TESTI ATTUALITÀ ANNO 2005
18 dicembre 2005
Invito a superare l’inquinamento commerciale del Natale Benedetto XVI ha incoraggiato questa domenica a superare l’“inquinamento commerciale” che oggi caratterizza il Natale invitando a riscoprire nel Bambino Gesù il Figlio di Dio che si è fatto uomo per amore. Recitando la preghiera mariana dell’Angelus dalla finestra del suo studio, il Pontefice ha ricordato che la tradizione di preparare il presepe nelle case è un modo di presentare la fede cristiana, soprattutto ai bambini. In questa occasione, infatti, c’erano molti bambini in piazza San Pietro: seguendo una tradizione tipica di Roma, hanno portato l’immagine del Bambino Gesù che poi collocheranno nel presepe della loro casa per farla benedire dal Papa. “Nell’odierna società dei consumi, questo periodo subisce purtroppo una sorta di ‘inquinamento’ commerciale, che rischia di alterarne l’autentico spirito, caratterizzato dal raccoglimento, dalla sobrietà, da una gioia non esteriore ma intima”, ha constatato il Vescovo di Roma nelle parole che ha pronunciato prima di recitare la preghiera. Per questo motivo, ha incoraggiato i credenti a prepararsi al Natale con i sentimenti della Vergine Maria, perché “ci predisponiamo con sincerità di cuore e apertura di spirito a riconoscere nel Bambino di Betlemme il Figlio di Dio venuto sulla terra per la nostra redenzione”. In questo senso, il Santo Padre ha esortato a portare avanti la tradizione di fare il presepe in casa, perché “può rivelarsi un modo semplice, ma efficace di presentare la fede per trasmetterla ai propri figli”. “Il Presepe ci aiuta a contemplare il mistero dell’amore di Dio che si è rivelato nella povertà e nella semplicità della grotta di Betlemme”, ha spiegato. In questo contesto, il Papa ha ricordato il primo presepe vivente della storia, realizzato nel 1223 da San Francesco d’Assisi a Greccio. Questa tradizione, ha aggiunto, “ancor oggi conserva il suo valore per l’evangelizzazione”. “Il Presepe può infatti aiutarci a capire il segreto del vero Natale, perché parla dell’umiltà e della bontà misericordiosa di Cristo, il quale ‘da ricco che era, si è fatto povero’ per noi”, ha spiegato Benedetto XVI. “La sua povertà – ha osservato – arricchisce chi la abbraccia e il Natale reca gioia e pace a coloro che, come i pastori a Betlemme, accolgono le parole dell’angelo: ‘Questo per voi il segno: un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia’”. Per il Papa “questo rimane il segno, anche per noi, uomini e donne del Duemila. Non c’è altro Natale”. Il Santo Padre ha concluso il suo incontro domenicale salutando i fedeli in francese, inglese, tedesco, spagnolo, polacco e italiano.
La rivincita del Natale contro chi vorrebbe eliminarlo La consueta battaglia annuale inizia con qualche vittoria: sembra che il Natale non sia più una parola tabù. Il 29 novembre il Washinton Times ha riferito che il presidente della Camera dei rappresentanti USA, Dennis Hastert ha annunciato ai funzionari federali che l’albero che si trova nel West Lawn del monte capitolino sarà rinominato “Capitol Christmas Tree”. Negli ultimi anni esso ha assunto il nome di “Holiday Tree”. Chiamare l’albero di Natale “christmas tree” era diventata ormai una questione scottante in molti ambiti sociali, osserva l’articolo. Due settimane fa, il sito Internet della città di Boston parlava di un “holiday tree” che era stato posizionato su Boston Common. Dopo qualche protesta e minaccia di denuncia, il sindaco Thomas Menino ha annunciato che l’albero sarebbe stato chiamato albero di natale, e tale cambiamento è stato attuato anche sul sito Internet. La consueta battaglia sulle decorazioni natalizie, i canti di Natale e la terminologia è iniziata già ai primi di novembre in diversi Paesi, a cominciare dagli Stati Uniti dove la catena di supermercati Wal-Mart ha rivendicato il diritto di continuare la sua usanza di salutare i clienti con “buone feste” piuttosto che con “buon Natale”. La società è stata duramente criticata dal presidente della Catholic League for Religious and Civil Rights, Bill Donohue. In un comunicato stampa del 9 novembre, Donohue ha anche criticato una dichiarazione di Wal-Mart secondo cui il Natale sarebbe un’insieme di antiche tradizioni, in cui confluiscono elementi provenienti dallo shamanismo siberiano, dalle usanze celitiche e gotiche e dal culto di Baal. Donohue ha invitato a boicottare questo colosso della grande distribuzione. La controversia è poi terminata quando, due giorni dopo, Donohue ha annunciato che Wal-Mart aveva ritrattato la sua dichiarazione sull’origine del Natale e aveva annunciato di voler effettuare qualche modifica sul suo sito Internet. La società, tuttavia, continuerà a salutare i clienti con “buone feste”. In Australia, i difensori del Natale hanno potuto riscattarsi dalle sconfitte dello scorso anno. Il Premier dello Stato di Victoria, Steve Bracks, ha assicurato un sostegno ufficiale per le scuole pubbliche che avessero composto un presepe nei propri locali, avessero fatto canti di Natale e svolto altre celebrazioni, secondo l’Herald Sun del 21 novembre. Il quotidiano osserva che lo scorso anno diverse scuole avevano vietato di rappresentare la Natività e di fare canti di natale per il timore di offendere i bambini non cristiani. Correttezza politica in tilt “Coloro che non desiderano partecipare non sono obbligati a farlo e coloro che desiderano celebrare a modo loro possono farlo”, ha affermato Bracks, aggiungendo poi: “Persino persone di altre fedi accettano le celebrazioni cristiane e il Governo si sta adoperando per assicurare che non vi siano divieti di sorta su queste attività”. Il Vicario generale dell’Arcidiocesi cattolica di Melbourne, monsignor Les Tomlinson, ha affermato che i divieti sulle rappresentazioni della Natività e dei temi cristiani sono manifestazioni di una correttezza politica in tilt, ha riferito l’Herald Sun. E a Sydney il sindaco Clover Moor ha preannunciato di voler offrire messaggi cristiani più forti per le celebrazioni di quest’anno, secondo il Sydney Morning Herald del 24 novembre. Lo scorso anno esse erano state pesantemente criticate per essere sotto tono e di carattere non sufficientemente cristiano, ha affermato il giornale. Da parte sua, l’Arcidiocesi di Adelaide ha organizzato una cerimonia per benedire le figure destinate ai presepi, secondo un comunicato del 27 novembre. L’arcivescovo Philip Wilson sta adottando l’usanza inaugurata da Giovanni Paolo II a Roma, il quale era solito invitare i bambini italiani a portare le figure della Natività per una speciale benedizione. Sin dal 2003 ad Adelaide viene impartita una benedizione speciale la prima domenica d’Avvento. “Questa splendida tradizione”, ha affermato l’arcivescovo Wilson, “ricorda ai bambini e ai genitori, durante il frenetico periodo natalizio, l’importante messaggio di speranza, di pace, di tolleranza e di perdono della storia di Dio incarnato in un bambino nato da una coppia povera che aveva trovato rifugio in una stalla”. Sensi di colpa? I conflitti sulle celebrazioni del Natale sono il tema di un libro di recente pubblicazione, dal titolo “The War on Christmas” (la guerra contro il Natale), edizioni Sentinel. Il giornalista John Gibson scrive che le restrizioni sul Natale sono aumentate negli Stati Uniti nonostante la popolazione sia a stragrande maggioranza cristiana. Nelle scuole ora l’albero di natale viene solitamente chiamato albero dell’amicizia, albero della donazione, o albero delle feste. Per i bambini non possono essere organizzate feste di Natale, ma feste d’inverno. Alcune scuole, afferma Gibson, hanno persino vietato i tradizionali colori del rosso e del verde nel tentativo di trasformare il Natale in una celebrazione dell’inverno. Secondo Gibson la maggioranza di coloro che vorrebbero bandire il Natale è formata da “cristiani progressisti logorati da un senso di colpa”, incitati dal secolarismo, dall'umanesimo e dal relativismo culturale, e tutelati da organizzazioni come la American Civil Liberties Union (ACLU) che gli forniscono la base giuridica. Spesso i funzionari locali ricevono lettere minatorie contro ogni pubblica rappresentazione del Natale. Di fronte agli elevati costi legali in caso di giudizio, le scuole e le autorità comunali sono spesso pronte a sottostare alle minacce, vietando ogni menzione del Natale. Gibson sostiene che la mentalità progressista che tenta di eliminare il Natale, considera la religione come un'attività privata che deve essere relegata strettamente alla sfera privata. Ma curiosamente è solo il Cristianesimo ad essere sotto attacco. La celebrazione delle festività ebraiche, indù o islamiche non sono considerate come una minaccia, ma come un segno positivo di diversità culturale. Per contro, ogni manifestazione pubblica di simboli o feste cristiane viene considerata come colpevole di escludere gli altri gruppi o di imporre determinate credenze. Il libro dedica ampio spazio ad una serie di esempi dell'eliminazione dei simboli cristiani. A Covington, Georgia, nel 2000 era stato fatto divieto all’amministrazione scolastica di inserire la parola “Natale” nel calendario per identificare il periodo di vacanza. Il legale Craig Goodmark della ACLU ha sostenuto che l’utilizzo del termine “Natale” nel calendario, al fine di descrivere le vacanze di dicembre, sarebbe incostituzionale e portatore di un messaggio ostile nei confronti delle famiglie non cristiane. Il rosso e il verde L’anno seguente, a Plano, nel Texas, nelle scuole elementari è stato eliminato ogni possibile simbolo cristiano. Le vacanze di dicembre erano già state private della denominazione di vacanze di Natale, e la festa di Natale era stata rinominata festa dell’inverno. Nel 2001 le autorità scolastiche hanno proibito agli studenti di scrivere “buon Natale” sui biglietti d’auguri per i compagni di scuola. E per la festa d’inverno, i piatti e i tovagliolini non potevano avere i colori rosso e verde poiché interpretabili come simboli cristiani. Lo scorso dicembre poi è scoppiata una polemica a Mustang, nell’Oklahoma, sul contenuto delle rappresentazioni in occasione del Natale della scuola elementare del luogo. Per gli ultimi due decenni la scuola aveva rappresentato il Natale sia con il presepe che con riferimenti alla Kwanzaa (un festival culturale afroamericano) e alla Hanukkah (la festa ebraica della luce). A causa dei timori per la possibilità di subire azioni legali, il sovrintendente per le scuole, Karl Springer, ha ordinato la rimozione del presepe dalle rappresentazioni, ma non degli altri elementi religiosi non cristiani. Gibson afferma che sotto le polemiche annuali sul Natale si cela una guerra contro i cristiani. “È aperta la caccia contro i diritti costituzionali dei cristiani”, scrive. I fautori di questa guerra al Natale sostengono di agire a tutela della Costituzione americana. Questo è falso, secondo Gibson, poiché ciò che essi perseguono va ben oltre ciò che la Corte Suprema ha sancito. In effetti la Corte Suprema non ha mai dichiarato che l’albero di natale è incostituzionale o che i canti di Natale dovrebbero essere soppressi. Allo stesso modo non ha mai detto che l’utilizzo della parola “Natale” in un documento pubblico sia incostituzionale. Ciò nonostante, queste persone continuano a sostenere che questi simboli devono essere vietati perché violano il principio della separazione tra Chiesa e Stato. Tuttavia, il libro conclude osservando che si sta avviando una reazione di protesta contro queste campagne anticristiane. Un dono anticipato per chi ama celebrare il Natale.
La storia di un gruppo di monaci di clausura raccontata in un libro e in un Dvd “I Solitari di Dio, separati da tutto, uniti a tutti”. Nella Certosa di Serra San Bruno in Calabria, una troupe televisiva ha potuto vivere per dieci giorni insieme ai monaci di clausura. Ora, la storia di questa esperienza è stata raccolta in un libro e filmata in un Dvd. L’autore dell’inchiesta e del volumetto è Enzo Romeo, Caporedattore Esteri e vaticanista del TG2. Il volume ed il servizio filmato sono stati presentati nel corso di una conferenza stampa che si è tenuta martedì 6 novembre nella Sede della RAI di Viale Mazzini a Roma. Mauro Mazza, Direttore del TG2, ha descritto la vita dei monaci come “un silenzio pieno, contrapposto al rumore. La preghiera contrapposta alla mondanità. La serenità che traspare dal racconto dei monaci, contrapposta alle crisi ed alle depressioni tipiche della società moderna”. “Viene da chiedersi – ha continuato il Direttore del TG2 – dove stia la follia, se dentro alla Certosa o fuori. C’è da chiedersi dov’è la vita vera che somiglia alla serenità? Che quella dei monaci sia un anticipo di eternità?”. E ancora “resta alla fine la domanda, sono vite sprecate quelle dei monaci?”. “Il sospetto che emerge – ha affermato Mazza – è che a sprecare la vita non sono i monaci, perché se si compie una scelta d’amore, non può essere una scelta di vita sprecata”. Nel prendere la parola, il Cardinale Jorge María Mejía, Archivista e Bibliotecario emerito di Santa Romana Chiesa, ha invece commentato che “questo libro è una introduzione vera e fedele a che cosa è nella realtà una Certosa, uno stile di vita non solo un edificio, una vita poco frequente in questo mondo, per questo motivo importante da conoscere ed apprezzare”. Il porporato si è detto stupito che le telecamere siano riuscite ad entrare in un Convento di clausura. “Io avrei pensato che tra i pochi posti in questo mondo dove la televisione si ferma dinanzi alla porta sarebbe stata la Certosa, questo però non è successo, quello che si è fatto si è fatto e i monaci sapranno perché”, ha osservato il Cardinal Mejía. L’Archivista emerito della Santa Sede si è augurato che la vita della Certosa abbia lasciato un segno profondo negli operatori televisivi, affinché si “capisca come questa sia la vera dimensione della vita, gli strumenti che i certosini cercano sono quelli che aiutano la ricerca e la vicinanza con Dio”. Ma come mai una troupe televisiva è potuta entrare nella Certosa? Come è stato possibile questo rapporto tra il mondo del silenzio e quello rumoroso della comunicazione? Il Priore della Certosa di Serra San Bruno, Dom Jacques Dupont, ha risposto raccontando che “il tutto è nato da una scelta non facile: abbiamo discusso ed abbiamo optato per questa soluzione per motivi concreti”. “Dopo che monsignor Milingo è stato da noi, siamo stati assaliti da alcuni mezzi di comunicazione. Alcuni hanno scritto che il Papa l’aveva mandato da noi per correggere i suoi sbagli, dipingendo la Certosa come un luogo per peccatori che devono redimersi”, ha aggiunto. Questi articoli, ha spiegato Dom Jacques, ci hanno confermato che “le persone non sanno che cos’è la vita della Certosa e per questo abbiamo autorizzato la troupe televisiva a vivere con noi, e come noi”. Enzo Romeo, autore del libro, ha smentito le leggende pluridecennali che pesano sulla Certosa di Serra San Bruno, rivelando che i frati certosini “non sono persone che scappano dal mondo”. “Si tratta di persone – ha spiegato – che vengono da tutti i continenti, ex professionisti, ex artigiani, ex calciatori, i quali ad un certo punto hanno sentito che dovevano spendere tutta la loro vita nella ricerca della verità, di quello che San Bruno chiamava unico necessario e cioè Dio”. Dal canto suo, il Caporedattore esteri del TG2 ha poi raccontato: “Questa esperienza mi ha lasciato un segno umano e professionale, siamo andati lì per scommessa, non eravamo certi nemmeno di ricavare forse neanche un servizio per il telegiornale, siamo entrati lì senza pretendere nulla ed abbiamo scoperto che c’era tanto da raccontare”. “Noi giornalisti – ha continuato Romeo – abbiamo la possibilità di girare il mondo, raccontare varie esperienze dei luoghi più lontani. Ma raccontare le profondità dell’uomo quella è una esperienza che forse non abbiamo avuto e lì alla Certosa c’è stata data la possibilità di raccontare la profondità dell’uomo. Questa è forse la cosa più forte e più grande che ci è stata data”. Alla domanda sul perché nel terzo millennio un uomo sceglie di vivere in clausura, il Priore della Certosa ha risposto che “sarebbe facile dire che è un desiderio di ritirarsi. In realtà, tutto si spiega se capiamo che la clausura è soltanto un mezzo che ci aiuta a fare un cammino interiore. Siamo un segno ed uno stimolo per cercare e trovare il vero senso della vita”.
Le donne del Centro Italiano Femminile respingono le forme diverse di famiglia Si tratta di “un inganno giuridico e non una conquista socio-antropologica” . a conclusione della tre giorni del Convegno nazionale sul tema “La famiglia in una società plurale”, le donne del Centro Italiano Femminile (CIF), hanno stilato un documento finale in cui respingono “ogni pretesa di riconoscimento e non legittimazione di esperienze di famiglia che non ricorre al paradigma antropologico fondamentale”. Per le donne del CIF le proposte per legittimare forme diverse di famiglia sono “da considerarsi esperienze mimetiche o deformate dell’unico modello familiare umanamente possibile”. Eventuali legittimazioni di forme diverse di famiglia sarebbero per la più diffusa e importante associazione di donne cristiane, “un inganno giuridico e non una conquista socio-antropologica”. Il Convegno nazionale del Centro Italiano Femminile si è tenuto dal 7 al 9 dicembre a Roma presso l’Aurelia Convention Centre (Domus Mariae) sul tema “La famiglia in una società plurale”. Nel documento finale letto dalla già Presidente del CIF, Alba Dini Martino, si puntualizza e riafferma il valore della famiglia come istituzione fondata sul matrimonio: “In questo senso la famiglia, pur manifestando nel processo storico forme diverse ed empiricamente misurabili è una struttura antropologica fondamentale, che non nasce dalle diverse culture nel tempo e non costituisce una invenzione umana”. Inoltre nel corso dei lavori di approfondimento e di studio è emersa “una inappropriata contrapposizione tra la famiglia degli affetti e la famiglia istituzionale” che secondo le donne del CIF “rivela nella cultura diffusa una inquietante non conoscenza della realtà della comunità familiare e dell’istituto matrimoniale, i quali trovano nel reciproco rapporto d’amore di un uomo e di una donna la loro stessa ragion d’essere”. Al Convegno nazionale è intervenuto il professor Francesco D’Agostino, dell’Università di Tor Vergata di Roma, il quale ha sottolineato che “le cosiddette famiglie di fatto in realtà esprimono idee inedite e deformate dell’unico modello di famiglia che non è un prodotto della dinamica sociale e neppure un prodotto storico, ma realtà antropologica”. “Rispetto alla natura del matrimonio – ha spiegato monsignor Paolo Rigon, Vicario giudiziale del Tribunale ecclesiastico della Liguria – non si può sostenere che ci sono esigenze di cambiare i valori legando questi ultimi ad un momento particolare e andando verso un relativismo etico”. Il professor Gaetano Piepoli, dell’Università di Bari, ha sottolineato che la famiglia rimane una istituzione proprio perché fondata sul matrimonio, e rappresenta il luogo per lo sviluppo delle persone “poiché in essa si ha a cuore lo sviluppo dell’altro e si sperimenta la solidarietà”. L’avvocato Maria Rosaria Bosco Lucarelli, Consigliera nazionale del CIF, ha illustrato quanto la legislazione offra già molte opportunità e diritti a coloro che convivono senza essere sposati. “Una legge del 1918 prevede, infatti, la possibilità di ottenere la pensione di guerra anche per la convivente. Nel 1958 la legge anagrafica riconosce non solo la famiglia fondata sul matrimonio, ma anche quella caratterizzata dalla convivenza e dalla comunione del reddito”, ha spiegato. A proposito delle legislazioni più recenti, l’avvocato Bosco ha menzionato la legge sulla locazione che prevede la successione al convivente non solo nel caso di decesso, e la legge sulla fecondazione medicalmente assistita che permette l’accesso anche alle coppie non sposate. Alla domanda del perché allora tanta attenzione verso le coppie conviventi, la Consigliera nazionale del CIF ha risposto: “chi propone i PACS sta operando una forzatura e in fondo alla problematica c’è l’interesse degli omosessuali”.
Chi era davvero Gesù? E’ esistito realmente o la sua storia è una pia invenzione? A queste ed altre domande ha provato a rispondere Andrea Tornielli vaticanista de “Il Giornale”, con una articolata indagine da cui è nato il libro “Inchiesta su Gesù Bambino” Il libro presentato a Milano, il 13 dicembre, dalla professoressa Marta Sordi, Ordinario emerito di Storia Greca e Romana all’Università Cattolica, sarà oggetto di una trasmissione su “Raitre”, in onda in seconda serata la notte del 19 dicembre. Come nasce questo libro? Il libro è un’inchiesta giornalistica che invece di avere come oggetto un fatto di cronaca accaduto in questi giorni, cerca di scandagliare con gli stessi criteri una notizia – anzi la “buona notizia” – accaduta duemila anni fa: la nascita di Gesù a Betlemme, l’evento che ha diviso in due la storia dell’umanità. A quali conclusioni è arrivato alla fine della sua inchiesta? Ho tentato di rispondere alle classiche domande contenute nei manuali di giornalismo: chi, che cosa, dove, quando e perché. Purtroppo anche nel campo dell’esegesi cristiana si tende troppo spesso a considerare i Vangeli, e in particolare i Vangeli dell’infanzia scritti da Matteo e Luca, come costruzioni “teologiche” posteriori, infarcite di simboli e ben poco aderenti alla realtà. Con la mia inchiesta ho cercato di dimostrare invece che anche i Vangeli dell’infanzia hanno fortissimi agganci con la storia e che i fatti raccontati in quelle pagine s’inseriscono molto bene nel contesto storico, geografico e culturale dell’epoca. Può fare qualche esempio concreto? Chi sostiene che i Vangeli sono una costruzione fatta a tavolino dagli “inventori” della religione cristiana, dai “creatori” del “mito” di Cristo, dovrebbe spiegare perché mai questi inventori abbiamo dato al loro mitico fondatore identificato come il figlio di Dio un nome come Gesù, cioè uno dei nomi più diffusi nella Palestina di allora. Sarebbe come se oggi qualcuno in Italia fondasse una nuova religione chiamando il suo Dio “Mario Rossi”. Se davvero i Vangeli fossero un’invenzione, chi li ha scritti avrebbe studiato un nome più ricercato e originale per il Messia. Un altro esempio è quello dei pastori: Luca ce li presenta come i primi adoratori del Bambino di Betlemme. Ebbene, per la società di allora i pastori, nomadi che vivevano ai margini della città, rappresentavano una categoria di persone davvero poco raccomandabili. Li si riteneva dei ladri, che vivevano giorno e notte con le loro bestie e non si lavavano. La loro parola non aveva valore in tribunale. Qualcosa di simile accadrà al momento della resurrezione, un fatto del quale le prime testimoni sono delle donne: anch’esse non potevano testimoniare in tribunale perché per la cultura ebraica antica la loro parola non aveva valore. Quali “inventori” avrebbero scelto testimoni così poco attendibili come primi testimoni della nascita del figlio di Dio e della sua Resurrezione? Possiamo dire dunque che la storicità della figura di Gesù di Nazaret emerge anche dai Vangeli dell’infanzia? Nonostante ci sia chi sostiene il contrario, anche i due racconti evangelici dell’infanzia dimostrano seri e concreti agganci con la storia dell’epoca. Basta pensare al racconto di Matteo, più antico rispetto a quello di Luca e probabilmente proveniente dalla tradizione familiare di Giuseppe: ebbene, l’evangelista non nasconde per nulla l’imbarazzo causato dalla gravidanza di Maria, che avviene prima che le nozze con Giuseppe fossero celebrate e che i due andassero ad abitare sotto lo stesso tetto. Se davvero i Vangeli fossero la costruzione a tavolino della prima comunità cristiana, perché non censurare questo particolare o più semplicemente anticipare di qualche giorno l’annuncio dell’angelo a Giuseppe, facendo sì che non si verificasse l’imbarazzo di quella gravidanza che fa decidere al falegname di Nazaret di ripudiare in segreto la promessa sposa?
La Chiesa ha bisogno di consacrati coraggiosi e creativi Benedetto XVI ritiene che per presentare Dio ad un mondo che sperimenta l’impatto dell’edonismo, del materialismo e dell’individualismo la Chiesa abbia bisogno della testimonianza di castità, povertà e obbedienza dei consacrati. Il Pontefice lo ha affermato incontrando nell’Aula Paolo VI del Vaticano ottomila religiosi, religiose e membri degli istituti secolari e delle società di vita apostolica della diocesi di Roma. “La Chiesa ha bisogno della vostra testimonianza, ha bisogno di una vita consacrata che affronti con coraggio e creatività le sfide del tempo presente”, ha detto il Papa nel discorso che ha rivolto loro dopo l’indirizzo di saluto da parte del Cardinale Camillo Ruini, Vescovo vicario della diocesi di Roma. “Di fronte all'avanzata dell'edonismo – ha aggiunto –, a voi è richiesta la coraggiosa testimonianza della castità, come espressione di un cuore che conosce la bellezza e il prezzo dell'amore di Dio”. “Di fronte alla sete di denaro, la vostra vita sobria e pronta al servizio dei più bisognosi ricorda che Dio è la ricchezza vera che non perisce”, ha proseguito. “Di fronte all'individualismo e al relativismo, che inducono le persone ad essere unica norma a se stesse”, il Vescovo di Roma ha infine considerato che la vita fraterna, “capace di lasciarsi coordinare e quindi capace di obbedienza, conferma che voi ponete in Dio la vostra realizzazione”. In questo modo, ha segnalato, “la persona consacrata vive nel tempo, ma il suo cuore è proiettato oltre il tempo e all’uomo contemporaneo spesso assorbito dalle cose del mondo testimonia che il suo vero destino è Dio stesso”. Il segreto perché la vita dei consacrati diventi un “segno profetico” del Regno dei cieli, secondo il Papa, consiste nell’amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze, prima di qualsiasi altra persona o cosa. “Non abbiate paura di presentarvi, anche visibilmente, come persone consacrate, e cercate in ogni modo di manifestare la vostra appartenenza a Cristo, il tesoro nascosto per il quale avete lasciato tutto”, ha esortato il Pontefice. Come sintesi del suo messaggio, il Santo Padre ha proposto ai consacrati di assumere il motto programmatico di San Benedetto: “Niente sia anteposto all'amore di Cristo”, che è diventata una delle frasi più citate da Benedetto XVI.
Molte e fondamentali le differenze tra cristianesimo e islamismo È quanto sostiene monsignor Walter Brandmüller, Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, nel suo discorso tenuto alla Conferenza sul tema “Cristianesimo e Islam, ieri e oggi”, svoltasi a Roma, presso la Pontificia Università Lateranense. Permettetemi di affrontare il tema cristianesimo e islam, limitandomi, storico qual sono, a una breve presentazione dei fatti storici, non entrando nello specifico del dialogo religioso-teologico. Ciò mi sembra utile poiché il quinto centenario della nascita di Pio V è stato celebrato un po’ in sordina, soprattutto nell’ambito della cultura accademica. Il vincitore di Lepanto, il papa che aveva avuto il coraggio e l’energia di costruire un’alleanza di quasi tutti i regni cristiani contro l’impero ottomano – che con la sua avanzata stava minacciando l’Europa e che, nei Balcani, già aveva installato il suo dominio – oggi, proprio a causa della ripresa infelice delle ostilità fra i due mondi – cioè da una parte il mondo che è stato cristiano, e che ancora in parte lo è, e dall’altra il mondo islamico – a molti sembra una presenza ingombrante, che è meglio lasciare in ombra. Una cosiddetta laicità che vorrebbe mettere sotto accusa tutte le religioni monoteiste tacciandole di fondamentalismo, oppure che esalta il dialogo cancellando le diversità, vuole dimenticare il millenario conflitto che ha contrapposto le due comunità religiose, e soprattutto il pontefice romano che ha voluto e saputo bloccare l’avanzata islamica, salvando così la civiltà cristiana. Anche se si tratta di due religioni monoteiste, che tra l’altro condividono, sia pure in misura diversa, la tradizione ebraica – uno specialista come Samir Khalil Samir sottolinea come prima di Maometto anche gli ebrei e i cristiani arabi chiamassero il loro Dio con il nome di Allah – «tra cristianesimo e islamismo le differenze sono molte, e sono fondamentali». Innanzi tutto, vi era differenza nel modo di «concepire la conversione e nell’uso della violenza». Per i cristiani la conversione doveva essere «volontaria e individuale», ottenuta principalmente attraverso la predicazione e l’esempio, e in questo modo infatti si realizzò nei primi secoli la diffusione del cristianesimo. Ovviamente, va sin d’ora riconosciuto che questa concezione del cristianesimo primitivo, ha subito in epoca posteriore, un cambiamento, da collegarsi con il diffondersi, anche nella cultura occidentale, di uno spirito d’intolleranza in materia di religione. Lo stesso Giovanni Paolo II nella T.M.A. ha riconosciuto, che, sotto questo profilo, i figli della Chiesa “non possono non tornare con animo aperto al pentimento…all’acquiescenza manifestata tra Medio Evo e prima età moderna, a metodi di intolleranza.” (T.M.A., n. 35). Da parte musulmana, invece, sin dai primissimi tempi, e cioè durante la vita di Maometto, la conversione è stata imposta con le armi. L’espansione e l’estensione dell’area di influenza dell’islam sono infatti avvenute attraverso le guerre con le tribù che non accettavano pacificamente la conversione, e questa andava di pari passo con la sottomissione all’autorità politica islamica. L’islamismo, a differenza del cristianesimo, esprime un progetto globale, al tempo stesso religioso, culturale, sociale e politico. Mentre infatti il cristianesimo si è diffuso nei primi tre secoli, nonostante le persecuzioni e il martirio, in contrapposizione per molti aspetti al dominio romano – e comunque introducendo una netta separazione della sfera spirituale da quella politica – l’islam si è imposto con la forza di una dominazione politica. Non stupisce quindi che l’uso della violenza occupi un posto centrale nella tradizione islamica, come rivela il ricorso frequente del termine jihad in moltissimi testi. Anche se alcuni studiosi, soprattutto occidentali, sostengono che con jihad si deve intendere non necessariamente la guerra, ma piuttosto la lotta spirituale, lo sforzo interiore, ancora Samir Khalil Samir ha chiarito che l’uso di questo termine nella tradizione islamica – compreso quello che ne viene fatto oggi – è sostanzialmente univoco, e indica la guerra in nome di Dio per difendere l’islam, che è un obbligo per i musulmani maschi adulti. Chi sostiene dunque che l’accezione di jihad come guerra santa costituisce una sorta di deviazione dalla vera tradizione islamica non dice la verità, e la storia mostra come purtroppo la violenza abbia caratterizzato l’islamismo fin dalle origini, e come sia stato lo stesso Maometto a organizzare e a condurre sistematicamente le razzie nei confronti delle tribù che non volevano convertirsi e accettare il suo dominio, sottomettendo in questo modo, una dopo l’altra, le tribù arabe. Naturalmente, bisogna anche dire che all’epoca di Maometto le guerre facevano parte della cultura beduina e che nessuno vi trovava nulla di riprovevole. Anche la versione che oggi i musulmani – seguiti in questo da molti storici occidentali – cercano di accreditare sulle crociate, non risponde alla realtà storica: secondo questa rappresentazione i cristiani occidentali si sarebbero presentati come invasori in un paese pacifico e rispettoso delle religioni diverse – cioè la Terrasanta, che allora faceva parte della Siria – utilizzando motivi religiosi per mascherare pretese imperialiste e interessi economici. L’idea delle crociate nacque invece soprattutto come reazione alle misure che il califfo fatimide al-Hakim bi-Amr Allah prese contro i cristiani di Egitto e di Siria: nel 1008 al-Hakim abolì la festività delle Palme, l’anno successivo,ordinò di punire i cristiani e di requisire ogni loro bene. Nello stesso 1009 saccheggiò e fece demolire la chiesa che al Cairo era dedicata a Maria e non impedì la profanazione dei sepolcri cristiani che la circondavano e il sacco di altre chiese della città. Nello stesso anno si ebbe quello che fu sicuramente l’episodio più grave: la distruzione a Gerusalemme della basilica costantiniana della Resurrezione, conosciuta come il Santo Sepolcro. Le cronache del tempo dicono che egli aveva ordinato “di farvi sparire qualsiasi simbolo di fede cristiana e di provvedere a portar via ogni reliquia ed oggetto di venerazione”. La basilica quindi fu completamente abbattuta, e Ibn Abi Zahir cercò in ogni modo di rimuovere il sepolcro di Cristo e di farne sparire ogni traccia. Oggi, in molti ambienti intellettuali, si parla spesso della tolleranza religiosa esercitata durante molti secoli da parte del potere politico islamico perché – mentre nei confronti delle popolazioni pagane valeva il detto “abbraccia l’islam e avrai la vita salva” - i pagani che non si convertivano venivano uccisi – i “popoli del libro”, cioè ebrei e cristiani, potevano continuare a praticare il loro culto. Nella realtà, la situazione era molto meno idilliaca: cristiani ed ebrei potevano sopravvivere solo se accettavano il dominio politico musulmano e una situazione di umiliazione, aggravata dall’obbligo di pagare imposte sempre più pesanti. Non c’è da stupirsi, quindi, se la maggioranza dei cristiani, anche se non costretti con la forza, a causa delle continue pressioni, economiche e sociali, si sia convertita all’islam, provocando per esempio la totale scomparsa di una cristianità fiorente per oltre mezzo millennio come quella dell’Africa romana, la terra di Tertulliano, san Cipriano, Ticonio e soprattutto sant’Agostino. Ma «la differenza più forte tra cristianesimo e islamismo è a proposito di un tema centrale come la concezione di essere umano». Lo dimostra il fatto che molti paesi islamici non hanno accettato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo promulgata dalle Nazioni Unite nel 1948, o l’hanno fatto con la riserva di escludere le norme che contravvenivano alla legge coranica, cioè in pratica tutte. Dal punto di vista storico bisogna dunque riconoscere che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo è un frutto culturale del mondo cristiano, anche se si tratta di norme “universali”, in quanto valide per tutti. Nella tradizione islamica, infatti, non esiste il concetto di uguaglianza di tutti gli esseri umani, né di conseguenza quello di dignità di ogni vita umana. La sharia è fondata su una triplice disuguaglianza: tra uomo e donna, tra musulmano e non musulmano, tra libero e schiavo. In sostanza l’essere umano di sesso maschile viene considerato pienamente titolare di diritti e di doveri solo in quanto appartenente alla comunità islamica: chi si converte a un’altra religione o diventa ateo viene pertanto considerato un traditore, passibile della pena di morte o, come minimo, della perdita di tutti i diritti. La più irrevocabile di queste disuguaglianze è quella tra uomo e donna, perché le altre possono essere superate – lo schiavo con la liberazione, il non musulmano con la conversione all’islam – mentre l’inferiorità della donna è irrimediabile in quanto stabilita da Dio stesso. Nella tradizione islamica, quindi, il marito gode di una autorità pressoché assoluta sulla moglie: mentre all’uomo è consentita la poligamia, la donna non può avere più di un marito, non può sposare un uomo di altra fede, può essere ripudiata dal marito, non ha alcun diritto sulla prole in caso di divorzio, è penalizzata nella divisione ereditaria e dal punto di vista giuridico la sua testimonianza vale la metà di quella di un uomo. Se dunque l’islam implicava ed implica non solo un’adesione religiosa, ma tutto un modo di vivere, sancito anche a livello politico – modo di vivere che naturalmente comporta e prescrive come agire con gli altri popoli, come comportarsi in questioni di guerra e di pace, come avere relazione con gli stranieri – è molto facile comprendere come la vittoria di Lepanto abbia garantito all’Occidente la possibilità di sviluppare la sua cultura di rispetto per l’essere umano, al quale viene garantita uguale dignità in ogni condizione. Se questa caratterizzazione dell’islam è destinata in futuro a rimanere immutata, come è accaduto finora, non può che risultare difficile la convivenza con quanti non appartengono alla comunità musulmana: in un paese islamico, infatti, il non musulmano si dovrà sottomettere al sistema islamico, se non vuole vivere in una situazione di sostanziale intolleranza. D’altra parte, proprio a causa di questa concezione complessiva di religione e autorità politica, il musulmano avrà molte difficoltà ad adattarsi alle leggi civili nei paesi non islamici, ritenendole qualcosa di estraneo alla sua formazione e ai dettami della sua religione. Bisogna forse chiedersi, se le comprovate difficoltà di persone provenienti dal mondo islamico ad integrarsi nella vita sociale e culturale dell’Occidente, non trovi una delle spiegazioni in questa problematica. Dobbiamo anche riconoscere il diritto naturale di ogni società di difendere la propria identità culturale, religiosa e politica. Mi sembra che Pio V abbia fatto proprio questo.
“Lettera incompiuta” di frère Roger Pubblichiamo la “Lettera Incompiuta” di frère Roger, fondatore della Comunità di Taizé, e la presentazione della stessa scritta dal suo successore alla guida della comunità, frère Alois. Sarà consegnata ai circa 50 mila giovani che – secondo le previsioni – si incontreranno alla fine dell’anno a Milano per partecipare al tradizionale incontro ecumenico di preghiera, organizzato annualmente da questa comunità in una diversa città d’Europa. Il pomeriggio prima della sua morte, il 16 agosto, frère Roger chiamò uno dei fratelli e gli disse: “Prendi nota di queste mie parole!” . Ci fu un lungo silenzio mentre cercava di formulare il suo pensiero. Poi cominciò: “Nella misura in cui la nostra comunità crea nella famiglia umana delle possibilità per allargare…” E si fermò, la fatica gli impediva di terminare la sua frase. In queste parole ritroviamo la passione che lo abitava, anche nella vecchiaia. Cosa intendeva per “allargare”? Probabilmente voleva dire: fare tutto il possibile per rendere più percepibile ad ognuno l’amore che Dio ha per ogni essere umano e per ogni popolo, senza eccezione. Augurava alla nostra piccola comunità di mettere sempre in luce questo mistero, attraverso la propria vita, nell’umile impegno con gli altri. Allora, noi fratelli vorremmo raccogliere questa sfida, insieme a tutti coloro che su tutta la terra cercano la pace. Nelle settimane precedenti la sua morte, frère Roger aveva iniziato a riflettere sulla lettera da pubblicare durante l’incontro di Milano. Aveva indicato dei temi ed alcuni dei suoi testi con l’intento di poterli riprendere e rielaborare. Noi li abbiamo riuniti, come erano allora, per costruire questa “Lettera incompiuta”, tradotta in 57 lingue. Essa è come un’ultima parola di frère Roger, che ci aiuterà ad avanzare sulla strada dove Dio “allarga la via ai nostri passi” (Salmo 18, 37). Meditando questa lettera incompiuta negli incontri che ci saranno durante il 2006 a Taizé, settimana dopo settimana, ma anche altrove, nei diversi continenti, ciascuno potrà cercare come completarla attraverso la propria vita. Frère Alois. «Vi lascio la pace, vi do la mia pace»: qual è questa pace che Dio dona? Prima di tutto è una pace interiore, una pace del cuore. È quella che permette di volgere uno sguardo di speranza sul mondo, anche se spesso è lacerato da violenze e conflitti. Questa pace di Dio è anche un sostegno affinché riusciamo a contribuire, con grande umiltà, a costruire la pace laddove è minacciata. Una pace mondiale è così urgente per alleviare le sofferenze, soprattutto perché i bambini di oggi e di domani non conoscano l’angoscia e l’insicurezza. Nel suo Vangelo, in una folgorante intuizione, san Giovanni definisce chi è Dio in tre parole: «Dio è amore». Se solo cogliessimo queste tre parole, andremmo lontano, molto lontano. Che cosa ci attrae in queste parole? In esse troviamo questa luminosa certezza: Dio non ha mandato Cristo sulla terra per condannare, ma perché ogni essere umano sappia di essere amato e possa trovare un cammino di comunione con Dio. Perché allora alcuni sono colti dallo stupore di un amore e si sentono amati o anche ricolmi? Perché altri hanno invece l’impressione di essere poco considerati? Se ognuno potesse comprendere: Dio ci accompagna fino alle nostre insondabili solitudini. A ciascuno dice: «Sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo». Sì, Dio non può che donare il suo amore, in questo è tutto il Vangelo. Quello che Dio ci chiede e ci offre è semplicemente di ricevere la sua misericordia infinita. Che Dio ci ami è una realtà talvolta poco accessibile. Ma quando scopriamo che il suo amore è soprattutto perdono, il nostro cuore si rasserena ed anche si trasforma. Ed eccoci capaci di abbandonare in Dio ciò che prende d’assalto il nostro cuore: qui è la sorgente dove ritrovare la freschezza dello slancio. Riusciamo a comprenderlo bene? Dio si fida così tanto di noi che per ciascuno ha un invito. Qual è questo invito? Ci chiama ad amare come lui stesso ci ama. E non c’è un amore più profondo che arrivare fino al dono di sé stessi, per Dio e per gli altri. Chi vive di Dio sceglie di amare. E un cuore deciso ad amare può irradiare una bontà senza limite [1]. Per chi cerca di amare nella fiducia, la vita si riempie di una bellezza serena. Chi sceglie di amare e di dirlo attraverso la propria vita, è condotto ad interrogarsi su una delle più importanti domande che ci sono: come alleggerire le pene ed i tormenti di coloro che sono vicini o lontani? Ma cosa vuol dire amare? Sarà forse condividere le sofferenze dei più maltrattati? Sì, proprio questo. Sarà forse avere un’infinita bontà di cuore e dimenticare se stessi per gli altri, in modo disinteressato? Sì, certamente. E ancora: cosa vuol dire amare? Amare è perdonare, vivere da riconciliati [2]. E riconciliarsi è sempre una primavera dell’anima. Nel piccolo villaggio di montagna dove sono nato, vicino alla nostra casa, viveva una famiglia numerosa, molto povera. La madre era morta. Uno dei bambini, un po’ più piccolo di me, veniva spesso da noi ed amava mia madre come se fosse la sua. Un giorno fu informato che avrebbero lasciato il villaggio e, per lui, partire non era concepibile. Come consolare un bimbo di cinque o sei anni? Era come se non avesse il distacco necessario per capire una tale separazione. Poco prima della sua morte, Cristo assicura i discepoli che riceveranno una consolazione: egli manderà lo Spirito Santo che sarà per loro un sostegno ed un consolatore, e resterà con loro per sempre. Nel cuore di ciascuno, ancora oggi egli mormora: « Non ti lascerò mai solo, ti invierò lo Spirito Santo. Anche se sei nella disperazione più profonda, io resto vicino a te. » Accogliere la consolazione dello Spirito Santo è cercare, nel silenzio e nella pace, di abbandonarci in lui. Allora, anche se accadono dei fatti gravi, diventa possibile superarli. Siamo così fragili da aver bisogno di consolazione? Ad ognuno capita di essere scosso da una prova personale o dalla sofferenza degli altri. Ciò può arrivare fino a far tremare la fede e spegnere la speranza. Ritrovare la fiducia della fede e la pace del cuore significa talvolta essere pazienti con se stessi. C’è una pena che segna in modo particolare: la morte di una persona cara che forse ci era d’aiuto nel nostro cammino terreno. Ma ecco che una tale prova può essere trasfigurata, allora diventa apertura ad una comunione. A chi si trova all’estremo della sofferenza, può essere restituita una gioia del Vangelo. Dio viene a rischiarare il mistero del dolore umano al punto che ci accoglie in un’intimità con lui. Eccoci allora collocati su un cammino di speranza. Dio non ci lascia soli. Ci permette di avanzare verso una comunione, questa comunione d’amore che è la Chiesa, allo stesso tempo così misteriosa e così indispensabile… Il Cristo di comunione [3] ci fa questo immenso dono della consolazione. Nella misura in cui la Chiesa diventa capace di portare la guarigione del cuore comunicando il perdono, essa rende più accessibile una pienezza di comunione con Cristo. Quando la Chiesa è attenta ad amare ed a comprendere il mistero di ogni essere umano, quando incessantemente ascolta, consola e guarisce, diventa ciò che è di più luminoso in se stessa: il limpido riflesso di una comunione. Cercare riconciliazione e pace implica una lotta all’interno di sé. Non è un cammino facile. Nulla di duraturo si costruisce facilmente. Lo spirito di comunione non è qualcosa d’ingenuo, è allargare il proprio cuore, è profonda benevolenza, esso non ascolta i sospetti. Per essere portatori di comunione, avanzeremo, ciascuno nella propria vita, sulla strada della fiducia e di una bontà del cuore sempre rinnovata? Su questo cammino ci saranno talvolta degli insuccessi. Allora ricordiamoci che la sorgente della pace e della comunione è in Dio. Lungi dallo scoraggiarci, invocheremo il suo Spirito Santo sulle nostre fragilità. E, in tutta la nostra vita, lo Spirito Santo ci permetterà di riprendere il cammino e di andare, da un inizio ad un nuovo inizio, verso un avvenire di pace [4] Nella misura in cui la nostra comunità crea nella famiglia umana delle possibilità per allargare… NOTE [1] Durante l’apertura del concilio dei giovani nel 1974, frère Roger diceva: «Senza amore a che serve esistere? Perché vivere ancora? Con quali obiettivi? Questo è il senso della nostra vita: essere amati per sempre, fino all’eternità, affinché, a nostra volta, anche noi arriviamo a morire d’amore. Sì, felice chi muore d’amore.» Morire d’amore, questo voleva dire per lui amare fino alla fine. [2] «Vivere da riconciliati»: nel suo libro, Pressens-tu un bonheur ?, pubblicato quindici giorni prima della sua morte, frère Roger ha spiegato ancora una volta ciò che queste parole significano per lui: « Posso qui ripetere che mia nonna materna ha scoperto intuitivamente una chiave della vocazione ecumenica e che mi ha aperto una possibilità per concretizzarla? Dopo la prima guerra mondiale, in lei abitava il desiderio che nessuno dovesse vivere ciò che ella aveva vissuto: dei cristiani si erano combattuti armati in Europa, che almeno loro si riconciliassero, pensava lei, per tentare di impedire una nuova guerra. Lei proveniva da un antico ceppo evangelico ma, compiendo in se stessa una riconciliazione, iniziò ad andare alla chiesa cattolica, senza tuttavia manifestare alcuna rottura con i suoi. Colpito dalla testimonianza della sua vita ed ancora in giovane età, ho trovato al suo seguito la mia vera identità di cristiano, riconciliando in me stesso la fede delle mie origini con il mistero della fede cattolica, senza rompere la comunione con nessuno». [3] Il “Cristo di comunione”: frère Roger ha già utilizzato questa espressione quando ha accolto il papa Giovanni Paolo II a Taizé il 5 ottobre 1986: «Con i miei fratelli, la nostra attesa di ogni giorno è che ogni giovane scopra Cristo; non il Cristo preso isolatamente ma il “Cristo di comunione”, presente in pienezza in questo mistero di comunione che è il suo corpo, la Chiesa. In ciò, molti giovani possono trovare dove impegnare la loro intera vita, fino alla fine. In ciò hanno tutto per diventare creatori di fiducia, di riconciliazione, non solo fra di loro, ma con tutte le generazioni, dai più anziani fino ai bambini. Nella nostra comunità di Taizé, seguire il ‘Cristo di comunione’ è come un fuoco che ci consuma. Andremo fino all’estremità del mondo per cercare delle strade, per chiedere, chiamare, supplicare se sarà necessario, ma mai al di fuori, sempre tenendoci all’interno di questa unica comunione che è la Chiesa.» [4] Questi quattro ultimi paragrafi riportano le parole che frère Roger ha detto alla fine dell’incontro europeo a Lisbona, nel dicembre 2004. Sono le ultime parole che ha pronunciato in pubblico. [Traduzione distribuita dalla comunità di Taizé]
11 dicembre 2005
«In Occidente abbiamo bisogno di recuperare la sacralità della liturgia» Tracciando un breve bilancio del recente Sinodo, in una intervista rilasciata alla rivista “Inside the Vatican”, il Cardinale canadese Marc Ouellet, Arcivescovo di Quebec City (Canada) dal 2002, ha affermato, alludendo all’Eucaristia, che nonostante una sorta di rinascita in tutto il mondo dell’Adorazione del Santissimo Sacramento, l’Occidente ha bisogno di riscoprire la sacralità della liturgia. In ogni caso «penso che il Sinodo abbia avuto successo». «La presenza del Santo Padre alle varie sedute ha rappresentato una parte importante di questo successo e i suoi interventi personali hanno dato davvero una sorta di ritmo, o di profondità, al nostro Sinodo. E’ stato molto attento, molto ricettivo e rispettoso, molto cordiale», ha detto. «E’ un uomo profondamente convinto e sicuro della sua dottrina – ha aggiunto il porporato –, per cui può ascoltare molto e attentamente qualsiasi altra posizione, perché non ha paura che le sue convinzioni vengano scosse, avendo anche il carisma di Pietro, il dono dello Spirito Santo, per sostenere i suoi fratelli Vescovi nella fede». Nel corso dei lavori sinodali, il Cardinale ha affermato che «l’esperienza delle Chiese orientali è stata molto arricchente. Hanno liturgie diverse ed un diverso senso della liturgia, per cui sentirli parlare della Santa Eucaristia è stato molto importante per noi». «I cristiani orientali sfruttano l’architettura delle loro chiese per rispettare la Chiesa stessa e la Santa Eucaristia che è il cuore del tempio. Hanno un profondo senso della sacralità, e quindi sentirli parlare della Santa Eucaristia è stato fondamentale per me», ha continuato. «Molti hanno parlato di questo e penso che ci sarà un seguito nelle congregazioni e nei vari paesi, ha quindi aggiunto auspicando “che in futuro ci sia una maggiore consapevolezza della sacralità della santa liturgia». «In Occidente abbiamo bisogno di recuperare la sacralità della liturgia – ha sottolineato il Cardinale canadese –. Ciò che ho osservato è che l’adorazione del Santissimo Sacramento si sta risvegliando e sviluppando in tutto il mondo, e questo aiuterà a ripristinare la sacralità della celebrazione liturgica della Messa». L’Arcivescovo di Quebec City ha poi sostenuto che a suo avviso «la ripresa dell’adorazione del Santissimo Sacramento viene dai laici. E questo è un segno dei tempi e un grande incoraggiamento». «Allo stesso tempo, penso che il Sinodo contenga un messaggio di incoraggiamento per i sacerdoti. In molte parti del mondo viene loro richiesto di coprire grandi distanze e celebrare molte Messe la domenica, per cui è un lavoro duro. Hanno bisogno di incoraggiamento e di essere sostenuti dal popolo di Dio, dalla sua preghiera e dai suoi sacrifici». In vista del 49° Congresso Eucaristico Internazionale che avrà luogo a Quebec City, dal 15 al 22 giugno 2008, il Cardinale Oullet ha dichiarato: «E’ una grande opportunità per la nuova evangelizzazione in Nordamerica, Canada, Stati Uniti in particolare». «E’ anche un’occasione per dare un seguito al Sinodo sulla Santa Eucaristia e di ravvivare la fiamma della fede cattolica nel nostro Paese, dove in passato c’era una profonda unità tra cultura e fede. Questo legame al giorno d’oggi è oggetto di sfida e abbiamo bisogno di ricostruire un rapporto positivo con la cultura e di dar vita ad una nuova cultura cattolica». «Il Congresso Eucaristico implica una lunga preparazione, molte catechesi per un paio d’anni nell’intero Paese – ha spiegato il Cardinale –. Per questo stiamo preparando del materiale e avremo un tema scelto ed approvato da Papa Benedetto», che è «L’Eucaristia: dono di Dio per la vita del mondo», ha continuato. «Dobbiamo sottolineare il dono verticale di Dio, la Santa Eucaristia, e allo stesso tempo questo dono sta portando vita al mondo. Abbiamo bisogno di ricreare e sviluppare una cultura della vita nel nostro Paese, e pensiamo che il Congresso darà un notevole contributo», ha aggiunto. «Prego ogni giorno che possa partecipare anche Papa Benedetto», ha poi confessato.
L’Eucaristia è momento centrale della vita dei cristiani. Se n’è discusso nell’ultimo Sinodo dei vescovi tenutosi in Vaticano dal 2 al 23 ottobre intitolato “L’Eucaristia fonte e culmine della vita e missione della Chiesa”. In queste pagine, il liturgista Rinaldo Falsini (vedi foto) approfondisce il tema dell’Eucaristia con un excursus che parte dalla stessa origine del nome, fino ad affrontare i nodi di cui si è occupata l’assise. Dalla riforma liturgica all’inculturazione, fino alla questione dei viri probati: le proposizioni presentate al Papa dall’assemblea dei vescovi toccano questioni vitali per la Chiesa. Il termine “Eucaristia”, nei testi conciliari a cominciare dalla costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium, è preferito nel significato originario di “azione-rendimento di grazie”, secondo quanto sottolineano gli studi sui racconti dell’ultima cena e sulle prime preghiere eucaristiche. Le rispettive preghiere di rendimento di grazie sul pane e sul vino si fonderanno poi in un unico testo che sarà usato sia per il pane sia per il calice, considerato come un unico elemento. Nasce così la preghiera eucaristica che arriva fino a oggi, pur non senza successivi sviluppi relativi al significato e alla sua piena comprensione. Il primo scritto, dopo il Nuovo Testamento, nel quale ricorre il sostantivo “Eucaristia”, è la Didachè, un testo molto vicino alla Prima lettera ai Corinti di Paolo. Accanto vi troviamo la forma verbale eucaristein: «Per il rendimento di grazie (eucaristia) così rendete grazie (eucaristesate). Anzitutto per il calice: Ti rendiamo grazie o Padre...». La preghiera di azione di grazie, detta Eucaristia, accompagna la cena e la specifica; nello stesso tempo il pane e il vino collocati in questo nuovo contesto, assumono il nome di “Eucaristia”: «Nessuno mangi o beva della vostra Eucaristia se non si è battezzati». Un altro testimone, san Giustino (intorno all’anno 160), nella sua Apologia prima, aggiunge una precisazione, sottolineando il rapporto tra preghiera e pane e vino: «Presso di noi questo cibo si chiama Eucaristia: noi lo prendiamo non come pane comune e bevanda comune; ma come Gesù Cristo, il nostro Salvatore incarnatosi, per la parola di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così abbiamo appreso che anche quel nutrimento, consacrato con la preghiera che contiene la parola di Lui stesso e di cui si nutrono il nostro sangue e la nostra carne per trasformazione, è carne e sangue di quel Gesù incarnato». Alla celebrazione si darà poi un nuovo nome, tanto in Occidente (“santa Messa”) che in Oriente (“divina Liturgia”), e della preghiera di azione di grazie si perderà anche il nome, eccetto che per il racconto della cena o consacrazione; e il nome di “Eucaristia” sarà riservato al corpo e sangue di Cristo, e infine all’ostia identificata nella persona di Cristo di cui si sottolineerà la presenza, più da adorare che da consumare. Soltanto nel secolo scorso, soprattutto con il Concilio, si è recuperato il significato della preghiera eucaristica, detta anche anafora, distinguendo la celebrazione dal culto eucaristico fuori dalla Messa. Si è messo così in evidenza il rendimento di grazie – dall’invito rivolto dal sacerdote al popolo: «Rendiamo grazie al Signore nostro Dio» – con lo sviluppo del prefazio e la composizione di un centinaio di formulari, e l’aggiunta di tre nuove preghiere eucaristiche. Vi si precisava anche che l’Eucaristia o rendimento di grazie non si limita a un momento (racconto della istituzione o consacrazione impropriamente detta), né ai doni (santificati) del pane e del vino, ma si estende ad altri momenti (come nella seconda e terza preghiera eucaristica, dopo il racconto della cena), fino a favorire un atteggiamento che abbraccia l’intera celebrazione. Purtroppo dobbiamo lamentare che il termine non è ancora entrato nella pienezza del suo significato né sul piano teologico né su quello della catechesi, dove rimane prioritario quello del corpo e sangue di Cristo. Culmen et fons. L’espressione “Eucaristia fonte e culmine della vita e missione della Chiesa”, posta come titolo del Sinodo appena concluso, dovrebbe richiamare, per essere più chiaro e convincente, il principio che l’Eucaristia è il vertice dell’iniziazione cristiana, come suggerisce lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica ai nn. 1.212 e 1.322. Anzi stando alla Sacrosanctum Concilium (n. 10), «l’Eucaristia (è a questa che allude primariamente la parola “liturgia”, ndr) è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la sua virtù». Ecco allora che i cristiani che compongono l’assemblea celebrante sono coloro che hanno risposto alla parola del Vangelo con la fede, sono stati rigenerati nel battesimo, hanno ricevuto il dono dello Spirito, e sono quindi resi capaci di partecipare con tutti i fratelli all’Eucaristia pasquale o domenicale. Da quel momento essi avvertono che l’Eucaristia da “culmine” si trasforma in “fonte”. Insomma, la frase così spesso citata fons et culmen andrebbe in realtà capovolta in culmen et fons. Per restare entro l’ottica della Sacrosanctum Concilium, il culmen rimanda a quanto compiuto dalla Chiesa prima della celebrazione liturgico-eucaristica, cioè l’evangelizzazione, la conversione e la fede, l’osservanza della Parola: attività tutte protese a condurre i credenti entro l’assemblea eucaristica, privilegiata epifania della Chiesa. La frase in pratica sintetizza e teorizza il normale processo di iniziazione e da questo alla regolare assemblea eucaristica domenicale. Compito della Chiesa verso i credenti è, mediante la fede e la penitenza, di disporli ai sacramenti, al regolare appuntamento eucaristico e a incitarli a una coerenza di vita. Così la celebrazione liturgica eucaristica diventa fons, momento costitutivo e costruttivo della Chiesa. L’accento sulla assemblea è senz’altro una delle proposte più innovative del Concilio, tradotte nella riforma rituale espressa nell’Eucaristia, insieme all’arricchimento di tre nuove preghiere eucaristiche (la tradizione romana era caratterizzata da un’unica preghiera eucaristica, detta “Canone romano”), che non solo sono venute ad arricchire il patrimonio orante ma hanno introdotto degli elementi delle famiglie liturgiche orientali; anzi la quarta è modellata sui testi di san Basilio e san Giacomo. Assemblea liturgica dell’Eucaristia e Chiesa. Sono molte le testimonianze che richiamano il rapporto tra assemblea liturgica, che celebra l’Eucaristia, e Chiesa. Basti ricordare quella classica – «La Chiesa fa l’Eucaristia e l’Eucaristia fa la Chiesa», cara a H. de Lubac – o l’affermazione del Catechismo della Chiesa cattolica che, mentre afferma che «l’assemblea è la comunità dei battezzati» (n. 1.141), precisa: «È tutta la comunità, il corpo di Cristo unito al suo capo che celebra» (n. 1.140). Di meno ci si sofferma sulla stessa costituzione conciliare (art. 6), sull’introduzione o ordinamento generale del Messale, e tanto meno sull’Ordo della Messa, che ricordano come i riti di introduzione hanno lo scopo di «costituire l’assemblea» o di risvegliare la sua coscienza ecclesiale. A conferma di questo stretto rapporto tra Chiesa ed Eucaristia, nella seconda e terza preghiera eucaristica il sacerdote così prega: «Ricordati della tua santa Chiesa... e di questa assemblea che hai convocato alla tua presenza nel giorno in cui Cristo ha vinto la morte e ci ha reso partecipi della sua resurrezione». Perciò possiamo affermare che il primo segno della celebrazione eucaristica è costituito dall’assemblea (dal “noi” ecclesiale) presieduta dal sacerdote (Sacrosanctum Concilium, 33) che nella varietà dei suoi ministri agisce nell’intera celebrazione, anzi, in quanto corpo di Cristo, partecipa per diventare effettivamente un solo corpo e un solo spirito. L’assemblea è dunque il segno primario della celebrazione, intorno al quale sono ordinati gli altri due segni: quello della Parola e quello del pane e del vino. Le due parti formano un tutt’uno: la liturgia della Parola, nella quale l’assemblea si pone in atteggiamento di ascolto e di risposta, e la liturgia eucaristica, nella quale agisce secondo lo schema della cena consumata da Gesù mediante il sacerdote che la presiede e insieme la coinvolge. La novità della riforma conciliare ha tenuto conto in modo particolare dell’assemblea come risalta dalla preghiera eucaristica che nel passato si svolgeva in silenzio mediante l’invito iniziale «gratias agamus» («rendiamo grazie»). Attualmente invece anche per la presenza di tre nuovi formulari, la partecipazione dell’assemblea è riconosciuta negli interventi (quattro in totale) e nel suo ruolo, ossia nel significato nuovo conferito alla presenza, nel “noi” ecclesiale. Con la Preghiera eucaristica siamo nel cuore pulsante della celebrazione. Lungi dall’essere sufficientemente compresa – è ancora, per taluni versi, incapace di trasformare il contenuto e il linguaggio della nostra catechesi –, la Preghiera eucaristica è, come si legge nell’introduzione generale del Messale, il «momento centrale e culminante dell’intera anafora, la preghiera di azione di grazie e di santificazione. Il sacerdote invita il popolo ad alzare il cuore verso il Signore nell’azione di grazie, lo associa a sé nella solenne preghiera che egli a nome di tutta la comunità rivolge a Dio Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Il significato di questa preghiera è che tutta l’assemblea dei fedeli si unisce con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e di offrire il sacrificio». Adorazione eucaristica. Infine un problema, sul quale anche diversi padri sinodali si sono confrontati, è quello che concerne il culto eucaristico al di fuori della Messa, popolarmente detto “adorazione eucaristica”. Occorre dire che è una prassi propria della Chiesa cattolica occidentale, sconosciuta alla Chiesa d’Oriente, avversata dalla Riforma protestante. La sua origine risale alla fine del secolo XII che culmina con la festa del Corpus Domini istituita nel 1264. Dopo secoli di cammino parallelo alla celebrazione con periodi di influsso negativo sulla medesima, con il documento del 1967 Eucharisticum mysterium, pubblicato dal Consiglio della riforma e dalla Congregazione dei riti, si è proceduto a un autentico rinnovamento nel linguaggio, nel fondamento, nella sua peculiarità, nell’ordinamento e nelle modalità pratiche. La discussione sinodale non ci pare abbia proposto novità particolari, limitandosi ad auspicare l’accoglienza, da parte della comunità, delle disposizioni contenute nel nuovo Rito della Comunione e del culto eucaristico fuori dalla Messa del 1973, che, al n. 88, richiama «i fedeli quando venerano Cristo presente nel Sacramento» a ricordare «che questa presenza deriva dal sacrificio e tende alla comunione sacramentale e spirituale». (Rinaldo Falsini)
“Presbyterorum Ordinis”: a 40 anni dal Decreto Conciliare «I sacerdoti devono sacrificarsi per la gloria di Dio e la salvezza dei fedeli», dice Benedetto XVI nel salutare i partecipanti al Convegno sul tema “In mezzo agli uomini come Pastori e fratelli” (6-7 dicembre), promosso dalla Congregazione per il Clero, unitamente alla Pontificia Università Lateranense (PUL), in occasione del quarantesimo anniversario del Decreto “Presbyterorum ordinis”, pubblicato da Papa Paolo VI (vedi foto) il 7 dicembre del 1965. Oltre alle parole del Papa e del Rettore della PUL Mons. Rino Fisichella, proponiamo qui anche alcuni concetti circa il sacerdozio “ordinato”, in risposta alla mai sopita “quaestio” sull’ordinazione sacerdotale delle donne. Il compito dei sacerdoti è quello di donare la propria vita per la promozione della gloria di Dio e la salvezza dei fedeli, ha detto questo mercoledì Benedetto XVI. Sono state queste le parole del Papa nel salutare al termine dell’Udienza generale del mercoledì, i partecipanti al Convegno. «Cari fratelli, questo Documento conciliare ha segnato una tappa di fondamentale importanza nella vita della Chiesa per quanto concerne la riflessione sulla natura e sulle caratteristiche del sacerdozio ministeriale, che configura i presbiteri a Gesù Cristo, capo e pastore del suo popolo”, ha detto il Papa. “A sua immagine e al suo servizio i sacerdoti devono donare la loro vita per la gloria di Dio e la salvezza delle anime”, ha poi aggiunto, salutando fra i presenti il Cardinale Darìo Castrillòn Hoyos, Prefetto della Congregazione per il Clero. Il Vescovo Mons. Rino Fisichella, Rettore della PUL (vedi foto), in una intervista rilasciata alla “Radio Vaticana”, ha raccontato brevemente come si è svolto il Convegno, affermando che “è emersa la grande attenzione, ancora una volta, nei confronti dei nostri sacerdoti, dovunque essi siano, la loro grande generosità nel servire la Chiesa e la loro comunione di vita con il Signore”. “Uno degli aspetti emergenti è stato quello di collocare il sacerdote dinanzi alle nuove sfide che sono determinate dalla cultura”, ha detto poi. Monsignor Fisichella ha quindi spiegato che fra i vari argomenti trattati “non è stato direttamente toccato il tema della crisi delle vocazioni, perché la crisi delle vocazioni si fa sentire in alcuni Paesi, mentre in tanti altri Paesi abbiamo invece non una crisi, ma abbiamo un accrescimento consistente delle vocazioni”. “Quando si parla del sacerdote dobbiamo parlare del sacerdote nella Chiesa. La Chiesa è universale, la Chiesa è sparsa in tutto il mondo. Deve crescere, come emerge anche dal nostro Convegno”, ha sottolineato. Quello che si è osservato, inoltre, è che si fa sempre più pressante “l’esigenza di una solidarietà profonda tra le diverse Chiese, perché laddove i sacerdoti sono molti possono adesso diventare loro stessi strumento di servizio per quelle Chiese che un tempo hanno loro offerto grandi numeri di sacerdoti e anche di santi sacerdoti”, ha così concluso. Sacerdozio dei fedeli e sacerdozio del ministero ordinato. Dopo il concilio Vaticano II, per interpretare i diversi aspetti della missione della chiesa e dei soggetti che ne sono i protagonisti, è invalso l’uso di utilizzare la triade «profezia, regalità, sacerdozio». Ora, bisogna fare attenzione al fatto che la categoria del sacerdozio, in realtà, non sta accanto alle altre due, ma le interpreta includendole nella prospettiva di fondo di una vita cristiana tutta sacerdotale. È vero che parlando di sacerdozio spontaneamente ci si riferisce alle funzioni proprie della liturgia e delle celebrazioni sacramentali, ma questo riferimento non è esclusivo. Il cristiano esercita il suo sacerdozio prima di tutto professando e comunicando la fede poi operando nella vita, con fede, nell’amore di Dio e del prossimo e raccogliendo alla fine tutto questo patrimonio di grazia per offrirlo a Dio, in unione a Cristo, nella celebrazione eucaristica. Questa a sua volta, è la sorgente dell’energia spirituale che gli permetterà di vivere il suo sacerdozio ogni giorno nella sua comune esistenza mondana. Se c’è allora una differenza fra il sacerdozio dei ministri ordinati e quello degli altri fedeli, è su questo piano dell’azione quotidiana che ne va cercata la prima ragione. Non può essere solo il ruolo, indubbiamente preminente e vistoso, che i ministri ordinati svolgono nelle celebrazioni liturgiche a fornirci l’unica o la principale ragione della specificità del loro compito sacerdotale. Per la fede cattolica non è pensabile che una comunità cebri l’eucaristia se non con il suo vescovo o il suo prete, al quale spetta spezzare il pane e porgerlo con il calice ai partecipanti, ripetendo le parole di Cristo. Nella liturgia eucaristica, che è una rappresentazione della cena, è necessario che uno faccia la parte del Signore: ora, in una corretta economia sacramentale, costui non sarà né chi è più bravo a recitare la parte, né chi per santità di vita può apparire più somigliante a Gesù, né il più anziano, né uno eletto di volta in volta dalla comunità, ma colui che da un sacramento è stato deputato ad essere il pastore della comunità stessa. Ora il sacramento dell’ordine non è pura deputazione alla presidenza del culto: secondo Lumen Gentium 21: «la consacrazione episcopale conferisce pure, con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare». Anzi, cercando di scoprire la logica interna che lega fra di loro i diversi uffici, sembra di poter dire che il compito della santificazione, esercitato nella celebrazione dei sacramenti, ha la sua radice proprio in quello di predicare, cioè di portare la parola di Dio come atto fondante della vita della chiesa. È interessante osservare come Ignazio di Antiochia, il primo testimone dell’attribuzione esclusiva della celebrazione eucaristica al vescovo, motiva il rigore di questa regola con il fatto che solo il vescovo ha il carisma di garantire alla comunità l’unicità, nella fedeltà alla predicazione apostolica. Il particolare sacerdozio — diciamo così — liturgico dei pastori della chiesa è quindi, in un certo senso, l’effetto piuttosto che la causa del loro particolare sacerdozio della predicazione e della guida pastorale della comunità. Se quindi il vescovo e il prete hanno un sacerdozio particolare, questo non riporta il sacerdozio cristiano ad una concezione sacrale, giocata sull’antica idea dell’inaccessibilità del sacro. Essi soli potranno presiedere l’eucaristia, perché il sacramento dell’ordine li ha resi portatori, nella successione apostolica, del carisma che garantisce alla chiesa continuità della paràdosis della fede e quindi la sua autenticità e la sua unità: l’eucaristia infatti è culmine e sorgente della vita e dell’unita della chiesa. Di fronte alla tentazione di considerare i ministri ordinati dei puri funzionari dell’organizzazione ecclesiastica, il Vaticano II, ribadendo la dottrina tradizionale, sostiene, anche se per transennam, che il loro sacerdozio è diverso «essentia et non gradu tantum» dal sacerdozio degli altri fedeli (Lumen Gentium, 10). Il sacerdozio comune infatti costituisce un carattere essenziale della chiesa, però nessuna delle forme particolari in cui esso viene esercitato da questo o da quello, sulla base delle diverse vocazioni e dei diversi carismi, è in se stessa essenziale alla costituzione della chiesa stessa. Il sacerdozio dei ministri ordinati invece lo è. Essendo questo ministero portatore del carisma apostolico e garante della tradizione apostolica, senza di esso la chiesa non si costituisce nella sua forma perfetta, per cui gli altri ministeri sono tutti utili e preziosi, ma questo solo ha un carattere costitutivo. Ne deriva, infatti, nella prassi, che mentre ogni cristiano ha un diritto nativo ad esercitare nella chiesa il suo carisma, nessuno può avanzare una sorta di diritto soggettivo [o di parità tra i sessi] ad essere diacono, prete o vescovo. L’esserlo deriva dal sacramento e il sacramento viene amministrato dall’autorità pastorale, sulla base dei bisogni della chiesa e del discernimento che i responsabili esercitano nella scelta dei futuri ministri. In questo ordine di considerazioni, negli ultimi decenni molti hanno contestato il rifiuto, sempre fino ad ora avanzato dalla gerarchia cattolica, all’ordinazione delle donne. Ormai tutte le chiese protestanti ed anche la chiesa anglicana hanno abbandonato questo divieto, mentre la chiesa ortodossa e quella cattolica vi si sono attestate con fermezza. Fra le varie argomentazioni che vengono addotte, una sola viene avanzata come determinante: la dichiarazione Inter insigniores della Congregazione per la Dottrina della fede del 1976 afferma che «la chiesa... non si considera autorizzata» a modificare la tradizione, perché ritiene solo così di potersi conservare fedele «all’esempio del suo Signore» (Enchiridion Vaticanum 5, 2114). È convinzione ed insegnamento del magistero della chiesa cattolica che la tradizione, costante nella storia del cristianesimo, di ordinare solo uomini esprime la stessa volontà del Signore. Il NT infatti ci attesta l’assunzione da parte di Gesù di soli uomini nel gruppo degli apostoli e l’atteggiamento della tradizione non sarebbe altro che l’espressione di un adeguamento della fede della chiesa alla volontà di Cristo. Nella Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 1994 Giovanni Paolo II lo afferma in modo categorico: «Dichiaro che la chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della chiesa» (Enchiridion Vaticanum 14, 1348). (Cfr. Severino Dianich, Sacerdozio, in Dizionario di Teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2002).
Padre Harvey evidenzia i punti di forza della nuova Istruzione “Ottima perché non ha la pretesa di dare risposta ad ogni questione”, afferma il religioso, grande studioso, ed esperto nel campo dell’omosessualità. “La nuova Istruzione del Vaticano sui criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali è il chiarimento di cui la Chiesa aveva bisogno”. Padre John Harvey, oblato di San Francesco di Sales, è Direttore di Courage International, un’organizzazione dedita al sostegno degli uomini e delle donne con tendenze omosessuali che desiderano vivere castamente secondo gli insegnamenti della Chiesa. Di seguito pubblichiamo le opinioni che il religioso ha voluto condividere con ZENIT su questo nuovo documento. Qual è la sua impressione su questo nuovo documento del Vaticano relativo alle norme per l’accesso ai Seminari delle persone con tendenze omosessuali? Mi sembra ottimo perché non ha la pretesa di dare risposta ad ogni questione; lo dice espressamente sin dall’inizio. Mi sembra che sia apprezzabile. L’intenzione è semplicemente quella di porre in chiaro alcune norme per i Vescovi, i Rettori e le persone che lavorano nei Seminari. Mi sembra saggio lasciare alla responsabilità dei Vescovi e dei Rettori la necessità di approfondire questo argomento e prendere le opportune decisioni in merito ai singoli seminaristi. Credo che sia meglio così, piuttosto che dare risposte ad ogni singola questione. Il documento è molto chiaro nel definire le due categorie incompatibili: coloro che praticano l’omosessualità o presentano tendenze omosessuali profondamente radicate, e coloro che sostengono la cosiddetta “cultura gay”, l’attivismo gay, il “gay è bello”. Le persone con questa impostazione non dovrebbero trovarsi in Seminario. Il documento precisa giustamente che occorre distinguere tra persone con tendenze omosessuali profondamente radicate e persone per le quali tali tendenze sono solo l’espressione di un problema transitorio. Questo è giusto poiché talune tendenze omosessuali potrebbero essere solo il sintomo di un’adolescenza ancora non compiuta. C’è qualcosa del documento che l’ha sorpresa? O era come se l’aspettava? Non ero sicuro di cosa sarebbe stato pubblicato. Non avevo un’idea precisa di cosa aspettarmi, speravo soltanto che non fosse una generica dichiarazione universale del tipo: “chiunque presenti attrazioni omosessuali è automaticamente escluso”. Fortunatamente non dice questo e consente di fare diversi distinguo. Mi ha sorpreso questa moderazione del documento che non si estende ad ogni situazione e che lascia molto alla discrezione dei teologi e degli psicologi. Ne sono rimasto molto colpito in maniera piacevole. Qual è il significato di questa Istruzione del Vaticano e della politica di chiarimento della Chiesa sull’omosessualità e i Seminari? Il significato è che si tratta di un documento per la Chiesa universale e non solo per la Chiesa negli Stati Uniti. Per anni, in seno alla Chiesa abbiamo avuto persone che promuovevano l’agenda gay; organizzazioni come Dignity, New Age Ministry, nonché sacerdoti gay e consacrate lesbiche. È ora che la Chiesa dica chiaramente che occorre fare attenzione ai seminaristi che presentano tendenze omosessuali. Ed essi, a loro volta, non dovranno nasconderle fino al punto di dire il falso. È anche importante che il documento sottolinei che una persona con tendenze omosessuali non è automaticamente esclusa dal Seminario. Molti adolescenti affermano di avere attrazione per ragazzi dello stesso sesso. Questi potranno accedere ai Seminari se riusciranno a superare questo problema. C’è una netta differenza tra attrazioni omosessuali transitorie e tendenze omosessuali permanenti e deleterie. Siamo felici di aver ricevuto un documento che può trovare piena applicazione pastorale, ed io mi adopererò per questo. Nell’ambito del discernimento vocazionale al sacerdozio o alla vita religiosa, ci sono dei modi per identificare e distinguere le attrazioni omosessuali, le tendenze omosessuali profondamente radicate e le carenze nella maturità affettiva? Non è sempre facile identificare una tendenza omosessuale. La persona potrebbe nasconderla ed essere l’unica a saperlo. Ma gli psicologi e i teologi sono in grado di identificare le eventuali attrazioni omosessuali parlando con la persona in modo prolungato e approfondito. I seminari devono avvalersi di buoni psichiatri cattolici per lavorare su questi aspetti, al fine di valutare bene se una persona presenti tendenze omosessuali transitorie o permanenti. Abbiamo bisogno di maggiori informazioni su come gestire gli adolescenti che affermano di essere omosessuali. Dobbiamo considerarli in modo serio ed insegnargli a vivere in modo casto. Questo è ciò che cerca di fare Courage International. Una persona può essere casta e continuare ad essere attratta da persone dello stesso sesso. Non pochi sono riusciti in questo intento. Se un uomo è in grado di mantenersi in castità intorno all’età di 25 anni, vi è motivo di credere che sarà capace di continuare a vivere castamente. Solo gli psichiatri saranno in grado di determinare se i seminaristi hanno tendenze omosessuali radicate; noi dovremo limitarci a dare loro ascolto su questo aspetto. Ogni seminarista con tendenze omosessuali deve rivolgersi ad uno psicologo cattolico, dandogli il permesso di poter riferire sul suo caso al Seminario. Questo è un comportamento responsabile. Maturità affettiva significa aver acquisito, nell’età adulta, la capacità di gestire le proprie emozioni; di non lasciarsi andare. È un cattivo segno se una persona adulta, omosessuale o eterosessuale, non è in grado di dominarsi. È ben noto agli psicologi che una delle maggiori difficoltà con le tendenze omosessuali è che queste possono derivare da traumi subiti nel passato e dal rapporto con genitori e coetanei. Il trauma provoca problemi emotivi nella persona. Le tendenze omosessuali emergono presto nei bambini nella forma di una dissociazione dal genitore dello stesso sesso e di una incapacità di relazionarsi con i coetanei. Questo incide sul loro rapporto con le donne e con gli uomini per tutto il resto della loro vita. Il documento lascia ai Superiori Generali la discrezionalità nel determinare se un candidato ha superato le tendenze incompatibili. Lei ritiene che questo discernimento sia affidato in buone mani? Penso proprio di sì. Ciò che un buon Rettore fa, nel trattare con una persona che ha qualsiasi tipo di problema, è di ricorrere ad un professionista esterno equilibrato che possa dare il proprio apporto. Nel caso di un seminarista con tendenze omosessuali, il Rettore dovrà permettere una valutazione da parte di uno psichiatra. Le questioni private potranno rimanere segrete, ma lo psichiatra dovrà poter riferire se si tratta di una persona idonea o non idonea a diventare sacerdote. Non si tratta di svelare i dettagli privati, ma solo di dare una valutazione. Sono sicuro che, con l’aiuto di buoni psicologi cattolici, essi saranno in buone mani. C’è una parte del documento che secondo lei potrà essere soggetta a maggiori fraintendimenti, specialmente negli Stati Uniti? Credo che più che fraintendimenti potranno sorgere difficoltà nella distinzione fra tendenze omosessuali profondamente radicate e tendenze transitorie. Credo che per approfondire bene questo punto avremo bisogno di un aiuto da parte degli psicologi. Inoltre, il documento non chiarisce il significato dell’espressione “disturbi sessuali”. A mio avviso l’espressione comprende masturbazione e pornografia, entrambi motivo sufficiente per chiedere ad un uomo eterosessuale di non entrare in Seminario. Tutti sono vincolati alla castità e i problemi di dipendenza non appartengono al Seminario. Quali sono i frutti che si aspetta da questa Istruzione? Credo che essa sarà origine di molti approfondimenti e studi relativi al lavoro nei seminari. Molte cose buone scaturiranno da questo documento. Esso non è stato pensato per essere perfetto ed esauriente. Si tratta di una dichiarazione di chiarimento indirizzata alla Chiesa.
È vero che San Pietro non ha soggiornato a Roma? È una domanda che ciclicamente riemerge… Gli argomenti che i propugnatori del “no”(imparentati col geovismo) portano a suffragio della loro tesi si possono così riassumere: Pietro era sì il “vescovo” di Roma, ma non è sicuro che a Roma egli ci sia anche stato e si sia fermato per un certo tempo. È invece sicuro che nella lettera di Paolo del 58 d.C., indirizzata ai Romani, egli menziona personalmente 29 individui, ma non saluta affatto Pietro. Omissione sconcertante se Pietro fosse stato formalmente il vescovo di Roma. Inoltre non c’era alcuna ragione per cui Pietro dovesse essere necessariamente vescovo a Roma. Non era nemmeno stato vescovo a Gerusalemme, dove, dopo la morte di Gesù, capo della Chiesa era diventato Giacomo, il fratello del Signore. C’è poi anche il fatto che il nome di Pietro non appare nei primi elenchi dei vescovi di Roma, immediatamente successivi alla sua epoca. Ireneo, per esempio, vescovo di Lione dal 178 al 200 d.C., elenca tutti i vescovi di Roma fino al dodicesimo, Eleuterio, ma, come primo vescovo, parte da tale “Lino”. Altrettanto si ritrova nella “Costituzione Apostolica” dell’anno 270, nella quale si precisa che Lino ottenne la sua nomina direttamente da Paolo… Vediamo di fare un po’ di chiarezza, ricavando le argomentazioni a difesa, dal testo di Arialdo Beni, La nostra Chiesa, Firenze: LEF, 1976, pp. 477-491. Il soggiorno di San Pietro a Roma La venuta di S. Pietro a Roma non fu mai contestata sistematicamente fino al secolo scorso. Secondo il grande inquisitore Pietro Moneta [1] i Valdesi e, nel secolo XIV, Marsilio da Padova, negavano che tale venuta potesse esser dimostrata dalla Bibbia. Anche al tempo della Riforma soltanto voci isolate, fra le quali ricordiamo particolarmente Ulrico Veleno [2] e Federico Spanheim [3], osarono attaccare la tradizione, contro la quale, nell’epoca quasi-moderna, troviamo schierata l’intera Scuola di Tubinga (Baur, Schwegler, Zeller, Straub, Lipsius, ecc...). Oggi soltanto qualche scrittore inacidito e spaesato si ostina a negare un fatto che ha ormai la saldezza del granito [4]. La maggior parte degli stessi acattolici sono ritornati all’antica tradizione [5]. Anche i Protestanti tedeschi, che pur avevano un tempo contestato accanitamente la venuta di Pietro a Roma, hanno finito per far macchina indietro. Così per esempio, Harnack [6], Lietzmann [7], Caspar [8], M. Dibelius [9], H. von Campenhausen [10], ecc. Harnack scrive testualmente: “Il martirio di S. Pietro a Roma è stato negato dai tendenziosi pregiudizi protestanti ed in seguito dai preconcetti dei critici partigiani... Non vi è studioso che attualmente esiti a riconoscere che questo fu un errore “ [11]. Il russo Basilio Bolotov dichiara che negare la venuta di Pietro a Roma equivale a rigettare ogni verità storica [12]. Cullmann, riassumendo la sua indagine sulla vita e l’attività dell’apostolo Pietro, cosi si esprime: “Se vogliamo riassumere, diremo che, durante la vita di Gesù, Pietro ha occupato tra i discepoli una posizione di preminenza; che dopo la morte di Cristo, egli ha per alcuni anni governato la Chiesa di Gerusalemme, poi è diventato capo della missione giudeo-cristiana; che in questa qualità... egli è venuto a Roma ad una data che non si può determinare, ma che non ha dovuto precedere di molto la sua fine: che egli è morto martire in questa città sotto il regno di Nerone, dopo avervi esercitato la sua attività durante un tempo assai breve “ [13]. 1. Le testimonianze La prima allusione abbastanza chiara al soggiorno romano di Pietro si ha nella Scrittura. Lo stesso S. Pietro, scrivendo ai cristiani dell’Asia Minore, termina la sua lettera con queste parole: “Vi saluta [la Chiesa] che è coadunata in Babilonia, e Marco il mio figliuolo “ [14]. Ma che cos’è questa “Babilonia? “ La parola, di per sé, potrebbe essere presa in senso letterale, come anche in senso metaforico. Praticamente, non possiamo prenderla che in quest’ultimo senso. Di città che portassero infatti quel nome, allora, non ce n’erano che due: Babilonia di Mesopotamia e Babilonia d’Egitto. Se non che, la prima, un tempo celeberrima, era stata, allora, abbandonata dai Giudei e, secondo la descrizione di Plinio e di Strabone, non era più che un “ grande deserto “. Comunque, non vi si trovavano ancora i cristiani. Costoro, al dire del Talmud, vi faranno la loro comparsa solo al III sec. Nel saluto della I Petri non si può dunque, trattare di questa Babilonia di Mesopotamia. La seconda città di tal nome, l’attuale Cairo, era, in quell’epoca, un piccolo forte militare, quasi sconosciuto. A parte che da un “castrum “ militare non si usa datare le lettere, è sommamente improbabile che il Principe degli Apostoli si trovasse a dirigere una minuscola comunità cristiana, quale poteva esser quella di una località cosi ristretta. Del resto, siccome la Chiesa siriaca formerà quasi una cosa sola con la Chiesa mesopotamica; siccome, poi, anche l’Egitto ha avuto più di un santo Padre che ha scritto di Pietro, perché, nelle rispettive tradizioni di queste chiese, non fare mai neanche un accenno al “ salutat vos “ dell’Apostolo, al suo soggiorno babilonese, se ciò le avesse riguardate? “Babilonia “, dunque, non può avere che un senso metaforico. Come già nell’Apocalisse di S. Giovanni (c. 17-18) e nei Libri Sibillini, il nome di “Babilonia “ designa la Roma pagana. Così l’interpretarono, oltretutto, gli scrittori antichi, quali Papia, Clemente Alessandrino, Eusebio di Cesarea, S. Girolamo; in tal senso lo prendono tutti gli esegeti cattolici moderni insieme anche a molti protestanti. Lo stesso Renan asserisce: “In questo passo Babilonia designa evidentemente Roma; è in tal modo che si chiama, nelle comunità primitive, la capitale dell’impero “ [15]. Se nella Scrittura “Babilonia “ è il tipo della città depravata. effettivamente Pietro - che era tanto amante, d’altronde, del linguaggio metaforico (cfr. 2,2; 2,4ss; 3,18ss; 5,8ss) - non poteva scegliere nome più adatto per indicare quella capitale, nella quale - al dire di Tacito - “confluiva da ogni parte e veniva celebrato tutto ciò che sa d’atroce e di vergognoso “ [16]. Non va dimenticato, infine, che l’Apostolo proprio in quel tempo era probabilmente braccato dalla polizia imperiale di Nerone. Per cui, onde evitare il pericolo di essere scoperto, nulla di strano che sia ricorso all’uso di un nome simbolico. “Babilonia “ è, dunque, sinonimo di Roma. Pietro ha scritto da Roma: Pietro è stato a Roma. Un’altra chiara allusione al soggiorno romano di Pietro si trova nella celebre Lettera ai Corinti di Clemente. Dopo aver parlato (c. 5) delle sofferenze e del martirio delle “più grandi e giuste colonne “, “i buoni apostoli” Pietro e Paolo, soggiunge: “A questi uomini che vissero santamente si unì una grande moltitudine di oltraggi e tormenti, divennero esempio bellissimo in mezzo a noi“ [17]. La “grande moltitudine “ del testo è sicuramente quella stessa di cui parla Tacito, Annales 15,44, multitudo ingens, e cioè la moltitudine delle vittime sacrificate a Roma durante la persecuzione neroniana. Ora proprio a questa moltitudine, che è stata “di bellissimo esempio fra noi “, e cioè a Roma [18], vengono, da Clemente, associate anche le due colonne Pietro e Paolo. Dunque - qualora non si voglia arbitrariamente supporre una associazione insensata di fatti senza nesso fra di loro - anche i due apostoli apparterranno allo stesso martirologio romano. Pietro e Paolo - questa la testimonianza di Clemente - hanno subito il martirio a Roma, sotto Nerone. Verso il 107 Ignazio d’Antiochia, scrivendo ai cristiani di Roma, dopo averli scongiurati a non voler impedire che sia “macinato dai denti delle belve “, menziona espressamente Pietro e Paolo: “Io non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano Apostoli, io sono un condannato; essi erano liberi, io, finora, sono uno schiavo “ [19]. Parole, queste, che non avrebbero un fondamento, né un significato, se non supponessero un governo di Pietro nell’Urbe. Nessuna tradizione, d’altronde, ci parla di un comando esercitato per lettera. Se Pietro e Paolo hanno comandato ai Romani, devono averlo fatto di persona: Pietro e Paolo sono stati a Roma. Dionigi, Vescovo di Corinto, in una lettera al Papa Sotère, del 166-170 circa, attesta esplicitamente: “Tutt’e due (Pietro e Paolo), venendo nella nostra città di Corinto, ci ammaestrarono nella dottrina evangelica; indi se ne andarono in Italia ed, avendo istruiti allo stesso modo voi (Romani), contemporaneamente subirono il martirio “ [20]. Secondo Eusebio di Cesarea, tanto Clemente Alessandrino come Papia (+ 150), vescovo di Gerapoli, testimoniano espressamente che Pietro predicò a Roma la catechesi apostolica che poi fu messa per iscritto da S. Marco “suo interprete “ dietro preghiera dei cristiani stessi di quella comunità (Stor. Eccles. 3, 39, 15; 6, 14, 7. MG. 20, 299; 551). Ireneo di Lione (+ 202) parla, a più riprese, di Pietro e del suo apostolato nell’Urbe. “Matteo - attesta nell’Adversus Haereses - ha scritto per gli Ebrei e nella loro lingua, al tempo in cui Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e vi fondavano la Chiesa “. E un po’ più avanti, dopo aver affermato che “...la massima ed antichissima Chiesa, da tutti conosciuta, [è stata] fondata a Roma dai due gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo “ [21], riporta un catalogo dei Papi, che scende fino ad Eleuterio, con queste precise parole: “avendo fondato e costruito la Chiesa (a Roma), i beati apostoli affidarono la funzione dell’episcopato a Lino, ecc.... “ [22]. Secondo Tertulliano, Pietro venne a Roma fatto simile al Signore nel martirio “ (De Praescriptione haeret. 36. ML. 2, c. 9) e battezzò nel Tevere (De Baptism. 4. ML. 1, 1203). Da Eusebio ci viene tramandato anche un frammento di un opuscolo composto dal presbitero Gaio contro il montanista Proclo sotto Papa Zeffirino (200-217), in cui si accenna ai “sepolcri “ gloriosi di Pietro e di Paolo in questi termini: “ Io posso mostrarti i trofei ( = sepolcri) degli Apostoli. Se vorrai recarti nel Vaticano o sulla via Ostiense, troverai i trofei di questi due, che fondarono questa Chiesa “ [23]. Origene (+ 250), nel suo Commentario alla Genesi, scrive: “Pietro sembra aver predicato nel Ponto, nella Galazia, nella Bitinia, nella Cappadocia, nell’Asia, ai Giudei della Dispersione. Finalmente, venuto a Roma, vi fu crocifisso con la testa all’ingiù “(vedi foto) [24]. Nel secolo IV la convinzione che S. Pietro fosse il fondatore della Chiesa di Roma era universale e ormai la documentazione è ricchissima. 2. Una luminosa conferma alle testimonianze storiche ci viene fornita dall’Archeologia a) Un’iscrizione, detta della “platonia” (corruzione forse di “platoma“ = lastra di marmo), posta, da quell’appassionato cultore delle antiche memorie cristiane che fu Papa Damaso (+ 384), nelle Catacombe di S. Sebastiano, al terzo miglio della via Appia, suona così: “Tu che domandi sul nome di Pietro e di Paolo, sappi: qui un tempo hanno abitato i due santi. L’Oriente mandò i discepoli, lo ammettiamo; ma a causa del loro martirio sanguinoso, poiché essi sono saliti dietro a Cristo attraverso le stelle alla sede celeste e sono arrivati al regno dei beati, Roma ha ottenuto con maggior diritto di considerarli come suoi cittadini. Questo vuol cantare Damaso a vostra gloria, o nuove stelle “ [25]. La frase “qui un tempo hanno abitato i due santi “ ci lascia perplessi: si deve pensare ad una dimora vera e propria degli Apostoli, o ad una loro sepoltura? Non c’è nessun argomento che favorisca la prima ipotesi. Quanto alla seconda (sepoltura), il Presbitero Romano Gaio, come abbiamo sentito sopra, ci fa sapere che verso il 200 le ossa degli Apostoli si trovavano al Vaticano e sulla via Ostiense. Ora, questa testimonianza non sarebbe per caso in contraddizione con la frase damasiana? Non sembra. Secondo una teoria, assai condivisa dagli archeologi, le cose sarebbero andate cosi: mentre Paolo era stato seppellito sulla via Ostiense, Pietro inizialmente venne seppellito al Vaticano, dove si trovava ancora al tempo del prete Gaio. Nel 258 (anno terribile della persecuzione di Valeriano, nel quale, fra l’altro vennero sequestrati i cimiteri) i cristiani - sia forse per salvarle dalla profanazione, sia per aver la possibilità di venerarle più facilmente - trasportarono le reliquie del loro primo Vescovo e di S. Paolo lontano dalla città, nelle Catacombe di S. Sebastiano. Fintanto che, terminata la persecuzione, dopo il 260, non le ricollocarono di nuovo nel loro sepolcro originario [26]. b) Che i corpi dei due apostoli abbiano, per un certo periodo, riposato nelle catacombe di S. Sebastiano, lo provano evidentemente alcune importantissime scoperte fatte tra il 1915-1916 sotto la parte anteriore di quella Basilica. In una stanza, chiamata dagli archeologi “Triclia“ ( = sala da pranzo), è stata trovata infatti un’intera parete piena zeppa di graffiti, anteriori al periodo costantiniano, nei quali ritornano costantemente i nomi di Pietro e Paolo con più di cento invocazioni d’ogni specie in greco e in latino, o anche in latino con caratteri greci. “Paolo e Pietro, pregate per Vittore! “; “Paolo, Pietro, pregate per Erato!“; “Pietro e Paolo, venite in aiuto a Primo peccatore!“; “Pietro e Paolo, ricordatevi di Antonio Basso!“; “Pietro e Paolo, proteggete i vostri servi!“. Parecchie iscrizioni accennano anche al refrigerium, una specie di banchetto funebre, d’origine pagana, che si celebrava in onore dei defunti. “Io, Tomio Celio, ho tenuto il refrigerium per Pietro e per Paolo“; “Dalmazio ha celebrato il refrigerium“; “Io ho fatto un refrigerium presso Pietro e Paolo“ [27]. c) Da antiche memorie, come per esempio il Liber Pontificalis [28], sapevamo che Costantino verso il 315 aveva eretto una grandiosa Basilica sulla tomba originaria e... definitiva di S. Pietro al Vaticano. La monumentale Chiesa, a cinque navate, resistette fino agli inizi del 1500, quando Giulio II decise di costruirne una più grande, più sontuosa, quella attuale, sormontata dalla cupola di Michelangelo. Essendo stati scoperti, in occasione della sistemazione della tomba di Pio XI, ambienti prima sconosciuti, Pio XII, il 28 giugno 1939, dette ordine di iniziare degli scavi sistematici sotto la Basilica di S. Pietro. Le diligentissime ricerche hanno portato alla più luminosa conferma dei dati offerti dall’antichissima tradizione [29]. E cioè: sotto il livello dell’attuale basilica, alla profondità di parecchi metri, furono ritrovati i resti dell’antica basilica costantiniana, e al di sotto di essa venne alla luce una vasta zona cimiteriale pagana con elementi cristiani, anteriore all’imperatore Costantino (morto nel 337). La zona era attraversata, nella direzione dell’asse centrale della basilica, da una via romana, fiancheggiata da ricchi mausolei gentilizi del secondo e terzo secolo dopo Cristo. La via andava a sfociare in una specie di piazzola circondata da varie tombe a inumazione della fine del primo secolo, scavate nella nuda terra, proprio nel punto che, sul piano dell’attuale basilica, corrisponde all’altare della “Confessione “. La disposizione e l’antichità di quelle tombe erano tali che i quattro archeologi preposti agli scavi, pensarono di essere ormai vicini alla tomba del primo Papa. E infatti si presentò loro, in corrispondenza diretta con l’attuale altare papale, una costruzione quadrangolare, ornata di marmi rari e di porfido, dell’età costantiniana. Aperta una breccia, gli archeologi vi scoprirono l’antico trofeo di Gaio. Era una specie di edicola funeraria, appoggiata a un contemporaneo muro (il muro rosso, chiamato cosi dal colore dell’intonaco) e costituita da due piccole nicchie sovrapposte, divise da una mensa di travertino sorretta da due colonnine di marmo. Poté essere fissata anche l’epoca della costruzione del muro e dell’edicola: circa l’anno 150. Un muro, aggiunto successivamente poco sopra l’edicola (il così detto muro g), risultò coperto da una vera selva di graffiti, ossia di iscrizioni incise sull’intonaco da pii visitatori. La professoressa Guarducci, dopo due anni di studio, riuscì a decifrarli, ricavandone una serie di acclamazioni e invocazioni cristiane di vittoria e di pace per i defunti. Varie volte il nome di Pietro vi appariva unito al nome di Cristo e persino di Maria! Spesso il nome di Pietro era scritto solo con le due iniziali maiuscole PE; oppure la E era attaccata alla base della P e ne risultava un segno a forma di chiave. Allusione evidente alle chiavi di San Pietro. I graffiti risalgono alla fine del terzo secolo e agli inizi del quarto. Sotto l’edicola furono trovati i resti di una tomba terragna, stranamente vuota e quasi distrutta, mentre le tombe vicine contenevano ancora delle ossa. Alcuni resti di ossa umane furono ritrovati addosso al muro rosso, e altri nella zona circonvicina. Non poteva più esserci alcun dubbio: quella fossa, difesa dall’edicola e inglobata da Costantino entro la sua costruzione ornata di marmi preziosi e di porfido, era la tomba umilissima del primo Papa! Pio XII, nel messaggio natalizio del 1950, ne diede il festoso annunzio: “è stata veramente ritrovata la tomba di San Pietro? A tale domanda la conclusione finale dei lavori e degli studi risponde con un chiarissimo sì. La tomba del Principe degli Apostoli è stata ritrovata“. E il Papa proseguiva: “Una seconda questione, subordinata alla prima, riguarda le reliquie del Santo. Sono state esse rinvenute?“. La risposta non poté essere altrettanto positiva: furono sì ritrovati resti di ossa umane al margine del sepolcro, ma come si sarebbe potuto garantirne la sicura appartenenza a San Pietro? Restava però intatta la realtà storica della tomba, e il Papa poteva concludere: “La gigantesca cupola s’inarca esattamente sul sepolcro del primo Vescovo, di Roma, del primo Papa: sepolcro, in origine, umilissimo, ma sul quale la venerazione dei secoli posteriori, con meravigliosa successione di opere, eresse il massimo tempio della Cristianità“. Rimaneva dunque aperta la seconda questione, riguardante le reliquie dell’Apostolo. Erano state veramente ritrovate? Ed ecco la seconda pagina di questa storia meravigliosa. La professoressa Guarducci nel 1953 iniziò il delicato lavoro di decifrazione dei graffiti del muro g. Notò subito, incavato nello spessore del muro, un piccolo vano segreto, foderato di lastrine di marmo, ma scardinato e inspiegabilmente vuoto. Venne a sapere dall’operaio “sampietrino” che aveva eseguito i lavori che, durante gli scavi, mons. Ludovico Kaas, segretario economo della Fabbrica di San Pietro, senza dir nulla ai quattro archeologi, aveva fatto aprire il ripostiglio e ne aveva asportato il contenuto. Aveva trovato ossa umane, pezzettini di stoffa di porpora ricoperti di fili d’oro purissimo, frammenti di marmo e di intonaco rosso, ossicini di animali... Fece rinchiudere tutto in una cassettina di legno e vi aggiunse un suo biglietto con le indicazioni essenziali, poi depose la cassetta in un ambiente della medesima zona di esplorazioni. Quella cassetta, in seguito alla morte di mons. Kaas, era stata dimenticata; nel 1953, l’operaio “sampietrino” andò a prelevarla e la consegnò alla professoressa Guarducci, la quale impegnata a decifrare i suoi graffiti, si limitò solo a osservarne il contenuto, senza annettervi eccessiva importanza. Nel 1956, per ordine di Pio XII, vennero affidati al prof. Venerando Correnti, direttore dell’Istituto di Antropologia all’Università di Palermo, i due gruppi di ossa che erano state ritrovate attorno alla tomba di San Pietro, perché ne facesse un accurato esame. Gli fu pure consegnata, a parte, la famosa cassetta. L’esame, minuziosissimo, si protrasse per vari anni. Alla prova dei fatti, le ossa del primo gruppo risultarono resti di tre individui, di cui uno quasi certamente di sesso femminile; mentre quelle del secondo gruppo appartenevano addirittura a quattro individui diversi. Non si poteva quindi individuarvi i resti di San Pietro. Nella primavera del 1964 venne ultimato l’esame delle ossa contenute nella cassetta. Il responso risultò sorprendente: esse costituivano circa la metà di uno scheletro (rappresentato in quasi tutte le sue parti, compreso il cranio), e appartenevano ad un unico individuo di sesso maschile, di corporatura robusta, di età fra i sessanta e i settant’anni, di altezza tra m. 1,64 e 1,65. I dati offerti dall’esame scientifico delle ossa corrispondevano in pieno alle caratteristiche di San Pietro: corporatura robusta, altezza più che normale per un palestinese di quei tempi, età avanzata: una vera rarità per un’epoca in cui, secondo i calcoli degli scienziati, la media della vita umana non superava i 25-30 anni. Quei resti erano stati rinvenuti gelosamente nascosti entro lo spessore del muro g, ricoperto di graffiti inneggianti all’Apostolo, situato proprio sulla sua primitiva fossa, che non per nulla era stata trovata semidistrutta e vuota. Aderente alle ossa, fu notata della terra che, all’esame scientifico, risultò la stessa della fossa sottostante. Dunque quelle ossa, ritenute sicuramente di San Pietro, Costantino le aveva fatte estrarre dalla fossa e le aveva nascoste - all’asciutto e al sicuro - nel vano rivestito di marmo del muro g, che egli poi aveva inglobato - con il muro rosso e il trofeo di Gaio - entro il suo mausoleo ricoperto di marmi rari e di porfido. Una nuova conferma si può avere nei pezzettini di stoffa di pura porpora imperiale rivestita di fili d’oro finissimo: dunque, le ossa erano di un personaggio a cui l’imperatore non aveva trovato eccessivo rendere onori regali! I frammenti di marmo e di intonaco rosso non fanno che confermare che quelle ossa erano state asportate proprio dal misterioso ripostiglio addossato al muro rosso e scheggiato nei suoi marmi al momento della estrazione: il che del resto risultava pure dal logoro biglietto di mons. Kaas, che ne indicava la provenienza. E la presenza di ossicini di animali (bue, pecora, gallinaccio, ecc.), trovati frammisti alle ossa umane? Essa in un primo momento sorprese e sconcertò un poco, tanto più che analoga presenza riguardava pure gli altri due gruppi di ossa. Alla fine però quegli ossicini si dimostrarono anch’essi provvidenziali per una conferma definitiva: la loro presenza indicava, infatti, che il corpo di San Pietro era stato inumato in un terreno che, al tempo di Nerone, era ancora coltivato, e cioè prima di essere trasformato definitivamente in vero e proprio cimitero. Dunque, la tomba di San Pietro risale... all’epoca del suo martirio! Ma un’altra prova era destinata a porre l’ultimo suggello. Osservando bene entro il vuoto ripostiglio, la Guarducci vi aveva decifrato una brevissima iscrizione, in lingua greca, con lettere tracciate stentatamente, che tradotte in italiano suonano cosi: Pietro è qui dentro. Dunque, prima che il muro dei graffiti, col suo ripostiglio segreto e il suo prezioso contenuto, venisse incluso nel monumento costantiniano, una mano si introdusse furtiva nel piccolo vano e incise con difficoltà, sull’intonaco del muro rosso che faceva da parete, le fatidiche parole, quasi a suggellare e tramandare ai posteri il ricordo di quella traslazione memorabile: “Pietro è qui dentro “, parole che oggi costituiscono per noi come una specie di “autentica “ per le reliquie del Principe degli Apostoli, e ancor più per la sua venuta a Roma. Davanti alle stesse pietre che parlano, la verità della venuta e della morte di S. Pietro a Roma s’illumina di tanta luce, che, se al tempo di Harnack era da ciechi il rinnegarla, oggi sarebbe addirittura da pazzi. Un’obiezione, che spesso ci sentivamo ripetere dai negatori del soggiorno romano di Pietro era la seguente: Se Pietro era già stato nella capitale e vi si trovava ancora, perché S. Paolo, scrivendo nel 58 ai Romani, non gli manda neppure un saluto? perché non lo ricorda nemmeno? Veramente, il silenzio di uno, o di pochi, non può mai annullare un coro così potente di voci tutte concordi ed unanimi. Tanto meno, quando ci siano delle ragioni che lo giustifichino appieno. Prima di tutto, “se si ammette che Pietro era presente a Roma - dice il Garofalo - quando Paolo scriveva, è necessario fare un’osservazione ovvia. Quando Paolo ha inviato la sua lettera alla comunità di Roma, a chi l’ha indirizzata? Alla comunità, naturalmente; ma una lettera non si consegna ad una folla; si consegna ad una persona, la quale, in questo caso, non poteva essere che il capo della Chiesa. E allora che bisogno c’era, in una lettera mandata alla comunità, tramite il capo, di nominare il capo stesso? “ [30]. Non va dimenticato, d’altra parte, che siamo in tempi calamitosi, in cui è necessario uno spirito di somma discrezione per non arrecare danno alla Chiesa nascente. Ora, se l’Eucarestia era una cosa da nascondere, certamente non era meno da nascondere il capo della Chiesa, S. Pietro. Del resto, nell’elogio caloroso della fede dei Romani “celebrata in tutto il mondo“ (1,8), nella confessione che Paolo fa di aver come regola di non invadere il campo degli altri “per non edificare su fondamento altrui“ (15,29), nella protesta di voler venire a Roma non per insegnare, ma per consolarsi (1,11 e 12), per “saziarsi“ (15,24), ecc. ... non c’è, forse, tutta una trasparente, allusione ad un fondatore, di quella Chiesa, più importante dell’apostolato stesso dei pagani, una allusione a S. Pietro? Comunque, una risposta più radicale all’obiezione potrebbe essere anche questa: Paolo non saluta Pietro, perché costui si trovava momentaneamente assente da Roma. NOTE 1 Adversus Cath. et Wald., V, 2, p. 411 (Ed. Roma, 1743). 2 Nel 1520 pubblicò uno scritto intitolato: Tractatus quod Petrus Apostolus numquam Romae fuerit. 3 De ficta profectione Petri Apostoli in Urbem Romam, Leydae, 1679. 4 Fra i moderni negatori ricordiamo: CH. GUIGNEBERT, La Primaut& de Pierre et la venue de Pierre à Roma, Parigi 1909; N. KÉPHALAS, Mel&t& istorik& peri ait&&n to& sk&smatos, Atene, 1911, pp. 12-40; F. DI SILVESTRI FALCONIERI, L’Apostolo S. Pietro è mai stato in Roma?, 1925; J. TURMEL, Histoires des dogmes, III, La Papaut&, Paris, 1933, p. 105 sg.; K. HEUSSI, War Petrus in Rom, Gotha 1937; M. GOGUEL, Les premiers temps de l’Église, pp. 220-225, è... fra color che son sospesi! Dopo aver tentato di negare il valore alle testimonianze e ai fatti generalmente addotti per provare la venuta di S. Pietro a Roma, così conclude: “Se l’argomento decisivo in favore della Tradizione fa difetto, non si può avanzare alcun fatto o alcun testo che stabilisca che Pietro non è venuto a Roma e non vi ha subito il martirio. Una critica prudente deve confessare qui la sua impotenza. Una cosa solamente sembra certa, e cioè, che se Pietro è venuto a Roma e vi è morto martire, egli non c’è venuto che tardi “. Per una storia dettagliata della questione, vedi O. CULLMANN, Saint Pierre, Neuch&tel 1962, pp. 62-67. 5 J. MARX, Manuale di Storia Ecclesiastica, I, Firenze, 1913, p. 38, cita - fra i protestanti che ammettono il fatto storico - Neander, Guericke, Hase, Leipnitz, Hilgenfeld, Hundhausen, Lightfoot, Gieseler. A costoro potremmo aggiungere, fra i viventi: O. Cullman, E. Molland, A. Fridrichsen, G. Kr&ger, C. T. Craig, C. King, I. Munck. 6 Chronologie der altkirchlichen Literatur, I, Berlino, 1897, p. 244. 7 Petrus und Paulus in Rom, II ed., Berlino 1927, specialmente c. 13 e 14; Petrus r&mischer M&rtyrer, Berlin, 1936, p. 13. 8 Die <este r&mische B&schofsliste, Weimar, 1926. 9 Rom und die Christen im 1. Jahrundert, 1942. 10 Verk&ndigung und Forschung, 1946-47, p. 230. 11 O. c., p. 244. 12 Lezioni di Storia dell’antica Chiesa (in russo), t. III, Pietrogrado 1913, p. 279. 13 O. c. p. 171. 14 1 Petri, 5, 13: “Salutat vos Ecclesia, quae est in Babylone co&lecta, et Marcus filius meus “. 15 L’Ant&christ, p. 122. O. CULLMANN, op. cit., p. 72, ritiene la nostra spiegazione “di gran lunga la più verosimile “. 16 Annali, 15, 44. 17 1 Clementis, 6, KIRCH, 8-9. 18 en &m&n, ovverosia fra coloro in mezzo ai quali si trova appunto Clemente. Siccome costui è romano e scrive la sua lettera da Roma, en &m&n è evidente sinonimo della comunità romana. 19 Ad Rom. 4, 3. 20 In EUSEBIO, Stor. Eccl. 2, 25, 8. MG. 20, 210. 21 Ivi, 3, 3, 2. MG. 7, 848. 22 Ivi, 3, 3, 2. MG. 7, 849. 23 Stor. Eccles. 2, 25, 5-7. MG. 20, 207. 24 In EUSEBI0, Stor. Eccles. 3, 1. MG. 20, 215. 25 L’iscrizione, di cui è andato perso l’originale, ci è stata trasmessa dai manoscritti e da una copia incompleta del III secolo. La puoi trovare, fra gli altri, in ML. 13, 382.
26 Anche antichi itinerari ci fanno credere che le tombe
degli Apostoli furono per qualche tempo Ad Catacumbas. 28 Cfr. O. MARUCCHI, op. cit., pp. 87-97 e 175-198; L. HERTLING-E. KIRSCHBAUM, op. cit., pp. 88-90. Furono proprio queste scoperte che decisero l’acattolico Hans Lietzmann a sostenere a spada tratta la venuta dell’Apostolo a Roma, nella seconda ediz. del suo ormai famoso vol.: Petrus und Paulus in Rom, Berlino 1927, spec. pp. 226-238. Cfr. anche F. TOLOTTI, Ricerche intorno alla Memoria Apostolorum, in “ Riv. di arch. crist. “, 22 (1946), pp. 712; 23-24 (1947-1948), pp. 13-116; E. GRIFFE, La l&gende du transfert des corps de S. Pierre et de S. Paul ad Catacumbas, in “Bullettin de litt&rature eecl&siastique publi& par l’Institut Catholique de Toulouse “, 1951, pp. 183-200. Liber pontificalis, ed. Duchesne, p. 176. 29 Per più ampie informazioni cfr. A. FERRUA, Nelle Grotte di S. Pietro, in “Civiltà Catt. “, 92 (1941), III, pp. 358-365; 423-433; ID., Nuove scoperte sotto S. Pietro, in “Civiltà Catt. “, 93 (1942), IV, pp. 73-86; 228-241; La storia del sepolcro di S. Pietro, in “ Civiltà Catt. “, 103 (1952), 1, pp. 15-29; E. KIRSCHBAUM, Gli scavi nelle Grotte di S. Pietro, in “Gregorianum “, 29 (1948), pp. 544-557; L. HERTLING - E. KIRSCIIBAUM, op. cit., pp. 105-111; F. APOLLONI GHETTI - A. FERRUA - E. KIRSCHBAUM - E. JOSI, Esplorazioni sotto la confessione di S. Pietro, I, pp. 107-144; O. CULLMANN, Saint Pierre, pp. 123-136 (il quale, però, mentre ammette che sia stato ritrovato il “tropaion “ di cui parla il presbitero Gaio, contesta la verità del ritrovamento della tomba). M. GUARDUCCI, La tomba di S. Pietro, Roma 1949; Le reliquie di Pietro sotto la confessione della Basilica Vaticana, Roma 1965. 30 S. GAROFALO, La prima venuta di S. Pietro a Roma nel 42, p. 19.
Monsignor Fisichella: “Sogno di fare una scuola di scienze politiche” Il sogno del Rettore della Pontificia Università Lateranense (PUL) è di formare giovani politici. E’ questa la confessione fatta da monsignor Rino Fisichella nel corso di un incontro con i giovani organizzato dal Servizio diocesano per la Pastorale Giovanile del Vicariato di Roma, lo scorso 30 novembre, in cui ha parlato di “Fede e Polis”. Il Vescovo ausiliare di Roma ha confessato che il suo sogno è “quello di fare formazione ad una selezione scelta di giovani per poterli immettere nella politica”. Concretamente ha parlato di “un gruppo di trenta giovani che ogni anno, oltre allo studio vengano formati attraverso incontri con le persone, attraverso un tirocinio, per farli innamorare dell’impegno politico”. Monsignor Fisichella, che nel suo intervento ha affrontato anche la questione del “relativismo etico”, ha parlato di fronte a numerosi giovani riuniti nella chiesa romana dei SS. Ambrogio e Carlo al Corso. Sui banchi era stato messo a disposizione il testo della “Lettera a Diogneto” (cap. IV-V) da cui il Vescovo ha preso spunto per la sua riflessione. Monsignor Paolo Parmeggiani, Segretario Generale del Vicariato di Roma e responsabile del Servizio diocesano per la Pastorale giovanile, ha presentato monsignor Rino Fisichella come “il Vescovo più fedele al mondo giovanile”. Il Rettore della PUL ha precisato da subito che “il tema della fede e la politica non è semplice”, aggiungendo poi che “viviamo un momento importante della storia”, in cui “i grandi cambiamenti che sono sotto i nostri occhi coinvolgono in modo particolare la mutazione dei paradigmi di pensiero”, mentre si assiste a “una sostanziale modifica dei concetti basilari della nostra cultura”. Di seguito ha elencato una serie di concetti affermando che “il pluralismo di posizioni presenti nella nostra società impone nuove riflessioni non solo per chiarire il concetto, ma anche per creare nuovi linguaggi, che abbiano coerenza con i contenuti di sempre e ne supportino di consequenziali”. Ha poi fatto appello ai cristiani e alla necessità di intervenire nei pubblici dibattiti: “La ricchezza del nostro pensiero, che si fa forte di duemila anni di storia e di tradizione filosofica, letteraria e scientifica è di notevole supporto a ogni cultura che voglia sviluppare in sé concetti e linguaggi che mostrino il reale progresso verso cui si è indirizzati”. Monsignor Fisichella ha poi continuato soffermandosi sulle società che tendono ad “escludere o solo emarginare il fenomeno religioso”, indicando che esse sono destinate “a una inevitabile autodistruzione”, perché “in ogni tempo, in ogni cultura che abbia creato progresso e sia stata promotrice di ricchezza intellettuale, la religione è sempre stata presente come fonte di riferimento costante per il legislatore e forte strumento di coesione per la società”. Tuttavia, ha poi sottolineato, nel corso dei secoli “il cristianesimo non si è mai voluto proporre come religione di Stato [ma] ha sempre cercato di distinguersi”, aggiungendo in seguito che noi “siamo disposti a pregare per quanti ci governano, ma non ad offrire loro sacrifici”. E questo perché, “il cristianesimo non potrà mai essere un semplice sentimento soggettivo, ma una verità che siamo chiamati a rendere manifesta, in modo palese e nei luoghi pubblici”. “Siamo consapevoli che questa verità non appartiene agli uomini, ma è frutto di rivelazione”, e proprio “in forza di questo chiediamo che anche chi non crede si confronti con essa per verificare le ragioni delle proprie posizioni”, ha affermato. “La stessa concezione di democrazia che si è imposta nella modernità, d’altronde, non avrebbe potuto neppure essere concepita se il cristianesimo non avesse posto le premesse fondamentali per la sua genesi e il suo sviluppo”, ha quindi osservato. Il Vescovo ha poi avvertito i giovani che “in un sistema democratico […] anche la fede è chiamata in questione”, e che “i suoi contenuti […] non possono essere assunti come surrogati in un momento storico di crisi valoriale per essere poi gettati al vento in un momento successivo”. “Una vera democrazia, quando si incontra con la fede, è obbligata a confrontarsi con il concetto stesso di verità da cui non può prescindere perché porta in sé un’autorità tale che supera ogni sistema politico e ogni posizione personale”, ha spiegato. Monsignor Fisichella ha quindi ricordato che nel 1974 Papa Paolo VI denunciava che “uno dei drammi della nostra epoca era costituito dalla rottura tra la cultura e la fede”, da cui è derivato “che la cultura si è indebolita e frammentata mentre la fede si è rifugiata nell’esperienza individuale”. Secondo il Rettore della PUL, ancora oggi è avvertita una “urgenza di presentare in termini culturali moderni il frutto dell’eredità spirituale, intellettuale e morale anche per evitare una diaspora culturale che avrebbe una notevole incidenza nella vita politica e sociale”. Nel concludere il suo discorso il Vescovo si è quindi rivolto direttamente ai presenti: “Dove sono i giovani in politica?”. Ed ha fatto poi notare che “i partiti politici non hanno movimenti giovanili consistenti” e “non stanno preparando le generazioni future”. “Si stanno bruciando intere generazioni che precipitano verso l’abisso di debolezza, solo perché non si ha il coraggio di prospettare loro un impegno serio e duraturo su cui costruire la loro vita e la loro società”, ha continuato. Un altro avvertimento lanciato dal Vescovo riguarda il “modo di pensare basato sull’impostazione del diritto individuale a scapito dell’interesse per la convivenza sociale”. Infatti, ha spiegato, ciò orienta la cultura all’ “esasperazione del diritto soggettivo” senza riferimento al vivere sociale e alla responsabilità, rendendo così “necessaria una svolta culturale che sappia mettere al centro la persona e la sua relazionalità”. A questo punto monsignor Fisichella ha detto di non sapere “se la società reggerà lo scontro tra il mantenimento della democrazia e il far diventare etico tutto ciò che proviene dal desiderio individuale, spalancando la porta all’emotività che domina la razionalità”. Quindi, dopo aver elencato le situazioni etiche più discusse ai nostri giorni, ha chiesto: “Se ognuno ha il diritto di creare unioni matrimoniali come vuole, avere figli come e dove vuole, porre fine alla vita come e quando desidera e impone ai legislatori di dare corpo a questo diritto si deve riconoscere uno stato di reale problematicità?”. “Chi ha l’autorità di stabilire i limiti, i principi a cui tutti sono sottomessi? Lo Stato, la religione, la scienza, l’economia, la singola coscienza sono chiamati a riconoscere, osservare, rispondere al primo principio del vivere sociale fare il bene ed evitare il male, intuizione fondamentale che caratterizza l’agire di ogni persona”, ha continuato. Fisichella ha successivamente osservato che l’incapacità a voler dare una risposta alla questione su chi è chiamato a stabilire tali limiti “crea un’inevitabile situazione di debolezza culturale, di conflittualità dei diritti e di confusione valoriale che sfocia nella paura del futuro”. Nel rispondere alle domande di alcuni giovani, il Vescovo ausiliare di Roma ha quindi constatato che “esistono persone che ci credono davvero alla politica e che la vivono come una vocazione facendo dei grossi sacrifici, impegnando la propria vita e la propria coscienza”. Come comunità cristiana, ha proseguito, “non possiamo emarginare i nostri politici, lasciarli soli perché dobbiamo essere il primo punto di riferimento altrimenti è inevitabile che non abbiano coscienze forti e si sentano soli”. Per rispondere a una ragazza che confessava di non riuscire a riconoscersi nei partiti politici attuali, Fisichella ha quindi affermato: “La politica si fa con l’approvazione culturale, con l’impegno sociale, ma se non ci fossero i partiti, non ci sarebbe democrazia. Dobbiamo essere capaci di esprimere l’azione politica”. Quello tenuto dal Vescovo Rino Fisichella è solo il primo degli incontri di questo tipo organizzati dal Servizio diocesano per la Pastorale Giovanile del Vicariato di Roma. I successivi incontri si terranno l’8 febbraio e il 17 maggio 2006, rispettivamente sui temi “Fede e vita affettiva” e “Fede e scienza”.
L’Occidente ha deformato le mistiche orientali creando delle ambiguità È quanto sostiene il teologo Joan-Andreu Rocha Scarpetta, intervenendo ad Ancona la scorsa settimana ad un Convegno sulla mistica organizzato dal Centro di Studi Oriente-Occidente. Rocha Scarpetta, professore di Teologia delle Religioni e di Spiritualità Comparate presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum ha affermato che “il fascino attuale per le mistiche orientali risponde in parte ad una visione deformata e leggera delle mistiche d’Oriente che spesso richiedono una ascesi molto esigente”. Tuttavia, questo interesse “risponde anche al bisogno di stabilire un contatto con il sacro a partire da esperienze immediate. Dunque, la mediazione di Cristo resta così ignorata o eliminata”. Secondo questo professore catalano, che per lo stesso Ateneo romano dirige il Master “Chiesa, Ecumenismo e Religioni”, “sin dall’antichità, le crisi religiose, sociali e culturali dell’Occidente hanno provocato una certa orientalizzazione della cultura occidentale”. In seguito, Rocha Scarpetta ha spiegato che “la storia dei rapporti fra mistica orientale e mistica occidentale seguono una doppia traccia: quella del rapporto diretto fra cristianesimo e religioni orientali, e quella della percezione culturale che l’Occidente ha avuto dell’Oriente con la conseguente idealizzazione delle mistiche orientali”. Egli ha individuato quattro periodi di ricezione delle mistiche o culture orientali in Occidente: “La prima ondata sarebbe quella dell’antichità greca, soprattutto a partire da Alessandro Magno e l’idealizzazione del mondo filosofico indiano”. “La seconda sarebbe quella del Rinascimento del ‘500, quando i filosofi neoplatonici introducono il principio d’una ‘filosofia perenne’ che si troverebbe al di sopra di tutte le religioni, sciogliendo la specificità del cristianesimo”, ha spiegato. “La terza andrebbe dal ‘900 alla prima metà del XX secolo, segnata soprattutto dai filosofi romantici che vedono nell’oriente mistico una rinascita spirituale che potrebbe sostituire il pensiero occidentale illuminista”, ha aggiunto. Mentre,”la quarta ondata partirebbe dalla seconda metà del secolo scorso, e presenterebbe due facce diverse, anche se correlate: quella contro-culturale, dovuta all’influsso della Società Teosofica che sviluppa una visione magica ed esoterica della mistica dell’India, e particolarmente del buddismo tibetano (in chiaro contrasto con quella cristiana); e quella interreligiosa, che a partire degli anni Quaranta stabilisce un dialogo diretto con le religioni orientali, non soltanto cercando di capire gli elementi particolari delle loro mistiche, ma tentando anche di far capire la ricchezza della mistica cristiana in Occidente”, ha osservato. Secondo Rocha Scarpetta, “questa seconda corrente influirà positivamente nella visione delle religioni non-cristiane che proporrà più avanti il decreto del Concilio Vaticano II Nostra Aetate (1965)”. Nel suo intervento sul tema «Ex Oriente Lux, ex Oriente tenebrae: Semi del Verbo e rischi e ambiguità della mistica asiatica», il teologo ha spiegato che “se parliamo di mistica, come in qualsiasi realtà umana, possiamo trovare posizioni molto diverse fra loro, ma è evidente che non si può parlare di mistica o dei mistici se non in funzione d’una situazione culturale e storica concreta”. “Per questo non possiamo elaborare un discorso universale sulla mistica, perché il punto di partenza d’ogni mistico si trova ancorato ad un contesto culturale ben definito”, ha ricordato, aggiungendo poi in conclusione che “l’esperienza mistica si svolge sempre all’interno del proprio linguaggio, malgrado abbia come proposito principale il trascendere i limiti e la ristrettezza che inevitabilmente sono estendibili a tutti i linguaggi umani”.
Nell’ambito del femminismo religioso militante esiste una forma particolare di culto che prevede l’evocazione di spiriti femminili, riti magici e balli da parte di donne che si autoproclamano apertamente streghe. Questa forma di stregoneria si chiama Wicca. Il nome in realtà è stato creato facendolo derivare da un’antica parola inglese «wicce» = stregone, e wicca sarebbe il suo femminile, e afferma di rifarsi all’autentica «vecchia religione» dell’Europa precristiana. Si presenta quindi come una «religione» e considera i suoi «riti» magici neo-pagani, più autentici dei rituali cattolici in quanto più antichi. La magia sta andando per la maggiore nei Paesi Bassi. Un tribunale olandese ha deciso che i costi delle lezioni di magia sono deducibili ai fini dell’imposizione fiscale, secondo quanto riportato dall’”Associated Press” il 31 ottobre. Le spese possono infatti essere significative, secondo una maga intervistata dall’Associated Press. Margarita Rongen gestisce il laboratorio “Witches Homestead” (tenuta delle streghe) in una provincia del Nord, le cui lezioni costano più di 170 euro per un fine settimana, o più di 2.200 euro per l’intero corso. La Rongen afferma di aver formato più di 160 allieve nel corso degli ultimi quattro decenni. In Inghilterra, intanto, la prigione di Portsmouth, Kingston Prison, ha assunto un sacerdote pagano per dare assistenza spirituale a tre ergastolani, secondo il “Telegraph” del 1° novembre. I detenuti si sono convertiti al paganesimo e, secondo le regole carcerarie, hanno diritto ad un cappellano alla stregua dei cristiani o degli appartenenti ad altre fedi religiose. Negare loro un cappellano pagano configurerebbe una violazione dei loro diritti umani, ha affermato John Robinson, responsabile della prigione. Il 17 ottobre, il “Times” di Londra ha riferito che in tutte le prigioni sarà ora consentito ai preti pagani di utilizzare vino e bacchette magiche durante le cerimonie che si svolgono nelle carceri. Secondo il “Times”, sulla base delle istruzioni impartite ai responsabili delle prigioni da Michael Spurr, direttore operativo del servizio penitenziario, i detenuti pagani praticanti potranno avere una veste senza cappuccio, incenso e un oggetto prezioso religioso tra i propri effetti personali. Ai responsabili delle prigioni è stata consegnata una guida completa al paganesimo, basata sulle informazioni fornite dalla Federazione pagana. Ai detenuti sarà consentito praticare il paganesimo nelle loro celle, svolgere preghiere, canti, letture di testi religiosi e rituali. Il “Times” aggiunge poi che non si conosce il numero di prigionieri pagani incarcerati in Inghilterra e Galles. Una pratica in crescita. La pratica della stregoneria sta attraendo un numero crescente di persone, soprattutto giovani donne. Un recente libro dal titolo “Wicca’s Charm”, pubblicato a settembre da Shaw Books, tenta di individuare gli elementi che la rendono così attraente. Scritto dalla giornalista Catherine Edwards Sanders, il libro trae spunto da un articolo che le era stato commissionato da una rivista. Inizialmente sprezzante della Wicca, nel corso della sua successiva ricerca, la Sanders ha potuto constatare la sete genuina di spiritualità che spingeva le persone verso pratiche neopagane. La Sanders, sedicente cristiana, definisce la Wicca come un “culto della natura politeistico e neopagano, ispirato a credenze precristiane dell’Europa occidentale, al cui centro vi è la divinità della Madre dea e che comprende l’uso della magia delle erbe”. Il libro, che si limita ad esaminare la situazione negli Stati Uniti, ammette la difficoltà di giungere ad una stima attendibile del numero degli aderenti alla Wicca. Sanders cita una stima fatta dal gruppo Covenant of the Goddess, secondo cui sarebbero circa 800.000 gli aderenti alla Wicca e al paganesimo in America. La sociologa Helen Berger, nel 1999 aveva stimato un numero dai 150.000 ai 200.000 pagani. Wicca comprende molti elementi diversi, ma la Sanders ne identifica alcuni comuni alla generalità degli aderenti, e che sono i seguenti. Tutti gli esseri viventi sono di eguale valore e gli esseri umani non hanno una dignità particolare e non sono fatti ad immagine di Dio. I seguaci della Wicca credono di possedere poteri divini in se stessi e di essere degli dei. Il loro potere personale è reso illimitato dalla divinità. Essi ritengono che sia possibile e necessario alterare la consapevolezza attraverso la pratica dei riti e dei rituali. Ciò che è importante per essi - spiega la Sanders - è l’esperienza di una realtà spirituale, piuttosto che la verità o un insieme di conoscenze. Non esiste ortodossia, testo fondamentale o credenza essenziale. Sebbene le sue radici risalgano a tempi antici, Sanders nota che essa si addice bene anche al mondo moderno poiché può essere liberamente plasmata a seconda dei desideri spirituali consumistici. Gli incantesimi sono un’altra parte importante della Wicca. Ma l’autrice di questa ricerca osserva che nessuno degli aderenti con cui ha parlato è entrato con l’intenzione di usare gli incantesimi contro altre persone. Essi scelgono la Wicca soprattutto perché sono insoddisfatti delle Chiese e delle religioni organizzate e sono alla ricerca di un’esperienza spirituale che non sono in grado di trovare altrove. La Terra Un’altra caratteristica comune della Wicca è l’ambientalismo. La vita moderna ha perso contatto con la terra - sostiene la Sanders - e la Wicca, per l’importanza che dà alla natura, al calendario, alle celebrazioni legate al cambiamento delle stagioni, è un modo sia per ristabilire questo contatto, sia per spiritualizzare il rapporto con la terra. Molti aderenti alla Wicca rifiutano anche la cultura materialistica (ma non anche quella spirituale) del consumismo. Le organizzazioni pagane e Wicca infatti erano presenti ad alcune proteste no-global degli ultimi anni. La Sanders descrive alcune cerimonie a cui ha potuto assistere nel 2002 durante l’incontro del World Economic Forum di New York. I temi sollevati riguardavano il danno ambientale, il benessere degli animali e la necessità di preservare la purezza delle scorte idriche. L’aspetto ecologico della Wicca trae ispirazione anche dalla cosiddetta spiritualità Gaia. Gaia era la dea terra degli antichi greci e negli ambienti neopagani, adesso trasformata nell’idea della terra come organismo vivente. Anche il femminismo è tra gli elementi importanti che conducono le persone alla Wicca. La Sanders osserva che le donne wicca si sentono trattate come cittadini di serie B dalle Chiese cristiane, dedite unicamente al catechismo. A suo giudizio, circa i due terzi dei neopagani negli Stati Uniti sarebbero donne. Molte di esse praticano una forma di culto femminile di una dea madre che personifica la terra. Anche i rituali wicca mettono in evidenza il concetto dell’acquisizione di potere ed alle funzioni biologiche femminili viene riservato un ruolo di tutto rispetto. In definitiva, ciò che sottende il culto della dea femminile è la rivendicazione di un mondo primitivo dominato da una società matriarcale pacifica. Questo “mito matriarcale” non regge il confronto con ogni evidenza storica, osserva la Sanders, ma esso viene in ogni caso continuamente riaffermato. L’autrice dedica una sezione particolare del libro ad illustrare come i rituali e gli incantesimi wicca non risalgono a prima del 1900 e sono il risultato di invenzioni e adattamenti operati da un gruppo di persone che fanno capo soprattutto a Aleister Crowley e Gerald Gardner. Lungi dall’essere una rinascita di qualche antico paganesimo o società matriarcale, la Wicca è un’invenzione moderna e maschile. Sete di spiritualità Il desiderio di fare esperienze spirituali in modo più diretto e intenso è un fattore importante che attrae molte persone alla Wicca. Alcune ragazze adolescenti, osserva la Sanders, si sentono insoddisfatte con la cultura superficiale adolescenziale e cercano qualcosa che possa dare un senso più profondo alla loro vita. Ma anziché rivolgersi alle religioni tradizionali, un numero crescente di persone sperimentano la Wicca. La Sanders sostiene che questo è dovuto in parte alle responsabilità di alcune Chiese che hanno perso di vista il mondo trascendente e la realtà del rapporto con Cristo e della presenza dello Spirito Santo, riducendo la loro attività ad un mero esercizio sociale. Altre Chiese si dedicano poco a nutrire seriamente le menti curiose degli adolescenti, soprattutto quelle femminili. Un altro fattore che spinge i giovani verso la Wicca piuttosto che al Cristianesimo è il desiderio dei rituali e delle cerimonie. La cultura ecclesiastica moderna, osserva la Sanders, ha ridotto l’importanza dei riti religiosi e delle celebrazioni solenni, spingendo le persone a cercare alternative che possano offrire esperienze soprannaturali più tangibili. In conclusione, la Sanders afferma che la sua ricerca l’ha portata ad apprezzare di più la sete spirituale che induce le persone a sperimentare la Wicca. Ma allo stesso tempo sostiene che il Cristianesimo è in grado di offrire tutto ciò che i neopagani stanno cercando: un messaggio valido oggi come 2.000 anni fa. Fin qui l’articolo dell’Agenzia di notizie internazionali Zenit. Non vogliamo, per quanto ci riguarda, entrare in merito a questo fenomeno: ma non possiamo rimanere “neutri” di fronte ad una presentazione tutto sommato “positiva” e “buonista” del fenomeno Wicca così come emerge dal libro della Sanders. Dire infatti che è una impellente sete di spiritualità a spingere nuovi adepti alla Wicca, delusi dall’impoverimento rituale-liturgico della Chiesa cristiana, è un’affermazione quantomeno superficiale e approssimativa, che non ci sentiamo di condividere. Siamo convinti che non è il bisogno di “spiritualità” che sta alla base di questi movimenti pseudo religiosi, quanto piuttosto l’innato e smodato desiderio del “potere”: “Il loro potere personale è reso illimitato dalla divinità. Essi ritengono che sia possibile e necessario alterare la consapevolezza attraverso la pratica dei riti e dei rituali”. In altre parole non di ansia di spiritualità si tratta, ma del bisogno di condividere poteri divini, di sentirsi come Dio, essere Dio: un desiderio tutto sommato vecchio quanto il mondo (Adamo docet!). Le streghe della Wicca credono, intonandosi alla dea luna, di poter usare incantesimi magici per raggiungere i loro desideri. Nell’aprile del 1974 il “Concilio delle Streghe Americane” adottò una serie di principi che rappresentano il «credo wiccano», esprimendo la loro fede nel panteismo, nell’astrologia e nei poteri psichici. La Wicca usa i Tarocchi, il pendolino, la radioestesia, il channeling, la sfera di cristallo, la lettura della mano, la lettura dei fondi del tè o del caffè e la numerologia. Incoraggia l’uso dello spiritismo, di diversi stili di divinazione e l’uso di incantesimi magici, soprattutto per legami amorosi. È profondamente radicata in credenze pagane e panteiste (reincarnazione, “karma” e panteismo). Una parte del loro credo è quindi la reincarnazione (che di spirituale ha ben poco, se pensiamo al concetto negativo di “castigo insopportabile” legato a tale fenomeno nell’Induismo; chi è condannato a questo ciclo inarrestabile di rinascite (samsara), nutre infatti un’unica aspirazione: quella della moksha o liberazione, raggiungibile solo attraverso due tappe: un radicale distacco dall’illusoria realtà fenomenica (maya), e l’unione con l’Assoluto, il Brahman). Semmai il “bisogno di spirituale” è la molla che induce ad un cammino totalmente inverso rispetto a quello proposto dalla Wicca, ammiccante alla reincarnazione; quello cioè della “liberazione spirituale” da karma, reincarnazioni e quant’altro! Malgrado i tentativi della Wicca di distaccarsi dal satanismo vero e proprio, resta tuttavia il fatto che essa con la sua ricerca dei “poteri” che vengono dalla “natura”, si trova strettamente collegata ad una tipologia di magia satanica fondamentale, quella sessuale, da cui non è facile distaccarsi per i mille collegamenti che l’esoterismo wiccano ha tessuto tra il ciclo della donna e il ciclo lunare, tra lo gnosticismo e il panteismo, tra l’uomo e gli dei del paganesimo. Allora, tutto questo è “sete di spiritualità”? Inoltre, è sete di spiritualità quella di essere disposti a pagare somme ingenti per “imparare l’arte”, somme delle quali poi si pretende la deducibilità fiscale? E una volta raggiunto il “grado” professionale, è sete di spiritualità quella di offrire ad un pubblico credulone fantomatici servizi magici dietro corresponsione (questa volta in “nero”) di laute somme? Più o meno sul tipo delle varie Wanna Marchi & Company, tanto per fare un esempio… (Mario Labio)
“Catholic pride – la fede e l’orgoglio” Di fronte ad un mondo che sembra colpevolizzare chi crede in Dio, vale sicuramente la pena di essere cattolici. E’ quanto sostengono Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro nel loro libro dal titolo “Catholic pride – la fede e l’orgoglio” (Piemme, 192 pagine). Alessandro Gnocchi è uno studioso delle tematiche religiose nella letteratura moderna e contemporanea, oltre ad essere il maggior esperto dell’opera del giornalista e scrittore umorista italiano Giovannino Guareschi (1908-1968) su cui ha pubblicato vari libri. Docente di Filosofia Teoretica al Corso di Laurea in Scienze Giuridiche dell’Università Europea di Roma e docente di Bioetica all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Mario Palmaro è invece autore di diverse pubblicazioni sui temi della difesa della vita, della famiglia e della storia dei Papi. Per saperne di più sul libro ZENIT ha intervistato il professor Palmaro. Perchè un libro sul Catholic pride? Mi sembra innegabile che molti cattolici oggi vivano la loro fede con un senso latente di vergogna. Ognuno di noi va legittimamente orgoglioso delle persone cui vuole bene: la moglie, i figli, la madre, un fratello, un amico, il campione della squadra del cuore. Se invece qualcuno ci domanda: lei è cattolico?, beh, spesso capita che rispondiamo un balbettante sì. Quasi che essere credenti della Chiesa di Cristo sia da considerare una colpa. Ovviamente, noi non vogliamo suscitare l’orgoglio spirituale, che è un peccato: nel nostro libro spieghiamo diffusamente che il cattolico è, né più né meno di ogni altro uomo, un peccatore, uno che ha bisogno di essere salvato da Cristo, dall’amore del Padre, dalla luce dello Spirito Santo. Ma l’umiltà e il senso della nostra miseria devono riguardare la nostra povera persona, non la Chiesa. Che è invece santa. E’ la nostra madre, è la sposa di Cristo: ora, ogni volta che ci vergogniamo di lei, o che addirittura ne parliamo male, o lasciamo che altri la oltraggino, ci comportiamo come un figlio che resta indifferente di fronte alle offese fatte alla propria madre. Inoltre, noi vogliamo dire a tutto il mondo: essere cattolici non è facile, ma è straordinariamente bello. E’ un’esperienza nella quale nulla di ciò che è autenticamente umano viene sacrificato. Per una parte degli ambienti culturali, la Chiesa dovrebbe vergognarsi perchè nel corso della storia ha istituito l’inquisizione, ha processato Galileo Galilei, ha perseguitato gli ebrei, ha discriminato le donne, continua a discriminare i gay, vieta l’aborto ecc. Nel libro si sostiene che si tratta di leggende nere. Potete fornire qualche argomento in proposito? La maggior parte della accuse alla storia della Chiesa sono frutto della superficialità, dell’ignoranza, quando non della malafede. Ovviamente, esistono pagine nere nel passato degli uomini di Chiesa, come ne esistono nella vita di ognuno di noi. Ma nei venti secoli della Chiesa, le luci sovrastano di gran lunga le ombre. Inoltre, la Chiesa si dimostra sempre più umana se paragonata al contesto storico in cui opera: istituisce con l’inquisizione un processo ricco di garanzie per l’imputato, in tempi in cui i tribunali secolari esercitavano una giustizia sommaria; rispetta le teorie scientifiche di Galileo e reagisce solo di fronte alla pretesa dello scienziato di rivestirle di significati teologici; quando poi lo condanna, infligge una pena che consiste negli arresti domiciliari e nella recita di alcuni Salmi penitenziali, in tempi in cui i tribunali usavano il boia con grande leggerezza. Sulle donne, basti ricordare che dove è arrivato il cattolicesimo la donna è stata riconosciuta come persona, mentre presso molte altre civiltà essa è tuttora discriminata. La Chiesa ama tutti gli uomini, anche le persone con problemi di omosessualità o le donne che hanno abortito. Ma proprio per questo amore, imitazione di Cristo, non può tacere ciò che è peccato, proprio come Cristo quando incontra l’adultera: la perdona, ma le dice: “Va, e non peccare più”. E’ molto interessante nel libro la parte in cui lei affronta il problema di quei credenti che non ammettono più l’esistenza del Diavolo. Si tratta di un progresso nella teologia cristiana o un frutto amaro del relativismo? Dimenticarsi del diavolo, o addirittura affermare che non esiste, significa proprio fare il suo gioco. Soprattutto, provoca l’alienazione dell’uomo, che non riesce più a spiegarsi il perché del male morale del mondo. La Chiesa ci insegna che ognuno di noi è libero, e dunque responsabile delle sue azioni, ma al contempo ci avverte dell’esistenza di una entità personale misteriosa, che agisce incessantemente per condurre quante più anime possibili all’inferno e che si compiace di ogni malvagità compiuta nel mondo. Si tratta di una verità che non deve essere vissuta ossessivamente, precipitando l’uomo nella paura. Tuttavia, ricordarla aiuta il cristiano a evitare di affrontare una simile lotta impari con le sue sole forze, senza invocare la potenza della Grazia, attraverso i sacramenti, la preghiera, il digiuno. Si potrà anche sorridere di fronte a queste verità della fede: ma la prova dei fatti dimostra che la disperazione dilaga nelle case in cui non si crede più in tutto questo. Quali sono le argomentazioni per essere orgogliosi di essere cattolici? Nella Chiesa l’uomo sperimenta innanzitutto l’incontro personale con Cristo, nell’Eucaristia, nella preghiera e nella vita di tutti i giorni. Cristo ha voluto che il cuore di questa realtà fossero i sacerdoti, che offrono a tutti due cose straordinarie: il corpo di Cristo e il perdono del Signore. Pensiamoci un momento: nemmeno mille angeli del cielo, nella loro potenza, potrebbero rimettere un solo peccato mortale. Un pover’uomo, che però sia sacerdote, ha più potere di mille angeli. La Chiesa non è una compagnia di schiavi ma una comunità di amici di Cristo, fatta non solo di quelli che sono ancora in questo mondo, ma anche dalle schiere di uomini e donne che sono già morti, e che pure sono pienamente vivi e vicini a noi. Inoltre, la Chiesa ci affida a Maria, una madre sollecita che ci ama dello stesso amore per Cristo, descritto in modo straordinario da Mel Gibson in The Passion. Il cattolico è uno che trova nel proprio lavoro quotidiano motivo per santificarsi, che ha nella morale un cammino impegnativo da percorrere per amore di Cristo, e che conosce molto bene la notte del peccato e la luce del perdono che la Chiesa elargisce senza limiti. Esiste un’altra realtà al mondo che offra all’uomo tutto questo?
Don Camillo e i giovani d’oggi. Guareschi ha ancora molto da dirci! Una recensione dell’opera postuma di Giovanni Guareschi (vedi foto), Don Camillo e don Chichì. (Don Camillo e i giovani d’oggi), Milano, BUR, 2000, pp. XXIV+232, € 6,50. Ancora una volta dalle figure di don Camillo e Peppone non traspare altro che il sano realismo cristiano, la consapevolezza cioè che il mondo si può cambiare certamente, ma cominciando ad accettarlo per quello che è, senza impraticabili costruzioni ex-novo che richiederebbero prima di tutto di radere al suolo l’esistente… Siamo negli anni ‘60, e il paese di don Camillo è invaso dal benessere, la sua parrocchia è invasa dal post-concilio, mentre la sua quiete è distrutta dalla terribile nipotina Cat, «diminutivo di Caterpillar». Anche Peppone, benché ingrassato più che invecchiato, non se la passa troppo bene tra un figlio capellone, Michele detto Veleno, e l’opposizione interna dei duri e puri maoisti, i “cinesi” capeggiati dal nuovo farmacista, il dott. Bognoni. In questo libro – l’ultimo di Guareschi, che morì mentre correggeva le bozze – sull’immancabile battibecco tra il parroco e il sindaco comunista, risalta piuttosto il comune buon senso dei due, che ancora ragionano con la propria testa e parlano la propria lingua, nel momento in cui anche molti preti (s)ragionano con i luoghi comuni della contestazione a oltranza e persino i pulpiti diffondono la sessantottesca «lingua di legno». «Erano i tempi del benessere. Non si sa bene come funzionasse questa faccenda, ma doveva essere una cosa ben congegnata perché la gente lavorava sempre di meno e guadagnava sempre di più. Questo benessere aveva portato un sacco di novità: night, cabaret, spogliarelli, festival, whisky a gogò, cinema sexy, musica beat, moda beat, perfino Messe beat. Le donne non allattavano più i bambini ma li allevavano con mangimi in scatola, cibi surgelati, cibi caldi delle rosticcerie, salumerie, friggitorie. Questo benessere obbligava ogni famiglia ad avere una casa razionale piena di “zone”, a comprare e a far funzionare un’automobile, un televisore, una quantità enorme di elettrodomestici; a spostarsi settimanalmente da casa per il week-end e a trascorrere le vacanze estive al mare, ai monti, in crociera. Tutte cose bellissime ma che costano molto danaro: quindi chi viveva del suo lavoro era costretto a fare continui scioperi per avere una paga maggiore; chi non aveva un lavoro si arrangiava in vari modi». Peppone si adegua al nuovo corso trasformando la sua officina «in un grande emporio dove si vendevano a rate automobili, motociclette ed elettrodomestici d’ogni genere», ma il dott. Bognoni naturalmente lo accusa di far imborghesire il popolo: « “Tu, compagno Bottazzi,” aveva detto il Bognoni a Peppone “dai al popolo l’illusione di aver conquistato il benessere, dimenticando che la rivoluzione la si può fare quando il popolo soffre” “Nessuno può impedire al popolo di soffrire anche se ha la Seicento, il televisore, il frigo e la lavatrice” aveva replicato Peppone che essendo uomo del popolo ne conosceva i dolori segreti». La spina nel fianco di don Camillo è invece don Francesco, «un giovanotto magro, vestito di grigio, con occhiali da intellettuale e una busta di pelle sotto il braccio», inviato dalla curia per indurlo ad «aggiornarsi», e presto soprannominato don Chichì «per quella sua personcina asciutta e nervosa, per quel suo clargyman attillatino, per quel suo continuo agitarsi e scodinzolare […]». L’imperativo di don Chichì è demistificare tutto, compreso l’altar maggiore da sostituire con la «tavola calda», come la chiamava don Camillo: «[…] Voi rimarreste sempre il Figlio di Dio onnipotente anche se distruggessero le vostre immagini, ma io non permetterò mai che vi buttino fra gli arnesi fuori uso in solaio”. “Don Camillo,” lo ammonì il Cristo “tu non parli di me. Tu parli di un pezzo di legno dipinto”. “Signore, la patria non è quel pezzo di tela colorata che si chiama bandiera. Però non si può trattare la bandiera della patria come uno straccio. E voi siete la mia bandiera, Signore […]». Naturalmente gli schemi ideologici del pretino non reggono alla prova dei fatti: «“No, don Camillo. Lasci fare a me. Io so come vanno trattati questi giovani. Non badi al loro conformismo: sono molto migliori di quanto lei non creda”. […] Lo lasciarono dire per qualche minuto, poi la ragazza [Cat] lanciò un fischio e i sei balzarono giù dalle motociclette e saltarono addosso al pretino seppellendolo sotto un temporale di pugni e calci». Don Chichì troverà tuttavia un valido consigliere proprio in Cat, che sembra recitare la parte del diavolo – mentre Veleno si dimostra spesso un provvidenziale «san Michele», pronto ad intervenire quando la ragazza ne combina di tutti i colori -, un diavolo suggeritore che si diverte a sollecitare le potenzialità ideologiche del pretino e la sua antipatia per i vecchi parroci. Cat si dimostra davvero esperta di «spirito del Concilio» - ben diverso dal Concilio vero – e don Chichì applica i suoi consigli, intensificando dal pulpito le invettive contro i ricchi, contro coloro che sono stati in guerra, ecc. «Parecchia gente disertò la Messa e don Camillo, incontrato il Pinetti, gli domandò perché mai non si facesse più vedere in chiesa. “Io” rispose l’altro “ho lavorato onestamente tutta la vita per avere quello che ho e non mi va di venire in chiesa per sentirmi insultare da don Chichì”. “In chiesa non si va per rispetto del prete ma per rispetto di Dio. E non andando in chiesa si fa dispetto a Dio, non al prete.” “Sì, reverendo: il mio cervello lo capisce, ma il mio fegato no”. Non si trattava di un gran ragionamento, però aveva una sua logica e, siccome le defezioni aumentavano, don Camillo ne parlò col pretino. “[…] Il ricco è un ladro ed è quindi esatto dire che la proprietà è un furto. La Chiesa di Cristo è la Chiesa dei poveri perché solo dei poveri è il Regno dei Cieli”. “La povertà è una disgrazia, non un merito” replicò don Camillo […]». Come spesso accade, gli «ultimi» che certi ecclesiastici considerano unici interlocutori degni di attenzione, si rivelano inesistenti: nel paese di don Camillo non ci sono «creature respinte ai margini della società», né «rottami umani costretti a mendicare», né «peccatrici che si vendono per un pezzo di pane», né «disgraziate ragazze sedotte e abbandonate». «“Vuol dire che non ci sono nemmeno ragazze-madri?” domandò con molto sarcasmo don Chichì. […] Entrò la vecchia Desolina con la posta. “Può incominciare subito il suo lavoro” disse al pretino. “La Desolina è proprio una di quelle povere disgraziate alle quali lei intende portare Cristo.” “Disgraziato sarà lui!” disse la Desolina indicando con un cenno don Chichì. “In quanto a Cristo, so dove trovarlo, senza bisogno di questo prete a mezzo servizio.” […] “Ma si può sapere in quale mai selvaggio paese sono capitato?” urlò don Chichì. Don Camillo spalancò le braccia: “Non le resta che pregare il Signore di mandare anche qui dei pezzenti, delle donne perdute, e delle ragazze-madri respinte dalla società”». Non si può infine rifiutare all’aspirante lettore un ultimo assaggio di questo libro, nel memorabile scambio di battute tra don Camillo, che si sta preparando a celebrare una «Messa in suffragio delle anime dei morti d’Ungheria» appendendo il ritratto del cardinale Mindszenty, e l’indignato don Chichì che osserva: «Perché questa smania di martirio? Non avrebbe potuto trovare anche lui un modus vivendi con l’autorità del suo paese?» «Bisogna compatirlo» rispose don Camillo. «È stato portato fuori strada da quell’altro tizio che s’è fatto inchiodare sulla croce. I soliti estremismi». Questi racconti che a prima vista potrebbero far pensare ad un «crepuscolo» del Mondo Piccolo, ci dimostrano invece la perenne vitalità del messaggio di Guareschi, che ha ancora molto da dirci - forse, ancora di più ora che tante ubriacature, ecclesiali e non, stanno rivelando i propri punti deboli. Ancora una volta dalle figure di don Camillo e Peppone non traspare altro che il sano realismo cristiano, la consapevolezza cioè che il mondo si può cambiare certamente, ma cominciando ad accettarlo per quello che è, senza impraticabili costruzioni ex-novo che richiederebbero prima di tutto di radere al suolo l’esistente; che le riforme sociali sono vane se prima non cambia il cuore dell’uomo; e che questo è possibile solo iniziando a tacere per lasciar parlare Cristo – il quale, guarda caso, parla solo a don Camillo, mentre don Chichì a forza di parlare di «dialogo» fa un tale baccano da non riuscire a sentire la voce del Cristo… In chiusura il recensore si concede una piccola osservazione sarcastica: siamo nel 2005, e don Chichì, che in illo tempore sembrava davvero l’«avanguardia» ecclesiale, ha verosimilmente raggiunto i settant’anni, è diventato un grigio teologo progressista, con la casa piena di libri e priva di inginocchiatoi, o un vescovo prossimo alla pensione, con la mente piena di piani pastorali e il seminario vuoto, in entrambi i casi amareggiato perché in questi decenni la Chiesa è andata molto avanti, ma non come sarebbe piaciuto a lui, deluso dal fatto che il vero uomo del Concilio è stato un papa impregnato di misticismo polacco e con la fissazione del Rosario, e il cui successore, pur essendo un professorone tedesco, si abbassa continuamente a parlare del Catechismo e di Gesù sacramentato, proprio come il più incolto dei «vecchi parroci»… E meno male! Deo gratias! (Stefano Chiappatone)
Cinema: «Le Cronache di Narnia», una fantasia Disney tutta da “credere” Appassionante come «Il signore degli anelli», affascinante come «La storia infinita». Ma qui la lotta tra Bene e Male è di ispirazione cristiana. E apre alla speranza nel futuro. La risposta “cristiana” a «Il signore degli anelli». È così che da oltre mezzo secolo critici e lettori considerano «Le cronache di Narnia», una collana di racconti sgorgata dalla fervida fantasia e dall’intensa religiosità di Clive Staples Lewis (vedi foto), scrittore irlandese nato a Belfast nel 1898 e morto sessantacinquenne. Britannico come Tolkien, l’autore di Il signore degli anelli (di cui fu amico, essendo quasi coetanei), Lewis si laureò in letteratura inglese e insegnò a Oxford. Fu tra il 1933 e il 1956 che iniziò a scrivere. Fondamentale per la sua produzione letteraria fu la conversione al cristianesimo avvenuta nel 1931, raccontata in Le due vie del pellegrino. Dopo libri religiosi e romanzi, perfino di fantascienza teologica, a partire dal 1950 pubblicò i 7 volumi di Le cronache di Narnia. Con 100 milioni di copie vendute, resta tra i maggiori successi nella letteratura per ragazzi dopo la trilogia dello stesso Tolkien (e, oggi, l’Harry Potter della Rowling). A differenza del germanista Tolkien, Lewis fu appassionato studioso di letteratura latina e cultura medievale. Tanto da intrattenere un carteggio in latino con don Giovanni Calabria e dedicare Le lettere di Berlicche a monsignor Francesco Olgiati, cofondatore dell’Università Cattolica assieme a padre Gemelli. Si spiega così la scelta di Narnia, nome latino della cittadina umbra di Narni: zona che Lewis conosceva bene e in cui decise di ambientare le sue fantasiose avventure. La risposta “cristiana” a «Il signore degli anelli», dunque: una definizione, in fondo, perfino riduttiva data la ricchezza straordinaria di personaggi, avventure, mondi e significati profondi che Lewis riesce a creare attorno alle vicende dei suoi giovani protagonisti: ragazzini veri, a differenza dei minuscoli hobbit di Tolkien. Anche l’universo immaginario di Lewis è popolato da esseri fantastici come nani, fauni, centauri, animali parlanti, streghe e incantatori. Mentre però elfi, gnomi, orchetti e stregoni di Tolkien si muovono in un mondo sostanzialmente dark, dove l’oscurità connota ogni cosa con le sue fosche tinte, nel mondo creato da Lewis la lotta tra il Bene e il Male, per quanto aspra, ha sempre una forte componente cristiana. Lascia intravedere una luce, una speranza. E i toni di tutti i racconti sono più densi di colori. Ben si comprende, perciò, che sia stata la Disney a portare sul grande schermo Le cronache di Narnia: il leone, la strega e l’armadio. È il kolossal fantastico di queste feste natalizie: nelle sale italiane uscirà il 21 dicembre, mentre il principe Carlo e la duchessa Camilla sono stati gli ospiti d’onore della prima mondiale, il 7 dicembre, alla Royal Albert Hall di Londra (con successiva megafesta a tema nel parco di Kensington, presenti tanti personaggi noti, a cominciare da Omar Sharif, l’attore di origini egiziane che dà la voce italiana al personaggio del leone Aslan). Chiaro che miri a conquistare le scatenate fantasie dei ragazzi grandicelli, così come il cartone digitale Chicken Little è già nelle sale per i più piccini. E per gli adulti? La possibilità di lasciarsi rapire, ancora una volta, dal mondo della fantasia. «A differenza di Tolkien, che nella sua scrittura è molto specifico, Lewis lascia parecchio spazio all’immaginazione del lettore», racconta Andrew Adamson, 39 anni, neozelandese, regista scelto dalla Disney per questo prezioso progetto, avendo egli alle spalle il successo planetario di Shrek. «Quindi abbiamo avuto l’arduo compito non solo di creare il mondo di Narnia, ma di cercare di soddisfare le aspettative del pubblico, di elevare il film al livello dei loro sogni e delle loro fantasticherie. Una sfida». Vinta a mani basse, visto lo straordinario impatto visivo del film di Adamson. Non per nulla, alla creazione di luoghi fantastici, inusuali eroi e sfide mozzafiato hanno collaborato i migliori tecnici degli effetti speciali al computer (quelli della Sony Imageworks, quelli di Rhythm & Hues e quelli della celeberrima Industrial Light & Magic di George Lucas), per quanto concerne lo stile coordinati dalla Weta Workshop, gruppo di artisti che fa base a Wellington, in Nuova Zelanda, al quale si deve la creazione degli effetti visivi di tutti e tre i film di Il signore degli anelli. Un sogno che diventa realtà «Per Lewis, Narnia era il mondo dei sogni dei bambini, in cui s’incrociano tutte le figure mitologiche», spiega Richard Taylor, capo della Weta, quattro volte vincitore dell’Oscar con la trilogia da Tolkien. «Questo ci ha dato la meravigliosa opportunità di creare arpìe, minotauri, folletti, centauri e altre creature che non si erano mai viste finora sullo schermo e che interagiscono tra loro nello stesso mondo fantastico. Insomma, abbiamo potuto andare oltre Il signore degli anelli. Poterci confrontare con una tale differenza di ambientazioni e cultura è stata una vera impresa. Ma ora, a film finito, mi sento di dire che il sogno è diventato realtà». Protagonisti di questa avventura, eterna ma ben collocata da un punto di vista temporale, sono i quattro fratelli Pevensie: Lucy, Edmond, Susan e Peter. Sono di Londra, ma in piena seconda guerra mondiale, sotto i continui bombardamenti dei nazisti, il loro non è certo un bel vivere. Rifugiatisi in campagna, nella casa di un vecchio professore, Kirke, un giorno stanno giocando a nascondino quando finiscono casualmente nel mondo magico di Narnia. L’ingresso è attraverso uno strano armadio fatato. Narnia è una terra affascinante e pacifica, abitata da animali parlanti, fauni, giganti, nani, centauri. Però... c’è un ma. Proprio come nel mondo reale infuria la barbarie della guerra, così Narnia è mortalmente minacciata dall’inverno perenne. E non è colpa del buco nell’ozono (che allora neppure si sapeva cosa fosse e, forse, ancora non c’era), bensì di un perfido maleficio della strega bianca Jadis. Toccherà proprio ai quattro bambini, guidati dal nobile e mistico leone Aslan, impegnarsi a combattere per il Bene. Grazie a loro, le forze del Male scatenate da Jadis finiranno sconfitte in un’epica battaglia, che libererà per sempre Narnia dal gelido incantesimo della strega. A sentirlo così, senza vedere lo schermo, l’intreccio sa di già noto. Ricorda le vicende di La storia infinita, film che vent’anni fa Wolfgang Petersen ricavò dall’omonimo romanzo di Michael Ende (in realtà posteriore ai libri di Lewis). Un leone carismatico Ma non lasciatevi ingannare, il risultato è superiore. Strabiliante, grazie ai progressi della tecnica computerizzata. Non bisogna dimenticare, poi, l’inconfondibile impronta Disney: Le cronache di Narnia è il degno erede di Mary Poppins (1964) e Pomi d’ottone e manici di scopa (1971), capolavori assoluti di quel genere a parte che sono le pellicole a tecnica mista, dove recitano insieme creature al computer e attori veri. E nel cast del film, a parte i giovani protagonisti (William Moseley, Anna Popplewell, Skandar Keynes, George Henley), figurano attori del calibro di Jim Broadbent (il professor Kirke), Tilda Swinton (Jadis), Liam Neeson (voce di Aslan nella versione originale). E proprio il carismatico leone Aslan è il personaggio che segna di cristianità la fantastica avventura, avendo la sua vicenda molti paralleli con le sofferenze e il sacrificio di Gesù. «Cominciai a leggere Le cronache di Narnia a 8 anni. Da quel giorno rileggo quei sette libri», dice Adamson, regista vincitore dell’Oscar, ma al debutto con attori in carne e ossa. «Prima di girare, mi sono chiesto: cos’è Narnia? Non è solo un luogo di fantasia in cui i bambini sfuggono alla guerra. È una realtà parallela. Un mondo in cui credere». (Maurizio Turrioni, in Famiglia Cristiana n. 50).
Internet: i siti cattolici italiani toccano quota 10.000 Il primo dicembre i siti cattolici italiani sono arrivati a quota 10.000. Un numero notevole che pone il variegato mondo cattolico italiano sulla web al primo posto tra le nazioni europee. Una intervista a Francesco Diani, fondatore e responsabile del sito www.siticattolici.it. In una intervista concessa a ZENIT, Francesco Diani (vedi foto), ha spiegato che siamo di fronte ad una “crescita di quantità e qualità che mostra la vitalità e maturità dalla Chiesa italiana che ha creduto nel mezzo telematico”. “Internet è ormai uno strumento di formazione, informazione ed evangelizzazione ed i web-master cattolici possono ormai assumere il ruolo di operatori pastorali della comunicazione”, ha aggiunto. “Dal punto di vista dell’accelerazione della crescita – ha raccontato Diani – abbiamo avuto momenti più rapidi come nel 2000. Adesso abbiamo una crescita naturale che è più matura e solida”. “Il risultato è il frutto di un grande impegno della Santa Sede e della Chiesa Italiana. Già nel 2002 il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali ha pubblicato “La Chiesa e Internet (28 febbraio 2002)” e “Etica in Internet (28 febbraio 2002)”. Nel maggio del 2002 c’è stato il Messaggio del Pontefice per la Giornata delle Comunicazioni Sociali ‘Internet mezzo per annunciare il Vangelo’”. Diani che è collaboratore dei progetti informatici della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) e Vicepresidente dell’Associazione WebCattolici, ha precisato che “la Chiesa italiana nel 2000 ha fatto un Convegno ad Assisi dal titolo “www.chiesa in rete - Nuove tecnologie e pastorale”, e poi nel 2002 mentre uscivano i due documenti della Santa Sede, erano riuniti a Roma i principali web-master dei siti cattolici che hanno fondato l’associazione web-master cattolici (http://www.webcattolici.it)”. Da questo punto di vista, è stato anche “decisivo il Convegno ‘Parabole medianiche’, organizzato dalla Conferenza Episcopale Italiana, da cui si è sviluppata l’idea dell’operatore pastorale della comunicazione”. Lei ha sottolineato che si tratta di una crescita più di qualità che di quantità. Proprio così. Stiamo assistendo ad crescita di Chiesa, con siti che hanno le fondamenta più robuste. I siti delle parrocchie non sono fatte dal primo ragazzino di turno. Molte associazioni hanno scelto di usare internet come strumento del proprio lavoro di collegamento e promozione. I siti delle Congregazioni religiose oggi offrono molto sotto l’aspetto di documenti, storia, carisma, testimonianze. C’è una nutrita frequentazione dei siti cattolici da parte del mondo giovanile. Ci sono delle comunità come “Totus Tuus” (http://www.totustuus.net) che hanno creato un vero e proprio movimento per la promozione, preparazione, e formazione degli utenti. Quante sono le pagine cattoliche in Internet? Una indagine fatta tre anni fa da “Profeta” parla di 500mila pagine cattoliche, numero elevato ma non indicativo, perché il motore utilizzato ha contato solo pagine statiche, mentre oggi i grandi siti producono pagine dinamiche. Un sito come quello della Curia generalizia dei Comboniani per esempio, contiene tutto quello che ha scritto Comboni, cioè almeno 7.500 pagine per ogni lingua. E sono pagine dinamiche, che non vengono calcolate o viste dai sistemi come quello utilizzato da “Profeta”. Per non parlare di www.chiesacattolica.it che raccoglie tutti i documenti della CEI. Basta pensare che in Italia ci sono 82 diocesi per realizzare che per ogni Vescovo e Diocesi c’è un mondo da scoprire. Ma qual è la geografia di questa presenza sul web? La categoria prevalente è quella delle parrocchie (sono 2.391, quasi un quarto del totale), seguita dalle associazioni (2.067), ordini religiosi e istituti missionari (1.222). Un pò più distanti, in quarta posizione, i 629 siti istituzionali (CEI, diocesi e uffici pastorali diocesani), tallonati dai 589 siti personali. Sono 403 i siti legati ai centri culturali e alle università e 353 le realtà del mondo dell’informazione, stampa ed editoria. Il tasso di crescita è costante (+ 25% in questi ultimi due anni), tenuto conto anche della cancellazione dei 1.400 siti non più raggiungibili in rete. Ma ancor più veloce è la crescita dei siti legati alla musica cristiana (+33,6%), alle radio e tv cattoliche (+32,8%) e all’arte sacra (+31,5%).
4 dicembre 2005
Benedetto XVI inizia l’anno liturgico con un appello alla santità Nell’omelia improvvisata durante i primi Vespri della prima domenica di Avvento Benedetto XVI ha iniziato il nuovo anno liturgico presiedendo sabato pomeriggio i primi vespri della prima domenica di Avvento, in cui ha rivolto un appello alla santità. Il Santo Padre ha pronunciato un’omelia spontanea, risuonata nella Basilica di San Pietro in Vaticano, commentando il brano della prima lettera ai Tessalonicesi (5, 23-24). Nel testo, San Paolo auspica ai suoi fedeli che “il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo!”. Il primo versetto, ha affermato il Papa, “esprime l’augurio dell’Apostolo alla comunità; il secondo offre, per così dire, la garanzia del suo adempimento”. “L’augurio è che ciascuno sia santificato da Dio e si conservi irreprensibile in tutta la sua persona – spirito, anima e corpo – per la venuta finale del Signore Gesù; la garanzia che ciò possa avvenire è offerta dalla fedeltà di Dio stesso, il quale non mancherà di portare a compimento l’opera iniziata nei credenti”. L’auspicio espresso dall’apostolo, secondo il Vescovo di Roma, “contiene una verità fondamentale, che egli cerca di inculcare nei fedeli della comunità da lui fondata e che possiamo riassumere così: Dio ci chiama alla comunione con sé, che si realizzerà pienamente al ritorno di Cristo, e Lui stesso si impegna a far sì che giungiamo preparati a questo incontro finale e decisivo”. “Il futuro è, per così dire, contenuto nel presente o, meglio, nella presenza di Dio stesso, del suo amore indefettibile, che non ci lascia soli, non ci abbandona nemmeno un istante, come un padre e una madre non smettono mai di seguire i propri figli nel loro cammino di crescita”, ha riconosciuto il Pontefice nel parlare a braccio. “Di fronte al Cristo che viene – ha osservato –, l’uomo si sente interpellato con tutto il suo essere, che l’Apostolo riassume nei termini ‘spirito, anima e corpo’, indicando così l’intera persona umana, quale unità articolata di dimensione somatica, psichica e spirituale”. “La santificazione è dono di Dio e iniziativa sua, ma l’essere umano è chiamato a corrispondere con tutto se stesso, senza che nulla di lui resti escluso”, ha spiegato il successore di Pietro. “Ed è proprio lo Spirito Santo, che nel grembo della Vergine ha formato Gesù, Uomo perfetto, a portare a compimento nella persona umana il mirabile progetto di Dio, trasformando innanzitutto il cuore e, a partire da questo centro, tutto il resto”. “Avviene così che in ogni singola persona si riassume l’intera opera della creazione e della redenzione, che Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo, va compiendo dall’inizio alla fine del cosmo e della storia”, ha proseguito. “E come nella storia dell’umanità vi è al centro il primo avvento di Cristo e alla fine il suo ritorno glorioso, così ogni esistenza personale è chiamata a misurarsi con lui – in modo misterioso e multiforme – durante il pellegrinaggio terreno, per essere trovata ‘in lui’ al momento del suo ritorno”, ha indicato Benedetto XVI; ed ha concluso: “Ci guidi Maria Santissima, Vergine fedele, a fare di questo tempo di Avvento e di tutto il nuovo Anno liturgico un cammino di autentica santificazione, a lode e gloria di Dio Padre, Figlio e Spirito”.
Ma questa Italia è ancora cristiana? La famiglia va difesa, non indebolita. I Pacs? Usiamo le tutele del Codice civile. «Niente battaglie», dice il patriarca Scola, ma testimoniamo la bellezza del vivere in Cristo». Famiglia e matrimonio? Un grave danno indebolirli ulteriormente. Pacs? Inopportuni. Interventi della gerarchia cattolica su delicate questioni sociali? Nessuna ingerenza, bensì un «accompagnamento del popolo italiano, che è ancora cattolicamente riferito». È il pensiero del cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia (vedi foto), relatore generale all’ultimo Sinodo che, partendo dalle materie trattate all’assise sinodale, risponde su alcuni dei temi che stanno animando il dibattito tra laici e cattolici in Italia. Con una convinzione chiara: che, per fare civiltà, non servono crociate, bensì proposte contagiose di stili di vita e una testimonianza coerente. Stiamo assistendo a una profonda crisi che investe il matrimonio, e a una “svalutazione della famiglia”. Come annunciare i valori dell’indissolubilità del matrimonio cristiano? «Questa è una delle espressioni più potenti del travaglio del tempo postmoderno, con la quale chi ha incontrato Cristo deve fare i conti: è una provocazione gravosa, ma nel contempo affascinante. Direi che la relazione mondo affettivo-fede ha, oggi, la stessa portata che ebbe nel secolo scorso la relazione rivoluzione-fede. Quello che io chiamo “erotismo pervasivo” sfida oggi la vita cristiana come allora fece la rivoluzione. Talmente radicale e profonda è la trasformazione antropologica in cui siamo immersi da obbligarci a ridire l’esperienza elementare degli affetti. Ma se c’è qualcosa su cui siamo balbuzienti, anche noi cristiani, è proprio il saper comunicare il fascino di questa esperienza, che pure è un dato reale e oggettivo. Ai giovani, quando parlo loro dell’indissolubilità del matrimonio, dico: vi sfido a poter dire, quando siete autenticamente innamorati, “ti voglio bene” senza aggiungere “per sempre”. E non trovo mai obiezioni. Vuol dire che “per sempre” fa parte dell’essenza dell’amore. Bisogna ritornare all’esperienza elementare, grande intuizione di Giovanni Paolo II, e mostrare la bellezza e il fascino dell’amore così concepito». In che modo? «Occorre ridire le categorie del “desiderio” e del “sacrificio” e la loro compatibilità, e insieme quella di “piacere” e di “godimento” e la radicale differenza tra i due. È necessario rimettere in campo queste parole che sono uscite logore dalla grande trasformazione in atto e che sono il cuore della postmodernità. Come si devono ridire altre importanti parole quali libertà, vita e morte, vita buona, buon governo e potere. Bisogna ritornare ai fondamentali. È come se, oggi, i fondamentali dell’umano fossero confusi; però l’uomo ne ha una grande sete. Ecco perché la nostra è un’epoca di travaglio, ma anche di forte fascino. E tutto questo occorre innanzitutto mostrarlo attraverso la testimonianza personale e comunitaria: uomini e donne che si espongono in prima persona e così rendono evidente la bellezza dell’amore autentico e fedele come una possibilità reale per la vita di tutti». E applicando tale ragionamento alla questione della comunione ai cosiddetti divorziati risposati...? «Mi pare che la Proposizione 40 del Sinodo sia molto precisa e profonda: basterebbe meditarla attentamente. Apre alla libertà personale con serenità. Nella Chiesa in questa questione non vale l’ope legis: non c’è la categoria dei “divorziati-risposati” ai quali, appunto, “in forza di una legge” si debba riconoscere un diritto all’Eucaristia. Esiste, invece, il cammino della persona che si confronta con Dio. La Chiesa non ha alcun potere sui sacramenti, che sono un puro dono di Cristo a cui la Chiesa stessa deve obbedire. Anche i vescovi e il Papa». Di recente la questione dei Pacs ha acceso polemiche tra cattolici e laici. Lei ritiene che forme di riconoscimento giuridico pubblico delle unioni di fatto possano ledere il matrimonio e il valore della famiglia? «Credo che la società italiana sbaglierebbe gravemente se, in nome di una cattiva interpretazione dei diritti individuali, sacrificasse ulteriormente il bene del matrimonio e della famiglia. È giusto che una società plurale debba rispettare i diritti di tutti, ma penso anche che in questo campo sia possibile battere la strada delle tutele presenti nel Codice civile, adeguandole se necessario, senza generare confusione su ciò che è matrimonio e famiglia e ciò che non lo è. Volenti o nolenti, la legge contribuisce a educare in modo virtuoso. Ora, indebolire la famiglia, in un tempo in cui già di per sé non è sostenuta in modo adeguato, sarebbe sbagliato. Infine, pongo un’altra questione che mi pare fondamentale per una società plurale come la nostra e che ha a che fare con la giusta dialettica tra minoranze e maggioranze: davvero qualunque tipo di orientamento personale e di gruppo deve pretendere l’esplicito riconoscimento della legge?». E se il fenomeno oggi minoritario delle unioni di fatto assumesse una massa critica importante? «È un’altra questione. In democrazia si deve andare a un confronto sereno e franco. I diritti fondamentali devono essere garantiti a tutti, ma per quanto riguarda altri diritti è anche chiaro che, per il fatto che la legge ha una funzione educativa, una minoranza è chiamata a maggiori sacrifici; è un dato di fatto realistico». Pertanto quella dei Pacs è una rivendicazione viziata? «Ripeto che chi ha queste esigenze possa utilmente perseguire la via delle tutele già presenti nel Codice civile. Ma non mettiamo a repentaglio per questo il concetto di matrimonio e di famiglia, né nella legge, né nella pratica. Sarebbe un errore per la democrazia, e non lo dico come cattolico, ma da “laico”». A proposito di tematiche come i Pacs: qualcuno ha accusato esponenti della Chiesa italiana di ingerenze e aggressione alla laicità, osservando tra l’altro che i cattolici sono una minoranza. Che cosa ne pensa? «Qui c’è un equivoco che, tra l’altro, si basa su un ragionamento statisticamente poco fondato. Non bisogna confondere il fenomeno della caduta morale e dei comportamenti etici, che esiste ed è grave, con il senso di appartenenza alla Chiesa. Il popolo italiano è e resta chiaramente riferito, almeno “culturalmente” – uso la parola in senso ampio –, al cristianesimo, e i numeri lo dimostrano. Le faccio un esempio: in diocesi di Venezia abbiamo appena realizzato un censimento sulla partecipazione alla Messa domenicale e il senso di appartenenza alla fede cristiana. Ebbene, i risultati sono di grande interesse, perché dimostrano, anzitutto, che dal 1985 a oggi non c’è più stato svuotamento delle chiese, e che l’83 per cento della popolazione si dice, in qualche modo, cattolica, almeno come riferimento culturale. Allora, quando noi vescovi interveniamo su alcune questioni, lungi dall’assalire qualcuno o domandare privilegi, stiamo solo accompagnando il nostro popolo, che è ancora cattolicamente riferito. E, coscienti della natura plurale della nostra società, vogliamo farlo con atteggiamento positivo e rispettoso nei confronti di tutti». Un’altra questione toccata dall’ultimo Sinodo è stata quella della domenica. Il suo valore profondo è sempre più minato da nuove abitudini sociali e tendenze commerciali. Rispetto a tali tendenze, servono crociate o proposte evangeliche convincenti? «Le rispondo con un’affermazione dell’arcivescovo di Islamabad, Anthony Theodore Lobo: “Il nostro è un tempo di annuncio e non di denuncia”. Credo che il problema numero uno dei cristiani e dell’uomo di oggi sia mostrare la bellezza della sequela di Cristo. Ciò non significa essere remissivi. Come vescovo sento fortemente l’urgenza che sia rispettato il cammino del popolo italiano, che è ancora, piaccia o non piaccia, cattolicamente riferito. È fuori dubbio, però, che la via privilegiata della convinzione è quella dei testimoni e dei santi. Sarà perché mi porto dentro l’esperienza straordinaria dell’oratorio, sarà perché le personalità più avvedute dell’antropologia contemporanea – penso ad esempio a Roland Barthes – hanno parlato della decisività del recupero del “tempo vibrato”, in cui il riposo media tra lavoro e affetti, sempre più convinto ripeto: riappropriamoci da cristiani della domenica nel senso nobile del termine, invitando a casa o in patronato amici e conoscenti, facendo esperienza di convivialità tra di noi e con i nostri figli, celebrando l’Eucaristia insieme. In una parola: riappropriamoci del tempo del riposo nel Signore, e facciamo partecipare più gente possibile a quest’esperienza. E se non vogliamo farlo negli oratori, facciamolo nelle piazze e nei parchi, ma facciamolo». Perciò nessuna crociata? «Io sono piuttosto per testimoniare la bellezza di umanità e la densità di umanità che dal riferimento a Gesù può scaturire. Non mi metterei a far battaglie, perché quando si vuol creare una nuova mentalità, cioè far civiltà e cultura, la prima condizione è “porre il soggetto”; è far vivere un soggetto nuovo: continuare a vivere sempre più in questo modo e invitare gli altri a vivere così».
Indulgenza plenaria nella solennità dell’Immacolata Concezione, in occasione del 40° anniversario della chiusura del Concilio Il prossimo 8 Dicembre, solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, si compiranno quarant’anni dalla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo. Per questo importante anniversario, il Santo Padre Benedetto XVI ha concesso ai fedeli il dono dell’indulgenza plenaria: infatti il Santo Padre, “quando a Roma renderà pubblico omaggio di lode alla Vergine Immacolata, desidera vivamente che tutta la Chiesa si unisca col cuore a Lui affinché i fedeli tutti, uniti nel nome della Madre comune, siano ognor più rafforzati nella Fede, aderiscano con maggiore dedizione a Cristo e amino i fratelli con più fervente carità: da qui provengono, come ha insegnato con grande sapienza il Concilio Vaticano II, le opere di misericordia verso gli indigenti, l’osservanza della giustizia, la tutela e la ricerca della pace”. Nel Decreto firmato dal Cardinale James Francis Stafford, Penitenziere Maggiore di Santa Romana Chiesa, si comunica che il dono dell’Indulgenza plenaria è “ottenibile alle solite condizioni (Confessione sacramentale, Comunione eucaristica e preghiera secondo le intenzioni dello stesso Sommo Pontefice), con l’animo totalmente distaccato dall’affetto verso qualunque peccato, nella prossima solennità dell’Immacolata Concezione, dai fedeli, se parteciperanno ad un sacro rito in onore della stessa, o almeno offriranno un’aperta testimonianza di devozione mariana davanti ad una immagine della Madonna Immacolata esposta alla pubblica venerazione, aggiungendo la recita del Padre Nostro e del Credo e una qualche invocazione all’Immacolata.” Anche i fedeli che sono impediti per infermità o altra giusta causa, potranno ottenere lo stesso dono dell’Indulgenza plenaria in casa propria o dovunque si trovino, “purché, con l’animo distaccato da ogni peccato e con il proposito di compiere le suddette condizioni, appena sarà loro possibile, si uniscano nello spirito e nel desiderio alle intenzioni del Sommo Pontefice in preghiere alla Madonna Immacolata e recitino il Padre nostro e il Credo”.
I criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali Non ci sono grandi novità nel documento vaticano sull’omosessualità e il sacerdozio, spiega il Cardinale Zenon Grocholewski, autore dell’Istruzione. Il documento pubblicato questo martedì dalla Santa Sede che regolamenta l’ammissione di uomini con tendenze omosessuali nei Seminari e al sacerdozio non contiene nulla di straordinario, assicura il Cardinale Zenon Grocholewski, Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, l’organismo vaticano che ha redatto l’Istruzione. Il testo, approvato da Benedetto XVI, conferma che non è possibile ammettere al sacerdozio uomini che “praticano l'omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay”. “Praticamente, i giornali hanno parlato di questo documento come se fosse qualcosa di straordinario – ha riconosciuto il Cardinale polacco presentando il testo ai microfoni della “Radio Vaticana” –. Non è straordinario il fatto che la nostra Congregazione pubblichi determinati documenti riguardanti la formazione sacerdotale, perché abbiamo pubblicato almeno una ventina di documenti dopo il Concilio, riguardanti diversi aspetti della formazione nei seminari”. “C’è stato un documento sulla formazione al celibato, sulla castità sacerdotale; si è parlato dei diversi impedimenti al sacerdozio. Adesso, questo documento non è niente di straordinario, perché su questo problema dell’omosessualità la Congregazione per la Dottrina della Fede si è già pronunciata molte volte”, ha ricordato. “Perché la Congregazione per la Dottrina della Fede si è pronunciata tante volte? Perché in questo settore, nel mondo di oggi c’è un certo disorientamento”, ha spiegato. “Molti difendono la posizione secondo cui la condizione omosessuale sarebbe una condizione normale della persona umana, come quasi un terzo genere; invece, questo contraddice assolutamente l’antropologia umana; contraddice, secondo il pensiero della Chiesa, la legge naturale, e ciò che Dio stesso ha impresso nella natura umana: la bisessualità”. Articolata in una introduzione, tre capitoli ed una conclusione, la breve Istruzione sottolinea che “non intende soffermarsi su tutte le questioni di ordine affettivo o sessuale che richiedono un attento discernimento durante l’intero periodo della formazione. Essa contiene norme circa una questione particolare, resa più urgente dalla situazione attuale, e cioè quella dell’ammissione o meno al Seminario e agli Ordini sacri dei candidati che hanno tendenze omosessuali profondamente radicate”. Nel primo capitolo, intitolato “Maturità affettiva e paternità spirituale”, viene ricordato che “il sacerdote rappresenta sacramentalmente Cristo, Capo, Pastore e Sposo della Chiesa. A causa di questa configurazione a Cristo, tutta la vita del ministro sacro deve essere animata dal dono di tutta la sua persona alla Chiesa e da un’autentica carità pastorale. Il candidato al ministero ordinato, pertanto, deve raggiungere la maturità affettiva. Tale maturità lo renderà capace di porsi in una corretta relazione con uomini e donne, sviluppando in lui un vero senso della paternità spirituale nei confronti della comunità ecclesiale che gli sarà affidata”. Sul tema “Omosessualità e ministero ordinato” si sofferma il secondo capitolo richiamando i diversi documenti del Magistero che distinguono fra gli atti omosessuali e le tendenze omosessuali. Gli “atti” vengono presentati come peccati gravi, “intrinsecamente immorali e contrari alla legge naturale. Essi, di conseguenza, non possono essere approvati in nessun caso”. Le “tendenze” omosessuali profondamente radicate, “sono anch’esse oggettivamente disordinate e sovente costituiscono, anche per loro, una prova. Tali persone devono essere accolte con rispetto e delicatezza; a loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione”. Alla luce di questo insegnamento, l’Istruzione “ritiene necessario affermare chiaramente che la Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta ‘cultura gay’… Qualora, invece, si trattasse di tendenze omosessuali che fossero solo l’espressione di un problema transitorio, come, ad esempio, quello di un’adolescenza non ancora compiuta, esse devono comunque essere chiaramente superate almeno tre anni prima dell’Ordinazione diagonale”. L’ultimo capitolo si sofferma sul “discernimento dell’idoneità dei candidati da parte della Chiesa” e mette in luce i due aspetti indissociabili in ogni vocazione sacerdotale: “il dono gratuito di Dio e la libertà responsabile dell’uomo”. “Il solo desiderio di diventare sacerdote non è sufficiente e non esiste un diritto a ricevere la sacra Ordinazione”, ma compete alla Chiesa “discernere l’idoneità di colui che desidera entrare nel Seminario, accompagnarlo durante gli anni della formazione e chiamarlo agli Ordini sacri, se sia giudicato in possesso delle qualità richieste”. Nella conclusione si ribadisce la necessità che “i Vescovi, i Superiori Maggiori e tutti i responsabili interessati compiano un attento discernimento circa l’idoneità dei candidati agli Ordini sacri, dall’ammissione nel Seminario fino all’Ordinazione” Per quanto riguarda i sacerdoti con tendenze omosessuali, il Cardinale spiega che “queste ordinazioni sono valide, perché noi non affermiamo la loro invalidità”. “Una persona che scopra la propria omosessualità dopo l’ordinazione sacerdotale, ha concluso il Cardinal Grocholewski (vedi foto) deve ovviamente realizzare il proprio sacerdozio, deve cercare di vivere in castità… forse avrà bisogno di maggiore aiuto spirituale che altri, ma penso che debba svolgere il proprio sacerdozio nel modo migliore possibile”. Ecco il testo integrale dell’Istruzione: «Introduzione: In continuità con l’insegnamento del Concilio Vaticano II e, in particolare, col decreto Optatam totius sulla formazione sacerdotale, la Congregazione per l’Educazione Cattolica ha pubblicato diversi documenti per promuovere un’adeguata formazione integrale dei futuri sacerdoti, offrendo orientamenti e norme precise circa suoi diversi aspetti. Nel frattempo anche il Sinodo dei Vescovi del 1999 ha riflettuto sulla formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali, con l’intento di portare a compimento la dottrina conciliare su questo argomento e di renderla più esplicita ed incisiva nel mondo contemporaneo. In seguito a questo Sinodo, Giovanni Paolo II pubblicò l’Esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis. Alla luce di questo ricco insegnamento, la presente Istruzione non intende soffermarsi su tutte le questioni di ordine affettivo o sessuale che richiedono un attento discernimento durante l’intero periodo della formazione. Essa contiene norme circa una questione particolare, resa più urgente dalla situazione attuale, e cioè quella dell’ammissione o meno al Seminario e agli Ordini sacri dei candidati che hanno tendenze omosessuali profondamente radicate. l. Maturità affettiva e paternità spirituale : Secondo la costante Tradizione della Chiesa, riceve validamente la sacra Ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile. (4) Per mezzo del sacramento dell’Ordine, lo Spirito Santo configura il candidato, ad un titolo nuovo e specifico, a Gesù Cristo: il sacerdote, infatti, rappresenta sacramentalmente Cristo, Capo, Pastore e Sposo della Chiesa. (5) A causa di questa configurazione a Cristo, tutta la vita del ministro sacro deve essere animata dal dono di tutta la sua persona alla Chiesa e da un’autentica carità pastorale. Il candidato al ministero ordinato, pertanto, deve raggiungere la maturità affettiva. Tale maturità lo renderà capace di porsi in una corretta relazione con uomini e donne, sviluppando in lui un vero senso della paternità spirituale nel confronti della comunità ecclesiale che gli sarà affidata. 2. L’omosessualità e il ministero ordinato : Dal Concilio Vaticano Il ad oggi, diversi documenti del Magistero - e specialmente il Catechismo della Chiesa Cattolica - hanno confermato l’insegnamento della Chiesa sull’omosessualità. Il Catechismo distingue fra gli atti omosessuali e le tendenze omosessuali. Riguardo agli atti, insegna che, nella Sacra Scrittura, essi vengono presentati come peccati gravi. La Tradizione li ha costantemente considerati come intrinsecamente immorali e contrari alla legge naturale. Essi, di conseguenza, non possono essere approvati in nessun caso. Per quanto concerne le tendenze omosessuali profondamente radicate, che si riscontrano in un certo numero di uomini e donne, sono anch’esse oggettivamente disordinate e sovente costituiscono, anche per loro, una prova. Tali persone devono essere accolte con rispetto e delicatezza; a loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Esse sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita e a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare. Alla luce di tale insegnamento, questo Dicastero, d’intesa con la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ritiene necessario affermare chiaramente che la Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay. Le suddette persone si trovano, infatti, in una situazione che ostacola gravemente un corretto relazionarsi con uomini e donne. Non sono affatto da trascurare le conseguenze negative che possono derivare dall’Ordinazione di persone con tendenze omosessuali profondamente radicate. Qualora, invece, si trattasse di tendenze omosessuali che fossero solo l’espressione di un problema transitorio, come, ad esempio, quello di un’adolescenza non ancora compiuta, esse devono comunque essere chiaramente superate almeno tre anni prima dell’Ordinazione diaconale. 3. Il discernimento dell’idoneità dei candidati da parte della Chiesa: Due sono gli aspetti indissociabili in ogni vocazione sacerdotale: il dono gratuito di Dio e la libertà responsabile dell’uomo. La vocazione è un dono della grazia divina, ricevuto tramite la Chiesa, nella Chiesa e per il servizio della Chiesa. Rispondendo alla chiamata di Dio, l’uomo si offre liberamente a Lui nell’amore. Il solo desiderio di diventare sacerdote non è sufficiente e non esiste un diritto a ricevere la sacra Ordinazione. Compete alla Chiesa - nella sua responsabilità di definire i requisiti necessari per la ricezione dei Sacramenti istituiti da Cristo - discernere l’idoneità di colui che desidera entrare nel Seminario, accompagnarlo durante gli anni della formazione e chiamarlo agli Ordini sacri, se sia giudicato in possesso delle qualità richieste. La formazione del futuro sacerdote deve articolare, in una complementarità essenziale, le quattro dimensioni della formazione: umana, spirituale, intellettuale e pastorale. In questo contesto, bisogna rilevare la particolare importanza della formazione umana, fondamento necessario di tutta la formazione. Per ammettere un candidato all’Ordinazione diaconale, la Chiesa deve verificare, tra l’altro, che sia stata raggiunta la maturità affettiva del candidato al sacerdozio. La chiamata agli Ordini è responsabilità personale del Vescovo o del Superiore Maggiore. Tenendo presente il parere di coloro al quali hanno affidato la responsabilità della formazione, il Vescovo o il Superiore Maggiore, prima di ammettere all’Ordinazione il candidato, devono pervenire ad un giudizio moralmente certo sulle sue qualità. Nel caso di un dubbio serio al riguardo, non devono ammetterlo all’Ordinazione. Il discernimento della vocazione e della maturità del candidato è anche un grave compito del rettore e degli altri formatori del Seminario. Prima di ogni Ordinazione, il rettore deve esprimere un suo giudizio sulle qualità del candidato richieste dalla Chiesa. Nel discernimento dell’idoneità all’Ordinazione, spetta al direttore spirituale un compito importante. Pur essendo vincolato dal segreto, egli rappresenta la Chiesa nel foro interno. Nei colloqui con il candidato, il direttore spirituale deve segnatamente ricordare le esigenze della Chiesa circa la castità sacerdotale e la maturità affettiva specifica del sacerdote, nonché aiutarlo a discernere se abbia le qualità necessarie. Egli ha l’obbligo di valutare tutte le qualità della personalità ed accertarsi che il candidato non presenti disturbi sessuali incompatibili col sacerdozio. Se un candidato pratica l’omosessualità o presenta tendenze omosessuali profondamente radicate, il suo direttore spirituale, così come il suo confessore, hanno il dovere di dissuaderlo, in coscienza, dal procedere verso l’Ordinazione. Rimane inteso che il candidato stesso è il primo responsabile della propria formazione. Egli deve offrirsi con fiducia al discernimento della Chiesa, del Vescovo che chiama agli Ordini, del rettore del Seminario, del direttore spirituale e degli altri educatori del Seminario ai quali il Vescovo o il Superiore Maggiore hanno affidato il compito di formare i futuri sacerdoti. Sarebbe gravemente disonesto che un candidato occultasse la propria omosessualità per accedere, nonostante tutto, all’Ordinazione. Un atteggiamento così inautentico non corrisponde allo spirito di verità, di lealtà e di disponibilità che deve caratterizzare la personalità di colui che ritiene di essere chiamato a servire Cristo e la sua Chiesa nel ministero sacerdotale. Conclusione : Questa Congregazione ribadisce la necessità che i Vescovi, i Superiori Maggiori e tutti i responsabili interessati compiano un attento discernimento circa l’idoneità dei candidati agli Ordini sacri, dall’ammissione nel Seminario fino all’Ordinazione. Questo discernimento deve essere fatto alla luce di una concezione del sacerdozio ministeriale in concordanza con l’insegnamento della Chiesa. I Vescovi, le Conferenze Episcopali e i Superiori Maggiori vigilino perché le norme di questa Istruzione siano osservate fedelmente per il bene dei candidati stessi e per garantire sempre alla Chiesa dei sacerdoti idonei, veri pastori secondo il cuore di Cristo. Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, in data 31 agosto 2005, ha approvato la presente Istruzione e ne ha ordinato la pubblicazione. Roma, il 4 novembre 2005, Memoria di S. Carlo Borromeo, Patrono del Seminari. ZENON Card. GROCHOLEWSKI, Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica.
Oggi è possibile una scienza aperta alla trascendenza assicura Benedetto XVI visitando l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Visitando questo venerdì l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Benedetto XVI ha assicurato che nel XXI secolo è possibile una scienza aperta alla trascendenza, capace di rispondere alle grandi domande dell’essere umano. E’ questo il compito che il Pontefice ha presentato ad ogni università che si consideri “cattolica” nel discorso che rivolto al corpo docente e agli alunni di questa istituzione, che in Italia ha cinque sedi (quella centrale è a Milano), quattordici facoltà e circa 40.000 studenti. Analizzando questi numeri, il Vescovo di Roma ha esclamato: “Quale responsabilità! Migliaia e migliaia di giovani passano dalle aule”. “Come ne escono? Quale cultura hanno incontrato, assimilato, elaborato?”, si è chiesto. Per il Papa, ogni Università cattolica deve essere “un grande laboratorio in cui, secondo le diverse discipline, si elaborano sempre nuovi percorsi di ricerca in un confronto stimolante tra fede e ragione che mira a ricuperare la sintesi armonica raggiunta da Tommaso d’Aquino e dagli altri grandi del pensiero cristiano”. Questa sintesi, ha riconosciuto, è “contestata purtroppo da correnti importanti della filosofia moderna”. “La conseguenza di tale contestazione è stata che come criterio di razionalità è venuto affermandosi in modo sempre più esclusivo quello della dimostrabilità mediante l’esperimento”. “Le questioni fondamentali dell’uomo – come vivere e come morire – appaiono così escluse dall’ambito della razionalità e sono lasciate alla sfera della soggettività. Di conseguenza scompare, alla fine, la questione che ha dato origine all’università – la questione del vero e del bene – per essere sostituita dalla questione della fattibilità”. Ecco allora, ha proseguito il Pontefice, “la grande sfida delle Università cattoliche: fare scienza nell’orizzonte di una razionalità vera, diversa da quella oggi ampiamente dominante, secondo una ragione aperta alla questione della verità e ai grandi valori iscritti nell’essere stesso, aperta quindi al trascendente, a Dio”. Il Papa ha affermato che il cristiano sa che questa sfida è possibile, perché “il logos divino, la ragione eterna, è all’origine dell’universo e in Cristo si è unito una volta per sempre all’umanità, al mondo e alla storia”. “Alla luce di questa capitale verità di fede e al tempo stesso di ragione è nuovamente possibile, nel 2000, coniugare fede e scienza. Su questa base, vorrei dire, si svolge il lavoro quotidiano di una Università cattolica”. “Non è un’avventura entusiasmante?”, ha chiesto. “Sì, lo è perché, muovendosi all’interno di questo orizzonte di senso, si scopre l’intrinseca unità che collega i diversi rami del sapere: la teologia, la filosofia, la medicina, l’economia, ogni disciplina, fino alle tecnologie più specializzate, perché tutto è collegato”, ha risposto. “Scegliere l’Università cattolica significa scegliere questa impostazione che, malgrado gli inevitabili limiti storici, qualifica la cultura dell’Europa, alla cui formazione, non per nulla, le Università nate storicamente ex corde Ecclesiae [dal cuore della Chiesa ndr.] hanno dato un apporto fondamentale”, ha affermato. Nel campus dell’Università del Sacro Cuore di Roma si trova il Policlinico “Agostino Gemelli”, l’ospedale in cui è stato ricoverato per ben nove volte Giovanni Paolo II.
La visione cristiana dell’uomo secondo l’Arcivescovo di Bologna Lezione di monsignor Carlo Caffarra all’Università Alma Mater Il tema della visione cristiana dell’uomo è stato oggetto della lezione che monsignor Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, ha tenuto ai docenti dell’Università di questa città, l’Alma Mater Studiorum, giovedì 24 novembre. E’ il 21° anno che l’Arcivescovo di Bologna viene invitato a tenere lezione ai docenti dell’Alma Mater, ed il secondo per monsignor Carlo Caffarra. L’anno scorso, l’Arcivescovo di Bologna aveva affrontato la questione della libertà umana nella concezione cristiana. Scopo delle tre lezioni che compongono il ciclo, è quello di rispondere alla domanda: quale visione dell’uomo è veicolata nella fede cristiana? Monsignor Caffarra (vedi foto) ha esordito spiegando che le ragioni che hanno indotto a trattare questo tema sono principalmente due: “La prima è che la ‘quaestio de homine’ costituisce ormai il nodo centrale di tutto il dibattito contemporaneo. Una centralità non ultimamente dovuta al fatto che l’uomo oggi ha acquisito un potere tale di ridefinire l’humanum”. La seconda ragione è quella di “proporre una base di incontro fra ragione e fede, fra chi non va oltre all’uso della ragione nella ricerca della verità sull’uomo e chi accoglie anche la luce della Rivelazione divina”, ha continuato. Dal punto di vista antropologico, l’Arcivescovo di Bologna ha affermato che esiste una sorta di “magna charta humanitatis”, una pagina cioè che lungo i secoli ha ispirato e come nutrito la riflessione dell’uomo sull’uomo. È il capitolo secondo del libro della Genesi: più precisamente dal v. 15 alla fine. Una lettura attenta della pagina biblica, ha continuato monsignor Caffarra, permettere di verificare che la visione dell’uomo in essa presentata sussiste in tre convinzioni di fondo: “l’uomo è posto in un rapporto dialogico col Signore Iddio; l’uomo è diverso dagli animali ed è più che gli animali; l’uomo è costitutivamente sociale”. “Il rapporto fra l’uomo e Dio è istituito da un atto sovrano del Signore, ma che chiede all’uomo una risposta libera – ha detto –. È abbozzata così la dimensione religiosa della persona come dimensione originaria, costitutiva dell’umanità dell’uomo”. “Il rapporto fra l’uomo e la ‘natura’ è tale che l’uomo non è pienamente riducibile alla natura medesima – ha poi precisato l’Arcivescovo –. La persona umana appare nell’universo della natura in una solitudine originaria, dovuta al fatto di non trovare nulla di simile a lui. L’uomo è qualcosa di unico!” La condizione di originaria solitudine non è una condizione buona. Da essa l’uomo esce originariamente nell’incontro con l’altro, ha quindi affermato. Nel presentare l’idea di persona come chiave di volta di tutta la visione cristiana dell’uomo, Caffarra ha indicato almeno cinque ragioni che rendono particolarmente urgente una rigorosa riflessione sul concetto di persona. “Una vera filosofia della persona è la sola via per non naufragare dentro a quel riduzionismo materialista che oggi sembra dominare la visione occidentale dell’uomo”, ha sottolineato. “Solo una visione chiara dell’essere personale consente all’uomo di vedere il vertice dell’universo dell’essere, il suo punto più alto; non si può essere più che persona, ma si può essere solamente meno che persona”, ha detto. Secondo l’Arcivescovo di Bologna “chi non ha il concetto di persona si preclude la visione della parte più bella dell’universo”. Caffarra ha quindi affermato che “una visione ed una filosofia della persona è il fondamento dell’etica. La persona non deve mai essere trattata solo come un mezzo, ma anche come fine in se stesso. Etica e bioetica senza il concetto di persona sono costruzioni molto fragili”. In quarto luogo, ha sottolineato il prelato “è l’idea di persona che alla fine scrimina una religione ragionevole da una religione perennemente insidiata dalla superstizione. Un Dio non personale denota piuttosto ‘il divino’, col quale seriamente è impossibile istituire un rapporto vero e proprio. Dio è persona in grado eminente”. Infine, ha sostenuto Caffarra, “se l’uomo non fosse persona tutta la serietà del cristianesimo sarebbe distrutta. Se dal discorso cristiano scompare la categoria del ‘singolo’, è tutto il discorso cristiano che perde senso. Scomparsa l’idea di persona, il cristianesimo diventa un mito, e neanche dei migliori”. L’Arcivescovo di Bologna ha quindi concluso affermando che “È pacificamente ammesso da tutti gli storici delle idee che la nozione di persona, e la definizione di uomo in termini personalistici è stata opera del cristianesimo. Ed è inoltre ben noto che anche oggi quella nozione e definizione è assente dalle culture che non hanno ancora avuto un incontro profondo colla proposta cristiana”.
Romania: dopo 58 anni, i greco-cattolici recuperano una loro Cattedrale Da domenica scorsa la Cattedrale rumena di Oradea è tornata ai cattolici di rito orientale dopo essere stata per quasi 60 anni proprietà della Chiesa Ortodossa. La restituzione della Cattedrale di San Nicola ai cattolici di rito orientale (greco-cattolici) è avvenuta domenica 20 novembre, alla vigilia della festa della presentazione al tempio della beata Vergine Maria. “Tutti noi che siamo stati qui, oggi, abbiamo scritto una pagina di storia. Abbiamo celebrato insieme Patriarchi, Metropoliti, Vescovi cattolici e ortodossi per una maggiore gloria di Dio “, ha detto monsignor Virgil Bercea, Vescovo greco-cattolico di Oradea. La costruzione della Cattedrale era stata cominciata dal Vescovo greco-cattolico Ignatie Darabant e finita dal Vescovo Samuil Vulcan (dello stesso rito) nel 1810. Durante il regime comunista la Cattedrale insieme con altri beni mobili e immobili sono state espropriate dallo Stato e diventate proprietà della Chiesa Ortodossa, la Chiesa statale in Romania. Dopo il 1989 – la caduta del Muro di Berlino – la Chiesa greco-cattolica ha cominciato le trattative per riprendere il possesso dei suoi beni. Alla cerimonia di restituzione erano presenti: il Vescovo di Oradea, monsignor Virgil Bercea (vedi foto); il Nunzio Apostolico in Romania, l’Arcivescovo Jean-Claude Périsset; il Vescovo ortodosso Ioan Mihaltan, di Oradea, Bihor e Salaj; il Patriarca greco-cattolico di Ucraina, il Cardinale Lubomyr Husar; Adrian Lemeni, responsabile governativo per i culti; e 17 Vescovi cattolici (latini e orientali) rumeni e stranieri, 120 sacerdoti, diversi rappresentanti delle istituzioni locali e migliaia di fedeli. Nel sottolineare l’importanza del dialogo tra ortodossi e greco-cattolici, il Vescovo Bercea ha detto: “Voglio ringraziare i preti e i seminaristi, i nostri cari fedeli che oggi, venendo alla Cattedrale mi hanno fatto piangere insieme con loro”. “Ma sono state lacrime di gioia, ha concluso, e queste lacrime, le vostre e le mie, ci aiuteranno con certezza a lavare tutto ciò che è stato di male fra noi, così che fra gli ortodossi e i greco-cattolici trionfino solo l’amore, la buona volontà e il perdono”.
Il Rettore del Pontificio Istituto Liturgico di Sant’Anselmo, spiega il significato di uno dei segni caratteristici che simboleggiano le quattro settimane del tempo liturgico di Avvento. “La corona d’Avvento deve avere quattro candele viola e senza fiori, ed essere collocata vicino l’altare”, chiarisce il monaco benedettino del Monastero di Santo Domingo de Silos in Spagna, Juan Javier Flores Arcas (vedi foto), Rettore del Pontificio Istituto Liturgico dell’Ateneo Sant’Anselmo di Roma ed esperto di liturgia. Qual è il significato delle quattro candele della corona d’Avvento? Ogni tempo liturgico ha i propri segni che lo contraddistinguono. Anche l’Avvento ha i suoi. La corona d’Avvento ha origine nel Nord d’Europa, precisamente in Scandinavia, e negli ultimi anni è entrata con forza nelle nostre comunità cristiane. Essa consiste in un supporto circolare rivestito di rami verdi (senza fiori) sul quale vengono collocate quattro candele (il colore viola sarebbe quello più appropriato). Queste candele simboleggiano le quattro settimane del tempo d’Avvento e vengono accese una ogni domenica. La corona deve essere collocata in un luogo visibile del presbiterio, vicino all’altare e vicino al pulpito, su un tavolino o su un tronco d’albero, o pendente dal soffitto. Oltre a questo luogo specifico della Chiesa, la corona può essere collocata ad esempio come centro tavola in un ambiente domestico? Nei Paesi tedeschi si è soliti anche portarla a casa e collocarla in luoghi particolari per significare l’attesa del Messia. In questo modo la celebrazione liturgica entra nel quotidiano, nella vita familiare, nelle abitudini domestiche e impregna di senso cristiano e di sapore messianico tutta la vita del cristiano. In che modo la venuta di Gesù Cristo può essere intesa, anno dopo anno, sempre come una novità? La venuta di Cristo è antica ed è al contempo nuova. È un fatto del passato che si attualizza nella celebrazione liturgica. La Chiesa è anzitutto la sposa di Cristo, unico sommo sacerdote. In questo senso la Chiesa è colei che riceve i sacramenti e non quella che li produce o li crea. La Chiesa rielabora i sacramenti come collaboratrice dello sposo dal quale riceve la vita e tutto ciò che le serve per agire. Per questo, il senso e il fine della celebrazione liturgica è precisamente quello di rendere attivamente partecipe tutte le generazioni all’opera salvifica di Cristo. Nel tempo dell’Avvento, l’opera della salvezza si esprime in modo escatologico. Si tratta del Cristo Giudice, Signore e Re, che verrà alla fine dei tempi. È il Cristo nella sua Maestà dei grandi mosaici delle Cattedrali italiane: Cefalú, Monreale, Palermo... Il mistero del culto liturgico rende possibile che l’eternità irrompa nella temporalità, perché il mistero originario giunga ad essere celebrato e la salvezza scaturente dall’azione salvifica passata raggiunga ogni generazione. Pertanto le Scritture, la liturgia e i Padri annunciano sempre la morte del Signore, certamente come morte salvifica, come nucleo centrale del mistero del culto: “mortis Dominicae mysteria”. La morte ha come conseguenza la vita di Cristo e, nello stesso modo - dirà il liturgista Odo Casel - in cui accediamo a Gesù Cristo attraverso il Gesù storico, così anche, attraverso la morte, arriviamo alla Resurrezione. L’azione salvifica di Cristo ci conduce alla sua Pasqua e il suo Spirito ci consente di partecipare ad essa ed essere trasformati dalla stessa Pasqua di Cristo morto e risorto, per passare così alla vita e alla vita eterna. “Cristo agisce veramente nei sacramenti come il sommo sacerdote della sua Chiesa, liberandola attraverso la sua azione salvifica e conducendola alla vita”, diceva Odo Casel. Il tempo dell’Avvento conduce la Chiesa alla soglia della sua esistenza, e in questo senso la principale caratteristica dell’Avvento dell’anno 2005 dovrebbe essere la speranza. Lo abbiamo ascoltato la prima domenica: “fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!”. Siamo chiamati a realizzare pienamente il piano che Dio ha su tutti e ciascuno di noi. Ce lo ricorda l’Avvento che plasmando il presente ci presenta il futuro. Che particolarità liturgica evidenzierebbe l’Avvento? L’Avvento è un tempo reale e attuale. Mentre ascoltiamo le profezie ancora non realizzate, vediamo passare il mondo davanti ai nostri occhi e aneliamo a quel mondo che verrà e che già cominciamo a vivere e a preparare nel presente. Mentre speriamo in un domani felice e agognato, lavoriamo nel presente attuale e pieno di speranza, e guardiamo al passato (venuta di Cristo nella carne mortale) e gioiamo per aver avuto tra noi il Messia, fortificandoci nella carne che è stata la sua e che pertanto è piena della forza salvifica che egli vi ha infuso. L’Avvento è tempo reale e presente in cui, esplorando nel passato messianico, siamo lanciati verso il futuro profetico. In tutto questo è presente la Santa Trinità: il Padre che crea, il Figlio che viene in questo mondo a ricrearlo e lo Spirito Santo che lo santifica e lo unisce nell’amore”.
Gli esami sulla Sindone vanno ripetuti e allargati così propone in una intervista padre Gianfranco Berbenni, il padre francescano da trenta anni studioso della Sindone, nonché titolare di un corso di sindonologia alla Pontificia Università Lateranense. Lo studioso ha sostenuto che le analisi sulla datazione al radiocarbonio del famoso telo di lino su cui è impressa l’immagine di un uomo crocifisso, andrebbero ripetute. Secondo l’esperto sindonologo andrebbero effettuati anche i tanti esami scientifici che erano stati previsti prima della datazione con il carbonio 14 radioattivo (C-14). Nel corso di una conferenza su la “Sindone e la scienza”, svoltasi martedì 29 novembre presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, nell’ambito del Master in Scienza e Fede, Berbenni ha spiegato che il programma iniziale di analisi presentato nel 1984 all’Arcivescovo di Torino, il Cardinale Anastasio Ballestrero, comprendeva 26 nuovi progetti di indagine sul telo, tra cui quello del C-14. Successivamente, tra il 1984 e il 1988, furono fatte molte pressioni affinché dei 26 proposti quello del C-14 fosse l’unico esame. Come è noto i risultati dell’esame con il metodo C-14 resi noti il 13 ottobre del 1988, datarono la Sindone tra la metà del XIII e la fine del XIV secolo. Alla domanda su cosa pensasse dell’analisi carbonica del telo sindonico, padre Berbenni ha risposto: “L’analisi del C-14 va rifatta, come ogni analisi scientifica seria. Tra l’altro era già previsto, c’era già l’intenzione di fare un doppio turno di analisi, chiaramente con più confronti ed è possibile perché il tessuto era doppio e la metà è ancora a disposizione del Cardinale di Torino” Ma chi è l’uomo della Sindone? Non c’è dubbio che sia Gesù, ed è dimostrato da tutta una serie di dati, di analisi e di coincidenze. Mentre l’impronta delle monete sugli occhi, è poco affidabile, ci sono elementi certi come l’analisi del sangue, le antropometrie, i confronti macroscopici con i Vangeli, che basterebbero a dare molta affidabilità. Cosa ci dice l’impronta dell’uomo crocifisso che è stato avvolto nella Sindone? Attraverso la Sindone, si può vivere oggi a livello reale quello che è accaduto in quell’epoca. Si può leggere nella Sindone l’orrore e la bellezza di quelle vicende straordinarie. Nella Sindone c’è tutta la storia, dalla flagellazione, alla coronazione, dalla Via Crucis alla crocifissione, fino alla deposizione. Attraverso l’utilizzo delle moderne tecnologie è possibile vedere la storia di quell’uomo come un film. Attraverso la Sindone si può ricostruire e leggere quella storia Qual è il significato spirituale di questa vicenda? Se lei vede in quei segni impressi sulla Sindone la persona del Crocifisso, e riflette sulle funzioni che lui diceva di avere, non può che esserci una esplosione di incredulità. Fino a prima della datazione con il C-14, la Sindone era la prova riconosciuta della realtà di Gesù, e stava avendo un successo strepitoso in tutto il mondo ed in tutti gli ambienti. Un fenomeno di attenzione e stupore che si mantiene, nonostante la secolarizzazione ed i tentativi di descrivere la Sindone come un falso. Come dimostrato dall’ultima ostensione. Nel corso della lezione lei ha annunciato la pubblicazione di un libro molto importante… Si, si tratta del volume intitolato “Il Giorno più Lungo”, pubblicato dalla Fondazione 3M, come strenna natalizia e che sarà disponibile in libreria da gennaio 2006. Il libro contiene diversi interventi tra cui quello di Luigi Gonella, professore del Politecnico di Torino. All’epoca dei fatti, il Cardinale Ballestrero chiese la consulenza scientifica del Politecnico di Torino, e fu scelto il professor Gonella uno specialista che allora ricopriva la cattedra di Strumentazione Fisica. Dopo tanti anni il professor Gonella racconta per la prima volta, la storia degli avvenimenti connessi alla datazione della Sindone, chiarendo i complessi accadimenti, le storie irresponsabili, spesso distorte dalla realtà, che hanno circondato la datazione al radiocarbonio del Telo custodito a Torino”.
Il destino dei bambini morti senza Battesimo: il parere di alcuni teologi Tema oggetto di discussione nella sessione plenaria della Commissione Teologica Internazionale a Roma. Dal 28 novembre al 2 dicembre è in svolgimento la Sessione Plenaria della Commissione Teologica Internazionale. Tra i vari argomenti trattati, figura la sorte dei bambini morti prima di aver ricevuto il Battesimo. La Sessione Plenaria ha luogo nella “Casa Santa Marta” in Vaticano sotto la presidenza di monsignor Joseph Levada, che ha sostituito il Cardinale Joseph Ratzinger nell’incarico di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ed è quindi per statuto nuovo Presidente della Commissione. I lavori dell’assemblea sono diretti da padre Luis Ladaria S.I., Segretario Generale. Secondo quanto afferma una nota distribuita dalla Sala Stampa vaticana, “in conformità con quanto deciso l’anno scorso circa la programmazione del lavoro dell’attuale quinquennio, il primo tema all’attenzione sarà la sorte dei bambini morti senza Battesimo, nel contesto del disegno salvifico universale di Dio, dell’unicità della mediazione di Cristo e della sacramentalità della Chiesa in ordine alla salvezza”. A questo proposito, si sottolinea, “verrà esaminata una prima bozza di Documento”. Si preparerà poi l’iter di studio degli altri due temi scelti come argomenti di discussione nel quinquennio 2004-2008: “l’identità della natura e del metodo della teologia come scientia fidei e l’approfondimento dei fondamenti della legge morale naturale, nella linea dell’insegnamento delle Lettere Encicliche di Giovanni Paolo II Veritatis splendor e Fides et ratio”. Commentando in una intervista al quotidiano “La Stampa” (29 novembre 2005) la questione del destino dei bambini morti senza Battesimo, il Cardinale Georges-Marie Cottier, fino a questo giovedì Teologo della Casa Pontificia, ha affermato che si tratta di “un bel problema” di cui il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica parla “in maniera molto generale”, sostenendo che la Chiesa non può far altro che affidare questi bambini alla misericordia divina. “La grande misericordia di Dio, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati, e la tenerezza di Gesù verso i bambini” “consentono di sperare che vi sia una via di salvezza per i bambini morti senza Battesimo”, ha spiegato. Il porporato ha osservato che molti bambini muoiono perché sono “vittime del male attuale”: “la fame nel mondo, per esempio e molte malattie vengono da un disordine sociale enorme, e dalla miseria. E non parliamo dei frutti dell’aborto, e di tutto questo... Questa è un pista sulla quale c’è molto da riflettere”. “Sono vittime del peccato, non muoiono di una morte naturale, come noi a una certa età, dopo che ci siamo spesi in tutta una vita”, ha aggiunto. Il problema fondamentale, ha constatato il Cardinale, è che “il Battesimo è necessario per la salvezza”. “Allora, che cosa succede di loro?”, si è chiesto, rispondendo che già Sant’Agostino poneva il problema e che San Tommaso “ha fatto un grande passo, trattando della beatitudine che potrebbe avere l’uomo anche se non fosse elevato al mondo della grazia”. “Il Battesimo è comunque di necessità – ha proseguito –. E’ lì il problema. Però si apre allora un altro problema: molte famiglie ignorano il problema del Battesimo, e se non battezzano non è certo colpa dei bambini! E neanche colpa dei genitori, se ignorano la necessità del Battesimo. E’ il problema collegato al mondo attuale, dove la maggioranza degli abitanti del pianeta non è neanche cristiana”. Quello in questione è dunque “un campo pieno di interrogativi”, ha affermato il Cardinal Cottier, sottolineando che “noi pensiamo che Dio vuole la salvezza di tutti, e che c’è la bontà infinita di Dio”. Per avere “un quadro completo”, ha suggerito, bisogna mettere insieme tutti questi elementi e il fatto che “la passione di Cristo ha salvato tutti gli uomini, e i frutti della redenzione sono universali”. Sulla questione relativa ai bambini morti senza aver ricevuto il Battesimo ha parlato anche l’Arcivescovo Joseph Levada, nel suo indirizzo di saluto a Benedetto XVI, durante l’udienza concessa questo giovedì dal Papa ai partecipanti alla Plenaria della Commissione Teologica Internazionale. Stando alla sintesi offerta dalla “Radio Vaticana”, monsignor Levada ha osservato che “nell’odierna stagione di relativismo culturale e di pluralismo religioso il numero dei bambini non battezzati aumenta considerevolmente”. La Chiesa, ha aggiunto, sa che la salvezza “è unicamente raggiungibile in Cristo per mezzo dello Spirito”, ma “non può rinunciare a riflettere, in quanto madre e maestra, sulla sorte di tutti gli uomini creati ad immagine di Dio, e in modo particolare dei più deboli e di coloro che non sono ancora in possesso dell’uso della ragione e della libertà”. “La discussione in questo ambito è stata molto proficua e si può ben sperare che in tempi ragionevolmente brevi lo studio intrapreso dalla Commissione Teologica avrà esito positivo anche in vista della eventuale pubblicazione di un Documento al riguardo”, ha osservato Levada. In una intervista rilasciata alla emittente pontificia, il padre gesuita Luís Ladaria, Segretario Generale della Commissione Teologica Internazionale, ha affermato che sulla questione “non c’è una definizione dogmatica, non c’è una dottrina cattolica che sia vincolante”. “Noi sappiamo che per molti secoli si è pensato che questi bambini andavano al Limbo, dove godevano di una felicità naturale, ma non avevano la visione di Dio. Questa credenza, oggi, dai recenti sviluppi non soltanto teologici, ma anche magisteriali, è in crisi. Noi, dunque, stiamo adesso studiando questo problema sapendo che è un punto sul quale un pronunciamento definitivo non c’è stato”, ha spiegato. A questo proposito, bisogna “evidentemente” “partire dal fatto che Dio vuole la salvezza di tutti e non vuole escludere nessuno”, e che “Cristo è morto per tutti gli uomini e che la Chiesa è un Sacramento universale di salvezza, come insegna il Concilio Vaticano II”.
Ecco cosa si sono detti Oriana Fallaci e il papa Benedetto XVI Nel discorso pronunciato a New York il 29 novembre a commento del premio Annie Taylor a lei conferito, Oriana Fallaci (vedi foto) ha dedicato due passaggi a Benedetto XVI. Nel primo passaggio ha ricordato “la privatissima udienza” da lei avuta lo scorso 1 agosto, a Castel Gandolfo, col papa: “un papa che ama il mio lavoro da quando ha letto ‘Lettera a un bambino mai nato’ e che io profondamente rispetto da quando leggo i suoi libri intelligenti. Di più, un papa col quale mi capita di essere d’accordo in molte occasioni. Per esempio quando egli scrive che l’Occidente ha sviluppato una sorta di odio di sé, che non solo non si ama più, ma ha perso la sua spiritualità e rischia di perdere anche la sua identità. (Esattamente ciò che io ho scritto quando ho scritto che l’Occidente è malato di un cancro morale e intellettuale. In realtà lo noto spesso: ‘Se un papa e un’atea dicono la stessa cosa, in questa cosa ci deve essere qualcosa di fortemente attuale’). Nuova parentesi: io sono atea, sì. Un’atea-cristiana, come spesso sottolineo, ma un’atea. E papa Ratzinger lo sa molto bene: in ‘La forza della ragione’ io dedico un intero capitolo a spiegare l’apparente paradosso di questa autodefinizione. Ma sapete che cosa dice il papa ad atei come me? Dice: ‘Okay (l’okay è mio, naturalmente), allora veluti si Deus daretur. Comportati come se Dio esista’. Parole da cui si deduce che nella comunità religiosa c’è gente più aperta e intelligente che nella comunità laica alla quale appartengo. Persone così aperte e così intelligenti che neppure provano, neppure sognano, di salvare la mia anima (intendo dire, di convertirmi). Questo è anche il motivo per cui io affermo che, nel vendersi all’islam teocratico, il mondo laico ha perso il più importante appuntamento offertogli dalla storia. E facendo così ha aperto un vuoto, un abisso, che solo lo spirituale può riempire. Questo è anche il motivo per cui nella Chiesa di oggi io vedo un inaspettato partner, un inaspettato alleato. In Ratzinger e in chiunque accetta la mia inquietante indipendenza di pensiero e di comportamento, io vedo un compagno di strada. Così ci siamo incontrati, questo intelligente, giusto, fine signore e io. Liberi da cerimoniali, formalità, a tu per tu nel suo studio di Castel Gandolfo conversammo per un po’. E questo incontro non professionale ci si aspettava che restasse segreto. Nella mia ossessione per la privacy io chiesi che fosse così. Ma le voci trapelarono lo stesso...”. Il secondo passaggio è il seguente: “Io non credo nel dialogo con l’islam. Perché sostengo che un simile dialogo è un monologo, un soliloquio nutrito dalla nostra ingenuità o inconfessata disperazione. (E perché su questo punto dissento fortemente da papa Ratzinger il quale insiste su questo monologo con disarmante speranza. Una volta ancora, Santo Padre: anche a me naturalmente piacerebbe un mondo dove tutti amano tutti e nessuno è nemico di nessuno. Ma il nemico è qui. E non ha nessuna intenzione di dialogare né con lei né con noi)”.
In India si riprende a far festa per la nascita di una bambina Questo, almeno, è il proposito congiunto del governo e della Chiesa. Ma la realtà è opposta. Infanticidio e aborto selettivo hanno fatto sparire 60 milioni di donne Il governo dell’India ha chiesto pubblicamente aiuto alla Chiesa cattolica per prevenire e diminuire gli aborti. Gli aborti che più preoccupano le autorità indiane sono quelli mirati a selezionare il sesso dei nascituri, eliminando le femmine. Dal 1994 vi sono norme che vietano tale selezione. Ma esse sono largamente aggirate. “Contro gli aborti selettivi possiamo combattere solo cambiando il modo di pensare della popolazione”, ha detto il ministro della salute e della famiglia, Anbumani Ramadoss, in un discorso a metà attobre. “E il cambio di mentalità può avvenire solo con l’aiuto di chi viene ascoltato, ovvero i leader religiosi. Entro novembre incontreremo tutti i leader religiosi a Delhi per pianificare un lavoro comune che interessi tutta l’India”. La Chiesa cattolica ha risposto positivamente all’invito. Intervistato da “Asia News”, il segretario della commissione salute della conferenza episcopale indiana, padre Alex Vadakumthala, ha detto: “Il ministro Ramadoss ha studiato in una scuola cristiana e ci conosce bene. Sinceramente apprezza l’impegno dei cattolici nel campo educativo, sanitario e sociale. Questo impegno è particolarmente sviluppato in Karnataka, Tamil Nadu, Kerala e Andhra Pradesh. Abbiamo 600 suore medici e già questa è una cosa unica in India. Le religiose operano quasi tutte nei villaggi, dove mancano ambulatori o dispensari. Naturalmente, abbiamo detto chiaro al governo che collaboriamo solo se vengono rispettate l’etica e la morale cattolica”. Nel suo ultimo rapporto sulla popolazione mondiale l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di demografia stima in 60 milioni le “missing girls”, le giovani donne dell’Asia che mancano nelle statistiche, gran parte delle quali in India. Ovunque nel mondo la media naturale dei concepimenti è di 103-107 femmine ogni 100 maschi. Ma quando si passa a contare i nati, in India le femmine risultano molte di meno. Nel 1981 c’erano in India 962 bambine sotto i 6 anni ogni 1000 maschi. Nel 1991, 945. E nel 2001, anno dell’ultimo censimento, 927. Se poi si guarda dove questo calo è più forte, si scopre che i numeri più bassi di bambine sono nelle città e negli stati relativamente più ricchi: Haryana, Gujarat e Punjab. Qui le bambine sono in media meno di 800 ogni 1000 maschi. Nella capitale, Delhi, le femmine sotto i 6 anni sono 821 contro 1000 maschi. Ma gli indici cambiano di molto se rapportati alle diverse religioni. Tra i cristiani le femmine sono 988, tra i jainisti 935, tra i sikh 829, tra gli induisti 817, tra i musulmani 782. Nell’insieme dell’India, tra i cristiani le bambine sono 964 ogni 1000 maschi, tra i musulmani 950, tra i buddisti 942, tra gli induisti 925, tra i jainisti 870, tra i sikh 786. A questo innaturale squilibrio contribuisce il fatto che la nascita di una bambina, a differenza di un maschio, è vissuta da molte famiglie indiane come un peso insopportabile, soprattutto per la costosissima dote che, secondo tradizione, dovrà accompagnare il suo matrimonio. Fino a qualche decennio fa l’infanticidio delle bambine era lo strumento più diffuso per liberarsi da questo peso. Anche oggi continua a essere praticato. Inoltre, le minori cure che si riservano alle bambine fanno sì che tra esse la mortalità infantile sia più alta che tra i maschi.Ma, dagli anni Ottanta, a questa tradizione di rifiuto delle bambine si è aggiunta la tecnologia. I test per individuare il sesso del nascituro sono sempre più diffusi e utilizzati, e consentono di anticipare l’infanticidio delle bambine a prima della nascita, con un numero massiccio di aborti selettivi. La legge consente ai medici di comunicare ai genitori solo le condizioni di salute del feto, non il suo sesso; ma il divieto è ovunque eluso, in cambio di denaro. Sull’equilibrio demografico gli effetti di queste “missing girls” sono pesantissimi. Milioni di giovani indiani restano senza una donna con cui creare una famiglia. “A nation without women”, una nazione senza donne: è il titolo di un film che comincia con una madre che annega la sua bambina appena nata in un secchio di latte. Anche i cristiani, sia pur meno che altri, risentono di questa tendenza generale. La Chiesa cattolica celebra da qualche anno, il 24 settembre, la Giornata della Bambina, ma riconosce d’essersi mossa con ritardo. “La ragione per cui siamo stati così a lungo inattivi è perché il fenomeno è di dimensioni gigantesche: lo sentivamo superiore alle nostre forze, come risolvere il problema della povertà”, ha detto Donald H. R. De Souza, vicesegretario generale della conferenza episcopale dell’India. Oggi, però, sia le autorità di governo che quelle religiose concordano nel correre ai ripari. Lo stato dell’Andhra Pradesh ha stanziato per ogni nuova nata una somma di 100.000 rupie, con cui essa pagherà gli studi e il cui rimanente sarà suo quando compirà 20 anni. L’Indian Medical Association ha lanciato un appello ai leader religiosi per fermare questo “silenzioso olocausto” di bambine. Nei giorni scorsi si è messa in moto una carovana di veicoli per attraversare il paese e risvegliare l’attenzione sul disastro demografico in atto. È guidata dal leader induista Swami Agnivesh: “Non c’è forma più dolorosa, abominevole e priva di pudore di questo aborto di massa”. Persino l’ONU – in genere impegnatissima a promuovere l’aborto “legale e sicuro” – ha fatto appello perché si ponga fine a questo aborto selettivo. Commenta Seema Sirohi, autorevole columnist del settimanale indiano “Outlook”, in un articolo apparso negli Stati Uniti su “The Christian Science Monitor”: “Sbaglia di grosso chi sostiene che le indiane che abortiscono i feti femmina esercitino una loro ‘libertà di scelta’. Una tipica donna indiana ha poca o nessuna libertà. Metà della sua vita è determinata dalle ristrettezze economiche, l’altra metà dalle regole patriarcali. Per essere accettata deve generare un figlio maschio. A differenza delle americane, le femministe indiane non si stanno battendo per difendere la legalità dell’aborto, visto che non c’è niente che la minacci. La battaglia qui consiste nel fare della nascita di una figlia un evento gioioso quanto la nascita di un maschio”. La nonna materna di Seema Sirohi, insolitamente autonoma rispetto agli standard dell’India, ebbe nove figli, dei quali uno solo era maschio. “Ma ricordo che mi raccontava ridendo di donne da lei conosciute che somministravano erbe avvelenate alle loro bambine. Ella trattò il suo unico figlio maschio come un’altra divinità dell’ampio pantheon degli dei da lei venerati. Lasciò ogni cosa, compresa la grande casa nella quale viveva, a suo figlio. E questi la cacciò pochi giorni dopo la morte del nonno. Nei suoi ultimi anni furono le figlie che si presero cura di lei, non il figlio maschio”. Seema Sirohi è sposata con un diplomatico americano, cattolico, Christopher Sandrolini, da quest’anno incaricato d’affari dell’ambasciata degli Stati Uniti presso la Santa Sede, a Roma. (Sandro Magister)
Il Predicatore del Papa: “La fede in Cristo oggi e all’inizio della Chiesa” Prima meditazione in preparazione al Natale, pronunciata venerdì mattina della I settimana di Avvento, di fronte al Santo Padre e ai suoi collaboratori della Curia, dal Predicatore della Casa Pontificia padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. (vedi foto). Le prossime avranno luogo il 9, 16 e 23 di dicembre e vi saranno (speriamo) puntualmente riportate in questa rubrica: «Santo Padre, due cose sento il bisogno di fare in questo momento: ringraziarla per la fiducia accordatami nel chiedermi di continuare nel mio incarico di Predicatore della Casa Pontificia ed esprimerle la mia totale obbedienza e fedeltà, come successore di Pietro. Credo che non ci sia un modo più bello di salutare l’inizio di un nuovo pontificato che quello di richiamare alla mente e cercare di riprodurre l’atto su cui Cristo fondò il primato di Pietro. Simone diventa Kefa, Roccia, nel momento in cui, per rivelazione del Padre, professa la sua fede nell’origine divina di Gesù. “ Su questa pietra – così sant’Agostino parafrasa le parole di Cristo - edificherò la fede che hai professato. Sul fatto che hai detto: ‘Tu sei il Cristo il Figlio del Dio vivente’, edificherò la mia Chiesa” [1]. Per questo ho pensato di scegliere “la fede in Cristo”, come tema della predicazione di Avvento. In questa prima meditazione vorrei cercare di delineare quella che mi sembra essere la situazione in atto nella nostra società circa la fede in Cristo e il rimedio che la Parola di Dio ci suggerisce per fronteggiarla. Nei successivi incontri mediteremo su cosa dice a noi oggi la fede in Cristo di Giovanni, di Paolo, del concilio di Nicea e la fede vissuta di Maria, sua Madre. 1. Presenza – assenza di Cristo Che ruolo ha Gesù nella nostra società e nella nostra cultura? Penso si possa parlare, a questo riguardo, di una presenza-assenza di Cristo. A un certo livello – quello dei mass-media in generale – Gesù Cristo è molto presente, addirittura una “Superstar”, secondo il titolo di un noto musical su di lui. In una serie interminabile di racconti, film e libri, gli scrittori manipolano la figura di Cristo, a volte sotto pretesto di fantomatici nuovi documenti storici su di lui. Il Codice Da Vinci è l’ultimo e più aggressivo episodio di questa lunga serie. È diventato ormai una moda, un genere letterario. Si specula sulla vasta risonanza che ha il nome di Gesù e su quello che egli rappresenta per larga parte dell’umanità per assicurarsi larga pubblicità a basso costo. E questo è parassitismo letterario. Da un certo punto di vista possiamo dunque dire che Gesù Cristo è molto presente nella nostra cultura. Ma se guardiamo all’ambito della fede, al quale egli in primo luogo appartiene, notiamo, al contrario, una inquietante assenza, se non addirittura rifiuto della sua persona. Anzitutto a livello teologico. Una certa corrente teologica sostiene che Cristo non sarebbe venuto per la salvezza degli Ebrei (ai quali basterebbe rimanere fedeli all’Antica alleanza), ma solo per quella dei gentili. Un’altra corrente sostiene che egli non sarebbe necessario neppure per la salvezza dei gentili, avendo questi, grazie alla loro religione, un rapporto diretto con il Logos eterno, senza bisogno di passare per il Verbo incarnato e il suo mistero pasquale. Viene da domandarsi per chi è ancora necessario Cristo! Più preoccupante ancora è ciò che si osserva nella società in genere, compresi coloro che si definiscono “credenti cristiani”. In cosa credono, in realtà, quelli che si definiscono “credenti” in Europa e altrove? Credono, il più delle volte, nell’esistenza di un Essere supremo, di un Creatore; credono che esiste un “aldilà”. Questa però è una fede deistica, non ancora una fede cristiana. Tenendo conto della famosa distinzione di Karl Barth, questa è religione, non ancora fede. Diverse indagini sociologiche rilevano questo dato di fatto anche in paesi e regioni di antica tradizione cristiana, come la regione in cui io stesso sono nato, nelle Marche. Gesù Cristo è in pratica assente in questo tipo di religiosità. Anche il dialogo tra scienza e fede, tornato ad essere così attuale, porta, senza volerlo, a una messa tra parentesi di Cristo. Esso ha infatti per oggetto Dio, il Creatore. La persona storica di Gesù di Nazaret non vi ha alcun posto. Succede lo stesso anche nel dialogo con la filosofia che ama occuparsi di concetti metafisici, più che di realtà storiche. Si ripete insomma, su scala mondiale, quello che avvenne all’Areopago di Atene, in occasione della predicazione di Paolo. Finché l’Apostolo parlò del Dio “che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene” e del quale “stirpe noi siamo”, i dotti ateniesi lo ascoltarono con interesse; quando iniziò a parlare di Gesù Cristo “risuscitato dai morti”, risposero con un educato “ti sentiremo su questo un’altra volta” (Atti 17, 22-32). Basta un semplice sguardo al Nuovo Testamento per capire quanto siamo lontani, in questo caso, dal significato originale della parola “fede” nel Nuovo Testamento. Per Paolo, la fede che giustifica i peccatori e conferisce lo Spirito Santo (Gal 3,2), in altre parole, la fede che salva, è la fede in Gesù Cristo, nel suo mistero pasquale di morte e risurrezione. Anche per Giovanni la fede “che vince il mondo” è la fede in Gesù Cristo. Scrive: “Chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? (1 Gv 5,4-5) Di fronte a questa nuova situazione, il primo compito è quello di fare, noi per primi, un grande atto di fede. “Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo” (Gv 16,33), ci ha detto Gesù. Non ha vinto solo il mondo di allora, ma il mondo di sempre, in ciò che ha in sé di refrattario e resistente al vangelo. Dunque, nessuna paura o rassegnazione. Mi fanno sorridere le ricorrenti profezie sull’inevitabile fine della Chiesa e del cristianesimo nella società tecnologica del futuro. Noi abbiamo una profezia ben più autorevole cui attenerci: “I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mt 24,35). Non possiamo però rimanere inerti; ci dobbiamo dare da fare per rispondere in modo adeguato alle sfide che la fede in Cristo affronta nel nostro tempo. Per ri-evangelizzare il mondo post-cristiano, è indispensabile, io credo, conoscere la via seguita dagli apostoli per evangelizzare il mondo pre-cristiano! Le due situazioni hanno molto in comune. Ed è questo che vorrei ora cercare di mettere in luce: come si presenta la prima evangelizzazione? Quale via seguì la fede in Cristo per conquistare il mondo? 2. Kerygma e didaché Tutti gli autori del Nuovo Testamento mostrano di presupporre l’esistenza e la conoscenza, da parte dei lettori, di una tradizione comune (paradosis) risalente al Gesù terreno. Questa tradizione presenta due aspetti, o due componenti: una componente chiamata “predicazione” , o annuncio (kerygma) che proclama ciò che Dio ha operato in Gesù di Nazaret, e una componente chiamata “ insegnamento” (didaché) che presenta norme etiche per un retto agire da parte dei credenti [2]. Varie lettere paoline riflettono questa ripartizione, perché contengono una prima parte kerigmatica, dalla quale discende una seconda parte di carattere parenetico, o pratico. La predicazione, o il kerygma, è chiamata 1’ “evangelo” [3]; l’insegnamento, o didaché, invece, è chiamato la “ legge” , o il comandamento, di Cristo, che si riassume nella carità [4]. Di queste due cose, la prima - il kerygma, o vangelo - è ciò che dà origine alla Chiesa; la seconda - la legge, o la carità - che scaturisce dalla prima, è ciò che traccia alla Chiesa un ideale di vita morale, che “ forma” la fede della Chiesa. In questo senso, l’Apostolo distingue la sua opera di “ padre” nella fede, nei confronti dei corinzi, da quella dei “ pedagoghi” venuti dopo di lui. Dice: “Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo” (1 Cor 4, 15 ). La fede, dunque, come tale, sboccia solo in presenza del kerygma, o dell’annuncio. “Come potranno credere - scrive l’Apostolo parlando della fede in Cristo -, senza averlo ascoltato? E come potranno ascoltarlo, senza che nessuno lo annunci?” (Rom 10,14). Alla lettera: “senza qualcuno che proclama il kerygma (choris keryssontos). E conclude: “La fede dipende dunque dall[‘ascolto dell]a predicazione” (Rom 10,17), dove per “predicazione” si intende la stessa cosa, e cioè il “vangelo” o il kerygma. Nel libro Introduzione al cristianesimo, il Santo Padre Benedetto XVI, allora professore di teologia, ha messo in luce le profonde implicazioni di questo fatto. Scrive: “Nella formula ‘la fede proviene dall’ascolto’…viene chiaramente messa a fuoco la distinzione fondamentale tra fede e filosofia…Nella fede si ha una precedenza della parola sul pensiero…Nella filosofia il pensiero precede la parola; essa è quindi un prodotto della riflessione, che poi si cerca di rendere a parole... La fede invece s’accosta sempre all’uomo dall’esterno…non è un elemento pensato dal soggetto, bensì a lui detto, che gli proviene sotto forma di non pensato e non pensabile, chiamandolo direttamente in causa e impegnandolo” [5]. La fede viene dunque dall’ascolto della predicazione. Ma qual è, esattamente, l’oggetto della “predicazione”? Si sa che sulla bocca di Gesù esso è la grande notizia che fa da sfondo alle sue parabole e da cui scaturiscono tutti i suoi insegnamenti: “È venuto a voi il Regno di Dio!”. Ma qual è il contenuto della predicazione sulla bocca degli apostoli? Si risponde: l’opera di Dio in Gesù di Nazaret! È vero, ma c’è qualcosa di ancora più ristretto, che è il nucleo germinativo di tutto e che, rispetto al resto, è come il vomere, quella specie di spada davanti all’aratro che rompe per primo il terreno e permette all’aratro di tracciare il solco e rivoltare la terra. Questo nucleo più ristretto è l’esclamazione: “Gesù è il Signore!”, pronunciata e accolta nello stupore di una fede “statu nascenti”, cioè nell’atto stesso di nascere. Il mistero di questa parola è tale che essa non può essere detta “se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12, 3 ). Da sola, essa fa entrare nella salvezza chi crede nella sua risurrezione: “Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti sarai salvo” (Rm 10, 9). “Come la scia di un bel vascello - direbbe Ch. Péguy - va allargandosi fino a sparire e a perdersi, ma comincia con una punta che è la punta stessa del vascello”, così – aggiungo io - la predicazione della Chiesa va allargandosi, fino a costituire un immenso edificio dottrinale, ma comincia con una punta e questa punta è il kerygma: “Gesù è il Signore!”. Quello dunque che nella predicazione di Gesù era l’esclamazione: “È venuto il regno di Dio!”, nella predicazione degli apostoli è l’esclamazione: “Gesù è il Signore!”. E tuttavia nessuna opposizione, ma continuità perfetta tra il Gesú che predica e il Cristo predicato, perché dire: “Gesù è il Signore!” è come dire che in Gesù, crocifisso e risorto, si è finalmente realizzato il regno e la sovranità di Dio sul mondo. Dobbiamo intenderci bene per non cadere in una ricostruzione irreale della predicazione apostolica. Dopo la Pentecoste, gli apostoli non vanno in giro per il mondo, ripetendo sempre e soltanto: “Gesù è il Signore!”. Quello che facevano, quando si trovavano ad annunciare per la prima volta la fede in un certo ambiente, era, piuttosto, di andare dritti al cuore del vangelo, proclamando due fatti: Gesù è morto - Gesù è risorto, e il motivo, di questi due fatti: è morto “per i nostri peccati”; è risorto “per la nostra giustificazione” (cf. 1 Cor 15, 4; Rm 4, 25). Drammatizzando la cosa, Pietro negli Atti degli apostoli, non fa che ripetere agli ascoltatori: “Voi avete ucciso Gesù di Nazaret, Dio lo ha risuscitato, costituendolo Signore e Cristo” [6]. L’annuncio: “Gesù è il Signore!” non è dunque altro che la conclusione, ora implicita ora esplicita, di questa breve storia, narrata in forma sempre viva e nuova, anche se sostanzialmente identica, ed è, nello stesso tempo, ciò in cui tale storia si riassume e diventa operante per chi l’ascolta. “Cristo Gesù ... spogliò se stesso... facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato... perché ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore” (Fi1 2, 6-11). La proclamazione: “Gesù è il Signore!” non costituisce dunque, da sola, l’intera predicazione, ne è però l’anima e, per così dire, il sole che la illumina. Essa stabilisce una specie di comunione con la storia di Cristo attraverso la “ particola” della parola e fa pensare, per analogia, alla comunione che si opera con il corpo di Cristo attraverso la particola di pane nell’Eucaristia. Venire alla fede è l’improvviso e stupito aprire gli occhi a questa luce. Rievocando il momento della sua conversione, Tertulliano lo descrive come un uscire dal grande utero buio dell’ignoranza, trasalendo alla luce della Verità [7]. Era come il dischiudersi di un mondo nuovo; la Prima Lettera di Pietro lo definisce un passare “dalle tenebre all’ammirabile luce” (1 Pt 2, 9; Col 1, 12 ss. ). Il kerygma, come ha spiegato bene l’esegeta Heinrich Schlier, ha un carattere assertivo e autoritativo, non discorsivo o dialettico. Non ha bisogno, cioè, di giustificarsi con ragionamenti filosofici o apologetici: lo si accetta, o non lo si accetta e basta. Non è qualcosa di cui si possa disporre, perché è esso che dispone di tutto; non può essere fondato da qualcuno, perché è Dio stesso che lo fonda ed è esso che fa poi da fondamento all’esistenza [8]. Il pagano Celso, nel II secolo, scrive infatti indignato: “I cristiani si comportano come coloro che credono senza ragione. Alcuni di essi non vogliono neppure dare o ricevere ragione intorno a ciò che credono e usano formule come queste: “Non discutere ma credi; la fede ti salverà. La sapienza di questo secolo è un male e la stoltezza è un bene” [9]. Celso (che qui ci appare straordinariamente vicino ai moderni fautori del “pensiero debole”) vorrebbe, in sostanza, che i cristiani presentassero la loro fede in modo dialettico, sottomettendola, cioè, in tutto e per tutto, alla ricerca e alla discussione, di modo che essa possa rientrare nel quadro generale, accettabile anche filosoficamente, di uno sforzo di autocomprensione dell’uomo e del mondo che rimarrà sempre provvisorio e aperto. Naturalmente, il rifiuto dei cristiani di dare prove e di accettare discussioni non riguardava l’intero itinerario della fede, ma solo il suo inizio. Essi non rifuggivano, nemmeno in quest’epoca apostolica, dal confronto e dal “dare ragione della loro speranza” anche ai greci (cfr. 1Pt 3, 15 ). Gli apologisti del II-III secolo ne sono la riprova. Solamente, pensavano che la fede stessa non poteva scaturire da quel confronto, ma doveva precederlo come opera dello Spirito e non della ragione. Questa poteva, al massimo, prepararla e, una volta accolta, mostrarne la “ragionevolezza”. All’origine, il kerygma si distingueva, abbiamo visto, dall’insegnamento (didaché), come anche dalla catechesi. Queste ultime cose tendono a formare la fede, o a preservarne la purezza, mentre il kerygma tende a suscitarla. Esso ha, per così dire, un carattere esplosivo, o germinativo; somiglia più al seme che dà origine all’albero, che non al frutto maturo che sta in cima all’albero e che, nel cristianesimo, è costituito piuttosto dalla carità. Il kerygma non è ottenuto assolutamente per concentrazione, o per riassunto, quasi fosse il midollo della tradizione; ma sta a parte, o, meglio, all’inizio di tutto. Da esso si sviluppa tutto il resto, compresi i quattro vangeli. Su questo punto si ebbe una evoluzione dovuta alla situazione generale della Chiesa. Nella misura in cui si va verso un regime di cristianità, in cui tutto intorno è cristiano, o si considera tale, si avverte meno l’importanza della scelta iniziale con cui si diventa cristiani, tanto più che il battesimo è ormai somministrato normalmente ai bambini, i quali non sono in grado di fare tale scelta propria. Ciò che più si accentua, della fede, non è tanto il momento iniziale, il miracolo del venire alla fede, quanto piuttosto la completezza e l’ortodossia dei contenuti della fede stessa. 3. Riscoprire il kerigma Questa situazione incide oggi fortemente sull’evangelizzazione. Le Chiese con una forte tradizione dogmatica e teologica (come è, per eccellenza, la Chiesa Cattolica) rischiano di trovarsi svantaggiate, se al di sotto dell’immenso patrimonio di dottrina, leggi e istituzioni non ritrovano quel nucleo primordiale capace di suscitare per se stesso la fede. Presentarsi all’uomo d’oggi, digiuno spesso di ogni conoscenza di Cristo, con tutto il ventaglio di questa dottrina è come mettere uno di quei pesanti piviali di broccato di una volta sulle spalle di un bambino. Siamo più preparati dal nostro passato ad essere “pastori” che ad essere “pescatori” di uomini; cioè, meglio preparati a nutrire la gente che viene in chiesa che portare persone nuove alla Chiesa, o ripescare quelli che si sono allontanati e ne vivono ai margini. È questo una delle cause per cui in certe parti del mondo tanti cattolici abbandonano la Chiesa cattolica per altre realtà cristiane; sono attratti da un annuncio semplice ed efficace che le mette in diretto contatto con Cristo e fa loro sperimentare la potenza del suo Spirito. Se da una parte c’è da rallegrarsi che queste persone abbiano ritrovato una fede vissuta, dall’altra è triste che per farlo abbiano abbandonato la loro Chiesa. Con tutto il rispetto e la stima che dobbiamo avere per queste comunità cristiane che non sono tutte delle sette (con alcune di esse la Chiesa cattolica mantiene da anni un dialogo ecumenico, cosa che non farebbe certo con delle sette!), bisogna dire che esse non hanno i mezzi che ha la Chiesa cattolica di portare le persone alla perfezione della vita cristiana. Presso molti di loro tutto continua a ruotare, dall’inizio alla fine, intorno alla prima conversione, alla cosiddetta nuova nascita, mentre per noi cattolici questo è solo l’inizio della vita cristiana. Dopo di esso deve venire la catechesi e il progresso spirituale che passa attraverso il rinnegamento di se, la notte della fede, la croce, fino alla risurrezione. La Chiesa cattolica ha una ricchissima spiritualità, innumerevoli santi, il magistero e soprattutto i sacramenti. Bisogna dunque che l’annuncio fondamentale, almeno una volta, sia proposto tra noi, nitido e scarno, non solo ai catecumeni, ma a tutti, dal momento che la maggioranza dei credenti di oggi non è passata attraverso il catecumenato. La grazia che alcuni dei nuovi movimenti ecclesiali costituiscono oggi per la Chiesa consiste proprio in questo. Essi sono il luogo dove persone adulte hanno finalmente l’occasione di ascoltare il kerygma, rinnovare il proprio battesimo, scegliere consapevolmente Cristo come proprio Signore e salvatore personale e di impegnarsi attivamente nella vita della loro Chiesa. La proclamazione di Gesù come Signore dovrebbe trovare il suo posto d’onore in tutti i momenti forti della vita cristiana. L’occasione più propizia sono forse i funerali perché di fronte alla morte l’uomo si interroga, ha il cuore aperto, è meno distratto che in altre occasioni. Niente come il kerygma cristiano ha da dire all’uomo, sulla morte, una parola a misura del problema”. Il kerygma risuona, è vero, nel momento più solenne di ogni Messa: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Ma, da sola, questa rimane una semplice formula di acclamazione. È stato detto che “I vangeli sono racconti della passione preceduti da una lunga introduzione” (M. Kahler). Ma, stranamente, la parte originaria e più importante del vangelo è la meno letta e ascoltata nel corso dell’anno. In nessun giorno festivo, con concorso di popolo, si legge in chiesa la Passione di Cristo, eccetto la Domenica delle Palme in cui, per la lunghezza della lettura e la solennità dei riti, non c’è tempo per tenere su di esso una consistente omelia! Ora che non ci sono più missioni popolari come una volta, è possibile che un cristiano non ascolti mai, in vita sua, una predica sulla Passione. Eppure è proprio essa che di solito apre i cuori induriti. Se ne è avuta una dimostrazione in occasione della proiezione del film di Mel Gibson “La Passione del Cristo”. Ci sono stati casi di detenuti che avevano sempre negato di essere colpevoli, che dopo la visione di quel film hanno spontaneamente confessato il loro delitto. 4. Scegliere Gesù come Signore Siamo partiti dalla domanda: “che posto occupa Cristo nella società attuale?”; ma non possiamo terminare senza porci la domanda più importante in un contesto come questo: “che posto occupa Cristo nella mia vita?”. Richiamiamo alla mente il dialogo di Gesù con gli apostoli a Cesarea di Filippo: “Chi dice la gente che sia il Figlio dell’uomo?...Ma voi chi dite che io sia?” (Mt 16 13-15). La cosa più importante per Gesù non sembra essere cosa pensa di lui la gente, ma cosa pensano di lui i suoi più intimi discepoli. Ho accennato sopra alla ragione oggettiva che spiega l’importanza della proclamazione di Cristo come Signore nel Nuovo Testamento: essa rende presenti e operanti in chi la pronuncia gli eventi salvifici che ricorda. C’è però anche una ragione soggettiva, ed esistenziale. Dire “Gesù è il Signore!” significa prendere una decisione di fatto. È come dire: Gesù Cristo è il “mio” Signore; gli riconosco ogni diritto su di me, gli cedo le redini della mia vita; io non voglio vivere più “per me stesso”, ma “per lui che è morto e risorto per me” (cf. 2 Cor 5,15). Proclamare Gesù come proprio Signore, significa sottomettere a lui ogni zona del nostro essere, far penetrare il vangelo in tutto ciò che facciamo. Significa, per ricordare una frase del venerato Giovanni Paolo II, “aprire, anzi spalancare le porte a Cristo”. Mi è capitato a volte di trovarmi ospite di qualche famiglia e ho visto cosa succede quando suona il citofono e si annuncia una visita inattesa, La padrona di casa si affretta a chiudere le porte delle stanze in disordine, con il letto non rifatto, in modo da guidare l’ospite nel locale più accogliente. Con Gesù bisogna fare esattamente il contrario: aprirgli proprio le “stanze in disordine” della vita, soprattutto la stanza delle intenzioni… Per chi lavoriamo e per che cosa lo facciamo? Per noi stessi o per Cristo, per la nostra gloria o per quella di Cristo? È il modo migliore per preparare in questo Avvento una culla accogliente a Cristo che viene a Natale». NOTE: [1] S. Agostino, Sermo 295,1 (PL 38,1349). [2] Cf. C. H. Dodd, Storia ed Evangelo, Brescia, Paideia, 1976, pp. 42 ss. [3] Cf., per esempio, Mc 1,1; Rm 15,19; Gal 1,7. [4] Cf. Gal 6,2; 1 Cor 7,25; Jn 15,12; 1 Jn 4,21. [5] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, Queriniana, 1969, pp. 56 s. [6] Cf. Hch 2,22-36; 3,14-19; 10,39-42. [7] Tertulliano, Apologeticum, 39, 9: “ad lucem expavescentes véritatis” . [8] H. Schlier, Kerygma e sophia, en Il tempo della Chiesa, Bologna 1968, pp. 330-372. [9] In Origene, Contra Celsum, I, 9.
27 novembre 2005
La Giornata pro orantibus ricorda il valore della vita claustrale Si celebra nel giorno della Presentazione al tempio della Vergine Maria La data del 21 novembre, festa liturgica della Presentazione al tempio di Maria SS., è la giornata nella quale la Chiesa propone alla considerazione del popolo cristiano la vocazione claustrale di quanti, monaci e monache, si sono completamente dedicati a Dio nella preghiera e nella contemplazione. Quest'anno c'è un motivo in più che aiuta a riflettere: ricorrono quarant'anni da quando i Padri del Concilio Vaticano II hanno approvato il documento Perfectae caritatis, tutto dedicato alla vita di consacrazione, dopo aver riflettuto sugli aspetti teologici, dottrinali, ecclesiali che la caratterizzano. Nell’Angelus di questa domenica, Benedetto XVI ha ricordato la Giornata esprimendo a nome di tutta la Chiesa «gratitudine a quanti consacrano la loro vita alla preghiera nella clausura, offrendo un’eloquente testimonianza del primato di Dio e del suo Regno», ed esortando i fedeli «ad essere loro vicini con il nostro sostegno spirituale e materiale». Circa il ruolo delle claustrali nel mondo attuale, madre Cristina Pirro, Abbadessa del monastero benedettino di Sant’Andrea Apostolo ad Arpino (Frosinone), ha ricordato ai microfoni della “Radio Vaticana” che, “nella radicalità della loro vita consacrata a Cristo, sono l'espressione vivente del Suo mistero di morte e Risurrezione”. «A Lui si uniscono, pur con la loro fragilità umana, nell'impegno quotidiano di conversione del cuore e di preghiera, di lode di Dio e d'intercessione per le necessità dei fratelli», ha aggiunto, sottolineando che «la clausura, che caratterizza tale forma di vita, è un segno di totale appartenenza a Dio». Alla base della vita claustrale c’è la preghiera, che, ha riconosciuto, «non cambia il mondo, semplicemente perché è Dio che lo cambia con la potenza del Suo Santo Spirito», anche se «questa trasformazione non sempre è evidente, perché ci ha creati liberi e rispetta la nostra libertà». «La preghiera della claustrale, e quella di ogni credente, preme sul Suo Cuore di Padre, sempre preoccupato del nostro Bene, e l'induce ad esaudire ogni richiesta conforme alla Sua Volontà», ha continuato. Quanto al cambiamento nella vita delle claustrali rispetto al passato, madre Cristina ha osservato che «nulla è cambiato se pensiamo ai valori perenni della vita contemplativa: la pratica dei voti e l'osservanza della Regola, la preghiera liturgica e personale, ecc.». Per quanto riguarda la clausura, invece, «col documento Verbi Sponsa la Chiesa ha introdotto qualche modifica, che non elimina, però, la necessità di una certa separazione dal mondo, per un più intenso contatto col Signore». In un mondo in cui si parla molto «di carestia vocazionale, di problemi economici legati al deterioramento dei monasteri, spesso molto antichi e vasti per Comunità ridotte numericamente, e alla loro gestione e manutenzione», la difficoltà maggiore, secondo l’Abbadessa, «è nel nostro cuore, se contristiamo lo Spirito Santo, vanificando il Suo lavoro di purificazione e santificazione». Il monastero di madre Cristina ha dato anche un forte impulso all’ecumenismo: «il Signore […] ha voluto utilizzarci per la fondazione del primo monastero cattolico della Romania e, tuttora, unico Monastero benedettino in terra ortodossa». «Il cammino iniziò nel 1994, con una visita al nostro Monastero S. Andrea Apostolo di Arpino del Vescovo di Iasi – ha ricordato –, che ci invitò a presentare il nostro carisma benedettino alle giovani della sua diocesi, nella speranza che nascesse un giorno una comunità contemplativa». «A giugno del 2003, dopo tanti sacrifici, normali in ogni Fondazione a servizio della Chiesa, abbiamo inviato lì le prime monache», ha spiegato. «La chiesa e la foresteria del Mater Unitatis sono frequentate anche da fratelli ortodossi. Le visite più gradite sono quelle dei monaci ortodossi che stimano molto S. Benedetto e mostrano interesse per la nostra vita, nella quale ritrovano i loro valori», ha raccontato. «Siamo, però, ben convinte che, ancora più dell'ospitalità che pure è cara a S. Benedetto, il nostro contributo più importante, perché le Chiese sorelle raggiungano la piena comunione, è quello della preghiera e della conversione del cuore», ha aggiunto. Come ricorda il Decreto Perfectae caritatis, «fin dai primi tempi della Chiesa vi furono uomini e donne che per mezzo della pratica dei consigli evangelici intesero seguire Cristo con maggiore libertà e imitarlo più da vicino e condurre, ciascuno a suo modo, una vita consacrata a Dio. Molti di essi, dietro l'impulso dello Spirito santo, o vissero una vita solitaria o fondarono famiglie religiose» (n. 1). «Cosicché per disegno divino si sviluppò una meravigliosa varietà di comunità religiose, che molto hanno contribuito a far sì che la Chiesa non solo sia ben attrezzata per ogni opera buona, e preparata all'opera di servizio per l'edificazione del corpo di Cristo, ma, anche abbellita con la varietà dei doni dei suoi figli, appaia come una sposa adornata per il suo sposo; e per mezzo di essa si manifesti la multiforme sapienza di Dio» (idem). Papa Giovanni Paolo II aveva in grande considerazione le claustrali, al punto che è dovuta a lui l’esistenza in Vaticano del monastero Mater Ecclesiae, presente dal 1994 e in cui si alternano ogni cinque anni le rappresentanti dei monasteri più antichi. Il numero di donne che dedicano la propria vita alla contemplazione è molto superiore a quello degli uomini. In questo momento sono 47.626. In Europa ci sono 29.788 religiose contemplative in 2.252 monasteri; in America 13.268 in 904 monasteri, in Asia 2.900 in 227 monasteri, in Africa 1.446 in 123 monasteri, e in Oceania 224 in 23 monasteri. Si calcola che le novizie e le postulanti siano poco più di ottomila.
La fabbrica dell’odio anticattolico I cristiani sono perseguitati e massacrati in tutto il mondo (vedi l’annuale Rapporto sulla libertà religiosa) e nelle stesse ore in cui tre ragazze cristiane vengono sequestrate, sgozzate e decapitate in odio alla loro fede, in Italia il settimanale cattolico “Famiglia cristiana” fa notizia per un fondoschiena femminile e la tv si occupa dell’ “Isola dei famosi”… Dal 28 ottobre il solito manipolo di fanatici ha occupato per alcuni giorni l’Università statale di Milano e chi se ne frega dei diritti della maggioranza degli studenti. Storia vecchia (come quella di Dario Fo che va a esibirsi fra questi pensionati della revolución). In Italia da decenni tutti – a cominciare dalle autorità - subiscono la prepotenza di questi gruppi nelle scuole e nelle università. Ma ci sono alcuni particolari che incuriosiscono. Come le minacce e le intimidazioni contro gli studenti che si sono opposti all’occupazione rivendicando il diritto di studiare. «Giovedì» mi dice un giovane di un gruppo cattolico «ci siamo presi spintoni, insulti e calci quando abbiamo distribuito un volantino contro l’occupazione. La reazione è stata furibonda. Sui muri sono spuntate pistole disegnate e scritte insultanti contro la Chiesa e il Papa: “10, 100, 1000 vescovi morti”, “una pallottola spuntata…”, “attento ai piedi (bucati)”, “Morte ai preti”». Sembra che vi sia in Italia una fabbrica di odio che prende di mira prevalentemente i cattolici. A Siena hanno tolto la parola al cardinal Ruini e pochi giorni dopo – alla presentazione di un libro del Papa - hanno assediato il presidente del Senato Pera (a cui il rettore dell’università aveva negato l’aula perché gli estremisti non volevano). Altri episodi analoghi a Torino e Bologna. A Torino si è profanata la chiesa della Madonna del Carmine che è stata imbrattata con scritte oltraggiose, mentre un petardo è stato fatto scoppiare fra alcuni fedeli che assistevano alla messa. Questo ritorno della piazza intollerante e fanatica, queste nuove manifestazioni di piazza, hanno un connotato no-global e sono concomitanti con le manifestazioni “castriste” organizzate in Argentina contro Bush e con la sommossa degli immigrati in Francia. Tuttavia colpisce l’odio contro la Chiesa. Difficile da capire, impossibile da condividere, perché proprio la Chiesa (a Torino e non solo) è in prima fila nella solidarietà con gli immigrati, con i poveri, con i senza tetto. Come si spiega il fenomeno di questa crescente ostilità anticattolica? Talvolta è autentico odio, che si evidenzia anche in mondi del tutto diversi da quelli estremisti di strada: soprattutto nel mondo della cultura, della politica e dei giornali. Ernesto Galli della Loggia lunedì notava sul Corriere che «basta dare un’occhiata anche distratta agli scaffali di una libreria per accorgersi della moltiplicazione negli ultimi anni dei libri che in un modo o nell’altro manifestano un atteggiamento polemico nei confronti della sfera religiosa e della Chiesa Cattolica in particolare. A parte il dato quantitativo, che pure è inedito e rilevante, mi sembra che più inedito e rilevante sia il tono che circola: si pensi a un titolo come il “Trattato di ateologia” di Michel Onfray che senza mezzi termini auspica una “scristianizzazione radicale della società”» Certo sono fenomeni diversi e non è giusto confonderli. Ma il bersaglio è sempre la Chiesa. Sui mass media capita di sentire il noto conduttore televisivo di turno lanciarsi in pesantissime invettive contro la Chiesa, invettive che avrebbero scatenato severe reazioni se rivolte contro altre religioni, mentre invece cadono nella totale indifferenza. E poi ecco la “Sagra anticlericale” organizzata a Perugia e ospitata dalla Regione. E l’idea dei radicali di abolire il Concordato, senza neppure conoscerne la sostanza e i contenuti. Tutto questo dispiegamento di forze contro una Chiesa che – al massimo – usufruisce della libertà di parola garantita a tutti dalla Costituzione. E ciò mentre i cristiani sono perseguitati e spesso martirizzati in tanti paesi (dalla Cina, al Vietnam, dai paesi islamici all’India dove sono centinaia ogni anno gli episodi di violenza). I cristiani sono il gruppo religioso più discriminato e oppresso del pianeta, perseguitato nei regimi totalitari, di norma posto paradossalmente sul banco degli accusati nei paesi liberi. Quando il laico Salman Rushdie venne messo nel mirino dai fondamentalisti islamici per un suo libro ritenuto irriverente nei confronti del “profeta”, si scatenò una reazione indignata di tutta l’intellighenzia occidentale. Oggi che Omar Sharif è stato “condannato” da ambienti del fanatismo musulmano perché sarebbe diventato cristiano (in realtà ha solo interpretato san Pietro in un telefilm della Rai), nessuno insorge. Il divieto di convertirsi al cristianesimo (pena la morte) sembra sia cosa su cui sorvolare. Per la verità ha lasciato pressoché indifferenti perfino la decapitazione, avvenuta in Indonesia, delle tre studentesse cristiane ad opera di un gruppo di fondamentalisti musulmani; a Poso (la città dove sono state decapitate) alcuni uomini hanno poi sparato colpi di pistola in faccia ad altre due studentesse di 17 anni, attualmente molto gravi. Però a Yusriani (15 anni), Theresia (16 anni) e Alvita (19 anni), giovani martiri cristiane, sgozzate e decapitate a colpi di machete a causa della loro fede, nessuno dedicherà né una trasmissione tv, né una pagina di giornale, né un film, né un libro. (Nella foto una Chiesa di Poso, distrutta) Nelle messe domenicali delle nostre chiese si è forse sentito pregare per queste povere ragazze martiri e per i cristiani perseguitati di quei paesi? No. Gli opinionisti “cattolici” (talora anche ecclesiastici) addirittura si fanno in quattro per gridare sui giornali che i cristiani non sono affatto perseguitati e che, anzi, stanno benone. D’altronde il noto settimanale Famiglia Cristiana, in questi giorni, ha fatto notizia per ben altro: per aver esposto per la prima volta un sedere femminile nudo in una inserzione pubblicitaria. Pier Paolo Pasolini trent’anni fa vide un crollo di civiltà (cristiana) nella pubblicità dei jeans Jesus che usò lo slogan «non avrai altro jeans al di fuori di me» (davanti all’immagine di un sedere di ragazza con quei pantaloni). Oggi, invece, si è sicuramente raggiunta l’insignificanza del mondo cattolico ufficiale, quello dei giornali, degli intellettuali, delle istituzioni accademiche clericali e delle organizzazioni “curialesche”; forse anche il segno della sparizione di una mentalità coerente con i principi di una vita cristiana. Oggi peraltro, nella televisione salottiera, i cristiani che possono difendere la loro fede sono sempre meno: le voci “guida” sono sempre più rare: ci può capitare talvolta, al massimo, di assistere ad esternazioni e “professioni di fede” di dubbia caratura, ostentate unicamente a fini pubblicitari, per far aumentare l’indice di gradimento personale. Siamo invece quotidianamente bombardati da trasmissioni “insulse” in cui l’eccezione diventa regola, in cui l’unico valore morale é quello di non aver valori morali, in cui la trasgressione in genere, e quella sessuale in specie, è rappresentata come normalità: il messaggio essenziale e primario sancisce che essere gay è un fatto prestigioso, significa appartenere ad una casta eletta e superiore: la totalità delle menti eccellenti è gay: chi non si adegua o non condivide, è out. Senza discussioni. Purtroppo sono queste oggi le cose che contano per gli organi di informazione mediatica: ma, ahimè, questa non è religiosità, non è cristianesimo: quanto piuttosto un tentativo disperato, da parte di “vecchie ciabatte sdrucite” di rilanciare in qualsiasi maniera e con qualunque mezzo, la propria melensa immagine sul dorato proscenio dell’insipienza.
L’Osservatore Romano constata l’errata applicazione della legge sull’aborto in Italia Ne è stato violato lo “spirito”, afferma Il quotidiano della Santa Sede constata che da quando è stata approvata la legge sull’aborto in Italia, nel 1978, la sua applicazione viola lo “spirito” che l’ha giustificata. L’edizione in italiano de “L'Osservatore Romano” del 21-22 novembre è intervenuta con un articolo nel dibattito nato nel Paese dopo la proposta del segretario dell’UDC, Lorenzo Cesa (vedi foto), di istituire una Commissione parlamentare d'inchiesta per garantire la chiara applicazione della legge 194. “La legge 194, nata per legalizzare l'aborto – oltre le compromissioni, le intrinseche negatività e contraddizioni – dovrebbe avere quale tendenziale obiettivo addirittura la prevenzione dell'aborto stesso”, afferma il quotidiano vaticano. “Ma la legge 194 è stata mal applicata, fino ad ora, nella sua integralità, ne è stato violato lo ‘spirito’ – aggiunge –. Si è ritenuto che l'unica forma di prevenzione all'interruzione volontaria della gravidanza fosse la contraccezione. Ed in tal senso i consultori familiari invece che centri di vita sono stati, in larga parte, purtroppo, meri dispensatori di certificati per l'aborto”. Il Ministro della Salute, Francesco Storace, ha ipotizzato nei giorni scorsi un progetto di riforma dei consultori familiari e una presenza più organica al loro interno dei volontari del Movimento per la Vita. La proposta ha ricevuto molte critiche da parte della stampa e di esponenti politici. “L’Osservatore Romano” riconosce che “si rimane” “perplessi per chi si scaglia contro quanti hanno auspicato la presenza di volontari del Movimento per la Vita nei consultori”. “Un’ipotesi ‘prevista dalla legge 194’, che indica un’esigenza profonda del collegamento organico tra strutture pubbliche demandate alla rimozione delle cause di aborto e quel volontariato che, in povertà di mezzi, ha dimostrato in questi 30 anni di attività di svolgere un servizio di altissimo valore sociale”. “Ed ancora stupisce e ingenera sospetto la ‘laicità’ di chiunque si oppone all'accertamento dell'applicazione di una legge”, aggiunge riferendosi alle critiche di esponenti politici contro Cesa. “Così facendo pregiudica la stessa laicità dello Stato eleggendo a ‘totem’ intoccabile una normativa – riconosce il quotidiano –. Ma ogni legge è migliorabile per il bene della comunità, per il bene della democrazia. Salvaguardare e promuovere la vita umana dovrebbe essere interesse primario di ogni consorzio civile”. “La tutela della vita costituisce la misura della civiltà e della democrazia – conclude il quotidiano vaticano –. E misura dell'autentica libertà”.
Contro le “posizioni integralistiche” di chi nega il diritto di parola ai credenti Mons. Forte le contesta in base al principio di laicità dello Stato Monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto (vedi foto), ha affermato alla “Radio Vaticana” di contestare quelle “posizioni integralistiche” di chi, in base al principio di laicità dello Stato e nel presunto rispetto della libertà di ciascuno, giunge in realtà a negare il diritto di parola ai credenti e soprattutto ai pastori della Chiesa cattolica. Il commento del presule giunge all’indomani delle discussioni sollevate dal discorso rivolto questo sabato da Benedetto XVI ai partecipanti alla XX Conferenza Internazionale promossa in Vaticano dal 17 al 19 novembre dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute sul tema: “Il genoma umano”. In quell’occasione il Papa ha affermato che la secolarizzazione del mondo odierno che “giunge anche a trascurare la salvaguardia della dignità trascendente dell'uomo ed il rispetto della sua stessa vita”, “nella forma del secolarismo radicale, non soddisfa più gli spiriti maggiormente consapevoli ed attenti”. Nel suo discorso il Pontefice aveva poi parlato, a tal proposito, di “spazi possibili e forse nuovi per un dialogo proficuo con la società e non soltanto con i fedeli, specialmente su temi importanti come quelli attinenti la vita”. Nel commentare all’emittente pontificia queste affermazioni, monsignor Forte ha detto “che la riflessione che il Santo Padre ci propone parte dalla situazione di post-ideologia – potremmo dire – nella quale di fatto la cultura contemporanea si trova. Le grandi certezze delle ideologie, queste visioni totalizzanti, sono naufragate nelle tragedie della violenza del Novecento”. “Ecco perché oggi ci troviamo tutti più poveri davanti alla pretesa della ragione umana di potere, da sola, risolvere i problemi dell’uomo. E questa maggiore umiltà, raggiunta a prezzo di grande sofferenza perché il Novecento è – sotto questo profilo – il secolo tragico, rende anche tutti più attenti ad una riscoperta della centralità, del valore della persona umana”. “In questo senso, molti pensatori – anche non credenti – si ritrovano affiancati al pensiero cristiano intorno alla centralità della persona e quindi intorno al valore assoluto, alla dignità infinita della vita umana”, ha sottolineato monsignor Bruno Forte. Di fronte poi alle rinnovate accuse di ingerenza rivolte alla Chiesa, innescate soprattutto dal dibattito sulla pillola abortiva RU-486, monsignor Forte ha spiegato che “ci sono certamente dei motivi contingenti”, facendo poi l’esempio del referendum parzialmente abrogativo sulla procreazione assistita che “ha portato un risultato che nessuno, a livello soprattutto dei grandi media, aveva previsto”. “Questo significa che c’è una stragrande maggioranza degli italiani che si è espressa attraverso l’astensione in una scelta per la vita, per la dignità assoluta della persona umana – ha aggiunto –. E credo che questo abbia in qualche modo scalzato quelle persone che ritenevano invece scontato che la maggioranza degli italiani doveva pensarla nel senso di un ‘sì’ indiscriminato alla scienza al di là di ogni confine etico”. Ciò, ha spiegato l’Arcivescovo Bruno Forte, ha comportato come “contraccolpo una certa reazione di fronte ad una vittoria che nessuno si aspettava”. “Una seconda componente è che di fronte ad un relativismo diffuso sul piano etico come anche sul piano teoretico un Papa come Benedetto, che afferma con chiarezza la forza della verità, in piena continuità per altro con Giovanni Paolo II […] da una parte attira certamente l’attenzione seria e pensosa di molti laici che sono anch’essi preoccupati della causa del bene comune, ma in qualche modo anche inquieta e perfino in qualche modo provoca quei laici che, invece, volessero fare del relativismo la loro bandiera”. “Quello che soprattutto lascia perplessi – ha poi osservato – è che a volte dei cosiddetti laici pretendono di dover dettare le regole sulle quali si dovrebbero muovere il Papa, i vescovi o i credenti nei loro pronunciamenti”. “Gli stessi che caso mai rivendicano una assoluta libertà di coscienza, di intervento, poi la negano di fatto ad altri in quanto pretendono che altri dicano quello che loro vogliono che essi dicano o che comunque non dicano quello che essi non vogliono sentire”, ha ironizzato. “In altre parole – ha poi concluso – è proprio in nome del laicissimo principio del rispetto in democrazia della libertà di ciascuno che io sento di dover contestare quelle posizioni che chiamo senz’altro integralistiche di chi in nome della laicità vuole negare il diritto di parola ai credenti e soprattutto ai pastori”.
La Guardia Svizzera festeggia i cinquecento anni di servizio al Papa L’anno prossimo ricorderà gli uomini che hanno dato la vita per la sua difesa La Guardia Svizzera si prepara a festeggiare i cinquecento anni di vita con celebrazioni che ricorderanno, in particolare, gli uomini di questo corpo di sicurezza del Papa che hanno perso la vita nell’esercizio delle loro funzioni. Le celebrazioni, come ha spiegato questo martedì ai giornalisti il colonnello Elmar Th. Mäder, Comandante del Corpo di Guardia del Papa, inizieranno il 22 gennaio prossimo, quando ricorreranno i cinque secoli dall’entrata a Roma dei primi 150 militari svizzeri che si misero al servizio del Papa Giulio II (1503-1513). Il colonnello Mäder ha rivelato nel corso della conferenza concessa nella Sala Stampa del Vaticano che, in questa occasione, Benedetto XVI ha scritto una lettera al Presidente della Conferenza Episcopale Svizzera e a tutte le guardie svizzere, sia in servizio che in congedo, per esprimere il proprio ringraziamento e ricordare l’eroico servizio delle guardie svizzere che hanno perso la vita durante il Sacco di Roma (6 maggio 1527). Delle 189 guardie, solo 42 sopravvissero all’attacco delle truppe dell’imperatore Carlo V contro Papa Clemente VII, accusato di mantenere una politica favorevole alla Francia. Il Pontefice si salvò rifugiandosi a Castel Sant’Angelo, vicino al Vaticano. Tra i caduti al servizio del Papa ci sono anche l’ex comandante della Guardia, Alois Estermann, e sua moglie, assassinati la notte del 4 maggio 1998 dalla giovane guardia svizzera Cedric Tornay in un raptus di follia. Nel contesto delle numerose celebrazioni del 2006, il 7 aprile un centinaio di ex guardie svizzere intraprenderà, partendo da Bellinzona, capitale del Canton Ticino, una marcia in varie tappe lungo la via Francigena – l’antica rotta di pellegrinaggio – che arriverà a Roma il 4 maggio. Il 6 maggio, il giuramento delle nuove reclute avrà luogo per la prima volta in piazza San Pietro in Vaticano. Quel giorno ci sarà anche l’annuale omaggio floreale per ricordare le guardie svizzere cadute durante il Sacco di Roma. La sera avrà luogo uno spettacolo di fuochi artificiali su Castel Sant’Angelo. E’ stata anche prevista l’emissione di francobolli vaticani dedicati ai 500 anni della fondazione della Guardia Svizzera Pontificia, che per la prima volta verrà realizzata congiuntamente dalla Svizzera e dalla Città del Vaticano. L’artista svizzero che l’ha realizzata è l’ex guardia svizzera Rudolf Mirer. Mirer ha inoltre creato una medaglia d’oro che è stata coniata dalla Svizzera per commemorare l’anniversario. La Guardia Svizzera è composta da cento soldati – quattro ufficiali, 23 comandanti intermedi, 70 alabardieri, 2 tamburini e un cappellano. Le reclute devono essere maschi svizzeri tra i 19 e i 30 anni di età e di fede cattolica. Devono superare i 174 centimetri di altezza, essere celibi ed aver conseguito un’istruzione di base nell’esercito. Anche se la tradizione vuole che sia stato Michelangelo ad ideare le loro uniformi, in realtà il disegno di quelle attuali risale circa al 1915.
Inaugurazione del nuovo Anno Accademico alla Pontificia Università Lateranense Interventi del Card. Camillo Ruini, del Rettore Mons. Rino Fisichella, e dell’onorevole Pier Ferdinando Casini, Presidente della Camera. Intervenendo mercoledì 23 novembre all’inaugurazione dell’Anno Accademico 2005-2006 della Pontificia Università Lateranense (PUL), il Cardinale Camillo Ruini, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha affermato che “è importante trovare contenuti e forme espressive che permettono di evidenziare la perenne novità della fede”. Per questo, ha aggiunto il porporato che è anche Gran Cancelliere della PUL, a 40 anni dal Concilio Vaticano II questa Università “si pone come una delle sue finalità la presentazione di una rinnovata antropologia incentrata sulla persona di Gesù Cristo”. “Quanti si accostano a Lui – ha sottolineato il porporato – e nella fede lo accolgono, trovano il senso di una vita e la direzione giusta per poter vivere nel mondo in maniera significativa”. Nel suo discorso, il Cardinale Vicario di Roma ha poi espresso particolare soddisfazione per il fatto “che l’Università del Papa è sempre più punto di riferimento per le sue numerose attività”. “I Vescovi che da tante chiese inviano in questa università i loro studenti possono essere sicuri dell’impegno formativo che questo centro accademico fornisce non senza fatica e forte investimento di risorse”, ha poi aggiunto. Questo anche perché, ha poi continuato, “è impegno dell’Università di aiutare i giovani a percepire la propria chiamata e a sostenerla con una preparazione culturale che sia di solida garanzia per lo svolgimento del proprio impegno ministeriale e professionale”. Nella sua prolusione, il Rettore della PUL e del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, monsignor Rino Fisichella (vedi foto), ha invece ricordato l’enorme valenza umana della cultura ed ha sottolineato l’importanza di una cultura che “permetta di accedere alla contemplazione del bello, del buono e del vero”. E’ possibile raggiungere tale obbiettivo, ha continuato monsignor Fisichella, nella misura in cui la cultura “sarà impregnata della fede in Gesù Cristo, il cui mistero è chiave ermeneutica per illuminare e rivelare l’enigma della condizione umana” La cultura è segno di unità e non divisione, ha affermato il Rettore della PUL, ricordando a tale proposito la molteplicità delle culture rappresentate dagli studenti provenienti da più di cento Paesi diversi. “L’unità nella fede – ha spiegato monsignor Fisichella – permette un autentico dialogo tra culture diverse e linguaggi differenti che reciprocamente si rispettano perché trovano fondamento comune da cui scaturisce la sorgente di ogni vera identità personale e cioè la persona che porta impressa in sé l’immagine del Creatore”. “Le diversità vengono mantenute ma riportate in una sintesi superiore formata dalla condivisa necessità per la comune ricerca della verità, per l’intelligenza della fede e per la passione nei confronti del diritto fonte di giustizia”, ha aggiunto. Fisichella ha quindi illustrato come l’Eucaristia rappresenti per i cristiani una fonte di cultura, perché “fondiamo la vita su qualcosa che non si ferma alla cultura ma la abbraccia e solleva verso un infinito di senso che trascende ogni possibile limite”. Secondo il Rettore della PUL, “l’Eucaristia può sostenere a pieno titolo una cultura che conduce alla contemplazione per la bellezza del mistero. E la bellezza del mistero eucaristico sta nell’amore di cui è portatrice”. “L’Eucaristia è puro dono perché offerta libera di Gesù Cristo di donare se stesso per amore. L’Eucaristia insegna a percepire il valore del dono e della gratuità solo per la forza dell’essere amati”, ha spiegato. Da questo punto di vista l’Eucaristia può alimentare una cultura ispiratrice di comportamenti che tendono concretamente all’unità del genere umano, e cioè “il riconoscimento di quanto ognuno può dare per il bene comune, una cultura che non sia solo ispiratrice ma concreto strumento di perdono”. Monsignor Fisichella ha poi ricordato che a conclusione del Concilio Vaticano II i Padri inviarono al mondo alcuni messaggi, fra i quali uno in particolare rivolto ai giovani, nel quale si chiedeva loro di lottare contro ogni forma di egoismo. “Non cedete alla seduzione di filosofie dell’egoismo e del piacere o a quelle della disperazione e del nichilismo. Di fronte all’ateismo affermate la vostra fede nella vita e in quanto dà senso alla vita: la certezza di un Dio giusto e buono”, ha detto. “E’ in nome di questo Dio che la Chiesa vi guarda con fiducia e con amore e vi invita a costruire nell’entusiasmo un mondo migliore”, ha quindi concluso. Infine, ha preso la parola il Presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini (vedi foto), il quale ha elogiato la Chiesa di fronte alle prospettive offerte dal mondo attuale. “La Chiesa – ha infatti affermato Casini –, grazie alla coerenza e alla forza con cui porta avanti il suo progetto, riesce a muovere le coscienze degli uomini, alimenta le loro speranze, dà un senso alla loro vita: una capacità, questa, che oggi manca alla politica”. In riferimento a coloro che in questi giorni “paventano indebite intrusioni ed invocano regolamenti di confine” per la Chiesa, o che pensano di scorgere in essa le premesse di un disegno politico, “destinato magari a riproporre gli schemi del passato”, Casini ha detto che essi dimostrano “di non saper leggere ciò che hanno dinanzi agli occhi”. Il Presidente della Camera ha quindi sottolineato che: “chi si rivolge al Magistero della Chiesa, lo fa per riceverne un ordinamento per la propria coscienza e per la propria azione: è di questo che oggi abbiamo soprattutto bisogno”. =
«In sede pubblica di Dio non si parla» È la constatazione del Cardinale Ruini, all’incontro sul tema: “Quando i simboli diventano cartoline illustrate; il travaglio della modernità” organizzato da “Viam Scire” nell’ambito del Progetto culturale della Chiesa italiana, cui hanno partecipato oltre al Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, anche il professor Lorenzo Ornaghi, Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, lo storico Ernesto Galli della Loggia e il Direttore de “Il Foglio”, Giuliano Ferrara Intervenendo a questo dibattito sul tema della laicità, il Cardinale Camillo Ruini ha affermato che “in sede pubblica di Dio non si parla”, e che nel leggere gli articoli di scienza si constata spesso che “chi scrive intende dimostrare che Dio non c’è e che l’essere umano è autosufficiente”. Alla domanda di Galli della Loggia sul perché la Chiesa si occupi così tanto di morale invece che di Dio, il Cardinale Ruini (vedi foto) ha risposto: “Siamo di fronte ad un paradosso, ho vissuto epoche in cui l’insistenza della Chiesa sui temi etici era molto maggiore di quella odierna. Oggi appare più vistosa ma negli anni Quaranta la morale era molto più praticata, c’era una insistenza nella predicazione ecclesiastica”. Sui temi di morale, ha continuato il Cardinale Vicario di Roma “la formazione dei gruppi giovanili, che erano divisi in maschi e femmine, era marcatissima, oggi è difficile che i sacerdoti nelle omelie affrontino questi temi che sono più presenti nel Magistero pubblico. Io stesso quando parlo nelle parrocchie affronto il tema di Cristo e della vita eterna, più che dei temi etici”. Il Presidente della CEI ha quindi rilevato che “c’è da fare il confronto tra etica pubblica ed etica vissuta. Mentre l’etica pubblica sembra non avere nessuna rilevanza, per quanto riguarda l’etica privata ognuno tende a fare come meglio crede”. “Ma la Chiesa non ha colpe”, ha sottolineato Ruini. “E’ vero che noi vorremmo che quei temi come il rapporto tra Dio e l’uomo e l’escatologia, fossero centrali, ma sfuggono al dibattito pubblico, non vengono raccolti, mentre si parla con insistenza dei temi etici per tutti più visibili. Invece queste tematiche sono confinate nel Magistero della Chiesa e nel quotidiano restano riservate e silenziose”. Lo storico Galli della Loggia ha quindi affermato che “in un mondo che cambia velocemente e che perde ogni giorno un pezzetto del passato, la Chiesa viene identificata come l’unica che tiene fede alla tradizione”. Il Cardinale Ruini, prendendo spunto da questa affermazione, ha sottolineato che “la Chiesa è Tradizione” e che “senza Tradizione la Chiesa non esiste”. “La Tradizione è Dio che parla all’umanità … Il Dio di Abramo che fa da spartiacque. La Chiesa è convinta che all’origine c’è la Rivelazione c’è l’eterno” e rappresenta “il tema dell’assoluto nella storia”, ha spiegato. Nell’intervento di apertura, Giuliano Ferrara (vedi foto) ha detto che la rivoluzione francese e quella statunitense indicano almeno due modelli di laicità. Il Direttore de “Il Foglio” ha precisato che “secondo gli europei la laicità è figlia della rivoluzione francese in cui c’è il culto dello Stato che impone e dispone. I cittadini sono liberi di coltivare la loro fede, ma in ambiti strettamente confessionali”. Altra laicità – ha continuato Ferrara – è quella statunitense in cui il Governo è limitato e federativo. E sia la Dichiarazione di Indipendenza, che la Costituzione americana si basano sul riconoscimento del Diritto naturale che precede lo Stato”. Alla domanda su qual è la laicità di cui gli europei hanno più bisogno, il professor Ornaghi ha risposto citando l’allora Cardinale Joseph Ratzinger, il quale in una conferenza del 2002, sostenne che “a partire dall’illuminismo, la cultura dell'Occidente si allontana con velocità crescente dai suoi fondamenti cristiani”. Il Rettore della “Cattolica” ha riconosciuto lo stato di crisi del concetto di laicità ed ha osservato che “c'è bisogno di un rinnovamento culturale. Bisogna chiedersi se le categorie che avevano misurato e definito la laicità funzionino ancora. Probabilmente arriveremo a una laicità diversa da quella che i secoli ci hanno imposto”. Intervenendo al dibattito, Ernesto Galli della Loggia ha ricordato che “nell’Ottocento i grandi temi della laicità prendevano di petto le verità cristiane, mentre oggi la massima contrapposizione nasce dal fatto che la Chiesa viene accusata di voler condizionare la morale privata”. In questo contesto – ha continuato – “si vuole ridurre lo spazio pubblico della Chiesa, perché è inconcepibile che la Chiesa indichi una morale”. Secondo Galli della Loggia “nel vecchio laicismo il messaggio cristiano non era messo in discussione. Oggi finisce nel mirino solo quel lato sociale che attenuerebbe il messaggio religioso”.
«Divorziati risposati, basta titoli ad effetto» Il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l'unità dei cristiani, interviene sul tema dei divorziati risposati. Si tratta di una precisazione rispetto a una serie di dichiarazioni attribuitegli erroneamente qualche giorno fa da alcuni quotidiani italiani. In occasione del XL anniversario della dichiarazione conciliare Nostra aetate, si è tenuta presso la sala della «Stampa estera» una conferenza stampa sullo stato attuale delle relazioni ecumeniche e delle relazioni religiose con l'ebraismo. Il mio discorso d'apertura, così come il successivo dibattito (a eccezione di un solo intervento), si è incentrato sul tema sopra citato. Tuttavia, chi ha sfogliato i quotidiani italiani del giorno seguente non ha trovato una sola parola sul tema della conferenza stampa, ma un rapporto dettagliato sul tema dei divorziati risposati.
La sorpresa per me,
come per molti lettori, è stata grande. Di fatto, vari articoli
suggerivano non solo che io avevo appoggiato l'ammissione dei divorziati
alla Comunione, ma anche che ritenevo possibile che il Papa apportasse
un cambiamento alla proposizione del Sinodo dei vescovi sull'argomento.
Il polverone sollevato si è diffuso nel frattempo anche nella stampa
straniera, che all'inizio aveva riferito correttamente l'accaduto. Durante lo scambio di domande-risposte è stata rivolta una sola domanda sul tema dei divorziati risposati; a essa non è stato dato seguito, perché ritenuta non pertinente all'argomento. Mi sono limitato ad esporre i seguenti punti: 1) non sono un profeta e non so come il Santo Padre utilizzerà la proposizione del Sinodo dei vescovi; 2) si tratta di un serio problema pastorale, come ben sa chiunque abbia esperienza nel campo della cura delle anime; 3) non è possibile un'ammissione generale alla Comunione, ma vi sono singoli casi su cui è opportuno riflettere ulteriormente. Per ciò che riguarda l'ultima affermazione, mi sono riallacciato espressamente a quanto il Santo Padre ha detto a un gruppo di sacerdoti in Valle d'Aosta l'estate scorsa. Ho aggiunto, comunque, di non avere la soluzione. Non esiste infatti una facile soluzione. Ogni teologo cattolico ben sa che la risposta può essere trovata solo sulla base degli insegnamenti di Gesù e della dottrina della Chiesa a proposito dell'indissolubilità del matrimonio. Se vogliamo rimanere fedeli alle parole di Gesù, possiamo soltanto dire che, quando è stato contratto un matrimonio avente valore sacramentale, fintanto che il coniuge è in vita non può esservi un secondo matrimonio sacramentale riconosciuto dalla Chiesa. Il matrimonio civile di un divorziato oggettivamente è in contraddizione con gli insegnamenti di Gesù. In determinate circostanze, i tribunali ecclesiastici possono essere di aiuto dichiarando nullo il primo matrimonio. Esistono tuttavia casi complessi dal punto di vista pastorale: ad esempio, quando il primo matrimonio, per quanto valido, è stato contratto in maniera superficiale e, alla fine, fallisce, mentre il secondo viene vissuto in modo coscientemente cristiano e risulta felice e armonioso. Alcuni padri della Chiesa greci, in tali situazioni, bensì impossibili in sè, hanno raccomandato di usare indulgenza. L'allora professore Joseph Ratzinger nel 1972 ha interpretato tali affermazioni in modo esemplare. Il Concilio di Trento si è attenuto alla più rigida tradizione latina, senza tuttavia rigettare del tutto la più mite risposta della Chiesa greco-ortodossa. Gli esperti non sono d'accordo sulle conseguenze che devono essere tratte da questi e da altri punti di vista. È certo che non ci si può allontanare arbitrariamente dalla disciplina ecclesiale, ma essi rendono possibile una seria riflessione teologica. Questa riflessione non ha nulla a che vedere con i titoli ad effetto dei giornali, che creano soltanto confusione e suscitano false aspettative che poi sfociano in delusione. Precisamente nella situazione in cui ci troviamo, la Chiesa non renderebbe un servizio a nessuno se si allontanasse dal chiaro insegnamento di Gesù.
Il ritratto di Benedetto XVI nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura. L’opera è stata realizzata sotto il patrocinio della Fondazione Pro Musica e Arte Sacra, e consegnata in concomitanza col IV Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra. Anche Benedetto XVI si aggiungerà presto alla raccolta di ritratti di papi, tutti a partire da san Pietro, che sovrasta le navate della basilica di San Paolo Fuori le Mura. Il tondo a mosaico con il suo ritratto è stato presentato a papa Joseph Ratzinger al termine dell'udienza generale di mercoledì 23 novembre. Il pittore Ulisse Sartini è l'autore del ritratto, dal quale lo Studio del Mosaico, in Vaticano, ha ricavato il clipeo da affiggere. A offrire il tutto è stata la Fondazione Pro Musica e Arte Sacra. Domani, sabato 26 novembre, il clipeo sarà esposto al pubblico nella basilica di San Paolo e infine collocato al suo posto, accanto a quello di Giovanni Paolo II. Lo stesso sabato, la basilica di San Paolo ospiterà un evento musicale di prima grandezza, a conclusione del IV Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra promosso dalla medesima Fondazione e dalla Daimler Chrysler Italia. I Wiener Philharmoniker diretti da Seiji Ozawa eseguiranno la sinfonia n. 9 e il "Te Deum" di Anton Bruckner. La sera precedente, nella basilica di Santa Maria Maggiore, l'ensemble di musica antica La Venexiana eseguirà il "Vespro della Beata Vergine Maria" di Claudio Monteverdi. E prima ancora, la sera di giovedì 24, nella basilica di San Giovanni in Laterano, la London Philharmonic Orchestra diretta da Paolo Olmi eseguirà lo "Stabat Mater" di Gioachino Rossini. Finalità dichiarata del Festival è di restituire i capolavori della musica sacra all'ambiente per il quale sono stati creati: non le sale di concerto, ma le le chiese. Con le donazioni raccolte con i Festival la Fondazione Pro Musica e Arte Sacra e la Daimler Chrysler Italia hanno realizzato in questi anni importanti restauri: la Cappella di Santo Stefano in San Paolo fuori le Mura, i due organi absidali in San Giovanni in Laterano, la cupola della Cappella di Sisto V in Santa Maria Maggiore, la Cappella Tedesca del santuario di Loreto e la biblioteca del Pontificio Istituto di Musica Sacra a Roma. Questa volta, il concerto dei Wiener Philharmoniker sarà preceduto dall'inaugurazione della restaurata Cappella di San Benedetto in San Paolo fuori le Mura, dedicata a Benedetto XVI.
L’aborto: da “diritto” a dovere? Un intervento della dottoressa Claudia Navarini,(vedi foto), docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Sfatare i luoghi comuni sull’aborto: questo è forse il compito principale del nuovo atteggiamento che si va profilando nella cultura italiana sul tema. Non che non ci sia stato chi lo ha capito in passato, intendiamoci; ma la vulgata che per troppo tempo ha occupato la scena è stata caratterizzata da una lettura del problema parziale - quando non vistosamente deviata - che ha lasciato poco spazio a visioni alternative. Ora sembra, a tratti, che il tabù stia cadendo, e che si possa nuovamente parlare liberamente di aborto. È un altro di quei fenomeni italiani, per certi aspetti prevedibile, per altri aspetti quasi miracoloso. Si respira così un certo imbarazzo, una sorta di kuhniana “fase straordinaria” del pensiero, con gli ideologi di ieri fermi nei loro slogan e un mondo che sta andando oltre superandoli. Il problema è che i vecchi ideologi si presentano come “i moderni”, come gli interpreti autentici del “progresso”, e dal momento che dominano ancora sulla maggior parte dei mezzi di informazione credono basti ripetere stanchi ritornelli per fermare un movimento di riflessione che non li favorisce. Eppure i segni di un cambiamento ci sono, e il referendum del 12 e 13 giugno scorsi lo ha dimostrato. Lo ha dimostrato perché non si è mossa solo la Chiesa Cattolica, ma anche un consistente schieramento di laici non credenti. E lo ha dimostrato anche per la ragione contraria, e cioè perché la Chiesa Cattolica si è mossa e la gente l’ha ascoltata. È un fatto che ha dato fastidio, indubbiamente, ai paladini del laicismo militante, ma forse dà ancora più fastidio il fatto che l’ondata di “realismo” che ha invaso l’Italia nei mesi della PMA non sia finita, e si stia prolungando in un ripensamento della pratica abortiva così come si è imposta in questi trent’anni di aborto legale. Gli slogan, si sa, sono efficaci perché sono semplici, sintetici, rimangono subito in mente, sembrano intuitivi. Il fatto che dicano il vero è secondario: lo slogan, più che spiegare o confermare una visione del mondo, la suggerisce, magari usando la strategia di combinare sapientemente alcune verità con alcune menzogne in modo tale che tutto appaia verità. E di slogan sull’aborto ne abbiamo sentiti molti, opportunamente rispolverati di recente per promuovere l’introduzione dell’RU-486. Lo slogan di gran lunga più sfruttato recita: “le donne devono essere libere di scegliere”. Siamo tutti contro l’aborto, si dice, nessuno vuole che gli aborti aumentino, l’aborto è un dramma da evitare ma … le donne devono poter “scegliere” perché, in fondo, la gravidanza è una condizione che riguarda soprattutto loro, e se non è desiderata o indicata bisogna in qualche modo “interromperla”. Come? Nel modo meno traumatico possibile. Di qui la sponsorizzazione della pillola abortiva, che ridurrebbe le sofferenze delle donne. Le risposte a questo condensato di luoghi comuni non sono poi così difficili, se si accetta di ragionare senza pregiudizi. Innanzitutto bisogna precisare che l’aborto non è un diritto. Non esiste un simile diritto nella legge morale naturale, né la normativa italiana in materia ammette un diritto incondizionato all’aborto. Non è un diritto semplicemente perché non è una procedura sanitaria qualsiasi, ma un atto con il quale si sopprime volontariamente una vita umana. È tecnicamente un omicidio, e non può essere considerato altrimenti: il Concilio Vaticano II non esita a definirlo “delitto abominevole” (Gaudium et Spes, 51). Trattandosi di una “licenza per uccidere”, l’aborto – anche quello “legale” – non può essere un diritto: non esiste un diritto di uccidere. È innegabile che la gravidanza, per la sua fisiologia, e la maternità, per le responsabilità che comporta, possono divenire problematiche e rendere così il bambino in arrivo un problema. La vera soluzione non è tuttavia la soppressione del nascituro, ma semmai l’aiuto concreto alle donne e alle famiglie in difficoltà, esattamente come previsto da quella legge 194 che - secondo lo slogan - “non si tocca”, però – stranamente – neppure si applica per intero. E comunque, in qualunque situazione, resta la verità etica fondamentale che non posso eliminare direttamente e volontariamente un altro essere umano. Al massimo posso difendere la mia vita uccidendo per legittima difesa il mio aggressore, ma i casi in cui il bambino possa essere considerato un “aggressore” appaiono di difficile individuazione, mentre quelli in cui si configura l’aborto come atto indiretto, sono rarissimi e ben individuabili dal punto di vista etico, e non hanno nulla a che vedere con la valenza “terapeutica” del nostro aborto legale. Un aborto è indiretto, cioè non volontario, quando si interviene per curare una donna gravida da una patologia, con la conseguenza, prevista ma non voluta, di compromettere la salute e la vita del bambino. Anche in questi casi la donna ha la libertà di non abortire, ma ha anche il diritto di difendere la propria vita – dalla malattia, non dal bambino – con la cura adeguata, sia essa una chemioterapia o una resezione dell’utero o l’asportazione di una massa tumorale. Il 18 novembre, nel discorso di apertura del Congresso nazionale dei Centri di Aiuto alla Vita, il Presidente del Movimento per la Vita Italiano Carlo Casini ha ribadito appunto come i 280 Centri sparsi in tutta Italia abbiano garantito a circa 70.000 donne la fondamentale libertà di non abortire, che spesso sembra negata nella fredda routine delle procedure consultoriali Se l’opera di dissuasione dal ricorso all’aborto fosse davvero compiuta in fase di consulenza, in ottemperanza alla legge 194/1978, la polemica recentemente insorta a proposito della RU486 sarebbe del tutto vana, perché le donne non si lascerebbero persuadere ad utilizzarla. Intanto perché è un farmaco che presenta rischi importanti. L’hanno usata già “milioni” di donne, si annuncia trionfalmente, e tuttavia una percentuale non trascurabile di esse, circa l’1%, ha avuto conseguenze gravissime, fino ai documentati casi di morte che hanno portato a maggiori restrizioni in luoghi – come gli Stati Uniti e la Cina – dove la pillola era stata introdotta in modo alquanto liberale. Conseguenze meno gravi ma significative sono accusate da tutte le donne che vi hanno fatto ricorso, per non parlare dei problemi di ordine psicologico, presenti in misura anche maggiore rispetto all’aborto chirurgico in quello chimico Pochi giornali riportano i casi di donne che, dopo l’aborto farmacologico, hanno annunciato che sarebbe stata “l’ultima volta”, proprio a causa dei disagi patiti. È tuttavia significativo che venga usato uno dei farmaci largamente percepiti come innocui per descrivere un preparato certamente mortale, almeno per colui al quale è diretto, cioè il bambino in gestazione. Le numerose affermazioni tranquillizzanti – pronunciate dai medici che si battono per l’introduzione della RU-486 – rivelano al di là di ogni possibile dubbio come l’aborto farmacologico banalizzi effettivamente l’aborto stesso, cercando di ridurlo ad un “trattamento qualsiasi”. Come si può sostenere al contempo che la RU-486 libera per sempre le donne dal dolore dell’aborto e che non intende in alcun modo aumentarne il numero? Per ridurre il numero degli aborti, è chiaro, occorre limitarne – laddove non si possa impedirne – la pratica, indagando attentamente motivazioni e contesto, attuando un’opera attenta di formazione alla maternità responsabile e cercando di eliminare gli ostacoli che si frappongono eventualmente alla continuazione della gravidanza. (Nella foto il Comitato cattolico per la bioetica). Ma proprio qui mostrano il loro vero volto coloro che ipocritamente dicono di considerare l’aborto un “dramma”, una scelta “lacerante”, una “tragedia” da ridurre. Da ridurre, sorprendentemente, attraverso la sua totale liberalizzazione e facilitazione: una pillola e via, così anche i dottori se ne possono lavare le mani. Uteri vostri, affari vostri. Con l’acume e la puntualità consueti ha segnalato questo punto Eugenia Roccella, sottolineando un altro elemento determinante nella novità dell’aborto farmacologico: la solitudine ancora più profonda delle donne, che nel mezzo del dramma si ritrovano con una pillola fra le mani, fra l’indifferenza generale. Chi spinge per la RU-486 non sono in primo luogo le donne, che anche laddove “possono scegliere” si orientano in prevalenza verso l’aborto chirurgico, ma le strutture sanitarie e la classe medica, che si possono liberare per questa via dall’ingombrante peso di quei piccoli corpi umani dilaniati. È cioè “un’operazione di candeggiatura dell’immaginario”, è “l’aborto (illusoriamente) ripulito, infiocchettato e rispedito al mittente”: “trasformarlo in una procedura asettica e astratta è una soluzione che maschera e nega sia la violenza esercitata sul feto sia quella sulle donne” (E. Roccella, Il falso dilemma tra aborto “amichevole” a aborto colpevolizzante, “Il Foglio”, 18 novembre 2005, p. 2). Lo prova la reazione alla proposta di inserire volontari per la vita nei consultori, così da aiutare le donne in difficoltà, renderle meno sole, più consapevoli, e contribuire a evitare ciò che tutti sembrano chiamare “dramma” salvando concretamente qualche vita: indignazione e protesta da parte di chi un minuto prima parlava di “poter scegliere”. Perché, in fondo, questo aborto si deve fare, a tutti i costi. I coltivatori del dubbio sistematico, gli hezbollah del relativismo morale non tollerano che si cambi idea una volta che una donna abbia pensato di abortire. In questo caso non solo non si deve dubitare, ma va impedito che si possa farlo. E la cosa è ancora più rivoltante se solo si rammenti – mai abbastanza – quale sia il processo di isolamento psicologico ed emotivo delle donne che affrontano una gravidanza resa ancor più difficile dalla pressione/assenza di uomini deboli ed egoisti, di famiglie impazienti di sbarazzarsi del problema, di ginecologi senza scrupoli e di una pseudo-cultura di falsa libertà ma di vera violenza sui più deboli, come appunto le donne in difficoltà e ancor di più gli esseri umani senza voce e senza diritti che portano in grembo. Occorre allora riparlare soprattutto dei diritti umani fondamentali, anche di quello dell’embrione alla vita che nemmeno la 194 nega, a partire dal dato biologico e antropologico per cui il frutto del concepimento umano è sempre un essere umano, e come tale va tutelato. Nel discorso citato, Casini ha affermato che “la cultura dei diritti umani, nonostante i tentativi di svuotarla o, addirittura, di trasformarla nel suo contrario, ha una forza espansiva inarrestabile che finirà per abbracciare anche il concepito”.
20 novembre 2005
Il Papa invoca una formazione dei sacerdoti più adeguata alle sfide attuali Messaggio ai Vescovi italiani riuniti ad Assisi per l’Assemblea Generale In un messaggio inviato ai Vescovi italiani riuniti ad Assisi fino al 18 novembre nella loro 55° Assemblea Generale, Benedetto XVI ha sottolineato l’urgenza di assicurare una formazione adeguata alle sfide di questi tempi ai candidati al ministero sacerdotale. Il Consesso aperto questo lunedì dalla prolusione svolta dal Cardinale Camillo Ruini, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, rifletterà infatti principalmente sulla formazione al ministero presbiterale nella Chiesa italiana, che accompagnerà la presentazione, discussione e votazione del documento “Orientamenti e norme per i seminari”. A tal proposito, nel richiamare la necessità di incrementare la pastorale vocazionale per ovviare alla “diminuzione del clero” e al “progressivo innalzamento dell’età media dei sacerdoti”, il Pontefice ha quindi fatto appello a “definire sempre meglio la proposta formativa, in modo da garantire una preparazione umana, intellettuale e spirituale che sia all’altezza delle nuove sfide che il ministero sacerdotale è chiamato da affrontare”. “La Chiesa oggi – ha affermato poi – ha bisogno di sacerdoti che siano pienamente consapevoli del dono di grazia che ricevono con l’Ordinazione presbiterale e con la missione loro affidata in un tempo di rapidi e profondi cambiamenti”. “Affinché le nostre comunità crescano armoniosamente nella verità e nella carità, attorno all’Eucaristia e alla Parola di Dio, è indispensabile la presenza di sacerdoti che agiscano in nome di Cristo e vivano in intima unione con Lui che li ha chiamati e inviati”, ha osservato il Vescovo di Roma. “La Chiesa ha bisogno di presbiteri che sappiano sempre conformare il loro agire al modello del buon Pastore, lasciandosi guidare con docilità dallo Spirito Santo in piena comunione con i loro Vescovi”, ha quindi aggiunto. Nel suo messaggio il Papa ha poi posto l’accento anche sulla necessità che questa azione formativa avvenga in un “contesto comunitario, per essere un riflesso di quella comunione di vita che Gesù aveva con i suoi discepoli”. “Essendo quello dei sacerdoti un compito centrale e insostituibile, ogni cura deve essere posta per la loro formazione a partire dalla qualità dei formatori”, ha sottolineato. “Tutti i fedeli, pregando il Padrone della messe, possono contribuire al fiorire delle vocazioni e alla formazione dei presbiteri, perché ciò che forgia un sacerdote è in primo luogo la sua preghiera e la preghiera che tutta la comunità innalza al Signore per lui e per il suo ministero”, ha poi concluso. Nel corso della sua prolusione [per gli altri temi affrontati vedi più avanti], il Cardinale Ruini ha affermato che “in una Chiesa che avverte sempre più acutamente la necessità e priorità dell’evangelizzazione, anzitutto la figura del sacerdote deve assumere una più marcata caratterizzazione missionaria”. “Ciò richiede in lui una identità spirituale e ministeriale ben chiara e profondamente radicata in Cristo, lieta e convinta della propria appartenenza ecclesiale, e al contempo aperta e per così dire ‘estroversa’, capace cioè di capire le persone e i contesti sociali e culturali in cui si è chiamati ad operare”, ha osservato il porporato. Da ciò deriva nella formazione dei seminaristi e nella stessa configurazione dei seminari, l’urgenza ad “aiutare i candidati al sacerdozio a fare sintesi della loro fede personale ed ecclesiale, a livello non solo intellettuale ma anche vitale e in rapporto alla società e alla cultura”. Di conseguenza, ha aggiunto il porporato, si chiede di “sostenere la crescita della responsabilità personale e delle doti e carismi di ciascuno, favorendo il formarsi e consolidarsi di soggetti forti e motivati, idonei a diventare per le comunità guide e punti di riferimento, ed evitando invece gli appiattimenti, come anche le fughe nell’intimismo o nell’estetismo”. “In questa ottica sembra importante che nei seminari le regole da una parte non siano troppo minuziose e non pretendano di inquadrare ogni momento della giornata, dall’altra siano prese sul serio e rispettate concretamente”, ha affermato poi. Tuttavia, notevole rilievo deve assumere nei candidati al sacerdozio l’impulso “a ritornare sempre di nuovo a Cristo, a rimanere nel suo amore e per così dire a riposarsi in esso”. “Questa è infatti, come ha detto il Papa a Colonia, la condizione perché quando saranno preti non si inaridiscano e non si smarriscano nelle fatiche e nei pericoli che la missione inevitabilmente comporta”, ha infine concluso.
Il Cardinale Ruini difende la famiglia e denuncia la pillola abortiva RU-486 Nel corso della prolusione alla 55a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) in svolgimento ad Assisi, il Cardinale Camillo Ruini, Presidente della CEI, ha indicato come segnali positivi gli aiuti varati dalla legge finanziaria del Governo italiano per la famiglia, nel sostegno alla nascita e al mantenimento dei figli. E' stato, infatti, deciso il contributo di mille Euro per ogni figlio nato o adottato nel 2005. Mentre, il “maxiemendamento” del Governo alla Finanziaria che la settimana scorsa ha ricevuto il via libera dal Senato, prevede altri interventi a sostegno dei genitori, come l'assegno da 160 Euro per ogni figlio nato tra il 1° gennaio 2003 e il 31 dicembre 2005. Inoltre sono previsti 120 Euro per le famiglie che hanno mandato i figli agli asili nido privati nel 2005. Ci sarà una detrazione d'imposta del 19% “per le spese documentate sostenute dai genitori per il pagamento di rette relative alla frequenza di asili nido per un importo complessivamente non superiore a 632 Euro annui per ogni figlio”. In arrivo anche un aiuto alle famiglie che hanno figli studenti universitari fuori sede con un primo stanziamento in via sperimentale di 25 milioni di Euro. “Gli aiuti per i nuovi nati, come anche per le giovani coppie che acquistano casa e per le famiglie che mandano i figli negli asili nido, sono certo dei segnali positivi”, ha affermato il Cardinale Ruini, anche se “si rimane però nell’ambito di cifre che non consentono di impostare una politica familiare capace di incidere seriamente sull’andamento demografico”. “A una tale politica – ha sostenuto il Presidente della CEI – devono certamente aggiungersi altri fattori culturali e sociali di fondamentale importanza per promuovere i quali anche la pastorale della Chiesa deve operare senza stancarsi e soprattutto le concrete scelte di vita delle coppie e delle famiglie”. Ruini ha ricordato che le parole “senza figli non c’è futuro”, già pronunciate da Giovanni Paolo II e ripetute da Benedetto XVI nell’Udienza generale di mercoledì 2 novembre rivolgendosi all’Associazione Nazionale Famiglie Numerose, “esprimono insieme ad una verità fin troppo evidente, l’avvertimento più serio per quanti hanno peculiari responsabilità nella vita sociale e per tutto il nostro popolo”. “Il leggero incremento del tasso di natalità che si registra costantemente nel nostro Paese in questi ultimi anni rappresenta, in un quadro che rimane assai oscuro, un segno di speranza”, ha però tenuto a precisare. Secondo il porporato “ben diverso è, purtroppo, il segnale che viene dalla corsa, in atto in alcune regioni, ad introdurre l’uso della pillola abortiva RU-486”, la cui sperimentazione è stata riavviata presso l’Ospedale Sant’Anna di Torino, e per la cui importazione dall’estero le Regioni Liguria e Toscana hanno deciso di stanziare dei fondi. “Si compie così un ulteriore passo in avanti nel percorso che tende a non far percepire la reale natura dell’aborto, che è e rimane soppressione di una vita umana innocente”, ha osservato il Cardinale.
“Tutti i battezzati sono chiamati alla perfezione”, ricorda Benedetto XVI Nel ricordare gli insegnamenti lasciati dal Concilio Vaticano II Riprendendo uno degli insegnamenti principali del Concilio Vaticano II, Benedetto XVI ha ricordato domenica 13 u.s. che “tutti i battezzati sono chiamati alla perfezione”, soprattutto i laici. Questo aspetto dell’eredità di quel vertice ecclesiale è diventato l’argomento centrale del discorso che il Papa ha rivolto ai pellegrini a mezzogiorno, prima di recitare con loro la preghiera mariana dell’Angelus dalla finestra del suo studio. Piazza San Pietro in Vaticano era completamente piena di fedeli, provenienti da molti Paesi, tra i quali Algeria e Marocco, che poco prima avevano partecipato alla beatificazione di Charles De Foucauld, l’apostolo dei tuareg nel Sahara, Maria Pia Mastena, fondatrice delle Suore del Santo Volto, e Maria Crocifissa Curcio, Fondatrice della Congregazione delle Suore Carmelitane Missionarie di Santa Teresa di Gesù Bambino. La loro vita, ha detto il Pontefice, ricorda che “tutti i battezzati sono chiamati alla perfezione della vita cristiana: sacerdoti, religiosi e laici, ognuno secondo il proprio carisma e la propria specifica vocazione”. Benedetto XVI ha constatato che il Concilio Vaticano II, al quale ha offerto il proprio contributo come teologo, ha prestato “grande attenzione” “al ruolo dei fedeli laici”, definendo la loro “vocazione e missione”, radicate “nel Battesimo e nella Cresima” e orientate a “cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”. Il Pontefice ha citato in particolare il decreto del 18 novembre 1965 di quel Concilio, proprio sull’apostolato dei laici, l’“Apostolicam actuositatem”. Il documento, ha ricordato, “sottolinea innanzitutto che la fecondità dell’apostolato dei laici dipende dalla loro unione vitale con Cristo, cioè da una robusta spiritualità, alimentata dalla partecipazione attiva alla Liturgia ed espressa nello stile delle beatitudini evangeliche”. Per i laici, ha sottolineato, “sono di grande importanza la competenza professionale, il senso della famiglia, il senso civico e le virtù sociali”. “Se è vero che essi sono chiamati individualmente a rendere la loro testimonianza personale, particolarmente preziosa là dove la libertà della Chiesa incontra impedimenti, tuttavia il Concilio insiste sull’importanza dell’apostolato organizzato, necessario per incidere sulla mentalità generale, sulle condizioni sociali e sulle istituzioni”, ha indicato. Il Pontefice ha concluso il suo intervento chiedendo preghiere “perché cresca in ogni battezzato la consapevolezza di essere chiamato a lavorare con impegno e con frutto nella vigna del Signore”. Il discorso del Papa continua la serie di riflessioni portate avanti nel corso dei suoi interventi domenicali, in preparazione del quarantesimo anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II, che avrà luogo l’8 dicembre prossimo.
Portiamo la Bibbia tra i banchi di scuola L’appello ai Governanti di un gruppo di intellettuali laici Esattamente 40 anni fa, il 18 novembre 1965, con 2.344 voti favorevoli e 6 contrari su 2.350 votanti, il Concilio Vaticano II approvava un breve ma intenso documento denominato Dei Verbum, "Parola di Dio". Questo scritto avrebbe profondamente inciso nella Chiesa cattolica facendo sì che i fedeli ritornassero con entusiasmo alla Bibbia. Infatti, all’inizio degli anni ’50 un famoso poeta francese, Paul Claudel ironizzava: «I cattolici dimostrano un grande rispetto nei confronti della Sacra Scrittura e lo attestano standone il più lontano possibile». Ora, invece, bisogna riconoscere che la catechesi è profondamente segnata dalla Bibbia; la liturgia permette al fedele di percorrere quasi tutte le pagine bibliche e con la Liturgia delle Ore fa sì che i Salmi cantino ancora Dio "con arte" e con gioia; la teologia si àncora saldamente al messaggio biblico; i programmi dell’ora di religione nelle scuole hanno come base il testo sacro. Anche il nostro giornale ha dato un contributo importante quando, una decina d’anni fa, ha iniziato a offrire i fascicoli della Bibbia per la famiglia. Detto questo, bisogna riconoscere che la strada da percorrere è sempre aperta. Soprattutto, c’è l’orizzonte più vasto della cultura contemporanea che è spesso "analfabeta" nei confronti di quello che è pur sempre il "grande codice", ossia il riferimento capitale, la stella polare della nostra civiltà. Si pensi solo alla storia dell’arte: come si può entrare nella Cappella degli Scrovegni a Padova e contemplare il capolavoro giottesco senza conoscere i Vangeli? Aveva ragione il pittore Chagall, quando dichiarava che «per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato di immagini che è la Bibbia». Ma anche il nostro linguaggio quotidiano gronda di rimandi biblici inconsci, in espressioni comuni come "il frutto proibito", "lavarsene le mani", "un’apocalisse", "una voce nel deserto", "il figlio prodigo", "il bacio di Giuda" e persino un oggetto così realistico come il "lavabo" porta in sé un’allusione a un salmo e alla sua applicazione liturgica! Giustamente Umberto Eco si chiedeva: «Ma perché mai i nostri ragazzi devono sapere tutto di Omero e dei suoi eroi e nulla di Mosè? Perché l’Eneide e non il Cantico dei cantici?». Nei giorni scorsi, l’11 e il 12 novembre, a Milano si è presentata nuovamente al grosso pubblico con un convegno l’Associazione laica di cultura biblica "Biblia", nata vent’anni fa a Settimello, nei pressi di Firenze, a opera di una donna, Agnese Cini, che a essa ha dedicato la sua vita, sostenuta da un numero sempre più ampio di aderenti. In questa occasione si è voluto rilanciare un appello riguardante la Bibbia nella scuola, allargandone la presenza oltre l’ora di religione. L’appello, affidato alla sottoscrizione pubblica, vuole indurre i governanti a elaborare iniziative didattiche nella scuola per «far sì che la conoscenza della Bibbia e dei suoi influssi nell’arte, nel pensiero, nella letteratura, nella stessa etica comune venga sempre più considerata una componente indispensabile nella formazione culturale di ogni studente o, meglio, di ogni cittadino». È, infatti, paradossale che, di fronte alla presenza viva e marcata di nuove comunità religiose ed etniche nel nostro Paese, dòmini in noi "indigeni" italiani ed europei una vera e propria "incoscienza" della nostra identità storica, culturale e spirituale (tra l’altro, non si deve dimenticare che lo stesso islam nei suoi testi sacri assume molte componenti del messaggio biblico). L’appello di "Biblia" va, quindi, oltre l’invito rivolto al fedele perché consideri sempre la Bibbia come "lampada per i suoi passi" nel cammino della vita. Si rivolge certamente anche ai credenti, ma si estende a tutti perché comprendano che l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di sé stessi, del proprio volto autentico, come diceva il grande poeta inglese Eliot. Infatti, come aveva confessato una figura altissima di scienziato e pensatore, Blaise Pascal, la Sacra Scrittura – oltre che essere stata per secoli il costante "vocabolario" dell’arte – ha per ogni persona «passi adatti a inquietare le coscienze in tutte le situazioni e passi adatti a consolare in tutte le situazioni». di Gianfranco Ravasi
Crescerà il numero dei sacerdoti esteri, diminuiranno i parroci, ma saranno più giovani Nel 2023 il clero potrebbe ridursi di oltre un terzo, afferma uno studio commissionato dalla CEI Clero sempre più anziano e sempre più sacerdoti esteri in servizio nelle parrocchie italiane, mentre i Vescovi si dicono ottimisti a fronte di una realtà molto più dinamica rispetto ad altri Paesi. E’ questa la situazione descritta ne “La parabola del Clero – uno sguardo socio-demografico sui sacerdoti diocesani in Italia”, un libro appena pubblicato dalle Edizioni della Fondazione Agnelli. Il volume a cura del professor Luca Diotallevi, docente di Sociologia all’Università di “Roma Tre”, è frutto di uno studio di demografia sacerdotale commissionato dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI) alla Fondazione Agnelli. E’ la prima volta che viene realizzata in Italia un’analisi demografico-sociologica della popolazione del clero diocesano in servizio nelle diverse diocesi della Penisola. Nel corso della Conferenza di presentazione del volume, avvenuta a Roma venerdì 11 novembre, monsignor Giuseppe Betori, Segretario Generale della CEI, ha spiegato che “la ricerca è apparsa utile anche in vista delle riflessioni che l’Assemblea Generale della CEI sta sviluppando, dovendo pensare al futuro della parrocchia in Italia anche in considerazione dell’elaborazione del documento ‘Orientamenti e norme per i seminari’”. Secondo i dati relativi al 2003 i sacerdoti diocesani sul territorio italiano sono circa 33.000 (su circa 36.000 preti secolari iscritti all'Istituto centrale di sostentamento del clero), ma data l’elevata età media e il numero contenuto delle nuove ordinazioni, si prevedono in alcune regioni diminuzioni del clero diocesano attivo nelle parrocchie fino al 40%. Betori ha affermato tuttavia che la situazione non preoccupa i Vescovi, sia perché in alcune regioni come Calabria, Sicilia, Puglia e Basilicata si assiste ad una crescita, sia perché si è di fronte ad un cambio generazionale, con i prossimi dieci anni che vedranno una diminuzione dell’età media dei sacerdoti, e per ultimo perché la situazione italiana si mostra ancora molto più dinamica e solida di quanto avviene in altri Paesi europei come Francia e Spagna. Secondo il Segretario Generale della CEI, “non c’ è da preoccuparsi se saremo di meno. Il problema non è quantitativo. Bisogna prendere atto dei cambiamenti in corso”, e agire di conseguenza attraverso una riorganizzazione del tessuto e della rete delle parrocchie. Lo studio della Fondazione Agnelli, illustrato dal Stefano Molina (vedi foto), rivela che l’età media del clero diocesano è di 60 anni. Il 42,3% dei sacerdoti diocesani ha 65 anni o più. Più che di una crisi determinata dalla secolarizzazione, il dato riflette la situazione demografica italiana, con un incremento notevole della popolazione anziana ed un crollo della popolazione giovane. Preoccupa in particolare l’evoluzione prevista della popolazione maschile. Se il trend non viene invertito si prevede che la popolazione maschile di età compresa tra i 25 ed i 34 anni, che nel 1998 era di 4.697.931 nel 2023 sarà di 3.033.067, il che comporta una riduzione di oltre un terzo. Tra le Regioni il Lazio è quella che ha l’età media dei suoi sacerdoti più giovane (54 anni e mezzo) mentre le Marche con 64,2 anni è quella con un età media più anziana. Se si confronta il sacerdozio con le altre professioni si scopre che la densità di presenza sul territorio (0,56 ogni mille abitanti) è quasi pari a quella degli odontotecnici (0,6 ogni mille abitanti), ma viene superata dalla presenza degli psicologi iscritti all’Ordine (0,66 ogni mille abitanti). La regione con minore densità di sacerdoti diocesani è la Campania, (0,37 sacerdoti ogni mille abitanti) e la maggiore è l’Umbria con 0,80 sacerdoti ogni mille abitanti. Lo studio rileva anche la crescente presenza di sacerdoti diocesani nati all’estero che hanno raggiunto il numero di 1500, il 4,5% del totale, con una forte concentrazione territoriale in Toscana, Umbria, Lazio, Abruzzo e Molise dove superano il 10%. Tra i sacerdoti fino a 40 anni la presenza dei nati all’estero sale fino al 13,5%. Anche in questo caso i numeri sono coerenti con le percentuali di immigrazione dell’Italia, e riflettono anche situazioni particolari come quella di Roma dove tra Università Pontificie, Collegi o Congregazioni religiose, si concentra la maggior parte dei sacerdoti provenienti da altri Paesi. Il Lazio con il 21,3% è infatti la Regione con la maggior presenza di sacerdoti nati all’estero. La Lombardia con una percentuale dello 0,9% è quella che registra la presenza meno significativa di sacerdoti esteri.
Precisazione dei Vescovi italiani su laicità, Concordato e difesa della vita I temi della presunta ingerenza della Chiesa negli affari dello Stato italiano, il rispetto della laicità, la difesa della vita, la condanna della RU-486, e le richieste di riforma del Concordato tra l’Italia e lo Stato del Vaticano sono entrati nel dibattito dei 260 Vescovi riuniti ad Assisi per 55° Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI). Nel corso di una conferenza stampa che si è svolta martedì 15 novembre, monsignor Giuseppe Betori, Segretario Generale della CEI, ha precisato che il tema della “laicità” è molto sentito dai Vescovi, visto che è stato oggetto di sei interventi che hanno fatto seguito alla prolusione pronunciata lunedì dal Cardinale Camillo Ruini, Presidente dell’episcopato italiano. Il presule ha spiegato che non si cercano privilegi, ma che “con serenità si vuole una missione irrinunciabile e che non ci rende estranei alla realtà sociale e civile, ma che ci impegna a far emergere una valenza civile del cristianesimo”. Monsignor Betori (vedi foto) ha riferito che i Vescovi italiani hanno chiesto di “sviluppare il concetto di laicità positiva”, già espresso dal Pontefice Benedetto XVI. “Il cattolicesimo è convinto di essere un presidio di un vero umanesimo e noi sentiamo con più urgenza il bisogno di rispondere alle richieste di umanizzazione che ci vengono dalla società”, ha commentato. Sui temi etici, il Segretario Generale della CEI ha ricordato il referendum parzialmente abrogativo della legge 40 circa la fecondazione assistita per mostrare come si sia realizzata una convergenza “di non credenti sul fronte della difesa della vita”. In merito alla pillola abortiva RU-486, Betori ha invece ribadito che “per noi l’aborto resta una realtà da condannare: da questo punto di vista per noi va combattuta tutta quella linea che vede nell’aborto un diritto civile. L’aborto in sé non sarà mai per la coscienza cristiana un diritto civile”. “Tutte le modalità che si iscrivono in questa direzione vengono da noi rifiutate in quanto inclinano verso una minore percezione della gravità morale dell’atto dell’aborto”, ha aggiunto. A questo proposito il presule ha annunciato che il comitato “Scienza e Vita” attivo durante il referendum sulla procreazione assistita riprenderà la sua attività, in forma nuova. Per quanto riguarda invece un eventuale revisione del Concordato, come richiesto dai Socialisti Democratici Italiani (Sdi) e dai Radicali [attraverso il loro portavoce, che infarcisce i suoi deliranti e scontati interventi con un farneticante e anacronistico odio anticlericale, di chiara parentela con il livore acefalico tipico dei bassifondi intellettuali di certi centri sociali. (n.d.r)] monsignor Betori ha affermato che per la Chiesa italiana la discussione è già chiusa. “Noi non sentiamo l’esigenza di aprire nessuna discussione al riguardo – ha commentato –. Né le forze politiche se non in maniera estremamente marginale, né le forze culturali né il sentire diffuso fra la gente pongono l’esigenza di aprire un dibattito sulla riforma o l’abolizione del Concordato”. Nel corso dell’omelia pronunciata durante la Messa celebrata il 15 novembre ad Assisi, nella Basilica inferiore di San Francesco, il Cardinale Camillo Ruini ha commentato un brano biblico in cui si parlava della persecuzione contro Elisar, uno scriba dell’epoca dei Maccabei. Il Presidente della CEI ha preso spunto da questa lettura per respingere le polemiche sollevate in diversi giornali sul ruolo e sull'interventismo della Chiesa cattolica in Italia. “Non si può troppo alla leggera parlare di persecuzione verso coloro che credono in Cristo – ha affermato il porporato –. Io di solito dico in modo un po’ scherzoso che le pallottole di carta in realtà fanno poco male, però la pressione può essere alta specialmente verso quei cristiani direttamente esposti in diversi ambiti”. Ma, ha poi aggiunto il Cardinale, “la pressione può essere frutto non tanto di ostilità ideologica e piuttosto per il cristiano si tratta di resistere alla omologazione della nostra società”. Si tratta di una pressione “dolce, che nasce dai comportamenti diffusi e omologati”, veicolati dalla nostra società.
Il Cardinal Arinze: “La gente non va a Messa per essere intrattenuta” “Va a Messa per adorare Dio”, afferma il Prefetto della Congregazione per il Culto Divino Di fronte alle improvvisazioni a cui si assiste durante le liturgie, soprattutto nella scelta delle musiche, il Cardinal Francis Arinze ribadisce l’importanza di fare della Messa un momento di riflessione e incontro con Dio, più che una forma di intrattenimento. In un’intervista rilasciata alla rivista statunitense “Inside the Vatican”, il Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha tracciato un bilancio complessivo del recente Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia e degli sviluppi nella pratica liturgica a 40 anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II. “Per quanto riguarda la musica nella liturgia, dovremmo iniziare dicendo che la musica gregoriana è la preziosa eredità della Chiesa – ha osservato –. Non dovrebbe essere eliminata. Se quindi in una diocesi o in un Paese particolare nessuno ascolta più la musica gregoriana, allora qualcuno ha commesso un errore”. La Chiesa, ha spiegato, non dice che dovrebbe esserci solo musica gregoriana: “c’è posto per la musica che rispetta quella lingua specifica, quella cultura, quel popolo”, ed è una questione “che deve essere affrontata dalla Conferenza Episcopale, perché in genere va al di là dei confini di una diocesi”. “L’ideale sarebbe che i Vescovi avessero una Commissione di Musica Liturgica che studia il testo e la musica degli inni. E quando la Commissione è soddisfatta, il parere viene presentato ai Vescovi per l’approvazione, a nome del resto della Conferenza”, ha proposto. Secondo il Cardinale, “non ci devono essere individui che compongono qualcosa e lo cantano in chiesa. Non è una cosa giusta. Non importa quanto sia grande il loro talento”. Quanto agli strumenti utilizzati nella liturgia, “la Chiesa dovrebbe essere consapevole del fatto che adorare in chiesa non è lo stesso che cantare in un bar, o in un raduno di giovani”. “Non mi pronuncerò dicendo ‘mai la chitarra’ – ha spiegato –. Sarebbe piuttosto rigido. Gran parte della musica per chitarra, però, potrebbe non essere adatta per la Messa”. Per il porporato, “il giudizio dovrebbe essere lasciato ai Vescovi del luogo. E’ più saggio, anche perché ci sono strumenti in molti Paesi che non vengono usati ad esempio in Italia o in Irlanda”. “La gente non va a Messa per essere intrattenuta – ha constatato il Prefetto della Congregazione vaticana –. Va a Messa per adorare Dio, per ringraziarlo, per chiedergli perdono per i peccati ed altre cose di cui ha bisogno”. “Quando vuole divertirsi, sa dove andare: nella sala parrocchiale, nel teatro, presumendo che il suo divertimento è accettabile da un punto di vista teologico morale”, ha aggiunto il porporato, che ha da poco celebrato il 40° anniversario della sua ordinazione episcopale. Ombre e luci del Sinodo sull’Eucaristia Nel corso dell’intervista, il Cardinale Arinze, che alla recente XI Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, convocata per discutere sul Sacramento dell’Eucaristia, è stato uno dei Presidenti delegati, ha quindi tirato le somme su questo avvenimento ecclesiale che ha riunito 252 Vescovi da tutto il mondo. “Rafforzare la nostra fede nella Santa Eucaristia. Nessuna nuova dottrina, ma freschezza di espressione della nostra fede eucaristica. Incoraggiamento nella celebrazione nel senso dell’attenzione; una celebrazione che mostri la fede”, ha spiegato enunciando alcuni degli aspetti che sono stati affrontati. “Il Sinodo ha ringraziato i sacerdoti per il loro ministero, e anche i diaconi e gli altri che assistono alla celebrazione della Messa”, ha proseguito, aggiungendo che è stata anche sottolineata “l’importanza dell’adorazione eucaristica fuori dalla Messa che ha i suoi frutti nella Messa stessa”, “l’atto supremo di adorazione”. “Il Sacramento, però, non termina dopo la Messa – ha ricordato Arinze –. Cristo è nel tabernacolo per essere portato ai malati, per ricevere le nostre visite di adorazione, lode, amore, supplica. I Padri sinodali non hanno solo parlato di adorazione, hanno fatto adorazione ogni giorno. Cristo era esposto nell’ostensorio nella cappella vicino all’Aula sinodale, un’ora al mattino, una al pomeriggio”. Il Sinodo ha quindi sottolineato l’importanza di una buona preparazione alla Santa Eucaristia, “incoraggiando il sacramento della Penitenza come modo di crescere nella fedeltà a Cristo”. Il Cardinale ha rilevato nel mondo occidentale la tendenza di sempre più cattolici ad avere “un concetto più protestante dell’Eucaristia, considerandola soprattutto un simbolo”. “I Padri sinodali riconoscono che molti cattolici non hanno una fede corretta nella Presenza Reale di Cristo nella Santa Eucaristia – ha affermato –. Questo è stato menzionato anche in una delle Proposizioni finali ”. Visto che “per molti cattolici l’omelia domenicale è l’unico insegnamento religioso che ricevono durante la settimana”, il Prefetto ha poi ricordato come molti Padri sinodali abbiano sottolineato l’opportunità di “temi suggeriti per le omelie domenicali”, proponendo “che le quattro aree principali della fede cattolica siano coperte dall’omelia in un ciclo triennale”. Le quattro parti principali sono, come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Ciò in cui crediamo; come adoriamo, ad esempio i Sacramenti; cosa viviamo, la vita in Cristo, la legge morale, i dieci comandamenti, la vita cristiana vissuta; e la preghiera”. “Anche se l’omelia dovrebbe riguardare le letture delle Scritture e gli altri testi liturgici, bisogna trovare un modo per coprire l’intera area della fede cattolica in un periodo di tre anni, perché molti cattolici ignorano la questioni fondamentali. E’ un fatto, nessuno può negarlo”, ha denunciato. Ripensando il Concilio Vaticano II Secondo il Cardinal Arinze, “il Vaticano II ha portato molte cose positive, ma non tutto è stato un bene e il Sinodo ha riconosciuto che ci sono state delle ombre”. Ad esempio, “è stata trascurata un po’ la Santa Eucaristia fuori dalla Messa. C’è molta ignoranza. Molte tentazioni di protagonismo per il sacerdote che celebra”. A quest’ultimo proposito, il porporato ha spiegato che se il sacerdote “non è molto disciplinato, diventerà presto un ‘artista’. Può non rendersene conto, ma proietterà se stesso più che Cristo. E’ davvero molto difficile per il fatto che l’altare sta di fronte alle persone. Anche coloro che leggono la prima e la seconda lettura possono adottare piccole tattiche per far concentrare l’attenzione su di sé e distrarre la gente”. “Ci sono quindi dei problemi. Ad ogni modo, alcuni di questi non sono stati provocati dal Vaticano II, ma dai figli della Chiesa dopo il Vaticano II. Alcuni di loro parlando del Vaticano II propongono la loro agenda personale. Dobbiamo stare attenti a questo, alla gente che porta avanti le proprie idee giustificandosi come se questo corrispondesse allo ‘spirito del Vaticano II’”, ha continuato. “Se solo la gente fosse più fedele non a ciò che è stato stabilito da gente che ama fare leggi per altra gente, ma che deriva da ciò in cui crediamo – ha esclamato –! Lex orandi, Lex credendi. E’ la nostra fede che dirige la nostra vita di preghiera, e se ci genuflettiamo davanti al tabernacolo è perché crediamo che Gesù è lì, e che è Dio”. Contrariamente a quanto pensano molti, ha precisato il Cardinale, “anche quando era in vigore la Messa tridentina c’erano abusi. Molti cattolici non lo sapevano, perché non conoscevano il latino! Per cui, quando il sacerdote alterava le parole, non se ne accorgevano”. “L’area più importante, quindi, è la fede e la fedeltà ad essa, una lettura fedele dei testi originali, la loro traduzione fedele, così che la gente celebri sapendo che la liturgia è la preghiera pubblica della Chiesa”. “Non è proprietà di un individuo, quindi un individuo non la modifica, ma compie sforzi per celebrarla come la Santa Madre Chiesa desidera – ha concluso –. Quando questo accade, la gente è felice, si sente nutrita. La sua fede aumenta, viene rafforzata. Va a casa felice e desiderosa di tornare la domenica successiva”.
“Lo splendore della vita”, Congresso a Roma per i dieci anni dell’Evangelium Vitae Il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famiglia e la Pontificia Accademia per la Vita hanno organizzato un Congresso di tre giorni a Roma (17-19 novembre), su "Lo splendore della vita: Vangelo, scienza ed etica. Prospettive della Bioetica a dieci anni da Evengelium Vitae". Giovedì 17 novembre, monsignor Rino Fisichella (vedi foto), Rettore della Pontificia Università Lateranense (PUL), nell’aprire i lavori del Congresso, cui partecipano esperti e specialisti provenienti da più parti del mondo, ha fatto appello ad una “mobilitazione per una nuova cultura della vita”. Il Rettore della PUL ha rilevato che questi dieci anni hanno evidenziato una sensibilità del tutto particolare sui temi propri della vita e della famiglia ed hanno fatto emergere tuttavia in maniera ancora più paradossale un movimento contraddittorio. Monsignor Fisichella ha infatti chiarito che si è assistito da una parte ad una popolazione che chiede un rispetto per la vita e la natura e dall’altra ad un “relativismo etico che sostiene l’elaborazione di leggi e di ordinamenti che recepiscono solo il diritto individuale” e che chiede allo Stato di astenersi da ogni considerazione etica. Così “il progresso non sempre è sostenuto da una vera promozione della vita e della persona”, ha commentato. Nell’intervenire monsignor Elio Sgreccia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha spiegato che solo “una rilettura sotto il profilo dell’antropologia del dono può consentire di cogliere nuovi e abbondanti frutti dell’Evangelium Vitae”. “L’antropologia secolarizzata e riduzionista degli ultimi anni ha cercato di staccare l’uomo dalla sua sorgente di vita, ma smarrendo il senso di Dio si perde anche il senso dell’uomo e della sua dignità”, ha quindi aggiunto. Per monsignor Sgreccia “l’Evangelium Vitae presenta come un dono la vita dell’uomo, creato da Dio a sua immagine e nel suo amore, mostrando come la dottrina dell’Imago Dei della Genesi trovi il suo compimento nell’Imago Christi del Nuovo Testamento, in una visione in cui in Cristo, pienezza della verità, sono uniti il disegno creazionale e quello redentivo”. “La cristologia illumina l’antropologia e l’annuncio del Vangelo della vita, pertanto, consiste nella persona stessa di Gesù a cui la vita umana è indissolubilmente legata”, ha spiegato il Presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Sgreccia ha in seguito sottolineato che “la presentazione cristologica del Vangelo della Vita non diminuisce ma intensifica il valore creaturale della vita umana. E’ nel rapporto creaturale, nel fatto cioè che l’uomo è creato da Dio a sua immagine e somiglianza che la vita dell’essere umano acquista il valore ed il sapore di essere un dono”. Suor Elena Borsetti della Congregazione di Gesù Buon Pastore , docente di Esegesi del Nuovo Testamento alla Pontificia Università Gregoriana e all’Istituto di Teologia della Vita Consacrata (Claretanium), ha ribadito che “Dio è la fonte della vita” e che l’uomo “trova nel creatore la speranza che dà senso alla sua vita alle sue sofferenze ed alla sua morte”. “Questa speranza si potrà compiere solo se l’uomo obbedirà ai comandamenti del Signore camminando sul sentiero della vita”, ha sottolineato. Secondo Suor Elena Barsotti, “Gesù è servo e pastore, vive la vita in costante relazione filiale con il Padre e la comunica non solo nelle sue parole ma anche nei suoi atti fino alla carità totale nella sua morte e resurrezione, cambiando la nostra paura in speranza viva che lo spirito comunica anche alle generazioni future”. Monsignor Livio Melina (vedi foto), docente di Teologia Morale presso l’Istituto Giovanni Paolo II per Studi su matrimonio e famiglia, nonché Vice Preside della sezione centrale della Pontificia Università Lateranense, ha affermato che “per poter superare il riduzionismo scientista nei confronti del tema della vita è necessario un approccio articolato e integrato della ragione”. Monsignor Melina ha sostenuto che “la teologia può essere considerata intrinseca nei discorsi sulla bioetica, e la razionalità scientifica deve lasciarsi guidare da una sguardo di carattere contemplativo anzi metafisico sulla vita”. “La teologia della creazione e ancor più il Vangelo della vita offrono a questo proposito prospettive di fondazione e di approfondimento di grande interesse” Il docente di Teologia Morale ha concluso sottolineando che “la luce della Parola di Dio, corrispondendo al cuore dell’uomo, desta un patrimonio di evidenze umane, di valore razionale, capaci di guidare l’agire dell’uomo nel porre le sempre più raffinate capacità tecniche di intervento a servizio del grande destino cui la vita dell’uomo e del cosmo è chiamata”. Amnon Carmi, Direttore della cattedra di Bioetica presso l’UNESCO e Presidente della Sezione di Psichiatria Diritto ed Etica dell’Associazione Mondiale di Psichiatria, ha invece spiegato come nella visione ebraica “la santità della vita umana deriva dal fatto che l’uomo è stato creato a immagine di Dio”. “La filosofia ebraica – ha aggiunto Carmi – ci fornisce vari motivi per sostenere il concetto della santità della vita umana. Il valore umano deriva dall’essere stati creati ad immagine e somiglianza di Dio. Il valore ultimo della vita umana, deriva dal fatto che l’uomo reca in sé l’impronta di Dio”. Per questo motivo, ha concluso il magistrato ebreo, “il base alla credenza biblica che l’uomo sia stato creato ad immagine e somiglianza di Dio, qualsiasi offesa al corpo di qualcuno costituisce un’aggressione contro il suo aspetto divino e quindi un affronto all’Onnipotente”.
Lo Stato che rinuncia a vietare non rinunci a difendere la vita dei nascituri Il Presidente del Movimento per la Vita chiede al riguardo una svolta culturale, politica e istituzionale Il Movimento per la Vita (MpV) non farà guerre per cambiare la legge 194 che autorizza l’aborto, ma chiede alle istituzioni e alla politica una svolta chiara sul tema della difesa dei nascituri, ha affermato il suo Presidente, Carlo Casini. Così ha detto Casini all’apertura del XXV Convegno dei Centri di Aiuto alla Vita (CAV) che si è svolta il 18 novembre a Firenze, aggiungendo poi che “lo Stato che rinuncia a vietare non può rinunciare a difendere” la vita nascente. Il Presidente del MpV ha ricordato che trenta anni fa, in un periodo caratterizzato da roventi polemiche, nacque a Firenze, nel monastero benedettino di S. Marta, il primo Centro di Aiuto alla Vita d’Italia, gestito da volontari che decisero di stringersi in alleanza intorno all’idea che “le difficoltà della vita non si superano sopprimendo la vita, ma superando insieme le difficoltà”. “Quel patto del 1975 ha generato fino ad oggi 280 CAV e 260 MpV locali ed ha aiutato a nascere circa 70.000 bambini – ha rilevato –. Abbiamo, cioè, restituito a molte madri la libertà di non abortire”. “Con queste credenziali – ha sottolineato il Presidente del MpV – chiediamo una svolta allo Stato, alle istituzioni, alla società. La svolta che chiediamo non cerca la contrapposizione o la rivincita, perché non chiede l’abrogazione della legge (che pur continuiamo a considerare ingiusta), ma, paradossalmente, la sua attuazione nelle parti che fino ad ora sono rimaste largamente inapplicate”. “‘Socializzare per prevenire’: queste le parole. E ad esse vogliamo collegarci”, ha osservato. Il Presidente e fondatore del MpV ha quindi spiegato che l’interruzione della gravidanza ha due vittime: la madre e il figlio. Embrione e feto sono diversi nomi di un’unica realtà che poi sarà chiamata neonato, ragazzo, adolescente, adulto, anziano, vecchio. Un essere umano, insomma, uno di noi, un uguale in dignità, cioè un soggetto titolare di diritti, primo fra tutti quello alla vita. “Possiamo rinunciare all’uso del diritto penale e ai divieti giuridici – ha continuato Casini – possiamo renderci conto della impraticabilità politica di incisive modifiche legislative, ma non possiamo tradire né la ragione né la moderna cultura dei diritti umani”. “Non faremo guerre per cambiare la legge solo se sarà dimostrato che con la legge è possibile fare ciò che noi abbiamo ottenuto”, ha sottolineato Casini. “Per questo abbiamo chiesto al Ministro della Sanità e domandiamo ancora, che le annuali relazioni che egli deve presentare al Parlamento non ci parlino solo dei morti, come fino ad ora è stato fatto, ma anche dei vivi; ci dicano, cioè, quanti bambini sono nati per merito della legge e non soltanto quanti aborti sono avvenuti con il timbro della legge”, ha proseguito. Il Movimento per la Vita chiede che nei rapporti al Parlamento il Ministro dica cosa è stato fatto per educare i giovani al rispetto della vita, quanti propositi d’aborto si sono cambiati in disponibilità all’accoglienza attraverso il contatto con i consultori familiari, come è stato valorizzato il volontariato e con quale risultato, quali ulteriori iniziative sono state adottate nell’ambito locale, così come prescrive l’art. 1 della legge 194/78, per evitare che l’aborto sia usato come un mezzo di controllo delle nascite. Secondo Carlo Casini, “il tempo è giunto per sostenere una svolta decisa e forte per un concetto di prevenzione dell’aborto che riguarda anche le gravidanze difficili o non desiderate”. “Che il concepito sia ‘uno di noi’ – ha sottolineato il Presidente del MpV – non è una nostra solitaria, fanatica affermazione. Il Comitato Nazionale di Bioetica ha dichiarato ripetutamente, nel 1996, nel 2003, nel 2005, che fin dalla fecondazione l’embrione deve essere trattato come una persona”. “La Corte Costituzionale nel 1997, con una elaborata sentenza stesa dal Prof. Vassalli, ha ammonito che l’art. 1 della legge 194 non deve essere considerato una superflua proclamazione verbale, ma intende proteggere il diritto alla vita del concepito fin dalla fecondazione”, ha ribadito. “Un diritto – ha in seguito commentato – che è alla base del nostro assetto costituzionale e che ha ottenuto – continua la Corte – un sempre più vasto riconoscimento anche a livello internazionale e mondiale. L’art. 1 della legge 40/04 riconosce nell’embrione umano un soggetto titolare di diritti”. Per Casini la vittoria referendaria del giugno scorso mostra che “il muro della incomprensione sul tema della vita ha cominciato a sgretolarsi e presto potrebbe trasformarsi in un ponte che unisce due sponde”. “La cultura dei diritti umani, timbro e vanto della modernità, nonostante i tentativi di svuotarla o, addirittura, di trasformarla nel suo contrario, ha una forza espansiva inarrestabile che finirà per abbracciare anche il concepito”, ha detto Casini. A questo proposito, ha ricordato che “la Corte Costituzionale di un Paese europeo (l’Ungheria 1991) ha potuto scrivere che il riconoscimento della soggettività del concepito potrebbe essere paragonata alla abolizione della schiavitù e il principio di eguaglianza troverebbe la sua definitiva perfezione”. “E’ giunto il momento della svolta”, ha quindi concluso il suo intervento.
13 novembre 2005
Madre Maria Crocifissa Curcio, oggi Beata: Una personale testimonianza sulla sua figura. «La figura della Madre, così come esce dai suoi scritti e come io l’ho percepita, è la figura di una “Grande”: una grande “piccola” donna, con tanti limiti (pressoché analfabeta), indifesa, ammalata, debole, ma che ispirata e riempita dello Spirito di Dio, si erge improvvisamente in una gigantesca dimensione: una volontà e uno spirito di azione indomabili; una rara capacità di giudizio; una soprannaturale e costante ispirazione; un baluardo invincibile contro i nemici della sua “creatura”; riconoscente e umile valorizzatrice dell’aiuto insperato della Provvidenza; sempre instancabile, sempre pronta a correre in soccorso delle varie figlie sparse per il mondo, sempre sollecita nel dimostrare loro la sua tenerezza materna e, quando necessario, esprimere anche il suo dissenso inflessibile, tipico di chi vede le cose con gli occhi di Dio. Una donna che ha fatto della preghiera l’unico scopo della sua vita, che la raccomanda continuamente alle figlie; che ha trasformato la sua esistenza in un sacrificio orante: il rosario, le Novene, l’adorazione al Santissimo Sacramento: Gesù Ostia, un Padre misericordioso, come soleva dire, che in silenzio e solitudine aspetta pazientemente che qualcuna vada a visitarlo e gli ricambi il suo infinito amore, un Dio che ha fame e sete di anime adoranti, di anime che si offrano come sacrificio di espiazione per i peccati del mondo; un Cristo che ha sofferto pene indescrivibili e che continua a soffrire a causa dell’ingratitudine umana: ecco il perché della preghiera espiatrice: è per bilanciare tanta cattiveria, che le figlie devono abbracciare di buon grado la loro croce, devono soffrire in silenzio con Lui, perché la vita gloriosa, quella che è frutto del gioioso mistero pasquale, deve passare necessariamente attraverso le pene del Getsemani e del Golgota. Lo scorrere della sua vita era scandito dai tempi liturgici “forti” di Avvento, Quaresima, Pasqua, per i quali si preparava con speciali novene, con pie letture spirituali su testi di agiografia e sacra letteratura, che poi puntualmente suggeriva anche alle figlie. Aveva il culto degli Esercizi Spirituali, e quando le meditazioni del predicatore di turno riuscivano a creare nel suo animo costantemente insaziabile di Dio le giuste emozioni, nuovi spunti e nuovi slanci, era veramente felice e comunicava questa sua felicità a tutte. Il predicatore però doveva essere all’altezza del suo compito: su ciò era molto esigente; ricordo una persona in particolare che riusciva sempre ad entusiasmarla: il carmelitano Padre Grammatico, oltre ovviamente a Padre Lorenzo. Di Padre Lorenzo, la persona che più le è stata vicina, aveva un’ammirazione e una venerazione smisurata. Lo chiamava “il Padre”, semplicemente: in nessuna lettera ho trovato mai una qualche allusione alla sua persona col nome proprio di Lorenzo; e mentre nei primi anni scriveva di lui chiamandolo il “Reverendo Padre”, in età avanzata usava definirlo il “Venerabile Padre”. Ogni occasione era buona per inculcare nelle figlie i suoi stessi sentimenti di stima e di ammirazione; nelle notizie riguardanti il Padre che lei puntualmente trasmetteva soprattutto alle superiore locali, lasciava trasparire una materna e commovente sollecitudine: si preoccupava per la sua salute, per lo stato delle sue vesti, dei suoi paramenti, delle scarpe, dei libri che doveva comprare, dei suoi viaggi; era fiera delle sue attività, del suo ministero sacerdotale, delle sue iniziative, delle sue decisioni, dei suoi consigli: rarissime volte (forse una o due) espresse un diverso avviso rispetto alle decisioni del Padre; e in ogni caso, l’obbedienza cieca da parte sua e di tutte era d’obbligo: ipse dixit!, il Padre così ha stabilito, non si discute. Chiare e inappellabili le regole di vita religiosa che applicava in primis alla sua persona e che esigeva dalle figlie. I Voti non dovevano costituire un peso, ma una garanzia per poter conservare la lampada accesa munita della scorta d’olio in attesa dell’arrivo notturno dello Sposo. L’obbedienza doveva essere considerata in positivo, come atto di amore e di dedizione e non in negativo, come mutilazione della propria personalità. La carità fraterna doveva essere alla base di qualunque rapporto interpersonale. La pazienza, la generosità, la modestia, la sincerità sono le virtù più ricorrenti tra quelle suggerite alle figlie. Importantissimo e fondamentale è il buon esempio: le parole non servono... è la vita religiosa vissuta coerentemente e fedelmente che fa sbocciare nuove vocazioni, e rende più forti quelle delle consorelle: le buone Suore devono indicare a tutti, con il loro religioso comportamento, che sono Spose di Cristo... La dipendenza dai Superiori è un leit motiv costante: nessuna deve prendere iniziative, anche le più insignificanti, senza aver prima interessato la propria superiora: anche qualora questa non fosse di proprio gradimento... perché proprio in tal caso, la divina ricompensa sarà ancora maggiore. La vita religiosa deve rispondere ad una sincera vocazione e deve essere svolta in perfetta sintonia con le Costituzioni, i Voti, gli insegnamenti di Cristo: le esibizioni personalistiche, i caratteri indipendenti e autonomi devono essere instradati nella vita comunitaria, e le superiore devono trattarli con particolare fermezza, per il bene di tutta la comunità. Una giusta disciplina è l’habitat naturale della Suora innamorata del suo Sposo: la santità si coniuga perfettamente con la penitenza e le privazioni. Altra virtù è la castità: le suore rinunciano ad una maternità terrena, per partecipare con Maria alla maternità spirituale di tutti i loro fratelli. Il Fiat di Maria deve essere il programma di vita per le Suore che temono Dio; questa virtù tanto bella e tanto delicata, necessita in ogni momento di un comportamento molto prudente: è come custodire una perla preziosa... la dracma del vangelo. Quindi nei rapporti con il mondo bisogna usare grande prudenza e controllo: mai lasciarsi andare a contegni poco consoni a religiose; di ritorno da viaggi o da permanenze in famiglia, è fatto obbligo di astenersi dal riferire, alle consorelle, avvenimenti mondani o poco istruttivi, di cui per caso si sia venute a conoscenza, per non creare turbamento o scandalo alle anime più semplici (Cfr. la Regola di San Benedetto). Nei viaggi, evitare di andare sole; non introdurre persone estranee, tanto meno maschi, nelle aree riservate alle suore. Grande importanza viene poi attribuito al terzo voto, la povertà. Una virtù che deve accomunare le sue suore a Cristo, nato vissuto e morto nella povertà più totale. Tutto quello che serve per la persona e per la loro attività, deve essere consegnato direttamente dalla superiora, la quale, in ogni caso, si deve guardare bene dal non assecondare l’attaccamento da parte delle Suore per le cose futili di questo mondo. Tutto deve essere in comune e diviso tra consorelle. La Madre era un’anima di una semplicità disarmante: si commuoveva fino alle lacrime al pensiero della nascita di Gesù nella miseria di una stalla; non si preoccupava di nascondere le lacrime pensando ai dolori e alle piaghe della passione di Cristo. Una semplicità la sua che concorreva ad esaltare anche le piccole cose della vita: la soddisfazione di parlare della “buona e gentile vaccarella” che dava tanto “ottimo latte per la Madre”..., delle galline che a volte erano troppo “stanche” per fare le uova, dei fiori che si inorgoglivano nel far bella mostra sull’altare a fianco di Gesù Ostia; delle primizie dell’orto, del “sapore siciliano” di certi alimenti, che “facevano bene” alla salute proprio perché erano gli stessi dell’infanzia; una semplicità che traspare anche nelle sue considerazioni di ordine politico, sugli eventi internazionali, sulla guerra: le guerre sono sempre volute dalle persone cattive che fanno il male alla Chiesa e ai poveri, fanno soffrire i Servi di Dio, il Papa e, talvolta come in Spagna, procurano ai servi fedeli anche il martirio in nome di Cristo: chissà se anche a lei sarebbe stata offerta la possibilità di conquistare l’ambita palma del martirio!; l’entusiasmo genuino di quando “viveva” i grandi eventi religiosi, l’Anno Santo, le Festività dell’anno liturgico, i discorsi del Papa; anche nella formulazione delle sue preghiere, usava una fraseologia umile e semplice, che si ispirava però allo stile classico e allora molto in voga della notissima “Filotea”. Questa sua semplicità disarmante appariva anche quando si sforzava di dare spiegazioni scientifiche di malattie, di attrezzature sanitarie, di diagnosi mediche, interpretando con parole sue le poche ed elementari nozioni ricevute, supportandole e arricchendole con il suo innato buon senso. Cito tra l’altro la gioia autentica di quando ha potuto ascoltare per la prima volta la voce del Papa in una celebrazione pontificale irradiata dalla Radio Vaticana, giuntale da uno dei primi esemplari di Radio (l’aradio, come la chiamava lei): “è stata un’esperienza unica, come se fossi stata presente”. Ma era anche uno spirito estremamente pratico e disincantato: in un batter d’occhio sapeva valutare i pro e i contro nei vari “affari” che la impegnavano durante i lavori di espansione del suo Istituto: aveva gusto e sapeva imporsi per rendere più armoniose le nuove costruzioni; sapeva suggerire anche a distanza le giuste decisioni da prendere, metteva in guardia le superiore del momento contro eventuali tranelli da parte di persone poco scrupolose, che si sarebbero approfittate della loro inesperienza: Lei vegliava su tutto e sempre, preveniva, voleva sapere ogni cosa, proponeva sempre soluzioni alternative. L’inesperta donna che dal sud era approdata a Santa Marinella con pochissima esperienza e una semplice cultura di base, divenne ben presto l’oculata amministratrice di attività in continua espansione, l’interlocutrice esperta di professionisti, ingegneri, avvocati, professori, vescovi, cardinali; la maestra di bon ton e di comportamento civile e religioso per le giovani allieve, la depositaria di una millenaria scienza religiosa, in perfetta sintonia con le Regole monastiche dei più illustri Fondatori (cfr. il mio tentativo di dimostrare il parallelismo tra i contenuti dello “Statuto Carmela Polara” della Madre e la “Regula Monasteriorum” di San Benedetto). E voglio infine concludere riconducendo la figura della Madre a questa semplice affermazione: una donna di Dio, che è vissuta esclusivamente per Dio, con Dio, in Dio». (Mario Labio)
Il pontificato di Benedetto XVI promuove la lectio divina Meditazione spirituale sulla Scrittura raccomandata dal Concilio Vaticano II Raccogliendo i frutti del Concilio Vaticano II, quarant’anni dopo la sua chiusura, questa domenica Benedetto XVI ha citato in particolare la riscoperta “dell’antica pratica della lectio divina, o ‘lettura spirituale’ della Sacra Scrittura”. Oltre a vivere l’Eucaristia, l’ascolto della Parola di Dio, soprattutto attraverso la lectio divina, sta diventando uno dei temi centrali del pontificato di Papa Joseph Ratzinger, eletto il 19 aprile scorso. Come ha spiegato egli stesso nel discorso che ha pronunciato a mezzogiorno in occasione dell’Angelus davanti a migliaia di pellegrini riuniti in piazza San Pietro in Vaticano, la lectio divina “consiste nel rimanere a lungo sopra un testo biblico, leggendolo e rileggendolo, quasi ‘ruminandolo’”, “spremendone, per così dire, tutto il ‘succo’, perché nutra la meditazione e la contemplazione e giunga ad irrigare come linfa la vita concreta”. “Condizione della lectio divina che la mente ed il cuore siano illuminati dallo Spirito Santo, cioè dallo stesso Ispiratore delle Scritture, e si pongano perciò in atteggiamento di ‘religioso ascolto’”, ha aggiunto. In vari interventi precedenti, Benedetto XVI aveva già dato un forte impulso alla lectio divina: è accaduto ad esempio il 16 settembre, quando ha incontrato i 400 partecipanti al congresso organizzato dalla Santa Sede per ricordare i quarant’anni della pubblicazione della costituzione del Concilio Vaticano II “Dei Verbum”, sulla Rivelazione Questa prassi, se efficacemente promossa, recherà alla Chiesa – ne sono convinto – una nuova primavera spirituale”, ha affermato in quell’occasione il Papa. Anche se la lettura orante della Bibbia risale agli inizi del cristianesimo, il primo ad utilizzare l’espressione lectio divina è stato il teologo Origene (ca. 185-254), secondo il quale per leggere la Bibbia con profitto è necessario farlo con attenzione, costanza e preghiera. In seguito la lectio divina è diventata la colonna vertebrale della vita religiosa. Le regole monastiche di Pacomio, Agostino, Basilio e Benedetto avrebbero fatto di questa pratica, insieme al lavoro manuale e alla liturgia, la triplice base della vita monastica. La sistematizzazione della lectio divina in quattro gradini proviene dal XII secolo. Verso l’anno 1150, il monaco certosino Guido scrisse un libretto intitolato “La scala dei monaci”, in cui esponeva la teoria dei quattro gradini: lettura, meditazione, preghiera e contemplazione. “Questa – affermava – è la scala attraverso la quale i monaci salgono dalla terra in cielo”. Nella meditazione improvvisata esposta da Benedetto XVI ai Vescovi nella prima giornata di sessioni del Sinodo sull’Eucaristia, il 3 ottobre, il Papa ha raccomandato ai presuli in modo particolare questa pratica. “Dovremmo esercitare la lectio divina, sentire nelle Scritture il pensiero di Cristo, imparare a pensare con Cristo, a pensare il pensiero di Cristo e così avere i sentimenti di Cristo, essere capaci di dare agli altri anche il pensiero di Cristo, i sentimenti di Cristo”, ha detto loro. Le sue parole non sono cadute nel vuoto. Tra le “Proposizioni” che i Padri sinodali hanno redatto come sintesi dell’Assemblea, la numero 18 afferma: “Amare, leggere, studiare, meditare e pregare la Parola di Dio è un frutto prezioso della pratica della lectio divina, dei gruppi di studio e di preghiera biblici in famiglia e nelle piccole comunità ecclesiali”
Il Papa nomina padre Federico Lombardi nuovo Direttore della “Radio Vaticana” Succede a padre Pasquale Borgomeo, per vent’anni alla guida dell’emittente Benedetto XVI ha nominato Direttore generale della “Radio Vaticana” padre Federico Lombardi (vedi foto), finora Direttore dei programmi dell’emittente, secondo quanto annunciato dalla Sala Stampa della Santa Sede questo sabato. Con la nomina si informa allo stesso tempo che il Papa ringrazia padre Pasquale Borgomeo “per il lungo e generoso servizio finora svolto come direttore della ‘Radio Vaticana’”, incarico che ha ricoperto per vent’anni. Il Cardinale Segretario di Stato, Angelo Sodano, ha nominato Direttore dei programmi della “Radio Vaticana” padre Andrzej Koprowski, finora Vicedirettore dei programmi dell’emittente pontificia. Nato a Saluzzo, in provincia di Cuneo, il 29 agosto 1942, padre Federico Lombardi è entrato nel 1960 nel noviziato della Provincia Torinese della Compagnia di Gesù ad Avigliana. Si è laureato in matematica all’università di Torino. Nel 1972 è stato ordinato sacerdote, conseguendo nel 1973 la Licenza in Teologia presso la facoltà teologica della Phil.-Teol. Hochshule St Georgen dei Gesuiti a Francoforte sul Meno. Lo stesso anno, padre Lombardi è diventato membro del collegio degli scrittori della “Civiltà Cattolica”, e nel 1977 Vicedirettore della stessa rivista. Dal 1984 al 1990 ha rivestito l’incarico di Superiore provinciale della Provincia d’Italia della Compagnia di Gesù. Nel 1991 è stato nominato Direttore dei programmi della “Radio Vaticana” e nel 2001 Direttore generale del Centro Televisivo Vaticano. Padre Andrzej Koprowski, nuovo Direttore dei programmi dell’emittente, è nato a Łodz (Polonia) l’11 marzo 1940. Dal 1956 al 1961 ha studiato filologia polacca presso l’Università di Varsavia. Nel 1961 è entrato nella Compagnia di Gesù. Ordinato sacerdote nel 1969, dal 1971 al 1979 è stato cappellano degli studenti universitari a Lublino, quindi Rettore del collegio di Teologia dei Gesuiti a Varsavia. Dal 1983 al 1989 è stato assistente del Padre Generale dei Gesuiti a Roma per l’Europa centro-orientale. Per otto anni, dal 1989 al 1997, padre Koprowski è stato responsabile dei programmi religiosi della televisione polacca. Superiore provinciale della Provincia del Nord della Polonia della Compagnia di Gesù fino al 2003, negli ultimi due anni è stato assistente del Direttore dei programmi della “Radio Vaticana”. Padre Lombardi dopo l'annuncio ha dichiarato: “Ringrazio il Santo Padre della fiducia che mi ha accordato con questa nomina di grande responsabilità. Alla ‘Radio Vaticana’ sono già di casa da 15 anni e quindi mi pare che sia più la prosecuzione di un cammino, che un cammino completamente nuovo”. “Anche perché con il padre Borgomeo abbiamo lavorato di comune accordo per tanto tempo, abbiamo condiviso tutte le vicende della Radio – sia i momenti più belli sia quelli di difficoltà – e mi unisco evidentemente al ringraziamento che lo stesso Santo Padre ha rivolto al padre Borgomeo per il suo lungo e competente servizio, che ha fatto conoscere e apprezzare la Radio Vaticana anche nel vasto mondo internazionale delle comunicazioni sociali”, ha aggiunto il gesuita. “Sono fortemente convinto che ci è affidato un servizio di prim’ordine al Santo Padre e alla Chiesa, con un’informazione tempestiva, multiculturale, che per diverse vie e con diverse tecnologie comunicative diffonda e renda accessibili la parola e i messaggi del Papa e – come dice il nostro Statuto – favorisca l’unione fra il centro della cattolicità e i diversi Paesi del mondo”, ha concluso.
Donne e teologia a 40 anni dal Concilio Vaticano II Si conclude a Roma un congresso ad ampia partecipazione laicale Le donne sono sempre più presenti nella teologia, anche se rimane molta strada da percorrere, ha constatato il Congresso “Donne e Teologia a 40 anni dal Concilio Vaticano II”, che ha avuto luogo questo fine settimana presso la Facoltà Pontificia “Marianum” di Roma. Il congresso, organizzato dall’Istituto Costanza Scelfo della Società Italiana per la Ricerca Teologica (SIRT) ha voluto concentrarsi sul contributo femminile alla teologia e ha iniziato a vedere ogni documento conciliare alla luce della donna. L’evento si è articolato in quattro grandi sezioni: “donne e liturgia”, “donne e Parola di Dio”, “donne e Chiesa” e “donne, Chiesa e mondo”. Donatella Scaiola, professoressa di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Urbaniana, ha sottolineato che il contributo femminile alla Scrittura si è concentrato soprattutto sul settore dell’esegesi. In particolare, ha constatato, “sul versante metodologico c’è stato un apporto ricco e diversificato”. La Scaiola ha rivelato che “la presenza delle donne è un capitolo della presenza dei laici all’interno della riflessione teologica” e ha sottolineato come il contributo della donna alla teologia sia consistente. La biblista ha esortato le donne ad esplorare altri campi ermeneutici più generali, non limitandosi a quelli relativi alla donna. L’esperta in ecclesiologia Sandra Mazzolini (vedi foto) ha affermato che come teologa a volte si trova “a disagio con gli studi biblici, che sono o molto specializzati o molto banali”, e ha suggerito di studiare meglio il nesso tra Scrittura e Tradizione. La teologa Stella Morra, della Pontificia Università Gregoriana, ha ricordato ai teologi e alle teologhe che “oggi il sapere è frammentato e la teologia non è immune a questo fatto”. “La frammentazione dei saperi non è che è passata sopra la teologia”, ha spiegato, sottolineando che oggi è necessario un “lavoro interdisciplinare” in cui teologi fondamentalisti, dogmatici, biblisti, ecc. possano lavorare insieme, perché nessuno di loro ha “la chiave di volta” di tutto. Marinella Perroni, presidente del Coordinamento Teologhe Italiane, ha commentato che curiosamente ci sono più donne specializzate in Antico Testamento che nel Nuovo Testamento. Il Simposio ha accolto un centinaio di partecipanti, molti dei quali giovani donne che si dedicano alla teologia in vari centri d’Italia.
Il relativismo morale potrebbe provocare una “catastrofe antropologica”, avverte il Cardinal Tomko Inaugurando l’anno accademico dell’Università Cattolica di Murcia Il Cardinale Jozef Tomko (vedi foto), Presidente del Comitato Pontificio per i Congressi Eucaristici Internazionali, ha avvertito questo martedì dei pericoli del relativismo etico, che potrebbe provocare una “catastrofe antropologica”. Nel suo discorso di inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Cattolica San Antonio di Murcia, che dal 9 al 13 novembre ospiterà il primo Congresso Eucaristico Universitario Internazionale, il porporato slovacco ha compiuto un’analisi della crisi delle società occidentali. In particolare, ha affrontato la situazione culturale della Spagna, Paese in cui è stato appena introdotto il riconoscimento giuridico del matrimonio omosessuale, inclusa l’adozione di minori. Questo “Paese tradizionalmente cattolico”, ha affermato il Prefetto emerito della Congregazione vaticana per l’Evangelizzazione dei Popoli, “vede oggi come nella sua vita pubblica si metta in discussione tutta una serie di valori morali, sociali, familiari, religiosi, che toccano profondamente il concetto stesso della persona e dei suoi rapporti, la sua coscienza, la sua etica personale e sociale”. Questa crisi, ha affermato il Cardinale, inviato speciale di Benedetto XVI al Congresso universitario di Murcia, parte “anche dalle stesse istituzioni pubbliche della Nazione, con il pericolo di introdurre nella convivenza un relativismo morale e un permissivismo etico capaci di minare le basi dei valori fondamentali della vita personale e della convivenza civile”. “Quando sono in gioco i valori umani della libertà, della convivenza, del rispetto dei diritti inalienabili, i valori della famiglia, della giusta educazione, se non c’è una testimonianza illuminata e coraggiosa che viene trasmessa in modo adeguato anche attraverso i mezzi di comunicazione sociale, si corre il rischio di provocare una catastrofe antropologica, come è già accaduto in altri luoghi e in altri sistemi politici del XX secolo”, ha aggiunto. Per il Cardinal Tomko, uno dei punti cruciali del dibattito attuale è “la rinuncia esplicita” a riconoscere le radici cristiane dell’Europa nella Costituzione: “si implica una tesi subdola, che da un lato è una critica velata alla religione, e al cristianesimo in particolare, e dall’altra è una pretesa di edificare un’etica personale e sociale senza fondamento trascendente”. Il porporato ha ricordato a questo proposito le parole di Benedetto XVI prima di essere eletto Papa, quando ha affermato che questo rifiuto avrebbe avuto ripercussioni in tre campi: diritti umani, legislazione familiare e libertà religiosa. Per quanto riguarda quest’ultima, ha sottolineato l’“incongruenza che presuppone il disprezzo di quanto c’è di cristiano in una società così caratterizzata dal Vangelo”. “Nella società attuale, grazie a Dio, si multa chi disonora la fede di Israele, la sua immagine di Dio, le sue grandi figure. Si multa anche chi vilipendia il Corano e le convinzioni di fondo dell’Islam. Quando si tratta di Cristo e di ciò che è sacro per i cristiani, tuttavia, la libertà d’opinione appare come il bene supremo, la cui limitazione risulta una minaccia o anche una distruzione della tolleranza e della libertà in generale”. Per il Cardinale, “quando si perde il senso religioso si perde il senso dell’umano, e quando si attenta contro il senso di Dio è già in pericolo il senso genuino dell’uomo”. Per questo, ha aggiunto, “è necessario favorire un clima sereno di amicizia e di convivenza”, un clima “di rispetto per le credenze e di promozione dei cammini di maturità cristiana nella fede e nell’impegno
Risponde padre Giovanni Marchesi, sj, autore di un libro sull’argomento Gesù sapeva di essere Dio? Come e quando Gesù, nella concretezza storica della sua condizione umana, ha preso coscienza della sua divinità? In che modo la nascita di Gesù ha cambiato la storia? A queste ed altre domande ha cercato di rispondere padre Giovanni Marchesi, S.I., (nella foto il 2° da sinistra, ad un congresso) docente di Teologia Dogmatica presso la Pontificia Università Gregoriana, scrittore e teologo de “La Civiltà Cattolica”, con il libro “Gesù di Nazaret chi sei?” (Edizioni Paoline, Torino 2004, pp. 393, Euro 34,00). Dato il grande interesse per questo libro, ZENIT ne ha voluto intervistare l’autore. Perché ha scritto questo libro, da dove è nata questa necessità? R) La necessità di scrivere questo libro è nata presto in me. Già da quando ero studente al quarto anno di Teologia, si era fatto chiaro un desiderio dal punto di vista teologico, spirituale e scientifico di studiare la figura di Gesù Cristo. Nel corso degli anni ho elaborato un progetto di come doveva essere la struttura del libro su Gesù Cristo. Ho iniziato a scrivere dei saggi, e articoli che in parte sono diventati capitoli fino alla pubblicazione avvenuta l’anno scorso. Questo libro è idealmente dedicato agli studenti di Teologia, è per loro un manuale, ma è anche per gli studenti di Scienze religiose, per i catechisti e per coloro che vogliono approfondire una conoscenza del mistero di Gesù Cristo. Idealmente i lettori a cui penso in primo luogo sono coloro che “credono di non credere”. Anche perché tutti, credenti e non credenti, da duemila anni continuiamo a porci la domanda, Gesù di Nazareth chi sei? E’ vero, Cristo interroga tutti: è un uomo, il figlio di Dio, oppure un mito? Dopo tanti anni di studio, ci può dire chi è questo uomo? R) In questi giorni è in atto un dibattito sui grandi quotidiani italiani si parla dei valori fondamentali fondati sulla dignità della persona umana: lo scambio diretto dei messaggi tra Benedetto XVI e il presidente del Senato Marcello Pera, articoli su altri giornali su cosa è la fede, un filosofo italiano che continua a ripetere che l’unico metro di valutazione per la ricerca della verità è la ragione, e tutto ciò che è religione è mito. Ebbene la fede in se stessa non è una abdicazione della ragione, non è una rinunzia al pensare, al ragionare. La teologia che si occupa di Dio, di Gesù Cristo e delle verità rivelate, è intelligenza della fede, e la fede in Dio è intelligenza. Gesù Cristo non è un mito, è un personaggio della realtà storica. Di Gesù dal punto di vista storico noi sappiamo infinitamente di più, e ci sono più documenti e fonti, di quanto sappiamo di Giulio Cesare, di Socrate, di Platone, e di altri grandi personaggi che hanno fatto la storia. Oggi tutti si interrogano su Cristo, o per bestemmiarlo o per invocarlo, o per perseguitarlo oppure per amarlo e operare il suo nome e per lui. Perché Gesù è vivo, anzi scriveva già l’abate Giuseppe Ricciotti nel suo capolavoro “La vita di Gesù” “Nessun essere umano è vivente oggi come è vivente Gesù”. Oggi molti chiamano a contemplare il volto di Gesù per vedere il volto di Dio: in questo contesto c’è da una parte chi sostiene che la religione cristiana è basata su dei miti e dall’altra chi invece indica nel Cristianesimo la civiltà cristiana. Dove si vede il volto di Dio? R) Molti hanno visto il volto di Gesù prima della Pasqua; l’hanno visto la gente comune, i farisei, i sommi sacerdoti, l’hanno visto Maria, la Maddalena, l’hanno visto i suoi discepoli. C’è chi l’ha visto, l’ha amato e lo ha seguito e c’è chi lo ha odiato. Ma nessuno di questi, anche nessuno dei discepoli, pur vedendo Gesù nella sua storia lo ha visto realmente nella sua essenza. Hanno iniziato a vedere Gesù a capire il suo volto unicamente a partire dalla Pasqua. Già prima di Pasqua, Gesù alla domanda del discepolo Filippo che gli chiede “mostraci il padre e ci basta”, Gesù risponde “Filippo da tanto tempo sono con voi e ancora non mi avete riconosciuto?”. Gesù di Nazareth si fa conoscere realmente e pienamente per quello che è, nella luce del Risorto, “io ero morto ma ora sono vivo nei secoli dei secoli”. I discepoli riconoscono Gesù la sera nella casa ad Emmaus. Essi riconobbero Gesù che prende il pane, lo benedice, lo spezza e lo dà loro, in quel momento si aprirono a loro gli occhi, ebbero l’intuito, l’intelligenza, quello sconosciuto è il Signore. Ma in quello stesso momento Gesù scompare: ecco cosa significa vedere Gesù, intuirlo, capirlo, conoscerlo, con tutta la mozione di se stessi con l’intelligenza, la ragione ed il trasporto di amore, ma nel momento che lo vedo e lo comprendo, non lo posso abbracciare, perché Gesù è infinitamente più grande di come noi lo possiamo immaginare. Allora agli atei, agli scettici, agli agnostici, ai nichilisti, a coloro che credono di non credere, che continuano a ignorare la cultura e la civiltà che il Cristianesimo ha realizzato in questi duemila anni, consiglio di andate al Vangelo, di analizzate i testi sacri, di questo fenomeno mondiale che è stato il Cristianesimo, così che incontrando il Cristo possono avere se non altro la nostalgia del totalmente altro come scrisse Max Orkheimer (1895-1973) ossia “la nostalgia dell’altro che è Dio” perché, questa è la novità del Cristianesimo: Dio si è fatto presente nella storia dell’uomo tramite Gesù di Nazareth.. Il Dio, l’assoluto si è manifestato e rivelato in Gesù Cristo. Si può dire che questo vedere il volto di Cristo si realizza ogni volta nella Eucaristia. E’ l’Eucaristia la continuità del Cristianesimo? R) L’Eucaristia non è un sacramento qualsiasi. L’Eucaristia e il battesimo costituiscono due filoni portanti di ogni comunità di credenti. La comunità di una famiglia, di un villaggio, di un paese, di una diocesi, di una nazione è fondata su questi due pilastri. La Chiesa è costruita su due sacramenti che sono il battesimo e l’Eucaristia, simboleggiati dalla effusione di acqua e sangue che è avvenuto nel momento in cui il costato di Cristo è stato trapassato dalla lancia. Simbolicamente e misticamente già l’evangelista Giovanni ha letto la nascita della Chiesa in questo effluvio di sangue e acqua, simboli del battesimo e dell’Eucaristia. L’Eucaristia è per eccellenza il mistero della fede, perché lì si racchiudono tutti i sacramenti e tutto ciò che significa essere cristiano. Per questo uno dei più importanti teologi cattolici del '900 Henry De Lubac, nel suo libro “La meditazione della Chiesa” afferma che “l’Eucaristia fa la Chiesa e la chiesa fa l’Eucaristia”.
Il sacramento della riconciliazione è sorgente di vita nuova”, afferma monsignor Bruno Forte Lettera pastorale di Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto “Il sacramento della riconciliazione è sorgente di vita nuova”, così scrive monsignor Forte (vedi foto), nella Lettera pastorale presentata questo martedì, in cui accompagna il fedele lungo un percorso di comprensione del vero valore e del senso della confessione, aprendolo poi all’esperienza del perdono come “festa dell’incontro” con Dio. Da principio, l’Arcivescovo sottolinea nel peccato la caratteristica di “amore ripiegato su se stesso”, che si nega a Dio, di “ingratitudine di chi risponde all’amore con l’indifferenza e il rifiuto”, ma soprattutto di male reale che “fa male”. “Basta guardare la scena quotidiana del mondo, dove violenze, guerre, ingiustizie, sopraffazioni, egoismi, gelosie e vendette si sprecano”, arrivano a produrre delle “vere e proprie strutture di peccato”, osserva. “Proprio per questo non si deve esitare a sottolineare quanto sia grande la tragedia del peccato e quanto la perdita del senso del peccato […] indebolisca il cuore davanti allo spettacolo del male”, avverte monsignor Forte, che nel 2004 ha predicato gli esercizi spirituali quaresimali al Papa e ai suo collaboratori della Curia romana. In seguito, muovendo dalla convinzione, alimentata dall’esperienza personale della misericordia divina, che “il bene c’è ed è molto più grande del male”, l’Arcivescovo parla della gioia provata nel dare oltre che nel ricevere il perdono attraverso il sacramento della riconciliazione. “Chiedere con convinzione, ricevere con gratitudine e dare con generosità il perdono è sorgente di una pace impagabile: perciò, è giusto ed è bello confessarsi”, ha affermato. “Mi chiedi dunque: perché bisogna confessare a un sacerdote i propri peccati e non lo si può fare direttamente a Dio? Certamente, è sempre a Dio che ci si rivolge quando si confessano i propri peccati”, risponde. “Che sia, però, necessario farlo anche davanti a un sacerdote ce lo fa capire Dio stesso – aggiunge –: scegliendo di inviare Suo Figlio nella nostra carne, egli dimostra di volerci incontrare mediante un contatto diretto, che passa attraverso i segni e i linguaggi della nostra condizione umana”. “Come Lui è uscito da sé per amore nostro ed è venuto a ‘toccarci’ con la sua carne, così noi siamo chiamati ad uscire da noi stessi per amore Suo e andare con umiltà e fede da chi può darci il perdono in nome Suo con la parola e col gesto”, “da chi il Signore ha scelto e inviato come ministro del perdono”, spiega poi. “La confessione è dunque l’incontro col perdono divino, offertoci in Gesù e trasmessoci mediante il ministero della Chiesa”, afferma, spiegando che esso si attua “attraverso varie tappe, che rispettano i tempi della vita e del cuore”. Un cammino questo che si nutre dell’ “ascolto della buona novella”, che permette di aprirsi all’azione dello Spirito Santo, il quale dona “dolcezza nel consentire e credere alla Verità”, riconciliando “con il Padre e con la Chiesa” “chi ha tradito o rifiutato l’alleanza con Dio”. Questo “sacramento dell’incontro con Cristo” si articola in diversi stati di coscienza che prevedono “la penitenza” in cui il peccatore invoca il perdono; “la confessione di lode”, “con cui facciamo memoria dell’amore divino che ci precede e ci accompagna”; “la confessione del peccato”, “con la quale presentiamo al Padre il nostro cuore umile e pentito”; e “la confessione di fede, infine, con cui ci apriamo al perdono che libera e salva, offertoci con l’assoluzione”. “Questo incontro si compie attraverso l’itinerario che porta ognuno di noi a confessare le nostre colpe con umiltà e dolore dei peccati e a ricevere con gratitudine piena di stupore il perdono”. “Uniti a Gesù nella Sua morte di Croce, moriamo al peccato e all’uomo vecchio che in esso ha trionfato. Il Suo sangue sparso per noi ci riconcilia con Dio e con gli altri, abbattendo il muro dell’inimicizia che ci teneva prigionieri della nostra solitudine senza speranza e senza amore”. “Accostati alla confessione con cuore umile e contrito e vivila con fede: ti cambierà la vita e darà pace al tuo cuore”, esorta poi. “Allora, i tuoi occhi si apriranno per riconoscere i segni della bellezza di Dio presenti nel creato e nella storia e ti sgorgherà dall’anima il canto della lode”.
Sarà oggi Beato il “fratello universale” Charles de Foucauld Diciannove famiglie religiose in tutto il mondo vivono oggi il suo carisma Oggi, 13 novembre, durante la Messa presieduta dal Cardinale Saraiva Martins, la Chiesa beatificherà nella Basilica di San Pietro in Vaticano Charles de Foucauld, proponendo la sua figura come esempio da imitare per i cristiani che vogliono seguire Gesù. Colui che ha voluto essere “fratello universale”, soprattutto dei più indifesi, ha voluto fondare una congregazione religiosa che si ispirasse al suo carisma. In Francia lo seguirono solo 49 persone, nell’Unione dei fratelli e delle sorelle del Sacro Cuore di Gesù, per la quale ottenne l’approvazione delle autorità religiose. Oggi seguono le sue orme migliaia di persone in undici congregazioni religiose e otto associazioni di vita spirituale. Sono gruppi spirituali composti da laici, sacerdoti, religiosi o religiose e vivono il Vangelo in tutto il mondo, aiutati dalle intuizioni di Charles de Foucauld. Antonio Rodríguez Carmona, di questa famiglia spirituale, professore di Sacra Scrittura presso la Facoltà di Teologia di Cartuja di Granada (Spagna) e consulente della Santa Sede per i rapporti con il mondo ebraico, ha descritto in questa intervista a ZENIT la vita e i tratti salienti del nuovo Beato che la Francia e l’Africa donano al resto del mondo. Ci parli di Charles de Foucauld e delle sue radici. R) Nacque a Strasburgo il 15 settembre 1858 in una famiglia nobile. Compì gli studi primari e intermedi a Strasburgo e a Nancy. La sua famiglia gli offrì un ambiente religioso, ma nei centri di studio incontrò anche un ambiente neutro, che unito al suo temperamento irrequieto e alla mancanza di un’adeguata direzione educativa fece sì che vivesse una gioventù estremamente dissoluta. Perse la fede a sedici anni e rimase in uno stato di indifferenza per più di dodici. Arrivato alla maggiore età, entrò in possesso di una consistente eredità, che dilapidò. Nel 1878 entrò nell’esercito come sottotenente alla volta dell’Africa, nell’epoca in cui la Francia colonizzava l’Algeria. In seguito si congedò per dedicarsi ad esplorare il Marocco, dove compì un viaggio di tremila chilometri, travestito da rabbino ebreo. Frutto del viaggio fu un importante studio geografico del Paese, che gli valse la medaglia d’oro della Società di Geografia. Cosa ha significato questo viaggio per il suo itinerario spirituale? R) Quel viaggio lo ha messo in contatto diretto con l’Islam e il deserto, è stato l’inizio di un vero cambiamento nella sua vita. Ha letto, ha riflettuto, ha pregato a modo suo. Un giorno è andato alla ricerca di padre Huvelin per parlare di questioni religiose e questi gli ha detto di mettersi in ginocchio e di confessarsi. E’ stata la grazia della conversione. “Non appena ho creduto che c’era un Dio, mi sono reso conto del fatto che non potevo fare altro che vivere per lui”, ha ricordato in seguito Charles de Foucauld. E dopo la conversione? R) A partire da quel momento, tutta la sua vita è stata una ricerca seria e appassionata della volontà di Dio, che era il suo assoluto, imitando Gesù, soprattutto nella sua esistenza nascosta e povera. Credeva che la volontà di Dio fosse il suo ingresso nella vita religiosa e scelse i trappisti (cistercensi), ordine religioso di vita austera, per cui nel 1890 entrò nella trappa di Notre Dame des Neiges in Francia. Lì seppe dell’esistenza di un’altra casa dell’ordine in Siria, ad Akbés, dove c’era una povertà estrema, e chiese di esservi trasferito; vi trascorse sei anni. Non era completamente soddisfatto. Nonostante la vita austera dei monaci, avevano al loro servizio lavoratori poveri della regione, che vivevano in condizioni precarie. I suoi superiori lo inviarono a Roma, dove studiò Teologia (ottobre 1896), ma quando stava per compiere la professione perpetua decise di abbandonare l’ordine. Insoddisfatto, cercava una più autentica vita di Nazareth, imitando Gesù, che trascorse a Nazareth la maggior parte della sua vita conducendo un’esistenza da operaio, nascosta ma redentrice. Abbandonò l’ordine e si insediò a Nazareth come domestico delle Clarisse, vivendo in una casetta nell’orto e dedicandosi totalmente alla contemplazione e alla povertà. Sognava di avere dei compagni che condividessero la sua vita e decise di redigere la regola dei Piccoli Fratelli del Sacro Cuore di Gesù. Già si profilano le caratteristiche del suo carisma per la Chiesa… R) Sì, la lunga permanenza a Nazareth lo spinse a cercare un altro luogo più povero dove portare avanti lo stesso stile di vita e rendere presente Gesù attraverso la sua vita nascosta. Per questo nel 1901 si recò prima in Francia per ordinarsi sacerdote e decise poi di stabilirsi in Marocco, sebbene in seguito, di fronte all’impossibilità di farlo, si trasferì in Algeria, a Beni-Abbés, vicino alla frontiera marocchina. Lì visse la sua vocazione di vita di Nazareth, nascosta e povera, al servizio degli uomini, soprattutto dei più bisognosi. Trascorreva lunghe ore in adorazione dell’Eucaristia, viveva come fratello di tutti, accogliendo i malati e i poveri senza distinzione di razza o religione. Da lì viaggiò molto l’Algeria, sempre alla ricerca dei più poveri. Cos’è che definisce la novità del suo carisma nel momento vissuto allora dalla Chiesa e dal mondo? R) Questo di “Fratello Universale” è un aspetto importante della sua spiritualità: una chiamata ad incarnare l’amore e il servizio tra i più poveri e abbandonati attraverso l’amicizia e la testimonianza silenziosa. Questo amore, portato alle sue ultime conseguenze, chiede di condividere la condizione sociale dei più poveri, il lavoro manuale, il servizio incondizionato. Attirato dal desiderio di entrare in contatto con le tribù Tuareg, nel 1905 si stabilì a Tamanrasset, nel Sahara, dove condusse una vita simile a quella di Beni Abbés. Per preparare il cammino a futuri missionari portò a termine una serie di studi linguistici di grande valore scientifico. E’ lì che morì il 1° dicembre 1916, nel contesto della Prima Guerra Mondiale. Catturato da una banda ribelle, venne vigilato da un ragazzo mentre gli altri saccheggiavano la sua casa. Il ragazzo, nervoso perché credeva che stessero arrivando i soldati, lo uccise sparandogli alla testa. Può illustrarci alcuni tratti della sua spiritualità? R) Il carisma del fratello Charles si riassume nel motto “Jesus-Caritas”. Alla base c’è l’assoluto di Dio Padre-amore, che prende sul serio e la cui volontà vuole realizzare. Tutta la sua vita è stata una continua ricerca della realizzazione di questa volontà, il che si è tradotto in una vita di crescente servizio. Poiché Dio Padre si rivela in Gesù, quest’ultimo è stato il suo grande amore, colui che desiderava imitare, soprattutto nel periodo della sua vita nascosta e redentrice a Nazareth. L’adorazione dell’Eucaristia è fondamentale, perché rende presente Gesù-amore che si dona e invita a portare avanti nel mondo la sua dedizione nei confronti degli uomini, di tutti gli uomini, per cui un autentico adoratore deve essere fratello universale, soprattutto dei più deboli e abbandonati. Per conoscere meglio la figura del fratello Charles, è molto utile l’opera di A. Chatelard, “El camino de Tamanrasset”, pubblicata a Madrid nel 2003 dall’Editorial San Pablo. Charles de Foucauld non ha realizzato il suo desiderio di fondare una congregazione, ma il seme che ha gettato ha dato frutti abbondanti. Ci parli della Fraternità. R) Il fratello Charles voleva fondare una congregazione che condividesse il suo carisma, per cui ha scritto varie regole, ma non è riuscito a realizzare il suo obiettivo in vita, tranne una piccola “Unione di Laici” che al momento della sua morte contava qualche decina di iscritti. Più tardi, a partire dal 1933, iniziarono a costituirsi gruppi che desideravano vivere i vari aspetti del carisma di fratello Charles, adottando varie forme (congregazione religiosa, istituto secolare, associazioni di laici, associazioni di sacerdoti, ecc.) e sottolineando ognuno un aspetto del carisma. Sono nati così come congregazioni i Piccoli Fratelli di Gesù, le Piccole Sorelle di Gesù, i Piccoli Fratelli del Vangelo, ecc.; come istituti secolari la Fraternità Jesus Caritas, come laiche consacrate la Fraternità Charles de Foucauld, come associazione di fedeli la Fraternità Secolare Charles de Foucauld, come associazione di sacerdoti diocesani la Fraternità Sacerdotale Jesus Caritas, ecc.. “Il modo in cui il fratello Charles de Foucauld imitò Gesù di Nazareth ci ha sedotto”, affermano quanti compongono l’ampia e varia famiglia spirituale di questo piccolo grande uomo del deserto, costituita oggi da undici congregazioni religiose e otto associazioni di vita spirituale sparse in tutto il mondo.
“Cantiamo la vita” vuole riempire di speranza le culle vuote Intervista a Gianni Mussini, Vicepresidente del Movimento per la Vita “Cantiamo la vita” è un concorso nazionale di musica leggera, aperto a tutti, con l'intento di valorizzare in modo gentile il rispetto della vita nei suoi molteplici aspetti, dal concepimento al termine naturale. La manifestazione, giunta ormai alla sua tredicesima edizione, è promossa dal Movimento per la Vita italiano, con la collaborazione di “Federvita Lombardia”, e dal 1996 realizzata dal Centro pavese di Accoglienza alla Vita. A proposito di questa manifestazione, che si svolge annualmente a Pavia, il cantante Gatto Panceri ha scritto: “Cantiamo la vita non è una delle solite manifestazioni canore: qui c’è una freschezza cristallina e funziona tutto meglio che a Sanremo”. Il festival è finalizzato alla difesa dei più deboli, dei più piccoli, dei più poveri, al fine di far rifulgere la speranza cristiana. Per saperne di più ZENIT ha intervistato Gianni Mussini (nella foto parla al microfono), Vicepresidente del Movimento per la Vita e Patron della manifestazione pavese. In una Italia dove cresce il numero delle interruzioni di gravidanza, aumentano le richieste di utilizzo della pillola abortiva RU 486, ed è ormai consolidato il fenomeno delle culle vuote, come si fa a cantare la vita? R) Nota spesso il Presidente del Movimento per la vita Carlo Casini che la buona battaglia per la vita è prima di tutto questione di ‘sguardo’: per amare il concepito occorre prima di tutto riconoscerlo, ‘vederlo’. È una persona vera, non una teoria o, tanto meno , un’opinione. Mi ha sempre colpito quella frase del Piccolo Principe di Saint-Éxupery, che più o meno suona: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. Come rendere riconoscibile questo essenziale? Non c’è evidentemente una risposta univoca. Ma credo che la via maestra sia sempre quella della carità: un Centro di aiuto alla vita o una Casa di accoglienza che funzionino suscitano nel territorio un fascino a cui è difficile rimanere indifferenti. I fatti parlano da sé. Occorre però che la concreta attività di assistenza sia organizzata anche per farsi notizia. La vita deve comunicare vita. La fiaccola va posta sopra il moggio. Quasi tutti i grandi santi, da San Francesco a Madre Teresa di Calcutta sono stati, in un certo senso, uomini di ‘spettacolo’, capaci di trasformare in comunicazione la loro santità. Cantiamo la vita vuole proprio fare questo: essere manifestazione, dico nel senso epifanico, della gioia e del lavoro di tante volontarie e tanti volontari pro vita; dare splendore alla ‘bellezza che non si vede’ del concepito, e voce alla sua parola silenziosa. Ma c’è un terzo obiettivo, che viene regolarmente raggiunto dal nostro concorso musicale, e che non è meno importante dei primi due: coinvolgere centinaia di cantanti, sconosciuti e famosissimi, con i rispettivi ambienti, management, ecc. Per non parlare delle migliaia di relazioni con sponsor, giornali, media radiotelevisi. Sono convinto che la buona battaglia la si vinca lavorando come formichine in tutte le direzioni e con tanta pazienza. Come si svolgerà la vostra iniziativa, quali gli autori ed i cantanti che saranno premiati e perchè? R) La finalissima di questa edizione (la tredicesima) di “Cantiamo la vita” si tiene al Teatro Fraschini di Pavia sabato 12 novembre 2005, alle ore 21 Otto sono i concorrenti in lizza per i tre posti del podio e il premio speciale per il miglior testo (dedicato al compianto don Leo Cerabolini, fondatore della Casa di accoglienza di Belgioioso): Massimo D’Este; Giuseppe Gasparini; Daniele De Bellis; Cinzia Blangero; “The Sad Snowman”; Antonio Giovannini; “ti & mi group”; Roberto Gramolini. Con loro, alcuni ospiti di grande risalto. A partire da Giuseppe Povia, la rivelazione di Sanremo con “I bambini fanno oh” e il protagonista canoro della Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia. Insieme a lui Gatto Panceri, un grande amico della vita cui si legano alcune tra le più belle canzoni dei nostri anni, per esempio Vivo per lei. Un nome davvero straordinario è quello di uno dei più grandi soprani di oggi: Cecilia Gasdia, che interpreterà il brano Never terrorism never war (“Mai più il terrorismo, mai più la guerra”), tratto dalle famose parole di Giovanni Paolo II. La Gasdia canterà anche, in un inedito duetto con l’autore, una canzone di Gatto Panceri. Presenta la serata Luisa Moscato, da anni vicina alla nostra manifestazione, e la new entry Cosmanna Ardillo. Giullari (in senso medievale) della serata i due comici di Zelig, Carlo&Simone: se l’embrione è bellezza nascosta e la vita valore soffocato dal ‘potere reale’ che a comun danno impera, ebbene il linguaggio dell’umorismo può aiutare. Così come aiuta un po’ di salutare e santa trasgressione (alla Chesterton...) A Cecilia Gasdia, protagonista di un nuovo femminismo fondato su saldi principi etici e coraggiosa testimone a favore dell’astensione referendaria, verrà assegnato nel corso della serata il premio "Pavia città della vita" , promosso dal Centro pavese di Accoglienza alla vita, con il Comitato Madonna di Piazza Grande e il Comune di Pavia. Ecco un’ulteriore occasione per la promozione di una nuova cultura della vita. Ricordo che in passato il premio è stato conferito al regista Pupi Avati e al genetista prof. Angelo Vescovi. Ma nella serata ricorderemo anche Giancarlo Bertolotti, ginecologo scomparso sabato scorso in un incidente stradale, amico della vita e di tutte le mamme, studioso di metodi naturali, volontario in diversi CAV e Movimenti lombardi, ‘padre’ di centinaia di bambini che, grazie a lui (e alle loro mamme da lui persuase), sono stati aiutati a nascere, sottratti al buio dell’aborto. Quanto è vasta e diffusa la cultura della vita nell'ambito del mondo della musica? R) C’è tutta una rete di associazioni in vario modo ispirate a una musica valorialmente ricca. Per non parlare dei tanti gruppi legati alle diverse espressioni del mondo cattolico. Ma ci sono anche dei coraggiosi ‘cani sciolti’, diventati amici della vita attraverso una ricerca personale. La coscienza lavora sempre... Se invece la domanda riguarda il mondo della musica leggera di successo, ci si trova di tutto. Ci sono personalità molto ben strutturate sul piano etico, altre un po’ meno. Per lo più noto disinformazione, ma anche un certo interesse. Ricordo parole molto belle sulla vita pronunciate, in occasione della nostra festa, da Ron, Alexia, Davide Van de Sfroos, per citare solo tre dei nostri ospiti. Ma ricordo anche una star molto famosa che era assolutamente ignara di Movimento per la vita, aborto, ecc. Le spiegai nel camerino che, con i CAV (Centri di aiuto alla Vita), noi ci proponiamo prima di tutto di garantire la “libertà di non abortire” alle donne (arrivando così a salvare, con la vita del bambino, anche la loro vita di mamme). Ebbene questo slogan le piacque tanto che lo ripeté pari pari sul palcoscenico. Dev’essere uno slogan efficace, se è vero che lo usa spesso. Che cosa manca alla vostra manifestazione per incidere maggiormente nel contesto culturale ancora influenzato da ideologie contrarie alla vita e alla famiglia? R) Siamo abituati a fare le nozze con i fichi secchi... Eppure, nel panorama delle molte manifestazioni consimili che si svolgono in Italia, la nostra – anche come risposta mediatica – è tra le più affermate. Il format è già consolidato, così pure l’organizzazione. Per migliorare ci vorrebbe qualche fico... meno secco, cioè qualche investimento ulteriore, magari uno sponsor coi fiocchi. Per il resto, è normale che – come lei dice – il contesto sia ‘influenzato da ideologie contrarie alla vita e alla famiglia’. Cristo non ci ha promesso altro che questo: “agnelli tra i lupi”. Ma se un agnello sa mostrare un cuore da... leone, è capace di miracoli. Pensiamo ai fratelli Scholl, i martiri anti-nazisti della Rosa Bianca, o al grande Vescovo Von Galen, recentemente beatificato, non per caso detto il ‘leone di Münster’, che strenuamente si oppose a Hitler. In gran parte del mondo cresce il fenomeno della “christian musi”. Non avete mai pensato a fare di “Cantiamo la vita” una manifestazione internazionale con il sostegno dei cantati della “christian music”? R) Mai dire mai. È senz’altro possibile un lavoro in sinergia con le diverse realtà della christian music. Sono già in rapporti collaborativi con Paola Maschio e suo marito Roberto Bignoli, di “Informusic”, oltre che con i “Papaboys”, don Matteo Zambuto e i Cantautori di Dio, Paola Russo di “Teleradiopadrepio” e Paolo Sorbi di “Radio Maria” (ma dimentico senz’altro qualcuno). È vero che l’obiettivo di “Cantiamo la vita” non è, in prima istanza, l’evangelizzazione e che la vita è valore naturale, intimamente ‘laico’ (se a questa parola si attribuisce il suo significato più vero e nobile). Ma certo vale anche, se non soprattutto, per il concepito la parola terribile di Cristo: “Senza di me non potete fare nulla” (Gv 15, 5). Dunque, una manifestazione Gospel internazionale a favore della vita: perché no?
30 ottobre 2005
Intervista di Benedetto XVI alla televisione pubblica polacca In ricordo di Giovanni Paolo II, 27 anni dopo la sua elezione a Papa L’intervista è stata realizzata da padre Andrzej Majewski, SJ, responsabile dei programmi cattolici della Televisione pubblica polacca: «Il 16 ottobre del 1978, il cardinale Karol Wojityla diventò Papa e da quel giorno Giovanni Paolo II, per oltre 26 anni, da Successore di San Pietro, come è Lei adesso, ha guidato la Chiesa assieme ai vescovi e ai cardinali. Tra i cardinali vi era anche la Vostra Santità, persona singolarmente apprezzata e stimata dal suo predecessore; persona di cui il Pontefice Giovanni Paolo II ebbe a scrivere nel libro “Alzatevi, andiamo” - e qui cito – “Ringrazio Iddio per la presenza e l’aiuto del cardinale Ratzinger. E’ un amico provato”, ha scritto Giovanni Paolo II». D. –Padre Santo come è iniziata questa amicizia e quando Vostra Santità ha conosciuto il cardinale Karol Wojityla? R. – Personalmente lo ho conosciuto soltanto nei due pre-conclave e conclave del ’78. Avevo naturalmente sentito parlare del cardinale Wojityla, inizialmente soprattutto nel contesto della corrispondenza fra vescovi polacchi e tedeschi nel ’65. I cardinali tedeschi mi hanno raccontato come era grandissimo il merito e il contributo dell’arcivescovo di Cracovia e che era proprio l’anima di questa corrispondenza realmente storica. Da amici universitari avevo anche sentito della sua filosofia e della grandezza della sua figura di pensatore. Ma come ho detto l’incontro personale la prima volta si è realizzato per il conclave del ’78. Dall’inizio ho sentito una grande simpatia e, grazie a Dio, immeritatamente, il cardinale di quel tempo mi ha donato fin dall’inizio la sua amicizia. Sono grato per questa fiducia che mi ha donato, senza i miei meriti. Soprattutto vedendolo pregare, ho visto e non solo capito, ho visto che era un uomo di Dio. Questa era l’impressione fondamentale: un uomo che vive con Dio, anzi in Dio. Mi ha poi impressionato la cordialità, senza pregiudizi, con la quale si è incontrato con me. In questi incontri del pre-conclave dei cardinali, ha preso diverse volte la parola e qui ho avuto anche la possibilità di sentire la statura del pensatore. Senza grandi parole, era così nata un’amicizia che veniva proprio dal cuore e, subito dopo la sua elezione, il Papa mi ha chiamato diverse volte a Roma per colloqui e alla fine mi ha nominato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. D. – Dunque non è stata una sorpresa questa nomina e questa convocazione a Roma? R. – Per me era un po’ difficile, perché dall’inizio del mio episcopato a Monaco, con la solenne consacrazione a vescovo nella cattedrale di Monaco, vi era per me un obbligo, quasi un matrimonio con questa diocesi ed avevano anche sottolineato che dopo decenni ero il primo vescovo originario della diocesi. Mi sentivo quindi molto obbligato e legato a questa diocesi. C’erano poi dei problemi difficili che non erano ancora risolti e non volevo lasciare la diocesi con dei problemi non risolti. Di tutto questo ho discusso con il Santo Padre, con grande apertura e con questa fiducia che aveva il Santo Padre, che era molto paterno con me. Mi ha dato quindi tempo di riflettere, egli stesso voleva riflettere. Alla fine mi ha convinto, perché questa era la volontà di Dio. Potevo così accettare questa chiamata e questa responsabilità grande, non facile, che di per sé superava le mie capacità. Ma nella fiducia alla paterna benevolenza del Papa e con la guida dello Spirito Santo, potevo dire di sì. D. – Questa esperienza durò per più di 20 anni… R. - Sì, sono arrivato nel febbraio dell’82 ed è durata fino alla morte del Papa nel 2005. D. – Quali sono, secondo Lei, Santo Padre, i punti più significativi del Pontificato di Giovanni Paolo II? R. – Possiamo avere, direi, due punti di vista: uno ad extra - al mondo -, ed uno ad intra - alla Chiesa -. Riguardo al mondo, mi sembra che il Santo Padre, con i suoi discorsi, la sua persona, la sua presenza, la sua capacità di convincere, ha creato una nuova sensibilità per i valori morali, per l’importanza della religione nel mondo. Questo ha fatto sì che si creasse una nuova apertura, una nuova sensibilità per i problemi della religione, per la necessità della dimensione religiosa nell’uomo e soprattutto è cresciuta – in modo inimmaginabile – l’importanza del Vescovo di Roma. Tutti i cristiani hanno riconosciuto – nonostante le differenze e nonostante il loro non riconoscimento del Successore di Pietro – che è lui il portavoce della cristianità. Nessun altro al mondo, a livello mondiale può parlare così nel nome della cristianità e dar voce e forza nell’attualità del mondo alla realtà cristiana. Ma anche per la non cristianità e per le altre religioni, era lui il portavoce dei grandi valori dell’umanità. E’ anche da menzionare che è riuscito a creare un clima di dialogo fra le grandi religioni e un senso di comune responsabilità che tutti abbiamo per il mondo, ma anche che le violenze e le religioni sono incompatibili e che insieme dobbiamo cercare la strada per la pace, in una responsabilità comune per l’umanità. Spostiamo l’attenzione ora verso la situazione della Chiesa. Io direi che, anzitutto, ha saputo entusiasmare la gioventù per Cristo. Questa è una cosa nuova, se pensiamo alla gioventù del ’68 e degli anni Settanta. Che la gioventù si sia entusiasmata per Cristo e per la Chiesa ed anche per valori difficili, poteva ottenerlo soltanto una personalità con quel carisma; soltanto Lui poteva in tal modo riuscire a mobilitare la gioventù del mondo per la causa di Dio e per l’amore di Cristo. Nella Chiesa ha creato – penso – un nuovo amore per l’Eucaristia. Siamo ancora nell’Anno dell’Eucaristia, voluto da lui, con tanto amore; ha creato un nuovo senso per la grandezza della Misericordia Divina; e ha anche approfondito molto l’amore per la Madonna e ci ha così guidato ad una interiorizzazione della fede e, allo stesso tempo, ad una maggiore efficienza. Naturalmente bisogna menzionare – come sappiamo tutti - anche quanto sia stato essenziale il suo contributo per i grandi cambiamenti nel mondo nell’89, per il crollo del cosiddetto socialismo reale. D. – Nel corso dei suoi incontri personali e dei colloqui con Giovanni Paolo II, che cosa faceva maggior impressione a Vostra Santità? Potrebbe raccontarci i suoi ultimi incontri, forse di quest’anno, con Giovanni Paolo II? R. – Sì. Gli ultimi due incontri li ho avuti, un primo, al Policlinico “Gemelli”, intorno al 5-6 febbraio; e, un secondo, il giorno prima della sua morte, nella sua stanza. Nel primo incontro il Papa soffriva visibilmente, ma era pienamente lucido e molto presente. Io era andato semplicemente per un incontro di lavoro, perché avevo bisogno di alcune sue decisioni. Il Santo Padre – benché soffrendo – seguiva con grande attenzione quanto dicevo. Mi comunicò in poche parole le sue decisioni, mi diede la sua benedizione, mi salutò in tedesco, accordandomi tutta la sua fiducia e la sua amicizia. Per me è stato molto commovente vedere, da una parte, come la sua sofferenza fosse in unione col Signore sofferente, come portasse la sua sofferenza con il Signore e per il Signore; e, dall’altra, vedere come risplendesse di una serenità interiore e di una lucidità completa. Il secondo incontro è stato il giorno prima della morte: era ovviamente più sofferente, visibilmente, circondato da medici ed amici. Era ancora molto lucido, mi ha dato la sua benedizione. Non poteva più parlare molto. Per me questa sua pazienza nel soffrire è stato un grande insegnamento, soprattutto riuscire a vedere e a sentire come fosse nella mani di Dio e come si abbandonasse alla volontà di Dio. Nonostante i dolori visibili, era sereno, perché era nelle mani dell’Amore Divino. D. – Lei, Santo Padre, spesso nei suoi discorsi evoca la figura di Giovanni Paolo II, e di Giovanni Paolo II dice che era un Papa grande, un predecessore compianto e venerato. Ricordiamo sempre le parole di Vostra Santità espresse alla Messa del 20 aprile scorso, parole dedicate proprio a Giovanni Paolo II. E’ stato Lei, Santo Padre, a dire – e qui cito – “sembra che egli mi tenga forte per mano, vedo i suoi occhi ridenti e sento le sue parole, che in quel momento rivolge a me in particolare: ‘non aver paura!’”. Santo Padre, una domanda alla fine molto personale: Lei continua ad avvertire la presenza di Giovanni Paolo II, e se è così, in che modo? R. – Certo. Comincio a rispondere alla prima parte della sua domanda. Avevo inizialmente, parlando dell’eredità del Papa, dimenticato di parlare dei tanti documenti che ci ha lasciato – 14 Encicliche, tante Lettere Pastorali e tanti altri – e tutto questo rappresenta un patrimonio ricchissimo che non è ancora sufficientemente assimilato nella Chiesa. Io considero proprio una mia missione essenziale e personale di non emanare tanti nuovi documenti, ma di fare in modo che questi documenti siano assimilati, perché sono un tesoro ricchissimo, sono l’autentica interpretazione del Vaticano II. Sappiamo che il Papa era l’uomo del Concilio, che aveva assimilato interiormente lo spirito e la lettera del Concilio e con questi testi ci fa capire veramente cosa voleva e cosa non voleva il Concilio. Ci aiuta ad essere veramente Chiesa del nostro tempo e del tempo futuro. Adesso vengo alla seconda parte della sua domanda. Il Papa mi è sempre vicino attraverso i suoi testi: io lo sento e lo vedo parlare, e posso stare in dialogo continuo col Santo Padre, perché con queste parole parla sempre con me, conosco anche l’origine di molti testi, ricordo i dialoghi che abbiamo avuto su uno o sull’altro testo. Posso continuare il dialogo con il Santo Padre. Naturalmente questa vicinanza attraverso le parole è una vicinanza non solo con i testi, ma con la persona, dietro i testi sento il Papa stesso. Un uomo che va dal Signore, non si allontana: sempre più sento che un uomo che va dal Signore si avvicina ancora di più e sento che dal Signore è vicino a me in quanto io sono vicino al Signore, sono vicino al Papa e lui ora mi aiuta ad essere vicino al Signore e cerco di entrare nella sua atmosfera di preghiera, di amore del Signore, di amore della Madonna e mi affido alla sue preghiere. C’è così un dialogo permanente ed anche un essere vicini, in un nuovo modo, ma in modo molto profondo. D. – Padre Santo, la aspettiamo ora in Polonia. Tanti domandano quando il Papa verrà in Polonia? R. – Sì, l’intenzione di venire in Polonia, se Dio vuole, se i tempi me lo permetteranno, c’è. Ho parlato con mons. Dziwisz riguardo alla data e mi dicono che giugno sarebbe il periodo più adeguato. Tutto è ancora naturalmente da organizzare con tutte le istanze competenti. In questo senso è una parola provvisoria, ma sembra che forse il prossimo giugno, se il Signore lo concede, potrei venire in Polonia. Santo Padre, a nome di tutti i telespettatori, la ringrazio di cuore per questa intervista. Grazie, Padre Santo. R. - Grazie a Lei.
Dialogo tra Benedetto XVI ed alcuni bambini della Prima Comunione Pubblichiamo di seguito il testo del dialogo tra Benedetto XVI ed i bambini presenti in Piazza San Pietro nel pomeriggio di sabato 15 ottobre. Andrea: «Caro Papa, quale ricordo hai del giorno della tua prima Comunione?» Innanzitutto vorrei dire grazie per questa festa della fede che mi offrite, per la vostra presenza e la vostra gioia. Ringrazio e saluto per l'abbraccio che ho avuto da alcuni di voi, un abbraccio che simbolicamente vale per voi tutti, naturalmente. Quanto alla domanda, mi ricordo bene del giorno della mia Prima Comunione. Era una bella domenica di marzo del 1936, quindi 69 anni fa. Era un giorno di sole, la chiesa molto bella, la musica, erano tante le belle cose delle quali mi ricordo. Eravamo una trentina di ragazzi e di ragazze del nostro piccolo paese, di non più di 500 abitanti. Ma nel centro dei miei ricordi gioiosi e belli sta questo pensiero - la stessa cosa è già stata detta dal vostro portavoce - che ho capito che Gesù è entrato nel mio cuore, ha fatto visita proprio a me. E con Gesù Dio stesso è con me. E che questo è un dono di amore che realmente vale più di tutto il resto che può essere dato dalla vita; e così sono stato realmente pieno di una grande gioia perché Gesù era venuto da me. E ho capito che adesso cominciava una nuova tappa della mia vita, avevo 9 anni, e che adesso era importante rimanere fedele a questo incontro, a questa Comunione. Ho promesso al Signore, per quanto potevo: "Io vorrei essere sempre con te" e l'ho pregato: "Ma sii soprattutto tu con me". E così sono andato avanti nella mia vita. Grazie a Dio, il Signore mi ha sempre preso per la mano, mi ha guidato anche in situazioni difficili. E così questa gioia della Prima Comunione era un inizio di un cammino fatto insieme. Spero che, anche per tutti voi, la Prima Comunione che avete ricevuto in quest'Anno dell'Eucaristia sia l’inizio di un'amicizia per tutta la vita con Gesù. Inizio di un cammino insieme, perché andando con Gesù andiamo bene e la vita diventa buona. Livia: «Santo Padre, prima del giorno della mia Prima Comunione mi sono confessata. Mi sono poi confessata altre volte. Ma volevo chiederti: devo confessarmi tutte le volte che faccio la Comunione? Anche quando ho fatto gli stessi peccati? Perché mi accorgo che sono sempre quelli». Direi due cose: la prima, naturalmente, è che non devi confessarti sempre prima della Comunione, se non hai fatto peccati così gravi che sarebbe necessario confessarsi. Quindi, non è necessario confessarsi prima di ogni Comunione eucaristica. Questo è il primo punto. Necessario è soltanto nel caso che hai commesso un peccato realmente grave, che hai offeso profondamente Gesù, così che l’amicizia è distrutta e devi ricominciare di nuovo. Solo in questo caso, quando si è in peccato "mortale", cioè grave, è necessario confessarsi prima della Comunione. Questo è il primo punto. Il secondo: anche se, come ho detto, non è necessario confessarsi prima di ogni Comunione, è molto utile confessarsi con una certa regolarità. È vero, di solito, i nostri peccati sono sempre gli stessi, ma facciamo pulizia delle nostre abitazioni, delle nostre camere, almeno ogni settimana, anche se la sporcizia è sempre la stessa. Per vivere nel pulito, per ricominciare; altrimenti, forse la sporcizia non si vede, ma si accumula. Una cosa simile vale anche per l'anima, per me stesso, se non mi confesso mai, l'anima rimane trascurata e, alla fine, sono sempre contento di me e non capisco più che devo anche lavorare per essere migliore, che devo andare avanti. E questa pulizia dell'anima, che Gesù ci dà nel Sacramento della Confessione, ci aiuta ad avere una coscienza più svelta, più aperta e così anche di maturare spiritualmente e come persona umana. Quindi due cose: confessarsi è necessario soltanto in caso di un peccato grave, ma è molto utile confessarsi regolarmente per coltivare la pulizia, la bellezza dell'anima e maturare man mano nella vita. Andrea: «La mia catechista, preparandomi al giorno della mia Prima Comunione, mi ha detto che Gesù è presente nell'Eucaristia. Ma come? Io non lo vedo!» Sì, non lo vediamo, ma ci sono tante cose che non vediamo e che esistono e sono essenziali. Per esempio, non vediamo la nostra ragione, tuttavia abbiamo la ragione. Non vediamo la nostra intelligenza e l'abbiamo. Non vediamo, in una parola, la nostra anima e tuttavia esiste e ne vediamo gli effetti, perché possiamo parlare, pensare, decidere ecc... Così pure non vediamo, per esempio, la corrente elettrica, e tuttavia vediamo che esiste, vediamo questo microfono come funziona; vediamo le luci. In una parola, proprio le cose più profonde, che sostengono realmente la vita e il mondo, non le vediamo, ma possiamo vedere, sentire gli effetti. L'elettricità, la corrente non le vediamo, ma la luce la vediamo. E così via. E così anche il Signore risorto non lo vediamo con i nostri occhi, ma vediamo che dove è Gesù, gli uomini cambiano, diventano migliori. Si crea una maggiore capacità di pace, di riconciliazione, ecc... Quindi, non vediamo il Signore stesso, ma vediamo gli effetti: così possiamo capire che Gesù è presente. Come ho detto, proprio le cose invisibili sono le più profonde e importanti. Andiamo dunque incontro a questo Signore invisibile, ma forte, che ci aiuta a vivere bene. Giulia: «Santità, tutti ci dicono che è importante andare a Messa alla domenica. Noi ci andremmo volentieri ma spesso i nostri genitori non ci accompagnano perché alla domenica dormono, il papà e la mamma di un mio amico lavorano in un negozio e noi spesso andiamo fuori città per trovare i nonni. Puoi dire a loro una parola perché capiscano che è importante andare a Messa insieme, ogni domenica?» Riterrei di sì, naturalmente, con grande amore, con grande rispetto per i genitori che, certamente, hanno tante cose da fare. Ma tuttavia, con il rispetto e l’amore di una figlia, si può dire: cara mamma, caro papà, sarebbe così importante per noi tutti, anche per te incontrarci con Gesù. Questo ci arricchisce, porta un elemento importante alla nostra vita. Insieme troviamo un po' di tempo, possiamo trovare una possibilità. Forse anche dove abita la nonna si troverà la possibilità. In una parola direi, con grande amore e rispetto per i genitori, direi loro: "Capite che questo non è solo importante per me, non lo dicono solo i catechisti, è importante per tutti noi; e sarà una luce della domenica per tutta la nostra famiglia". Alessandro: «A cosa serve andare alla Santa Messa e ricevere la Comunione per la vita di tutti i giorni?» Serve per trovare il centro della vita. Noi la viviamo in mezzo a tante cose. E le persone che non vanno in chiesa non sanno che a loro manca proprio Gesù. Sentono però che manca qualcosa nella loro vita. Se Dio resta assente nella mia vita, se Gesù è assente dalla mia vita, mi manca una guida, mi manca una amicizia essenziale, mi manca anche una gioia che è importante per la vita. La forza anche di crescere come uomo, di superare i miei vizi e di maturare umanamente. Quindi, non vediamo subito l'effetto dell'essere con Gesù quando andiamo alla Comunione; lo si vede col tempo. Come anche, nel corso delle settimane, degli anni, si sente sempre più l'assenza di Dio, l'assenza di Gesù. È una lacuna fondamentale e distruttiva . Potrei adesso facilmente parlare dei Paesi dove l'ateismo ha governato per anni; come ne sono risultate distrutte le anime, ed anche la terra; e così possiamo vedere che è importante, anzi, direi, fondamentale, nutrirsi di Gesù nella comunione. E’ Lui che ci dà la luce, ci offre la guida per la nostra vita, una guida della quale abbiamo bisogno. Anna: «Caro Papa, ci puoi spiegare cosa voleva dire Gesù quando ha detto alla gente che lo seguiva: "Io sono il pane della vita"»? Allora dobbiamo forse innanzitutto chiarire che cos'è il pane. Noi abbiamo oggi una cucina raffinata e ricca di diversissimi cibi, ma nelle situazioni più semplici il pane è il fondamento della nutrizione e se Gesù si chiama il pane della vita, il pane è, diciamo, la sigla, un'abbreviazione per tutto il nutrimento. E come abbiamo bisogno di nutrirci corporalmente per vivere, così anche lo spirito, l'anima in noi, la volontà, ha bisogno di nutrirsi. Noi, come persone umane, non abbiamo solo un corpo, ma anche un'anima; siamo persone pensanti con una volontà, un’intelligenza, e dobbiamo nutrire anche lo spirito, l'anima, perché possa maturare, perché possa realmente arrivare alla sua pienezza. E, quindi, se Gesù dice io sono il pane della vita, vuol dire che Gesù stesso è questo nutrimento della nostra anima, dell'uomo interiore del quale abbiamo bisogno, perché anche l'anima deve nutrirsi. E non bastano le cose tecniche, pur tanto importanti. Abbiamo bisogno proprio di questa amicizia di Dio, che ci aiuta a prendere le decisioni giuste. Abbiamo bisogno di maturare umanamente. Con altre parole, Gesù ci nutre così che diventiamo realmente persone mature e la nostra vita diventa buona. Adriano: «Santo Padre, ci hanno detto che oggi faremo l'Adorazione Eucaristica? Che cosa è? Come si fa? Ce lo puoi spiegare? Grazie» Allora, che cos'è l'adorazione, come si fa, lo vedremo subito, perché tutto è ben preparato: faremo delle preghiere, dei canti, la genuflessione e siamo così davanti a Gesù. Ma, naturalmente, la tua domanda esige una risposta più profonda: non solo come fare, ma che cosa è l'adorazione. Io direi: adorazione è riconoscere che Gesù è mio Signore, che Gesù mi mostra la via da prendere, mi fa capire che vivo bene soltanto se conosco la strada indicata da Lui, solo se seguo la via che Lui mi mostra. Quindi, adorare è dire: «Gesù, io sono tuo e ti seguo nella mia vita, non vorrei mai perdere questa amicizia, questa comunione con te». Potrei anche dire che l'adorazione nella sua essenza è un abbraccio con Gesù, nel quale gli dico: «Io sono tuo e ti prego sii anche tu sempre con me».
Suor Maria Gloria Riva analizza l’ “Ultima Cena” di Leonardo da Vinci È uscito recentemente il DVD dal titolo «Il Codice dell’Amore», che offre una lettura affascinante de “L’Ultima Cena”, il capolavoro di Leonardo Da Vinci. Il DVD, che si può acquistare anche on line sul sito www.mimep.it “pur nella semplicità dei mezzi usati per realizzarlo, sembra particolarmente utile a tutti coloro che vogliono accostarsi a questo dipinto senza lasciarsi fuorviare da letture false, fuorvianti e morbose come quella fatta da Dan Brown nel libro ‘Il Codice da Vinci’”. Autrice de “Il Codice dell’Amore”, è suor Maria Gloria Riva, Adoratrice perpetua del SS.mo Sacramento, che ha rilasciato una intervista a ZENIT. D. Una monaca di clausura ed internet: è uno strano binomio. Da dove è nata questa esperienza? Quali ne sono le ragioni? E le caratteristiche? R. Il nostro modo di essere claustrali è stato fin dall’inizio un essere lievito e luce nella città. Nel 1789, anno della Rivoluzione francese, in un oscuro paesino dello Stato Pontificio, una giovane novizia di 17 anni, ebbe una straordinaria rivelazione. Il 19 febbraio, giovedì grasso, mentre suor Maria Maddalena dell’Incarnazione – questo il nome della novizia – riassettava il refettorio, una delle pareti dello stesso si spalancò verso l’infinito. In quella parete ella vide figure angeliche in vesti bianche e stole rosse che lodavano Cristo, vivo e presente nell’ostia santa. Il Signore le fece capire che voleva anche sulla terra persone che lo adorassero nel SS.mo Sacramento. Si preparavano giorni, infatti, in cui la perdita della fede e dei valori della fede avrebbe condotto l’uomo al relativismo assoluto, per questo Dio le consegnava una missione: ridare all’uomo un centro verso il quale orientarsi per restituire senso e scopo all’esistenza. Ella fondò pertanto nel cuore della città di Roma un Monastero di Adoratrici Perpetue del SS.mo Sacramento che fosse oasi di silenzio e di contemplazione per tutti: sacerdoti, religiosi e laici. Madre Maria Maddalena non si contentò tuttavia di mettere al centro della vita della città l’Eucaristia attraverso la presenza di un Monastero ad essa dedicato, non si contentò neppure di far leggere alle sue monache, durante le ore di adorazione, ad alta voce – cosa del tutto inusuale a quel tempo – brani che fossero preghiera e anche catechesi per il popolo sull’Eucaristia, ma volle segnalare i turni di adorazione con tre tocchi di campana per chiamare tutti, anche i più distratti, all’incontro con Cristo Presente nel Sacramento. Nella Roma di quel tempo, tutta giacobina, dove le campane si sarebbero volentieri fatte tacere, il gesto rappresentò una vera provocazione. Ma oggi? Come segnalare oggi questa Presenza in un mondo distratto e per il quale il suono delle campane – nella migliore delle ipotesi – è uno dei tanti suoni della città? Oggi occorrono nuove forme e tra le varie iniziative che sono state messe in campo per rispondere a tali interrogativi, c’è stata quella di entrare, sia pure con discrezione, nel grande universo della rete. Internet ci è parsa infatti la nuova piazza, la nuova città dove far risuonare questo annuncio, dove essere, noi stesse, la nostra presenza, il segno di una Presenza Altra quella di Gesù Eucaristia. D. Che cosa può raccontare di questa esperienza di comunicazione? Riguardo soprattutto alla sua vocazione contemplativa di monaca di clausura? R. La nostra preghiera è tutta in uno sguardo. E lo sguardo è la strada più diritta per arrivare al cuore. Così, per me, comunicare la fede è comunicare un nuovo modo di guardare, è offrire all’uomo un nuovo sguardo. E’ solo acquistando occhi nuovi che è possibile riscoprire la Presenza e rigustare la preghiera. Ho adoperato perciò, fin da subito, nei miei incontri con i gruppi laicali di vario tipo, l’opera d’arte come mezzo potente di comunicazione della fede attraverso lo sguardo. Un altra esigenza che ho avvertito fin dai miei primi passi nell’esperienza di vita monastica, è stata quella di comunicare la bellezza e lo stupore per un contenuto, per un messaggio, per una Presenza – come appunto dice il titolo del mio libro – che la Bellezza comunica e che, spesso, va oltre la forma estetica senza peraltro avvilirla o sconfessarne la valenza. Questa passione, ma vorrei dire di più, quest’istanza di comunicare mi ha portata ad interessarmi a internet. Non ne sarebbe nata una collaborazione così attiva e feconda però, se non fosse nata una grande amicizia con don Gabriele Mangiarotti e con altri collaboratori del sito “Cultura Cattolica”. Trovare compagni di viaggio che desiderano testimoniare con passione la verità e che, per questo, mettono a disposizione le loro risorse non è facile, quando accade è una specie di miracolo! A me è accaduto e sono grata alla provvidenza che lo ha permesso. D. Ha da poco concluso un’opera di commento (su DVD) del grande dipinto di Leonardo, “L’Ultima Cena”. Che cosa vi ha trovato e scoperto? Che cosa propone nella sua lettura? E come pensa di poter aiutare i giovani che l’incontrano vincendo pregiudizi e falsità? R. Ogni volta che mi accosto ad un opera d’arte si solleva un mondo e s’incontra un’esperienza. Nel caso di Leonardo poi, il mondo è quello curioso e aperto della Rinascenza e l’esperienza è quella di un uomo affascinato dal Mistero. Leonardo soffriva i confini di una Chiesa (e di una società) troppo stretta per le sue vertiginose prospettive. In Leonardo c’è qualcosa della migliore laicità del presente, c’è una religiosità pensante e densa di interrogativi, interrogativi che emergono dalla danza delle mani degli apostoli. In Leonardo c’è la passione per l’uomo, per la mappa inesplorata dei suoi lineamenti così rivelatori di un’identità, di una passione per la vita e di una domanda sul Mistero. In Leonardo c’è, ancora, l’interesse colmo di rispetto per l’uomo Gesù e il vibrare di un interrogativo profondo circa il suo essere Dio. Insomma Leonardo non ha dipinto il Cenacolo, lo ha rivissuto, attualizzandolo in un oggi eterno che obbliga chiunque lo guardi a confrontarsi con gli apostoli e a farsi la domanda fondamentale della vita: dove sei rispetto alla verità? Uno di voi mi tradirà, è il punto focale da cui Leonardo guarda l’ultima cena. Ciascuno si deve confrontare con quest’ora, l’ora del tradimento e della croce e decidersi per la verità. D. Non è la prima volta che si fa aiutare dalle opere d’arte per comunicare la fede. Ma c’è chi dice che una lettura di fede "cattolica" è proprio il contrario di quanto la parola esprima: invece che apertura a 360 gradi, essa sarebbe una lettura parziale, riduttiva e schematica. In che modo la sua fede l’ aiuta a comprendere meglio la cultura che incontra, nelle sue varie espressioni e nei suoi tentativi? R. Per comprendere un uomo è necessario conoscere le sue radici, la sua cultura. Si sono compiuti errori gravissimi anche nella Chiesa per aver letto – ad esempio – il Vangelo alla luce della nostra cultura occidentale, ignorando completamente il retroterra culturale ebraico e della diaspora. Così, per commentare un’opera d’arte occorre scandagliare l’epoca, le motivazioni e persino le contraddizioni che l’hanno vista sorgere. Un dipinto esprime sempre le certezze, le speranze e le domande di chi lo ha eseguito. Le stesse scuole e correnti pittoriche, del resto, erano frutto di una riflessione e di una ricerca che investiva spesso le istanze di un’epoca. Per entrare nella lettura di un’opera bisogna dunque, spogliarsi di se stessi, con umiltà, e lasciarsi condurre per mano dall’autore. Per leggere un’opera d’arte sacra o religiosa allora è necessario lo sguardo della fede, il più terso, il più obiettivo e il più acuto per capirne (e carpirne) la profondità. La fede è necessaria alla lettura di un’opera anche qualora il suo autore non sia stato particolarmente credente. L’artista riceve sempre il suo dono dall’alto e l’ispirazione è una forma a volte inconsapevole di preghiera. Nella maggior parte dei casi poi, l’artista europeo ha radici cristiane alle quali attinge per realizzare la sua opera o soddisfare le esigenze del committente. D. Quali sono i suoi progetti futuri, nel campo dell’espressione? R. Sono in corso due pubblicazioni. Un libro dal titolo ‘Frammenti di Bellezza’ sulla preghiera letta attraverso l’esperienza della nostra fondatrice, Madre Maria Maddalena dell’Incarnazione, e attraverso alcune opere di grandi artisti: Giotto, Piero della Francesca, Raffaello, Rembrandt, Millet, Dalì. Un secondo testo invece, vorrebbe essere uno strumento per comprendere più a fondo la Messa attraverso l’arte. Si prendono in esame gli affreschi di una chiesa, quella del nostro Monastero, dedicata a santa Maria Maddalena e santa Teresa d’Avila. È singolare vedere come un edificio minore, quale è questo, del tutto anonimo di fronte alle cattedrali di Monza e Milano, offra una così preziosa testimonianza di arte e fede. Il libro mi auguro, possa anche aiutare a riscoprire gli innumerevoli piccoli tesori disseminati nelle nostre città che rischiano di andare perduti a causa, appunto, di una mancata valorizzazione e di una adeguata lettura che ne faccia gustare la bellezza e il valore della testimonianza. D. Lei incontra spesso i giovani e parla al loro cuore anche con l’arte. Qual è la raccomandazione che gli rivolge? R. Ai giovani dico spesso di avere cara la ragionevolezza della fede e di non rinunciare a quella percezione del vero che mette in fuga i luoghi comuni, affina il senso critico e apre il cuore alla verità, anche a quella che va contro le proprie convinzioni. Un giovane tedesco, pastore luterano, un grande testimone della fede e della libertà, Dietrich Bonhoeffer, anelava ad essere un uomo completo, anthropos theleios. Diventare uomini completi, capaci cioè di non rinunciare a nulla di ciò che è vero e autenticamente umano in nome di una ideologia, di un sistema, di un successo o di qualunque altra cosa, è il modo più giusto per vivere e, dunque, anche il modo più corretto per leggere un’opera d’arte. Quest’anno a Bari ho fatto un’esperienza entusiasmante. Vista l’eccezionalità dell’anno eucaristico ho avuto la possibilità di accogliere l’invito di monsignor Francesco Cacucci, Arcivescovo di Bari, e partecipare a una delle tavole rotonde previste nel programma del Congresso Eucaristico. L’incontro con i giovani è il ricordo più bello che mi sono portata a casa. L’amicizia con alcuni di loro è continuata e, dopo Colonia e gli appelli affascinanti di Benedetto XVI, è sorto un gruppo di giovani adoratori missionari con i quali proseguo queste conversazioni su arte, fede, Parola ed esperienza di vita. Il gruppo si chiama IGAM, un acronimo che, letto a rovescio, rimanda ai Magi: solo dall’Eucarista, infatti, celebrata e adorata, scaturisce quella luce che rinnova lo sguardo e ci rende, sull’esempio dei Magi, testimoni della Bellezza e della Verità.
Il cristianesimo è “la risposta alla domanda di senso”, afferma monsignor Rino Fisichella Durante un dibattito con il filosofo Emanuele Severino Il cristianesimo risponde alla domanda di senso o è solo un mito che serve ad alleviare le preoccupazioni sulla sofferenza e sulla morte? Questo è uno degli interrogativi a cui hanno tentato di rispondere un filosofo, Emanuele Severino, ed un teologo, monsignor Rino Fisichella (vedi foto), Rettore della Pontificia Università Lateranense (PUL). Moderati dal giornalista televisivo Giovanbattista Brunori, i due sono infatti intervenuti nel corso di un Convegno sul tema “Il cristianesimo: la risposta alla domanda di senso?”, che si è svolto il 26 ottobre presso l’Aula Paolo VI della Pontificia Università Lateranense. Il Convegno è stato organizzato in collaborazione con le edizioni Paoline, di cui è stata presentata la collana di libri “Diaconia della verità”. Quindici volumi, nove dei quali già pubblicati, con riflessioni e titoli tutti orientati a rispondere alla domanda di senso che, secondo l’editore Pino Occhipinti, “accompagna l’uomo da sempre e gli farà sempre compagnia fino a quando egli sarà capace e vorrà riflettere su di sé ed il proprio destino”. Emanuele Severino è stato docente ordinario di Teologia Morale presso l’Università Cattolica di Milano dal 1962 fino al 1969, da cui si allontanò al culmine di un percorso filosofico già delineato nel saggio “Ritornare a Parmenide” (1964) che lo portava a contraddire gli insegnamenti della Chiesa. Secondo il filosofo originario di Brescia “gli uomini hanno cercato il senso quando hanno capito che cosa è soffrire e che cosa è morire”, e in particolare “il senso è il mito, che iscrive il dolore e la morte in un significato che ne rende possibile la sopportazione”. Sulla base di questa interpretazione, ha indicato come contraddittoria la pretesa di verità del cristianesimo, perché “se la verità è una risposta che accade ad un certo momento dopo che l’accadimento dell’uomo si è già manifestato” allora l’uomo ha percorso una parte della sua storia nella “non verità”. Monsignor Fisichella, che è anche Vescovo ausiliare di Roma, ha replicato dicendo che il cristianesimo non è una delle risposte alla domanda di senso, ma “la risposta alla domanda di senso”. Per il Rettore della PUL, “la domanda di senso è una domanda universale, che si pone l’uomo da sempre”, la cui risposta va rintracciata nella verità e soprattutto alla capacità di amare degli esseri umani. Monsignor Fisichella ha proposto di “non partire dal limite dell’uomo, dalla sofferenza, dalla morte”, quanto dal “desiderio nell’uomo di conoscere la verità” e di realizzare la propria libertà. Per far questo, ha continuato, “c’è bisogno di un'altra prospettiva che è quella dell’amore” cioè “l’apertura di andare oltre se stesso e non rimanere chiuso in se stesso”. Secondo Fisichella “ciò che l’uomo percepisce come la sua esperienza primordiale è l’amore, l’uomo scopre prima di essere capace di amare che di essere destinato a morire”. Il teologo ha quindi illustrato il senso della Rivelazione, spiegando che essa “è carica di senso e intelligibilità” perché è “verità consegnata e non prodotta, conoscenza che ci viene consegnata e non solo prodotta da noi”. Quella del cristianesimo, ha continuato monsignor Fisichella è “una verità consegnata non in astratto ma consegnata da Gesù di Nazareth che nel suo farsi uomo consente che l’uomo possa vivere la comunione con Dio”. Si tratta del “concetto di religione che viene portato al suo culmine, perché fino a quel momento lo stesso concetto non contiene in sé la pienezza di significato che dovrebbe avere”. Replicando alla definizione di mito data da Emanuele Severino, Fisichella ha affermato che “il cristianesimo non è un mito, ma una persona viva, Gesù Cristo, che resta operante nel mondo attraverso il mistero dell’Eucaristia”.
Proposte del Sinodo per riscoprire la liturgia… ed evitare omelie noiose Intervista a monsignor Julián López Martín, Vescovo di León (Spagna) Perchè alcune omelie sono tanto noiose? Com’è possibile far riscoprire la bellezza della liturgia? Sono queste alcune delle domande poste dai Vescovi che hanno partecipato al Sinodo sull’Eucaristia, svoltosi nel mese di ottobre a Roma. Tra loro c’era monsignor Julián López Martín (vedi foto), Vescovo di León e Presidente della Commissione Episcopale di Liturgia della Conferenza Episcopale Spagnola, che in questa intervista concessa a ZENIT analizza alcune delle proposte sinodali e rivela la sua esperienza di questo avvenimento ecclesiale. D. Di fronte alle omelie noiose o dispersive, il Sinodo ha suggerito che l’omelia sia “mistagogica”, vale a dire che diventi un’autentica iniziazione ai misteri vissuti e celebrati in quel momento dai battezzati. Cosa significa nella pratica? R. Questo aggettivo non è necessario quando si tratta della predicazione liturgica che ha il suo modello nei santi padri. L’omelia, recuperata dal Concilio Vaticano II nella Costituzione sulla sacra Liturgia come parte della celebrazione, è una spiegazione di qualche aspetto concreto delle letture della Parola di Dio o di un altro testo della liturgia del giorno, tenendo presente il mistero che si commemora e invitando a viverlo anche nelle circostanze concrete dei fedeli. D. Potrebbe approfondire questo aspetto? R. L’omelia si può fare partendo dalle letture e applicandole al mistero celebrato o partendo dal mistero o sacramento celebrato – ad esempio quando si amministra il Battesimo o la Cresima –, illuminandolo con l’aiuto delle letture per introdurre più profondamente i fedeli in ciò che stanno vivendo. Si tratta di un genere specifico di predicazione, che non deve essere confuso con il sermone, anche se questo viene compiuto all’interno della Messa. Il Vaticano II e il Messale propongono il primo. D. Perché molte omelie sono noiose? R. La maggior parte delle volte perché non sono ben preparate, una cosa che richiede non solo dedizione, ma anche conoscenza di ciò che deve essere l’omelia. E’ necessario studiare le letture nel loro rapporto – la norma la detta il Vangelo – e nel contesto della celebrazione e del tempo liturgico; meditare il messaggio, pregando e chiedendosi cosa ci voglia dire il Signore in questa o quella circostanza e come manifestarlo in modo chiaro e comprensibile. Non è necessario essere un grande oratore né impiegare grandi risorse – omelia vuol dire conversazione –, ma c’è bisogno di assimilare e far proprio ciò che si dirà per trasmetterlo attraverso la testimonianza. D. Di cosa hanno bisogno i credenti per scoprire che la liturgia non è una cosa “da parroci”, ma che riguarda anche loro? R. Di averla gustata o di aver provato qualche volta la sua ricchezza spirituale. La liturgia è come il buon vino. Chi ne ha assaporato uno di qualità, è capace di distinguere. C’è bisogno di un’iniziazione fin da piccoli, della fedeltà alla convocazione della Chiesa la domenica, e di un po’ più di attenzione nei confronti delle celebrazioni. Questo, però, non riguarda solo i fedeli, ma soprattutto i sacerdoti. La liturgia è qualcosa di divino, con mezzi umani: la comunicazione, i simboli, la musica, ecc.. Al mistero bisogna avvicinarsi in punta di piedi e a piedi scalzi. D. Cos’è stato detto nel Sinodo sull’«Ite Missa est» (“Andate in pace”)? R. Per quanto ricordo, alcuni interventi hanno insistito sul significato profondo di questa breve formula, e si è chiesto che il suo senso sia esplicitato con frasi più incisive rispetto al semplice “Andate in pace”. Dal 1988, da quando il testo castigliano del rituale della Messa è stato unificato con tutti i Paesi interessati, abbiamo vari modi di invitare i fedeli a “glorificare Dio” con la propria vita, ad “annunciare a tutti la gioia del Signore risorto”, ecc.. Ma sono poco usati. D. Cos’ha proposto il Sinodo circa la partecipazione più attiva del popolo alla liturgia? R. Nel Sinodo è stata riconosciuta ancora una volta l’importanza della partecipazione dei fedeli alla liturgia, così come ha proposto il Vaticano II, vale a dire una partecipazione non solo attiva ed esterna, ma anche cosciente e interna. Si tratta di un compito sempre incompleto, perché richiede adeguata formazione biblica e liturgica nei pastori e un certo impegno per progredire da parte dei fedeli. Giovanni Paolo II ha scritto nel 1988 che la liturgia deve essere celebrata innanzitutto come un avvenimento spirituale. D. Tornando a León, i suoi fedeli le chiederanno a cosa sia servito il Sinodo. Cosa risponderà loro? R. Il Sinodo, come tante altre realtà della vita della Chiesa, non entra nella categoria dell’utilitaristico la cui efficacia si misura da risultati quantificabili. Per tre settimane abbiamo cercato, anche il Papa, in primo luogo di ascoltare, di ascoltare ciò che lo Spirito Santo diceva attraverso i pastori convocati a questa singolare assemblea: ognuno parlava a partire dalla sua esperienza viva di pastore, e da circostanze molte concrete. Ascoltandoci gli uni gli altri percepivamo un suono di fondo, a volte coincidente, altre volte complementare, segnato in non pochi casi dalla sofferenza e a volte dalla persecuzione e dal martirio, che era la voce di Cristo. All’inizio come un torrente di molte acque, poi un suono che diventava più chiaro, e alla fine, in non pochi aspetti, una convinzione profonda, una chiamata, un suggerimento. Ciò che è accaduto con altri sinodi – quest’anno si festeggiano i 40 anni della creazione di questa istituzione da parte di Papa Paolo VI –, accadrà anche con questo. Hanno dato un nuovo impulso a una determinata azione pastorale o hanno favorito un rinnovamento in questo o quel settore del popolo cristiano. D. A lei personalmente, a cosa è servito questo Sinodo? R. Mi ha fatto sentire davvero un privilegiato per il fatto di avervi potuto partecipare, vivendo intensamente per tre settimane ciò che è la comunione dei Vescovi con il Vicario di Cristo e tra noi, proprio sul Sacramento dell’Eucaristia, l’Amore degli amori, sperimentando anche ciò che San Paolo chiamava la sollecitudine per tutte le Chiese.
Missioni: l’isola dei non famosi Il titolo è volutamente provocatorio e, nelle finalità, anche polemico. E mi è venuto d’istinto quando ho letto che il programma televisivo “L’isola dei famosi” della scorsa settimana, ha superato il 40% di share, un vero record di ascolti. Ora, non da oggi, tutti i programmi del genere reality show mi vanno particolarmente di traverso, non li posso soffrire e non riesco proprio a guardarli, nemmeno per curiosità o per aggiornamento professionale. Ho provato, al massimo in passato ho resistito a qualche mezza puntata, poi sempre di meno; adesso non arrivo al minuto, cambio canale prima. Orbene “L’isola dei famosi” della Rai (ma è la stessa cosa “La talpa” di Mediaset) sono i programmi che più mi danno sui nervi perché ci fanno vedere un gruppo di personaggi più o meno famosi che, volontariamente (ma va!) cercano di salire o di tornare alla ribalta fingendo di patire le pene dell’inferno (a volte anche con prove, sic!, di particolare pericolosità) su spiagge abbandonate di Paesi lontani, dell’Africa o dei Caraibi. Ovviamente ripresi, e dunque circondati, giorno e notte dalle telecamere e dunque da uno stuolo di tecnici e compagnia bella. Oltretutto chi vince, alla fine intasca anche un discreto gruzzoletto di centinaia di milioni di euro (e scusate se è poco). A questo punto, e soprattutto di fronte al grande successo di pubblico che si appassiona alle terribili esperienze, alle disavventure, alle dure prove, ai volti segnati e rigati a volte anche di lacrime, mi chiedo e chiedo se non abbiamo davvero gettato il cervello all’ammasso, se non ci siamo fatti irretire e abbindolare sino all’istupidimento collettivo. È vero, basta cambiare canale, ed è l’unico ed il miglior consiglio. Ma per reazione mi sono venuti in mente proprio i missionari, ovvero tutta quella gente che non da oggi ma da secoli lascia davvero tutto quello che ha e parte per “l’isola dei non famosi” per l’appunto, posti sperduti in ogni angolo del mondo, dove resta per anni, per decenni, per tutta la vita, e spesso vi riposa anche per l’eternità. Gente, e sono uomini e donne, giovani e anziani, preti e suore ma non solo perché ci sono sempre e più numerosi anche i laici, che non ha in mente progetti particolari, ideologie politiche, strategie di mercato, indagini sociologiche e/o psicologiche, ricerche bio, crio, tecno, nano e altre diavolerie. È gente che, nella stragrande maggioranza dei casi, vuol vivere e condividere la povertà, la miseria, la malattia, la mancanza di istruzione, l’ingiustizia, di altra gente che ha avuto la ventura (o la sventura) di nascere in una parte del mondo non evoluto, non avanzato, non industrializzato, non ricco, non acculturato. È gente che, nella stragrande maggioranza dei casi, lascia tutto e parte solo per annunciare, ma soprattutto vivere nella sua radicalità, nella sua interezza, nella sua Verità, il Vangelo di Gesù Cristo. Testimoni di fede, testimoni di speranza, testimoni di carità, li hanno chiamati e li chiamiamo in tutti i modi i missionari, ma sono gente comune, non sono personaggi famosi, non sono idoli e miti, non sono vip, non sono protagonisti, non sono facce da copertina o da televisione. Sono persone, nomi, volti della porta accanto, il figlio di, il fratello di, la sorella di, lo zio di, la zia di, la cugina di, il nipote di. Sono persone che però ad un certo punto della loro vita prendono su e partono senza sapere spesso se avranno un tetto dove ripararsi, se avranno da mangiare, se troveranno da dormire. Sono persone che spesso rischiano, e lo sanno perfettamente, anche la vita e talvolta anche la perdono per la guerra, per la violenza che regna sovrana nelle terre sperdute dove si recano. Sono persone che spesso e volentieri finiscono nel dimenticatoio, abbandonate e sconosciute anche alle comunità cristiane, alle stesse parrocchie, ai preti come ai laici. Sono persone che al massimo hanno e trovano il sostegno di qualche gruppo missionario, di qualche associazione, di qualche parroco particolarmente sensibile. Eppure sono i maggiori esperti di povertà, di effetti della globalizzazione, di fanatismi religiosi, di inculturazione, di flussi migratori, di sviluppo e sottosviluppo, di fame e di sete nel mondo, di guerre e di ingiustizie, di diritti umani, di rivolgimenti sociali e politici, in una parola di umanità. Ne sanno sicuramente di più e meglio di tanti professori e dottori e cattedratici e superlaureati e conferenzieri che tengono banco in convegni, dibattiti, su giornali, radio e televisioni. Ma di loro, se va bene, ma se va proprio bene, ci si ricorda al massimo una volta all’anno (o quando tornano a casa, ma non sempre e non tutti, per riposare, per tirare il fiato, per trovare qualche aiuto, o per curarsi) ovvero quando c’è la giornata missionaria mondiale, in cui riusciremo a dar loro un’occhiata, a prestare un attimo di attenzione e, se andremo a messa, ascolteremo, forse, un’omelia ad hoc e frugheremo in tasca alla ricerca di qualche spicciolo supplementare per un’offerta. Per il resto avremo altro da fare, pensare, ascoltare, vedere. Perché un programma su “L’isola dei non famosi” non lo farà e non lo trasmetterà mai nessuno. Anche perché una troupe televisiva che raggiungesse un missionario in qualche angolo del pianeta correrebbe il rischio di sentirsi dire “non ho tempo, ho altro e ben più importante da fare”. (Luigi Losa. Cfr. www.CulturaCattolica.it)
23 ottobre 2005
“I miracoli dell’Eucaristia”: una testimonianza dalla Siberia Pubblichiamo una testimonianza di mons. Massimo Camisasca (vedi foto), Fondatore e Superiore generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, su come la fede è sopravvissuta in Siberia nonostante una lunga persecuzione. “Nell’omelia di apertura dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi, lo scorso 2 ottobre, il Santo Padre ha invitato i relatori a non dire solo cose belle sull’Eucaristia, ma a vivere della sua forza. E l’Eucaristia è realmente una forza vitale, il segno tangibile della presenza di Cristo. Lo posso dire partendo dall’esperienza diretta e dai tanti racconti dei miei missionari sparsi nei più diversi angoli della terra. In Siberia, dove la fede cristiana per oltre settant’anni è stata perseguitata, sono miracolosamente sopravvissute alcune comunità cattoliche. Erano per lo più composte da contadini di origine tedesca o polacca, deportati da Stalin in quelle terre fredde e inospitali. In questi lunghissimi anni, pur non potendo contare su alcun sacerdote e non potendo accostarsi ai sacramenti, alcune donne hanno guidato la preghiera e il canto delle loro piccolissime comunità, mantenendone così in vita la fede. Dal 1991 sono presenti in queste terre alcuni sacerdoti della nostra Fraternità. La loro venuta è stata accolta con grandissima gioia da questi gruppi di cattolici, a volte formati da sole due o tre persone. Erano attesi perché portavano Cristo e la sua presenza salvifica nell’Eucaristia. A Rescjoti, minuscolo villaggio della steppa, un nostro sacerdote mi ha raccontato di essere andato al capezzale di nonna Agda, una babushka (trad. nonna) di 96 anni. Fuori casa aveva incontrato il figlio, che aveva fatto capire la gravità della situazione. Appena è entrato nella stanza, nonna Agda lo ha riconosciuto. Era felicissima di vederlo, nonostante il venir meno delle forze e l’avvicinarsi della morte. Davanti a lei don Francesco ha recitato il Padre Nostro e l’Ave Maria. La babushka, dopo aver aperto la bocca sino all’inverosimile, ha ricevuto la comunione. Il figlio si è commosso fino alle lacrime e don Francesco ancora di più. Aveva la certezza di essere davanti ad una santa donna. Con quelle ultime energie, nonna Agda voleva accogliere il corpo di Cristo, assaporarne la gioia e la pienezza. Mentre le era vicino, in silenzio, al nostro missionario sono tornate in mente alcune scene della vita di Agda. Un anno prima, nonna Agda, seduta sul fianco del letto, dopo aver ricevuto l’Eucaristia aveva iniziato a cantare in tedesco. Sua figlia, inginocchiata davanti a lei, ripeteva con qualche frazione di secondo di ritardo il canto della mamma. Quel giorno Agda aveva partorito due volte sua figlia, prima nella carne, poi nella fede. Questi sono i miracoli dell’Eucaristia”.
Messaggio del Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso ai musulmani per la fine del Ramadan: “Continuando sulla via del dialogo” In occasione della fine del mese del Ramadan (‘Id al Fitr, 1426 A.H. / 2005 A.D.) il Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Sua Ecc. Mons. Michael Fitzgerald (vedi foto), ha inviato un messaggio augurale ai Musulmani, dal tema "Continuando sulla via del dialogo". Il Messaggio ricorda come sia ormai divenuta una tradizione per il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso “inviare un messaggio ai nostri fratelli e sorelle musulmani per la fine del Ramadan”, abitualmente firmato dal Presidente del Pontificio Consiglio. “Nel 1991, in occasione della prima Guerra del Golfo, il messaggio d’amicizia fu firmato da Sua Santità il Papa Giovanni Paolo II. Egli affermò la necessità di &! lsquo;un dialogo sincero, profondo e costante fra credenti cattolici e credenti musulmani, dal quale potrà scaturire una più grande conoscenza e fiducia reciproca’. Queste parole sono certamente ancora attuali”. L’Arcivescovo Fitzgerald ricorda poi il cordoglio di larga parte del mondo musulmano per la scomparsa di Papa Giovanni Paolo II, il 2 aprile, ed il suo grande impegno per le relazioni islamo-cristiane. “Erano la fede in Dio e la fiducia nell’umanità a spingere il compianto Papa ad impegnarsi nel dialogo. Egli si avvicinava ai fratelli ed alle sorelle di tutte le religioni sempre con rispetto e con il desiderio di collaborare, così come aveva incoraggiato a fare il Concilio Vaticano II nella Dichiarazione Nostra Aetate della quale ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario”. Anche Sua Santità Benedetto XVI, seguendo l’insegnamento del Concilio Vaticano II e continuando il cammino intrapreso dal Papa Giovanni Paolo II, nel discorso ai rappresentanti di altre religioni che avevano partecipato alla celebrazione d’inizio del suo Pontificato, espresse apprezzamento per la crescita del dialogo tra musulmani e cristiani, a tutti i livelli. “Quindi, facendo riferimento ai conflitti, alla violenza ed alle guerre presenti nel nostro mondo, il Papa ha sottolineato che è dovere di ciascuno, specialmente di coloro che si professano appartenenti a tradizioni religiose, di lavorare per la pace… e impegnarsi in un dialogo autentico e sincero”. Il Messaggio si conclude con l’esortazione ad impegnarsi per “rafforzare il nostro impegno per costruire buone relazioni fra le persone di differenti religioni, promuovere il dialogo culturale e lavorare insieme per una maggiore giustizia ed una pace duratura. Dimostriamo, come cristiani e musulmani, che si può vivere insieme in una sincera fraternità, cercando sempre di compiere la volontà di Dio Misericordioso che ha creato l’umanità perché fosse un’unica famiglia.”
La lobby della dolce morte all'assalto dell'Europa Il 21 aprile 2002 con una semplice cerimonia veniva data ufficiale sepoltura a Vienna agli oltre 800 bambini che - deboli, malati o appartenenti a minoranza etniche e religiose - caddero in Austria vittime delle leggi naziste sull'eutanasia. Si chiudeva così un capitolo che il crollo del regime nazista non era servito ad archiviare. Ma proprio in quei giorni il Parlamento olandese riapriva quel capitolo approvando la legge che ammette il «diritto a morire», dando il via a un'offensiva culturale e politica all'interno dell'Unione Europea. Nel giro di pochi mesi anche il Belgio ha seguito l'esempio, mentre il Lussemburgo lo ha respinto con una risicata maggioranza. Ma in ogni Paese una o più associazioni lavorano per promuovere la legalizzazione dell'eutanasia, coordinate nella «Federazione delle società per il diritto a morire dignitosamente», che ogni due anni promuove una conferenza internazionale. E quest'anno la «lobby della dolce morte» sbarca per la prima volta in Italia (l'incontro si tiene in questi giorni a Torino). La strategia è sempre la stessa: creare o cavalcare casi di cronaca che si prestano ad aprire il dibattito, annunci-choc sulla diffusione della pratica (vietata) negli ospedali - con tanto di statistiche di dubbia attendibilità -, mentre dal punto di vista legislativo il primo passo è l'approvazione del testamento biologico in cui si cerca di inserire frasi ambigue che sono accettabili anche da chi è contro l'eutanasia ma possono essere interpretate in modo estensivo. Keith Reed (vedi foto), responsabile della britannica Volontary Euthanasia Society , afferma che il «crescente sostegno» al suicidio assistito si deve alla profonda rivoluzione culturale individualista: «Gli individui non accettano più che qualcuno gli dica cosa fare, e questo vale anche per l'atteggiamento davanti al medico del paziente, che vuole assicurarsi anzitutto dei propri diritti fondamentali». D'altra parte ci sono organizzazioni che si incaricano di creare casi ad hoc: l'as sociazione svizzera Dignitas, ad esempio, già da alcuni anni lavora sulla Gran Bretagna e ha destato scalpore nel settembre 2004, quando si è saputo che decine di cittadini britannici sono stati aiutati a morire in una clinica di Zurigo. Successivamente la stessa Dignitas ha reso noto che tra i suoi membri ci sono circa 600 cittadini britannici. Questo ha consentito di alimentare e sostenere un dibattito già aperto da alcuni medici. E non a caso proprio la Gran Bretagna si avvia a essere il prossimo Paese destinato a legalizzare l'eutanasia. Alcuni politici «amici» della lobby per l'eutanasia hanno cercato di aprire il dibattito anche al Consiglio d'Europa dove nell'aprile scorso è stata però bocciata per il secondo anno consecutivo una mozione che invitava i medici a porre fine alla vita dei malati terminali e disabili. Ma il lavoro ai fianchi continua e intanto il denaro comincia a essere convogliato verso esperti e associazioni che accettano di sostenere il diritto al suicidio assistito. Così, ad esempio, proprio un mese fa si è tenuta all'università di Liverpool una conferenza europea di esperti - geriatri, burocrati, rappresentanti di organizzazioni mediche e infiermieristiche, attivisti delle associazioni per l'eutanasia - dal titolo «Prospettive europee sul processo decisionale per porre fine alla vita». Sponsor del simposio la Wellcome Trust, grande associazione non profit legata a un colosso farmaceutico, che ha un generoso programma di finanziamento per iniziative legate alla bioetica.
Un intervento del giornalista Antonio Socci (vedi foto) sulla libertà di parola del Magistero della Chiesa. Nel mondo i cattolici sono più di 1 miliardo e in totale i cristiani sono 2 miliardi. E’ la fede che unisce la maggior parte degli esseri umani sul pianeta nell’anno 2005. La Chiesa inoltre ha 2000 anni e ha letteralmente partorito la nostra civiltà europea. La Chiesa non impone nulla a nessuno, ma è ancora oggi la realtà più perseguitata nel mondo: nei sistemi comunisti (Cina, Corea del Nord, Vietnam, Cuba, Laos), in quelli islamici e nelle diverse autocrazie asiatiche e africane dove si cerca di estromettere Cristo dalla vita umana con ferocia e violenza fisica. Date queste premesse, ci si chiede: il Sommo Pontefice a cui guardano miliardi di esseri umani può commentare liberamente il Vangelo della domenica, al Sinodo mondiale dei Vescovi sull’Eucarestia, o deve chiedere il permesso di parlare a Fassino, Capezzone, Rizzo, Grillini e Livia Turco, facendosi dettare da loro cosa deve dire? Tutto il problema sta qui. La Chiesa che è in Italia da 2000 anni (un po’ prima che arrivassero i Ds, l’Arcigay e i radicali…), la Chiesa che ha salvato l’Italia dalla barbarie e l’ha trasformata nel giardino del mondo, può parlare di Dio? I Ds pensano che dovrebbe prima chiedere il permesso a loro che approverebbero (stravolgendone il senso) solo le parole del Papa sulla Pace e sulla giustizia sociale. Ma non volendo sembrare ancora comunisti, i Ds cercano di negare questo diritto di libertà ipocritamente. Ed ecco che ieri Fassino ha commentato il discorso del Papa contrapponendogli un altro discorso dello stesso Papa, quando Benedetto XVI chiese “una sana laicità dello Stato”. Fassino crede di aver colto in contraddizione il pontefice. Ma così dimostra solo di non averci capito nulla. Il Papa davanti a Ciampi intendeva dire esattamente ciò che ha ripetuto ieri, cioè che senza Dio l’uomo diventa preda di idoli e ideologie e viene schiavizzato, che eliminando Dio dalla vita pubblica i diritti naturali dell’uomo vengono facilmente conculcati dallo Stato e dal Potere, mentre la dignità umana viene prima dello Stato e di ogni potere, come afferma anche la filosofia liberale (per questo Wilhelm Ropke poteva dire che “il liberalismo è il legittimo figlio spirituale del cristianesimo”). Anche Livia Turco ammette che “il Papa ha diritto a dire tutto quello che pensa” (bontà sua), purché però corrisponda al pensiero della Turco. Se infatti il Papa parla come il cardinal Ruini – per l’esponente ds – non va più bene, allora diventa “lobby politica” ed è interferenza. Meno ipocrisia da Grillini, presidente onorario dell’Arcigay, il quale considera la libertà di parola del Papa sic et simpliciter come una minaccia che mette “in forte pericolo la laicità dello Stato”. Esattamente come pensavano i regimi dell’Est e come accade tuttora in Cina o a Cuba. Dove ai cristiani non è concessa libertà di parola perché ciò, appunto, minerebbe lo Stato. Marco Rizzo, dei Comunisti italiani, in perfetto stile cubano, sovietico e cinese esorta il centrosinistra a “non mostrare alcun segno di cedimento verso chi vorrebbe imporre la religione come fatto pubblico togliendolo dalla sfera privata”. Per lui i cristiani devono stare nelle catacombe. Così sembra pensarla pure Capezzone che a parole indica gli Stati Uniti come esempio di laicità e libertà, ma che dimentica l’eccezionale rilevanza pubblica che ha in America il pensiero cristiano, anche nell’elaborazione delle leggi. Alla fine viene da pensare che aveva ragione Tocqueville: “Ciò che caratterizza i socialisti di tutti i colori è un tentativo continuo, vario, incessante, per mutilare, per raccorciare, per molestare in tutti i modi la libertà umana. (Da “Il Giornale” del 3 ottobre 2005)
Perchè in Europa non si ama più Nel volume Europa, I suoi fondamenti oggi e domani, che raccoglie suoi scritti e discorsi (Ed. San Paolo 2004, pp. 105), l’allora card. Joseph Ratzinger sostiene che nel tempo della globalizzazione e del confronto con altri popoli e continenti l’Europa deve tornare ad amarsi, mentre nella cultura corrente vediamo quasi solo gli aspetti negativi della storia e dell’attualità europea, non anche quelli positivi che hanno cambiato in meglio l’umanità. È uno dei tanti frutti bacati della «contestazione sessantottina», senza dubbio non priva di valori. C’era però nel Sessantotto uno spirito fortemente disumano e anti-cristiano: era la rabbia, la violenza, il voler cancellare la tradizione che agitava molti di quei protagonisti e movimenti: non era l’amore all’uomo e alla Chiesa a muoverli, ma l’avversione; non il desiderio sincero di migliorare e anche cambiare radicalmente le strutture civili ed ecclesiali, ma la volontà rivoluzionaria distruttiva. Tramontato il Sessantotto, molti sono andati avanti su questa linea che non porta da nessuna parte. L’Italia è attraversata da una continua esasperazione della vita politica e sociale che ostacola anche la nostra crescita economica. Un esempio fra tanti: il 18 dicembre 2004 il ministro Antonio Marzano dichiara che i rifiuti italiani sono mandati in Inghilterra, in Germania, in Francia. Ogni giorno (capite? «ogni giorno»!) partono dalI’Italia dai dieci ai quindici treni merci per portare i nostri rifiuti all’estero, con un notevole danno economico per la nazione. Perché? Semplicemente perché nessuna regione, nessun comune italiano vuole gli impianti di smaltimento dei rifiuti, specialmente se sono nucleari o comunque tossici: appena il governo comunica un piano per la costruzione di nuovi impianti, subito si scatena la protesta degli abitanti di quella regione o comune, appoggiati da sindacati e partiti (anche quelli al governo!) e magari benedetti da parroci, per paura di perdere voti e consensi. Tutti dicono: «Qui no!». E dove allora? «In qualunque altro posto, ma non qui». Questa è la cultura dominante oggi in Italia. Non penso che inglesi o francesi o tedeschi siano più bravi di noi nel riciclare i rifiuti. Hanno solo un maggior senso del bene pubblico e dello Stato. Prendiamo un altro esempio: siamo tutti spettatori impotenti del «terrorismo di matrice islamica», chiaramente anti-occidentale. Le pagine di giornali e telegionali sono piene di dibattiti, proposte, proteste, ipotesi su come fronteggiare questa minaccia. Non si va mai alla radice. Non si ricorda né si valuta il fatto che nei Paesi islamici c’è una martellante educazione religiosa, scolastica e massmediatica, anti-occidentale. Nel popolo musulmano (un miliardo e 200 milioni!), cresce la rabbia e il desiderio di vendetta contro «il nemico dell’islam» (cioè di Dio): l’Occidente. Per fermare questa predicazione ed educazione, che incomincia nelle scuole elementari ed esalta i kamikaze come martiri dell’islam, non servono né la guerra né la demonizzazione di tutti i fedeli dell’islam, né gli aiuti economici alle popolazioni povere (bisogna darli, ma non fermano il terrorismo). La Chiesa ripete da sempre, e i missionari sul campo ne sono esempi concreti, che occorre mettersi in dialogo religioso e culturale con l’islam. Però si dialoga solo a partire da una nostra forte e precisa identità. Ma oggi noi europei, noi italiani, chi siamo? Nella Costituzione europea abbiamo evitato di ricordare le «radici cristiane» della nostra civiltà e stiamo distruggendo una delle caratteristiche fondamentali dell’Occidente cristiano, il matrimonio monogamico fra uomo e donna! Ci presentiamo agli altri continenti come popoli ricchi, tecnicizzati, militarmente potenti, ma viviamo in una civiltà senz’anima, mettiamo al mondo pochi bambini, siamo sempre in sciopero e in protesta, non abbiamo più la gioia di vivere. L’Occidente cristiano deve ritornare al Vangelo e a Gesù Cristo, perché questa è la nostra identità, questo il tesoro di idee e di valori morali che hanno fatto grande l’Europa. Senza Gesù Cristo e senza la Chiesa, l’Europa intera scompare, l’arte, la musica, la morale, la letteratura, i diritti dell’uomo e della donna, la storia dell’Europa non si capiscono più. Ma nel linguaggio «politicamente corretto» questo è un tema tabù. Perché meravigliarci se i popoli islamici si sentono investiti della missione storica di ridare un’anima, una fede alla nostra civiltà opulenta e decadente?
BOSNIA: la UE e la NATO discriminano i cattolici a favore dei musulmani Il cardinale di Saraievo Vinko Pulic (vedi foto) ha denunciato, al Sinodo sull'Eucaristia, la grave discriminazione di cui sono vittime i cattolici di quell'area. «I cattolici sono senza diritti, anche linguistici - ha affermato il primate, considerato uomo del dialogo che durante la guerra si distinse per il coraggio - e faticano a professare la loro fede mentre assistiamo impotenti alla loro progressiva emarginazione». L'arcivescovo di Sarajevo ha puntato il dito sull'Ue e la comunità internazionale, ree a suo dire di non garantire i medesimi diritti della maggioranza dei cittadini musulmani. «Viviamo in una para repubblica che ostacola il processo di avvicinamento all'Europa. Purtroppo il silenzio dell'Ue non fa altro che favorire l'arroganza dei musulmani - ha ribadito nel suo intervento davanti al Papa e ai Padri Sinodali - la Bosnia è un protettorato della comunità internazionale, ma molte famiglie sono costrette ad emigrare alla ricerca di un futuro migliore». «Viviamo - ha detto - con una maggioranza musulmana che fa problemi per lo sviluppo del Paese e per il cammino dell'Europa. Tutto questo sotto gli occhi della comunità internazionale che favorisce l'arroganza dei musulmani per i propri interessi. La Bosnia Erzegovina è diventata un protettorato della comunità internazionale in cui i cattolici sono senza il diritto di tornare nelle proprie case, di parlare la propria lingua, di professare la propria religione» C'è il sospetto, come nota Avvenire, che i ritardi nello sviluppo dell'economia e delle istituzioni, la morbidezza verso le mafie locali, la tolleranza verso le punte di arroganza della comunità musulmana, siano frutto di calcolo e non di errore. Che si tenti così di placare una comunità che preme ai confini dell'Europa (una comunità che ha molto sofferto per le «dimenticanze» dell'Europa) da un lato subornandola nel diritto-dovere all'autodeterminazione, dall'altro consentendole di spadroneggiare nel proprio giardino. Pare in sedicesimo quanto si fa con la Turchia: cui oggi si dice sì, sperando poi di inchiodarla a un negoziato lungo decenni. Senza avere il coraggio di ribadire che per entrare in Europa (e visto che è intervenuta anche Condoleezza Rice, in Occidente) la libertà di culto non è un optional e stroncare gli scrittori non è ammesso. Mentre la grande politica fa i suoi piani, la piccola gente soffre e spesso muore. Che ce lo ricordino i papi, i cardinali e i religiosi non ci stupisce, lo fanno da sempre e fanno il proprio dovere. Che siano così spesso i primi e i soli, però dovrebbe farci capire che abbiamo un problema, e serio.
16 ottobre 2005
Gli aspetti giuridici del Sinodo dei Vescovi Tra le varie analisi che si susseguono nel Sinodo dei Vescovi, il Cardinale Péter Erdö [foto], Arcivescovo di Esztergom-Budapest, ne ha compiuta una particolarmente interessante sugli aspetti giuridici dell’assemblea sinodale. Il vigente Codice di Diritto Canonico, ha ricordato il porporato intervenendo sabato scorso, dedica un intero capitolo al Sinodo dei Vescovi (cann. 342-348), inserendolo nella I Sezione del Libro II, che tratta della Suprema Autorità della Chiesa. Il Codice, ha sottolineato, non afferma che il Sinodo è “l'Assemblea dei Vescovi che rappresenta tutto l'Episcopato cattolico”(totius Episcopatus catholici partes agens). Se il Sinodo dei Vescovi rappresentasse veramente tutti i Vescovi, ha osservato il Cardinal Erdö, sarebbe infatti “come il Concilio ecumenico e dovrebbe avere voto deliberativo, cosa che il diritto canonico vigente non contempla”, visto che è ormai “pacifico che il Sinodo dei Vescovi per sua natura non è un organo provvisto di potestà di governo nella Chiesa”. Nel Sinodo dei Vescovi, dunque, “non agisce l'intero Collegio dei Vescovi, per cui i suoi atti non sono atti da attribuire giuridicamente all'intero Collegio”. Secondo il parere del Cardinale Jozef Tomko, ha proseguito il porporato ungherese, “questa doveva esser stata la ragione per cui Papa Paolo VI, nel Motu Proprio Apostolica Sollicitudo ha evitato in modo assoluto l'uso della parola collegialità, “intesa troppo spesso nelle discussioni conciliari nel senso stretto canonico”. Il Sinodo ha quindi sì “il prezioso diritto di far conoscere al Papa i suoi pareri che sono stati accettati secondo un modello collegiale”, ma questo diritto “non può chiamarsi potestà di governo”. Il Codice di Diritto Canonico riassume inoltre le finalità, i diritti e gli obblighi del Sinodo dei Vescovi “in un elenco più conciso di quello del Motu Proprio Apostolica Sollicitudo”. Secondo il canone 342, infatti, il Sinodo ha per scopo quello di “favorire una stretta unione fra il Romano Pontefice e i Vescovi” e di “prestare aiuto con il loro consiglio al Romano Pontefice nella salvaguardia e nell'incremento della fede e dei costumi, nell' osservanza e nel consolidamento della disciplina ecclesiastica”, così come di “studiare i problemi riguardanti l'attività della Chiesa nel mondo”. In questo terzo settore, ha ricordato il porporato, è necessario “lo scambio di informazioni e notizie”, non soltanto “per i Vescovi e per le chiese particolari che sono direttamente interessate nella questione trattata”, ma anche “per tutti gli altri che possono organizzare aiuti spirituali e materiali per i più bisognosi e possono vedere la propria situazione nel contesto più grande della Chiesa universale e del mondo”. In questa situazione, “può essere a volte opportuno che il Sinodo, oltre a proporre delle dichiarazioni di tipo teologico-morale, suggerisca al Romano Pontefice qualche norma giuridico-canonica perché l'attività della Chiesa possa rispondere meglio alle circostanze del mondo”. La formula usata nel canone 342 chiarisce infatti che i Vescovi partecipanti al Sinodo danno i loro consigli al Romano Pontefice, cioè non al Collegio dei Vescovi, né direttamente all'intero popolo di Dio e neanche alle autorità politiche o al mondo. “A questo accento giuridico risponde in modo eccellente il genere delle esortazioni apostoliche post-sinodali, nelle quali il Sommo Pontefice utilizza la ricchezza dei consigli del Sinodo e si rivolge all'intera Chiesa o ad una parte di essa”, ha osservato il Cardinale ungherese. La constatazione che il Sinodo abbia normalmente una funzione solo consultiva, come Giovanni Paolo II ribadiva nella sua Esortazione Apostolica post-sinodale Pastores gregis, non ne diminuisce in alcun modo l'importanza. Nella Chiesa, ha spiegato infatti Erdö, “il fine di qualsiasi organo collegiale, consultivo o deliberativo che sia, è sempre la ricerca della verità o del bene della Chiesa”. Il Sinodo dei Vescovi, ha affermato il Cardinale avviandosi verso la conclusione del suo intervento, rende dunque possibile “che i grandi problemi della vita della Chiesa e del mondo vengano affrontati in un ambiente dove tutti hanno la possibilità di esprimere il proprio pensiero”, il che “contribuisce al consolidamento dell'unità dei Vescovi intorno al Romano Pontefice”. Il fatto che i risultati dei Sinodi vengano pubblicati sempre di più in forma di Esortazione Apostolica, e che dalla metà degli anni Ottanta questa porti persino nella sua denominazione ufficiale l'espressione “post-sinodale”, è per il porporato “molto appropriato”, “perché è veramente il Sommo Pontefice che deve far tesoro dei consigli sinodali che per la natura del Sinodo sono indirizzati a lui e non direttamente al pubblico”. Se alcuni, soprattutto nella società occidentale, “si lamentano della lunghezza di questi documenti”, e “dei documenti lunghi moltissimi si informano attraverso i mass-media”, “accontentarsi di tali informazioni non è in nessun modo sufficiente quando si tratta di un'Esortazione Apostolica, ricca di sfumature teologiche e pastorali”, ha denunciato. “L'accessibilità a questi documenti anche su Internet aiuta molto nella consultazione diretta – ha concluso Erdö –. Sembra necessario, però, cercare anche altre forme appropriate perché la voce del Papa e dei Vescovi arrivi ai sacerdoti e ai fedeli del mondo”.
Cinque miliardi di persone non possono comunicarsi Il Cardinale Crescenzio Sepe [foto], Prefetto della Congregazione per la Evangelizzazione dei Popoli, ha constatato che la grande sfida affrontata dal Sinodo è rappresentata dall’impossibilità per molti uomini di comunicarsi perché non conoscono Cristo. Il porporato italiano ha espresso davanti ai Padri sinodali una esortazione a dare nuovo impulso alla slancio missionario affermando che “oggi sono circa 5 miliardi le persone che non conoscono Gesù Cristo e quindi non possono alimentarsi del Suo Corpo e del Suo Sangue”. “La Chiesa ha il diritto e dovere di portare anche a loro il pane della vita e il calice della Salvezza”, ha aggiunto. “A tal fine è necessario che la dottrina eucaristica sia offerta ai non cristiani nella sua integrale verità, senza cedere alle mode culturali” perché l’Eucaristia non ha una “dimensione mistica-reale”. Queste mode, ha spiegato poi, nascono da una antropologia culturale “che relativizza la stessa persona di Gesù Cristo”. “Con la forza dello Spirito Santo, il missionario, anche oggi, saprà impiantare la Chiesa presso le genti, alimentandole con il Pane della vita, dato per tutti”, ha infine concluso.
Il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede chiede nuove traduzioni del Concilio L’Arcivescovo William J. Levada [foto], Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha constatato questo martedì a Roma che le traduzioni attuali del Concilio Vaticano II sono “imprecise”. Per risolvere il problema, ha confessato di sperare che per il cinquantesimo anniversario del Concilio – da qui a dieci anni – si compia un’“accurata traduzione ufficiale del Concilio nelle lingue principali”. Monsignor Levada ha aperto con la sua dissertazione sulla Costituzione dogmatica del Concilio “Dei Verbum” il corso presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. In particolare, ha applaudito la nuova specializzazione in “Storia della Teologia” inaugurata dal centro universitario: “Mi auguro che questa nuova specializzazione apporti un rinnovamento e un progresso della teologia”, ha affermato. Nella sua conferenza, il presule ha riconosciuto che sono state compiute traduzioni ambigue dei testi del Concilio, soprattutto della “Dei Verbum”, suggerendo la necessità di una revisione totale dei testi per ovviare alle diverse interpretazioni e traduzioni che sono state fornite, che secondo lui non mostrano il “senso” autentico di ciò che i padri conciliari volevano trasmettere. Dall’altro lato, il Prefetto ha segnalato che nella “Dei Verbum” “si mostra l’interconnessione tra Rivelazione, Parola di Dio, Scrittura, Tradizione e Magistero” e ha spiegato che “il Magistero non è superiore alla Parola di Dio ma la serve fedelmente”. Monsignor Levada, che è stato Arcivescovo di Portland (Oregon) e di San Francisco prima di assumere il suo incarico a Roma nell’agosto scorso, ha articolato la sua prolusione su uno schema realizzato dall’allora professore Joseph Ratzinger sulla “Dei Verbum”, in cui esponeva tre schemi identificativi della Costituzione dogmatica. “Joseph Ratzinger allora identificava tre temi che sono confluiti nel dibattito: l’applicazione del metodo storico-critico all’interpretazione della Scrittura; l’emergere del cosiddetto movimento biblico e la relazione tra Scrittura e Tradizione”. Quanto al metodo storico-critico della lettura della Bibbia, ha affermato che “non si può negare che la ‘Dei Verbum’ ha portato una certa pace nel mondo dell’esegesi cattolica per l’importanza dei generi letterari per l’interpretazione della Scrittura”. Sul movimento biblico, liturgico ed ecumenico, ha ricordato che con questo si è riusciti a far sì che la Sacra Scrittura fosse “più conosciuta ed utilizzata nella vita del Concilio”. Monsignor Levada ha lodato i tentativi di compiere una “lettura spirituale” e non solo critica o letterale della Bibbia e ha citato in questo senso le indicazioni del Catechismo della Chiesa cattolica. Per quanto riguarda la Tradizione e la Scrittura, ha ricordato che sono in “simbiosi” e ha rifiutato qualsiasi “dicotomia” tra di loro. Il sostituto di Joseph Ratzinger alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede ha concluso la sua conferenza con una confessione: “Possiamo solo stupirci per la Rivelazione e l’amore di Dio che si mostra in modi diversi”.
Perdere il celibato sacerdotale sarebbe un “errore gravissimo”, avverte il Cardinale Pell Non è la soluzione al declino delle vocazioni sacerdotali Il Cardinale George Pell [foto], Arcivescovo di Sydney, ha preso la parola davanti al Sinodo dei Vescovi per avvertire che per la Chiesa cattolica di rito latino sarebbe un “errore gravissimo” perdere la tradizione del celibato sacerdotale. Il porporato australiano ha riconosciuto che nel suo Paese, così come in Nuova Zelanda, c’è un declino delle vocazioni e allo stesso tempo una certa confusione circa il modo in cui ha avuto luogo la proliferazione dei ministri dell’Eucaristia. “I miei suggerimenti a questo Sinodo su come affrontare queste ‘ombre’ presumono il mantenimento della Chiesa latina di tradizione antica e la disciplina del celibato obbligatorio per il clero diocesano e gli ordini religiosi”, ha affermato il Cardinale. “Perdere tale tradizione adesso rappresenterebbe un errore gravissimo, che genererebbe confusione nelle zone di missione e non rafforzerebbe la vitalità spirituale del Primo mondo”. “Rappresenterebbe un distacco dalla pratica del Signore stesso, porterebbe gravi svantaggi pratici all’azione della Chiesa – vale a dire finanziari – e indebolirebbe il significato di ‘segno’ del sacerdozio; indebolirebbe inoltre la testimonianza al sacrificio amorevole e alla realtà dei Novissimi, e il premio in cielo”, ha avvertito. “Dobbiamo ricordare la situazione della Chiesa 500 anni fa, prima della Riforma. Era un piccola, debole comunità separata dall’Oriente. L’enorme espansione da allora e la purificazione dei vertici della Chiesa (imperfetta ma sostanziale) sono avvenute soprattutto grazie alle vite di suore, frati e sacerdoti celibi”. “I recenti scandali sessuali non hanno scalfito questi successi”, ha aggiunto il porporato australiano. Per quanto riguarda la proliferazione dei ministri dell’Eucaristia, il Cardinale Pell ha chiesto al Sinodo di “mettere a punto un’ulteriore lista di suggerimenti e criteri per regolare il servizio all’Eucaristia, soprattutto la domenica”. “‘Liturgie in attesa di sacerdote’ sarebbe meglio di ‘Liturgie senza sacerdote’. Non esiste qualcosa come ‘liturgia condotta da laici’, perché i laici possono condurre soltanto le preghiere devozionali e le para-liturgie”. Il Cardinale ha lodato il suggerimento di monsignor Pierre-Antoine Paulo, O.M.I., Arcivescovo coadiutore di Port-de-Paix, che ha proposto davanti al Sinodo di utilizzare la definizione “ministri straordinari della Santa Comunione” anziché “ministri dell’Eucaristia”. “I servizi eucaristici o le liturgie della Parola, quando i sacerdoti sono disponibili, non dovrebbero essere delegati. Queste inutili sostituzioni di persona spesso non sono motivate dalla fame del Pane di Vita, ma dall’ignoranza e dalla confusione, se non addirittura dall’ostilità al ministero sacerdotale e ai sacramenti”, ha denunciato. “Fino a che punto le celebrazioni regolari dei servizi eucaristici, una domenica dopo l’altra, rappresentano un autentico sviluppo, o non una distorsione, una protestantizzazione che rischia di gettare in confusione perfino chi va regolarmente a Messa?”, ha chiesto. Isidro Catela, portavoce nel Sinodo per i giornalisti di lingua spagnola, ha spiegato che nessuno dei Vescovi della Chiesa cattolica di rito latino che hanno preso la parola ha proposto cambiamenti nella disciplina attuale che stabilisce il celibato per i sacerdoti. Catela ha spiegato che gli unici che hanno parlato dell’ordinazione di sacerdoti sposati come di una ricchezza sono stati i Vescovi e i Patriarchi delle Chiese orientali unite a Roma, dove ci sono sacerdoti sposati. In queste Chiese, tuttavia, i Vescovi devono essere necessariamente celibi.
RU-486, la pillola che uccide il concepito e strazia la mamma Intervista ad un medico chirurgo, specialista in medicina legale La sperimentazione della pillola abortiva RU-486, iniziata all’Ospedale Sant’Anna di Torino, bloccata in seguito dal Ministro della Sanità Francesco Storace e poi nuovamente riavviata dal 4 ottobre dalla Regione Piemonte, suscita sempre più perplessità. Alcuni sostengono che si tratti di una pillola che rende più facile e libero l’aborto, per altri di “un atto contro la vita”. Per approfondire la conoscenza e le implicazioni della vicenda, ZENIT ha intervistato Stefano De Pasquale Ceratti, medico chirurgo, specialista in medicina legale, collaboratore presso la Cattedra di Medicina legale dell’Università di Roma “Tor Vergata” [foto], nonché Segretario Generale dell’Università Europea di Roma. Come avviene l'aborto chimico? Quali sono i danni che la RU-486 procura al concepito? L’aborto chimico prevede l’assunzione per via orale di una sostanza, il mifepristone, che non consente lo sviluppo del concepito. Tale farmaco blocca infatti l’attività degli estrogeni, prodotti dalla madre e che hanno funzione trofica, cioè di nutrimento, per il concepito sin dal primo istante in cui si fondono oocita e spermatozoo. Il concepito muore dunque per mancanza di apporto nutritizio. L’assunzione da parte della madre di un’altra sostanza, il misoprostol, provoca delle contrazioni uterine per espellere il concepito ormai morto; è una sorta di induzione artificiale del parto dei tessuti necrotici di cui era costituito il concepito. Quali sono i danni fisici e psicologici provocati nella mamma? Dal punto di vista fisico vi possono essere molte e anche gravi conseguenze per la madre, come d’altronde per l’aborto chirurgico e forse anche di più. Possono esservi emorragie, oppure i tessuti necrotici possono essere trattenuti in utero e dunque generare infezioni e/o setticemia, con grave pregiudizio per la salute materna; non solo, ma quando ciò avviene, è comunque necessario ricorrere all’intervento chirurgico per asportare i tessuti necrotici residui dalla cavità uterina, con aumento del tasso di morbosità e mortalità per la madre. Ma il vero risvolto negativo dell’aborto chimico è sul versante psichico. La RU-486 è un mezzo estremamente subdolo dal punto di vista psicologico. Illude la madre perché in apparenza le consente di abortire senza ricovero e senza sottoporsi ad intervento chirurgico. In realtà tutto il peso psicologico di una procedura come quella dell’aborto chimico viene scaricato sulla donna, che si ritrova ad affrontare, magari in condizioni di abbandono materiale e/o morale, senza adeguato supporto, il parto artificiale del prodotto del concepimento in necrosi, che avviene spesso nell’arco di più giorni ed in più fasi espulsive e può generare molto dolore fisico. Possiamo dire, concludendo, che l’aborto chimico è una procedura forse (ma non sempre) meno invasiva dal punto di vista fisico rispetto a quello chirurgico, ma molto più traumatica per la donna dal punto di vista psichico. I sostenitori della RU-486 affermano che l'uso della pillola abortiva renderà più libere le donne e le affrancherà dal dolore. Sono argomenti validi? Le donne con l’aborto chimico non sono più libere. Rischiano di essere, invece, abbandonate a casa propria in un momento di estrema difficoltà e sofferenza, nel quale necessitano di consigli medici e di un sostegno umano. Il dolore dell’aborto chimico è peggiore di quello dell’aborto chirurgico, tanto che in questi casi è necessario associare alle sostanze abortive una importante terapia di sostegno con antidolorifici. Il dolore è un parametro soggettivo e non misurabile, fortemente influenzato da tutte quelle situazioni che generano stress, ansia, depressione, fragilità emotiva. Non potrà quindi mai esistere un aborto non doloroso. Ci sono già stati casi di morte – quattro negli Usa, uno in Canada, uno in Francia – a causa della RU-486. Non crede che anche per il rispetto del "principio di precauzione" bisognerebbe impedirne l'utilizzo? Se veramente si vuole salvaguardare nel nostro Paese il principio della tutela della salute materna e infantile (scopo della legge 194/1978) bisognerà provvedere a non dare spazio a strumenti, come quelli dell’aborto chimico, che possano farci trovare di fronte a situazioni di morbosità e/o mortalità derivanti dalla messa in atto di procedure rischiose. Non solo per il principio di precauzione, ma anche perché, dal punto di vista della salute pubblica, rischiamo di creare problematiche più gravi di quelle cui si vorrebbe porre rimedio. Non crede che l'utilizzo della RU-486 sia frutto di una filosofia utilitarista a cui poco interessa la salute delle persone e che è piuttosto finalizzata alla riduzione dei costi sanitari? L’aborto chimico è una procedura che può essere definita a pieno titolo un frutto della filosofia utilitarista imperante nella nostra società. Soprattutto perché rifiuta l’assistenza alla donna in stato di gravidanza, preferendo abbandonarla ai propri mezzi (a casa propria nella migliore delle ipotesi, ma in casi di indigenza o di abbandono materiale anche in strada), piuttosto che assisterla in una struttura protetta che si preoccupi del suo stato di sofferenza. In secondo luogo bisogna sottolineare che, pur rimanendo ancorati ad un’ottica soltanto economica, negli USA, in cui è in uso, la RU-486 ha gli stessi costi di una interruzione volontaria di gravidanza chirurgica. Infine, bisogna pensare, quando si parla di aborto, come in questo caso, a tutti i costi indiretti che il Sistema Sanitario Nazionale e la società tutta sono costretti a sostenere per le problematiche che insorgono nel corso di queste procedure, in termini di morbosità e mortalità, di insorgenza di complicanze, di necessità, a volte, di dover comunque ricorrere a interventi chirurgici, magari in urgenza, e delle tantissime problematiche psichiche (soprattutto sindromi ansioso-depressive post-traumatiche) che riconoscono come causa stessa l’aborto. Che tipo di medicina è quella che non protegge più la vita, ma procura la morte? Dal punto di vista medico le attuali sperimentazioni in corso sono una negazione del concetto stesso di un’arte che nasce al servizio dell’Uomo e che si prefigge, sin dai tempi di Ippocrate (ben prima del Cristianesimo) di agire in scienza e coscienza. La medicina muore dove la vita viene sconfitta e umiliata. Dal punto di vista sociale e giuridico viene sconfitta, con l’aborto chimico, quella sensibilità che pure era presente nella legge 194 del 1978, sulla tutela della salute materna e infantile, in cui si prevedevano il consultorio, le procedure dissuasive e preventive, il soprassedere. Tutti principi che già nella prassi sono messi in seria discussione e che con l’aborto chimico subirebbero una definitiva umiliazione e cancellazione. La Chiesa Cattolica, come sempre, si mostra assai più cauta, lungimirante e porta avanti una nuova sfida per l’Uomo in materia di Bioetica, dove biologia e diritto si intersecano tra loro e dove ogni giorno di più si rischia di pregiudicare i diritti di ogni essere umano. Tocca a noi raccogliere la sfida sul campo e portarla avanti.
Il Rettore della “Gregoriana”: la comunità universitaria deve rispondere al “deserto” dell’umanità Nel pomeriggio del sabato 8 ottobre si è aperto ufficialmente il nuovo anno accademico della Pontificia Università Gregoria di Roma, con la Celebrazione Eucaristica nella Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola a Campo Marzio, presieduta dal Rettore dell’Università, padre Gianfranco Ghirlanda, S.J. Nella sua prolusione, il Rettore ha ripreso le parole pronunicate da Benedetto XVI il 24 aprile scorso, in occasione dell’apertura solenne del suo pontificato: “… Vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo”. “I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione”, ha poi continuato. Il Rettore della Gregoriana ha quindi posto l’accento sulla dimenticanza di Dio, il relativismo e lo spirito nichilista imperanti nella società attuale. “Qui si annida un ateismo più pericoloso, come dissoluzione dei fondamenti etici della vita e delle sue radici nel sacro”, ha aggiunto. “Tutto questo, però, non deve far sorgere un senso paralizzante di sgomento, né di frustrazione, come se la visione ottimistica del Concilio Vaticano II riguardo al mondo e all’uomo che lo abita fosse stata un’illusione”, ha avvertito poi. “Tale visione, infatti, era animata dalla fede e dalla speranza teologali, che cioè lo Spirito del Cristo risorto è operante in tutta la realtà creata”, ha affermato il Rettore dell’Università retta dai gesuiti che conta circa 300 professori e 3.000 studenti provenienti da tutto il mondo. “Allora, di fronte al ‘deserto’ in cui l’uomo si pone per il suo egoismo e la sua follia, ci si deve sentir animati, come diceva il Papa, dalla ‘santa inquietudine di Cristo’, per il quale ‘non è indifferente che tante persone vivano nel deserto’”, ha sottolineato. Per questo, ha quindi proseguito richiamando ancora le parole dell’attuale Pontefice, la “Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza”. “È questa una missione di cui tutte le componenti dell’Università, i professori, col loro insegnamento e ricerca, e gli studenti, con la loro applicazione allo studio, si debbono sentire investiti”, ha affermato padre Ghirlanda. Alla solenne celebrazione per l’inizio del nuovo anno accademico hanno partecipato gli studenti, i professori e quegli amici e benefattori che sono legati alla Gregoriana da uno speciale vincolo di amicizia. Presente anche gran parte del Corpo Diplomatico accreditato presso al Santa Sede, insieme ad alcune autorità del mondo civile e politico. Nella sua prolusione padre Ghirlanda ha in seguito tracciato un bilancio del lavoro svolto lo scorso anno accademico, corredandolo da alcuni dati statistici, ed ha delineato le attività svolte dalle varie unità accademiche e i cambiamenti apportati negli organi istituzionali di governo dell’Università. In particolare ha accennato al fatto che la Gregoriana vuole continuare a rivolgere una particolare attenzione e cura ai laici, e per questo si sta avviando un Centro Interdisciplinare sull’Esistenza Cristiana e l’Etica Pubblica, sviluppo dell’attuale programma LAIKOS, “volto ad una specifica formazione dei laici alla realizzazione della loro vocazione propria di impegno nel secolare, in modo da essere segno della Chiesa nel mondo e segno del mondo nella Chiesa”. Nella sua omelia padre Ghirlanda ha voluto riflettere sulla speranza cristiana, affermando che di fronte alle “contraddizioni, gli orrori dell’egoismo e del fanatismo”, “se lo sguardo non è ben fisso in Gesù Cristo, rischiamo di perdere la fede in un disegno superiore di Dio riguardo alla storia umana e quindi la speranza di un compimento di essa”. “Questo genera smarrimento nel nostro cuore, che non riesce più a vedere uno sbocco positivo al dramma che vive – ha osservato –. Non possiamo, però, vivere in tale smarrimento che porta al nichilismo e alla disperazione”. “È solo la fede in Gesù Cristo che permette allo Spirito di venire in aiuto alla nostra debolezza e aprirci alla speranza di una continua presenza misteriosa di Dio nella storia, speranza che porta una luce in quelle tenebre che l’uomo stesso produce”, ha sottolineato. “Per la fede in Gesù Cristo riceviamo lo Spirito, che viene in aiuto alla nostra debolezza e ci fa scorgere l’azione di Dio in noi e nel mondo che ci circonda, nonostante le contraddizioni e le oscurità”, ha quindi concluso. L’Università “Gregoriana”, deve il suo nome a Papa Gregorio XIII che nel 1584 inaugurò la nuova sede del Collegio Romano, eretto nel 1551 da San Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, e formato inizialmente da una Scuola di Grammatica e di Dottrina Cristiana gratuita. Come affermato da padre Ghirlanda nella sua relazione la Pontificia Università Gregoriana “cerca l’eccellenza nell’insegnamento, nella riflessione personale e nella ricerca, offrendo ai suoi studenti una sintesi armonica tra il sapere umano e la luce della fede, secondo il metodo proprio di ogni disciplina”.
La scarsità di sacerdoti è il sintomo di un problema, non la causa I partecipanti al Sinodo dei Vescovi hanno concordato sul fatto di segnalare la scarsità di sacerdoti come una delle preoccupazioni più importanti, ma hanno constatato che non è la causa di un problema, quanto piuttosto un “sintomo”. A questa conclusione sono arrivati tutti i partecipanti durante una conferenza stampa concessa questo giovedì in Vaticano per compiere un primo bilancio delle sessioni di lavoro di questa assemblea sinodale dedicata all’Eucaristia che si svolge dal 2 al 23 ottobre. Uno dei Presidenti delegati dell’assemblea, il Cardinale Telesphore Placidus Toppo, Arcivescovo di Ranchi (India) [foto], ha risposto alle domande di un giornalista circa la possibilità che il Sinodo scelga di abolire l’attuale disciplina della Chiesa latina e permetta l’ordinazione sacerdotale di uomini sposati per affrontare la crisi delle vocazioni. “La mancanza di sacerdoti non è la causa, ma un sintomo. La crisi della fede è il vero problema. Perché il sacerdozio è frutto della fede della comunità. Senza fede non ci sono sacerdoti, non ci sono vocazioni”, ha affermato. Subito dopo ha preso la parola per appoggiare “pienamente” queste affermazioni un altro dei Copresidenti dell’assemblea sinodale, il Cardinale Juan Sandoval Íñiguez, Arcivescovo di Guadalajara (Messico). “La mancanza di sacerdoti è un effetto, la causa è la mancanza di fede, di visione spirituale, di trascendenza. Tutto questo si riassume in una parola, secolarizzazione, chiudersi all’infinito, all’aldilà”. “Si deve soprattutto predicare, ricorrere alla Parola di Dio, esposta non solo con sapienza ed eloquenza, ma con la testimonianza, perché arrivi ai cuori”, ha aggiunto. “Il ricorso ai ‘viri probati’, menzionato da alcuni in aula, è un problema, non una soluzione. Nelle chiese orientali cattoliche hanno sacerdoti sposati. E dicono che anche loro hanno crisi di vocazioni. E che i sacerdoti sposati sono un problema: non hanno lo stesso tempo per studiare, per il ministero, perché debbono avere cura della moglie e i figli, alle volte divorziano… Chiedono al Vescovo che si prendano cura della moglie e dei figli”. Per questo motivo, si pensa che sia un bene parlare dei “viri probati”, ma non si crede “che sia la soluzione”. Sull'argomento ha parlato in conferenza stampa anche monsignor Sofron Stefan Mudry, O.S.B.M., Vice Presidente della Commissione per l’Informazione del Sinodo, Vescovo emerito di Ivano-Frankivsk (Ucraina), diocesi greco-cattolica con sacerdoti sposati. In base alla sua esperienza, ha riconosciuto che la situazione dei preti sposati è “molto difficile”. Dei circa 400 sacerdoti della sua diocesi, 360 sono sposati. “Alcuni hanno figli, altri no, altri non hanno una casa, perché i comunisti gliel’hanno sequestrata. Altri non possono spostarsi da una parrocchia all’altra perché hanno una famiglia. Si creano molti problemi sociali ed umani”. Per questo motivo, ha detto, a molti uomini sposati che vogliono essere sacerdoti viene detto di aspettare. Dall’altro lato, ha aggiunto, è anche difficile inviare sacerdoti sposati alle comunità della Chiesa all’estero, perché è materialmente complicato e la loro presenza in Chiese in cui ci sono solo sacerdoti di rito latino celibi può creare problemi. “Non abbiamo niente contro questo stato”, ha detto riferendosi ai sacerdoti sposati, perché è una tradizione che questa Chiesa ha fin dalle origini. “I sacerdoti sposati hanno portato avanti le Chiese in Ucraina, perché quelli celibi sono stati arrestati”. Citando un Arcivescovo greco-cattolico ucraino, ha affermato che “se vogliamo salvare la nostra Chiesa abbiamo bisogno almeno del 50% di sacerdoti celibi”. Nela sua “Relatio post disceptationem” (relazione dopo la discussione), pronunciata questa mercoledì, il Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, ha raccolto le conclusioni di questi giorni di discussioni generali. “Diversi Padri orientali hanno fatto riferimento alla prassi del sacerdozio uxorato propria delle loro Chiese, offrendo a ciascuno di noi elementi per un’ulteriore attenta valutazione della scelta della Chiesa latina di connettere il celibato al sacerdozio ordinato”, ha affermato. “A questo proposito alcuni Padri, ricordando le ragioni cristologiche, ecclesiologiche ed escatologiche del celibato esposte da Sacerdotalis coelibatus in continuità con l’insegnamento del Concilio Vaticano II, hanno affermato che l’ipotesi dei viri probati è una strada da non percorrere”, ha aggiunto.
Divorziati e Comunione: non è una legge della Chiesa, ma di Dio Il Cardinale Francis Arinze ha spiegato questo giovedì ai giornalisti che il divieto di comunicarsi per i divorziati risposati non è una legge inventata dalla Chiesa, quanto una legge derivante da Dio. Intervenendo ad una conferenza stampa in Vaticano, il Prefetto della Congregazione per il Culto e la Disciplina dei Sacramenti ha raccolto quello che a suo avviso è stato il parere esposto in questa prima fase del Sinodo sull’Eucaristia, iniziato il 2 ottobre, dai 230 Padri sinodali, per la maggior parte Vescovi, che hanno preso la parola. Il Cardinale Arinze, che è anche Presidente delegato dell’assemblea sinodale, nel rispondere ad un cronista che gli domandava se la Chiesa potrebbe mai permettere la Comunione ai divorziati risposati ha affermato: “Non vediamo questo come legge della Chiesa, ma come legge di Dio”. “La questione è: se due persone sono sposate, e se quel matrimonio è valido davanti a Dio e davanti alla Chiesa, però quel matrimonio non è riuscito, beh, è così: non abbiamo il potere di sciogliere un matrimonio che è valido davanti a Dio e alla Chiesa”, ha spiegato il Cardinale nigeriano. “Che cosa fare? – si è chiesto – Una cosa è avere compassione per loro perché soffrono, tutt’altra cosa dire che possono trovare un altro marito o un’altra moglie e vivere insieme e ricevere la Comunione”. “Perché quello che fanno adesso non riflette più quell’immagine di matrimonio che la nostra fede ci insegna”. “Sono membri della Chiesa ma in quello stato non possono con verità di vita accedere alla Comunione”, ha insistito. “Noi siamo solo ministri, e dobbiamo rispondere davanti a Dio: ecco il problema”, ha concluso. Nella sua “Relatio post disceptationem” (relazione dopo la discussione), pronunciata dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia [foto], ha spiegato che questo tema è stato affrontato da vari Padri sinodali, sottolineando “l’importanza di un’attenta pastorale di accogliente comunione nei loro confronti alla luce dei numerosi pronunciamenti del Magistero”. “Due Padri hanno chiesto di esplorare cammini di misericordia. In particolare qualche Padre ha invitato i Vescovi a promuovere energicamente la dimensione pastorale dei tribunali ecclesiastici, con eventuali semplificazioni di funzioni e procedure, favorendone la creazione là dove non esistono”, ha osservato. Nella conferenza stampa di questo giovedì, il Cardinale Juan Sandoval Íñiguez, Arcivescovo di Guadalajara (Messico), ha spiegato che con questa richiesta non si cerca un minor rigore. “Le dichiarazioni di nullità debbono essere fatte secondo la verità canonica – ha affermato il porporato, che è anche Copresidente del Sinodo –. Quello che si chiede e che non ci sia burocrazia, ma che ci siano tempi più brevi per aiutare la gente”.
“L’Esorcismo di Emily Rose”, un film che “vale la pena di vedere” In un’epoca che assiste ad un crescente interesse per i temi cristiani e soprattutto cattolici, così come al sorgere continuo di ipotesi ed invenzioni di ogni tipo, molte delle quali accettate “come ‘vangelo’ da un pubblico in genere scettico”, c’è un film che “vale la pena di vedere”, ha affermato padre Peter Malone , MSC. Si tratta de “L’Esorcismo di Emily Rose”, sostiene il Presidente di SIGNIS Mondiale, una organizzazione che conta membri in 140 Paesi del mondo e che come “associazione cattolica mondiale per la comunicazione” riunisce i professionisti di radio, televisione, cinema, video, educazione ai media, Internet e nuove tecnologie. Considerato un film che avrebbe avuto scarso successo, ha sorpreso l’industria incassando 30.000.000 di dollari nel weekend in cui è uscito negli Stati Uniti. “Il soggetto non interesserà tutti – ha osservato padre Malone –. La possessione demoniaca è un argomento terrificante. E’ sconcertante. Perché i demoni si impossesserebbero di un essere umano, e cosa significa? Cosa può fare l’uomo? Qual è la risposta della Chiesa? Chi sono gli esorcisti e quale autorità hanno? Quali sono i rituali, e funzionano? Quale impatto hanno la possessione e l’esorcismo sui non credenti e su un mondo scettico?”. Il film, ha aggiunto, sebbene non costituisca “un documento teologico, sociologico o medico” in materia, è in grado di portare il pubblico “nella realtà della possessione, lo tocca a livello emotivo, ma lo sfida anche a pensare alla questione”. “Paragonato a ‘L’Esorcista’, ‘L’Esorcismo di Emily Rose’ è un esempio di come fare di più con meno”, ha spiegato padre Malone, sottolineando che “non dovrebbe essere considerato un film dell’orrore”, ma piuttosto “un dramma psicologico e religioso che possiede alcuni elementi tradizionali dell’horror”, o, come ha scritto “The Hollywood Reporter”, un “thriller soprannaturale”. “Nelle scene della possessione non ci sono bestemmie, né bile, né vomito, né teste che ruotano come nel 1973 [anno de “L’Esorcista”]”,” , ma “voci e frasi strane (come viene riportato anche nelle storie del Vangelo sulla possessione demoniaca), episodi catatonici e contorsioni degli arti”, e “la stranezza è percepita attraverso le grida forti e perforanti e i suoni atmosferici e ingegneristici”. Quanto agli aspetti che rendono il film interessante per il pubblico cattolico, il sacerdote ha sottolineato in primo luogo il fatto che sia “fondamentalmente rispettoso della Chiesa”. La pellicola mostra infatti “un sacerdote sincero, anche se molti possono non essere d’accordo con gli atteggiamenti che assume nei confronti della ragazza posseduta, della cura consigliata dai medici e dei farmaci che le sono stati prescritti”. Per come viene descritto nel film, “padre Richard Moore è un uomo onesto e spirituale che si trova invischiato in qualcosa che va oltre la sua esperienza e che cerca di fare del suo meglio per la famiglia della sua parrocchia, convincendo le autorità della diocesi a procedere con un esorcismo”. La sceneggiatura “mostra il ruolo importante del sacerdote di parrocchia come confidente del quale si può avere fiducia e la natura della confidenza”, e la pellicola suggerisce “il rispetto per la fede semplice, quella fede fiduciosa e non sofisticata della gente normale che i critici giudicano superstiziosa o semplicistica”, sottolineando anche “la realtà del male nel nostro mondo, il potere del male così come quello del bene”. Nell’opera cinematografica ci sono poi richiami ai secoli precedenti, soprattutto a quelle donne che sono state destinatarie di apparizioni, come la Anna Katharina Emmerick, Bernadette o i pastorelli di Fatima. “Emily Rose è presentata come una di loro. Vede Maria e riceve un messaggio”, ha spiegato padre Malone. Il sacerdote ha paragonato a questo proposito “L’Esorcismo di Emily Rose” [foto di scena] a “La Passione di Cristo” di Mel Gibson: “Nel 2004 – ha spiegato –, alcuni cattolici hanno trovato la spiritualità” del film di Gibson “troppo centrata sulle sofferenze di Gesù” e “non abbastanza sulla speranza della resurrezione. Una critica simile potrebbe essere rivolta anche in questo caso”. “Ad Emily Rose – ha continuato – viene data la possibilità di scegliere tra essere liberata dalla possessione con l’esorcismo o continuare ad essere posseduta fino alla morte per testimoniare al mondo che c’è un mondo soprannaturale, che il male esiste ed invade il mondo, ma che la presenza di Dio è più forte”. Il fulcro del film, per padre Malone, è “il tribunale in cui padre Moore viene giudicato per omicidio colposo”, di cui è accusato per aver concordato con Emily la sospensione delle cure medicinali in favore del solo rituale religioso. L’accusa – il cui rappresentante è un fedele metodista – afferma che Emily è schizofrenica e si sofferma sugli aspetti scientifici e medici della questione, mentre la difesa – rappresentata da una donna dichiaratamente agnostica – sostiene l’idea che l’esorcismo sia la risposta giusta al problema di Emily. “«L’Esorcismo di Emily Rose» mostra che i fatti devono essere presentati ma sono aperti a varie possibilità di interpretazione”, ha sottolineato il Presidente di SIGNIS. Anche se il film non è certo “un capolavoro”, per il sacerdote è “una pellicola ben scritta e ben realizzata che affronta le questioni religiose e relative alla Chiesa in un mondo secolare”. Se da un lato solleva la questione della possessione dell’esorcismo, dall’altro “pone al pubblico domande sulla presenza del bene e del male nel mondo”. Ricordando un film satirico di una cinquantina di anni fa che diede poi il via ad una serie di film in cui la questione è affrontata più seriamente, il prototipo dei quali è senz’altro “L’Esorcista”, padre Malone ha affermato che “siamo lontani dalla semplice frase ‘sconfiggi il diavolo’”. “Trent’anni di film sull’esorcismo, però, ci hanno convinti del fatto che è proprio ciò che vogliamo che accada”, ha concluso. SIGNIS è membro consulente presso l’UNESCO, l’ESCOSOC (Nazioni Unite a Ginevra e New York) e il Consiglio d’Europa. È riconosciuta dal Vaticano come organizzazione cattolica per la comunicazione. Il suo Segretariato Generale ha sede a Bruxelles (Belgio).
9 ottobre 2005
Cos’è e a cosa serve il Sinodo dei Vescovi E’ iniziato questa domenica il Sinodo dei Vescovi, istituito da Papa Paolo VI il 15 settembre 1965 in risposta al desiderio dei Padri del Concilio Vaticano II di mantenere vivo l’autentico spirito formatosi dall’esperienza conciliare. La parola “sinodo”, derivante dalle parole greche “syn” (“insieme”) e “hodos” (“strada”, “via”), significa letteralmente “camminare insieme”. Un Sinodo è dunque “un’assemblea o un incontro religioso in cui i Vescovi, riuniti intorno e con il Santo Padre, hanno l’opportunità di interagire e di condividere informazioni ed esperienze, nella ricerca comune di soluzioni pastorali che abbiano una validità e un’applicazione universali”, come si legge in una nota della Segreteria del Sinodo. Già prima del Concilio Vaticano II era sorta l’idea di una struttura che potesse fornire ai Vescovi i mezzi per assistere il Papa nel suo governo della Chiesa universale. Il 5 novembre 1959, il Cardinale Silvio Oddi, Pronunzio Apostolico nella Repubblica Araba Unita (Egitto), avanzò infatti la proposta di istituire un organo governativo centrale della Chiesa. “Da molte parti del mondo giungono lamentele perché la Chiesa non ha un organo consultivo permanente, a parte le congregazioni romane – dichiarava –. Pertanto dovrebbe essere istituito una sorta di ‘Concilio in miniatura’ che includa persone provenienti dalla Chiesa di tutto il mondo, che s’incontrino periodicamente, anche una volta all’anno, per discutere le questioni più importanti e per suggerire nuove possibili vie nell’operato della Chiesa”. Secondo il Pronunzio, si doveva trattare di un organo che si estendesse “a tutta la Chiesa come le Conferenze Episcopali riuniscono tutta o parte della Gerarchia di un Paese”. La stessa idea era condivisa da altri presuli, ma fu Paolo VI, all’epoca Arcivescovo di Milano, a darle forza, accennando nel discorso commemorativo in occasione della morte di Giovanni XXIII ad una “consonante collaborazione del corpo episcopale non già all’esercizio (che certo resterà personale e unitario) ma alla responsabilità del governo della Chiesa intera”. Eletto Papa, tornò sull’argomento nel discorso alla Curia Romana (21 settembre 1963), in quello d'apertura del secondo periodo del Concilio (29 settembre 1963) e in quello per la sua chiusura (4 dicembre 1963). Alla fine del discorso inaugurale dell’ultimo periodo del Concilio Vaticano II (14 settembre 1965), Paolo VI preannunciò il Sinodo dei Vescovi, “che, composto da presuli, nominati per la maggior parte dalle Conferenze Episcopali, con la nostra approvazione, sarà convocato, secondo i bisogni della Chiesa, dal Romano Pontefice, per sua consultazione e collaborazione quando per il bene generale della Chiesa ciò sembrerà a lui opportuno”. “Questa collaborazione dell’episcopato deve tornare di grandissimo giovamento alla Santa Sede e a tutta la Chiesa, e in particolare modo potrà essere utile al quotidiano lavoro della Curia Romana, a cui dobbiamo tanta riconoscenza per il suo validissimo aiuto, e di cui, come i Vescovi nelle loro diocesi, così anche noi abbiamo permanentemente bisogno per le nostre sollecitudini apostoliche”, spiegava il Pontefice. “Mettiamo sotto la protezione di Maria Santissima questa bella e promettente novità”, concludeva il Vescovo di Roma. L’indomani mattina, 15 settembre 1965, all’inizio della 128ª Congregazione generale, monsignor Pericle Felici, Segretario Generale del Concilio di allora, annunziò la promulgazione del Motu Proprio Apostolica sollicitudo, con il quale il Sinodo venne ufficialmente istituito e definito nelle sue caratteristiche e finalità. Tali caratteristiche sono state poi raccolte ed espresse in termini giuridici nei canoni 342-348 del Codice di Diritto Canonico.
Famiglia e vita: vittime dello stesso relativismo Intervento della dottoressa Claudia Navarini docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Con una espressione ormai al centro del dibattito sui tempi in cui viviamo, durante la Messa d’inizio-conclave dello scorso aprile, l’allora Cardinale Joseph Ratzinger – oggi Benedetto XVI – chiamava “dittatura del relativismo” il pericolo incombente sulle nostre società. In quella occasione veniva efficacemente sintetizzata la deriva della nostra civiltà: Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie (J. Ratzinger, Missa pro eligendo Romano Pontifice, omelia). In altre parole, si va configurando nel panorama dell’etica questo interessante fenomeno: il relativismo viene propugnato come unico atteggiamento “rispettoso” delle differenze di ciascuno, e dunque come unica possibile soluzione alle forme più o meno velate di “dogmatismo” e di “fondamentalismo” presenti in certa parte della cultura odierna e responsabili – si dice – di pericolosi attentati alla libertà individuale, in quanto “imposizioni” di un punto di vista. Eppure, questo stesso relativismo che inneggia ad una libertà senza condizioni, svela clamorosamente il suo volto dispotico e violento allorché ci sono in ballo i diritti umani fondamentali come il diritto alla vita di tutti gli uomini, anche di quelli non nati o di quelli morenti, o la tutela del “santuario della vita umana”, cioè l’istituzione naturale della famiglia fondata sul matrimonio. Questi valori – quello della vita umana, quello della famiglia normale (cfr. A. Mantovano, Dalla parte dei discriminati. Le famiglie normali, “Il Domenicale”, 1 ottobre 2005, p. 2) – , travolti dal relativismo etico, sembrano perdere l’oggettività che li rende doverosamente difendibili, e restano per converso totalmente indifesi. Il dramma del relativismo, infatti, è che nello scontro ideologico i più forti, quelli che possono far valere il loro punto di vista, sono agevolati, mentre i più deboli rischiano di essere impietosamente schiacciati dagli interessi o dall’indifferenza altrui, anche di coloro che dovrebbero assumerne la difesa. E così, il “massimo” della libertà, cioè il relativismo etico, si rivela il massimo dell’intransigenza, cioè un totalitarismo. Lo sintetizza bene il Card. Camillo Ruini nella sua Prolusione al Consiglio Permanente della CEI, commentando gli interventi del Santo Padre Benedetto XVI alla trascorsa Giornata Mondiale della Gioventù: le rivoluzioni del secolo XX, il cui programma comune era di non attendere più l’intervento di Dio, ma di prendere totalmente nelle proprie mani il destino del mondo, dovevano per forza assolutizzare ciò che è relativo, prendere un punto di vista umano e parziale come misura assoluta di orientamento. Ma l’assolutizzazione del relativo è l’essenza del totalitarismo: invece di liberare l’uomo gli toglie la sua dignità e lo schiavizza (Conferenza Episcopale Italiana - Consiglio Permanente, Prolusione del Cardinale Presidente, Roma 19-22 settembre 2005). Ed è proprio questo paradosso che rivela il nesso tra i crescenti attacchi alla vita e quelli contro la famiglia, spiegando perché questioni apparentemente più legate alla politica e al diritto, come l’attuale dibattito sui “patti civili di solidarietà” (i famosi “pacs”), abbiano una straordinaria rilevanza bioetica. E possano a buon diritto rientrare nei discorsi alle coscienze pronunciati dal Magistero della Chiesa Cattolica e dai rappresentanti del clero. La veste giuridica delle “unioni di fatto”, di cui tanto si discute nelle ultime settimane e per cui una legge è pronta in Parlamento, rappresenta un problema molto più profondo del semplice “riconoscimento di una scelta privata”. In primis perché rappresenta un attacco frontale alla famiglia. Alcuni sostenitori dei pacs, a dire il vero, si adoperano a negarlo. Dicono che i “patti” garantirebbero alcuni diritti ai conviventi senza intaccare l’istituto familiare, un po’ come avviene in Francia, dove i pacs sono in vigore dal 1999 senza “sovrapposizioni” con il matrimonio. A parte le obiettive contraddizioni e ambiguità in cui tale “rigida” distinzione incorre in Francia, bisogna ammettere che la proposta di legge italiana andrebbe oltre quella francese, riconoscendo ai conviventi diritti che li assimilerebbero per alcuni versi ai coniugi: A leggerne il testo, salta agli occhi che sotto il titolo, francesizzante, dei “pacs” non si delinea una via italiana alla tutela contrattualistica di un’unione di fatto, ma il rischio di dar vita – magari oltre le intenzioni – a un’ipotesi, in salsa spagnola, di mini-matrimonio: un patto che cambierebbe lo stato civile dei contraenti, solubile in appena tre mesi eppure capace di generare benefici fiscali, previdenziali, successori in tutto e per tutto uguali a quelli coniugali (M. Tarquinio, Strada imboccata male, “Avvenire”, 13 settembre 2005). Insomma, si tratterebbe di una formula, come molti hanno notato, piena di diritti e scarna di doveri, che del matrimonio “copia” aspetti vantaggiosi eliminandone tuttavia l’aspetto fondamentale di responsabilità e di impegno. Si tratterebbe di un “piccolo matrimonio”, come lo chiamava il Card. Ruini nella Prolusione citata, modellato in buona parte sull’istituto matrimoniale. Una simile figura giuridica si tradurrebbe in un passo deciso verso lo svuotamento del significato di “famiglia fondata sul matrimonio”, che sarebbe assimilata ad un certo “grado” di stabilità nel vincolo fra due persone. Eppure, anche la Corte Costituzionale si è espressa varie volte sulla differenza fondamentale fra convivenza e matrimonio, stabilendo che la convivenza more uxorio (obiettivamente presente nei costumi) non può pretendere la parificazione di trattamento con il legame matrimoniale. Che è quanto dire: chi vuole accettare i vincoli del matrimonio, con i relativi diritti e doveri pubblici, si sposi. Il matrimonio non è infatti un affare privato, ma, proprio in quanto tale, pubblico, al punto che i futuri coniugi vedono “pubblicato” l’annuncio del loro imminente matrimonio (le “pubblicazioni di matrimonio”, appunto). Non esiste una via intermedia fra sposarsi e unirsi in una convivenza (più o meno stabile) avulsa dal matrimonio. È talora inevitabile prendere atto, come nota il Cardinale, di situazioni concrete di convivenza che necessitano di alcune tutele, ma si tratta di casi da valutare singolarmente nel diritto privato, non di materia di diritto pubblico. Anche perché, è bene ribadirlo, sono gli stessi conviventi che, nella stragrande maggioranza dei casi, non intendono ricorrere a nessun registro o patto per “vincolare” la loro unione. Le regioni italiane che hanno istituito in passato registri dei conviventi, ad esempio, hanno ottenuto bassissime percentuali di iscritti (cfr. A. Galli, Unioni di fatto, il flop dei registri, “Avvenire”, 15 settembre 2005). E a chi invece ama affermare orgogliosamente che i pacs rappresentano in effetti una modalità nuova, più moderna, di famiglia, si potrebbe rileggere l’articolo 29 della Costituzione italiana, che individua con precisione la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”. La famiglia naturale non è sostituibile. Anzi, è l’insostituibile nucleo della società su cui si gioca il futuro e la salute della civiltà umana, di contro alla struttura transitoria e inaffidabile delle unioni di fatto, soprattutto fra persone dello stesso sesso, inadatte a costruire un rapporto che guarda realmente al domani, ovvero al benessere della prole e con essa delle generazioni future. La Chiesa ha precisato più volte la spinta dissolutoria del matrimonio insita nelle unioni di fatto. Lo ha fatto Benedetto XVI (cfr. il discorso del 6 giugno 2005) e Giovanni Paolo II prima di lui, come pure la Congregazione per la Dottrina della Fede (2002 e 2003) e il Pontificio Consiglio per la Famiglia (2000). La Chiesa non ha mai perso di vista, oltre al valore spirituale e teologico della famiglia, il suo importante ruolo sociale. Al contrario, il mondo laico mette all’ordine del giorno i pacs invece di attivare maggiori misure difensive e rafforzative della famiglia normale. Osserva ancora il Card. Ruini: il paradosso della nostra situazione è che il sostegno pubblico alla famiglia in Italia è invece molto minore, meno moderno e organico, pur in presenza di una gravissima e persistente crisi della natalità che sta già provocando, e causerà assai di più in futuro, ingenti danni sociali. Il sostegno alla famiglia legittima dovrebbe essere dunque la prima e vera preoccupazione dei legislatori ( Prolusione, … cit.). La conclusione del Cardinale sul dibattito in corso è di chiarezza esemplare: i pacs rappresentano qualcosa di cui non vi è alcun reale bisogno e che produrrebbero al contrario un oscuramento della natura e del valore della famiglia, e un gravissimo danno al popolo italiano (ibidem).
Benedetto XVI: l’Eucaristia, “centro propulsore dell’intera azione evangelizzatrice della Chiesa” Le parole del Papa all’Angelus di domenica 2 ottobre 2005. Cari fratelli e sorelle! Si è da poco conclusa, nella Basilica di San Pietro, la Celebrazione eucaristica con cui abbiamo inaugurato l’Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. I Padri sinodali, provenienti da ogni parte del mondo, con esperti e altri delegati vivranno nelle prossime tre settimane, insieme con il Successore di Pietro, un tempo privilegiato di preghiera, riflettendo sul tema "Eucaristia: fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa". Perché questo tema? Non è forse un argomento scontato, pienamente acquisito? In realtà, la dottrina cattolica sull’Eucaristia, definita autorevolmente dal Concilio di Trento, domanda di essere recepita, vissuta e trasmessa dalla Comunità ecclesiale in modo sempre nuovo e adeguato ai tempi. L’Eucaristia potrebbe essere considerata anche come una "lente" attraverso la quale verificare continuamente il volto e il cammino della Chiesa, che Cristo ha fondato perché ogni uomo possa conoscere l’amore di Dio e trovare in esso pienezza di vita. Per questo l’amato Papa Giovanni Paolo II ha voluto dedicare all’Eucaristia un intero anno, che si chiuderà proprio con la fine dell’Assemblea sinodale il 23 ottobre prossimo, domenica in cui si celebrerà la Giornata Missionaria Mondiale. Tale coincidenza ci aiuta a contemplare il mistero eucaristico nella prospettiva missionaria. L’Eucaristia, in effetti, è il centro propulsore dell’intera azione evangelizzatrice della Chiesa, un po’ come il cuore lo è nel corpo umano. Le comunità cristiane senza la celebrazione eucaristica, in cui si alimentano alla duplice mensa della Parola e del Corpo di Cristo, perderebbero la loro autentica natura: solo in quanto "eucaristiche" esse possono trasmettere agli uomini Cristo, e non solamente idee o valori pur nobili e importanti. L’Eucaristia ha plasmato insigni apostoli missionari, in ogni stato di vita: vescovi, sacerdoti, religiosi, laici; santi di vita attiva e contemplativa. Pensiamo, da una parte, a san Francesco Saverio, che l’amore di Cristo spinse fino all’estremo Oriente per annunciare il Vangelo; dall’altra, a santa Teresa di Lisieux, giovane carmelitana, di cui abbiamo fatto memoria proprio ieri. Essa visse nella clausura il suo ardente spirito apostolico, meritando di essere proclamata insieme con san Francesco Saverio patrona dell’attività missionaria della Chiesa. Invochiamo la loro protezione sui lavori sinodali come pure quella degli Angeli custodi, che oggi ricordiamo. Preghiamo con fiducia soprattutto la Beata Vergine Maria, che il prossimo 7 ottobre venereremo con il titolo di Madonna del Rosario. Il mese di ottobre è dedicato al santo Rosario, singolare preghiera contemplativa con la quale, guidati dalla celeste Madre del Signore, fissiamo lo sguardo sul volto del Redentore, per essere conformati al suo mistero di gioia, di luce, di dolore e di gloria. Questa antica preghiera sta conoscendo una provvidenziale rifioritura, grazie anche all’esempio e all’insegnamento dell’amato Papa Giovanni Paolo II. Vi invito a rileggere la sua Lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae e a metterne in pratica le indicazioni a livello personale, familiare e comunitario. A Maria affidiamo i lavori del Sinodo: sia Lei a condurre la Chiesa intera ad una consapevolezza sempre più chiara della propria missione a servizio del Redentore realmente presente nel sacramento dell’Eucaristia.
La Comunione in mano, tema discusso nel Sinodo I Padri sinodali preoccupati per l’arte della celebrazione dell’Eucaristia L’«arte della celebrazione» (“ars celebrandi”) dell’Eucaristia e i suoi aspetti concreti, come quello della Comunione in mano, sono temi che stanno suscitando l’interesse dei partecipanti al Sinodo. La questione della Comunione in mano è stata posta da un Vescovo della Lituania, che si è dichiarato contrario, chiedendo che venga sempre ricevuta in bocca. In seguito la questione è stata affrontata dal Cardinale Francis Arinze, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, che ha spiegato le argomentazioni a favore e contro questa pratica. Il porporato nigeriano ha menzionato le difficoltà che possono sorgere dall’amministrazione della Comunione in mano, che permette che una persona possa portare via la Comunione senza comunicarsi. Isidro Catela, addetto stampa per la lingua spagnola del Sinodo dei Vescovi, ha spiegato ai giornalisti che c’è stato il caso di una persona che ha conservato un’ostia consacrata da Giovanni Paolo II e l’ha venduta ad una nota casa d’aste su Internet. A volte le ostie sono state utilizzate anche per riti satanici. Per questo motivo, il Cardinale Arinze ha chiesto ai sacerdoti che, nel dare la Comunione in mano, prestino particolare attenzione affinché chi si comunica non possa perseguire altri fini. Il porporato ha infine spiegato che è una decisione che dipende dalle Conferenze Episcopali di ogni Paese. Catela ha reso noto che i Padri Sinodali vogliono sottolineare la necessaria nobilitazione del rito eucaristico e alcuni hanno constatato che l’assenza di fedeli in alcune Messe domenicali è dovuta alla “negligenza nell’‘ars celebrandi’”. Dei Padri sinodali hanno chiesto nei seminari se si sta dando un’“adeguata formazione” in oratoria, estetica e comprensione del significato del rito eucaristico. Circa i mezzi di comunicazione e la trasmissione delle celebrazioni eucaristiche in TV, due Padri Sinodali e l’Arcivescovo John P. Foley, Presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, hanno osservato che è opportuno che si tratti di “trasmissioni che siano un modello e non un motivo di maggiore preoccupazione o di disorientamento per il credente”.
La teologia di fronte al “genio” della donna Intervista di Zenit al professor Josep-Ignasi Saranyana. Sacerdote e teologo, Saranyana (Barcelona, 1941) è autore di Teología de la mujer, teología feminista, teología mujerista y ecofeminismo en América Latina (1975-2000). In cosa si distingue la teologia femminista dalla teologia della donna? A mio avviso, la teologia della donna si costruisce “dall’alto”; considera la donna a partire dalla Rivelazione. Attiene anzitutto alla grande tradizione della Chiesa. La teologia femminista, invece, parte “dal basso”. Non esclude la Rivelazione, ma la considera come un’istanza teologica secondaria. È piuttosto come una sociologia religiosa, se non addirittura una pura analisi psicologica del modo di vivere e dei sentimenti femminili. È interessante, ma non è teologia in senso proprio. Spesso, poi, si pone in tono polemico o di rivendicazione. Esistono femministe cattoliche che si muovono all’interno della Tradizione. Perché non definirle teologhe femministe, piuttosto che teologhe della donna? Gli aggettivi sono fondamentali. Esistono due modi di considerare la donna: una è quella più propria del mondo moderno; l’altra è più teologica. Si possono cambiare le denominazioni, ma occorre mantenere ferma la distinzione tra le due discipline con sintagma diversi. Cos’è esattamente l’ecofemminismo? Si tratta, in un certo senso, di un ritorno a forme primitive del fenomeno religioso. Un idea che vede la terra (intesa in senso femminile) come l’origine o la “madre” di ogni cosa. Dio (inteso culturalmente in senso maschile) resta privato della sua caratteristica di creatore. Riprende una sorta di dualismo che ricorda le forme di un primitivo gnosticismo. Talvolta si spinge persino verso un monismo tellurico. Implica, secondo me, una sovversione dell’autentico sentimento religioso. Cosa pensa dell’analogia, proposta dall’ecofemminismo, tra lo sfruttamento della natura e lo sfruttamento subito dalla donna? L’ecofemminismo radicalizza la teologia femminista, a tal punto da lasciarle ben poco della teologia in senso proprio. Porta agli estremi non solo la speculazione dialettica sul “genere” (teologia femminista), ma anche la considerazione del “genere” come mero prodotto sociale (teologia “mujerista”). È evidente che si trova agli antipodi rispetto a ciò che ho chiamato teologia della donna. La Santa Sede si interessa di queste correnti ecofemministe? Consideri che è molto difficile dialogare con posizioni così radicali, perché a mala pena esiste una piattaforma comune su cui potersi capire. Non si dimentichi, peraltro, che il Pontificio Consiglio della Cultura e il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso hanno preso in esame alcune delle proposte dell’ecofemminismo in un documento del 2003 intitolato “Gesù Cristo portatore dell’acqua viva”. Bisognerebbe chiedere alle ecofemministe se accettano la trascendenza assoluta di Dio su tutto il creato e se di conseguenza ammettono che Dio è creatore. A parte la polemica dottrinale, cosa può fare la Chiesa per alleviare le condizioni di emarginazione della donna denunciate dalle femministe, anche da quelle più moderate? Già il libro della Genesi, con divina saggezza, aveva profetizzato che dal peccato originale sarebbe derivata una dialettica tra i sessi che avrebbe condotto alla violenta sottomissione della donna da parte dell’uomo. È innegabile che la donna sia stata emarginata persino nell’ambito delle culture di ispirazione cristiana. La Chiesa si è adoperata per cambiare questa situazione, predicando il comandamento dell’amore fraterno. Poco a poco, senza provocare contrasti maggiori, ha ottenuto l’abolizione della schiavitù, ha contribuito a sradicare la pratica della tortura, ha ammorbidito i codici di guerra, ha modificato i rapporti di lavoro e ha migliorato molto la condizione della donna. Molte femministe tuttavia lamentano che la Chiesa non promuove la donna, escludendola dalla gerarchia ecclesiastica... L’ombra del marxismo è molto diffusa. Nonostante il crollo della Cortina di Ferro qualche colpo di coda ancora si verifica in molte posizioni dialettiche. Per questo motivo, per alcuni risulta difficile comprendere che la Chiesa tende ad armonizzare la diversità funzionale tra i sessi attraverso la loro essenziale uguaglianza. Ricordarlo non significa tornare ad una società feudale premoderna. Implica entrare nel mistero divino della Chiesa. La Chiesa è stata fondata da Cristo. La sua condizione sponsale è essenziale, come ci rivela l’Apocalisse: “come una sposa adorna per il suo sposo”. E lo ripete anche la tradizione paolina. Cristo è lo sposo della Chiesa, perché la feconda con il suo sangue. Di conseguenza, chi partecipa sacramentalmente, in modo privilegiato, al sacerdozio di Cristo, sono gli uomini. Sono loro la continuità sacramentale di quel sacerdozio e sono pertanto anche sposi della Chiesa. Una delle preoccupazioni della teologia femminista è l’immagine di Dio e l’impronta di questa immagine impressa su ogni persona umana. Dio è in effetti l’esemplare di tutti ciò che esiste. Ogni donna è immagine di Dio, perché Egli è donna; ogni uomo è immagine di Dio, perché Egli è uomo; ogni angelo è anche immagine di Dio, perché Egli è puro spirito puro. Dio è al di sopra della condizione sessuale. Egli è la causa, attraverso la creazione, della stessa differenziazione sessuale. Per questo non è né uomo, né donna, né angelo. Di tutto questo ha parlato la Commissione Teologica Internazionale lo scorso anno. Eppure il linguaggio religioso è “escludente” rispetto al genere femminile. Si dice che Dio è Padre. Pensa che questo possa essere cambiato? Questo tema eccede la competenza di analisi della teologia. Non so se esiste una lingua in cui il femminile sia includente e il maschile escludente; una possibilità tutt’altro che assurda. Tuttavia, almeno nel mondo occidentale, le lingue si sono evolute in modo tale che normalmente, salvo rari casi, quando si parla di un insieme di individui di genere diverso, il plurale sia sotto la forma maschile, come il noto “Mensh” tedesco. Avrebbe potuto essere diverso, ma bisogna attenersi a ciò che è la realtà, anche a rischio di “babelizzarci”. Delineare artificialmente nuovi modi di espressioni inclusivi potrebbe complicare infinitamente la comunicazione umana. E anche quella teologica. Il termine “genio femminile” è stato coniato da Giovanni Paolo II. Crede che il Papa Benedetto XVI darà qualche ulteriore contributo in questo senso? Vorrei raccomandare la lettura di un documento importante e poco conosciuto: la Lettera del 31 maggio 2004, firmata dal Cardinale Ratzinger, indirizzata ai Vescovi della Chiesa cattolica, sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo . Si tratta di un documento che dà qualche indizio sulle probabili azioni del Magistero nei prossimi anni. Senza dimenticare, ovviamente, la “Mulieris dignitatem”, del 1988, né la “Lettera alle donne”, del 1995.
Perché tanta genere segue i reality show? E perché pochi si ribellano allo sfoggio di morbosità per atti di crudeltà, violenza, orrore che i programmi televisivi propongono quotidianamente? Zenit l’ha chiesto a Tommaso Scandroglio, giovane redattore della rivista cattolica per bambini “Net magazine”, autore del libro appena pubblicato “TV accesa, cervello spento” (Edizioni ART, 118 pagine). La sua analisi è molto radicale, lei sostiene che la TV vada spenta, ma proprio non c'è nessun programma televisivo che valga la pena di vedere? Spesso si sente dire che la televisione è un mezzo di comunicazione. Questo è vero, però è altrettanto vero che la televisione oltre ad essere uno strumento massmediatico è anche veicolo di messaggi. La TV non è semplicemente una scatola vuota, ma è una scatola con dei contenuti. Tali contenuti sono dei più vari. Il problema infatti non è solo di scegliere tra programmi buoni e programmi cattivi, bensì è anche di distinguere all’interno dello stesso programma che si sta seguendo quali messaggi arricchiscono la mia persona e quali invece la danneggiano. Non mi schiero quindi tra le fila di coloro che vedono l’apparecchio TV come un diabolus da scacciare dalle nostre case o da accendere solo per seguire un documentario sulla vita del lichene islandese. Credo invece che non vada scartato nessun genere di trasmissioni dalla nostra dieta televisiva e che, come per il cibo, sia necessario mangiare un po’ di tutto prediligendo le pietanze più sane e nutrienti. Nella speranza che siano anche quelle più gustose. Perchè passare molte ore dinanzi alla TV fa male? Per almeno due motivi. Innanzitutto perché anche se non ci esponiamo ad una sequenza ininterrotta di scene scabrose o grondanti sangue ad alto impatto emotivo, ma semplicemente stiamo molte ora davanti allo schermo a sorbirci fiction di bassa lega, talk-show dove si inscenano risse dialettiche per amor dell’auditel e reality in cui l’ospite d’onore è sempre madama volgarità, al termine della giornata avremo accumulato nel fondo della nostra psiche, con un lento ed impercettibile processo di sedimentazione, una buona dose di violenza e sesso e, quel che è peggio, non ce ne saremo neppure accorti. In secondo luogo una volta accesa la TV non si decide di fare altro. Voglio dire che è molto più semplice e meno impegnativo fare click con il telecomando per vedere cosa c’è in televisione piuttosto che uscire per andare a teatro o a casa di amici, giocare con i propri figli e aiutarli nello studio, leggere un quotidiano, un libro, parlare con il proprio marito o con la propria moglie, oppure, perché no, trovare il tempo per pregare. Insomma: il tempo trascorso davanti al tubo catodico sottrae ore preziose per altre attività forse più utili e appaganti. I bambini sono quelli che più dipendono dalla TV. Bisogna anche dire che molti dei video e dei cartoni animati prodotti per la fascia di età tra i 5 ed i 10 anni sono belli, storie gradevoli, personaggi ben studiati, messaggi educativi. E' proprio necessario impedire ai bambini di guardare la TV o si possono trovare soluzioni per fare una selezione dei programmi e aiutare i bimbi a sviluppare un minimo di visione critica? Gli effetti negativi della TV, ma anche quelli positivi per fortuna, vengono molto accentuati quando davanti al video c’è un bambino. Quindi da parte dei genitori occorre prudenza, ma questo non significa vietare in modo indiscriminato ai più piccoli di guardare la televisione. Nel mio libro offro alcuni consigli che, sono certo, sono già stati messi in pratica in molte famiglie: fissare un tempo massimo per l’utilizzo dell’apparecchio televisivo; non permettere che i propri figli possano stare davanti alla TV fino a notte inoltrata o alla mattina prima di andare a scuola; informarli previamente sul contenuto dei programmi; essere presenti insieme a loro durante la visione e discutere su ciò che si sta guardando; utilizzare DVD o videocassette, così facendo si dovrebbe già conoscere cosa si propone ai figli; fornire a loro alternative alla TV, dato che spesso i bambini scelgono la televisione perché i genitori non stanno con loro. Infine avere il coraggio di vietare alcuni spettacoli, sempre motivando questa decisione. E' vero che ci sono molti programmi televisivi diseducativi e di cattivo gusto, d'altro canto è pure vero che la proposta di programmi educativi ben fatti è scarsa e sembra trovare pochi acquirenti. Il successo del film The Passion ha però dimostrato che, quando il prodotto è ben fatto, anche temi difficili come quello della Passione di Cristo, suscitano un grande interesse. Qual è il suo parere in proposito? Il problema è complesso. E’ un dato di fatto che più il contenuto di un film, di una serie TV, di uno spettacolo, è profondo, meno saranno le persone che assisteranno al film, alla serie TV, etc. Questo accade perché se io voglio comunicare un messaggio ricco di valori e connotato da un argomento alto, dovrò trovare una forma espressiva altrettanto alta e profonda, correndo così il rischio di farmi capire solo da pochi, cioè solo da coloro che hanno gli strumenti culturali adatti. Invece i capolavori e non mi riferisco solo alla cinematografia, ma a tutto il mondo dell’arte sono quelle realizzazioni dell’espressione umana che risultano comprensibili, a diversi livelli, da tutti: dalla persona che non è andata a scuola e dall’intellettuale, dall’anziano e dal giovane, dall’ateo e dal credente. Il film di Gibson centra questo obiettivo: alcuni sono stati colpiti semplicemente e solamente dalla sceneggiatura, cioè ‘la storia’, altri hanno colto la drammaticità della vicenda umana di quest’uomo di nome Gesù, altri ancora hanno compreso a quali vette di sacrifico di sé può portare l’amore per il prossimo, altri infine si sono resi conto fin nel midollo spinale che veramente Cristo è Dio e si è fatto macellare sulla croce a causa nostra. Nessuno, o quasi, è uscito indenne nell’anima dalla visione di questa pellicola. Qual è l'obbiettivo che intende raggiungere con la pubblicazione di questo libro? L’intento è semplice: togliere un po’ di polvere massmediatica dalla superficie del video della nostra TV per vedere cosa c’è sotto. Questo volumetto non ha certo la pretesa di essere esaustivo sul tema, né tenta un’analisi approfondita a livello universitario sul mondo catodico. Vuole solo offrire qualche strumento critico per capire meglio chi e che cosa c’è in TV, come la fanno e come usarla. Nel realizzare questo libro l’aiuto migliore e maggiore non è venuto tanto dai testi di settore, dalle riviste specializzate, dagli studi scientifici che ho consultato, ma dalla visione diretta dei programmi in TV utilizzando degli occhiali particolari: il buon senso.
Il Sinodo discute il rapporto impari tra confessioni e comunioni “Constatiamo con rammarico che a fronte di tante più comunioni ci sono molto meno confessioni”, così il Cardinale Juan Luis Cipriani Thorne ha sollevato il problema della pratica ridotta del Sacramento della Penitenza, martedì 4 ottobre, nel corso del Sinodo dei Vescovi in svolgimento in questi giorni in Vaticano. Secondo monsignor Cristian Caro Cordero, Arcivescovo di Puerto Montt (Cile), si tratta di una pratica diffusa specialmente nei Paesi dove è più forte la secolarizzazione e dove è imperante una cultura moderna che sta eclissando “il significato del Dio vivo e vero”. “Il senso del peccato – ha sottolineato l’Arcivescovo cileno – è diminuito o scomparso a causa delle dimenticanza di Dio e del relativismo morale”. Monsignor Caro Cordero ha proposto di formare i sacerdoti in modo che si possano occupare della direzione spirituale dei giovani e possano dedicare tempo “al Sacramento della Riconciliazione che, insieme con l’Eucarestia, è fondamentale nella direzione spirituale”. Il reverendo padre Jospeh William Tobin, C.SS.R, Superiore Generale della Congregazione del Santissimo Redentore, si è interrogato su come sia possibile “aiutare le persone a riacquistare affetto per il Sacramento della Penitenza e apprezzare il dono dell’Eucarestia come somma motivazione per amare Dio che si è donato a noi”. “Per evitare tensioni tra la celebrazione dei Sacramenti della Penitenza e l’Eucarestia”, ha affermato Tobin, è necessario “partire dalla dimensione ecclesiale dei due Sacramenti per poi proseguire con una presentazione sacramentale adeguata di entrambi”. Tobin ha concluso sottolineando che “le realtà umane di entrambi i Sacramenti sono importanti, ma non tanto fondamentali quanto il fatto che i Sacramenti ricevono il loro significato più profondo dal Mistero Pasquale di cristo, che è la chiave per comprendere la Presenza Reale di Cristo nell’Eucarestia e la liberazione dai vincoli dei peccati gravi attraverso il Sacramento della Penitenza”. Monsignor Lorenzo Voltolini Esti, Vescovo titolare di Bisuldino e Ausiliare di Portoviejo (Ecuador), ha rilevato che molti fedeli non si confessano “non solo perché non credono nell’efficacia della Confessione o perché hanno perso il senso del peccato, ma semplicemente perché i sacerdoti o non hanno tempo di confessare (oberati da altre occupazioni), o perché soli in parrocchia, non possono celebrare l’Eucarestia e la Penitenza al tempo stesso”. L’Ausiliare di Portoviejo, ha ricordato la testimonianza di sant’Ambrogio, la più antica sulla celebrazione dell’Eucarestia quotidiana, ed ha proposto la reintroduzione del digiuno eucaristico. “Si suggerisca – ha precisato Voltolini Esti – o almeno si permetta alle diocesi o alle Conferenze nazionali che ne facessero richiesta di istituire, preferibilmente in Quaresima e magari di venerdì, il giorno di digiuno eucaristico, da vivere come giorno di assenza eucaristica, ma di preparazione ed attesa eucaristica”. Il Vescovo di Bisuldino ha concluso spiegando che “non sarebbe questo da considerare come un’interruzione della prassi di celebrare ogni giorno l’Eucarestia, ma un modo per valorizzare il Mistero Pasquale di Gesù Cristo ugualmente celebrato nella Penitenza e nell’Eucarestia nella totalità e nella complementarietà dei due Sacramenti”. Nel suo intervento, invece, monsignor Rimantas Norvila, Vescovo di Vilkaviškis (Lituania) ha indicato che spesso alla diminuzione della pratica della Penitenza si affiancano delle “tendenze opposte alla fede cristiana”. “Come vediamo tutti, nelle società odierne, specialmente quelli occidentali, ci sono molte persone dedite alla pratica esoterica, alla magia, all'occultismo, alle tendenze New Age. Tutto questo insieme permette alla persona di creare nuovi legami comunitari, sociali, che sempre di più allontanano dalla Chiesa, dal pensiero cattolico, e indeboliscono la fede”, ha aggiunto. “Andando ancora più avanti, osserviamo deformazioni della coscienza, cambiamenti che toccano tutta la personalità”, ha poi affermato, suggerendo la “riconciliazione” e la “direzione spirituale” come strumenti per “la formazione positiva della coscienza e della consapevolezza cattolica”.
Ripresa della sperimentazione sulla “RU-486”: “Ancora un atto contro la vita”, afferma la Santa Sede “Ancora un atto contro la vita, ancora una volta la scienza viene messa al servizio della morte”, così commenta il quotidiano vaticano L’Osservatore Romano (6 ottobre 2005) la ripresa della sperimentazione sulla pillola abortiva “RU-486”. La replica della Santa Sede giunge all’indomani del nuovo via libera dato dal Comitato Etico della Regione Piemonte alla sperimentazione che era stata bloccata il mese scorso con un’ordinanza del Ministro della Salute Francesco Storace. L’organismo, presieduto dall’assessore regionale alla Sanità Mario Valpreda, ha infatti accolto con parere favorevole il protocollo modificato dall’ospedale Sant’Anna di Torino, sulla base dei rilievi mossi dagli ispettori dell'Aifa, l'Agenzia italiana del Farmaco. Si tratta in sostanza di un farmaco abortivo a base di mifepristone, usato in Francia secondo protocolli prestabiliti dal 1992, e che è sbarcato negli Usa nel 2000. Fino ad ora sono 26 le donne che hanno abortito con la RU-486 dall’inizio della sperimentazione, che prevede l’arruolamento di altre 374 pazienti. In questo modo, forse lunedì prossimo, il “progetto pilota” per l’aborto farmacologico, accolto da più parti come “una rinnovata conquista della libertà, di autodeterminazione, come ‘un atto dovuto’” – scrive L’Osservatore Romano – potrà riprendere. Il quotidiano aggiunge che questo caso serve ad evidenziare “le radici comuni della contraccezione e dell'aborto ‘come frutti di una medesima pianta’. Una connessione non soltanto a livello culturale ma anche etico”. Ricordando come in Italia quando venne approvata la legge 194 si disse che l'interruzione volontaria della gravidanza non doveva essere considerata “mezzo di contraccezione”, il quotidiano scrive che la ripresa della sperimentazione della RU-486 a Torino “nuovamente torna a svelare cosa stava dietro tali affermazioni, e quale intenzionalità vi si nascondeva”. “Si vuole che l'aborto diventi sempre più facile contraccezione, la più tragicamente efficace: si è ormai arrivati ad un tale oscuramento delle coscienze da ritenere atto di libertà l'uccidere il più indifeso degli innocenti. Un atto di libertà massimo in quanto l’omicidio – perché di omicidio vero e proprio si tratta – diventa ‘estremamente facile’”, continua. “La vita di un nuovo essere umano sboccia al momento della fecondazione dell’ovulo e nelle fasi successive”. “La pillola che distrugga l’ovulo fecondato o ne impedisca l’impianto, produce perciò un effetto abortivo, lesiva della vita di un essere umano”. “Sebbene di piccolissime dimensioni l'embrione è sempre un essere umano con propria dignità e con la gamma dei diritti inviolabili”, aggiunge. “Si consuma l'aborto, un delitto, tanto se lo si compie chirurgicamente quanto se si tronca la vita nei primissimi stadi di sviluppo per mezzo di un farmaco. E’ questa, un’ipocrisia crudele, una ‘cultura’ di morte che si vorrebbe tingere di forma legale”, conclude L’Osservatore Romano.
2 ottobre 2005
Bambini comprati, venduti, scambiati Risvolti inquietanti della mentalità consumistica Il tentativo pluridecennale dei sostenitori dell’aborto di negare o minimizzare il carattere umano del bambino non nato sta portando i suoi frutti. I bambini non nati sono sempre più spesso trattati come prodotti di consumo, considerando le cronache giornalistiche. Il 10 settembre il Times di Londra ha pubblicato un articolo che riporta il caso dell’Institute for Problems of Cryobiology and Cryomedicine dell’Accademia nazionale delle scienze di Kharkov, in Ucraina. Risulta che tale istituto si dedichi anche alla vendita di organi e tessuti di bambini. L’elenco pubblicato sul sito Internet reca una serie di cellule e altri tessuti dei bambini. L’istituto sostiene che questi materiali derivano da feti abortiti ad uno stadio iniziale di vita. Ma secondo il Times questa affermazione è messa in dubbio dalle notizie secondo cui alcuni neonati vivi sarebbero scomparsi dai reparti di maternità nella città di Kharkov. L’articolo cita una ex impiegata dell’istituto, Juliya Kopeika, secondo la quale gli scienziati ucraini godono da tempo di una regolamentazione più permissiva sulle questioni etiche in questo ambito. Inoltre, secondo la legislazione ucraina, i bambini nati prima della 27° settimana o che pesano meno di un chilo alla nascita sono considerati automaticamente come aborti. In questo caso i bambini non vengono iscritti all’anagrafe e sono talvolta sottratti alla madre e non restituiti, hanno riferito al Times alcuni promotori dei diritti umani. Lo scorso 17 aprile, un rapporto comparso in un altro quotidiano britannico, l’Observer, sosteneva che le donne ucraine vengono pagate per vendere i loro feti alle cliniche. I tessuti tratti dai feti sono utilizzati per i cosmetici che a quanto si dice ringiovaniscono la pelle e curano le malattie. Secondo l’Observer, alle donne sarebbero state pagate 100 sterline (147 euro) per i feti che sarebbero stati poi venduti in Russia anche per 5.000 sterline (7.400 euro). Embrioni freschi Due settimane fa, in Canada sono emerse preoccupazioni per l’utilizzo di embrioni “freschi” come fonte di cellule staminali, come riportato dal National Post del 13 settembre. Un articolo pubblicato dal Canadian Medical Association Journal avvertiva che le donne vengono incoraggiate a donare embrioni “freschi”, anziché quelli avanzati da precedenti trattamenti di fecondazione in vitro, per creare cellule staminali. Gli autori dell’articolo, il dr. Jeffrey Nisker della University of Western Ontario e la dr.ssa Francoise Baylis dellla Dalhousie University di Halifax, hanno inoltre avvertito che le donne potrebbero avere in futuro minori probabilità di rimanere incinte. Inoltre, Baylis si è lamentata del modo “surrettizio” in cui la Canadian Institutes of Health Research, un’agenzia federale, ha silenziosamente cambiato le regole il 7 giugno scorso, consentendo esplicitamente a chi fa ricerca sulle cellule staminali di usare embrioni umani freschi. Solo due giorni dopo un’equipe di ricercatori di Toronto presieduta dal dr. Andras Nagy ha annunciato che stava lavorando non solo su embrioni freschi ma che li aveva già utilizzati per creare le prime cellule staminali embrionali umane in Canada. Jeffrey Nisker è stato uno dei presidenti della Commissione consultiva sulla tecnologia riproduttiva e genetica dell’Health Canada, che si è sciolta lo scorso anno, dopo che il Governo federale aveva approvato la nuova legge che regola le tecnologie riproduttive. Egli ha affermato al National Post che “mai in nessun momento [la Commissione] ha pensato che una donna potesse essere invitata a rinunciare ad un embrione fresco”. Nisker ha detto che la questione richiede un chiarimento ed ha aggiunto che a suo avviso i medici che chiedono alle donne di donare embrioni freschi starebbero violando il codice deontologico dei medici. Allo stesso tempo, lo scienziato creatore della pecora Dolly, Ian Wilmut, ha sostenuto che le cellule staminali embrionali dovrebbero essere utilizzate al fine di evitare la sperimentazione sugli animali. Il quotidiano scozzese Herald ha riferito l’8 settembre che secondo Wilmut questa ricerca sarebbe “più etica”. In un discorso pronunciato alla Glasgow University Vet School, Wilmut ha affermato che lo studio delle malattie incurabili, attraverso la creazione di embrioni e la loro clonazione per la formazione di cellule staminali salverebbe “potenzialmente molte migliaia di animali”. Wilmut ha di recente fatto domanda per l’autorizzazione all’utilizzo di cellule staminali embrionali per l’elaborazione di una cura per la sclerosi laterale amiotrofica, o malattia di Lou Gehrig, una patologia neuromotoria. Eliminare i “non adatti” I bambini affetti da malformazioni genetiche, sempre più spesso vengono eliminati, secondo quanto riferisce il Washinton Post in un approfondito articolo pubblicato lo scorso 29 aprile. L’articolo spiega che, secondo un sondaggio su circa 3.000 genitori di bambini affetti dalla sindrome di Down, pubblicato sull’American Journal of Obstetrics and Gynecology, i medici che effettuano diagnosi prenatale (come l’amniocentesi) spesso danno un quadro piuttosto negativo ai genitori delle conseguenze di portare alla luce e crescere un bambino affetto da questo problema. “In molti casi i medici sono stati insistenti o persino sgarbati”, ha affermato Brian Skotko, uno studente di medicina di Harvard, la cui sorella ventiquattrenne è affetta dalla sindrome di Down. L’articolo spiega che i cambiamenti intervenuti negli ultimi anni hanno notevolmente migliorato la situazione per le persone che soffrono della sindrome di Down. Anziché venire relegati in istituti essi ora tendono a vivere tra la gente comune, e una migliore attenzione clinica ha determinato un considerevole aumento nell’aspettativa di vita. I bambini che sopravvivono, spesso arrivano ad un’età anche superiore ai 50 anni, secondo la National Down Syndrome Society. Ma, secondo un articolo di George Neumayr, pubblicato sull’edizione di giugno dell’American Spectator, alcuni ricercatori stimano che oggi almeno l’80% dei nascituri a cui viene diagnosticata la sindrome di Down vengono abortiti. Inoltre vi è un’alta percentuale di aborto anche dei feti affetti da fibrosi cistica. Difatti, a partire dagli anni ’60, il numero degli americani affetti da anencefalia e spina bifida è visibilmente diminuito. Questo calo corrisponde all’aumento della diagnosi prenatale, ha spiegato Neumayr. E i medici che non avvertono le madri sui difetti dei feti corrono il rischio di essere denunciati. L’articolo riporta un estratto della pubblicazione Medical Malpractice Law & Strategy: “Alcune decisioni giudiziarie del Paese dimostrano che il maggiore ricorso alla diagnosi genetica ha maggiormente esposto i medici nella loro responsabilità per non aver avvisato i genitori delle patologie ereditarie”. Politiche consumistiche Non sono solo i nascituri ad essere a rischio. In un editoriale pubblicato nell’edizione del 17 aprile del Sunday Times di Londra, Brenda Power riporta il caso di Tristan Dowse, un bimbo di 3 anni adottato da una coppia irlandese, Joe e Lala Dowse, mentre viveva in Indonesia. La coppia aveva scelto l’adozione poiché non era riuscita a concepire un figlio. Tuttavia, due anni dopo Lala era riuscita ad avere un figlio per conto proprio. E quando la coppia decise di lasciare il Paese, scelse di lasciare anche Tristan, abbandonandolo in un orfanotrofio, che secondo la Power era gestito secondo politiche consumistiche. Sembra che, secondo la legislazione irlandese, ciò che questi genitori hanno fatto rientri nei limiti della legalità. Non tutte le notizie sono però negative. Continuano a verificarsi casi di madri che sacrificano la propria vita al fine di dare ai loro nascituri la possibilità di vivere. Tale è il caso di una donna italiana, Rita Fontana, riportato dal quotidiano La Repubblica lo scorso 26 gennaio. Già madre di due figli, Rita era in attesa del terzo quando le fu diagnosticato un melanoma. Lei si è rifiutata di sottoporsi a trattamenti che avrebbero potuto pregiudicare la vita del nascituro. Tre mesi dopo la nascita di Federico, la madre è morta. Il marito, Enrico, ha spiegato che per Rita era stato impossibile accettare l’idea di pregiudicare la vita del nascituro e diceva che sarebbe come uccidere uno degli altri due figli per salvare se stessa. Ed ha aggiunto che Rita aveva accolto il nuovo figlio come un dono e come un miracolo, e non come una condanna. E certamente non come un prodotto di consumo.
Benedetto XVI riassume la fede cristiana in due parole: “Gesù, amore” Il Papa ha sottolineato il legame tra questo sacramento e l’amore per Dio e per il prossimo rivolgendosi alle migliaia di pellegrini riunite nel cortile della residenza pontificia di Castel Gandolfo per recitare a mezzogiorno la preghiera mariana dell’Angelus. “Carità – in greco “ágape”, in latino “caritas” – non significa prima di tutto l’atto o il sentimento benefico, ma il dono spirituale, l’amore di Dio che lo Spirito Santo effonde nel cuore umano e che lo muove a donarsi a sua volta a Dio stesso e al prossimo”, ha affermato il Santo Padre. La sua meditazione cercava di approfondire l’Anno dell’Eucaristia, che si concluderà ad ottobre al termine del Sinodo dei Vescovi del mondo dedicato proprio a questo sacramento. “L'intera esistenza terrena di Gesù, dal concepimento alla morte in Croce, è stata un unico atto d'amore, tanto che possiamo riassumere la nostra fede in queste parole: ‘Jesus, caritas’ – Gesú, amore –”, ha spiegato il Papa teologo. Ricordando l’ultima cena, ha aggiunto che “nell'Eucaristia il Signore si dà a noi con il suo corpo, la sua anima e la sua divinità, e noi diventiamo una sola cosa con lui e tra noi”. Di fronte a questo mistero fondamentale della fede cattolica, il Vescovo di Roma ha esortato a rispondere “al suo amore” con una risposta espressa in “un’autentica conversione all’amore, nel perdono, nella reciproca accoglienza e nell’attenzione ai bisogni di tutti”. “Tante e molteplici sono le forme del servizio che possiamo rendere al prossimo nella vita di ogni giorno con un po' di attenzione”, ha proseguito. “L’Eucaristia diventa così la sorgente dell’energia spirituale che rinnova la nostra vita ogni giorno e rinnova così il mondo nell’amore di Cristo”, ha continuato il successore di Pietro. Perché le sue parole fossero più concrete, il Papa ha portato l’esempio dei santi, “che hanno tratto dall'Eucaristia la forza di una carità operosa e non di rado eroica”. In primo luogo ha menzionato san Vincenzo de’ Paoli, morto nel 1660, fondatore della Congregazione della Missione e delle Figlie della Carità, la cui memoria liturgica si celebrerà martedì. “Che gioia servire la persona di Gesù Cristo nelle sue povere membra!”, ha detto il Papa citando una frase del santo. Successivamente Benedetto XVI ha ricordato la beata Madre Teresa di Calcutta, fondatrice delle Missionarie della Carità, “che nei più poveri tra i poveri amava Gesù, ricevuto e contemplato ogni giorno nell'Ostia consacrata”. Il Papa ha infine constatato che “finalmente prima e più di tutti i santi, la carità divina ha trasformato il cuore della Vergine Maria”, come si è manifestato, ad esempio, nella sua visita alla cugina Elisabetta. “Preghiamo perché ogni cristiano, nutrendosi del Corpo e del Sangue del Signore, cresca sempre più nell'amore verso Dio e nel servizio generoso verso i fratelli”, ha concluso il Papa
Vita consacrata: guardando al futuro Ottobre 1965-2005:Il quarantennale del documento pontificio «Perfectae Caritatis» Tra i record del Vaticano II ce n'è anche uno che riguarda la vita consacrata. «Mai nessun Concilio ecumenico - ha ricordato ieri il prefetto della Congregazione per i religiosi, monsignor Franc Rodé - aveva parlato in maniera così diffusa e profonda di questo importante carisma nella Chiesa, costituendo così il punto di partenza da cui prese avvio la ricca riflessione che portò al sorgere della moderna teologia della vita consacrata». Il merito è anche del documento Perfectae Caritatis di cui alla fine di ottobre ricorrerà il quarantennale e che è da ieri sotto la lente di ingrandimento di un convegno organizzato dall'apposito dicastero della Santa Sede. Oltre 250 religiosi ed esperti provenienti da tutto il mondo sono riuniti nell'Aula sinodale in Vaticano. Ed è stato proprio monsignor Rodé ad aprire in mattinata i lavori, con uno sguardo panoramico ai quarant'anni trascorsi. «Uno sguardo - ha sottolineato il prefetto - che non può non mettere in risalto i molteplici aspetti positivi del cammino: dall'ampio orizzonte biblico che ha vivificato i fondamenti della vita consacrata, alla riscoperta della liturgia e della lectio divina; dalla vita fraterna che ha trovato freschezza e rapporti di autentica comunione, all'impegno con i poveri che ha portato i consacrati ad essere loro più vicini; dalla riconversione delle opere in favore dei nuovi bisogni dell'umanità, all'inserimento più convinto e propositivo nella Chiesa locale» Naturalmente non sono mancate quelle che il prefetto ha definito «tensioni polarizzanti». «Istituzione e carisma, separazione e presenza nel mondo, verticalismo e orizzontalismo, disciplina regolare e attività apostolica». Soprattutto ci si è chiesto se il vento di novità sia stato «un'evoluzione, un'involuzione o una rivoluzione». Oggi, ha concluso monsignor Rodé prima di dare la parola al cardinale Georges Cottier, rimane quanto mai attuale «l'istanza di un profondo rinnovamento fatta propria dai Padri Conciliari e rivolta a tutta la vita consacrata». Un'istanza che proprio il teologo della Casa Pontificia ha rimarcato e cercato di sviluppare nella sua relazione. Compito dei membri di una famiglia religiosa, ha detto, «è riscoprire il carisma genuino insito nell'intuizione del fondatore o della fondatrice». Questa intuizione, ha spiegato infatti Cottier, «viene da Dio». E anche se la fedeltà a tale carisma «non dev'essere imitazione meccanica, la voce dei fondatori risulta profetica». Nel campo delle vocazioni, poi, gli ordini devono mantenere «molta attenzione e discernimento». «Ci può essere la tentazione - ha ammonito il cardinale, che appartiene all'ordine dei domenicani - da parte di istituti con scarsità di vocazioni, di accogliere candidati per i quali l'entrata nella vita religiosa rappresenti un elemento di promozione sociale o l'uscita da una condizione di miseria, oppure che pensino così di risolvere i problemi affettivi». Naturalmente simili situazioni vanno evitate. Ad ogni modo, secondo il teologo della Casa Pontificia, «ogni forma di rinnovamento non avrà successo se non sarà accompagnata da un parallelo rinnovamento spirituale». Infine la questione dell'obbedienza. «Chi si trova in situazioni di frontiera - ha osservato il relatore - può percepire il proprio stato come una condizione di solitudine e di abbandono, e alcuni possono cadere nella tentazione di autoproclamare una qualifica di profeta». Contro questi «atti di imprudenza», secondo Cottier, «serve un dialogo aperto con i superiori, mentre i superiori devono ascoltare i sottomessi e far sì che obbediscano spontaneamente e volontariamente». Il simposio si chiuderà oggi con la Messa nella Basilica di San Pietro, dopo un attento esame della situazione della vita consacrata nei diversi continenti.
Frère Roger Schutz, Taizé e il candore del sogno ecumenico Lo sguardo. Uno sguardo limpido, da cui sembrava scaturire una serena, invincibile forza interiore. E poi la voce. Chiara e affascinante. Da profeta, ma senza furori ideologici. In quello sguardo e in quella voce c’era tutta l’utopia di Taizé, il sogno di una comunità ecumenica sorta negli anni della Seconda guerra mondiale, dopo secoli di incomprensioni. Uomo di pace, Frère Roger è morto di morte violenta, ucciso da una squilibrata il 16 agosto scorso, mentre – come ogni sera – pregava con gli altri monaci e con centinaia di giovani nella chiesa di Taizé. Era nato il 12 maggio del 1915, in un paesino dello Jura svizzero. Dal padre, pastore protestante, e dalla nonna, aveva ereditato la passione per la ricerca spirituale e l’impegno ecumenico. Dopo gli studi di teologia a Losanna e a Strasburgo, aveva avuto l’intuizione di una nuova forma di vita, di una comunità monastica senza barriere confessionali, aperta ai venti e alle speranze della storia. E così nacque Taizé. Con un piccolo gruppo di compagni, Roger Schutz – ormai, per tutti, "frère Roger" – si stabilì nel villaggio che avrebbe dato il nome alla sua comunità. Era il 1940. L’umanità sprofondava in un abisso di orrore. Ma sulle colline di Borgogna, non lontano da Cluny e da Vézelay (dove san Bernardo aveva predicato la seconda crociata), si gettavano semi di riconciliazione e si preparava quella che Giovanni XXIII avrebbe definito «la piccola primavera di Taizé». Gli inizi non furono facili: l’ideale ecumenico destava ancora sospetti e diffidenze tra i cristiani di ogni confessione. «Volevamo essere non più di quindici», raccontava frère Roger. Quindici monaci, testimoni di un vivere alternativo, contestatori silenziosi delle logiche mondane che rischiavano di intrappolare il vento dello Spirito. Sessantacinque anni dopo, i fratelli di Taizé sono un centinaio, cattolici e protestanti, di venticinque nazioni diverse. Presenti in Asia, Africa, America Latina, accanto ai poveri, ai bambini di strada, ai carcerati, ai moribondi. E sulla collina di Taizé arrivano ogni anno migliaia di giovani dal mondo intero. Da realtà marginale, la comunità si è trasformata ormai in un’istituzione riconosciuta e apprezzata anche fuori dai confini delle Chiese. E se il carisma delle origini ha perso la sua carica rivoluzionaria, Taizé resta un punto di riferimento sicuro per chi è alla ricerca dell’essenziale. «Si va a Taizé come a una sorgente», diceva Giovanni Paolo II. Una sorgente o un faro per la generazione del Concilio, per quanti cercavano negli scritti di frère Roger il nutrimento di una fede che sapesse coniugare «lotta e contemplazione» (titolo di uno dei suoi libri più noti), impegno sociale e preghiera silenziosa, coltivando l’utopia di un mondo in cui «anche il deserto fiorirà». Negli anni della contestazione giovanile, la comunità diventa una specie di Woodstock della fede, luogo di dibattiti, di creatività e di allegra confusione, in una Babele delle lingue che sembra prefigurare l’avvento di una nuova Europa. Per tanti giovani cristiani andare a Taizé è come un rito di passaggio, tappa obbligata, prima delle scelte decisive: la scoperta di una fede on the road, fatta di viaggi in autostop con zaino e sacco a pelo, di veglie al chiaro di luna e interminabili discussioni. Nel 1974, Taizé lancia il Concilio dei giovani e quattro anni dopo il Pellegrinaggio di fiducia sulla terra, incontri itineranti che anticipano la Giornata mondiale della gioventù e che diventano un appuntamento fisso per migliaia di persone. Brevi meditazioni bibliche, canti semplici, a canone, in latino e in numerose altre lingue, impongono lo stile Taizé, fatto di interiorità e di sobrietà: una lingua franca immediatamente comprensibile, quale che sia la provenienza geografica e la formazione culturale dei partecipanti ai raduni della comunità. Poi la svolta. Sta cambiando lo spirito del tempo. Ai sogni di una società nuova, subentrano la disillusione e il riflusso. Nel mondo cattolico prevale il vocabolario della nuova evangelizzazione: la parola d’ordine non è più «dialogo», bensì «identità». E anche negli scritti di frère Roger l’accento cade sulla contemplazione, relegando in secondo piano la lotta. Con le sue lettere ai giovani, scritte ogni anno da un Paese diverso, il vecchio monaco dallo sguardo limpido e dalla voce di profeta accompagna l’evoluzione della Chiesa e il cammino di Taizé, con la sua identità più marcatamente cattolica, ma non per questo meno ecumenica. Frère Roger vuol parlare a tutti, perché «nell’intimo della condizione umana rimane l’attesa di una presenza, il silenzioso desiderio di una comunione e questo semplice desiderio di Dio è già il principio della fede». E se, talvolta, la teatralità dei gesti e la sapiente regia mediatica dell’istituzione-Taizé lasciano perplessi, la mitezza e la fede profetica del suo fondatore fugano ogni dubbio. Fino al tragico epilogo del mese scorso. (Piero Pisarra, Jesus n. 9)
I cistercensi rieleggono l’Abate generale Si tratta del catalano Mauro Esteva Alsina Il Capitolo Generale dell’Ordine Cistercense (www.ocist.org) si è chiuso a Roma con la rielezione dell’Abate generale, Padre Mauro Esteva Alsina , del monastero catalano di Poblet. E’ stato rieletto anche padre Meinrad Tomann come Procuratore generale dell’Ordine. Fra Lluc Torcal, Segretario del Capitolo Generale, ha spiegato che nel Capitolo svoltosi recentemente presso il “Salesianum” di Roma è stata introdotta una novità: “Gli Abati presidenti di ogni congregazione, oltre a spiegare lo stato della propria congregazione, hanno fatto una presentazione digitale–audiovisiva dei monasteri che la compongono, una cosa che è stata molto ben accolta e che ha permesso ai monasteri e alle comunità di conoscersi”. Il Capitolo Generale ha affrontato la sfida posta dalle vocazioni, già trattata nel Capitolo del 2000, così come il tema dell’identità monastica e cistercense. Lluc Torcal ha aggiunto inoltre che “le relazioni proposte ai padri e alle madri capitolari hanno trattato temi come le fonti evangeliche della vocazione, la formazione continua, il munus docendi dell’Abate (il ministero dell’insegnamento), soprattutto in relazione alla regola”. Tra gli altri temi, sono stati discussi “la diversa valutazione dei gradi del Magistero, il voto di povertà, la visita canonica regolare, la liturgia, la risposta dell’ordine alle nuove comunità di giovani che vogliono entrare e il legame con i laici di spiritualità cistercense”. Nel mondo ci sono 1.499 monaci cistercensi (696 dei quali sacerdoti) e 883 monache cistercensi. L’Ordine cistercense affonda le proprie radici nel monachesimo benedettino, soprattutto nell’abbazia di Citeaux (Cister), presso Lione, fondata nel 1098. Tra i suoi grandi promotori figurano Stephen Harding, terzo Abate di Citeaux, autore della “Carta caritatis” (ca. 1120), e san Bernardo di Chiaravalle (1091-1153), che ha portato questo movimento di rinnovamento spirituale ad una dimensione realmente sovranazionale.
Il Cardinale Saraiva Martins sui nuovi riti di Beatificazione approvati dal Papa Lo scopo: più differenziazione dai riti di Canonizzazione, e maggiore visibilità alle Chiese locali Benedetto XVI ha deciso di non presiedere più di persona i riti della Beatificazione, come avviene dal 1971, per differenziare maggiormente quest’ultimo dal rito di Canonizzazione e per dare maggiore risalto alle Chiese locali promotrici delle Cause e che hanno dato origine ai Servi di Dio di cui sono state appurate le virtù eroiche. Queste le spiegazioni date dal Cardinale José Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, in un articolo apparso questo giovedì sul quotidiano vaticano “L’Osservatore Romano” in cui illustra i diversi punti contenuti in una comunicazione della Congregazione delle Cause dei Santi sui riti di Beatificazione e Canonizzazione approvati dal Benedetto XVI “Fermo restante che la Canonizzazione, che attribuisce al Beato il culto per tutta la Chiesa, sarà presieduta dal Sommo Pontefice, la Beatificazione, che è sempre atto pontificio, sarà celebrata da un rappresentante del Santo Padre, che di norma sarà il Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi”, si legge nella comunicazione della Congregazione delle Cause dei Santi , pubblicata sempre da “L’Osservatore Romano” e firmata dal Cardinale Saraiva Martins e dall’Arcivescovo Edward Nowak, Segretario di questa stessa Congregazione. Il porporato portoghese ha chiarito che la decisione risponde ad alcune esigenze: “a) sottolineare maggiormente nelle modalità celebrative la differenza sostanziale tra Beatificazione e Canonizzazione, b) coinvolgere più visibilmente le Chiese particolari nei riti della Beatificazione dei rispettivi servi di Dio”. Infatti, la consuetudine del Romano Pontefice di presiedere personalmente il rito della Beatificazione, introdotta da Papa Paolo VI quando nel 17 ottobre 1971 iscrisse nell’albo dei Beati il sacerdote polacco Massimiliano Kolbe, “ha praticamente attenuato agli occhi del popolo la sostanziale differenza che intercorre tra i due istituti” della Beatificazione e Canonizzazione, ha spiegato. Durante il suo pontificato, Giovanni Paolo II ha presieduto la Beatificazione di ben 1.338 Servi di Dio. Il Cardinale Saraiva Martins ha sottolineato quindi la necessità che nei riti di Beatificazione “appaia evidente come ogni Beatificazione sia un atto del Romano Pontefice, il quale permette (“facultatem facimus” così nell’attuale formula di Beatificazione) il culto locale di un Servo di Dio, rendendo pubblica la sua decisione mediante una Lettera apostolica”. Già il 14 maggio di quest’anno, nella Basilica di San Pietro il Cardinale Saraiva Martins aveva dato lettura della Lettera apostolica con la quale il Papa concedeva il titolo di Beate alla statunitense Marianne Cope (1838-1918), e alla spagnola Ascensión del Corazón de Jesús (1868-1940). Così come il 18 giugno scorso il Cardinale Józef Glemp, Arcivescovo diocesano e Primate di Polonia, aveva presieduto a Varsavia i riti di Beatificazione di tre sacerdoti polacchi. Mentre nel primo millennio della Chiesa il culto dei Martiri e dei Confessori era regolato dalle diverse Chiese locali, è nel secolo XIV che va rintracciata l’origine della Beatificazione, quando cioè la Santa Sede cominciò ad autorizzare dei culti limitati ad alcuni luoghi e Servi di Dio, la cui causa di Canonizzazione non aveva ancora avuto termine. La concessione dei culti limitati ad opera del Papa continuarono anche dopo l’istituzione nel 1588 della Congregazione dei Riti ad opera di Sisto V, fino a confluire nella normativa vigente del 1983, rappresentata dalla Costituzione apostolica “Divinus Perfectionis Magister” circa la nuova legislazione per le cause dei santi voluta da Giovanni Paolo II. In particolare, spiega il Cardinale Saraiva Martins, la Canonizzazione rappresenta “la suprema glorificazione da parte della Chiesa di un Servo di Dio”, “con un pronunciamento a carattere decretatorio, definitivo e precettivo per tutta la Chiesa”. Mentre la Beatificazione consiste nella “concessione di culto pubblico in forma indultiva e limitata ad un Servo di Dio, le cui virtù in grado eroico, ovvero il Martirio, siano state debitamente riconosciute”. Nel corso della storia recente della Chiesa la Beatificazione ha sempre preceduto la Canonizzazione, sebbene in passato vi sono stati rari esempi in cui la cerimonia di proclamazione a Santo è stata celebrata direttamente come avvenne per il Cardinale milanese, Carlo Borromeo, canonizzato nel 1610 senza essere prima Beatificato.
25 settembre 2005
Le ultime parole di Giovanni Paolo II: “Lasciatemi andare alla casa del Padre” Le ultime parole pronunciate da Giovanni Paolo II poco prima di morire il 2 aprile sono state “Lasciatemi andare alla casa del Padre”, in base alla cronaca ufficiale della sua morte pubblicata dalla Santa Sede. L’ultima edizione degli “Acta Apostolicae Sedis” (Libreria Editrice Vaticana), bollettino ufficiale del Vaticano, inizia con un racconto di poco più di quattro pagine in italiano – con introduzione in latino – contenente particolari sugli ultimi giorni di vita di Karol Wojtyla, dal 31 gennaio fino al certificato medico della sua morte. La cronaca del 2 aprile inizia alle 7.30, con la Messa celebrata in presenza del Santo Padre, “che cominciava a presentare un’iniziale compromissione della coscienza”. “Nella tarda mattinata egli riceveva per l’ultima volta il cardinale segretario di Stato e poi iniziava un brusco rialzo della temperatura”. “Verso le ore 15.30, con voce debolissima e parola biascicata, in lingua polacca, il Santo Padre chiedeva ‘Lasciatemi andare alla casa del Padre’. Poco prima delle 19 entrava in coma. Il monitor documentava il progressivo esaurimento delle funzioni vitali”, spiega il documento. “Secondo una tradizione polacca, un piccolo cero acceso illuminava la penombra della camera, ove il Papa andava spegnendosi”, affermano gli atti vaticani. “Alle ore 20 iniziava la celebrazione della Santa Messa della festa della Divina Misericordia, ai piedi del letto del Papa morente”. Il rito era presieduto dall’Arcivescovo Stanislaw Dziwisz, segretario particolare di Giovanni Paolo II, con la partecipazione del Cardinale Marian Jaworski, Arcivescovo di Leopoli dei Latini, dell’Arcivescovo Stanislaw Rylko, presidente del Pontificio Consiglio per i Laici, e di monsignor Mieczyslaw Mokrzycki, l’altro segretario del Papa. “Canti religiosi polacchi accompagnavano la celebrazione e si fondevano a quelli dei giovani e della moltitudine dei fedeli, raccolti in preghiera nella piazza San Pietro. Alle ore 21.37 Giovanni Paolo II si addormentava nel Signore”. Il decesso, constatato dal dottor Renato Buzzonetti, era accertato anche mediante l’esecuzione dell’elettrocardiotanatogramma protratto per oltre 20 minuti primi, come da norma vaticana, spiega la cronaca. “Subito accorsero a rendere omaggio al compianto Sommo Pontefice il Cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato; il Cardinale Joseph Ratzinger, decano del Collegio cardinalizio; il Cardinale Eduardo Martinez Somalo, Camerlengo di Santa Romana Chiesa, e vari membri della Famiglia pontificia”. Le notizie riportate dalla cronaca coincidono con quelle diffuse in quei giorni alla stampa da Joaquín Navarro Valls, direttore della Sala Stampa della Santa Sede. Il portavoce ha rivelato che il pomeriggio del giorno precedente, mentre la folla pregava per il Papa in piazza San Pietro, il Pontefice ha detto: “Vi ho cercato. Adesso voi siete venuti da me. E vi ringrazio”. Quel giorno, la vigilia della sua morte, come spiegano gli Atti, il Papa era “cosciente e sereno”. La mattina ha concelebrato la Messa e alle 7.15 “ascoltava la lettura delle 14 stazioni della Via Crucis e faceva il segno della croce per ogni stazione”. “Successivamente desiderava ascoltare la lettura dell’Ora Terza dell’Ufficio divino e di brani della Sacra Scrittura. La situazione era di notevole gravità, caratterizzata dall’allarmante compromissione dei parametri biologici e vitali”. “Il paziente, con visibile partecipazione, si associava alla continua preghiera di coloro che lo assistevano”. Il testo offre dettagli sulla malattia del Papa fino a questo momento sconosciuti. La situazione è precipitata il 31 marzo. “Poco dopo le ore 11 il Santo Padre, che si era recato in Cappella per la celebrazione della Santa Messa, era colto da un brivido squassante, cui seguiva una forte elevazione termica sino a 39,6°”, spiega il testo. “Quindi subentrava un gravissimo shock settico con collasso cardiocircolatorio, dovuto ad un’accertata infezione delle vie urinarie”, aggiunge. “Veniva rispettata l’esplicita volontà del Santo Padre di rimanere nella sua abitazione, ove era peraltro assicurata una completa ed efficiente assistenza”. “Nel tardo pomeriggio era celebrata la Santa Messa ai piedi del letto del Papa. Questi concelebrava con gli occhi socchiusi, ma, al momento della consacrazione, sollevava debolmente il braccio destro per due volte, cioè sul pane e sul vino”. “Accennava altresì il gesto di battersi il petto durante la recita dell’Agnus Dei. Il cardinale di Leopoli dei Latini (Marian Jaworski ndr) gli amministrava l’Unzione degli infermi. Alle ore 19.17 il Papa faceva la Santa Comunione. Successivamente chiedeva di celebrare l’ora eucaristica di meditazione e preghiera”. La cronaca raccoglie anche dettagli sui ricoveri del Papa al Policlinico Agostino Gemelli di Roma e sulle sue apparizioni in pubblico nonostante la sua fragilità. Viene descritta anche l’apparizione alla finestra del suo studio del 30 marzo, quando “benediceva la folla che, attonita e dolente, l’attendeva in piazza San Pietro”. “Fu l’ultima ‘statio’ pubblica della sua penosa Via Crucis”, conclude il testo. Il resto del volume degli “Acta Apostolicae Sedis” raccoglie tutti i documenti ufficiali del riconoscimento della sua morte, il suo testamento originale in polacco, la Messa di esequie del Santo Padre, il nome delle delegazioni che vi hanno partecipato e 150 pagine contenenti i messaggi di condoglianze inviati dai rappresentanti internazionali.
Il Papa all’Angelus: Santità ed Eucaristia… «Il presbitero deve essere prima di tutto adoratore e contemplativo dell’Eucaristia, a partire dal momento stesso in cui la celebra». “Mentre l’Anno dell’Eucaristia si avvia al termine, vorrei riprendere un tema particolarmente importante, che stava tanto a cuore anche al venerato mio predecessore Giovanni Paolo II: la relazione tra la santità, via e meta del cammino della Chiesa e di ogni cristiano, e l’Eucaristia. In particolare, il mio pensiero va quest’oggi ai sacerdoti, per sottolineare che proprio nell’Eucaristia sta il segreto della loro santificazione.” Con queste parole il Santo Padre Benedetto XVI ha introdotto la preghiera dell’Angelus recitato dal Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, domenica 18 settembre. Soffermandosi sul rapporto tra il sacerdote e l’Eucaristia, il Papa ha detto: “In forza della sacra Ordinazione, il sacerdote riceve il dono e l’impegno di ripetere sacramentalmente i gesti e le parole con i quali Gesù, nell’Ultima Cena, istituì il memoriale della sua Pasqua. Tra le sue mani si rinnova questo grande miracolo d’amore, del quale egli è chiamato a diventare sempre più fedele testimone e annunciatore. Ecco perché il presbitero dev’essere prima di tutto adoratore e contemplativo dell’Eucaristia, a partire dal momento stesso in cui la celebra. Sappiamo bene che la validità del Sacramento non dipende dalla santità del celebrante, ma la sua efficacia, per lui stesso e per gli altri, sarà tanto maggiore quanto più egli lo vive con fede profonda, amore ardente, fervido spirito di preghiera.” Il Papa ha poi citato alcuni esempi di Santi “che hanno attinto la forza dell’imitazione di Cristo dalla quotidiana intimità con lui nella celebrazione e nell’adorazione eucaristica”: San Giovanni Crisostomo, chiamato anche “dottore eucaristico” per la vastità e la profondità della sua dottrina sul santissimo Sacramento; San Pio da Pietrelcina, che celebrando la santa Messa “riviveva con tale fervore il mistero del Calvario da edificare la fede e la devozione di tutti”; San Giovanni Maria Vianney, parroco di Ars, “riuscì a fare di quel piccolo paese un modello di comunità cristiana animata dalla Parola di Dio e dai Sacramenti”. Infine Benedetto XVI ha invocato la particolare intercessione della Vergine Maria per i sacerdoti del mondo intero: “affinché traggano da questo Anno dell’Eucaristia il frutto di un rinnovato amore al Sacramento che celebrano… e possano sempre vivere e testimoniare il mistero che è posto nelle loro mani per la salvezza del mondo”.
Il Cardinal Ruini: no ai PACS, il sostegno alla famiglia deve essere la prima preoccupazione Il porporato consiglia altre strade del diritto per lasciare intatto l’istituto del matrimonio «Di fronte ad una persistente crisi della natalità i legislatori dovrebbero preoccuparsi maggiormente di sostenere la famiglia legittima piuttosto che dare un riconoscimento giuridico pubblico alle unioni di fatto». Così il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), Card. Camillo Ruini, nel corso della prolusione che ha aperto i lavori del Consiglio Episcopale Permanente in corso a Roma dal 19 settembre al 22 settembre, ha stigmatizzato le ipotesi e proposte di riconoscimento giuridico delle unioni di fatto, note come “PACS” (Patto civile di solidarietà) Il porporato ha da subito ricordato le parole pronunciate da Benedetto XVI nel discorso del 6 giugno scorso al Convegno della Diocesi di Roma dedicato alla famiglia: “Matrimonio e famiglia non sono … una costruzione sociologica casuale, frutto di particolari situazioni storiche ed economiche. Al contrario, la questione del giusto rapporto tra l’uomo e la donna affonda le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua risposta soltanto a partire da qui”. In quell’occasione il Papa aveva aggiunto: “Il matrimonio come istituzione non è quindi una indebita ingerenza della società o dell’autorità, l’imposizione di una forma dal di fuori nella realtà più privata della vita; è invece esigenza intrinseca del patto dell’amore coniugale e della profondità della persona umana”. In merito alle unioni di fatto, ha continuato Ruini citando ancora Benedetto XVI: “Le varie forme odierne di dissoluzione del matrimonio, come le unioni libere e il ‘matrimonio di prova’, fino allo pseudo-matrimonio tra persone dello stesso sesso, sono invece espressioni di una libertà anarchica, che si fa passare a torto per vera liberazione dell’uomo. Una tale pseudo-libertà si fonda su una banalizzazione del corpo, che inevitabilmente include la banalizzazione dell’uomo”. Il Presidente della CEI ha quindi ricordato in merito allo stesso tema la “Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita pubblica” pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, il 24 novembre 2002. Nella Nota della Congregazione vaticana guidata allora dal Cardinale Joseph Ratzinger le unioni di fatto venivano annoverate tra i “punti nodali nell’attuale dibattito culturale e politico”, e si affermava che alla famiglia fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso “non possono essere giuridicamente equiparate in alcun modo altre forme di convivenza, né queste possono ricevere in quanto tali un riconoscimento legale” (n. 4). Un’ampia trattazione di tutte queste problematiche è stata elaborata dal Pontificio Consiglio per la Famiglia nel Documento “Famiglia, matrimonio e ‘unioni di fatto’” pubblicato nel 2000. Specificamente, ha quindi ricordato Ruini, la Congregazione per la Dottrina della Fede nella “Nota dottrinale circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali” è intervenuta il 3 giugno 2003, “fornendo anche precise argomentazioni razionali in contrario e indicazioni circa i comportamenti dei politici cattolici”. Dopo aver sottolineato il grandissimo ruolo sociale svolto dalla famiglia in Italia il Presidente della CEI ha affermato che “il paradosso della nostra situazione è che il sostegno pubblico alla famiglia in Italia è invece molto minore, meno moderno e organico, pur in presenza di una gravissima e persistente crisi della natalità che sta già provocando, e causerà assai di più in futuro, ingenti danni sociali”. “Il sostegno alla famiglia legittima dovrebbe essere dunque la prima e vera preoccupazione dei legislatori”, ha sottolineato il porporato. Ruini ha constatato che “le convivenze o unioni di fatto sono sì in aumento, specialmente tra i giovani – pur restando a livelli decisamente inferiori che in altri Paesi –“, ma esse, “oltre ad essere almeno in parte provocate da difficoltà oggettive a dar vita a una famiglia che potrebbero essere rimosse con pubblici interventi adeguati, non sottintendono automaticamente alcuna richiesta di riconoscimento legale”. “Anche le, assai meno numerose, unioni omosessuali – ha rilevato il Vicario di Sua Santità per la Diocesi di Roma – non sempre sono alla ricerca di riconoscimenti legali: anzi, molte di loro ne rifuggono per principio e desiderano rimanere un fatto esclusivamente privato. Confermano tutto ciò i numeri davvero minimi delle iscrizioni ai ‘registri delle unioni civili’ in quei comuni italiani che hanno voluto istituirli”. Secondo il Presidente della CEI “per quelle unioni che abbiano desiderio o bisogno di dare una protezione giuridica ai rapporti reciproci esiste anzitutto la strada del diritto comune, assai ampia e adattabile alle diverse situazioni”. Ma qualora emergessero alcune ulteriori esigenze, specifiche e realmente fondate, “eventuali norme a loro tutela non dovrebbero comunque dar luogo a un modello legislativamente precostituito e tendere a configurare qualcosa di simile al matrimonio, ma rimanere invece nell’ambito dei diritti e doveri delle persone. Esse pertanto dovrebbero valere anche per convivenze non di indole affettivo-sessuale”. Ruini ha ricordato che la Costituzione Italiana, nell’art. 29, “intende con univoca precisione la famiglia come ‘società naturale fondata sul matrimonio’ e ne riconosce i diritti. Per conseguenza, ha spiegato, la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato che la convivenza more uxorio (convivenza tendente ad imitare l’unione matrimoniale, ndr) non può essere assimilata alla famiglia, così da desumerne l’esigenza di una parificazione di trattamento”. Il Cardinale Vicario di Roma ha precisato che “ben diversa è la direzione in cui procedono i “PACS” istituiti in Francia, ai quali spesso ci si richiama, e, in maniera purtroppo ancora più marcata, varie proposte di legge presentate nel nostro Parlamento, una delle quali sottoscritta da 161 Deputati e poi da 49 Senatori”. In merito a tali proposte di legge, il Cardinal Ruini ha ribadito: “Al di là del nome diverso e di altre cautele verbali, esse sono infatti modellate in buona parte sull’istituto matrimoniale e prefigurano quello che si potrebbe chiamare un ‘piccolo matrimonio’: qualcosa cioè di cui non vi è alcun reale bisogno e che produrrebbe al contrario un oscuramento della natura e del valore della famiglia e un gravissimo danno al popolo italiano”.
Benedetto XVI incontra un “martire” vivente Il Papa ha ricevuto la visita del Vescovo Zef Simoni, dell’Albania Tra i 26.000 pellegrini che questo mercoledì 21 settembre hanno partecipato all’Udienza generale concessa da Benedetto XVI c’era monsignor Zef Simoni, 77 anni, ex Vescovo ausiliare di Shkoder, che ha subito la persecuzione del regime comunista in Albania. Il presule è giunto accompagnato dal fratello, sacerdote, e dalla sorella e fin dal primo momento ha spiegato che veniva a Roma per “vedere Pietro”, “la Pietra”. Prima dell’avvento del comunismo, l’Albania aveva circa 200 sacerdoti. Più di 70 vennero incarcerati. Otto persero la vita sotto tortura ed altri due a seguito delle sevizie subite. Quattro vennero uccisi senza processo e 19 morirono nei campi di sterminio. Monsignor Simoni, che è anche scrittore, è uno dei pochi sopravvissuti in vita: “Sono stato rinchiuso per dodici anni nel campo di Spac, una prigione che si può paragonare al campo nazista di Mauthausen. Si trovava vicino a una zona mineraria, in cui i detenuti erano costretti a un lavoro incessante e pericoloso. Molti, infatti, morirono”. Durante la prigionia, non potendo scrivere Simoni era solito memorizzare lunghi brani delle sue opere che recitava agli altri detenuti. Nella memoria del Vescovo albanese è rimasto anche il ricordo delle terribili torture inflitte ai sacerdoti perseguitati. “I prigionieri – ha ricordato – venivano sottoposti a scariche elettriche, dovevano camminare scalzi su piastre metalliche incandescenti o venivano messi a testa in giù in barili pieni di acqua gelida. La loro bocca veniva riempita di sale, oppure erano costretti a ingerire medicine dannose per il sistema nervoso”. “Ricordo che il sacerdote gesuita Gjon Karma fu seppellito vivo in una bara. Il francescano Frano Kiri rimase legato a un cadavere per alcuni giorni, fino a quando cominciarono a uscire i liquidi del morto. Altri furono impiccati, decapitati o affogati in una palude”, ha proseguito. “Con l’aiuto di Dio abbiamo solo cercato di essere fedeli a Cristo, alla Chiesa e alla nostra missione sacerdotale”, ha spiegato. “Mia sorella Cecilia ci ha aiutati quando eravamo in prigione – i due fratelli sono stati infatti arrestati –: ha saputo vivere eroicamente la sua fede anche in quegli anni bui”. “Oggi portiamo, davanti al Papa, nel cuore tanti nostri confratelli che sono stati massacrati, tante religiose e tanti laici che sono stati perseguitati perché non hanno rinnegato la Croce”. Monsignor Simoni è stato ordinato Vescovo da Giovanni Paolo II il 25 aprile 1993, in occasione del pellegrinaggio papale in Albania che ha fatto seguito all’avvenuta riconquista della libertà religiosa del 4 novembre 1990.
I medici dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù hanno “visitato” in cinque anni oltre quaranta Stati esteri Si è tenuta ieri, 21 settembre, presso l’Ospedale Bambino Gesù di Roma, la conferenza stampa in cui sono stati presentati alcuni progetti portati avanti dall’ospedale della Santa Sede negli ultimi anni grazie all’impegno dei medici e di tanti missionari che con pochi mezzi a disposizione sono riusciti a fare veri e propri “miracoli”. “Operatori di giustizia oltre che operatori di pace” li ha definiti il professor Francesco Silvano, Presidente del Bambino Gesù, in quanto cercano di sostenere le persone bisognose con opere caritative. Infatti, sono oltre quaranta gli Stati esteri i cui bambini, negli ultimi cinque anni, hanno ricevuto l'aiuto dell'Ospedale grazie ad un articolato programma di missioni caritative organizzate per effettuare visite specialistiche e interventi chirurgici dove c'è maggiormente bisogno. Solo nel 2005 sono stati interessati i territori di Cambogia, Ecuador, Etiopia, Madagascar, Myanmar, Repubblica Dominicana e Tanzania. A Dodoma, nuova capitale della Tanzania, l'Ospedale ha preso in carico l'organizzazione delle attività dei laboratori del “Villaggio della Speranza” che ospita bambini orfani, affetti dall'Aids, compresa l'attivazione, la messa in opera e l'implementazione delle apparecchiature, attraverso l'invio di personale specializzato. Si tratta di una vera e propria oasi di sollievo e di assistenza umana e sanitaria per i bambini in uno dei Paesi più poveri in assoluto. Medici, tecnici ed infermieri del Bambino Gesù hanno visitato e sottoposto a interventi terapeutici e chirurgici migliaia di bambini in aree del mondo dove manca la corrente elettrica, l'acqua, o dove le mine antiuomo falcidiano ogni giorno bambini, donne e uomini. Luoghi devastati dalle guerre, dalla fame e dalla sete o semplicemente aree del Pianeta dove se è difficile crescere per un bambino in buona salute, diventa quasi impossibile per uno malato. Luoghi dove patologie o piccole malformazioni che nei Paesi industrializzati sono facilmente curabili, possono portare all'emarginazione o alla morte. Non è un caso, dunque, che l'articolato programma di missioni caritative promosse all'estero dall'Ospedale porti il nome di "un reparto grande cinque continenti". Queste missioni umanitarie hanno toccato gli angoli più sperduti ma non si può dimenticare che c’è bisogno di assistenza sanitaria specializzata anche per i tanti bambini che vivono poco lontano dall'Italia. Azioni ad ampio raggio sono state condotte nei Paesi del bacino mediterraneo, dalla Libia alla Tunisia, all'Albania. Numerose anche le missioni nei luoghi delle povertà emergenti come i Paesi dell'Europa dell'Est e dell'Ex Unione Sovietica, dalla Romania alla Polonia, dalla Russia alla Bulgaria, alla Georgia. L'azione dei medici dell'Ospedale ha toccato anche l'Asia orientale e il continente africano: Cina, Bangladesh, Costa d'Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Ghana, Kenya, Eritrea.
18 settembre 2005
La fragilità del cristiano: incapacità a confrontarsi con relativismo, amoralismo e individualismo Afferma l’Arcivescovo di Bologna nel presentare la Nota pastorale al clero diocesano Nel presentare al clero locale la Nota pastorale “… finché non sia formato Cristo in voi" (Gal 4,19)”, l’Arcivescovo di Bologna, monsignor Carlo Caffarra, ha sottolineato che le fragilità di giudizio del cristiano moderno consistono nell’incapacità di sapere dare valide risposte alle sfide culturali del relativismo, dell’amoralismo e dell’individualismo. Parlando ai più di 400 sacerdoti, religiosi e diaconi della sua diocesi al termine della “Tre giorni del Clero” (10-12 settembre 2005), l’Arcivescovo Caffarra ha presentato il documento dottrinale-pastorale che verrà pubblicato ufficialmente il prossimo 4 ottobre, in occasione della festa di San Petronio, patrono di Bologna. Sulla scorta di quanto da lui già affermato nella prima Nota pastorale del 2004 circa “la missione della Chiesa come missione generativa, educativa della persona umana”, monsignor Caffarra ha affermato da subito che la missione della Chiesa può essere pensata attraverso delle categorie pedagogiche e deve consistere nella “rigenerazione dell’umanità di ogni uomo” e nell’ “introdurre ogni uomo in Cristo perché in Lui realizzi pienamente se stesso”. Nel documento Caffarra delinea una diagnosi sulle fragilità di cui soffre oggi il soggetto cristiano e in particolare i giovani”: “La debolezza o (perfino) l'incapacità di giudizio è dovuta alla debolezza o (perfino) all'incapacità dello stesso soggetto a rispondere alle sfide culturali fondamentali che gli sono rivolte”, da lui rintracciate nel “relativismo”, nell’ “amoralismo” e nell’ “individualismo”. “Una prima pseudo-soluzione – annota l'Arcivescovo – è l'evasione dal confronto con queste sfide che assume genericamente il volto del fideismo”, ovvero “l’evasione in una fede solamente esclamata e non interrogata, solamente affermata e non pensata”. “La seconda pseudo-soluzione (…) è la soluzione prassistica. Essa consiste nel pensare o praticare un confronto consistente solo nell'impegno sociale e/o politico. È questa una delle insidie più presenti nelle proposte formative fatte alle giovani generazioni, pensare che la loro formazione consista principalmente ed esclusivamente nell'impegnarli a fare qualche esperienza di volontariato”. La strada che la Chiesa deve seguire è perciò “il primo annuncio della fede” ad ogni uomo, “la riproposizione del messaggio fondamentale della nostra fede: Gesù Cristo, crocefisso e risorto, è l’unico salvatore dell’uomo”, ha affermato. L’Arcivescovo ha quindi indicato nei giovani i destinatari privilegiati del primo annuncio della fede: “La condizione spirituale in cui versano molti di loro è spesso caratterizzata dal fatto che non sono più capaci di tradurre in domanda consapevole le proprie esigenze più profonde”. “La forma più grave di violenza esercitata su di loro dalla cultura [si fa per dire] in cui vivono, è la proibizione di fare domande: costretti ad essere ragionevoli ma come se la verità non esistesse; costretti ad essere liberi ma come se il bene non esistess’; costretti a convivere ma come se l’amore non fosse possibile”. “L'elevato numero di suicidi giovanili è un fatto che non può essere ignorato o sottovalutato. Il nostro compito è aiutare i giovani a riformulare le grandi domande della vita”. L'Arcivescovo ha quindi richiamato diverse occasioni favorevoli per l’annuncio della fede nelle comunità parrocchiali: matrimoni, battesimi, malattia, perdita di persone care, rottura del vincolo coniugale. “Penso in primo luogo ai corsi di preparazione al matrimonio frequentati da un elevato numero di giovani; molti dei quali reincontrano la Chiesa dopo anni di distanza”, ha affermato. “Essi, non raramente inconsapevolmente, sentono che la decisione di sposarsi e l'esperienza dell'amore umano coinvolge profondamente il senso della loro vita. Sono dunque in un attitudine di attesa, di domanda”, che necessita una riformulazione dei corsi di preparazione al matrimonio in chiave di primo annuncio a partire dalla “fondamentale esperienza dell'amore”. “Altra occasione privilegiata è la richiesta del Battesimo per i propri figli fatta da genitori che hanno abbandonato la loro appartenenza alla Chiesa. La nascita di un figlio, la paternità e la maternità sono esperienze che coinvolgono profondamente la persona umana”. “Questa dimensione antropologica del sacramento del Battesimo è la via sulla quale deve camminare l'annuncio primo della fede cristiana”, ha detto rivolgendosi al clero della diocesi di Bologna. “Ma l'occasione forse più propizia per l'annuncio è offerta dalle situazioni di sofferenza: malattia, perdita di persone care, rottura subita dal vincolo coniugale”, ha osservato. “La sofferenza stessa oggi è diventata sempre più un enigma insolubile – ha aggiunto monsignor Caffarra –. E’ essa la provocazione più radicale fatta al discepolo del Signore di mostrare la potenza significativa del Vangelo”. “Più precisamente di ciò che ne costituisce il suo nucleo essenziale – la morte e risurrezione di Cristo – (…) O questo è capace di incontrare l’uomo nella sofferenza o Cristo è morto invano. Che nessun discepolo renda vana la Croce di Cristo!”, ha esclamato. Nel concludere l’Arcivescovo ha quindi toccato le implicazioni pastorali dell’annuncio del Vangelo e della sua ricezione nella società attraverso la “forza dell’affezione” con cui le persone vi aderiscono. “L'annuncio della fede o è attraente o è inefficace; esso deve essere dotato di una sua intrinseca bellezza – ha ricordato –. Che il Signore ci liberi e ci protegga da un annuncio evangelico noioso e brutto”. “L’annuncio della fede diventa inefficace se non sa far fronte alle due sfide dell’affetto e della comunione”, ha poi concluso.
«Per farsi annunciatori della Parola di Dio bisogna prima ascoltarla» Così ha detto Benedetto XVI nell’udienza ai partecipanti al Congresso su “La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa” Per potersi fare annunciatore del Cristo vivente nelle Sacre Scritture e non di “una sua propria sapienza” il cristiano deve prima farsi attento ascoltatore della Parola di Dio, ha affermato Benedetto XVI. Queste le parole pronunciate dal Papa durante l’udienza concessa il 14 settembre nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, ai partecipanti al Congresso Internazionale su “La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa” in corso di svolgimento a Roma, a 40 anni dalla promulgazione della Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione Dei Verbum del Concilio Vaticano II. L’incontro sulla pastorale biblica, che conta più di 400 partecipanti da 100 Paesi, in corso presso l'Aurelia Convention Center, è organizzato dalla Federazione Biblica Cattolica e dal Pontificio Consiglio per l'Unità dei cristiani. “Ringrazio di cuore tutti coloro che lavorano a servizio della traduzione e della diffusione della Bibbia, fornendo i mezzi per spiegare, insegnare e interpretare il suo messaggio”, ha esordito il Papa rivolgendo anche “un ringraziamento speciale” alla Federazione Biblica Cattolica “per la sua attività, per la pastorale biblica che promuove, per l’adesione fedele alle indicazioni del Magistero e per lo spirito aperto alla collaborazione ecumenica in campo biblico”. La Federazione Biblica Cattolica è stata fondata da Papa Paolo VI nel 1969, dietro iniziativa del Cardinale Agostino Bea, per accompagnare l’attuazione del capitolo VI della Dei Verbum ove si descrivono le linee pastorali perché la Bibbia diventi il libro di ciascun credente. E’ composta da 300 istituzioni affiliate presenti in 127 Paesi. All’inizio del proprio discorso il Pontefice, nel ricordare quando, da giovane teologo e consultore del Cardinale Josef Frings – l’allora Arcivescovo di Colonia – al Concilio Vaticano II, era stato testimone in prima persona alla elaborazione di questa Costituzione Dogmatica, ha sottolineato la chiave di lettura del documento posta nell’incipit: “In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia”. “Sono parole con le quali il Concilio indica un aspetto qualificante della Chiesa: essa è una comunità che ascolta ed annuncia la Parola di Dio. La Chiesa non vive di se stessa ma del Vangelo e dal Vangelo sempre e nuovamente trae orientamento per il suo cammino”, ha affermato. “È una annotazione che ogni cristiano deve raccogliere ed applicare a se stesso: solo chi si pone innanzitutto in ascolto della Parola può poi diventarne annunciatore”, ha osservato. “Egli infatti non deve insegnare una sua propria sapienza, ma la sapienza di Dio, che spesso appare stoltezza agli occhi del mondo (cfr 1 Cor 1, 23)”, ha quindi aggiunto. Il Pontefice ha quindi raccomandato di non tralasciare “l’antica tradizione della Lectio divina: l’assidua lettura della Sacra Scrittura accompagnata dalla preghiera realizza quell’intimo colloquio in cui, leggendo, si ascolta Dio che parla e, pregando, Gli si risponde con fiduciosa apertura del cuore (cfr DV 25)”. Il Papa ha quindi incoraggiato di fare della Lectio Divina un punto fermo della pastorale biblica, affermando che “questa prassi, se efficacemente promossa, recherà alla Chiesa - ne sono convinto - una nuova primavera spirituale”. “Mai si deve dimenticare che la Parola di Dio è lampada per i nostri passi e luce sul nostro cammino”, ha concluso.
Primo Congresso Mondiale degli Oblati Benedettini: I rappresentanti di 24.000 Oblati sparsi nel mondo rifletteranno sul tema “Comunione con Dio, Comunione con il mondo” Dal 19 al 25 settembre, voluto dall’Abate Primate dei Benedettini, Notker Wolf, si terrà a Roma il primo Congresso Mondiale degli Oblati secolari: i laici che hanno scelto di affiliarsi ad uno dei 1.196 Monasteri Benedettini, maschili e femminili, sparsi in tutto il mondo. E’ attesa la presenza di 300 persone in rappresentanza di circa 24.000 oblati che risiedono prevalentemente in Europa e negli Stati Uniti, ma anche in America Latina, Africa, Asia e Australia. Nel suo invito a partecipare al Congresso, che si svolgerà presso il “Salesianum” in Via della Pisana, Padre Wolf scrive: ”è stata una mia idea, dopo aver conosciuto un numero grande e crescente di oblati in tutto il mondo. Ho pensato che dovrebbe essere interessante trovarsi tutti insieme per parlare e imparare l’uno dall’altro.” Nell’intendimento dell’Abate Primate, il Congresso dovrebbe fornire quindi l’occasione per ripercorrere un cammino di scoperta e di proposta universale dei valori cristiani , in continuità con la ricerca che caratterizzò la vita di San Benedetto. Il Congresso, il cui tema è “Comunione con Dio - Comunione con il mondo”, sarà centrato sul confronto delle molteplici modalità di espressione del carisma benedettino. Fedeli al motto “Ora et labora”, i 7 giorni del Congresso saranno scanditi da momenti di preghiera (Lodi, Liturgia Eucaristica e Vespri) e dall’ascolto delle conferenze e dal confronto nei gruppi di lavoro. Ci saranno anche altre interessanti occasioni di incontro: un concerto serale tenuto dall’Abate Primate Notker Wolf (flauto traverso) e da suor Celina Galinyte, della Lituania (violino); il pellegrinaggio a Montecassino, culla del Monachesimo Benedettino; la visita a Castel Gandolfo per l’incontro con il Papa. Come è noto, nel 1964, San Benedetto è stato proclamato “Patrono d’Europa” da Papa Paolo VI. Il nome che ha assunto il Cardinale Ratzinger di Papa Benedetto XVI è un segno di valore inestimabile per l’Europa ed il mondo. Il messaggio benedettino ricorda infatti l’inevitabile radice storico cristiana del nostro continente. Parteciperanno al Convegno, per i momenti liturgici: il Card. Crescenzio Sepe Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli; Sua Ecc. Mons. Piero Marini, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie e Oblato dell’Abbazia di S. Giorgio, Venezia; Sua Ecc. Mons. Franc Rodé, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica; Sua Ecc. Mons. Stanislaw Rylko Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici; Sua Ecc. Bernardo D’Onorio, O.S.B., Abate di Montecassino.
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