa con chiarezza nel dialogo con i laici interessati ad avviare un rapporto nuovo con il cattolicesimo — non è che la conseguenza della separatezza a cui la vicenda storica ha costretto la Chiesa stessa insieme al retroterra sociale che fa capo ad essa. Una separatezza che costituisce un grave ostacolo proprio risp |