TESTI ATTUALITÀ

ANNO 2006

 

 

 


 

 

 31 DICEMBRE 2006

 

Perché Dio si è fatto uomo?

Il pensiero spirituale del Predicatore della Casa Pontificia.

«Andiamo diritti al vertice del Prologo di Giovanni che costituisce il vangelo della terza Messa di Natale, detta “del giorno”. Nel Credo c’è una frase che in questo giorno si recita in ginocchio: “Per noi uomini e per la nostra salvezza, discese dal cielo”. È la risposta fondamentale e perennemente valida alla domanda: “Perché il Verbo si è fatto carne?”, ma ha bisogno di essere compresa e integrata. La domanda infatti rispunta sotto altra forma: E perché si è fatto uomo “per la nostra salvezza”? Solo perché noi avevamo peccato e avevamo bisogno di essere salvati? Un filone della teologia, inaugurato dal beato Duns Scoto, teologo francescano, scioglie l'incarnazione da un legame troppo esclusivo con il peccato dell’uomo e le assegna, come motivo primario, la gloria di Dio: “Dio decreta l'incarnazione del Figlio per avere qualcuno, fuori di sé, che lo ami in modo sommo e degno di sé”.

Questa risposta, pur bellissima, non è ancora definitiva. Per la Bibbia la cosa più importante non è, come per i filosofi greci, che Dio sia amato, ma che Dio “ama” e ama per primo (cf. 1 Gv 4, 10.19). Dio ha voluto l'incarnazione del Figlio non tanto per avere qualcuno fuori fuori della Trinità che lo amasse in modo degno di sé, quanto piuttosto per aver qualcuno da amare in modo degno di sé, cioè senza misura!

A Natale, quando viene alla luce Gesù Bambino, Dio Padre ha qualcuno amare in misura infinita perché Gesù è uomo e Dio insieme. Ma non solo Gesù, anche noi insieme con lui. Noi siamo inclusi in questo amore, essendo diventati membra del corpo di Cristo, “figli nel Figlio”. Ce lo ricorda lo stesso Prologo di Giovanni: “A quanti l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”.

Cristo è dunque disceso dal cielo “per la nostra salvezza”, ma quello che l’ha spinto a scendere dal cielo per nostra salvezza, è stato l’amore, nient’altro che l’amore. Natale è la prova suprema della “filantropia” di Dio come la chiama la Scrittura (Tt 3,4), cioè, alla lettera, del suo amore per gli uomini. Questa risposta al perché dell’incarnazione era scritta a chiare nella Scrittura, dallo stesso evangelista che ha scritto il Prologo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16).

Quale deve essere allora la nostra risposta al messaggio del Natale? Il canto natalizio Adeste fideles dice: “Come non riamare uno che ci ha amato tanto?”. Si possono fare tante cose per solennizzare il Natale, ma la cosa più vera e più profonda ci è suggerita da queste parole. Un pensiero sincero di gratitudine, di commozione e di amore per colui che è venuto ad abitare in mezzo a noi, è il dono più squisito che possiamo dare al Bambino Gesù, l’ornamento più bello intorno al suo presepio.

Per essere sincero, però l’amore ha bisogno di tradursi in gesti concreti. Il più semplice e universale – quando è pulito e innocente – è il bacio. Diamo dunque un bacio a Gesù, come si desidera fare con tutti i bambini appena nati. Ma non accontentiamoci di darlo solo alla sua statuina di gesso o di porcellana, diamolo a un Gesù bambino in carne ed ossa. Diamolo a un povero, a un sofferente e lo abbiamo dato a lui! Dare un bacio, in questo senso, significa dare un aiuto concreto, ma anche una parola buona, un incoraggiamento, una visita, un sorriso, a volte, perché no?, un bacio reale. Sono le luci più belle che possiamo accendere nel nostro presepio». (Padre Raniero Cantalamessa, Zenit, 25 dicembre 2006)

  


 

Chiedendo di morire, Welby ha tradito i principi cristiani

Monsignor Fisichella spiega i motivi del no alle esequie religiose: «Con tristezza non abbiamo concesso le esequie cattoliche per Welby. È stato un atto di responsabilità e di fedeltà al nostro credo. Ma ciò non significa affatto che la Chiesa non preghi per lui, per la salvezza della sua anima, per i suoi congiunti che ora sono nel dolore». Il vescovo Rino Fisichella, rettore della Pontificia università Lateranense e cappellano della Camera dei deputati, spiega in questo modo il comunicato con cui il Vicariato di Roma ha negato i funerali a Piergiorgio Welby. Una decisione che ha suscitato polemiche e interrogativi, anche tra i fedeli.

Perché questo rifiuto?

«Quello di Piergiorgio Welby è diverso dai tanti casi di suicidio, nei quali è sempre estremamente difficile poter accertare le motivazioni e il grado di consapevolezza di chi si toglie la vita. Spesso questa consapevolezza non è certa. Per Welby, invece, era chiarissima: c’è stata un’ostinata reiterazione nel chiedere la propria morte, un’esplicita consapevolezza nel negare i principi fondamentali della fede cristiana riguardanti il valore della vita e il senso della sofferenza. Un cristiano non può accettare il principio dell’eutanasia che invece Welby ha fatto proprio e ha chiesto».

Mi scusi: non crede che anche nel suo caso ci si potesse interrogare sul grado di consapevolezza? In fondo si trattava di uomo provato da decenni trascorsi immobilizzato a letto...

«Non credo sinceramente che si possa dubitare sulla consapevolezza di Welby. Tutti coloro che lo hanno incontrato, che lo hanno visitato, hanno sempre potuto osservare la sua lucidità e la sua volontà, espressa ripetutamente, per iscritto. Lui stesso aveva detto che avrebbe preferito avere un funerale laico e credo che sia giusto rispettare la sua decisione».

Monsignore, la Chiesa non rischia così di sembrare poco misericordiosa?

«No, perché la Chiesa non cessa di pregare per Welby, per la salvezza della sua anima. Dobbiamo ben distinguere la decisione di non celebrare le esequie religiose dall’atteggiamento di condivisione del dolore di una famiglia, alla quale va il nostro affetto e la nostra preghiera. Ci appelliamo alla misericordia di Dio. La misericordia della Chiesa si esprime nella preghiera per l’anima di Welby e per i suoi congiunti. Bisogna però comprendere che noi dobbiamo essere fedeli ai contenuti costitutivi della nostra fede e così come non siamo autorizzati a dare la comunione a un fedele divorziato risposato, così non possiamo celebrare i funerali di una persona che in modo così chiaro e ripetuto ha dichiarato la sua volontà di porre fine alla propria vita, com’è alla fine accaduto».

C’è chi considera la negazione del funerale una risposta «politica» della Chiesa a una vicenda che è stata volutamente politicizzata.

«La Chiesa non si presta ad alcuna strumentalizzazione in questo senso. La nostra decisione, lo ripeto, è stata determinata dalla fedeltà alla fede che professiamo. Mi sembra che siano stati altri a strumentalizzare e politicizzare questa dolorosa vicenda, non senza qualche punta di cinismo. Vorrei però anche aggiungere che l’affidarsi alla misericordia di Dio pregando per Welby, in questo giorno di vigilia del Natale, festa di vita, diventa un annuncio di speranza anche per chi non condivide la nostra fede e per i tanti malati che si trovano nelle stesse condizioni di Welby ma vogliono continuare a vivere, sorretti dall’affetto di tante persone».

È stato riferito che prima di perdere coscienza Welby si è affidato alla misericordia di Dio.

«Non ne ero informato, ma se ciò è accaduto non posso che gioirne. Nel momento estremo e supremo della morte anche chi non crede avverte la nostalgia di Dio». (Andrea Tornielli, Il Giornale, 24dicembre 2006)

  


 

Quel confine oscurato dalla banalità del male

Se i risultati dell’autopsia confermeranno l’ipotesi di morte per arresto cardio-circolatorio, la Procura di Roma potrebbe archiviare l’indagine su Welby: il caso rientrerebbe infatti nei limiti previsti dalla legge italiana. Tutta l’eco mediatica e l’urgenza politica attribuite alla vicenda si dimostrerebbero dunque superflue: nessun vuoto legislativo, né norme crudeli e inesorabili che inchiodano un malato alla cura coatta. Come abbiamo ripetuto cento volte, il paziente ha, in qualunque momento, il diritto di rifiutare una terapia, anche se questo crea dilemmi etici laceranti. La sedazione, quando non abbia lo scopo di uccidere ma di evitare la sofferenza, è perfettamente legittima, e la dottrina cattolica la ammette da tempo.

Un simile esito della vicenda svelerebbe la natura esclusivamente ideologica e politica della campagna radicale: se avessero avuto a cuore solo il dolore di Piergiorgio Welby, i suoi compagni avrebbero potuto far intervenire il dottor Riccio fin dall’inizio, staccando, senza rischio di finire in galera, il tubo che permetteva al malato di respirare, e garantendo al loro amico almeno il sollievo dell’intimità.

Per la magistratura le cose saranno presto chiare, ma per l’opinione pubblica molto meno. È stata o non è stata eutanasia? E dove si situa il confine che divide la libertà di cura dal diritto a una "morte opportuna", come l’ha definita Welby? Per il giudice e il medico, la questione è tecnica: bisogna stabilire se la morte è avvenuta a causa della sedazione o per il semplice abbandono della terapia vitale; insomma, se la dose di analgesico somministrata al paziente è stata volutamente letale. Solo dalle prove materiali, le uniche che hanno accesso in un’aula di tribunale, si possono accertare le intenzioni. Perché è l’intenzione il sottile discrimine tra l’eutanasia e la volontà di interrompere la cura o alleviare il dolore, così come è sempre l’intenzione che determina la gravità penale di un delitto: la legge infatti distingue tr a omicidio colposo, doloso, o preterintenzionale. È evidente a chiunque che dare un pugno per uccidere non è come farlo solo per colpire, cedendo a uno scatto di rabbia; e prescrivere sonniferi per indurre il sonno è ben diverso dal fornirli per procurare la morte.

Ieri però Renato Mannheimer notava, sul Corriere della Sera, come la distinzione tra eutanasia e sospensione di un trattamento sia «di difficile comprensione per la maggioranza dei cittadini, tra cui prevale l’idea che si tratti sostanzialmente della stessa cosa». Infatti il termine "staccare la spina", che indica l’interruzione di una terapia, ha acquisito nel linguaggio comune il significato del gesto che dà la morte. Questa sovrapposizione spiega perché dai sondaggi emergano buone percentuali di consenso per l’introduzione di una legge sull’eutanasia. L’attenta regia radicale ha incanalato la battaglia su un doppio binario, alimentando la confusione: da una parte la rivendicazione del diritto a morire, e la richiesta esplicita di una "sedazione terminale" da parte di Welby; dall’altra un finale mantenuto sul filo della legge, una scelta medica minuziosamente calibrata (va notato che le richieste del paziente sulle modalità della fine non sono state esaudite), dichiarazioni normalizzanti del medico.

L’ingresso della tecnoscienza nella nostra quotidianità rende meno chiari i confini tra la vita e la morte, oscura le certezze del senso comune, e crea una pericolosa frattura tra il sapere medio e la possibilità di esprimere un giudizio autonomo. Illuminare le coscienze, oggi, vuol dire prima di tutto diffondere le conoscenze, dissipare la confusione, fare una paziente opera di chiarezza; se non facciamo questo, rischiamo di essere velocemente sommersi dalla banalità del male. (Eugenia Roccella, Avvenire, 28 dicembre 2006)

  


 

Ma la carità non si sacrifica alla verità

È costume del laicismo italiano dire alla Chiesa Cattolica quello che deve fare per essere cristiana. Forse ciò nasce dal riconoscimento del ruolo pubblico della Chiesa, forse invece è solamente un modo di combatterla. E la lezione del laicismo italiano è molto semplice: essi vogliono che la Chiesa sia carità senza verità.

Il maestro di questo pensiero è certamente Eugenio Scalfari, che invita i cattolici ad amare il diverso in quanto diverso. E ciò vuol dire una sola cosa: accettare la verità del diverso come propria verità. «Farsi tutto con tutti» dice San Paolo ed i laicisti italiani lo intendono così: per essere cristiani occorre accettare la verità dell'avversario e svuotarsi, ridursi, rimpicciolirsi.

Ciò è stata a lungo un'idea diffusa tra i cattolici progressisti e lo è tuttora.

Il priore di Bose che va per la maggiore, Enzo Bianchi, ha scritto un libro intitolato La differenza cristiana in cui egli esprime la stessa linea di Scalfari: essere cristiani significa alienarsi nella verità dell'altro, conformarsi.

Fortunatamente abbiamo un Papa che ha attraversato il Novecento con mente aperta e cuore libero e sa che il Dio che si definisce come carità è anche il vero Dio. Il Cattolicesimo è a suo modo la coincidenza dei contrari, come insegna Nicola Cusano, e non può pagare la carità al prezzo della verità. Lo prova l'esperienza più significativa del Cristianesimo: il martirio. Il martirio è esattamente il rifiuto di conformarsi all'altro al prezzo della propria vita. Conformarsi all'altro vuol dire rinunciare al Cristo e conformarsi ai poteri di questo mondo. La Chiesa Cattolica è stata la più perseguitata di tutte le chiese perché è rimasta legata alla sua verità: Gesù Cristo.

In genere queste critiche alla Chiesa vengono da sinistra e non credo che Giordano Bruno Guerri appartenga alla sinistra. Ovviamente c'è anche un laicismo di destra e sappiamo quanto consistente.

Se c'è una cosa che dovrebbe essere considerata di competenza ecclesiastica è l'amministrazione dei sacramenti. La Chiesa non dà i sacramenti senza condizione e quindi in riferimento alla verità di chi riceve il sacramento, della sua conversione. La Chiesa non giudica la coscienza di nessuno, sa che infine Dio conosce i suoi anche quando essa non li conosce. Il suffragio cristiano va all'anima di Piergiorgio Welby perché è battezzato ed ha diritto all'intercessione ecclesiale.

Il primo sentimento che il vescovo Fisichella ha espresso alla notizia della morte di Welby mediante l'interruzione dello strumento che lo manteneva vivo è stato di rispetto e di preghiera. Ma Welby ha legato la sua morte all'affermazione del principio del diritto a disporre della propria morte: e questo è un principio che la Chiesa non ritiene vero.

Il funerale pubblico significava un riconoscimento di un atto politico voluto esattamente per combattere la posizione della Chiesa. E siccome la Chiesa è legata dalla verità che professa non può concedere questo fatto. È il medesimo principio per cui i primi cristiani rifiutavano di dare onore divino agli imperatori romani. La Chiesa non ritiene di dover bruciare nemmeno un anello di incenso di fronte al dio del nostro giorno: l'opinione pubblica.

Il laicismo è dominante in Italia ed in Europa e vuole che la Chiesa diventi irrilevante applicando come assoluto il principio di compassione. Così la compassione diventa resa, presenta il Dio morto di compassione di cui ha parlato Zarathustra; o il «Gesù idiota» che rifiuta di riconoscere il male come Nietzsche che ha descritto l'anticristo.

È strano trovare che uno scrittore che aveva capito tutto annunciando la morte di Dio, tutto ciò che sarebbe stato il Novecento, ci venga ora riservito dagli atei colti come se non sapessimo il latino. La loro indignazione è violenta, ed essi ci comunicano «il sentimento di vergogna e di ripugnanza». La violenza della parola indica un'avversità profonda, quella che il Cristianesimo sempre suscita, e soprattutto il Cattolicesimo, in coloro che ne sentono il fascino e lo esprimono respingendolo con decisione.

Un amore alla vita che termina scegliendo la morte suscita rispetto ma non accettazione. È sempre il problema della carità della verità, una carità che il laicismo non gradisce ma che il Cattolicesimo non può non offrire perché Gesù Cristo ha detto di sé: «Io sono la Verità». (Gianni Baget Bozzo, Il Giornale, 24 dicembre 2006)

  


 

Eutanasia: la tecnica è sempre la stessa

La tecnica è sempre la stessa. Si individua un “caso pietoso”, lo si enfatizza quanto più possibile e lo si usa come grimaldello per scardinare la legislazione, soprattutto quando questa si ispira alla legge naturale e cristiana. È quanto sta accadendo con il “caso Welby”, di cui i fautori della cultura di morte si sono strumentalmente impadroniti per promuovere e legalizzare l’eutanasia, che non è altro che omicidio e/o suicidio “assistito”.

Così, l’astrofisica Margherita Hack, ostentando il suo ateismo militante, reclama «una legge sul modello di quella olandese, una legge altamente civile che rispetti la volontà del cittadino che non sopporta di prolungare inutilmente le sue sofferenze, e quella di coloro che non accettano doni da un dio in cui non credono» (Suicidio assistito, in “Micromega”, n° 8, 20 aprile 2006).

Accadde con il divorzio nel 1972 e con l’aborto nel 1978. L’opinione pubblica, scossa dai “casi pietosi” agitati dalla stampa di disinformazione, approvò quelle leggi per risolvere situazioni drammatiche ed eccezionali. Dopo pochi anni però l’eccezione è divenuta la regola e il divorzio e l’aborto sono oggi motivati da qualsiasi problema di ordine psicologico. Lo stesso accadrà inevitabilmente con il suicidio/omicidio, una volta legalizzato. Lo sterminio di massa, già in corso per gli innocenti nel grembo della madre, sarà esteso agli anziani, ai malati terminali, ai disabili gravi e sarà suggerito come la migliore soluzione per far fronte fronte agli alti costi economici che devono sopportare le famiglie con anziani a carico o figli che nascono con gravi anomalie.

Se bisogna riconoscere il diritto di suicidio a chi non vuol soffrire oltre un certo limite, bisognerà riconoscere questo diritto anche alla ragazza che soffre le pene amorose o al ragazzo bocciato ad un esame di università. Chi può giudicare infatti il peso di un esperienza interiore qual’è la sofferenza? Come dimenticare inoltre che le sofferenze morali sono spesso ben più lancinanti di quelle fisiche? Il suicidio è giusto, o non lo è. E se lo è, lo è senza eccezione. Esso resta l’atto con cui un uomo, di sua propria autorità, si dà volontariamente la morte. Questo gesto è il più folle di quelli che un individuo possa commettere. Folle al punto che spesso viene attuato in momenti di offuscamento delle facoltà mentali e l’uomo che lo compie non è consapevole e responsabile del suo gesto.

C’è un altro punto da chiarire: il suicidio assistito non ha niente a che vedere con il rifiuto dell’accanimento terapeutico. L’accanita conservazione della vita a tutti i costi non è comandata, né è raccomandabile, perché la vita non è il bene supremo degli uomini e, secondo il Vangelo, «chi ama la sua vita la perderà» (Mt, 10, 39; Gv, 12, 25). È lecito dunque rifiutare quelle cure mediche straordinarie che oggi vanno sotto il nome di “accanimento terapeutico”. Ma il rifiuto dell’accanimento terapeutico è ben diverso dalla ricerca volontaria e diretta della morte che si compie con l’eutanasia.

Piergiorgio Welby avrebbe avuto il diritto di rifiutare l’uso delle macchine per rimanere in vita. Questa decisione avrebbe potuto accelerare la sua fine ma non avrebbe avuto come conseguenza diretta e immediata la morte. Nessun medico sarebbe stato in quel caso un omicida, né Welby un suicida. Il medico che oggi staccasse la spina sarebbe invece colpevole di morte direttamente procurata. Nessun fine, nessuna intenzione, può giustificare un atto che è in sé oggettivamente iniquo. E ogni atto oggettivamente finalizzato a procurare la morte di sé o di altri viola uno di quei principi irrinunciabili della nostra civiltà che non solo discendono dal Decalogo, ma sono radicati nella coscienza sociale di tutti i popoli. (CR-Corrispondenza romana,  973/01 del 23/12/06)

  


 

Io, ebreo, davanti al presepio

In questi giorni per gli ebrei è Hanukkah, la festa delle luci. Intorno le luci di Natale. Ma a scuola i miei figli non incontrano un'esperienza religiosa diversa. Trovano soltanto Babbo Natale con una slitta carica di giocattoli e di luoghi comuni multiculturali. Non devo spiegare loro chi era Gesù e cos'è il cristianesimo, bensì difendere la loro esperienza religiosa dall'assedio del consumismo, o arrabattarmi a spiegare l'insipida storiella di Natale raccontata a scuola: la storia di un bambino italiano, svedese o musulmano (ma musulmano è una nazionalità?) che diventa un bambino qualsiasi per non far torto a nessuno. Mi si potrebbe chiedere cosa mai pretenda. Rimpiango forse i tempi della mia fanciullezza, in cui circolava abbondantemente l'antigiudaismo? Tempi in cui potevo incontrare un sacerdote che spiegava alla classe che gli ebrei erano crudeli deicidi e, carezzandomi la testa, aggiungeva che io, poverino, non c'entravo, dopodiché nessuno voleva più sedere nel banco con me. Non li rimpiango, apprezzo il grande cammino percorso e non sono di quei masochisti che preferiscono non vederlo mentre amano farsi torturare dall'antisemitismo islamico. Quel che voglio lo vedo tangibilmente - per esempio - nel rapporto con gli amici di Comunione e Liberazione: un chiaro e dignitoso senso della propria identità, rispettoso di quella altrui, senza sincretismi e senza tentativi di conversioni, obliqui o invadenti che siano. Un atteggiamento che è la chiave dell'unico dialogo possibile, quello così ben spiegato da Benedetto XVI nel discorso alla sinagoga di Colonia. È un atteggiamento che ho appreso da mio padre in quei tempi in cui era più difficile assumerlo: tanto egli era rigoroso nel contrastare ogni sussulto antiebraico, quanto era tenace nel difendere più che la possibilità, la necessità del dialogo ebraico-cristiano. Da lui ho appreso - e vorrei trasmettere ai miei figli - a ravvisare nelle preghiere cristiane e nella messa le frasi e le benedizioni delle ricorrenze ebraiche, a scoprire che la benedizione ebraica impartita dai genitori ai figli («Il Signore ti protegga e ti custodisca») è la stessa di san Francesco a Frate Leone. La propria identità religiosa non rischia nulla nel cercare quel che unisce, nel riconoscere che «non si può essere cristiani se non si è ebrei» (come ha detto il cardinale Caffarra) e che la prima esperienza religiosa con cui un ebreo deve misurarsi e con cui deve dialogare è quella cristiana. Il dialogo non è soltanto reso impossibile dagli atteggiamenti di sopraffazione integralista, ma è vanificato dal buonismo confusionario che, alla fine, svela più intolleranza di quanto sembri. Ho incontrato questo secondo atteggiamento alla fine della mia vita scolastica, quando nel mondo religioso avanzava il progressismo. Il docente di religione nel mio liceo era un sacerdote molto «avanzato», poi divenuto redattore di un giornale comunista. Mi propose di restare nell'ora di religione per «dialogare». Poi quando vide che difendevo senza complessi le mie vedute, mi invitò seccamente a non disturbare le lezioni… Aveva creato attorno a sé un circolo di adepti assai motivati, molto (troppo) pervasi di una sicurezza di sé che respingeva la mia identità di ebreo non meno drasticamente dei più incalliti integralisti. Colpiva il modo in cui trasformavano l'esperienza religiosa in un'esperienza meramente sociale. Una decina di anni fa assistetti in Spagna al matrimonio cattolico di una coppia di amici. Un prete alquanto informale eseguì il rito in modo casereccio, fino a che lo sposo non salì dietro l'altare e tenne una specie di conferenza colloquiale per spiegare il significato del rito secondo le vedute più «progredite». Finì con una chitarrata. Espressi a qualcuno il mio disappunto sollevando un'ondata di ilarità: un ebreo che assumeva le vesti del cattolico tradizionalista… Tentavo di spiegare che un rito assume valore se è circondato da un'atmosfera di intensa partecipazione e di silenzioso e assort o rispetto e che perdere questa dimensione è quanto distruggere l'esperienza religiosa alle radici. Non apprezzo la confusione chiassosa delle sinagoghe romane: malgrado ciò, nel momento della benedizione finale del giorno di Kippur, quando i figli si raccolgono sotto il manto di preghiera dei genitori, si crea un silenzio irreale, su cui si staglia soltanto la voce del rabbino celebrante, davvero «la voce del silenzio». I riti religiosi hanno bisogno di questi momenti di intensità. Assistendo a una messa ho sempre evitato l'atteggiamento del curioso, cercando di capire l'esperienza religiosa e i sentimenti dei fedeli. Non vi è nulla da rimproverare alle forme più o meno mondane di socializzazione, ma è incongruo e insensato surrogare con esse l'esperienza religiosa. Inoltre, chi pretende di creare questi surrogati tende a conferire alle sue pratiche la sacralità della funzione originale e ad assumere atteggiamenti arroganti e intolleranti tipici dell'integralismo. Visto che si considera investito del potere di tradurre i riti della sua fede nelle forme socializzate da lui decise, figuriamoci quale rispetto può avere per le fedi altrui. Un giorno pranzai con uno di questi sacerdoti iperprogressisti che mi spiegò con sussiego e sdegno che l'ebraismo era una religione rozza e brutale e che il cristianesimo, pur avendo fatto qualche progresso, aveva ancora molto da apprendere da una religione tanto più evoluta come l'islam… Non poteva darsi una manifestazione più clamorosa di odio di sé. Non rimpiango un certo passato ma non mi piace il «presepe» di oggi. L'evoluzione dell'insegnamento di religione nelle scuole illustra ulteriormente l'andazzo. Le novità introdotte dal secondo Concordato non hanno costituito affatto un progresso. Certo, prima occorreva chiedere l'esenzione dall'ora obbligatoria di religione, che però veniva concessa sempre: se eri piccolo restavi in classe a fare quel che volevi e l'unico rischio era di incontrare qualche persona malevola; quando eri più grande uscivi prima o entravi dopo, perché la collocazione dell'ora lo consentiva sempre. La perversa introduzione delle ore sostitutive obbligatorie crea un sentimento di esclusione molto più grave. Il mio figlio più grande fu costretto a sorbirsi un'annata di lettura del Corano, i più piccoli si destreggiano tra attività improbabili e libercoli intrisi di un insopportabile buonismo multiculturale da cui ricavano un'unica sbagliatissima conclusione: che sono «diversi». Su tutto domina la tiritera secondo cui l'ora di religione è sì confessionale, ma a tal punto «aperta» che non può che «far bene a tutti». Il guaio, per l'appunto, è che è troppo aperta, fino a generare il proselitismo del nulla. Così, può capitare l'insegnante - non meno devastante del sacerdote della mia infanzia - che invita i piccoli a fare pressioni psicologiche sul compagno perché partecipi anche lui e si tolga dall'isolamento. Sono manifestazioni di arrogante debolezza che alimentano soltanto il discredito e la disaffezione per l'insegnamento della religione. È questo un tema su cui si possono fare proposte precise per un'ora di religione obbligatoria non confessionale ma per nulla confusamente «storico-culturale», la quale trasmetta i valori spirituali che sono a fondamento delle nostre società. Ma è un discorso troppo serio e complesso per rischiare di trattarlo male in poche righe. Vorrei concludere dicendo che occorre arrestare la corsa verso il disprezzo della spiritualità, in particolare di quella religiosa. Un Natale così non fa bene a nessuno. Si ricominci pure a fare i presepi nelle scuole e a cantare Stille Nacht. Ho accompagnato tante volte delle compagne di scuola a comprare le bellissime figurine dei presepi di stile napoletano e sono ancora qui, senza aver perso nulla della mia identità ebraica. È molto più importante sbarazzarsi di questo Babbo Natale politicamente corretto, con la pelle multicolore e vestito da Arlecchino e la slitta vuota di spiritualità e carica di cellu lari. (Giorgio Israel, Avvenire, 21 dicembre 2006)

  

 

 


 

Messaggio del Papa a Natale: l’umanità postmoderna cerca un Salvatore

L’umanità delle nuove tecnologie della comunicazione e delle promesse innovative della genetica “ha forse ancora più bisogno di un Salvatore”, ha detto Benedetto XVI nel suo messaggio di Natale.

“Dal fondo di questa umanità gaudente e disperata si leva un’invocazione straziante di aiuto”, ha spiegato parlando dal balcone centrale della facciata della Basilica di San Pietro in Vaticano.

“Perché più complessa è diventata la società in cui vive e più insidiose si sono fatte le minacce per la sua integrità personale e morale”, ha aggiunto rivolgendosi a decine di migliaia di pellegrini che riempivano piazza San Pietro in un’assolata mattinata invernale.

Dopo il suo messaggio, il Pontefice ha fatto gli auguri di Natale in 62 lingue, tra le quali il mongolo, il turco, l’arabo, l’ebraico, l’armeno, l’urdu (lingua del Pakistan) e, infine, il latino.

Ha iniziato il suo tradizionale messaggio, trasmesso da 102 canali televisivi di 63 Paesi, con una domanda provocatoria: “Ha ancora valore e significato un ‘Salvatore’ per l’uomo del terzo millennio?”.

“È ancora necessario un ‘Salvatore’ per l’uomo che ha raggiunto la Luna e Marte e si dispone a conquistare l’universo; per l’uomo che esplora senza limiti i segreti della natura e riesce a decifrare persino i codici meravigliosi del genoma umano?”, ha chiesto.

“Ha bisogno di un Salvatore l’uomo che ha inventato la comunicazione interattiva, che naviga nell’oceano virtuale di internet e, grazie alle più moderne ed avanzate tecnologie massmediali, ha ormai reso la Terra, questa grande casa comune, un piccolo villaggio globale?”, ha aggiunto.

“Si presenta come sicuro ed autosufficiente artefice del proprio destino, fabbricatore entusiasta di indiscussi successi quest’uomo del secolo ventunesimo”, ha constatato..

Ad ogni modo, ha denunciato, al giorno d’oggi “si muore ancora di fame e di sete, di malattia e di povertà in questo tempo di abbondanza e di consumismo sfrenato”.

“C’è ancora chi è schiavo, sfruttato e offeso nella sua dignità; chi è vittima dell’odio razziale e religioso, ed è impedito da intolleranze e discriminazioni, da ingerenze politiche e coercizioni fisiche o morali, nella libera professione della propria fede”.

“C’è chi vede il proprio corpo e quello dei propri cari, specialmente bambini, martoriato dall’uso delle armi, dal terrorismo e da ogni genere di violenza in un’epoca in cui tutti invocano e proclamano il progresso, la solidarietà e la pace per tutti”.

“E che dire di chi, privo di speranza, è costretto a lasciare la propria casa e la propria patria per cercare altrove condizioni di vita degne dell’uomo?”, ha chiesto.

“Che fare per aiutare chi è ingannato da facili profeti di felicità, chi è fragile nelle relazioni e incapace di assumere stabili responsabilità per il proprio presente e per il proprio futuro, si trova a camminare nel tunnel della solitudine e finisce spesso schiavo dell’alcool o della droga?”.

“Che pensare di chi sceglie la morte credendo di inneggiare alla vita?”.

Il Vescovo di Roma ha risposto: “È Natale”. “Anche oggi, il nostro Salvatore è nato nel mondo, perché sa che abbiamo bisogno di Lui”.

“Malgrado le tante forme di progresso, l’essere umano è rimasto quello di sempre: una libertà tesa tra bene e male, tra vita e morte. È proprio lì, nel suo intimo, in quello che la Bibbia chiama il ‘cuore’, che egli ha sempre necessità di essere ‘salvato’”.

“E nell’attuale epoca postmoderna ha forse ancora più bisogno di un Salvatore, perché più complessa è diventata la società in cui vive e più insidiose si sono fatte le minacce per la sua integrità personale e morale”.

“Chi può difenderlo se non Colui che lo ama al punto da sacrificare sulla croce il suo unigenito Figlio come Salvatore del mondo?”, ha chiesto.

“Cristo è il Salvatore anche dell’uomo di oggi – ha sottolineato –. Chi farà risuonare in ogni angolo della Terra, in maniera credibile, questo messaggio di speranza?”.

“Chi si adopererà perché sia riconosciuto, tutelato e promosso il bene integrale della persona umana, quale condizione della pace, rispettando ogni uomo e ogni donna nella propria dignità?”.

“Chi aiuterà a comprendere che con buona volontà, ragionevolezza e moderazione è possibile evitare che i contenziosi si inaspriscano e condurli, anzi, a soluzioni eque?”.

“Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo”, ha concluso. “È Lui a portare a tutti l’amore del Padre celeste. È Lui il Salvatore del mondo! Non temete, apritegli il cuore, accoglietelo, perché il suo Regno di amore e di pace diventi comune eredità di tutti”. (Zenit, 25 dicembre 2006).

  


  

Bilancio di quattro viaggi. E di un anno di pontificato

Nel discorso che ha rivolto alla curia romana nell'imminenza del Natale, Benedetto XVI ha detto qual è stato l'elemento unificante dei quattro viaggi da lui compiuti fuori d'Italia nel 2006: in Polonia, in Spagna, in Germania, in Turchia. L'elemento unificante e determinante – ha detto – è stato "la correlazione del tema Dio col tema pace".

Perché se manca questa correlazione e "se la ragione resta chiusa di fronte alla questione su Dio, questo finirà per condurre allo scontro delle culture" e delle religioni: scontro "che incombe minaccioso" sull'intero pianeta.

Benedetto XVI ha mostrato che la risposta alla domanda capitale su Dio incide su una serie di questioni connesse. In Polonia – ha detto – la volontà dell'uomo di "bandire Dio dalla storia" ha il suo tremendo memoriale ad Auschwitz e Birkenau. Ma anche nella sua apparente assenza Dio "non cessa di essere e di rimanere con noi" , come l'arcobaleno dopo il diluvio.

In Spagna è affiorata la grande domanda su perché l'Europa "quasi non vuol più avere figli". La risposta del papa è che l'uomo d'oggi è divenuto "insicuro sull'uomo stesso". E questo spiega lo sfaldamento della famiglia, la deriva verso le coppie di fatto, la cancellazione delle differenze tra i sessi: un "deprezzamento della corporeità" da cui consegue che l'uomo finisce per autodistruggersi. La Chiesa ha il dovere di alzare la voce in difesa di quest'uomo in pericolo.

In Germania la predicazione su Dio è oggi tanto più necessaria – ha proseguito il papa – perché in alcune regioni i più non sono nemmeno battezzati e la fede sembra appartenere al passato. Lì al tema di Dio Benedetto XVI ha connesso il ruolo del sacerdote come "uomo di Dio": celibe non per utilità pragmatiche ma proprio perché "preso dalla passione per Dio". E ancora alla questione su Dio egli ha collegato il dialogo tra fede e ragione, approfondito nella lezione all'Università di Ratisbona.

In Turchia Benedetto XVI ha voluto mostrarsi solidale con quei fedeli di Allah che "proprio in base alla loro convinzione religiosa musulmana s'impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà". Perché proprio questo è oggi il compito dell'islam: elaborare quella giusta sintesi tra la fede e "le vere conquiste dell'illuminismo" che i cristiani hanno raggiunto in secoli di "ricerca faticosa" e "mai definitiva".

Una linea di dialogo, quest'ultima, molto più fattiva di mille abbracci cerimoniali, come prova la "lettera aperta" indirizzata al papa lo scorso ottobre da 38 intellettuali e leader musulmani di varie nazioni, tra i quali il gran mufti di Istanbul. (Sandro Magister, www.chiesa, 27 dicembre 2006)

  

 

 


 

 

 24 DICEMBRE 2006

 

Eutanasia: gestione legale della fine della vita

Quando mi si chiede se sono favorevole all’eutanasia, rispondo di no. Ma so che sto dando una risposta imprecisa e forse anche ambigua, tali e tanti sono i significati che si nascondono dietro al termine eutanasia.

Dovrei, pedantemente, cominciare con lo spiegare che l’eutanasia non ha nulla a che vedere né colla rinuncia all’accanimento terapeutico (che è in sé e per sé doverosa), né con il rifiuto consapevole e informato del paziente a trattamenti di sostegno vitale (rifiuto conturbante psicologicamente e moralmente, ma giuridicamente legittimo e vincolante per il terapeuta), né con pratiche di medicina palliativa che sono giustificate anche se – in linea di principio – potessero aggravare ulteriormente lo stato di salute del paziente o addirittura accelerarne il decesso.

Ma, una volta fatte tutte queste faticose distinzioni (ognuna delle quali tale da attivare ulteriori e a volte irresolubili questioni casistiche) sarei ancora all’inizio del mio discorso contro l’eutanasia: mi resterebbe da spiegare perché ritengo illecito sopprimere un paziente terminale, e pienamente capace di intendere e volere, anche se tale fosse il suo autentico ultimo desiderio. Si osservi che parlo di illiceità e non genericamente di immoralità: infatti, quello che davvero mi turba nei dibattiti sull’eutanasia che sentiamo da tutte le parti è la mancata comprensione dell’abisso che c’è tra giudicare un atto eutanasico e promuovere una legislazione eutanasica.

Una legge sull’eutanasia è infatti la peggiore soluzione che si possa ipotizzare per dare risposta a un problema reale. Non c’è dubbio che esistano situazioni di fine vita tragiche, se non atroci, e non c’è nemmeno il dubbio che esse siano situazioni non solo rare, ma eccezionali, ciascuna cioè connotata da una sua irriducibile particolarità.

Ma la legge non è fatta per gestire situazioni estreme ed eccezionali; è fatta per gestire la quotidianità dell’esperienza.

Hard cases make bad laws, dicono gli americani e non potrebbero dire di meglio: la legge, qualsiasi legge, burocratizza l’esperienza e non potrebbe fare diversamente. Ma situazioni estreme, come quelle di fine vita, non tollerano di essere burocratizzate. Quando la legge pretende di farlo, la morte diventa il momento conclusivo di una procedura amministrativa, fredda e anonima come inevitabilmente sono tutte le procedure.

Non è un caso (l’esempio di Olanda e Belgio) che dalla proceduralizzazione dell’eutanasia, come atto giustificato dalla richiesta informata del malato, si passi – senza avvedersi dell’enormità di questo passaggio – all’eutanasia dei malati di mente e all’eutanasia pediatrica. E non è un caso che in Olanda ferva il dibattito sull’eutanasia geriatriaca (la “pillola Drill”), qualificando – non si sa quanto in buona fede – volontà manifestate da anziani in stato di abbandono e spesso in stato di confusione mentale come volontà autonome e da rispettare come assolutamente insindacabili.

Mi chiedo spesso come potrebbe reagire un sacerdote in confessionale, qualora un penitente gli dicesse di aver ucciso per pietà, in una situazione estrema, un congiunto. Nessun atto, anche se privato, singolo, irripetibile, può naturalmente pretendere di non essere assoggettato a un giudizio morale e tale giudizio può anche essere di ferma condanna. Ma quando quel medesimo atto diviene pubblico e, una volta legalizzato, si offre come esemplare e paradigmatico, il discorso cambia completamente. Non è più la pietà per il caso singolo che viene in questione, ma la gestione legale e burocratica della fine della vita umana, attraverso l’applicazione di freddi protocolli formali. Sul resto si discute, è a questa eutanasia che bisogna dire no.

(Francesco d’Agostino, Presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, Il Foglio, 6 dicembre 2006)

  


 

Perché l’informazione è caduta in ginocchio davanti all’icona Welby

Gli uomini non sopportano troppa realtà. Figuratevi i giornali. Che per glissare sui fatti ultimamente si sono dati ai tormentoni. Ma perché incatenare il cronista a scrivere e riscrivere sempre la stessa storia surreale? Il nostro Capo Sindacalista Paolo Serventi Longhi dovrebbe indagare. E riferire alla magistratura. Non stiamo ovviamente parlando dei casi Abu Omar, Sismi, Farina, Giuliani, Guzzanti e via bufalando, che sono il terreno di contesa delle forze del Bene contro quelle del Male. Stiamo parlando di quella moral suasion caramellosa che insiste da mesi sul caso Piergiorgio Welby.

Ogni storia postmoderna ha la sua icona. Certe immagini hanno fatto il giro del mondo e continuano a funzionare. Dal padre al capezzale del figlio malato di AIDS alla madre algerina simbolo delle vittime dell’islamismo. Dal cadavere del Che ritratto come un Cristo del Mantegna ai corpi rinsecchiti dei bimbi africani. Ce ne sono però alcune che, come certi pesci, puzzano dalla testa. Sono quelle mendaci, ideologiche, subdole. Sono le immagini che, massaggiate dalla prosa sentimentale, si trasformano in santini. Come quella del povero Welby. L’avete vista – no? – l’immagine di un uomo dal corpo pietrificato e dal volto impassibile. E le avete lette – no? – le prose dolciastre a sostegno di «un gesto d’amore che ponga fine al suo calvario». Cosa rispondere a questa iconografia zuccherina? Che se credete che questo sia amore, fatelo, staccategli la spina e non se ne parli più. Cristo, per amore, è andato in croce. Pannella, per amore, non può andare in galera (che poi scatta il sathiagra radicale e, subito dopo, la grazia presidenziale)?

La realtà è che su 5 mila italiani malati di Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) ce n’è uno solo che fa scalpore. E fa scalpore, lo sappiamo, perché rosapugnoni e mediapugnanti hanno eletto Welby a testimonial della causa dell’eutanasia. E che si dice degli altri 4.999, che desiderano ardentemente vivere, che lottano come leoni (il caso di Carlo Marongiu è da manuale) e che hanno manifestato davanti al Parlamento di Roma per chiedere un’assistenza sanitaria migliore? Niente. Non se li fila nessuno. Il che significa che siamo davvero alla frutta. Com’e il ritornello in questi casi? «Tu non lo faresti, ma perché vuoi impedire agli altri di farlo?». Rispondiamo: scusate, ma la vostra è un’idea di libertà che prima ancora della democrazia (dove ognuno deve poter esprimere e difendere le proprie convinzioni) uccide l’appartenenza a un mondo comune. Perché, si capisce, se io non ho torto ma gli altri hanno sempre ragione anche quando potrebbero avere torto, non c’è più dialogo possibile, non c’è più mondo comune, non c’è più altra legge che l’anarchia. Infine, non occorre essere cattolici per ricordare, come molto opportunamente ha ricordato monsignor Rino Fisichella, che è inconcepibile la pretesa di prendere spunto da un caso per fare una legge. Altrimenti si dovrebbe dire che le leggi devono seguire non la giustizia, ma chi grida più forte. Cioè chi ha più potere. (Editoriale di Tempi, n. 47, 7 dicembre 2006)

  


 

«La Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) mi ha dato più di quel che mi ha tolto»

Mario Melazzini e’ piuttosto scocciato. E’ piuttosto deluso dal fatto che il 18 settembre ha portato a Roma duecento malati di sclerosi laterale amiotrofica (Sla) e sulla grande stampa non se l’è filato quasi nessuno. Un sit-in di duecento carrozzine con persone ventilate artificialmente e tracheotomizzate che protestavano davanti al Ministero della Salute per chiedere maggior attenzione. «E c’era gente in condizioni peggiori anche del signor Welby. Vabbé, comunque sono contento che eravamo in tanti. Sono queste le cose che mi danno forza per andare avanti». Mario Melazzini è dunque piuttosto scocciato. E’ inviperito perché nel giorno in cui il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto la lettera di Piergiorgio Welby, chiedendogli di staccare la spina, un altro suo amico malato anch’egli di Sla ha inviato anch’egli una missiva al capo dello Stato. Scriveva di voler vivere, ma di aver bisogno di un aiuto economico non per disattivare la corrente, ma per farla fluire in un marchingegno che lo tenesse in vita e che, però, purtroppo lui non aveva gli euro per acquistare. «Qualcuno lo sapeva?». Non l’ha saputo nessuno. Però molto s’e discusso di necrofili diritti, di dolce morte, di testamento biologico, di sondaggi sui cattolici che, insomma, quella spina al signor Welby gliela staccherebbero in un amen.

In Italia ci sono circa 5 mila malati di Sla, ma si parla solo di uno, di quello che vuole andarsene. Degli altri 4.999 che vorrebbero continuare si occupa Melazzini, che è presidente dell’Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla). Lo ha raccontato a trecento ragazzi che da grandi faranno i medici nell’aula magna della clinica Mangiagalli di Milano. L’hanno invitato per chiedergli se inguaribile è sinonimo di incurabile. E lui, che per essere in forma si è «iperventilato tutta la notte e anche durante il viaggio in automobile», è arrivato in sedia a rotelle per raccontare la sua esperienza, «che non è solo quella di un malato di Sla, ma anche quella di professionista». Melazzini è primario del day-hospital oncologico della Maugeri di Pavia e, da tre anni e mezzo, è affetto da Sla, la malattia che ti rende progressivamente i muscoli di granito. «Sono oncologo e sono diventato primario a 39 anni. Mi consideravo un medico attento, sensibile, efficiente». Poi i primi sintomi. E la consapevolezza che l’unico rimedio è il Riluzolo, farmaco che, se assunto precocemente ai primi stadi del male, «vi darà il sollievo di vivere tre o quattro mesi in più».

Quando Melazzini scoprì di essere diventato un paziente reagì distaccandosi dagli affetti, immergendosi nel lavoro, pensando, infine, «di farla finita». S’informò su Dignitas,l’associazione che aiuta a morire dolcemente, «una cosa squallida». Poi, ad un certo punto, anziché chiedersi che cosa la malattia gli stesse togliendo, si pose il quesito opposto: «Cosa mi da questa malattia? Per certi versi, ora, mi sento più sano. Mi rimane la testa. E per fortuna questa è ancora una professione che si fa con la testa. Non sempre, certo, esistono anche colleghi che lavorano coi piedi, ma diciamo che la malattia mi ha dato più di quel che mi ha tolto».

Tra le rinunce elenca il sollievo di un colpo di tosse, «perché ogni qual volta che ti viene il riflesso è un dramma». I giri in bicicletta, le passeggiate in montagna, il caffè, l’inghiottire la saliva. Cosa gli ha dato? «“Mi ha fatto scendere dal piedistallo su cui stavo. Dicono che alle porte del Paradiso c’e una lunga fila di gente che, ordinata, attende di presentare i documenti a san Pietro per entrare. Di tanto in tanto arriva uno tutto trafelato vestito con un lungo camice bianco. Si fa spazio, salta la fila e, incurante del santo, s’infila nell’uscio. Chi lo vede per la prima volta rimane sbigottito. Non san Pietro: “Non fateci caso, è un medico che si crede Nostro Signore».

Oggi i malati che si presentano davanti al dottor Melazzini si sentono guardati in modo diverso: «Se il rapporto medico-paziente è basato su un contratto in cui si stipula che tutto dipende dalla guarigione, allora la sconfitta è sicura. Perderà sia l’uno sia l’altro perché esistono limiti invalicabili imposti dal male». Tuttavia inguaribile non è sinonimo di incurabile. «Una volta fra i medici c’erano i tuttologi, oggi ci sono i “piccologi”. La medicina si fa sempre più tecnica, più specialistica con il rischio di perdere di vista il tutto». Il tutto non è la malattia, «è il malato». «Un paziente vuole guarire, ma soprattutto vuole essere “preso in carico”, cioè vuole che qualcuno di prenda cura di lui, condivida la sua situazione. E’ una vicenda ben diversa dal spiegargli i suoi diritti». Scriveva Hannah Arendt che gli uomini muoiono, ma non sono fatti per morire. Sono creati per incominciare. Melazzini dice che, quando non avrà più fiato per esprimersi. ricomincerà «da qualche altra parte. Non so come, ma ricomincerò». (Adattato da: eb, “Scrivere”, 9 dicembre 2006)

 


 

I Pacs,  dalle sacrestie del centrosinistra cattolico…

Ormai è chiaro, Prodi tratta solo con gente che abbia un titolo di tutto rispetto: arcivescovi, arcipreti, arcigay o arcilesbica, per lui fa lo stesso, basta che abbiano l’arci davanti. Ma si sbaglierebbe se si pensasse non sia in grado di mettere a frutto queste sue frequentazioni. Anzi, spesso gli riesce proprio bene di sparigliare le carte.

Prendiamo i Pacs e il riconoscimento legale delle coppie di fatto. Molti sono convinti che il pericolo venga dall’ala estrema del centrosinistra: versante arcigay e arcilesbica delle frequentazioni prodiane. La colpa di certe derive contro la famiglia, si dice, sarebbe tutta da mettere in conto ai Grillini e ai Vladimir Luxuria di turno. Errore: se ci troveremo una legge che istituzionalizza le coppie omosessuali, lo dovremo soprattutto ai rispettabilissimi rappresentanti dell’ala moderata della compagine progressista. Bisognerà scovare i veri colpevoli nella sacrestia del centrosinistra, dove si annidano frequentatori di arcivescovi e arcipreti del calibro delle Binetti e dei Bobba, dei Rutelli e dei Castagnetti. Bel colpo Prodi, che in tal modo arriverà in processione al traguardo del riconoscimento legale delle coppie omosessuali.

I fautori storici dei Pacs, l’ala radicale della sinistra, radicali compresi, battono una strada diretta, irta di problemi giuridici. Problemi non insormontabili, ma tali da rendere faticoso l’iter legislativo e da allarmare molti elettori. C’è poi la Chiesa, che su questa materia non può fare sconti: e persino questa maggioranza, zeppa di politici insofferenti a qualsiasi richiamo anche vago alla legge naturale, questa accozzaglia di cattolici, comunisti, radicali e postdemocristiani, ha bisogno di far finta di tenere in considerazione ciò che si dice oltre Tevere.

E allora, ecco pronta la strategia elaborata dalle teste più fini della Margherita e dei centristi di sinistra: riconoscere le coppie gay senza però dirlo apertamente. L’escamotage giuridico è pronto da tempo, e ci è stato candidamente «rivelato» da una senatrice della Margherita durante un dibattito pubblico sull’argomento. «Noi - spiegava la senatrice - siamo per la famiglia e per il rispetto della Costituzione. Non vogliamo che siano riconosciuti i diritti alla coppia omosessuale o alla coppia di fatto. Tuttavia, siccome questi fenomeni esistono, faremo una legge che riconosce i diritti dei soggetti che vivono in una coppia di fatto».

Tutto qui? Sì, tutto qui. La facciata è salva, perché così non si parla né di Pacs né di famiglia omosessuale: ma nella sostanza il risultato è il medesimo. Sarebbe come se il legislatore dicesse: i diritti delle case da gioco clandestine non li voglio riconoscere, ma i diritti dei croupier che ci lavorano, sì. Massimo risultato con il minimo sforzo. I Grillini e i Luxuria diranno che sono abbastanza soddisfatti, che si è fatto un primo passo, e i loro elettori saranno contenti. Ci penserà la magistratura, con successive sentenze progressive, ad allargare la portata giuridica del provvedimento legislativo. Dall’altra, i buoni cattolici della Margherita faranno la bella figura di quelli che hanno evitato il peggio e hanno salvato la famiglia e la Costituzione scritta dai mitici «padri». Strizzando però l’occhio alle «situazioni di fatto che non si possono ignorare» e compiendo così la loro buona azione quotidiana di cristiani equi, solidali e democratici. Non mancherà qualche arcivescovo e arciprete di «area» pronto a spiegare ai fedeli che si tratterà di una buona legge, che la famiglia è salva e che, in fondo, si tratta solo di permettere a due gay di vedersi in ospedale o di lasciarsi l’eredità a vicenda. Poverini. Questo è il diabolico piano di marca postdemocristiana che dalle parti della Margherita stanno cucinando.

Ecco perché i veri artefici della devastazione della famiglia non saranno gli «estremisti», ma proprio loro: i grigi esponenti del cattolicesimo democratico. Soltanto loro, con quell’aria normale da rassicuranti impiegati di curia o da professori di scuola media cattolica, possono far digerire agli italiani un cambiamento epocale.

(Mario Palmaro e Alessandro Gnocchi Il Giornale n. 293 del 12-12-06)

  


 

L’Osservatore Romano: sradicare la famiglia è la priorità della politica italiana

Segnali sinistri da sinistra. Il Governo annuncia che a gennaio sarà pronto un ddl sulle coppie di fatto. Durante il passaggio del Papa verso piazza di Spagna, dalle finestre del quotidiano «Il Manifesto» sono stati lanciati volantini con la foto di Benedetto XVI e la scritta: “Pastore tedesco lasciaci in pacs”. Un volantinaggio definito dall’Osservatore Romano «spregevole». Intanto Prodi, come Pilato, replica all’Osservatore Romano: «Abbiamo già fatto tutte le dichiarazioni possibili. Non ho nulla da aggiungere»...

Ecco il testo dell’Osservatore Romano:

Quindici giorni a Natale. E c’è chi fa altri conti, pensa ad altre scadenze. Si parla del primo mese del prossimo anno come il traguardo per una battaglia senza senso. Una battaglia combattuta purtroppo anche da chi farebbe meglio a meditare, magari di fronte alla rappresentazione della Natività. Dunque a gennaio, almeno con il buon gusto, a questo punto fortuito, di aspettare che passino serenamente le festività natalizie, si affronterà, ha detto il Governo, la questione delle unioni di fatto. Neanche il buon gusto invece ha frenato quelli che, durante l’atto di omaggio del Santo Padre in occasione della ricorrenza dell’Immacolata Concezione, hanno voluto chiarire a tutti, con il loro spregevole volantinaggio, quale è la matrice ideologica che è dietro a certi progetti. Questo è il concetto di rispetto, di libertà, di progresso civile che questa gente ha di fronte a manifestazioni esclusivamente religiose.

Con l’annuncio dell’impegno del Governo a produrre un disegno di legge sulle unioni civili si è ribadito nuovamente il carattere ipocrita di queste iniziative che mirano esclusivamente ad accreditare una forma alternativa di famiglia. Si continua a dire che a gennaio si parlerà di “diritti individuali” e che la famiglia rimarrà una sola, quella tradizionale, che nessuno vuole mettere in pericolo. Si tratta di menzogne.

Non ha senso parlare di diritti individuali di persone alle quali è riconosciuto uno stato di “coppia” e ancora di più di diritti che hanno uno spiccato carattere pubblico, come quelli relativi ai temi previdenziali ed assistenziali. La constatazione è talmente immediata da far pensare che chi esprime certe giustificazioni abbia oltre ad assai poco rispetto per la famiglia, anche un certo disprezzo per l’intelligenza degli uditori.

Quali che siano le norme da inserire in quel disegno di legge è chiaro che il tutto andrà fatalmente a costituire una legislazione parallela a quella del diritto di famiglia, il quale diventerebbe, come lo stesso matrimonio, un istituto relativo. Chi difende le coppie di fatto, eterosessuali od omosessuali, spesso afferma anche che riconoscere queste unioni non arreca alcun danno alla famiglia. Anche questa è una, non sappiamo quanto inconsapevole, menzogna. La famiglia eterosessuale, fondata sul matrimonio, diventa inesorabilmente un fenomeno relativo: uno dei diversi fenomeni sociali, una delle diverse forme di accoppiamento. Il passo verso la completa equiparazioni dei diritti tra coppie di fatto e coppie sposate è brevissimo. Avrebbe fra l’altro qualche chance di essere resa obbligatoria dalla stessa Costituzione. Di doveri all’interno delle coppie di fatto, poi, si parla ben poco. Si vuole dare un riconoscimento pubblico ad uno stato del tutto temporaneo e immediatamente revocabile in forma privata.

Insomma, le ipocrisie e le contraddizioni sono evidenti. Al momento, passando agli schieramenti politici, il centrosinistra mostra soddisfazione per l’impegno assunto dall’Esecutivo. Nel centrodestra, qualcuno dice “no” ai pacs, parola quest’ultima temporaneamente bandita dalle espressioni dei politici, ma altri spiegano come “le coppie omosessuali debbano essere messe nelle condizioni di scegliere la natura giuridica del loro rapporto”. Intanto si sta già lavorando sul disegno di legge: il ministro per le Pari opportunità Barbara Pollastrini ha fatto sapere che “nei prossimi giorni ultimerà il lavoro per presentare una prima bozza della legge”. È già al lavoro anche il ministro per la Famiglia Rosy Bindi che, vista la materia, è convinta della necessità di “raccogliere consensi e convergenze più ampi”. Il ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero ha spiegato quali devono essere i riferimenti del provvedimento: “L’equiparazione dei diritti delle persone che compongono la coppia di fatto con quelli di una coppia regolare” è per l’esponente di Rifondazione comunista, il punto essenziale. Ecco, appunto. L’ennesima conferma che certe dichiarazioni rassicuranti sono solo un paravento. (L’Osservatore Romano - 9-10 Dicembre 2006)

  


 

I teologi del «dissenso» e i vari cattocomunismi non vogliono Wojtyla santo

Non si arrendono, i “credenti critici”, i cattocomunisti delle Comunità di Base e di “Noi siamo Chiesa”, quelli che sognano sempre la teologia della liberazione come panacea per tutti i mali sia della Chiesa che del mondo. Non vogliono che papa Giovanni Paolo II sia beatificato e dunque, esattamente come un anno fa, rivolgono un nuovo, pressante appello a tutti coloro che abbiano testimonianze in grado di ostacolare la beatificazione di papa Wojtyla le presentino al tribunale ecclesiastico competente presso il vicariato di Roma. Il testo di questo appello è stato depositato ieri presso lo stesso tribunale e fa seguito ad un anno di proteste e di iniziative portate avanti, in tal senso, da un gruppo di teologi riconducibili ai movimenti e ai gruppi citati prima.

Sostengono che nella causa di beatificazione di papa Wojtyla, aperta il 28 giugno 2005, si deve tener conto anche delle testimonianze a sfavore e degli aspetti controversi del pontificato. Perché papa Giovanni Paolo II “santo subito” fa rabbrividire questi teologi-contro? L’elenco delle “colpe” del Papa è lungo:

- si è permesso di esprimere la «dura riconferma» dell’obbligo del celibato ecclesiastico, ignorando il «concubinato fra il clero di molte regioni» e nascondendo la «devastante piaga» dei preti pedofili;

- quindi ha «continuamente rinviato» la collegialità nel governo della Chiesa romana;

- infine ha chiuso gli occhi sull’“isolamento” in cui è stato tenuto l’arcivescovo salvadoregno assassinato Oscar Romero e la “politica di debolezza” verso i regimi sudamericani.

Con questi peccati alle spalle, come si può pensare di far beatificare uno come Karol Wojtyla, pensano questi teologi all’avanguardia, ignorando i milioni di persone che, invece, lo hanno acclamato santo, non solo in piazza San Pietro, il giorno dei funerali, ma in tutto il mondo.

Dietro l’iniziativa c’è anche l’Adista, agenzia di stampa dei cattolici che guardano (e molto) a sinistra, ma soprattutto, tra i suoi promotori c’è l’ex abate benedettino di San Paolo fuori le Mura, Giovanni Franzoni, sospeso a divinis e ridotto allo stato laicale, ora sposato con una psichiatra giapponese. Uno dei 12 teologi di vari Paesi che avevano sottoscritto l’iniziale “appello alla chiarezza” rivolto esattamente un anno fa: con Franzoni c’erano - e ci sono - Giulio Girardi, Jaume Botey, Casimir Martì e Ramon Maria Nogues (Barcellona), José Maria Castillo (San Salvador), Casiano Floristan (Salamanca), Filippo Gentiloni, ai quali si è anche aggiunto Vittorio Bellavite, portavoce italiano dell’associazione “Noi Siamo Chiesa”. Bisogna poi ricordare la teologa e saggista Adriana Zarri che sul quotidiano “il Manifesto”, già un anno fa, si era impegnata a far pervenire una sua testimonianza firmata al postulatore della causa di papa Wojtyla beato, contraria alla beatificazione. Ma l’anima del gruppo è certo Franzoni, il quale si distingue per le sue iniziative a dir poco non ortodosse. Per esempio, nel luglio scorso ha aderito alla campagna di solidarietà a favore della popolazione di Gaza promossa dal comitato Action for peace. Ma non bastava. Per far capire quanto gli stia a cuore la questione palestinese, Franzoni ha deciso di donare l’anello pontificale, simbolo di fedeltà alla scelta religiosa, ricevuto dalle mani di Paolo VI nel 1964. L’anello sarà estratto a sorte il 16 dicembre 2006, in una sorta di lotteria che raccoglie i fondi per Gaza.

La causa di beatificazione di Giovanni Paolo II è iniziata eccezionalmente a neppure due mesi dalla sua morte, avvenuta il 2 aprile 2005. Benedetto XVI ha dato il via al processo, dispensando dall’attesa dei cinque anni dalla morte previsti dal codice, quasi accogliendo la pressante richiesta del popolo cattolico accorso ai funerali di Wojtyla a San Pietro. Il 13 maggio 2005, infatti, Ratzinger ha annunciato personalmente la decisione al clero romano, leggendo, in latino, una comunicazione in tal senso del cardinale José Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi. (Caterina Maniaci, Libero 7 dicembre 2006)

  


 

«A parole stanno col Papa, poi distruggono il matrimonio»

Così monsignor Alessandro Maggiolini ha tuonato contro la legge con la quale il governo vuole parificare le coppie di fatto alle famiglie legate dal sacro vincolo del matrimonio.

«L’altro ieri il Comune di Padova...» ha esordito il 75 enne Maggiolini (che in gennaio lascerà l’incarico di vescovo di Como per raggiunti limiti di età) nella sua omelia alla messa dell’Immacolata. Il riferimento era al riconoscimento delle coppie di fatto deciso dall’amministrazione del capoluogo veneto, che ha introdotto il primo registro anagrafico dedicato alle convivenze. Di qui l’anatema pronunciato nei confronti di quei governanti pubblici «che si sentono in grado di passare sopra ciò che Dio ha fatto, e ha fatto bene».

Riconoscere e legalizzare le coppie di fatto, comprese quelle tra gay e lesbiche, per il vescovo e teologo lombardo significa tradire «l’ordine stabilito da Dio». Spiega mons. Maggiolini: «Viviamo in una società marcia con legislatori vecchi bacucchi che vogliono scardinare il disegno della creazione incentrato sulla distinzione maschio-femmina».

Averne, di persone dalle idee così chiare e dalla parlantina così schietta...

Gli strali di Maggiolini, alla presenza di tanti fedeli che hanno stipato per l’occasione il Duomo di Como, si sono rivolti anche contro i Palazzi del potere romani. Incluso quel Parlamento «che in una notte ha cambiato parere e per tutta la nazione ha reso lecite le coppie di fatto, eterosessuali e omosessuali». Una cosa inaccettabile per la religione cattolica, ma anche per i fondamenti costituzionali del nostro Paese, dal momento che mette in pericolo «il matrimonio fondato sulla famiglia monogamica sancito dalla Costituzione».

Il Vescovo riafferma il suo pensiero in un’intervista rilasciata poi al quotidiano Libero...

Pacs, eutanasia, spinelli liberi: ma i cattolici nell’Unione che ci stanno a fare?

Monsignor Alessandro Maggiolini, per lunghi anni vescovo della diocesi di Como e noto per i suoi interventi sempre incisivi, tace un momento e poi risponde: «Già. Che ci stanno a fare i cattolici in questo marasma? Non sarebbe meglio se si facessero da parte e lasciassero che la Chiesa continuasse per la sua strada seguendo il Signore Gesù?».

I cattolici nell’Unione non fanno abbastanza?

«Decenni fa l’Unione dei cattolici era semplicemente l’Associazione di Azione Cattolica. Oggi ignoro se molti credenti si siano “venduti” per interessi politici. Certo è che diversi di essi si proclamano cattolici apostolici romani e si scostano da ciò che il Magistero afferma: soprattutto il Papa. Forse più che venduti, sono stati comprati dalle formazioni politiche e culturali che fanno opinione e assicurano i maggiori profitti economici. È avvenuta una separazione dalla Chiesa. Si pensi alla famiglia che è stata abbattuta in poco più di un’ora quando un manipolo di politici ha voluto mandare all’aria il disegno di salvezza progettato e attuato da Dio dall’eternità. Si pensi alla famiglia con annesso il divorzio: quante volte è possibile divorziare? Così si dica per i Pacs, l’eutanasia, lo spinello».

Nella sua omelia, nel giorno dell’Immacolata, ha definito i politici in generale “vecchi bacucchi”. Con chi ce l’ha?

«Non erano i politici in generale. Sono i politici che non hanno capito che la profezia non è il riprendere idee e comportamenti vecchi di secoli. Invito a leggere i più recenti libri di Pansa dove i fascisti di una volta sono diventati di botto comunisti e poi radicali e altro. Dove i comunisti di una volta sono fatti passare per fascisti. E i partigiani, tra cui v’erano pure fior di farabutti (si riprenda in mano la monografia di De Felice), sono presentati come eroi senza uno sfregio».

Ma i politici di centrodestra riescono a non tradire le attese dell’elettorato cattolico? E che ne pensa dell’idea di Pier Ferdinando Casini, ossia quella di creare un nuovo “grande centro”?

«Per Casini non so che cosa rispondere: aspetto di vederlo allineato alla forza politica che si rivelerà vincente. Non ho nessuna difficoltà a riconoscere che anche nel centrodestra vi siano incongruenze e incoerenze. Non solo tra ciò che dicono e ciò che fanno: antidivorzisti con un plotone di amanti laccate, esaltatori dell’Humanae Vitae che passano gli anni del matrimonio senza perdere d’occhio una sola volta i contraccettivi; giovani che giurano sulla bellezza dell’amore coniugale e si accatastano in convivenze che sembrano un poco orge... La contraddizione c’è anche tra ciò che alcuni politici dicono in una occasione e disdicono in un’altra occasione, secondo le opportunità. Che cosa può mai fare la volontà di guadagnare dei voti: può anche far saltare a pié pari qualsiasi lealtà e dignità».

Ma in Italia possiamo ancora dire che esistono i cattolici?

«Certamente, dal punto di vista sociologico. Sotto il profilo della coerenza tra fede e vita c’è da lavorare molto. Non credo si riesca a formare una nuova Democrazia Cristiana. Si insista, invece, sulla decisione di essere cristiani e di sforzarsi di essere democratici e autenticamente laici. Semmai da richiamare è la robustezza degli interventi del Magistero e dei sacerdoti, senza dimenticare la fierezza del credere che deve caratterizzare ogni cristiano. Il dialogo non convince nessuno se non parte da posizioni diverse mantenute e giustificate con delicatezza e con ostinazione. Altro che cercare ciò che unisce e lasciar da parte ciò che divide. Occorre identificare esattamente ciò che divide, per giungere insieme alla verità che è unica. Si osservino le fermezze islamiche sul piano teorico. Sul piano pratico i cattolici cerchino di vivere come pensano - come ha insegnato il Signore - per non finire a pensare come si vive».

Sempre nella sua ultima omelia ha definito la nostra società “marcia”. Però anche il premier dice che «l’Italia è impazzita». Non avrà la stessa opinione di Prodi?

«Prodi mi è amico. Non condividiamo affatto le stesse idee. La sua Italia impazzita si riferisce prevalentemente all’economia e alla politica estera. Italia impazzita: e chi l’ha portata alla follia? Quando parlo di società marcia mi riferisco ai valori dottrinali e morali. Neghi chi vuole. A prendere in mano Machiavelli e Petronio sembra di leggere libretti di collegiali rispetto alle porcherie che si diffondono oggi». (Caterina Maniaci, Libero, 10 dicembre 2006)

  


 

Mi fan paura i comunisti, ma certi cattolici di più

«Non è laicità escludere i simboli religiosi». Così ha detto ieri il Papa. Ma è stato fin troppo mite e ottimista. Non si tratta solo dell’ «esclusione della religione dai vari ambiti della società» e del «suo confino nell’ambito della coscienza individuale». Non si nega solo il diritto della Chiesa di «intervenire su tematiche relative alla vita e al comportamento dei cittadini», non si tenta solo «l’esclusione dei simboli religiosi da uffici, scuole, tribunali, ospedali, carceri, ecc». Si è andati ben oltre. Si arriva ormai alla pretesa di cancellazione dei segni cristiani pure dalla vita privata delle persone: memorabile il caso di Nadia Eweida, la hostess della British Airways a cui un mese fa la compagnia di bandiera inglese ha imposto di togliere o nascondere il crocifisso che porta al collo.

La “guerra culturale” al cristianesimo in Olanda è arrivata all’epurazione ortografica: le autorità competenti (si fa per dire) hanno decretato che dall’agosto 2006 “Cristo” si dovrà scrivere con la “c” minuscola. Ecco il titolo uscito sulla prima pagina della Repubblica di ieri: “Londra, il politically correct fa ‘scomparire’ il Natale”. Occhiello: “Niente simboli religiosi per non offendere i non cristiani”. In sostanza si arriva a questo assurdo: scuole, uffici e fabbriche attorno al 25 dicembre fanno una serie di giorni di festa, ma senza dire perché. Niente più “Christmas parties” nelle aziende, né francobolli della Royal Mail con riferimenti natalizi, niente recite o decorazioni natalizie a scuola per timore di «essere citate in tribunale per discriminazione religiosa». In compenso, l’emittente Channel Four il 25 dicembre farà trasmettere gli auguri di Happy Christmas da un’annunciatrice araba con il volto coperta dal niqab.

A Cuba Fidel Castro abolì il Natale per l’ideologia comunista del regime. In Europa si riesce ad abolire il Natale (e il buon senso) per la sottile imposizione dell’ideologia “luogocomunista”, quella che in nome del “dialogo” e del “rispetto” ti strappa l’anima. È chiaro che si usa l’argomento dei musulmani per cercare una vendetta sulla Chiesa che, per la nostra Sinistra, ha la colpa di essere sopravvissuta al comunismo.

Emblematico è il caso della moschea di Colle Val d’Elsa, alla quale giustamente Oriana Fallaci attribuiva un valore simbolico e politico fortissimo. Pur avversato dalla popolazione, il progetto della moschea è voluto dal potere rosso della zona.

Perché? Magdi Allam nel libro “Io amo l’Italia” scrive: «Non si comprende la vera ragione per cui il sindaco si ostina a voler costruire un centro culturale islamico su un’area complessiva di 3.200 metri quadrati, con una superficie coperta pari a 576 metri quadrati (il progetto originario era ancora più maestoso), comprensiva della moschea con cupola e minareto stilizzati in cristallo, quando l’attuale sala di preghiera è più che sufficiente per le poche decine di fedeli praticanti che neppure il venerdì riescono a riempirla». In Toscana il potere rosso ha sempre manifestato la sua ideologica avversità alla religiosità, alla storia cristiana di quella terra e alla presenza cattolica. Perché mai d’improvviso i comunisti toscani (ex o post) sono stati tarantolati dal bisogno di far pregare gli islamici locali in una monumentale moschea? Perché imporre quel colossale simbolo sulla terra di Santa Caterina, di Dante e di Giotto ha il sapore dell’agognata vendetta, della cancellazione di un’identità. Dell’identità italiana e di quella cristiana che in Toscana si mostrano inestricabili (lo gridano le pietre). Con un colpo solo si pensa così di cancellare un’anima bimillenaria.

E i margheriti toscani? I cattolici eredi della Dc che in Toscana fanno da stampella al potere rosso? E i cattolici toscani? Non se ne sente la voce. Tanto meno si sente quella dei vescovi toscani impegnati perlopiù a imporre il biglietto a pagamento per entrare in cattedrali e basiliche.

Sì, malgrado il divieto arrivato dal Vaticano la trasformazione in “musei” della più belle cattedrali toscane è ormai cosa fatta. E qui scopriamo che il problema non è solo l’attuale ventata di anticattolicesimo militante, ma anche e forse soprattutto il cattolicesimo che si dissolve, il sale evangelico che diventa scipito.

Ieri il Papa ha giustamente denunciato «l’ostilità alla presenza di ogni simbolo religioso nelle istituzioni pubbliche», ma è ancor più drammatico che i più splendidi “simboli religiosi” della nostra terra, le nostre cattedrali, vengano trasformati dalle autorità ecclesiastiche in musei o, in altre parti d’Italia come Milano, in sale da conferenza laica, in “cattedre dei non credenti”, in spazi per discutibili manifesti pubblicitari.

Ieri il Papa ha giustamente criticato chi nega «ogni forma di rilevanza politica e culturale della religione». Ma in fondo i laicisti fanno il loro mestiere. Forse il problema sono i cattolici impegnati in politica e nella cultura che si annacquano nell’ideologia altrui e non hanno alcuna rilevanza politica o culturale.

Ieri l’Unità titolava trionfante la prima pagina: “Pacs e diritti, Unione non ti fermare”. Che ne è dei cattolici dell’Unione? La Rosa nel Pugno di Pannella fa il suo mestiere, ma la Rosy Bindi nel pugno di Prodi? Il premier, sebbene classificato come cattolico, dà la sensazione di essere disposto a svendere tutto per mantenere la poltrona. Al referendum sulle legge 40 disse di sentirsi «cattolico adulto» per accodarsi alla Sinistra.

Il grande Tommaso Moro che era cancelliere (più o meno come Prodi), per non svendere la sua coscienza si fece ammazzare dal re (oggi è santo patrono dei politici). Memorabile la sua battuta: «È già un pessimo affare perdere la propria anima per il mondo intero, figuriamoci per la Cornovaglia...».

Giustamente il Papa afferma che «la Chiesa ha il dovere di proclamare con fermezza la verità sull’uomo e sul suo destino». Aggiunge accoratamente: «Sta a noi cristiani mostrare che Dio è amore e vuole il bene e la felicità di tutti gli uomini... Si tratta di mostrare che senza Dio l’uomo è perduto e che l’esclusione della religione dalla vita sociale, in particolare la marginalizzazione del cristianesimo, mina le basi stesse della convivenza umana». Poi però uno scorre il “Discorso alla città” del cardinale Tettamanzi per la festa di S. Ambrogio e si chiede dove sia Gesù Cristo. La chiesa e l’arcivescovo di Milano, per secoli, sono stati fra i più importanti della cristianità. Quindi hanno un valore simbolico. Già è rimasto memorabile il tradizionale “Discorso alla città” del 2004, dove Tettamanzi in 26 pagine aveva usato 60 volte la parola “solidarietà” e mai il nome di Gesù (che compariva solo nella preghiera finale). Quest’anno il vescovo si è dedicato al tema delle periferie, ovviamente con richiami politically correct all’emarginazione e alla necessità del “dialogo”. Nel suo discorso compare per 32 volte la parola “periferie”, ma una sola - di sfuggita - il nome di Gesù Cristo.

Eppure la fame di conoscere Gesù è grande. La gente va a cercarne notizia perfino in libri come quelli di Dan Brown. E per questo Ratzinger ha voluto dare alle stampe lui stesso un suo libro su Gesù. Ma i vescovi non hanno tempo per Gesù. Parlano delle periferie e dei problemi della città come fossero assessori.

Del resto - è notizia dei giorni scorsi - proprio i grandi magazzini della città di Tettamanzi hanno annunciato che quest’anno non venderanno più presepi (nonostante sia cresciuta la domanda). Niente più presepi per favorire il “dialogo”. Il cardinale sarà contento. (Antonio Socci, Libero, 10 dicembre 2006)

  


 

Purtroppo, è vero:  «La moglie è fuggita con la cameriera…»

Irrompe nelle discussioni un po’ grigie sul disfacimento della famiglia tradizionale, cioè della famiglia, un manifesto 6X3 affisso nell’Upper Dean Street, a Birmingham, Gran Bretagna. C’è scritto: «Siete le persone più spregevoli che io conosca, le più disoneste che io abbia mai incontrato. So quello che avete fatto e sono disgustata. Caro Mark, ho cambiato le serrature, dato fuoco ai tuoi vestiti e, soprattutto, ho svuotato i conti cointestati per pagare questo poster». Una donna tradita dal marito, Mark, che se la fa con la sua migliore amica, decide di socializzare le corna via e-mail, raggiunge una stazione radio, chiede consiglio ai conduttori e si risolve al gran gesto di scrivere sui muri il suo disprezzo per l’adultero. «Non è un gioco - spiega - ma solo il modo per restituire quanto dovevo al bastardo a cui avevo dedicato la maggior parte della mia vita adulta». Molto precisa, come formulazione.

Da quando si uniscono, uomini e donne si tradiscono. Non sempre, spesso. Ma non se ne sono mai compiaciuti legalmente fino a quando inventarono il divorzio rapido e seriale, la consacrazione del diritto all’adulterio. Non il ripudio antico, veterotestamentario o di diritto romano o coranico, che era un modo per sancire l’appartenenza giuridica della femmina al maschio, un atto di autorità privo di compiacimento e di indulgenza, ma per l’appunto il divorzio moderno: il matrimonio è un contratto, un pacs tra liberi contraenti, e possiamo scioglierlo serenamente quando vogliamo, stipulando certe condizioni che il diritto recepisce nel codice matrimoniale. Nel caso degli accordi prematrimoniali tra persone di un certo peso economico e sociale, poi, come nota Roger Scruton si tratta di un matrimonio inteso come semplice preparazione al divorzio.

Il cristianesimo, anzi Cristo Gesù in prima persona, aveva fatto un’altra scelta. Con la sacramentalizzazione del matrimonio, che l’uomo non può sciogliere perché contratto in nome di Dio e unto dal Signore, ci si è allontanati dalla diseguaglianza strutturale tra uomo e donna, tipica del ripudio asimmetrico, e dalla definizione clanica o tribale della società. La retorica familiare e familista dei cattolici, di cui il mondo secolarizzato ha una grande ansia di emanciparsi, nasce da quell’impulso di liberazione dai gioghi sociali più arretrati, se posso usare un termine così perfettamente corretto. È stato a suo modo un progressus, vogliamo ammetterlo? Poi è arrivata l’idea grottesca, ma ideologicamente irrecusabile al tempo nostro, che due si sposano e poi divorziano, si risposano e ridivorziano, si risposano ancora e ridivorziano ancora in una giocosa girandola di diritti che negano diritti, doveri che si negano da soli, destini che si rinnegano per intrecciarsi con altri, nuovi destini rinnegabili.

Il divorzio complicato e lungo segnalava una certa aura d’eccezione, ma quello breve zapateriano, tre mesi e via, fa capire bene il senso dell’impresa divorzista: la fine del matrimonio in ogni sua forma autolegittimante e di radice cristiana, come unione per amarsi e procreare e educare figli e santificare anche laicamente l’istituzione sociale della famiglia, e la sua sostituzione con un più liberale, individualistico, kantiano diritto provvisorio all’uso degli organi sessuali del partner (commercio sessuale era proprio la formula del filosofo di Konigsberg nella sua Metafisica dei costumi).

Dunque alla radice di tutto questo discutere della famiglia allargata e sconfinata anche in relazione alla diversità di genere, per esempio la famiglia di Mary Cheney e Heather Poe e del bambino in arrivo per la coppia lesbica più famosa del mondo («Sono molto felice per loro», ha detto l’altro uomo più cattivo del mondo dopo Dick Cheney, George Bush), sta l’adulterio legalizzato. E’ chiaramente un insensato chi pensi che la famiglia è l’unione stabile una volta per tutte tra un uomo e una donna, possibilmente con generazione ed educazione di figli, e che l’eccezione a questo schema debba essere compresa con amore, regolarizzata nella tutela dei diversi interessi in gioco, ma considerata istituzionalmente un fallimento dell’ipotesi maggiore, un fallimento al quale possa seguire una vita felice e socialmente riconosciuta, anche nei diritti conseguenti a diversi legami affettivi, che però non intacchi l’originalità e unicità della formula di rito matrimoniale classica. Io sono un insensato.

Anche il compianto professor Amintore Fanfani, quella figura buffa di democristiano dalla lingua aretina puntuta, quel perdente per antonomasia della battaglia della modernità italiana, era un insensato. Però era anche un mago. E quando io facevo campagna per il divorzio, con la coscienza in discreto subbuglio visto il mio conservatorismo morale di antica data e la mia strana logica per cui se uno pensa al divorzio è meglio che non si sposi, e liberi tutti di convivere come si voglia, Fanfani invece comiziava da strabuzzare gli occhi e le orecchie degli astanti, e stampava sui manifesti questa frase: «Se arriva il divorzio, vostra moglie fuggirà con la cameriera». Quanto abbiamo riso di quella formula pazzotica, e quanto era in effetti ridicola nel suo intimidatorio realismo di tragica predizione! (Giuliano Ferrara, Il Foglio, 11 dicembre 2006)

  


 

Chi é Manuele II Paleologo?

Quando ho letto la prima volta l’ormai famoso discorso del 12 settembre di papa Benedetto XVI all’università di Ratisbona, giunto al punto dell’altrettanto famosa citazione sul fondatore dell’Islam, mi sono improvvisamente ricordato di avere comperato - diverso tempo fa - il libro da cui era stata tratta. É un volume della prestigiosa collezione Sources Chrétíennes contenente non tutta l’opera di Manuele II ma solo il settimo colloquio. Mi sono precipitato in biblioteca e ho iniziato una lettura che non ha potuto interrompersi prima dell’ultima pagina... A volte l’«apologeta» compra anche libri che poi non gli serviranno, ma non é stato questo il caso.

Chi era Manuele? L’imperatore di Bisanzio in un’epoca (siamo nell’inverno 1391-92 o 1390-91) in cui il prestigioso e grande impero, che si ricollegava senza sostanziale soluzione di continuità all’impero di Cesare Augusto, di Traiano e Costantino, abbracciava poco più di uno scampolo di terra attorno alle mura della capitale. Manuele II Paleologo era ormai un vassallo del sultano Bajazet che aspettava soltanto il momento opportuno per avventarsi su Bisanzio come il gatto sul topo. Ed è proprio in questo contesto - mentre Manuele combatte come vassallo una guerra non sua - che si svolge ad Ankara, l’antica Ancyra, la lunga, articolata ed appassionata discussione di cui lo stesso Paleologo darà qualche anno dopo una versione scritta in un greco scintillante per bella forma, vivacità e classicismo. Sono complessivamente 26 colloqui, di cui padre Théodore Khoury pubblicà nel 1966 l’allora inedito settimo colloquio.

Manuele definisce sé stesso un “soldato” e quando viene richiesto da un personaggio influente e colto, un mudarris (parola araba per: insegnante, maestro, professore) persiano, perché si presti a discutere con lui sul cristianesimo e sulle sue differenze con l’islam, si schernisce: ci vorrebbe un dotto teologo e non un soldato come me. In realtà Manuele oltre ad essere un soldato coraggioso - lo ha dimostrato anche a Tessalonica qualche anno prima proprio contro i turchi che ora deve servire - é uno degli uomini più colti del suo tempo e certamente “teologo”, cioè conoscitore di Dio, non solo in senso scientifico, ma anche in senso spirituale. Terminerà infatti la sua vita in monastero ed é oggi venerato dalla Chiesa ortodossa greca come santo.

Indubbiamente qua e là, soprattutto verso la fine del colloquio quando gli animi si sono un po’ riscaldati e la passione é cresciuta, affiorano termini molto aspri e in qualche caso francamente ingiuriosi, ma sarebbe frettoloso trarne la conclusione che non si tratti nell’insieme di un dialogo rispettoso. Manuele manifesta più volte di stimare sinceramente la persona con cui si confronta - stima peraltro ricambiata - ma, soprattutto, emerge chiaramente che è un amore disinteressato (e anche assai pericoloso visto il contesto di luogo e di tempo...) della verità e delle persone che lo ascoltano a spingerlo a parlare e quindi ad appassionarsi. Noi occidentali del XXI secolo, immersi in una pesante atmosfera relativistica che ricorda il fetore delle paludi di Mordor descritte da Tolkien, fatichiamo a capire come gli uomini si possano appassionare per la verità. Non allo scopo di “aver ragione” e quindi di umiliare l’altro e dimostrare così la propria superiorità, ma per conquistarlo a quella verità da cui si é a propria volta già stati conquistati. Indubbiamente il centro del dialogo é proprio costituito da quell’accenno al logos, alla ragione, che accompagna sempre l’agire di Dio perché da Dio promana: «non agire secondo ragione é contrario alla natura di Dio». Ora la ragione, e quindi la verità e anche la fede - che non può essere dimostrata dalla ragione, ma deve essere ragionevole - non possono essere imposte con la forza. Possono essere tutt’al più difese contro un ingiusto aggressore, cosa di cui il “soldato” Manuele é pienamente cosciente... Infatti «la fede é frutto dell’anima e non del corpo. Chi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno di una lingua abile e di un pensiero corretto, non della violenza, né della minaccia e neppure di qualche strumento di offesa o di terrore. Perché, come quando si deve forzare una natura irragionevole non avrebbe senso ricorrere alla persuasione, così per persuadere un’anima razionale non ha senso ricorrere alla forza del braccio, né alla frusta, né ad alcun’altra minaccia di morte».

L’argomento scelto per il settimo colloquio é un confronto tra le tre “vie” di Mosé, Gesù e Maometto. Gli interlocutori sono convinti, un po’ ingenuamente, che tutto quanto il mondo ormai condivida solo queste tre prospettive. Anche se l’avventura di Marco Polo (1254-1324) aveva già avuto luogo, la coscienza di un mondo ben più grande non era ancora entrata nel sentire comune. Per “via” si intende certamente la religione nella sua prassi morale, ma con un’apertura più vasta che finisce per comprendere anche il culto e tutta la vita nel suo orientamento a Dio.

Due punti sono condivisi: la sostanziale bontà delle prime due e la superiorità della “via” di Cristo su quella mosaica. Dell’ammissione della superiorità della “via” di Cristo e quindi anche della sua sostanziale bontà, Manuele si avvale con slancio sottolineando la contraddizione che ciò comporta: «Se da una parte, [Maometto] tributa a Cristo i migliori elogi e lo pone al di là di tutte le creature, dichiarando fortemente di glorificarlo come spirito, verbo e anima di Dio, ma poi, di fatto, cioè nella sua Legge e nei suoi insegnamenti, confonde e butta per aria tutto, stabilendo senz’ombra di dubbio delle leggi opposte a quelle di Cristo e compiendo azioni che sono contrarie a quanto da lui dichiarato, allora io non dico più nulla». Il mudarris gli oppone che Maometto in realtà ha mirabilmente perfezionato le due leggi precedenti proponendo un saggio “giusto mezzo” tra la durezza della legge di Mosé e le esagerazioni della via dei cristiani (verginità, povertà, porgere l’altra guancia, ecc.). Manuele ha buon gioco a controbiettare che il perfezionamento di Maometto é consistito piuttosto in un ritorno all’antica legge di Israele, rifiutando l’autentico «progresso» (anábasis) portato da Gesù, al cui centro sta ovviamente la legge del l’amore: «Perché é a misura dell’amore che saranno distribuiti i doni divini». Gesù infatti alcune cose le stabilisce - confermando l’Antica Legge - come precetti, altre come consigli le propone alla generosità delle persone, di coloro che a ciò sono “chiamati”. Il mudarris infatti comprende il celibato, la povertà, la rinuncia alla difesa come un obbligo che riguarda tutti (come in parte fa anche certo pacifismo cristiano...). L’imperatore gli spiega che Gesù é venuto a confermare i comandamenti dando a loro però uno spirito nuovo che é quello dell’amore e l’amore obbedisce ad una logica che in alcuni porta ad intraprendere come una «seconda navigazione» (lo stesso termine proverbiale greco utilizzato da Platone nel suo libro Fedone per indicare la svolta della metafisica) che li conduce ad abbracciare liberamente la verginità, la povertà e la mansuetudine per il Regno dei cieli: «Essi hanno sempre davanti agli occhi il Dio che li ha feriti: feriti di un amore per lui fino alla follia».

Tutto ciò però nella libertà. Sono consigli che solo alcuni che sono chiamati possono far propri: «Perché non tutto conviene a tutti, in ogni tempo e in ogni circostanza» e «numerosi sono gli stati di vita».

Manuele propone in sintesi la via cristiana come una via che coniuga in modo sublime e divino l’assolutezza della verità e il rispetto della libertà. Perché «Dio e amore». (don Pietro Cantoni, Il Timone n. 57, novembre 2006)

  

 

 


 

 

 17 DICEMBRE 2006

 

Riconoscimento delle unioni di fatto a Padova: critiche da “L’Osservatore Romano” e dalla diocesi

Immediate e risentite le reazioni del mondo cattolico: “L’Osservatore Romano”, quotidiano della Santa Sede, nella edizione del 7 dicembre ha scritto un articolo dal titolo “E ora inventano la famiglia anagrafica”, mentre la diocesi di Padova ha recapitato a Zenit un comunicato in cui spiega le ragioni dell’inopportunità della mozione.

Il quotidiano della Santa Sede ha scritto che “nella schiera degli incredibili tentativi di fare apparire quello che non è, va elencata anche l'ennesima trovata per accreditare culturalmente un modello parallelo di famiglia”, ricordando che la mozione votata dal consiglio comunale di Padova è una iniziativa di “un consigliere comunale, presidente della locale Arcigay” per il riconoscimento della “famiglia anagrafica”.

Se da una parte – precisa “L’Osservatore Romano – “non si parla di pacs”, dall’altra “si parla di cose ben più profonde” e cioè “si parla in effetti di riconoscere la famiglia, sia pure dal punto di vista amministrativo, come nucleo non fondato sul matrimonio”.

Secondo il quotidiano Vaticano “è stucchevole che si presentino queste iniziative come risposte ad una società caratterizzata da convivenze eterosessuali quando i promotori di queste iniziative sono quasi sempre i rappresentanti piuttosto delle esigenze delle coppie omosessuali”.

Il quotidiano Vaticano accusa di ipocrisia i politici, perché in mozioni come quella di Padova “non si parla di battaglie di civiltà, perché non servono se non ad una ristretta cerchia di cittadini italiani. Non si parla di provvedimenti amministrativi, perché non ce n'è alcun bisogno”.

L’articolo dell’Osservatore Romano si conclude affermando che “dietro l'angolo c'è in realtà l'introduzione progressiva, culturale e giuridica, della famiglia alternativa, specialmente omosessuale. E, come si è già avuto modo di osservare, laddove c'è famiglia ci sono, inevitabilmente, prima o poi, dei figli, propri, ottenuti in affidamento o con altri mezzi”.

Nel comunicato recapitato a Zenit la diocesi di Padova ha commentato la mozione approvata dal consiglio comunale spiegando che “pur non rappresentando in termini concreti un’apertura verso il riconoscimento giuridico delle unioni di fatto, la mozione riveste una valenza simbolica che la Diocesi di Padova non può sottovalutare soprattutto per i suoi risvolti culturali, sociali ed educativi, oltre naturalmente a quelli specificamente cristiani”.

Secondo la Diocesi preoccupa “la definizione molto ampia e generica di famiglia anagrafica” che svuota “il senso stesso di famiglia fondata su una relazione stabile, scelta e pubblicamente riconosciuta come la intende la Costituzione italiana” (art. 29).

Inoltre la mozione approvata “impegna il sindaco e la giunta comunale a istruire l’ufficio anagrafico affinché rilasci ai componenti delle famiglie anagrafiche che ne facciano richiesta l’attestazione di famiglia anagrafica basata su vincoli di matrimonio o parentela o affinità o adozioni o tutela o vincoli affettivi”.

Il che, si spiega ancora nel comunicato, costituisce “un’esercitazione inutile, visto che tale obbligo è già sancito dall’articolo 33 del regolamento n. 223/1989”.

Quello che preoccupa di più la diocesi di Padova è soprattutto “l’aspetto simbolico della mozione” perché “il messaggio che viene lanciato è molto forte ed è figlio di quella mentalità che vuole far passare un concetto di famiglia fondata solo su dei legami affettivi a prescindere dalla distinzione tra maschile e femminile e dal riconoscimento di diritti legati a doveri esplicitati reciprocamente e davanti alla società”.

“Quanto successo a Padova – continua il comunicato –, se letto accanto a quanto accaduto in altre città, pur con modalità diverse, va in questa stessa direzione e lentamente produce una mentalità nuova che ci preoccupa perché in gioco ci sono valori sui quali si fonda la nostra società”.

“Non è difficile rendersi conto che la mozione in oggetto si iscrive nell’ottica di un progressivo distacco dai valori giudaico-cristiani che hanno plasmato la nostra civiltà”, si osserva di seguito.

Rifacendosi al messaggio che il Pontefice Benedetto XVI aveva lanciato il 19 ottobre in occasione del IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona, la diocesi di Padova sottolinea la propria preoccupazione per forme di “piccolo matrimonio”, che hanno “un forte impatto diseducativo per le nuove generazioni a cui insegniamo a desiderare poco, a impegnarsi con leggerezza e a tempo, a non assumersi vere responsabilità verso l’altro e verso la vita”.

Il comunicato precisa che “la legittimazione di una via più facile e comoda alla relazione affettiva porta con sé anche un rischio più alto di instabilità e l’ulteriore privatizzazione di un istituto, la famiglia, che rimane fondamentale per la vita sociale e l’educazione dei nuovi cittadini”.

La comunità diocesana lancia poi un appello all’amministrazione del Comune di Padova per “rendere concreto l’impegno a favore della famiglia fondata sul matrimonio nella consapevolezza del suo ruolo pubblico, sociale e civile” spiegando che “nel sostenere la famiglia lo Stato non discrimina nessuno, né demonizza o penalizza le coppie di fatto, ma esprime il suo dovere di promuovere la famiglia, proteggere la maternità, l’infanzia e i diritti dei figli”.

“Questo richiama una maggiore attenzione alle politiche familiari e ad adeguati sostegni in termini economici e di servizi”, conclude infine. (Zenit, 8 dicembre 2006)

Ecco il testo ufficiale del quotidiano vaticano L’Osservatore Romano:

“E ora inventano la famiglia anagrafica”

Nella schiera degli incredibili tentativi di fare apparire quello che non è, va elencata anche l'ennesima trovata per accreditare culturalmente un modello parallelo di famiglia.

A Padova per iniziativa di un consigliere comunale, presidente della locale Arcigay, è stato introdotto il riconoscimento della "famiglia anagrafica": nello stato di famiglia potranno cioè apparire le persone legate da "vincoli affettivi e coabitativi". E subito è partita la gara per affrettarsi a precisare, da destra e da sinistra, che no, non si parla di Pacs o di unioni di fatto o di matrimoni omosessuali; che sulla questione bisogna ragionare in modo serio, senza pregiudizi; che nessuno vuole mettere in discussione la famiglia fondata sul matrimonio.

È vero, non si parla di pacs: si parla di cose ben più profonde. Si parla in effetti di riconoscere la famiglia, sia pure dal punto di vista amministrativo, come nucleo non fondato sul matrimonio. Il riconoscimento del legame affettivo come elemento sufficiente per la costituzione di un famiglia, anche, si ripete, dal solo punto di vista amministrativo, è l'indicatore finalmente lampante di quali sono le intenzioni reali di chi parla, spesso ipocritamente, di pacs ed unioni di fatto.

Ciò a cui si mira è, in realtà, l'accreditamento culturale delle cosiddette coppie di fatto. Delle due, l'una: queste operazioni o si fanno per gestire questioni legate a presunti diritti dei cittadini, ed allora si torna a parlare in sostanza di pacs, o servono come segnali di altrettanto presunti e censurabili cambiamenti del costume. Ed è inoltre stucchevole che si presentino queste iniziative come risposte ad una società caratterizzata da convivenze eterosessuali quando i promotori di queste iniziative sono quasi sempre i rappresentanti piuttosto delle esigenze delle coppie omosessuali.

È di questo ultimo fenomeno che in verità si parla, di questo i politici stanno parlando dietro l'ipocrisia delle loro sottigliezze dialettiche. Perciò non si tratta di discorsi seri, perché non si basano sulla schiettezza. Non si parla di battaglie di civiltà, perché non servono se non ad una ristretta cerchia di cittadini italiani. Non si parla di provvedimenti amministrativi, perché non ce n'è alcun bisogno. Le coppie eterosessuali conviventi spesso scelgono di non sposarsi, neanche civilmente, proprio per non avere vincoli giuridici e amministrativi. Non si capisce quindi perché, al fine di tutelare i loro "diritti" qualcuno debba decidere di imporre quegli stessi vincoli surrettiziamente.

Dietro l'angolo c'è in realtà l'introduzione progressiva, culturale e giuridica, della famiglia alternativa, specialmente omosessuale. E, come si è già avuto modo di osservare, laddove c'è famiglia ci sono, inevitabilmente, prima o poi, dei figli, propri, ottenuti in affidamento o con altri mezzi. (©L'Osservatore Romano - 7 Dicembre 2006)

 


 

Pacs,  apripista per il matrimonio gay

Si comincia a parlare di Pacs e dal fronte dell’Unione tocca sentire una serie di scempiaggini. C’è per esempio la sociologa Chiara Saraceno che, certo obnubilata dalla passione politica, scrive che in Francia il riconoscimento delle unioni omosessuali non ha portato a un aggravamento della crisi demografica ma a una risalita delle nascite. Sarebbe come dire che la formazione del governo Prodi ha portato l’Italia a vincere i mondiali di calcio: si tratta di due dati contemporanei ma non correlati. Chiunque abbia studiato la situazione francese sa che l’aumento del numero dei nati non dipende certo dai Pacs ma dai numerosi cittadini francesi di religione islamica. Se si sottrae al totale dei nati in Francia il numero dei nati da genitori musulmani (che certamente non ricorrono ai Pacs) la Francia non sta tanto meglio dell’Italia.

Ai cattolici dell’Unione si cerca invece di vendere, alternando bastone e carota, la tesi secondo cui o si prendono i Pacs oggi o avranno il matrimonio omosessuale domani. Bugia, già smentita proprio in Francia: dopo avere sostenuto strumentalmente che i Pacs avrebbero consentito di evitare il matrimonio degli omosessuali, le stesse forze politiche non hanno neppure atteso che si asciugasse l’inchiostro della firma apposta da Chirac alla legge sui Pacs per depositare una proposta sul matrimonio gay. Ai cattolici dell’Unione consigliamo la lettura di un aureo volumetto del filosofo francese (laico) Thibaud Collin, Il matrimonio gay. Collin sostiene che i Pacs, presentati come una alternativa al matrimonio omosessuale, si rivelano invece un apripista, una tappa in un processo verso la legalizzazione di questo matrimonio e dell’adozione di figli da parte di coppie gay.

Per Collin una società è democratica soltanto se riposa su alcuni principi del senso comune, accettati dalla grande maggioranza dei cittadini. Tra questi c’è anche la nozione che un figlio sia tale in quanto ha un padre e una madre e che il matrimonio sia l’unione fra un uomo e una donna. Questi principi costituiscono anche il retroterra etico su cui la stessa democrazia si fonda, così che il fatto che un governo sia stato eletto dalla maggioranza non gli consente di per sé di modificarli.

Il comunismo, prosegue Collin, ha sostenuto che alcuni di questi principi, come la tutela della proprietà privata e l’idea che l’oppositore politico non può essere incarcerato o ucciso in quanto ostacola il progresso, ancorché condivisi dalla maggioranza, derivano da una «falsa coscienza» indotta dal capitalismo. Una minoranza illuminata ha dunque il diritto e il dovere di imporre alla maggioranza - per il suo stesso bene, di cui però la maggioranza non è consapevole - il loro rovesciamento.

Oggi una rivoluzione ulteriore al marxismo, secondo il filosofo francese, ragiona nello stesso modo. Sa bene che la maggioranza è contraria al matrimonio degli omosessuali, e al fatto che due persone dello stesso sesso possano «avere» (per adozione o fecondazione artificiale) dei figli. Ma sostiene che questa opposizione deriva da una «falsa coscienza» indotta dall’«omofobia». 

La minoranza illuminata che ha «preso coscienza» della falsità dell’opinione maggioritaria deve dunque imporre il «progresso» alla maggioranza non sufficientemente consapevole. Con il che, conclude Collin, si scardinano sia la democrazia sia il retroterra etico che la fonda. Chi lotta contro i Pacs, apripista e non alternativa al matrimonio omosessuale, difende dunque la democrazia per tutti. (Massimo Introvigne, Il Giornale, 13 Dicembre 2006)

  


 

Chiavi per scoprire chi vuole imporre un “laicismo escludente”

VALENCIA, domenica, (ZENIT.org).- Critiche verso qualsiasi posizione della Chiesa, tentativi di impedire la manifestazione pubblica del credo cristiano, eliminazione dei simboli religiosi: sono alcune piste che permettono di evidenziare il “laicismo escludente”, ha avvertito l’Arcivescovo di Valencia (Spagna).

La lettera di questa settimana di monsignor Agustín García Gasco avverte che ci sono gruppi interessati ad escludere la religione cattolica, secondo quanto diffuso dall’agenzia “Avan” dell’Arcivescovado valenciano.

Il testo denuncia i tentativi di “imporre il laicismo escludente” per “escludere la religione e soprattutto la confessione cattolica da qualsiasi manifestazione pubblica, negando il diritto di espressione e allontanandola da qualsiasi dialogo”.

Ci sono, tuttavia, delle chiavi che permettono di “scoprire chi, sotto l’etichetta della laicità, in realtà vuole imporre il ‘laicismo escludente’ come se si trattasse di una nuova religione statale”, ha sottolineato.

Tra queste piste ci sono “la critica continua di qualsiasi posizione che provenga dalla Chiesa, il tentativo di far sì che i cristiani non possano manifestare in pubblico il proprio credo, l’eliminazione di segni e simboli religiosi o la riduzione del credo alla ‘sfera privata della persona’, privando il cristianesimo della sua inerente dimensione sociale”.

“Noi cattolici lo proclamiamo chiaramente – ha ricordato il presule –: Chiesa e Stato sono due sfere diverse”, e la dottrina sociale cattolica “non vuole concedere alla Chiesa un potere sullo Stato, né tanto meno imporre a quanti non condividono la fede le sua prospettive e i suoi stili di comportamento”.

La laicità dello Stato, però, dovrebbe essere “rispettosa di tutte le confessioni religiose e ricettiva nei confronti del dialogo”, ha spiegato.

“Lo Stato non può imporre la religione – ha sottolineato –, ma deve garantire che i seguaci delle varie religioni vivano in pace e libertà”, e “la Chiesa ha la sua indipendenza e vive la sua forma comunitaria basata sulla fede, che lo Stato deve rispettare”. (Zenit, 10 dicembre 2006)

  


 

Il caso Hummes e i preti sposati

Forse, oltre ad astenersi dal matrimonio, gli ecclesiastici dovrebbero astenersi anche dalle interviste. Per non confondere il Verbo con le chiacchiere. L’altroieri per esempio il cardinale Claudio Hummes ha rilasciato dichiarazioni che sono parse esplosive sul tema del matrimonio dei preti. Non potevano passare inosservate perché Hummes in queste ore sta arrivando a Roma chiamato dal Papa proprio come “ministro” per il clero.

Ecco cos’ha detto il cardinale: “Anche se i celibi fanno parte della storia e della cultura cattoliche, la Chiesa può riflettere sulla questione del celibato perché non è un dogma, ma una norma disciplinare”.

Di per sé ha ragione chi ha notato che non c’è niente di nuovo, perché di certo il celibato ecclesiastico non è un dogma di fede. Ma è evidente che annunciare oggi una possibile revisione, mentre Hummes si appresta a guidare la Congregazione del clero e mentre si intensificano gli attacchi a questo istituto, significa indurre i giornali a titolare: “Il Vaticano apre sui preti sposati”.

Se il cardinale avesse inteso dire questo sarebbe andato contro il Papa e la Chiesa: appena venti giorni fa Benedetto XVI ha riunito i capi dei dicasteri romani ribadendo il “valore della scelta del celibato sacerdotale secondo la tradizione cattolica”. Ovvia e prevedibile dunque la sua correzione di ieri.

Tuttavia dichiarazioni avventate come le sue alimentano la confusione nella Chiesa. E c’è una parte del suo ragionamento che, essendo molto diffuso, merita di essere discusso e confutato.

La prima dichiarazione di Hummes sembra ridurre tutto a una banale “norma disciplinare” che, come tale, può anche essere ribaltata. La stessa posizione dei “catto-progressisti” che vogliono la resa della Chiesa davanti al mondo e il rinnegamento della tradizione.

Infatti ieri Pietro Scoppola – per dirne uno - dichiarava al Corriere della sera: “il celibato ecclesiastico è solo una norma di diritto canonico, una scelta della tradizione, non fondata teologicamente. Mi sembra importante che oggi davanti alla crisi della vocazioni si possa pensare a scelte diverse aperte alle nuove esigenze”.

In poche righe troviamo una summa dei luoghi comuni circolanti sulla materia. Solo che questo luogocomunismo è infondato.

Intanto perché la cosiddetta “crisi delle vocazioni” e la secolarizzazione attanagliano anche (e di più) le confessioni protestanti e le chiese ortodosse che pure non hanno il celibato ecclesiastico.

In secondo luogo perché i fatti (anche le statistiche recenti) dimostrano che nella stessa Chiesa Cattolica stanno aumentando le vocazioni più rigoriste, come quelle di clausura, mentre calano ancora le vocazioni secolari dove più si è concesso al mondo e all’attivismo sociale.

Le vocazioni infatti – per la Chiesa – derivano dalla grazia di Dio e non certo da uno studio sociologico con conseguente pacchetto-regalo che elabora qualche offerta speciale: tonaca e moglie, due al prezzo di uno.

Ma infine è proprio vero che il celibato ecclesiastico è solo “una norma di diritto canonico” o – come dice Hummes – una “norma disciplinare” che come tale si può tranquillamente ribaltare?

No. Non è vero. La Chiesa Cattolica, nella sua lunga tradizione, è andata maturando una dottrina opposta. Lo ha spiegato molto bene il cardinale Alfonso Stickler nell’opera “Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici”.

Stickler lavorò come perito al Concilio Vaticano II e all’elaborazione del nuovo Codice di diritto canonico. E’ stato Rettore dell’Università salesiana e vicepresidente del Bureau dell’Associazione Internazionale di Storia del Diritto e delle Istituzioni.

Creato cardinale nel 1985 da Giovanni Paolo II, Stickler ha dimostrato – nei suoi studi – che non è possibile capire le istituzioni della Chiesa senza comprendere le basi teologiche che le originano. Anche sul celibato ecclesiastico.

La vulgata corrente, superficiale e sbagliata, è quella ripetuta ieri da Franco Cardini (ormai approdato alla comoda riva del pensiero dominante) secondo cui: “il celibato dei preti risale solo alla seconda metà dell’XI secolo. Prima i sacerdoti si sposavano”.

In pratica, per costoro, si potrebbe fare una storia di come fu introdotta la legge del celibato ecclesiastico in Occidente. Ma questo non è vero, come si dimostra nel noto Wörterbuch der Kirchengeschichte, a cura di Carl Andresen e di Georg Denzler (Deutscher Taschenbuch Verlag, Monaco di Baviera 1982).

Al contrario si può scrivere la storia della decisione inversa presa dalla Chiesa Orientale.

Stickler, in sintesi, spiega che non conosciamo nessuna decisione ecclesiastica che abbia introdotto come innovazione il celibato, il quale risale invece a una ininterrotta tradizione non scritta, a una consuetudine di origine apostolica, probabilmente addirittura divina.

E’ vero infatti che lo stesso S. Pietro era sposato, ma si era sposato prima della chiamata di Gesù e – spiega Stickler - la legge del celibato ecclesiastico consiste nell’obbligo della “continenza da ogni uso del matrimonio dopo l’ordinazione”.

Che poi è diventata la norma del celibato perché “l’origine di ogni ordinamento giuridico consiste nelle tradizioni orali e nella trasmissione di norme consuetudinarie le quali soltanto lentamente ricevono una forma fissata per iscritto”.

Risalendo alle origini troviamo anche le ragioni teologiche del celibato. Perché nel Nuovo Testamento il sacerdote non è più un uomo che svolge un servizio religioso, ma una persona che interamente si dona per amore, come Cristo alla sua Chiesa. E che da Cristo riceve prerogative e poteri divini.

Stickler indica come essenziale e definitiva l’esortazione apostolica post-sinodale “Pastores dabo vobis”, del 25 marzo 1992, che definisce la “Magna Charta della teologia del sacerdozio che rimarrà norma autorevole per tutto l’avvenire della Chiesa”.

In essa si afferma: “È particolarmente importante che il sacerdote comprenda la motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato”. E si aggiunge: “l’Ordinazione sacra configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l’ha amata. Il celibato sacerdotale, allora, è dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il Signore”.

Ci sono anche ragioni pratiche e sociali che motivano il celibato ecclesiastico, ma la ragione di fondo è teologica e non può essere degradata a semplice “norma disciplinare”.

Ma perché l’attacco mondano alla Chiesa su questo punto trova tali appoggi nel mondo ecclesiastico?

Anni fa, da cardinale, Joseph Ratzinger colse il dramma del momento presente: “Il prete, cioè colui attraverso il quale passa la forza del Signore, è sempre stato tentato di abituarsi alla grandezza, di farne una routine. Oggi la grandezza del Sacro potrebbe avvertirla come un peso, desiderare (magari inconsciamente) di liberarsene, abbassando il Mistero alla sua statura, piuttosto che abbandonarvisi con umiltà, ma con fiducia per farsi elevare a quell'altezza”.

Ecco perché, giustamente, padre Livio Fanzaga, dai microfoni di Radio Maria, nella sua ascoltatissima rassegna stampa del mattino, ha commentato il “caso Hummes” così: “Il problema non è la moglie, ma la fede”. Questo è il cuore del problema per la Chiesa di oggi.  (Antonio Socci, Libero,  5 dicembre 2006)

  

 

 


 

Quando la Chiesa delle origini scelse la via della «continenza sessuale»

Un’ovvietà di un cardinale, scivolata in un’intervista (“Il celibato clericale non è un dogma“), ha provocato una cascata di commenti dove  alcuni “esperti“ sono inciampati in sorprendenti imprecisioni.

Prima di venire alla storia, converrà dire qualcosa sulla cronaca. Ricordando innanzitutto che le comunità protestanti, quelle ortodosse -e anche quelle ebraiche- registrano “crisi di vocazioni“ eguali se non superiori a quella cattolica, malgrado pastori, pope, rabbini possano accedere al matrimonio. Le nozze, dunque, non sarebbero il rimedio alla scarsità di clero. Né sarebbero il rimedio ai disordini sessuali di certi ambienti religiosi, a cominciare  dalla pedofilia . Innanzitutto perchè questa si manifesta soprattutto con pulsioni omosessuali (i chierichetti, ben più  di rado le chierichette, ne sono le vittime) e una donna non sarebbe dunque la risposta adeguata. E poi perchè, come tutte le statistiche confermano, la stragrande maggioranza degli abusi si verifica all’interno della  famiglia –soprattutto padri verso i figli e zii verso nipoti- che neppure qui sarebbe il toccasana.

Tralasciamo pure –anche se, in una prospettiva di fede, è decisiva- la “convenienza spirituale“ di quel legame tra castità e sacerdozio sul quale si è esercitata nei millenni la riflessione di santi, mistici, Padri della Chiesa. E non entriamo, a maggior ragione,  in una “convenienza sociale“, per la quale proprio il celibato ha impedito che la Chiesa divenisse proprietà di clan familiari, di schiatte dinastiche , di caste legate da parentela. Se il solo “nepotismo“ dei papi  ha causato tanti guai , a che avrebbe condotto il “figliolismo“ di tutti i preti? Non  a caso le Chiese greco-slave si sono tutelate: moglie e figli solo per i pope che vivacchiano nelle parrocchie, ma non dove stanno potere e ricchezza, cioè in  episcopi e monasteri.

Ma, per venire alla storia : questa dimostra che la “continenza sessuale“ non è il semplice prodotto di una decisione ecclesiastica, per giunta tardiva e limitata al cattolicesimo. Si tratta di una scelta che  risale alla Chiesa delle origini, che la Tradizione più antica ribadisce e che per secoli è stata praticata concordemente sia ad Oriente che ad Occidente. Non un dogma, certo, ma un aspetto della Tradizione da trattare con la reverenza dovuta a ciò che è considerato risalire all’epoca apostolica. Lo ha dimostrato –in una ottantina di pagine dense e di inconfutabile erudizione, pubblicate dalla Libreria Vaticana– il cardinale Alfons Stickler che, come Bibliotecario e Archivista emerito del Vaticano, ha avuto accesso a tutte le fonti.

Nella Chiesa primitiva , la maggioranza del clero era composta di uomini maturi    che, accedendo agli Ordini sacri, lasciavano la moglie, con il suo consenso, e affidavano la famiglia alla comunità  . Da allora, erano tenuti a vivere in continenza perfetta , risiedendo non più nella loro casa ma in edifici ecclesiali. Anche in autori seri , càpita di leggere  che queste rinuncia sarebbe stata imposta  dopo l’anno 300 nel Concilio, in realtà semplice Sinodo, tenuto in Spagna, ad Elvira. In realtà, come dimostra il cardinal Stickler, i testi mostrano che lì si ribadì la prassi della continenza , data per “ tradizione immemorabile“ , e si decise di castigare gli abusi, espellendo dal clero chi conservasse rapporti con la moglie. Il contrario, dunque, di quanto spesso si afferma. Altri Sinodi – o Concili – confermano che l’astensione sessuale risale ai tempi apostolici stessi e non può dunque essere mutata. Numerosi i documenti pontifici, come quello di papa Siricio, che, in quello stesso quarto secolo, approvano quanto stabilito dai delegati conciliari. E i Padri dell’Occidente –Ambrogio, Girolamo, Agostino– sono concordi su verginità o celibato o continenza non solo per i sacerdoti ma anche per i diaconi. Mai, assicura Stickler, neanche nei documenti più antichi, mai questo è considerato come  un’innovazione,  ma sempre  come un dato indiscusso della Tradizione primitiva.

In questa prospettiva,  non si sa che pensare di  professori, pur autorevoli, che anche  in questi giorni  hanno riesumato la tesi (cara alla propaganda manipolata  dei vecchi luterani e calvinisti) secondo la quale di continenza clericale si potrebbe parlare solo dal 1139, col secondo Concilio del Laterano. In realtà, si stabilì allora che eventuali matrimoni contratti da membri del clero non erano solamente illeciti ma anche invalidi. Dunque nulli, non avvenuti. Stickler: «Questa severa sanzione è l’ennesima  conferma di un obbligo alla continenza esistente da sempre».

E le Chiese d’Oriente, dove solo i monaci e i vescovi sono tenuti alla continenza assoluta,   mentre preti e diaconi possono usare del matrimonio, purché sia il primo ed unico e sia stato contratto prima dell’ordinazione? Tutti i documenti mostrano che  per molti secoli anche in quelle comunità fu indiscussa l’astensione praticata in Occidente e che le eccezioni che vengono tirate in campo risalgono a fonti falsificate. Solo nel 691, al Concilio Trullano, si stabilì quanto ancora oggi è in vigore per gli ortodossi. Ma fu  una esplicita resa: la Chiesa d’Oriente non aveva l’organizzazione gerarchica di quella d’Occidente e le mancava la possibilità di reprimere gli abusi, sempre più numerosi. Non solo : sottomessa all’Imperatore bizantino, cedette ai    politici che giudicavano più controllabile un clero che “teneva  famiglia”. Si cercò di salvare il principio, imponendo l’astensione dal sesso almeno nel periodo in cui i sacerdoti fossero di servizio all’altare e pretendendo castità da vescovi e monaci. Una situazione obbligata , non certo l’ideale, come lamentarono e ancora lamentano in molti, ad Oriente. Curioso che alcuni, ora, la considerino auspicabile anche per l’Occidente. (Vittorio Messori, Corriere della Sera, 5 dicembre 2006)

  


 

“Le religioni in Italia”: censite oltre 600 fedi e “vie spirituali”

Un rapporto di ben 1.152 pagine, che censisce le oltre 600 fedi e “vie spirituali” non religiose presenti nella nostra Penisola. Sono queste le cifre de “Le religioni in Italia”, l’enciclopedia curata dal Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR) e presentata a Torino questo lunedì presso il Centro Incontri Terrazza Solforino.

Edita da Elledici-Velar, l’opera è stata realizzata sotto la direzione editoriale di Massimo Introvigne e di PierLuigi Zoccatelli – rispettivamente Direttore e Vicedirettore del CESNUR – ed è frutto del quotidiano monitoraggio svolto da questo Centro Studi a partire dal 1988.

Il rapporto, non è un mero aggiornamento della “Enciclopedia delle religioni in Italia” pubblicata nel 2001, ma uno strumento nuovo che include nuovo materiale, presentandolo anche in maniera diversa. E’ arricchito da ampie introduzioni storiche, dati statistici finalmente attendibili, indirizzi, numeri di telefono, collegamenti Internet e analisi dottrinali divise in 40 categorie.

Per saperne di più Zenit ha intervistato il professor Massimo Introvigne.

Dall’Enciclopedia che avete pubblicato nel 2001, qual è stato il cambiamento registrato fra le religioni tradizionali, le minoranze religiose e le cosiddette “nuove religioni”, e in che misura ha influito l'immigrazione?

Introvigne: I cambiamenti più importanti attengono precisamente alle religioni che crescono grazie agli immigrati. Così i musulmani sono passati da 580.000 a 850.000. Si noterà che il nostro dato differisce da quello, più alto, della Caritas, la quale adotta un metodo di conteggio diverso. Parte dalle statistiche ufficiali diffuse dai governi di Paesi di emigrazione e le applica agli immigrati in Italia. Così, se il governo egiziano dichiara che il 98% degli egiziani sono musulmani, il 98% degli immigrati egiziani in Italia sono automaticamente considerati musulmani. Questo dato però (e la Caritas ne è consapevole, così che definisce i suoi dati “indicativi”) porta a sovrastimare i musulmani, sia perché per ragioni politiche il numero dei non musulmani in genere e dei cristiani in particolare è sottostimato da alcuni governi, compreso appunto quello egiziano, sia perché è possibile che i non musulmani, discriminati in patria, emigrino di più dei musulmani.

Infine, anche se il fenomeno non va sopravvalutato, ci sono immigrati che perdono ogni contatto con la religione. Per esempio, molti albanesi sono considerati “musulmani” nelle statistiche, e talora si dichiarano tali, ma non sono in grado di indicare neppure quali siano i precetti fondamentali dell’islam. Noi preferiamo basarci su dati statistici che derivano da inchieste relative ai musulmani immigrati in Italia. Non consideriamo come discriminante la frequentazione delle moschee (che è molto bassa, ma che secondo molte scuole giuridiche non è neppure obbligatoria per i musulmani) ma la pratica della preghiera e del digiuno, in assenza delle quali è difficile dire che un immigrato è ancora “musulmano”.

Adottiamo lo stesso criterio per gli ortodossi, e qui il nostro dato – sempre più basso di quello Caritas – registra comunque un aumento spettacolare, trascurato da molta stampa che guarda solo ai musulmani: in cinque anni, da 140.000 a 420.000. Viceversa, per quanto riguarda la conversione di cittadini italiani nati da genitori italiani ad altre fedi in cinque anni ci sono stati solo piccoli spostamenti. Tra i cittadini dotati di passaporto italiano (da non confondersi con i residenti sul territorio, che comprendono anche gli immigrati) gli aderenti a religioni diverse dalla cattolica rimangono grosso modo gli stessi rispetto al 2001 e rappresentano l’1,9%. Ci sono però degli spostamenti all’interno di questa percentuale. Per esempio aumentano i buddhisti, grazie soprattutto alla crescita importante del movimento giapponese Soka Gakkai, che in cinque anni è passato da 21.000 a 40.000 membri.

All’interno del protestantesimo diminuisce il peso delle confessioni “storiche” e aumenta quello dei pentecostali e dei Fratelli: un dato di cui prende atto la stessa Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, che riunisce i protestanti “storici” e oggi ammette che questi ultimi sono solo il quindici per cento dei protestanti italiani, e ha eletto alla sua presidenza un mese fa l’ex-parlamentare Domenico Maselli, da sempre fautore di un’apertura ai Fratelli e ai pentecostali. Si tratta tuttavia pur sempre di piccoli fenomeni, in un Paese che conta 58 milioni di cittadini.

Quali sono le religioni in Italia che nei prossimi decenni potrebbero espandersi più rapidamente?

Introvigne: Anche qui bisogna distinguere fra immigrazione e conversione. L’immigrazione ovviamente è governata in buona parte dalle leggi. Se, come sembra, il nuovo governo aumenterà le quote di immigrati di qui a cinque anni potremmo avere due milioni di musulmani e sfiorare il milione di ortodossi. Viceversa, la conversione di italiani a nuove fedi rimarrà verosimilmente un fenomeno di minoranza. Da molti anni oscilla intorno al due per cento, con spostamenti non tanto in questa percentuale ma all’interno del numero relativamente piccolo di italiani disposti ad abbracciare una fede diversa dalla cattolica, e non c’è ragione di prevedere che le cose possano cambiare nel medio periodo.

So che parte della vostra ricerca è dedicata a gruppi di satanisti italiani o che praticano l'occultismo o anche ad antipapi. Mi può spiegare in sostanza di cosa si tratta?

Introvigne: La domanda è interessante perché proprio in questi giorni, in relazione a iniziative di polizia, sono circolate cifre assolutamente fantastiche che parlano di seicentomila o anche di ottocentomila italiani coinvolti nel fenomeno delle “sette sataniche”. Sul punto bisogna intendersi. Se chi dà queste cifre vuole parlare degli aderenti a forme di religiosità alternativa fortemente critiche nei confronti della Chiesa cattolica la stima è realistica, ma bisogna includere anche i Testimoni di Geova, i mormoni, i movimenti New Age, quelli del potenziale umano e molti altri gruppi che propongono dottrine certamente inaccettabili dal punto di vista cattolico, che è anche il mio, ma che certamente non adorano il Demonio.

Se parliamo di satanisti, dobbiamo distinguere ancora fra il satanismo organizzato – composto da associazioni che si costituiscono come tali davanti a Notaio, pubblicano un bollettino, hanno magari anche un sito Internet – che coinvolge prevalentemente adulti ed è semmai un fenomeno in diminuzione, ridotto a poche centinaia di aderenti, e il satanismo non organizzato dei gruppi composti prevalentemente (anche se non esclusivamente) da giovani, che traggono le loro informazioni sul demoniaco da una certa musica o da Internet, sono numerosi ma piccoli (in media da cinque a dieci membri), non hanno struttura giuridica e di solito sono scoperti solo quando commettono reati.

Il caso delle Bestie di Satana di Varese scoperto nel 2004 (tre omicidi accertati e due suicidi sospetti, il leader condannato a trent’anni di carcere nel 2006) dimostra che il fenomeno è grave e non è da sottovalutare. Anche se si tratta di piccoli gruppi difficili da scoprire o da censire, e che fanno parte più della galassia della devianza giovanile (è rarissimo trovarne dove non circoli anche droga) che non di quella della religione in senso stretto. Estrapolando dal numero di incidenti scoperti ogni anno, e da dati stranieri che ci dicono che per ogni caso scoperto ce n’è in media uno che non si scopre, è realistico pensare che i giovani coinvolti siano circa un migliaio. Una cifra non bassa, anzi molto alta, che darebbe all’Italia un primato mondiale in materia e giustifica una seria azione di polizia, dal momento che molti di questi gruppi commettono reati e alcuni, come si è visto, reati gravissimi. Ma certamente non ci sono seicentomila o ottocentomila persone coinvolte in questo satanismo “selvaggio” il che vorrebbe dire, considerato che la fascia d’età coinvolta non è quella della totalità della popolazione, che c’è un satanista in ogni condominio: il che mi sembra molto, molto esagerato.

Quanto agli “antipapi” ce ne sono diversi al mondo, e alcuni anche in Italia o con seguaci italiani. Si tratta di frange estreme di movimenti che criticano la Chiesa – per usare un linguaggio politico che deve essere inteso in senso metaforico, ma che rende l’idea – o dall’estrema destra (rifiutando il Vaticano II e la riforma liturgica) o dall’estrema sinistra (chiedendo l’abolizione del celibato sacerdotale o l’ammissione delle donne al sacerdozio), e che talora si strutturano in veri e propri scismi, in casi estremi arrivando a proclamare i loro leader come “Papi” alternativi. Si tratta di un fenomeno in lieve crescita, interessante perché rimane spesso sommerso e poco studiato: ma in cifra assoluta i numeri non sono particolarmente alti.

In che modo venite a conoscenza o entrate in contatto con i membri di nuove realtà religiose o spirituali? Seguite anche i loro incontri o le loro pratiche religiose?

Introvigne: Sì. Quasi tutti i gruppi censiti nell’enciclopedia sono stati contattati direttamente e, quando le cifre da loro fornite ci sono parse dubbie, abbiamo seguito i loro incontri. A prescindere dalle convinzioni personali del sottoscritto o di altri, il CESNUR, che ha un comitato scientifico dove sono rappresentate le più prestigiose università internazionali che hanno centri che si occupano di minoranze religiose, e dove siedono persone di molte diverse convinzioni religiose (o di nessuna), è noto da anni come un centro che segue con scrupolo la regola delle scienze sociali, che descrivono senza dare giudizi di valore né prendere in giro le convinzioni di nessuno, per quanto bizzarre. Per questo su centinaia di gruppi sono meno di una decina quelli che si rifiutano di collaborare e di lasciarci accedere alle loro attività.

Quali sono i gruppi religiosi o le religioni che si mostrano più ostili nei confronti della Chiesa cattolica e in che modo?

Introvigne: Proprio perché l’Italia è un Paese dove oltre l’80% della popolazione si dichiara cattolico e poco meno del 40% dichiara di andare a Messa almeno una volta al mese (anche se le indagini più recenti fanno stato di una quota consistente di over-reporting, cioè c’è chi dice di andare a Messa agli intervistatori ma poi non ci va), dei gruppi religiosi nuovi si può dire con l’espressione francese che pour se poser, ils s’opposent, ovvero, in termini che riflettono la teoria sociologica dell’economia religiosa – che personalmente prediligo e che usa volentieri metafore economiche (semplici metafore, beninteso, che non hanno nessuna intenzione di equiparare la fede a un prodotto come gli altri) –, che per entrare su un mercato religioso dove c’è una posizione di semi-monopolio ogni nuova azienda deve fare della pubblicità comparativa, e cominciare con il parlare male del semi-monopolista, che in questo caso è la Chiesa cattolica. Quando poi le nuove presenze si consolidano, possono passare da questa fase – in un certo senso immatura –, dove prevale l’opposizione, a una più istituzionale in cui prevale la proposta.

Se guardiamo alla storia, per esempio, degli avventisti del Settimo Giorno in Italia notiamo precisamente questo fenomeno: trent’anni fa il Papa era presentato come l’Anticristo, oggi in molte diocesi gli avventisti partecipano ad attività e commissioni di tipo ecumenico. Naturalmente, ogni singolo nuovo convertito deve compiere questo processo di maturazione nel suo atteggiamento individuale. Rimangono poi alcuni piccoli gruppi – non solo i satanisti, ma anche molti neo-pagani, movimenti di origine cristiana come Vita Universale o un culto dei dischi volanti come i Raeliani – che cercano di impressionare l’opinione pubblica soprattutto attraverso virulenti attacchi ala Chiesa cattolica, un “fondo di commercio” che almeno consente loro di farsi notare dai giornali.

Qual è il numero dei musulmani italiani e quali sono i diversi volti dell’islam che emergono dalla vostra ricerca?

Introvigne: È possibile che i dati dell’enciclopedia, che si riferiscono a inizio 2006, siano già superati con il nuovo decreto flussi (in pratica, una sanatoria mascherata) del ministro Ferrero e che i musulmani siano già ora intorno al milione. Se la politica di revisione della legge Bossi-Fini annunciata dal governo andrà avanti, la crescita potrebbe essere molto più rapida di quanto previsto dalla maggioranza dei sociologi. Tuttavia – per quanto io personalmente sia preoccupato dalla prospettiva di una crescita troppo repentina dell’immigrazione musulmana, che potrebbe scatenare fenomeni del tipo di quelli visti nelle banlieue francesi e in certe città britanniche – è importante ricordare che non tutti i musulmani sono fondamentalisti, e non tutti i fondamentalisti sono terroristi. La nostra enciclopedia Le religioni in Italia vorrebbe dare un contributo a superare la semplificazione secondo cui i musulmani in Italia si dividono in due categorie: i “moderati” (in genere identificati con i musulmani “laici”, che considerano l’islam una semplice eredità culturale, ma hanno abbandonato la pratica della religione, sul modello di qualche giornalista, imprenditore o docente universitario di successo) e i “terroristi”.

La realtà è molto più complessa. Se l’“islam laico” appare un fenomeno di minoranza, sovra-rappresentato dai media ma con scarso seguito fra gli immigrati, il panorama italiano presenta una vasta gamma di islam, distinti sia per provenienza geografica (un musulmano senegalese o turco non è uguale a un musulmano marocchino) sia per orientamento culturale. Se il problema delle associazioni consiste nel fatto che le più rappresentative hanno una dirigenza fondamentalista e quelle che hanno una dirigenza non fondamentalista sono poco rappresentative, resta vero che la maggioranza degli immigrati non è in contatto con alcuna associazione e che c’è una “maggioranza silenziosa” che non è né “moderata” nel senso che a questo termine danno i talk show televisivi né fondamentalista, ma conservatrice: fortemente ancorata a valori e simboli islamici (l’ostilità a ogni tipo di accostamento storico-critico al Corano, il velo) ma nello stesso tempo aperta all’integrazione o almeno al dialogo con la democrazia italiana su temi quali i diritti umani o lo statuto da attribuire alle donne e ai non musulmani.  (Zenit, 11 dicembre 2006)

 

 

 


 

Il Sarcofago di San Paolo: una nota esplicativa sui  lavori che l’hanno portato alla luce.

La basilica sorge sul sepolcro dell’Apostolo nella via Ostiense, ove alla fine del II secolo il presbitero romano Gaio, nella citazione di Eusebio, segnalava l’esistenza del tropaion eretto a testimonianza del martirio di Paolo. Nel luogo si avvicendarono, nel corso del IV secolo, due edifici, quello "costantiniano" e quello "dei tre imperatori", legati al pellegrinaggio devozionale alla tomba dell’Apostolo e utilizzati per scopi cimiteriali e liturgici.

L’unica documentazione riferibile alla situazione archeologica del monumento consiste in pochi disegni e schizzi con misure, di interpretazione talvolta enigmatica, redatti dagli architetti Virginio Vespignani (1808-1882) e Paolo Belloni (1815-1889), dopo l’incendio del 1823, durante gli scavi per la nuova confessione (1838) e la posa delle fondamenta del baldacchino di Pio IX (1850). I resti archeologici allora rinvenuti non furono più visibili successivamente perché in parte distrutti e in parte obliterati dall’attuale Confessione.

Che la Basilica di S. Paolo fosse sorta sulla tomba dell’Apostolo è un dato incontrovertibile nella tradizione storica, mentre l’identificazione del sepolcro originario è una questione rimasta aperta. La Cronaca del Monastero parla di un grande sarcofago marmoreo rinvenuto durante i lavori di ricostruzione della basilica dopo l’incendio del 1823, nell’area della Confessione, sotto le due lastre iscritte PAVLO APOSTOLO MART[YRI], di cui però non esiste traccia nella documentazione di scavo, a differenza degli altri sarcofagi che furono scoperti e rilevati nella stessa occasione, tra cui il famoso "dogmatico" oggi conservato nei Musei Vaticani.

Le indagini archeologiche nell’area tradizionalmente considerata il luogo di sepoltura dell’Apostolo, iniziate nel 2002 e terminate il 22 settembre 2006, hanno permesso di riportare alla luce un importante contesto stratificato, formato dall’abside della basilica costantiniana, inglobata nel transetto dell’edificio dei Tre Imperatori: sul pavimento di quest’ultimo, sotto l’altare papale, è stato riscoperto quel grande sarcofago del quale si erano perse le tracce e che veniva considerato fin dall’epoca teodosiana la Tomba di S. Paolo.

Tali esplorazioni avevano il fine di verificare la consistenza e lo stato di conservazione dei resti della basilica costantiniana e teodosiana sopravvissuti alla ricostruzione dopo l’incendio e di proporne la valorizzazione a fini devozionali. Dal 2 maggio al 17 novembre di quest’anno si è ultimato, nell’area della Confessione, il Progetto di accessibilità alla Tomba di S. Paolo. Dopo aver smontato l’Altare di S. Timoteo si è scavata l’area sottostante per riportare alla luce, sull’intera superficie di circa 5 mq, l’abside della basilica costantiniana. Per raggiungere i resti del IV secolo si è scavato materialmente dentro il nucleo murario della moderna platea di fondazione che aderisce perfettamente alle strutture antiche, sia in fondazione che in elevato, fino a raggiungere il punto di distacco tra la parte antica e quella moderna rilevabile dal differente colore della malta, rosata quella del XIX secolo e grigia quella del IV secolo.

Poiché la quota del transetto dei Tre Imperatori, sul quale giace il sarcofago di S. Paolo, è più alta rispetto al piano dell’attuale Confessione, è evidente che qui il piano è stato demolito in occasione dei lavori del XIX secolo. Il massetto invece si conserva, resecato a forma di gradino, dietro l’altare di Timoteo, dove è strutturalmente incorporato nel muro moderno che delimita il lato est della Confessione. Al momento dei lavori del XIX secolo, poiché la cresta dell’abside presentava probabilmente alcune parti instabili, queste furono rimosse avendo prodotto l’effetto di un gradino nell’emplecton, di circa 10 cm. di altezza e pari a due file di mattoni, che inizia sul bordo interno dell’abside della quale ricalca l’andamento curvilineo. Sulla fronte del gradino si vedono le impronte lasciate nell’opera cementizia dai mattoni da cortina rimossi.

Per raggiungere la quota pavimentale costantiniana si è rimossa la metà sud del settore absidale. Nello scavo non si sono rinvenuti altri reperti archeologici se non resti di murature. Per aumentare la visuale sul sarcofago di S. Paolo si è allargato fino a m. 0,70 il vano attraverso la muratura del XIX secolo già aperto durante i lavori del 2002-2003. È stato possibile rilevare le dimensioni del sarcofago: cassa lunga circa m. 2,55, larga circa m. 1,25 e alta m. 0,97; coperchio alto circa m. 0,30 e spesso nel bordo anteriore m. 0,12. La porzione dell’abside scoperta costituisce l’unica testimonianza visibile della Basilica attribuita comunemente a Costantino.

Rimane aperto il problema topografico del rapporto tra la basilica e il pavimento stradale rinvenuto nel 1850 immediatamente ad ovest dell’abside costantiniana. Il Belloni vi riconobbe l’antica via Ostiense, che sarebbe stata trasferita nella sede attuale per ordine dei Tre Imperatori, ma non rilevò la quota di quel selciato. A questo riguardo risulta di particolare interesse la scoperta, all’interno dell’abside costantiniana, di alcuni grandi blocchi di basalto reimpiegati come materiale da costruzione nelle fondazioni della basilica dei Tre Imperatori.

Per quanto riguarda la pianta della basilica costantiniana, poiché non abbiamo altri elementi al di fuori delle nuove misurazioni dell’abside, è prematuro fare nuove ipotesi, salvo che confermare le modeste dimensioni dell’edificio. Il piano di cocciopisto scoperto sopra la quota di rasura dell’abside costantiniana corrisponde al transetto dei Tre Imperatori (390 d.C.) sul quale poggia il grande sarcofago che segnalava la Tomba dell’Apostolo all’epoca della costruzione della nuova grande basilica, ed era delimitato da un podio presbiteriale monumentale, come lascerebbe supporre la poderosa platea di fondazione spessa m. 1,66, che grava direttamente sul pavimento dell’abside costantiniana. Non è escluso che all’interno di tale fondazione possano esservi i resti del tropaion eretto sulla tomba dell’Apostolo Paolo.

Si può ritenere che tra il 1838 e il 1840 nell’area della Confessione sia stato rimosso o demolito tutto ciò che poggiava sul pavimento dei Tre Imperatori. Per gettare le fondazioni del nuovo presbiterio e dell’altare papale fu persino spostato il sarcofago di S. Paolo. Nell’area indagata non sono stati finora rinvenuti, tra il livello pavimentale del 390 e la fondazione del 1840 resti di strutture riferibili ad altre epoche. (Nota presentata questo lunedì nella Sala Stampa vaticana archeologo Giorgio Filippi, pubblicata in Zenit, 11 dicembre 2006)

 


 

Quel Gesù ridotto all'utopia

Vorrei esporre alcune considerazioni a proposito della recensione del padre Raniero Cantalamessa relativa al saggio «Inchiesta su Gesù», di Corrado Augias e Mauro Pesce (Mondadori), pubblicata su Avvenire sabato 18 novembre. Di quello scritto mi sono occupato brevemente sul settimanale cattolico torinese «Il nostro tempo» (8 ottobre), vedendovi un'espressione di quel processo di «de-ellenizzazione del cristianesimo» che, nella sua lectio di Ratisbona, Benedetto XVI aveva denunciato essere in atto negli studi relativi al Nuovo Testamento elaborati nell'Europa occidentale a partire dal secolo XVII e culminati nella cosiddetta scuola protestante liberale del secolo XIX, con robuste propaggini in quello successivo, fino ai nostri giorni.

Frutto di questo processo di de-ellenizzazione delle fonti neotestamentarie era l'emergere della figura di un Gesù radicalmente diverso da quello proposto dalla tradizione cristiana successiva. Secondo questa ricostruzione egli fu un ebreo di stretta osservanza, che non pensò minimamente all'abolizione della legge e del culto mosaici, meno che mai intese fondare una nuova religione né concepì la sua morte violenta come un'espiazione per i peccati dell'umanità, anche perché era convinto che la sua missione fosse assolutamente circoscritta "alle pecore perdute della casa d'Israele" (Mt 15,24), ragione per cui sia l'evangelizzazione stessa (annunzio della "buona notizia", cioè della redenzione dell'umanità e della sua riconciliazione con Dio) sia la sua diffusione fra tutte le genti sarebbero da attribuire alle convinzioni e alle interpretazioni degli autori degli scritti neotestamentari, segnatamente dei vangeli. Dai quali tuttavia, in mancanza di altri documenti più attendibili, il professor Pesce, stimolato dal suo interlocutore, è costretto a partire per la ricostruzione del suo "Gesù ebreo e non cristiano", sceverando tra i dati che risalirebbero, in maniera autentica, al Gesù "storico" e quelli che dipenderebbero dall'interpretazione dello scriba.

Questo atteggiamento mentale da parte di uno studioso che opera su quel tipo di fonti mi aveva piuttosto sorpreso, ma, non essendo io versato in questo tipo di esegesi a carattere storico, mi sono limitato, in quell'intervento sul settimanale torinese, a occuparmi di un aspetto della ricostruzione di questo Gesù "storico": quella relativa alla sua prospettiva circa il futuro. Ecco quanto si dice nell'Inchiesta (p. 68): «Gesù attendeva l'avvento imminente del regno di Dio che avrebbe dato inizio a un periodo di giustizia, di uguaglianza, di benessere e di pace non solo fra gli uomini, ma con la stessa natura, con gli animali». L'attesa (o forse meglio sarebbe dire l'annunzio) del regno di Dio da parte di Gesù si può dedurre da molti passi dei vangeli (soprattutto sinottici). Quanto all'imminenza di questo avvento, essa è affermata talora in maniera esplicita (Mc 9,1 e par; cfr. anche Lc 10,10; Mt 10,7). Da altre espressioni dei sinottici il regno di Dio sembra già presente e operante. Il vangelo di Luca, infatti, mette in bocca a Gesù queste parole: "La Legge e i Profeti sono fino a Giovanni, da allora il regno di Dio è evengelizzato" (Lc 16,16); in maniera ancora più esplicita, sempre in Luca, rispondendo a una domanda di Farisei, egli afferma: "Il regno di Dio non viene in modo che lo si possa osservare; né si dirà: eccolo qui o là, perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi" (Lc 17, 20-21). Il discorso sull'avvento del regno diventa un rebus quasi indecifrabile se viene rapportato alla cronologia dei cosiddetti discorsi escatologici riferiti dai sinottici (Mc 13, 1-37; Mt 24, 1-35; Lc 21, 5-38), intesi comunemente come il preannuncio della parusia, cioè del ritorno di Gesù Cristo in terra, preludio alla fine del mondo. Tutto ciò però sembra dover essere preceduto da guerre, persecuzioni contro i seguaci di Gesù, diffusione del vangelo su tutta la terra, apostasie, sconvolgimenti cosmici, e quindi venuta del Figlio dell'uomo sulle nubi del ci elo, secondo la visione di Daniele, raduno degli eletti. Sembra un elenco di accadimenti che si sdipana in una serie temporale verosimilmente molto lunga. Eppure sia Marco sia Matteo mettono in bocca a Gesù la singolare affermazione che "tutte queste cose" accadranno nel corso di "questa generazione", di quella a lui contemporanea (Mc 13,30; Mt 24,34). Di più: in Matteo e in Marco Gesù dà ai suoi discepoli il "segno" al verificarsi del quale essi dovranno abbandonare Gerusalemme e la Giudea: quando vedranno "l'abominio della desolazione, predetto dal profeta Daniele (9,27), stare dove non deve (cioè, nel Tempio)", e in Luca, in maniera ancora più precisa, Gesù indica come segno per la fuga l'inizio dell'assedio di Gerusalemme a opera dei Romani (Lc 21,20).

Anche se gli autori dell'Inchiesta non lo dicono, è assai probabile che soprattutto sulla base dei discorsi escatologici dei sinottici essi abbiano attribuito a Gesù la convinzione dell'imminenza dell'avvento del regno di Dio (convinzione che egli condivideva con Giovanni Battista). E in effetti è nel corso di "questa generazione" che deve verificarsi il "segno" per eccellenza, cioè la profanazione del Tempio ("l'abominio della desolazione") che in Daniele rappresenta il culmine della persecuzione del re Antioco IV di Siria contro gli Ebrei, la loro religione e il loro culto, a cui sarebbe seguita la liberazione del popolo ebraico e la restaurazione definitiva del suo regno a opera di un inviato dall'alto che il profeta, in un'altra celebre visione, presenta come "uno simile a Figlio d'uomo veniente sulle nubi del cielo" (Dn 7,12), un'immagine, com'è noto, puntualmente ripresa nei discorsi escatologici. Quanto al modo con cui il regno si sarebbe instaurato, Gesù, secondo i due autori, avrebbe escluso sia la conquista militare sia quella politica. Su questo punto il suo messaggio "è sostanzialmente diverso dal cristianesimo successivo" (p. 55).

È un'affermazione, questa, che però non vale sicuramente per i primi secoli cristiani, in cui l'evangelizzazione non si è svolta né con i mezzi politici né con i mezzi militari. Quanto ai contenuti del regno di Dio, gli autori dell'Inchiesta, tenendo presente l'acuta sensibilità di Gesù verso le fasce degli oppressi, dei diseredati e degli umili di ogni specie, ritengono che egli attendesse a breve termine un ribaltamento della situazione esistente e l'instaurazione, qui e ora, di un nuovo ordine, all'insegna della giustizia, della pace e dell'armonia cosmica. Questa ricostruzione del pensiero di Gesù riguardo al regno di Dio prescinde sensibilmente da quelle che sono le fonti neotestamentarie, a cominciare dai vangeli. Nel vangelo di Luca, ad esempio, nel suo discorso escatologico Gesù, dopo aver parlato dei fenomeni cosmici che accompagnano la venuta del Figlio dell'uomo, aggiunge: "Quando queste cose avranno inizio, alzatevi e sollevate le vostre teste, perché la vostra liberazione (altri: redenzione) è vicina" (Lc 21, 28); in quello di Matteo alla venuta del Figlio dell'uomo segue il raduno degli eletti a opera degli angeli (Mt 24, 30-31); in Marco il discorso di Gesù si chiude con un invito alla vigilanza, perché il tempo della sua venuta è assolutamente incerto. Nessun annunzio di un regno di Dio sulla terra nei discorsi escatologici, comunque essi vengano intesi: annunzio del ritorno di Cristo e della fine del mondo, come vuole l'interpretazione tradizionale, o annuncio della drammatica e sconvolgente conclusione della vicenda terrena di Gesù, che però proprio nella sua morte rivela al centurione pagano la sua natura di Figlio di Dio (cfr. Mc 15,39).

Nonostante il silenzio o il comportamento contraddittorio delle fonti evangeliche su questo punto, gli autori dell'Inchiesta non mostrano dubbi sulla natura e il carattere del regno di Dio atteso da Gesù e, anzi, quasi a conclusione della ricerca il professor Pesce si sente in grado di precisare altri particolari a questo riguardo: «Gesù aspetta l'avvento del regno di Dio che avrà luogo in due modi diversi. Quando arriverà il regno di Dio, si avrà un giudizio universale, ma anche un periodo intermedio in cui il messia regnerà e la terra sarà rinnovata: una specie di sogno utopico in cui le forze della natura diventeranno benefiche, ogni contrasto avrà fine» (p. 220). Il "sogno utopico", che viene qui, un po' apoditticamente per la verità, attribuito a Gesù, oltre che in certi scritti "apocalittici" (IV Esdra, 2 Libro di Baruch), in quelli appartenenti al Nuovo Testamento trova un riscontro puntuale soltanto nel celeberrimo capitolo XX dell'Apocalisse di Giovanni, interpretato però all'insegna di un rigoroso millenarismo, quale oggi si ritrova soltanto in certe correnti e sette di carattere fondamentalista. Confesso di esser rimasto piuttosto scioccato da questa utilizzazione dell'Apocalisse, liquidata nella parte iniziale di questa ricerca come una "escatologia allucinata" (p. 39), e quindi, evidentemente, come un documento non idoneo per la ricostruzione "storica" del personaggio Gesù. E già questo rifiuto mi pare strano, trattandosi di un testo che, a prescindere dall'enorme influsso esercitato sulla cultura europea, particolarmente quella occidentale, è stato composto a non molta distanza di tempo dagli eventi riguardanti la vicenda terrena di Gesù, il cui autore si chiama Giovanni, che se non era il "discepolo amato da Gesù", era sicuramente qualcuno che ne aveva raccolto la "testimonianza".

Se poi a questa testimonianza non è stato dato e ancora dai più non si dà valore storico, è perché si è pensato che l'autore, dando per scontato che Gesù fosse riconosciuto da tutti come il Messia venuto ad adempiere le profezie che lo riguardavano, si piegasse commosso sul presente di tribolazione e persecuzione, in cui egli e i suoi "fratelli" si trovavano, e levasse il suo sguardo profetico verso un futuro in cui Gesù Cristo sarebbe tornato trionfante a distruggere i nemici e a instaurare il regno di Dio. Come ho tentato di dimostrare in altre sedi, lo scopo dell'autore dell'Apocalisse era di provare, alla luce delle visioni degli antichi profeti (soprattutto Daniele, Ezechiele, Isaia), che Gesù era il Messia da loro annunciato e aveva realizzato il contenuto delle loro profezie messianiche mediante la sua morte seguita dalla resurrezione. Autori della sua morte, gli esponenti di una triade malvagia : il "Dragone" (risalito per questo scopo dall'abisso, dove era stato incatenato da un "angelo forte"), la "Bestia" (il potere imperiale romano, rappresentato dal procuratore Pilato) e il "falso profeta" (Gerusalemme, indicata nel libro come «la prostituta, quella grande», «Babilonia, la grande», cioè gli esponenti religiosi e civili del popolo ebraico, venuti meno al loro compito di custodi della scrittura e delle promesse messianiche in essa contenute).

Se questo messaggio del libro di Giovanni fosse stato inteso nel suo senso squisitamente "cristologico" (ed "ecclesiologico"!) - come credo sia accaduto nei primi secoli cristiani - forse non avrebbe avuto il drammatico peso e le nefaste conseguenze che ha avuto, nel mondo cristiano, la ricerca dei responsabili della morte di Gesù. Per lunghi secoli di essa furono ritenuti responsabili i "giudei", e ciò ha sicuramente contribuito in maniera preponderante, anche se non esclusiva, alla diffusione dell'antisemitismo nel mondo cristiano, confluito nell'immane tragedia della Shoah. Dopo, le cose sono radicalmente cambiate all'interno sia delle Chiese cristiane (per quella cattolica, con il Concilio Vaticano II) sia della ricerca storica.

Nell'Inchiesta di Augias e Pesce il ribaltamento dell'accusa è totale, in quanto viene fatta ricadere esclusivamente sul governatore romano, Ponzio Pilato. In ordine a questa tesi, gli autori accusano le fonti evangeliche di avere calcato la mano sull'ostilità da parte dei "giudei", tentando, in qualche modo, di scagionare l'autorità romana, e ciò per ingraziarsene il favore in vista della diffusione del proprio movimento religioso.

È questo il punto centrale a cui mira la critica del padre Cantalamessa nella sua elaboratissima recensione del saggio di Augias e Pesce. Egli parte dalla scelta dei testi che i due autori hanno messo alla base della loro ricerca, mostrando una certa propensione per i testi cristiani apocrifi recentemente scoperti, in quanto essi sarebbero in grado di fornirci su Gesù aspetti trascurati dai vangeli canonici. Cantalamessa ha buon gioco nel dimostrare: primo, che questi testi erano in gran parte già conosciuti; secondo, che tutti sono posteriori ai vangeli canonici. Quanto alla presunta esclusiva responsabilità di Pilato nella condanna di Gesù, non gli è difficile dimostrare che questa tesi è frutto di un partito preso, in quanto non soltanto la responsabilità dei giudei è affermata esplicitamente da Paolo (1 Ts 2,15), ma in tutti i vangeli è attestato, "si può dire a ogni pagina, un contrasto religioso crescente tra Gesù e un gruppo influente di giudei (farisei, dottori della legge, scribi) sull'osservanza del sabato, sul puro e sull'impuro". Meno persuasivo, e addirittura possibile fonte di nuovi fraintendimenti e conflitti, mi pare il tentativo di dimostrare il carattere antiromano degli scritti neotestamentari, richiamando "l'invettiva feroce" dell'Apocalisse contro Roma, identificata con "Babilonia", "la prostituta". A parte il fatto che tale identificazione è stata messa in discussione già nel passato e sempre più oggi, e con solidi argomenti (si veda l'edizione di Edmondo Lupieri, Mondadori 1999), a preoccuparmi è il fatto che questo presunto odio fanatico dell'Apocalisse contro Roma, come centro di ogni nequizia, simbolo del potere oppressivo e crudele, è stato usato lungo i secoli, e ancora di recente, come spunto per l'odio contro i presunti successori o sostituti di Roma. (Eugenio Corsini, Avvenire, 13 dicembre 2006)

 

 

 


 

Libertà religiosa, la sfida dell'islam

Il suo ultimo libro si intitola semplicemente «Benedetto XVI» ma porta un sottotitolo impegnativo: La scelta di Dio. Perché, secondo George Weigel, Ratzinger è veramente l'uomo giusto al momento giusto, per la sua capacità di indicare al momento il cuore del problema che si pone tanto a Occidente quanto a Oriente: il rapporto tra fede e ragione, con tutto quel che ne discende in quanto a capacità di distinguere il bene e il male (il libro è stato appena pubblicato da Rubbettino, pagine 366, euro 18,00). In questa prospettiva, il recente viaggio in Turchia è fondamentale per capire il carattere, ma anche le preoccupazioni di questo pontificato.

Quale obiettivi ha raggiunto, secondo lei, questo viaggio?

«Il viaggio in Turchia inizialmente ha avuto un carattere ecumenico e pastorale: non si trattava del Papa che andava a far visita ad un Paese islamico, ma di Pietro che andava incontro ad Andrea. Era anche una sfida a tutto il mondo ad individuare una configurazione culturale che riconosca tra i diritti umani il rispetto della religione di ciascuno, mentre in realtà la Turchia impone tuttora pressioni e limiti al Patriarca di Costantinopoli. Di fatto, quel viaggio ha raggiunto due obiettivi: il primo è quello di aver rafforzato i legami tra Roma e Costantinopoli, visto che il Papa ha difeso la libertà di religione del patriarca Bartolomeo e della popolazione; il secondo è quello di avere identificato la questione chiave che si affaccia oggi sull'Europa: se cioè la Turchia appartenga all'orbita della civilizzazione europea o no».

A questo proposito papa Benedetto XVI è sembrato più propenso all'entrata della Turchia nell'Unione che non le istituzioni europee, in questo momento molto fredde.

«Ci sono alcune unità di misura per valutare l'appartenenza della Turchia all'orbita europea. La prima è quella dei diritti umani: tra l'altro, se anche in questo Paese si sviluppasse un reale rispetto per i diritti, avremmo la dimostrazione del fatto che la cultura islamica può dare vita a uno Stato che rispetta realmente la religione. Padre Lombardi, quando ha riferito il pensiero del Papa su questo problema, ha espresso la disponibilità del Pontefice ad accogliere i progressi della Turchia su questa strada, ma resta una preoccupazione, che si potrebbe esprimere in questo modo: se la Turchia, con la storia che ha, aderisse adesso all'Ue, avremmo la dimostrazione che quest'ultima è solo un'alleanza economico-organizzativa. Il che certamente non era nelle intenzioni dei padri fondatori: Schumann, Adenauer, De Gasperi concepirono le istituzioni europee come espressione delle radici cristiane comuni. Questa espressione potrebbe evolvere in espressione di una cultura umanistica comune con radici profondamente cristiane anche se non esclusive. Ma senza cambiamenti significativi, la decisione di annettere la Turchia nell'Unione è solo una questione di business».

Come mai ha intitolato il suo libro «Benedetto XVI. La scelta di Dio»?

«Ratzinger non voleva diventare papa: quando alcuni amici gli hanno ventilato questa possibilità, lui ha fatto resistenza. Ma una volta accettato la "scelta di Dio" in spirito di obbedienza, ha fatto il papa come solo lui poteva farlo. E cioè come un grande maestro, un grande catechista, come un uomo che costantemente richiama alla santità eucaristica, e come un uomo che costantemente richiama al rapporto tra fede e ragione. E va bene così».

Lei ha scritto anche su Giovanni Paolo II: le sarà venuta la tentazione di fare confronti.

«Penso spesso a Papa Wojtyla, alla cui biografia sto ancora lavorando. Ma nei primi quindici anni del suo pontificato molti lo vedevano come una figura controversa: solo a metà degli anni Novanta è diventato una figura di padre universalmente riconosciuta. Ma vorrei anche aggiungere che la Chiesa cattolica non è solo il papa: è fatta dai vescovi, dai sacerdoti e da tutto il popolo di Dio, cui spetta portare per il mondo il suo messaggio. Dobbiamo darci da fare: non possiamo aspettare che venga un papa a risolverci tutti i problemi del mondo».

In che senso Benedetto XVI è un grande catechista e un grande maestro?

«La dimensione pastorale è la chiave del suo magistero. Quando parla, che si tratti dell'udienza del mercoledì, dell'Angelus, dell'incontro dei bambini della prima comunione o di un'intervista alla televisione tedesca, parla con una chiarezza luminosa. Chiunque sia disponibile all'ascolto può capire quello che sta dicendo, e di conseguenza può decidere cosa fare. Poi c'è il suo ruolo mondiale: questo Papa ha la capacità di porre all'ordine del giorno del mondo una questione universale come nessun altro può fare. Come è successo a Ratisbona, quando ha detto, in sostanza, che la mancanza della ragione nella fede in Dio può portare alla malvagità, ma allo stesso risultato può portare la mancanza di fede nella ragione».

Che è una critica all'Occidente…

«Il modo in cui pensiamo o non pensiamo la nostra fede condiziona fortemente ciò che riteniamo giusto o sbagliato. Questo è evidente nell'islam radicale, ma lo è anche in Europa, che ha solo una ragione senza alcuna fede. E questa critica alla cultura occidentale contemporanea era già presente in Giovanni Paolo II, basterebbe rileggere la Ecclesia in Europa o la Fides et Ratio».(Paola Springhetti, Avvenire, 13 dicembre 2006)

 


 

Se D'Alema ha nostalgia della Cina violenta di Mao

Anche D’Alema sembra ormai contagiato dal vento di follia che spira sul governo Prodi. A Pechino ha ricordato l’amore appassionato per la Cina che provava da studente. Uno sguardo alla carta d’identità di D’Alema ci conferma che quella era la Cina di Mao e della Rivoluzione culturale, quando tre milioni di membri di gruppi sociali «sospetti» furono uccisi, e cento milioni di cinesi incarcerati o deportati.

Come ha rivelato nel suo best seller mondiale Mao la storia sconosciuta la maggiore scrittrice cinese vivente, Jung Chang, Mao ha fatto in tutto settanta milioni di morti. La nostalgia di D’Alema è forse rivolta agli anni della sua gioventù, quando i poster di Mao erano di moda almeno quanto gli spinelli (anche quelli appena rimessi all’onor del mondo dal governo), ma non piace in realtà neppure ai cinesi che stanno facendo quietamente sparire dai libri di storia e perfino dalle piazze - ci si sveglia e si scopre che i monumenti non ci sono più - la memoria storica degli anni terribili delle Guardie Rosse.

Il nostro governo in genere e D’Alema in particolare sembrano persi in una fase che uno psicanalista chiamerebbe di regressione infantile, che li porta a una politica estera che si potrebbe definire hippie: «Mettete dei fiori nei vostri cannoni». Dopo avere creato venerdì, dopo il tragico errore di Beit Hainun, una crisi diplomatica con Israele con dichiarazioni durissime, il ministro degli Esteri ci ha messo una toppa peggiore del buco dichiarando che queste tragedie sono il risultato della scelta di Israele di «garantire la sua sicurezza con l’uso della forza». Come per l’Afghanistan, anche per la sicurezza di Israele D’Alema propone «soluzioni politiche». Beit Hainun è stata una tragedia, ma la differenza morale, prima che politica, fra Israele e Hamas è che quest’ultimo intitola strade ai terroristi che uccidono volontariamente civili israeliani, compresi donne e bambini, mentre i responsabili di Beit Hainun, per quanto nessuno neghi che si sia trattato di un maledetto errore, sono già sotto inchiesta e rischiano la corte marziale.

Sostituire la forza con i fiori sembra sempre una bella idea, ma D’Alema potrebbe rileggersi lo statuto di Hamas che all'articolo 7 dichiara che il movimento promette di corrispondere alle promesse di Allah sui tempi ultimi riassunte in questo detto del Profeta: «L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l'albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me - vieni e uccidilo». E all’articolo 13 aggiunge che «le iniziative di pace, le cosiddette soluzioni pacifiche, le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese contraddicono tutte le credenze di Hamas... Non c’è soluzione per il problema palestinese se non il jihad. Quanto alle iniziative e conferenze internazionali, sono perdite di tempo e giochi da bambini».

Certamente ci sono da sempre in Hamas - accanto a semplici terroristi - «treguisti» con cui si può trattare. Ma la politica hippie che rinuncia per principio all’«uso della forza» credendo di rabbonire tutti con i fiori e i sorrisi, che già non ha mai goduto di buona salute, è morta l’11 settembre. In realtà, non ci credono neanche D’Alema e Prodi. Serve per tenere buoni i vari Diliberto e puntellare il traballante governo. Ma pagando un prezzo carissimo quanto all’immagine internazionale dell’Italia. (Massimo Introvigne, Giornale, 15 novembre 2006)

 


 

“Habemus papam”. Venti mesi dopo, un ritratto

Benedetto XVI non cerca l’applauso, non arringa le folle, eppure è popolarissimo. Il suo segreto l’ha spiegato lui stesso: è “l’obbedienza alla verità, non alla dittatura delle opinioni comuni” A venti mesi dalla sua elezione a papa, Benedetto XVI è ormai divenuto un caso di studio a livello mondiale.

Un indizio in tal senso è il ritratto in parole ed immagini che ne dà il volume “Benedetto XVI, l’alba di un nuovo papato”, uscito in questi giorni contemporaneamente in italiano e in inglese.

Pubblica il volume la White Star, un’editrice collegata alla National Geographic Society.

Ne sono autori un grande fotografo italiano, Gianni Giansanti, già celebre per aver fotografato Giovanni Paolo II, e il caporedattore della sede romana di “Time”, Jeff Israely.

Scrive tra l’altro Israely: “I gesti del suo predecessore hanno impressionato il mondo. Benedetto XVI fa invece notizia con la forza della sua prosa. Ma le sue parole non rappresentano un puro esercizio intellettuale: sono una manifestazione della sua fede e umanità. Nel messaggero si rende visibile il messaggio”.

È lo stesso giudizio che si è letto su “L’espresso” in un ritratto di papa Joseph Ratzinger pubblicato alla vigilia del suo viaggio in Turchia: “Giovanni Paolo II dominava la scena. Benedetto XVI offre alle folle la sua nuda parola. Ma cura di spostare l’attenzione a qualcosa che è al di là di se stesso”.

Molto più di questo va però detto e specificato, per cogliere il profilo originale dell’attuale papa.

Ecco qui di seguito il ritratto di Benedetto XVI di Sandro Magister:

Benedetto XVI, un papa armato di “castità”

I numeri parlano. Benedetto XVI è il papa più popolare della storia, se per popolo si intende quello che egli attira come un magnete in piazza San Pietro, ogni domenica all’Angelus e ogni mercoledì all’udienza generale, da Roma e da tutta la terra.

Le presenze sono sistematicamente più che doppie rispetto a quelle del suo predecessore Giovanni Paolo II, che a sua volta aveva polverizzato ogni record. Ma ciò che più stupisce è l’intreccio tra domanda ed offerta. Il prodotto di successo che Benedetto XVI offre alle folle è fatto della sua nuda parola.

All’Angelus, due volte su tre, papa Joseph Ratzinger spiega il Vangelo della messa di quella domenica a un uditorio che non tutto e non sempre va a messa. Lo spiega con parole semplici, ma che esigono attenzione e la ottengono. Mentre lui parla, il silenzio in piazza San Pietro è impressionante. E al termine della brevissima omelia egli inizia istantaneamente la preghiera dell’Angelus, senza neppure un attimo di intervallo. Che è il suo modo, riuscito, per non far scattare l’applauso. Questo verrà, ma al termine di tutto, al momento dei saluti in varie lingue.

Da papa, Benedetto XVI non concede nulla agli schemi che lo etichettavano da cardinale. Non fulmina condanne, non lancia anatemi. Ragiona inflessibile, ma pacato. Le sue critiche alla modernità o alle “patologie” che egli riscontra anche dentro la Chiesa le argomenta. Anche per questo egli ha quasi ammutolito il progressismo cattolico: non perché esso gli sia divenuto amico, ma perché non riesce a ribattergli con argomenti di pari solidità persuasiva.

Benedetto XVI non mostra affatto di sentirsi schiacciato dal confronto col suo predecessore. Non lo imita in nulla. Giovanni Paolo II non camminava, incedeva solenne. Papa Ratzinger con passi svelti va dritto alla meta. Giovanni Paolo II dominava la scena. Benedetto XVI cura di spostare l’attenzione a qualcosa che è al di là di se stesso.

Memorabile resta la veglia notturna col milione di giovani accorsi in Germania, nell’agosto del 2005, prima grande prova mediatica affrontata dal nuovo papa. Per molti interminabili minuti Benedetto XVI sta in silenzio, in ginocchio, davanti all’ostia consacrata posta sull’altare. Ma a mal partito non mette i giovani. Mette i registi e i cronisti televisivi, che non sanno più cosa dire o fare per riempire quel “vuoto” con cui il papa ha sconvolto la preventivata kermesse.

È il primo papa teologo nella storia della Chiesa. Ma sa insegnar teologia anche ai semplici. Anche ai bambini. Uno dei moduli comunicativi di sua invenzione sono i botta e risposta improvvisati con i più diversi uditorii. L’ha fatto anche con decine di migliaia di bambini della prima comunione, età media 9 anni, riuniti in piazza San Pietro. Un bambino gli domanda: “La mia catechista mi ha detto che Gesù è presente nell’eucaristia. Ma come? Io non lo vedo!”. Risposta. “Sì, non lo vediamo, ma ci sono tante cose che non vediamo e che esistono e sono essenziali. Per esempio, non vediamo la nostra ragione. Tuttavia abbiamo la ragione”.

Con la ragione Benedetto XVI ha aperto una partita audace. Sul rapporto tra la ragione e la fede ha impostato l’asse del discorso divenuto il più famoso e contestato del suo primo anno e mezzo di pontificato: la “lectio magistralis” da lui tenuta all’università di Ratisbona il 12 settembre del 2006.

Non è azzardato dire che Ratzinger è un papa illuminista, perché lui stesso ha dichiarato di voler prendere le difese dell’illuminismo in un’epoca in cui alla ragione sono rimasti pochi difensori. Chi si aspettava di trovare nell’ex capo dell’ex Sant’Uffizio un paladino fideista del dogma è servito. Per lui non c’è solo Gerusalemme, c’è anche l’Atene dei filosofi greci all’origine della fede cristiana.

Benedetto XVI non teme di mettere sotto severa critica le religioni, a cominciare da quella cristiana, proprio in nome della ragione. Tra ragione e religione vuole che si stabilisca un mutuo rapporto di controllo e purificazione. I due terzi della sua lezione di Ratisbona li ha dedicati proprio a criticare le fasi in cui il cristianesimo s’è distaccato dai suoi fondamenti razionali.

E all’islam ha proposto che faccia lo stesso: che intrecci la fede con la ragione, unica via per separarlo dalla violenza. Trentotto pensatori musulmani di molti paesi e di diverse correnti gli hanno risposto con una lettera aperta che da sola vale più di mille dialoghi cerimoniali. In parte dando ragione alle sue ragioni.

La lezione di Ratisbona non è l’unico testo che Benedetto XVI ha scritto di suo pugno, senza dare ascolto ad esperti che sicuramente gliel’avrebbero purgato. Anche il discorso sulla Shoah pronunciato ad Auschwitz e Birkenau era tutto suo. E puntualmente anch’esso è andato incontro a contestazioni e polemiche, politiche e teologiche, da ebrei, da laici e da cristiani. Da papa, Ratzinger agisce spesso con un’imprudenza che nessuno gli sospettava.

E il perchè di questo suo parlare “opportune et importune” l’ha così spiegato lo scorso 6 ottobre in un’omelia ai trenta studiosi della commissione teologica internazionale:

"Mi viene in mente una bellissima parola della prima lettera di san Pietro, nel primo capitolo, versetto 22. In latino suona così: 'Castificantes animas nostras in oboedentia veritatis'. L'obbedienza alla verità dovrebbe ‘castificare’ la nostra anima, e così guidare alla retta parola e alla retta azione. In altri termini, parlare per trovare applausi, parlare orientandosi a quanto gli uomini vogliono sentire, parlare in obbedienza alla dittatura delle opinioni comuni, è considerato come una specie di prostituzione della parola e dell'anima. La 'castità' a cui allude l’apostolo Pietro è non sottomettersi a questi standard, non è cercare gli applausi, ma cercare l’obbedienza alla verità. E penso che questa sia la virtù fondamentale del teologo, questa disciplina anche dura dell’obbedienza alla verità che ci fa collaboratori della verità, bocca della verità, perché non parliamo noi in questo fiume di parole di oggi ma, realmente purificati e resi casti dallobbedienza alla verità, la verità parli in noi. E possiamo così essere veramente portatori della verità".

Benedetto XVI è fatto così. Si sente talmente rivestito da questa armatura di “castità” da non temere contaminazioni. A qualcuno diede scandalo quando ricevette in udienza privata a Castel Gandolfo la bellicosa Oriana Fallaci. Ma un anno dopo ha voluto incontrare anche Henri Kissinger, il più realista dei cultori della Realpolitik. Il principe dei teologi antiromani, Hans Küng, è stato un altro dei suoi ospiti a sorpresa. Benedetto XVI non è proprio tipo che una contestazione, una satira, una fatwa possa far tremare. (Sandro Magister, www.chiesa.it,  12 dicembre 2006)

 

 

 


 

 

10 DICEMBRE 2006

 

Il dilemma di Milingo: castità o umiltà? Zelo pastorale o smania di protagonismo?

Da qualunque lato la si consideri, la faccenda Milingo imbarca sempre e comunque acqua.

Un caso che l’interessato stesso non disdegna di dare in pasto ai media, alla stampa gossip, quando invece meriterebbe ben altro trattamento, avendo procurato uno strappo gravissimo nella comunità della Chiesa.

Un orgoglioso e ribelle “non serviam” che riconduce a tragici ricordi di un passato remoto.

La trasmissione Matrix di Enrico Mentana (martedì 5 dicembre, in seconda serata), in cui si è visto un Milingo annaspare nell’improba ricerca di consensi, ha messo in evidenza tutta la debolezza e la fragilità di un progetto che puzza lontano un miglio di apologia pro domo sua, un discorso programmatico che più di essere pianificazione per una futuribile “sanatoria” mondiale per preti sposati, si riduce ben più miseramente ad una disperata autogiustificazione delle proprie rovinose scelte di vescovo scismatico, scomunicato e sospeso a divinis, convolato a nozze con l’agopunturista Maria Sung,  grazie all’opera mediatrice del “Reverendo” Moon, abile uomo d’affari coreano, discusso leader religioso, neo Messia e fondatore della sedicente “Chiesa dell’Unificazione”.

È risultato evidente fin da subito che l’infiammata perorazione della improcrastinabilità del matrimonio per i preti altro non è che un maldestro tentativo, assunto a posteriori, di fornire ai media, molto pronti e sensibili nell’ingerirsi in problematiche religiose che direttamente non li riguarda, una qualche base di discussione pseudo  teologica.

Il tentativo quindi di spostare l’attenzione da una concreta situazione contingente, ossia la plateale ribellione di un “episcopus” (di uno che guida, di uno che deve “vigilare” sugli altri) nei confronti della massima autorità della Chiesa, facendola approdare a inconsistenti giustificazioni di problematiche alternative, è miseramente fallito.

C’è da chiedersi a questo punto se il vero problema di fondo per Milingo sia stato veramente quello di continuare a vivere in castità (stato che del resto lui ha liberamente scelto ed offerto a Dio, senza alcun obbligo di terzi) oppure quello più verosimile di non accettare una fine “ingloriosa” dei suoi giorni, “dimenticato”, messo da parte, negletto, dopo che lui, attore protagonista, aveva brillantemente cavalcato per anni la tigre del successo con le sue “sacre” e molto discutibili esibizioni.

Le sue scelte attuali inducono a pensare proprio a questa seconda ipotesi.

Dunque, non di sollecitudine verso i fratelli preti, che per “debolezza” sono venuti meno al loro status clericale, si tratterebbe: ma più semplicemente di aver colto al volo un ghiotta occasione per legittimare “coram populo” la propria ripetuta defezione: il fondare un “movimento” di preti sposati, ordinare scismaticamente presbiteri ed episcopi, altro non sarebbe quindi che il pretesto per calcare nuovamente le scene da “vincitore” e riassaporare la “droga” dell’esaltazione del proprio ego.

Mi spiace per i suoi estimatori, ma non mi riesce di vedere nella “farsa” televisiva del buon Milingo, alcuna sollecitudine e sensibilità pastorale verso le pur innegabili problematiche legate al celibato sacerdotale: poiché se di autentico zelo si fosse trattato, ben altro comportamento avrebbe adottato e ben altre procedure avrebbe seguito.

Non di castità e carità, quindi, ma di insanabile orgoglio. Questo,  a mio avviso,  è il nocciolo della questione.

Tutto il resto è ininfluente: zero, nulla; un corollario da scoop, organizzato a posteriori semplicemente con l’intento di dare giustificazione e credito alle sue “vanesie”, ma dirompenti,  prestazioni religiose pubbliche.

È vero: carità cristiana impone di guardare con occhio benevolo, fraterno e misericordioso il fratello in difficoltà. È doveroso pregare per lui, perché Dio gli faccia capire l’insidia diabolica che sottende il suo errore, perché di errore umano si tratta; perché Dio, nella sua paziente bontà di Padre lo illumini e lo induca ancora una volta al pentimento, per poter essere così riaccolto nella misericordiosa “ecclesìa” di Cristo.

Ma da osservatore esterno, da cattolico impegnato, non posso reprimere il mio disappunto per tutta questa messa in scena, per questo cattivo esempio di un ex “apostolo”, che purtroppo è destinato a scuotere negativamente la debole fede dei neofiti e procurare dannosi squilibri nelle umili e semplici coscienze dei servitori fedeli. Diceva Paolo: «E poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. […] Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero…» (2Cor 6, 1.3-6). Ritengo che non serva biascicare il rosario a Maria, avendo ostentatamente dichiarato guerra al “corpo mistico” del Figlio. Sarebbe forse più utile e meritorio un serio e contrito riesame di tutta la situazione, cercando di riassumere l’equilibrio mentale del “servus Dei”, lasciando il richiamo e le lusinghe del mondo a chi è “servus mammonae”. (m.l.)

 


 

Se Milingo fa dell'ironia sui suoi settant'anni di castità

L'altra sera a "Matrix" Emmanuele Milingo ha parlato con visibile ironia della castità in cui ha vissuto fino a oltre i settant'anni di età. Un altro passaggio del dibattito sul celibato dei sacerdoti, che appassiona i media, pressoché unanimamente d'accordo sull'assurdità di questa norma a molti sempre più incomprensibile.

Per quanto può valere, vorremmo riportare qualcosa di quanto abbiamo ascoltato in una serie di interviste ai più diretti interessati all'argomento, dei giovani sacerdoti che abbiamo avuto occasione di incontrare. Sulla questione delle donne e del matrimonio, i ragazzi ordinati negli ultimi dieci anni ci hanno sorpreso. Per la franchezza con cui questi trentenni affrontano l'argomento, senza tabù o reticenze.

Quando già erano decisi a entrare in seminario, raccontano alcuni, si sono accorti di essere innamorati. E dunque? domandi un po' sconcertata, perché l'uomo che hai davanti adesso porta la tonaca nera. Rispondono tranquilli, con la serenità di chi ha fatto bene i conti con se stesso. "Innamorarsi - ti dicono - per un uomo è normale. La bellezza delle donne, la vedi anche se vuoi diventare prete. Ma Dio, se la tua vocazione è autentica, ti fa percepire un'attrazione per lui, che è più forte di una donna".

Qualcosa di ancora più bello dell'innamorarsi, a vent'anni, di una ragazza. La seduzione di un dono totale di sé, oltre l'ansia di possesso dell'altro, che quasi sempre rimane anche nel fondo degli amori più grandi. Un darsi senza limite, che potrebbe sembrare utopica generosità adolescenziale se lo stesso prete che ti parla non vivesse, ora, nella durezza di Paesi dell'Est scristianizzati, o nelle periferie brutali delle nostre metropoli.

Ascolti, e capisci, almeno, di non capire: che c'è qualcosa, in quel "sì" totale, che non è comprensibile a tutti. Avverti anche che non è, il rinunciare a una donna accanto, indolore, ma drammaticamente soppesato. "Ho capito tante cose - ci ha detto uno - quando da ragazzo mi sono innamorato. Ho ca pito di più cos'è amare Cristo, nell'essermi innamorato di una donna. Perché ho saputo in quel momento che la mia vocazione avrebbe comportato un sacrificio, che non avevo del tutto compreso prima".

E il momento di entrare in seminario, per qualcuno ha il sapore del coraggio di chi conta davvero su quella promessa del Vangelo, sul "centuplo quaggiù". Per altri, alla vigilia della scelta il volto di una ragazza a cui si è voluto bene si rivela alla fine "uno schermo, dietro al quale ho riconosciuto il volto di Cristo". Quel viso di donna come un'immagine esteriore, dietro cui si riconosce una bellezza più grande. E, la paternità, l'ansia umana di lasciare dietro di sé un figlio, non manca? abbiamo chiesto. "Ti accade il miracolo di persone che si riconoscono tuoi figli: e questo non ha niente di meno della paternità carnale", ha risposto uno dei più maturi negli anni.

E dunque la scelta del celibato è ben consapevole in quelli - pochi, è vero - che oggi diventano preti. Non ha, però, quel sapore di mesta sofferenza testimoniato da Milingo. E' sacrificio, ma per qualcosa di più grande. Per una bellezza che certo a chi non la vede può apparire illusoria - e assurda la rinuncia agli affetti familiari. Questi ragazzi col colletto bianco, però, sembrano fortemente radicati nelle amicizie che li hanno accompagnati; forse più coscienti di un tempo del bisogno di umana compagnia che anche i sacerdoti hanno. In questo senso, forti. Convinti di ciò che hanno voluto, e contenti - in un tempo che non capisce più la loro scelta - di quel darsi totale. Pochi, è vero, ma lieti del loro destino. E lieti noi, che questa misteriosa elezione continui ad accadere nella storia. (Marina Corradi, Avvenire, 6 dicembre 2006)

 


 

La CEI sottolinea la rilevanza sociale e culturale dell’insegnamento della religione cattolica

La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), in merito alla scelta di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nell’anno scolastico 2007-2008, ha sottolineato la rilevanza sociale e culturale dell’ora di religione. In particolare il messaggio afferma che “la scuola può e deve dare il suo contributo alla riflessione sul mistero della vita, soprattutto oggi che, per la presenza di un numero in continua crescita di bambini e ragazzi provenienti da altri paesi, sta diventando sempre più un luogo di confronto di tradizioni culturali e religiose”.

“La scuola – continua il testo – è innanzitutto un tempo dedicato alla maturazione integrale degli alunni, quindi anche della dimensione spirituale e religiosa, all’interno e in dialogo con il contesto culturale e sociale in cui essi sono inseriti”.

In questo contesto, secondo i Vescovi italiani, “l’insegnamento della religione cattolica (IRC) si colloca in maniera pertinente per dare un contributo significativo e originale allo sviluppo di personalità capaci di ‘guardare in alto’ e di costruirsi in atteggiamento di accoglienza degli altri e di disponibilità all’incontro e alla collaborazione, con una chiara consapevolezza delle radici religiose su cui è ancorata l’identità del nostro popolo”.

Inoltre, la scelta dell’ora di religione consente “un inserimento più pieno e consapevole nell’identità culturale e sociale del nostro Paese; affronta una opportuna riflessione sul cattolicesimo, in dialogo con le altre confessioni cristiane e le altre religioni; costituisce un terreno fecondo per indagare il significato profondo della vita umana nell’orizzonte della trascendenza e prospettare decisioni impegnative per l’esistenza personale e per la vita sociale”.

La Presidenza dei Vescovi Italiani rileva inoltre che “l’IRC si offre come disciplina scolastica in grado di dare un suo specifico contributo per decifrare meglio le aspirazioni dell’uomo di oggi e rendere a lui più vicina e comprensibile la speranza che viene dal Vangelo”.

Nel testo si afferma ancora la necessità di “reagire ai condizionamenti culturali” e si ricorda “quanto sia pericoloso togliere all’uomo la prospettiva di Dio e la testimonianza che della sete di lui danno le religioni; soprattutto la rivelazione che di lui ci offre la religione cristiana nel volto e nell’opera del Figlio Gesù”.

“La nostra Europa, il mondo occidentale – conclude il messaggio della CEI – sarà in grado di ritrovare se stesso e la capacità di parlare al mondo, soltanto se cresce di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente per noi e in noi”, perché “senza Dio i conti non tornano”.

In base a quanto rivelato dall’episcopato italiano, la scelta di avvalersi dell’IRC da parte delle famiglie e dei ragazzi nell’anno scolastico 2005-2006 è stato del 91,6%. (Zenit, 1° dicembre 2006).

 


 

Il partito che non c’è

Esiste davvero, nel nostro Paese, un «Partito di Dio», omogeneo, compatto, pronto a marciare in «falangi, truppe, divisioni, corazzate»? Magari seguendo perinde ac cadaver le parole d’ordine lanciate da un grande burattinaio in talare? Esiste, davvero, nella realtà, e non nell’immaginario giornalistico-politico della sinistra, più o meno radicale? Credo che sia legittimo avere dei dubbi, anche se la vittoria dell’astensione al referendum sulla legge 40, così bruciante per gli sconfitti, e per i grandi interessi economici ammantati nella candida veste della libertà di ricerca, è stata pretesto e occasione per resuscitare lo spauracchio del potere dei preti.

E i dubbi non scompaiono nemmeno dopo aver letto l’interessante e militante opera di Marco Damilano, che si intitola proprio Il partito di Dio. Insomma, per togliervi la suspence, e svelare subito chi è l’assassino: l’impressione ricavata dalla lettura è che in Italia di partiti di Dio ce ne siano parecchi, e ben difficili da mettere d’accordo l’uno con l’altro; per non parlare poi di ricomporli in una granitica monoliticità. E se per caso in un momento particolare, e su un tema così specifico come la legge 40, la Chiesa si è trovata a cavalcare con fortuna un umore diffuso nel Paese, questo testimonia più del suo fiuto nel cogliere sentimenti popolari, che nel mettere in opera un regime di consensi stabile, sicuro e continuo.

Certo, di ossequio verbale, in particolare dai politici, la Chiesa ne ha ricevuto quantità inusuali, negli ultimi tempi; e certamente molto maggiori di quando il Paese era governato dalla Democrazia cristiana. Quanto poi questo si trasformi in potere reale, è tutto da vedere e dimostrare. La battaglia sulle scuole private e simili, in corso da anni, e per chissà quanto tempo ancora, ne è un esempio eloquente. Così come la richiesta, presente ormai da molti anni nelle “prolusioni” di Ruini, di promuovere in concreto misure di legge a favore della famiglia. E di tutto il libro uno dei capitoli più poveri è quello dedicato alle “amicizie pericolose”, l’ex governatore Fazio (che però forse era più amico del cardinale Giovanni Battista Re) e Giampiero Fiorani, amministratore della Banca Popolare di Lodi, cofirmatario, con il cardinale Ruini, di un accordo teso a fornire alle diocesi mutui vantaggiosi per ristrutturare edifici ecclesiastici. Mentre di Bazoli, l’esponente certo più significativo in campo cattolico e finanziario, si cita una presa di posizione critica verso la Cei perché i temi della «giustizia e della legalità tributaria» gli sembravano troppo assenti dalla predicazione della Chiesa.

Insomma, niente di straordinariamente compromettente, ci sembra. E anche sul fronte della politica la sensazione è più quella di una grande frammentazione che di una falange omogenea, di cui sarebbe protagonista «il nuovo cattolico: intransigente, movimentista, il crociato dei valori». Rosy Bindi e Giovanardi, Mantovano e Binetti, Letta (tutti e due) e Calderoli, per non parlare degli atei più o meno devoti… Visti laicamente dall’esterno, l’impressione che danno questi buoni cristiani è quella di un’armata Brancaleone, più che di una quadrata legione.

Il protagonista, e il bersaglio principale del libro, è il presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, descritto così: «Un politico astuto, il leader indiscusso della Chiesa italiana negli ultimi vent’anni […]. Ha combattuto la sua battaglia: impedire che la Chiesa fosse travolta dal disfacimento della Dc e dalla diaspora dell’elettorato cattolico. Con un’intuizione di fondo […]. La partita non si vince con l’occupazione dei posti […]. Serve una controffensiva culturale. Mettere l’accento su alcune battaglie, vita famiglia scuola». Alle spalle, Benedetto XVI, «un Papa politico, più politico perfino di papa Wojtyla, uno dei grandi leader di ogni tempo. Il Papa tedesco detta legge sui Pacs, sull’aborto, sull’embrione. Richiede obbedienza assoluta… con l’obbligo di difendere i valori, i “principi non negoziabili”: la vita fin dal concepimento, la famiglia e l’indissolubilità del matrimonio, la libertà di educazione».

È proprio vero che sono le orecchie di chi ascolta a imporre peso e valore alle parole. A noi non sembra che difendendo questi valori (e non per interessi economici o politici, ma forse – e questo nel libro non pare venga accennato – per ragioni di bene comune, non solo ecclesiastico: i problemi generati dalla crisi della famiglia, dalla denatalità e compagnia cantante non sono un’invenzione di Ruini) la Chiesa compia alcunché di scorretto. Forse, invece, per altri lettori tutto ciò suona abominio della desolazione.

È probabilmente a loro che si rivolge il libro. L’impressione che ne abbiamo ricevuta – ma siamo pronti a ricrederci, di fronte a prove schiaccianti – è che il testo sia veramente “militante”; teso a eccitare nel suo pubblico timori e allarmi per i crociati di ritorno, più che ad aiutarli a una lettura lucida della realtà. Un libro militante anche nello stile e nel tono: il 1° maggio del 2000 la Chiesa aveva «strappato» la festa dei lavoratori al sindacato, con la messa di papa Wojtyla a Tor Vergata, invece dell’usuale concerto romano; un anno prima piazza San Giovanni era stata «requisita» per la beatificazione di Padre Pio. È un tono sempre un po’ sopra le righe, che può nascondere più che evidenziare le molte qualità di documentazione del libro, che sarebbe più convincente, se vissuto in forma più pacata. «La guerra cominciò un sabato d’estate, l’8 luglio del 2000» è l’incipit; e l’evento scatenante la «riconquista» ecclesiastica sarebbe stato niente di  meno che il Gay Pride a Roma, paragonato allo «sparo di Sarajevo», non solo, ma «la prima uscita dell’Italia laica dopo anni di silenzio». Forse, anche se la provocazione omosessuale certo non fece piacere oltre Tevere, le preoccupazioni per l’avanzata del relativismo etico erano precedenti, come ben sa anche l’autore.

Che ha una sua storia, all’interno del mondo di cui parla.

Membro di Azione cattolica, ai tempi di Angelo Bertani, fabbro instancabile di giovani lame “progressiste” del giornalismo ecclesiale, ha collaborato in ruoli di responsabilità a Segno Sette, la rivista dell’associazione. Ha vissuto il difficile periodo della presidenza Monticone (vicepresidente Rosy Bindi), delle battaglie con Comunione e liberazione, e il successivo spostamento dell’associazione su posizioni più wojtyliane, artefice il cardinale Camillo Ruini.

Come molti cattolici, l’autore del libro dà l’impressione di perdonare forse, ma dimenticare, no. Così qualche volta non si riesce a superare la sensazione che ci siano vecchie cose che tornano a galla,  che il sentimento prenda un po’ la mano al giudizio obiettivo. Come pure la nostalgia. Sarà anche vero – anche se non molto caritatevole – osservare che nelle associazioni e nei movimenti non sembrano esserci «nuove personalità di rilievo», e che «le figure autorevoli sono pochissime». Ma che forse sono “legione” i “fuoriclasse” nella politica, nell’imprenditoria, nel giornalismo, nell’arte?

Vorrà pur dire qualche cosa se è stato eletto Papa, l’anno scorso, un gentile teologo di settantanove anni… (Marco Tosatti, 30 Giorni, Ottobre 2006)

 


 

La risurrezione senza il risorto

Per l’idealismo moderno la risurrezione sorge dall’idealizzazione postuma di Gesù morto. La gloria nasce da una sconfitta. Viene così capovolto il racconto evangelico, per il quale la fede nasce dalla percezione reale del Risorto, di Colui che ha vinto la morte

La risurrezione senza miracolo

«La risurrezione non solo non è un miracolo, ma non è neppure un avvenimento empirico. E la fede nella risurrezione non dipende dal fatto che si accetti o respinga la realtà storica del sepolcro vuoto». Così recita il motto di copertina messo a commento del testo di Andrés Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, da poco tradotto in italiano[1]. L’opuscolo è interessante nella misura in cui è l’espressione compiuta di una tendenza che, dopo Bultmann, è divenuta egemone negli studi esegetici e teologici: quella per la quale la risurrezione è una pietra errante, un masso erratico che la critica deve rimuovere onde rendere comprensibile, all’uomo moderno, il contenuto della fede cristiana. Il Cristo risorto di Piero della Francesca o L’incredulità di Tommaso di Caravaggio appartengono all’arte del passato. Nel futuro non si potrà più dare una lettura realistica della risurrezione, solo quella “simbolica” potrà essere ammessa. In un singolare capovolgimento dei processi cognitivi la fede non presuppone il sepolcro vuoto e l’esperienza tangibile del Risorto; al contrario è il Cristo risorto che “appare” tale solo nella precomprensione della fede. In tal modo una parte cospicua della letteratura teologica – quella che dà per scontata l’opposizione tra il “Cristo storico” e il “Cristo della fede” – abbandona la posizione realistica e si incontra, necessariamente, con il punto di vista idealistico. Per esso non è la realtà, ciò che concretamente accade, che muove e spiega la “persuasione”; al contrario è la “visione del mondo”, la fede preliminare, che rende evidenti, “visibili”, fatti che altrimenti non sussistono. La fede, privata di ogni ragionevolezza, non è più “giudizio” ma pre-giudizio che “vede” in modo difforme dalla realtà, luogo di un’esperienza “mistica”, affettiva, idealizzante. La fede idealizza, grazie alla mediazione immaginativa, il suo oggetto. Nel caso del cristianesimo ciò significa che Cristo “appare” come il risorto nella fede, grazie alla fede. Fuori dalla fede c’è solo il mistero di una tomba vuota, di un cadavere scomparso. Un problema che non interessa la fede per la quale ciò che importa è solo il Cristo ideale, divino. La risurrezione non ha bisogno della carne di Gesù di Nazareth, della sua persona singolare; è sufficiente l’idea, il simbolo dell’Uomo-Dio. La fede vive dell’idea, non della realtà.

Questo presupposto, vero e proprio apriori concettuale, è palese nel testo di Torres Queiruga. Per il filosofo di Santiago de Compostela le acquisizioni «irreversibili» dell’esegesi e della cultura attuale fanno sì che non si possa più concepire «la presenza attiva di Dio come un’irruzione puntuale, cioè, fisica e accessibile ai sensi, nella trama del mondo»[2]. Una definizione perfetta dell’Incarnazione, che l’autore cancella con un semplice tratto di penna. Al pari di Bultmann, per il quale «mitologica è la concezione in cui il non mondano, il divino, appare come il mondano, umano, l’al di là come l’al di qua»[3], anche per Torres Queiruga Dio non può agire sensibilmente in questo mondo. Per questo «l’analisi della risurrezione di Gesù come “miracolo” – il più spettacolare – è sparita definitivamente dai trattati seri. A tal punto che perfino nei trattati più “ortodossi” si può leggere l’affermazione che la risurrezione non solo non è un miracolo, ma non è neppure un avvenimento “storico”»[4]. L’“esperienza” del Risorto deve rimuovere ogni presenza di tipo empirico. «Se il Risorto fosse tangibile o mangiasse, sarebbe necessariamente limitato dalle leggi dello spazio, vale a dire non sarebbe risorto. E la stessa cosa succederebbe se fosse fisicamente visibile»[5]. Credere diversamente significherebbe sottoporsi all’«imperialismo del principio empirista»[6], rendere impossibile «la ragionevolezza della fede nella risurrezione»[7]. Per l’autore «i discepoli non videro con i loro occhi il Risorto né lo toccarono con le loro mani, perché questo era impossibile stando egli al di fuori della portata dei loro sensi»[8].  Ciò che essi hanno “visto” «non può conservare nessun rapporto materiale con un corpo spazio-temporale»[9]. Del resto, «nemmeno nella vita terrena il corpo può essere considerato il supporto assolutamente indispensabile dell’identità», né «si vede che cosa vi potrebbe apportare la trasformazione (?) del corpo morto, cioè del cadavere»[10]. Per l’“idealista” Torres Queiruga la “realtà” del Cristo risorto non presuppone la sua realtà sensibile, corporea. Essa si fonda sulla soggettività del credente, sulle «esperienze psichiche, di visualizzazioni o immaginazioni di convinzioni intime. Convinzioni che possono avere un referente reale – il mistico nella sua visione si collega realmente a Cristo – senza che lo sia la forma in cui si presenta»[11]. La “visione” presuppone l’esperienza interiore, la peculiare condizione personale e ambientale, a partire da cui la «mediazione immaginativa»[12] – che l’autore evoca richiamandosi a Kant – si attua dando forma all’oggetto della sua aspirazione. Nel caso dei discepoli, «dentro la cultura del tempo, aperta alle manifestazioni straordinarie ed empiriche del soprannaturale, poteva funzionare con tutta naturalezza lo schema immaginativo della risurrezione come una specie di ritorno in vita»[13]. I discepoli cioè credettero di vederlo in quanto predisposti a ciò da un contesto, un ambito spirituale. All’interno di questo orizzonte l’elemento decisivo, la scintilla, è provocata dall’esperienza fondamentale della morte di Gesù: «Il contesto vivissimamente emotivo causato dal dramma del Calvario»[14]. È qui, nel dramma della scomparsa della persona cara, che matura «quello che potremmo chiamare kantianamente lo “schema immaginativo” per comprendere la risurrezione come già avvenuta»[15]. Nel contesto messianico-escatologico di Israele la morte di Gesù provoca un vuoto lancinante, un’esperienza di dolore che preme verso la sua risoluzione. La croce di Cristo si “tramuta” nella risurrezione: «La risurrezione avviene sulla croce stessa»[16]. Cristo, il morto, nella fede ritorna vivo. Torres Queiruga segue alla lettera, senza citarlo, Rudolf Bultmann: «Croce e risurrezione come evento “cosmico” fanno tutt’uno»[17]. La risurrezione non è un evento reale che segue alla morte di Gesù in croce. È, simbolicamente, la trasfigurazione ideale di Cristo indotta dall’esperienza tragica della sua fine. In una forma paradossale, che è al centro del modello idealistico, l’assenza produce la presenza, il vuoto dà luogo a una pienezza, la privazione si tramuta in vittoria. Questo richiede che dalla croce sia rimosso l’aspetto di scandalo, in senso paolino: il Figlio di Dio appeso a quella che per i moderni è la forca. Questo aspetto sarebbe, nei Vangeli, una costruzione letteraria, non già un elemento storico. Torres Queiruga riconosce che «un’abitudine inveterata, che si appoggia fortemente sulla lettera dei Vangeli, ha condotto a vedere la croce come un luogo di “scandalo”, che decretava la fine della fede dei discepoli, i quali a questo punto sarebbero fuggiti, negando e tradendo il loro Maestro. Per spiegare la loro ulteriore conversione dovette accadere qualcosa di straordinario e miracoloso che, con la sua evidenza irrefutabile, li avrebbe restituiti alla fede. Questo qualcosa sarebbe la risurrezione, che ottiene così un’autentica “dimostrazione” storica. Non si può negare che l’argomento abbia una sua forza, e di fatto continua a essere il più corrente nei trattati in uso. Tuttavia una riflessione più attenta ha fatto vedere, ogni volta con maggior chiarezza e più ampia accettazione tra gli studiosi, la sua natura di “drammatizzazione” letteraria con taglio apologetico»[18]. Questa conclusione sarebbe comprovata dal fatto che «l’ipotesi di un tradimento o di un rinnegamento risulta profondamente incomprensibile e ingiusta con i discepoli»[19]. Questi avrebbero tradito Gesù nel momento della prova suprema, sarebbero stati ingrati e senza cuore. Il che, per l’autore, è inammissibile. D’altra parte lo scandalo vale per i romani, non per gli ebrei: «I criminali di Roma erano gli eroi del popolo da essi assoggettato»[20].

La croce di Cristo, nell’ottica tutta positiva dipinta da Torres Queiruga, non è ciò che allontana, il luogo della solitudine. Al contrario è il punto coagulante della fede: «La crocifissione, con l’orribile scandalo della sua ingiustizia, appare come il catalizzatore più determinante per comprendere che quanto è accaduto sulla croce non poteva essere la conclusione definitiva»[21]. La croce non è un punto di fuga, ma di “svolta”. Conclusione obbligata, questa di Torres Queiruga, nella misura in cui tra la morte di Gesù e la fede della Chiesa nascente non accade nulla. L’idealismo, come filosofia del non accadimento, implica un corto circuito per il quale la fede deve precedere l’evento, non seguirlo. L’argomento secondo cui i discepoli fuggono, impauriti e demoralizzati, ha una “sua forza”, come riconosce l’autore, e, tuttavia, non può essere ammesso. Il vuoto deve produrre il pieno, la morte farsi idea del Risorto, non già generare scandalo, fuga,  disorientamento. Diversamente avremmo “apologetica”, non storia. Nella sua effettualità il morto è una bandiera, il simbolo di una vita che non poteva tramontare.

Nell’orbita di Hegel

È singolare che Torres Queiruga citi a più riprese Kant – per la mediazione immaginativa della fede – e non richiami invece Hegel. Singolare perché la sua riflessione si colloca, in forma perfetta, all’interno dell’orizzonte speculativo idealistico, ricalcando la sua cristologia quella hegeliana, con discordanze che, per il tema trattato, sono del tutto marginali[22]. Come per Hegel, così per il filosofo spagnolo, la rivelazione «non consiste nell’irruzione di qualcosa di esterno, bensì nella scoperta di una presenza che, forse ignorata e magari presentita, era già dentro e tentava di farsi conoscere»[23]. Il cristianesimo riguarda l’ontologia, non la storia. Rivela ciò che è già da sempre presente, sia pure velato, nell’interiorità dell’io; è un rapporto immanente, non mosso dall’esterno. «Non è che in un dato momento Dio “entri” nel mondo per rivelare qualcosa con un intervento straordinario. Egli è sempre presente e attivo nel mondo, nella storia e nella vita degli individui, e sta sempre cercando di far conoscere la sua presenza, affinché riusciamo a interpretarla in modo corretto»[24]. Per questo «quello che serve non è che il sole incominci a brillare, ma che le finestre siano aperte e pulite»[25]. La Rivelazione non è Dio che si “rivela”, poiché Egli lo fa sempre, ma la scoperta umana «che costituisce rivelazione in senso stretto»[26]. Torres Queiruga destoricizza radicalmente il cristianesimo. Lo risolve in una struttura ideale, in una concezione gnostico-panteistica per la quale il Dio-nel-mondo brama di rendersi conoscibile perforando il velo d’ombra dell’umana ignoranza. Il Cristo storico, come in Hegel, è solo l’“occasione” del destarsi, nella coscienza, della consapevolezza del Cristo ideale. Al pari di Socrate Egli è la “levatrice” la cui arte maieutica porta alla luce il Dio-in-noi secondo la «ricca e profonda tradizione del magister interior»[27].

Questa prospettiva, l’idea di una rivelazione immanente, rispetto a cui il Cristo storico è solo una provocazione contingente, chiarisce il secondo punto di vicinanza tra Hegel e Torres Queiruga: la negazione della dimensione empirica della fede. Nelle sue Lezioni sulla filosofia della religione Hegel distingue una duplice fede: la fede esteriore e la fede interiore. La fede “esteriore” si fonda sul Cristo storico, sulla sua persona e autorità. Questa però, per Hegel, è una fede limitata, contingente. È «un modo esteriore, accidentale, della fede. La fede vera e propria riposa nello spirito di verità. L’altra concerne ancora un rapporto con la presenza sensibile immediata. La fede vera e propria è spirituale, è nello spirito: essa ha per suo fondamento la verità dell’idea»[28]. Rispetto ad essa «la fede esteriore deve dunque essere considerata solo come un mezzo per giungere alla vera fede; in quanto esteriore è sottomessa alla contingenza e lo spirito raggiunge la sua verità non secondo la contingenza ma secondo la libera testimonianza»[29]. La fede interiore riposa sull’idea eterna, sull’ideale immanente dello spirito, non sui miracoli o su una rivelazione empirica. È quella fede che, secondo l’idealista Hegel, “produce” l’idea dell’Uomo-Dio, trasforma il morto in un risorto. La fede interiore opera la metamorfosi del Cristo storico, un utopista ebreo dal messaggio rivoluzionario, nel Cristo “teologico”, divino. Grazie ad essa la figura di Gesù di Nazareth è consegnata alla memoria, al passato, alla prima non spirituale apparizione del divino.

Il punto che media il passaggio tra le due immagini di Cristo, quella empirica e quella ideale, – ed è il terzo elemento che accomuna la cristologia di Torres Queiruga a quella hegeliana – è la morte di Cristo. La morte è la risurrezione: questo topos della cristologia idealistica, da Hegel a Bultmann, è il vero nodo attorno a cui ruota gran parte dell’esegesi storico-critica. È un nodo che tiene, sul piano speculativo, solo se vale l’assunto della dialettica, quello per cui dal negativo procede necessariamente il positivo. Come scrive Torres Queiruga: «Lo stesso pensiero moderno, tanto filosofico quanto teologico, sa della capacità rivelatrice di questo tipo di esperienza, perché la stessa contraddizione al suo interno obbliga a cercare una sintesi capace di riconciliarla»[30]. Nel caso della morte di Gesù «solo la risurrezione e l’esaltazione permettevano di superare questo terribile contrasto, che minacciava di affondare tutto nell’assurdo»[31]. Dalla morte, dal negativo, emerge la necessità del positivo. Una necessità ideale: Cristo risorge nell’idea, nella concezione della comunità, nella fede interiore. Non nella realtà fattuale. In tal modo, come scrive Hegel: «Questa morte è il punto centrale intorno al quale ruota il tutto, nella sua concezione sta la differenza tra la concezione esteriore e la fede, cioè a dire la mediazione con lo spirito»[32]. Ne viene, come conseguenza, che la fede autentica si fonda sulla morte di Gesù, non sulla sua risurrezione, sorge dal Cristo morto, non dal Cristo risorto. Il Cristo risorto non fonda la fede, è piuttosto “fondato”, idealizzato dalla fede. L’idealismo, sotteso all’opposizione tra Cristo della fede e Cristo della storia, capovolge, in tal modo, i termini con cui, nella concezione della Chiesa, si presenta il rapporto tra fede e realtà. Nella misura in cui il Risorto presuppone già la fede nell’Uomo-Dio, quella fede deve sorgere, necessariamente, dalla sublimazione di una sconfitta. Il cristianesimo, come dogma, sorge dall’idealizzazione di un fallimento, non già dall’empirismo giovanneo fondato su ciò che è stato «visto, udito, toccato con mano».

Una morte incomprensibile e una fede senza risurrezione

L’idealismo storico-critico, fondato sulla dialettica del negativo, rende ardua non solo la comprensione della risurrezione – opera comunque di “visionari” – ma anche quella della morte di Cristo. Se Gesù non è stato condannato a morte per essersi proclamato Dio, perché è stato crocifisso? L’autoproclamazione divina è negata in nome della opposizione tra il Cristo storico e il Cristo della fede. Solo la comunità dei credenti divinizza Gesù che di per sé non si sarebbe mai concepito come Dio. Per spiegare il motivo della condanna non rimane che l’ipotesi politica: Gesù come potenziale zelota che, pericoloso per l’ordine romano, viene crocifisso. È il leitmotiv del Gesù “ebreo” che guida l’Inchiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce [33]. Un’ultima prova di una ricerca, curiosa e a tratti non banale, che, tuttavia, non riesce, per i presupposti ancora una volta idealistici, a produrre nulla di nuovo. Il Gesù ebreo non cristiano[34] di Augias-Pesce è un utopista, vicino al gruppo di Giovanni Battista, contrassegnato da una totale fiducia in Dio e da un’attenzione particolare per gli ultimi. Un radicale senza tuttavia un’utopia sociale organizzata, che, al di là dei toni e della testimonianza, non mostra nulla di originale, nella morale, rispetto alla legge ebraica. Perché, dunque, questo sognatore, impolitico e inoffensivo, è stato mandato a morte? Pesce dichiara che non è per motivi religiosi ma politici che Gesù viene condannato dal potere romano. Le responsabilità dei membri del Sinedrio sarebbero opera della ricostruzione, posteriore, dei redattori dei Vangeli, filoromani. Quali sono, però, i motivi politici per cui Gesù viene condannato? Si tratta di sospetti sulla natura di un movimento, sorti in chi «non ha colto le reali intenzioni dell’azione di Gesù. Dunque si è trattato, da parte dei romani, di un grossolano e grave errore di valutazione politica»[35]. Una considerazione, invero, sorprendente, che lascia interamente in sospeso i motivi della condanna a morte di Gesù. Non estesi, per altro, e anche questo risulta strano, ai suoi discepoli. Parimenti misteriosa rimane la risurrezione, affermata non da testimoni oculari ma da veggenti che “vedevano” all’interno degli schemi cultural-religiosi di Israele. Del pari totalmente enigmatico, nell’Inchiesta, risulta essere il sorgere del cristianesimo. Pesce non è d’accordo «sull’idea che il cristianesimo nasca con la fede nella resurrezione di Gesù, né che nasca grazie a Paolo […]. Anche Paolo, come Gesù, non è un cristiano, ma un ebreo che rimane nell’ebraismo»[36]. Il cristianesimo sorgerebbe, più tardi, nella seconda metà del II secolo in un processo di ellenizzazione della originaria posizione ebraica. Rispetto a Hegel e a Torres Queiruga, Augias e Pesce aggiungono un’ulteriore frattura che rende ancor più enigmatica la nascita della fede cristiana. Nel quadro hegeliano il cristianesimo è mediato dalla morte di Gesù, il cui prodotto è l’idea del Risorto. In Inchiesta su Gesù esso sorge  molto dopo la visione della risurrezione, frutto non della fede ma di una tardiva elaborazione teologico-filosofica di stampo ellenistico. Ciò che rimane fermo è il topos dominante: la fede non si fonda sulla risurrezione, la precede o la segue senza avere con essa rapporto. Un’impostazione che, invece di semplificare il problema, lo complica enormemente. Se il Cristo storico è quello descritto da Augias-Pesce, un ebreo osservante senza nulla di veramente originale, non si comprende come possa essere «l’uomo che ha cambiato il mondo». Non si comprende perché è stato condannato. Se quest’uomo ha terminato la sua vita nello scacco, non si comprende, per chi non accetta la necessità logica della dialettica, come da un morto possa sorgere, nella primitiva comunità, la fede in un vivente. Non si comprende, da ultimo, come il “Cristo della fede” possa prescindere dalla risurrezione, reale o immaginaria che sia, e formarsi solo nel II secolo, come vuole Pesce. Un destino singolare per il razionalismo storico-critico: nato con l’intento di rendere chiaro il contesto, esso riesce a delineare un quadro complessivo pieno di zone d’ombra e di salti nel vuoto. Il modello idealistico dimostra tutti i suoi limiti. Partendo dal pregiudizio che il fatto non possa essere accaduto – che Dio non possa divenire uomo e risorgere da morte – esso deve giustificare la fede come idealizzazione. Con ciò però la narrazione evangelica diviene incomprensibile. Se le descrizioni del Cristo risorto costituiscono il grande enigma, per il lettore antico e moderno, ciò nondimeno la sua rimozione genera una serie di interrogativi senza risposta. È il Cristo “storico” che diviene incomprensibile. Ritrovato, archeologicamente, sotto gli strati della fede, egli appare come un sognatore, radicale e ingenuo a un tempo, che non motiva l’incendio che ha investito la storia. Le conclusioni del razionalismo critico – trarre fuori un vivente da un morto, una rivoluzione spirituale da un utopista analogo a molti altri – sono profondamente irragionevoli. Lo scacco di questa posizione è la premessa “critica” per una ripresa di una posizione realista che non ha la pretesa di dimostrare il dogma, quanto di riconoscere che è contro ogni evidenza razionale, umana, affermare che la vista desolata di un crocifisso possa generare l’idea, gloriosa, di un risorto. (Massimo Borghesi, 30 Giorni, Ottobre 2006)

NOTE

[1] A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo,  tr. it., Edizioni La Meridiana, Molfetta  (Ba) 2006. Il testo, di cui non è indicato l’originale spagnolo, è una sintesi dell’opera maggiore, Repensar la resurrección. La diferencia cristiana en la continuidad de las religiones y de la cultura, Trotta, Madrid 2003.

[2] A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 8.

[3] R. Bultmann, Neues Testament und Mythologie. Das Problem der Entmythologisierung der neutestamentlichen Verkündigung, Herbert Reich Verlag, Hamburg-Bergsted 1948, tr. it., Nuovo Testamento e mitologia. Il problema della demitizzazione del messaggio neotestamentario, in: R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia, Queriniana, Brescia 1973, p.119.

[4] A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 8.

[5] Ibidem, p.42.

[6] Ibidem, p. 48.

[7] Ibidem, p. 47.

[8] Ibidem, pp. 46-47.

[9] Ibidem, p. 49.

[10] Ibidem, p. 54. In modo identico Kant afferma: «La ragione non ha interesse a trascinare nell’eternità un corpo che (ammesso che la personalità poggi sull’identità del corpo) deve sempre, per purificato che sia, essere composto dalla stessa materia che sta alla base del nostro organismo e alla quale l’uomo stesso non si è mai attaccato durante la vita; né è comprensibile che cosa mai possa avere in comune col cielo questa terra calcarea di cui l’uomo è formato» (I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it., in: I. Kant, Scritti morali, Utet, Torino 1970,  p. 457, nota a).

[11] A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 42.

[12] Ibidem, p. 65.

[13] Ibidem, p. 41.

[14] Ibidem, p. 23.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem, p. 53.

[17] R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia. Il problema della demitizzazione del messaggio neotestamentario, op. cit.,  p.165.

[18] A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., pp. 26-27. Corsivo nostro.

[19] Ibidem, p. 26.

[20] Ibidem, p. 29.

[21] Ibidem, p. 30.

[22] Sulla cristologia hegeliana si cfr. M. Borghesi, La figura di Cristo in Hegel, Studium, Roma 1983; Idem, L’età dello Spirito in Hegel. Dal Vangelo “storico” al Vangelo “eterno”, Studium, Roma 1995.

[23] A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 59.

[24] Ibidem, p. 36.

[25] Ibidem.

[26] Ibidem, p. 37.

[27] Ibidem, p. 38.

[28] G.F.W. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, tr. it., 2 voll., Zanichelli, Bologna 1974, vol. II, pp. 388-389.

[29] Ibidem, vol. I, p. 283.

[30] A. Torres Queiruga, La risurrezione senza miracolo, op. cit., p. 30. Corsivo nostro.

[31] Ibidem, p. 31.

[32] G.F.W. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, op. cit., vol. II, p. 372.

[33] C. Augias-M. Pesce, Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo, Mondadori, Milano 2006.

[34] Cfr. ibidem,  pp. 221 e 237.

[35] Ibidem, pp. 168-169.

[36] Ibidem, p. 201.

  

 

 


 

Il papa in Turchia è lo stesso di Regensburg

Nei suoi incontri in Turchia, Benedetto XVI ha rilanciato le idee di Regensburg, costruendo possibilità di incontro e dialogo fra occidente e oriente. È urgente condannare la violenza, salvando una laicità “aperta”, contro la tentazione della politica che emargina la religione e della religione che monopolizza la politica.

L’entusiasmo con cui i turchi hanno salutato Benedetto XVI e i giudizi positivi dei media locali hanno colto tutti di sorpresa. Alla vigilia del viaggio in Turchia dominavano timori (del papa stesso, che si è detto “preoccupato”) e anche paure, legate alle minacce sanguinarie dell’al-Qaeda irakena. Ma soprattutto dominava un pregiudizio verso Benedetto XVI - “anti-turco”, “anti-islam”, “inquisitore”, “conservatore” – e una lettura parziale e ideologica del discorso di Regensburg, definita “la gaffe” , il “ruzzolone” del papato, che ha fatto rischiare la guerra fra l’Islam l’occidente, con quella frase di Manuele II Paleologo e quella “pretesa” di unire Religione e Ragione, escludendo la violenza e facendo intendere invece che Islam e violenza vanno troppo spesso insieme.

Ma ora, i commenti più diffusi sono che “finalmente” Regensburg è dimenticata, cancellata, uccisa e che il papa in Turchia ha cambiato “politica”, anzi è diventato un astuto politico che sta attento più alle opportunità che alla verità. Il realtà, il messaggio del papa in Turchia è una continuazione di quello di Regensburg. Il messaggio essenziale di Regensburg era doppio. Anzitutto verso il mondo occidentale, per dire che la secolarizzazione non è una cosa positiva e non permette il dialogo universale. Al contrario, la Ragione permette il dialogo universale a condizione che essa non sia staccata dalla religiosità e dai principi morali. Questa era una critica all’occidente. Vi era anche una critica al mondo islamico, troppo tentato dalla violenza. Questa doppia critica aveva come scopo finale un’affermazione positiva: se vogliamo una pace universale e un dialogo globale, questi sono i due principali pericoli per l’occidente e l’oriente. Il papa sta dunque cercando di costruire un impianto filosofico-teologico in cui mettere al centro una razionalità, ma una razionalità aperta sulla dimensione trascendentale. Nel viaggio in Turchia, Benedetto XVI ha concretizzato questa visione applicandola a una situazione concreta, ma il suo pensiero rimane lo stesso di Regensburg. Parlando ai musulmani, ha ricordato con discrezione la questione della violenza, ma evitando il fraintendimento avvenuto con le sue parole a Regensburg. Là i media hanno detto che il papa identificava Islam e violenza. In realtà egli puntava il dito su una realtà esistente e pericolosa, quella della violenza nel mondo islamico, senza stabilire un’equivalenza totale fra Islam e violenza. La prova di questo, lo sappiamo, sta nel fatto che il Papa a Regensburg ha citato un unico versetto del Corano, il più positivo, quello per cui nell’Islam, in materia di fede “non c’è costrizione”. Il papa ha suggerito quindi che per l’Islam autentico non si può usare per nulla né la violenza, né la pressione morale. E citando il tanto discusso testo di Manuele II Paleologo – le “novità dell’islam sono solo violenza e male” – egli ha preso le distanze da esso, anche se non ha detto che era falso. Era falso nella sua generalizzazione, ma non nell’avvertire di un pericolo. Il papa ha messo in chiaro che quella non è un’accusa all’Islam in genere, ma un rischio che esiste nell’Islam. E chi potrebbe negarlo? Da questo punto di vista mi sembra assurdo quanto detto dal presidente degli affari religiosi in Turchia, Ali Bardakoglu. Egli ha detto che scientificamente è impossibile sostenere questa tesi, secondo cui l’Islam nella storia si è diffuso con la violenza. Il che è assurdo. Molti storici musulmani hanno scritto che la diffusione dell’Islam, soprattutto nella prima fase, in Medio Oriente e in Africa del Nord, è avvenuta attraverso la guerra. In altre parti, in Indonesia, Malaysia, India, ecc… è avvenuta invece attraverso il commercio e i sufi (mistici) Spesso l’Islam non ha obbligato la gente a divenire musulmana, ma ha attuato un sistema sociale e politico per cui, per influire su questa società e giocarci un ruolo politico dovevi diventare musulmano. Il sistema sociale previsto dall’islam – e già previsto in parte dal Corano – spinge i non musulmani a divenire musulmani se vogliono avere un ruolo nella società. Cosi’ facendo l’islam ha scremato le comunità cristiane, ridotte sempre di più a minoranze debole intellettualmente, socialmente e politicamente. In questo c’è costrizione, contrariamente a quello che dice il versetto coranico di cui sopra. Proprio a Bardakoglu Benedetto XVI ha ricordato che la collaborazione fra cristiani e musulmani va fatta mettendo alla base “l’attenzione sulla verità del carattere sacro e della dignità della persona”, in un “rispetto per le scelte responsabili che ogni persona compie, specialmente quelle che attengono… alle personali convinzioni religiose”. Il discorso verso l’occidente – affrontato nell’incontro del pontefice con il corpo diplomatico ad Ankara - è quello della laicità aperta allo spirituale. Questo tema – già presente a Regensburg -  il papa lo ha ripreso applicandolo alla laicità del governo turco, domandando libertà religiosa e di coscienza. In teoria, l’occidente riconosce la libertà religiosa. Il punto è che la laicità occidentale arriva fino ad escludere tutto ciò che è religioso, mettendolo nel campo privato. La laicità della Turchia è una laicità islamica: chi non è nazionalista e islamico, è limitato in quanto attacca l’identità nazionale. Nella settimana scorsa 2 turchi, convertiti dall’Islam sono stati condannati in nome della legge sulla identità nazionale (art. 301 del codice penale). È la stessa accusa (e condanna) che si rivolge verso coloro che osano parlare e riconoscere il genocidio armeno. Questa laicità nazionalista è anch’essa irrazionale e va corretta per dare spazio alla libertà religiosa. Il papa ha insistito molto sulla libertà di coscienza. E ha fatto un appello al mondo islamico facendo l’elogio della laicità turca, che permette una distinzione fra stato e religione. Egli ha sottolineato questo aspetto, ricordando che le religioni devono stare fuori dalla politica, perché “a questo [alla politica diretta – ndr] non sono chiamate”. Benedetto XVI tenta dunque di trovare una via media per tutta l’umanità per permettere il rapporto fra religione, spiritualità, ragione, laicità, stato. Trovandosi in un mondo musulmano, insiste sulla necessaria laicità, non nazionalistica e religiosa. Trovandosi in un mondo occidentale, insiste su una laicità “aperta” allo spirituale. Nei discorsi del Papa in Turchia esiste dunque una continuità con quanto detto a Regensburg, cercando una via di comunicazione fra politica e religione, contro il monopolio della religione sulla politica e contro il monopolio della politica che esclude la religione. (Samir Khalil Samir, sj, AsiaNews, 5 dicembre 2006)

 


 

Giorgio Pardi: «L'aborto è un omicidio»

«Sono ateo, l'ho già detto?». A Giorgio Pardi preme molto che ai suoi interlocutori sia ben chiaro «che io non credo in Dio, non ho la grazia della fede, che vuole che le dica? Quindi scriva scriva scriva che il dottor Pardi Giorgio è ateo o, se preferisce, è un laico. E aggiunga anche che per ritenere l'aborto un omicidio non serve la fede. Basta l'osservazione. Quello è un bambino. L'aborto è un omicidio. Fatto per legittima difesa della donna». A parlare è il medico che, assieme al suo maestro Giovanbattista Candiani, fu il primo a eseguire un'interruzione di gravidanza in Italia con l'introduzione della legge 194.

Le pareti del suo ufficio nella clinica Mangiagalli di Milano sono una sorta di curriculum murale, professionale e caratteriale, del professore. Accanto a tre file di libroni in cui il titolo è scritto in caratteri più minuti del maiuscolo nome del loro autore (GIORGIO PARDI), stanno accatastate le più insigni riviste mediche moderne come Lancet, England Journal of medicine, British Medical Journal, sulle quali il dottore pubblica regolarmente. Poi, da altri indizi, si desume che Pardi, oltre a essere stato presidente della Società italiana di medicina perinatale e presidente dell'Associazione ginecologi universitari italiani, gode di una fama che oltrepassa l'oceano. Nell'ottobre scorso è stato nominato membro onorario della Società americana di ginecologia e ostetricia. Primo italiano, da cent'anni a questa parte, a ricevere tale riconoscimento. Professore ordinario all'Università statale di Milano, attualmente dirige il reparto Donna e bambino della Mangiagalli, la clinica ginecologica più grande e importante di tutto il Nord Italia. Ma al curriculum professionale rivelato da una parete, va aggiunto ciò che racconta il muro che sta di fronte, dove sono incorniciate e appese una ventina di vignette di Altan. Ritagli di giornale ingialliti messi sotto vetro che fan quasi da cornice alla locandina di un vecchio film con Gregory Peck e Ingrid Bergman: Io ti salverò.

E se il sarcasmo ferino del vignettista di sinistra può quasi far da simbolo all'atteggiamento sardonico di questo gran barone della medicina, il titolo della pellicola sembra quasi lo slogan di quel che Pardi sta cercando di fare oggi: salvare i figli non ancora nati ma forse già rifiutati di chi viene in Mangiagalli per abortire. Naturalmente, l'interessato glissa. Ma Paola Marozzi, direttrice del Centro aiuto alla vita (Cav) dell'ospedale spiega a Tempi la sua mirabolante stima per «il professore, persona di eccezionale onestà intellettuale». Questo perché, «pur non essendo ancora partito per meri problemi logistici», è intenzione di Pardi trasferire gli uffici del Cav proprio a fianco di quelli del Consultorio. Sarebbe il primo caso in Italia e la direttrice spera «che così poi ne possano seguire altri». «Alle donne che si rivolgeranno al Consultorio - continua Marozzi - verrà consegnato un foglietto informativo per metterle a conoscenza delle nostre iniziative. La donna, se vorrà, potrà rivolgersi a noi e godere, se necessario, dei sussidi che mettiamo a disposizione delle madri in difficoltà economica». «Perché, vede, Pardi, come noi, sa bene che chi ricorre all'aborto comunque, poi, ne soffre. Dunque, come noi, cerca in tutti i modi di evitare che si arrivi a tale scelta. Certo, poi ci sono anche delle differenze, perché noi siamo cattolici e lui, non so se si sa, è ateo».

Non può essere un diritto

La clinica in cui Pardi lavora ha compiuto da poco cent'anni. Nata il 26 settembre 1906 per opera dell'ostetrico e sindaco Luigi Mangiagalli, sorse con lo scopo di dare alle milanesi meno abbienti la possibilità di partorire senza rischi. Da sempre la Mangiagalli ha come suo obiettivo l'assistenza globale del paziente; la stessa struttura rispecchia tale intento ed è questo uno dei motivi per cui è sorta accanto all'ex convento di Santa Caterina dove c'è la ruota per i bambini abbandonati. Ma la Mangiagalli non è stata solo questo; negli anni Settanta divenne il simbolo della battaglia in favore della regolamentazione dell'aborto. In seguito all'esplosione dell'Icmesa di Seveso furono proprio i medici dell'ospedale milanese a insistere per introdurre in Italia la legge. A quei tempi, mentre gli antiabortisti sfilavano fuori dalle mura con i cartelli "Mangiagalli mangiabimbi" il professor Pardi se ne stava all'interno, sostenendo, come oggi, la necessità di una depenalizzazione che debellasse le pratiche clandestine delle mammane. «E ancora oggi - conferma il dottore - ritengo che la 194 sia un'ottima norma. Mi fa un po' ridere chi sostiene sia intoccabile. Ma come intoccabile? Nessuna legge, dice la Costituzione, è intoccabile. Casomai, come io penso, si può dire che non serva ritoccarla, ma solo applicarla fino in fondo, soprattutto in quella sua parte iniziale in cui si prescrive tutto il necessario per far recedere la donna dal suo intento».

Secondo Pardi «la discussione oggi dovrebbe vertere su questo aspetto: bisogna fare in modo che la donna non abortisca, che sia informata il più possibile sulle conseguenze che una tale scelta provoca, che sappia quali sono gli aiuti anche economici che le possono essere offerti per poter scegliere. Dunque, che sia una scelta il più possibile responsabile. Chi interrompe una gravidanza deve essere ben conscio di procurarsi una ferita che lascia cicatrici profonde, indipendentemente dal metodo abortivo usato». Per il dottore non si può considerarlo un "diritto". «Ma che significa? Certo, non mi spingo fino a dire che bisogna convincere la donna a non interrompere la gravidanza, ma metterla in grado di poter decidere realisticamente che cosa fare, non in base a suoi diritti, ma in base alla sua libera responsabilità, ecco questo mi sembra il minimo».

I Cav in ospedale

Nel 2005 si sono registrati in Mangiagalli 6.595 parti e 100 mila prestazioni ambulatoriali. A fronte di tante nascite sono state 1.720 le interruzioni di gravidanza. Secondo uno studio, il 37 per cento delle donne che abortiscono non hanno un impiego stabile (10 per cento studentesse, 12 per cento casalinghe, 3 per cento in cerca di prima occupazione, 12 per cento disoccupate). Per queste donne «si potrebbe fare molto» sostengono al Cav, e della medesima opinione è Pardi. Tutte le polemiche che nella scorsa legislatura insorsero sulla proposta del ministro Francesco Storace di far entrare i Cav negli ospedali paiono non riguardare Pardi. «Ho un ottimo rapporto con loro. Certo, ricordo che il Cav (il primo in Italia) nacque qui in modo violento, come era inevitabile in quegli anni, ma poi è stato gestito in modo molto assennato. In fondo, lavoriamo entrambi per lo stesso scopo pur partendo da punti di vista distanti».

Però, se per il 37 per cento delle donne la ragione che le spinge all'aborto può essere rintracciata nella penuria economica, come la mettiamo con il restante 63 per cento che, secondo lo studio, «ha un impiego stabile»? «Io credo - risponde Pardi - che il problema più che economico sia esistenziale. Oggi non si sa più che cosa significhi procreare. Si vive questa realtà biologica come se fosse imposta dalla società». è come se fosse andato perso non solo il genio femmineo dell'accoglienza, ma anche fosse stata censurata la stessa realtà anatomica della donna. «La donna sceglie di non fare figli per essere competitiva con l'uomo. Scelgono di avere bambini dopo la carriera, dopo essersi sistemate, a quarant'anni anziché a venti. L'emancipazione femminile ha portato infine all'adozione di un modello maschile». E invece? «E invece perché non pensare anche che per una donna l'avere un figlio è la massima realizzazione? Cosa può esserci di più grandioso di una vita che ti nasce dentro? Cosa c'è di più grande del donare la vita?». Pausa. «Se potessi rinascere, rinascerei donna». Risata fragorosa.

Nove sani e un malato

Ai tempi del dibattito sulla legge 40 (fecondazione medicalmente assistita) il professor Pardi disse ad Avvenire a proposito dell'aborto terapeutico: «è un problema culturale e sociale. Abbiamo creato la cultura del feto perfetto: la donna vuole, esige un feto perfetto e rifiuta il benché minimo grado di imperfezione». «Oggi - ribadisce a Tempi - si presentano signore con referti da cui risulta che il bambino ha sei dita in un piede. Vivono questa banale anomalia come un dramma. Constato come questa leggera imperfezione porti molti a ritenere che la vita, non potendo essere considerata assolutamente impeccabile, non essendo "di qualità", sia in qualche modo da rifiutare. C'è, cioè, una spaventosa difficoltà ad accettare l'imperfezione, la difficoltà. Anzi, diciamo meglio: non si accetta più la malattia. Per la cultura di oggi imperfezione uguale eliminazione. Ma tutto ciò è mostruoso. Non mi si fraintenda, ma, qualche sera fa, ho visto in televisione un documentario in cui si mostravano i referti dei medici nazisti che decretavano la messa a morte dei malati di mente. Li si eliminava perché imperfetti. Ecco, io non posso accettare che si pratichi l'aborto per correggere un'imperfezione. L'aborto serve solo per preservare la salute fisica o psichica della donna che ne fa richiesta».

Far capire che la medicina non può tutto e che nella vita ogni cosa è un po' provvisoria e spuria è per il ginecologo della Mangiagalli ogni giorno più arduo. «Trent'anni fa di dieci pazienti che si presentavano davanti al medico, nove erano malati e uno aveva bisogno di qualche buona parola. Oggi da me arrivano un malato e nove sani. Si capisce?». A Pardi la questione sembra di fondamentale importanza: «Quel che voglio dire è che oggi il dottore, oltre a saper curare, deve saper parlare. Abbiamo bisogno di medici molto bravi a far capire ai loro pazienti come stanno le cose. Lo dico anche per il mio campo, dove il 30 per cento sono straniere».

Lo smoking dei dottori rispettabili

Ma non ci sono solo oceani linguistici da colmare, esistono anche montagne semantiche da scalare. Per Pardi oggi il problema è ritornare a nominare le cose per quello che sono. «Per questo non ho nessun problema a dire che l'aborto è un omicidio. La vita comincia col concepimento». Eppure, soprattutto durante il dibattito referendario sulla Fiv, furono in molti a sostenere che «la vita inizia a 14 giorni dal concepimento», che «prima dell'embrione c'è l'ootide», che «un bambino è tale quando lo decide la donna» (quest'ultima è di Carlo Flamigni). «Cosa? Tutte palle. La vita inizia quando i 23 cromosomi maschili si fondono coi 23 cromosomi femminili. Lo zigote ha in sé già tutto. E guardi che questo lo dice uno che ritiene la legge 40 uno schifo. è una legge fatta malissimo, piena di contraddizioni». Tuttavia «non bisogna mischiare le carte. Capisco che possa fare meno impressione l'uccisione di un delinquente armato fino ai denti rispetto a quella di un bambino indifeso. Ma in entrambi i casi si tratta di omicidio. Certi giochetti linguistici servono solo a intorbidire le acque».

Come quelli ormai tanto di moda a proposito delle cellule staminali, «lo smoking dei dottori rispettabili» le definisce Pardi. «Come medico non me la sentirei mai di mettere il bisturi sull'embrione. Però qui in Mangiagalli abbiamo feti provenienti da aborti da cui si potrebbero trarre cellule ad alto tasso di potenzialità. Perché non farlo? Capisco certe remore dei cattolici, però... Io sono ateo, non so se l'ho già detto». (Boffi Emanuele, Tempi, 5 dicembre 2006)

 

 

 


 

 

3 DICEMBRE 2006

 

Clausura: tra le monache nel regno del grande silenzio

Mi macero nei digiuni / E razioni d’insulti mi sorbisco / Vestito di sacco / Per loro sono un pagliaccio /... Ma io sono davanti a te Signore /Una preghiera nell’ora favorita ». Alle cinque del mattino - notte fredda senza luci sull’isola di San Giulio - le monache benedettine del convento di clausura Mater Ecclesiae, in piedi da un’ora, cantano i salmi cercando sempre d’accordare la voce al cuore, come vuole la Regola.

Piccoli colpi di tosse, starnuti smorzati, fazzoletti che scompaiono in fretta tra manica e polso. «Tirami via dal fango / Che non ci resti impigliato / Che il mulinello d’acque del profondo / Mi lasci andare...». Quasi quattro ore filate di preghiera tra Mattutino, Lodi, Ora Terza, Santa Messa, in ginocchio, in piedi e di nuovo in ginocchio, prima del «rompete le righe» - un colpo secco dell’anello sul legno del banco - col quale la Madre Abbadessa concede il permesso di abbandonare la cappella. Allora le donne, più di settanta, belle e brutte, sane e ammalate, vecchie e giovani - si avviano in doppia fila ordinata verso il loro caffelatte con pane non fragrante e una nuova giornata di lavoro e preghiera, soprattutto preghiera: escono per ultime le otto novizie dal velo bianco, chiude il corteo la postulante ventunenne, riccioli scoperti e occhiali leggeri sulla faccia bella e splendente.

Da quest’altra parte della grata anche Chiara, ragazza valdostana coi capelli tagliati cortissimi, ha sul volto un biancore luminoso, come un principio d’estasi, mentre chiude con cura il libro dei Salmi. Più tardi, forse, chiamerà casa, e sua madre si lamenterà di nuovo, «telefono poco, ma dovrà ben abituarsi....». E’ ospite qui da un paio di mesi, Chiara, per familiarizzare col luogo dove desidera rinchiudersi negli anni a venire: «Se Dio lo vorrà», sussurra arrossendo prima di salire a due a due i gradini che conducono alla sua cella; lei che ancora potrebbe, adesso, scendere fin sulla sponda del lago e aspirarne l’odore, sedersi sul molo nel tepore del sole.

La corsa di Maura

La futura Suor Maura invece, quando fu ospite esterna prima di prendere i voti, andava a correre; la signora che vende souvenir nell’unico negozio dell’isola racconta che la vedeva sfrecciare al di là della vetrina, prima che si chiudessero per sempre le grate alle sue spalle e si spalancasse per lei una vita nuova, nella quale è l’apparente gratuità di molte azioni (ma non del footing) a fare da pilastro. Ben lo comprenderà la cronista che, avendo ottenuto di condividere per pochi giorni silenzio e preghiera, pasti frugali e sveglie in piena notte, si ritroverà con un pennello in una mano e un piccolo strofinaccio nell’altra, china a spolverare inferriate e scaffali già perfettamente puliti.

Nel quadro d’una generale crisi di vocazioni nel mondo occidentale, succede dunque che proprio le clausure più dure e restrittive esercitino nuovo fascino, e che in Italia l’esercito delle donne al di là delle sbarre sia cresciuto di 300 unità in un anno e ancora cresca: quattro o cinque nuove postulanti stanno per passare dall’altra parte della grata, oltre il cancello del Mater Ecclesiae. Donne giovani e colte: sotto questi veli neri, le teste pensanti di medici e architette, una psicologa e alcune matematiche, numerose letterate, traduttrici, un’ex preside, tutte sopraffatte da quella che qui chiamano vocazione, e chi non può comprendere associa a una specie d’insopportabile e perdurante vuoto di senso, a uno dei tanti stili di vita estremi in voga nel mondo magari; o a una via di fuga da società dove lo spazio di scena ha finito per mangiarsi ogni anfratto privato, ogni refolo d’aria.

Salvo che tornando in cappella per le preghiere dell’Ora Nona, dopo il pranzo consumato in fretta ascoltando la lettura di un editoriale dell’Osservatore Romano (la sera, a cena, saranno riflessioni sulle morti esemplari delle monache europee), pare all’ospite rispettosa ma profana d’intuire la prevalenza, anche qui, d’una certa teatralità dei gesti; e di rituali dove l’io individuale tanto più s’annulla, tanto più ne risulta sublimato.

I gradi dell’umiltà

Ma domande alle monache di clausura non se ne possono fare, è già tanto passarsi la zuppiera accennando un sorriso, porgere i piatti alla sorella di corvée badando a non oltrepassare la porta del suo stanzino claustrale, ascoltare i sintetici commenti della sorella di Suor Maria Beatrice e del fratello di suor Maria Cristiana, entrambi in visita alle loro congiunte (le monache possono ricevere i parenti ogni tre mesi). Lei: «Quasi la invidio, con quel che c’è fuori». Lui: «E’ dolce pensarla qui, in questo luogo di luce».

Perché questo vogliono essere, i monasteri dove anche in piena notte si prega per noi che non lo sappiamo e non necessariamente siamo felici d’apprenderlo: fari nelle tenebre, luoghi persino avventurosi: «I missionari vanno in un Paese lontano, incontrano centinaia di persone, certo... ma noi, con la nostra preghiera, arriviamo prima e dappertutto», assicura a voce bassissima la tosta Abbadessa, Anna Maria Canopi, esaudendo infine la richiesta un po’ goffa di «fare quattro chiacchiere». Madre Canopi, piccola e carismatica, è la fondatrice di questa comunità in continua espansione, dove si vive nell’obbedienza incondizionata al Signore e, naturalmente, «a chi, in convento, ne fa le veci», insomma a lei. La qual cosa non mancherà d’essere ribadita più volte nel corso della giornata, anche durante il pranzo del giorno dopo, quando attraverso le letture si rammenterà per esempio la gravità dell’operato della monaca che, incaricata di dare la sveglia, lo facesse con ritardo; e la necessità della penitenza, consistente nel prostrarsi a terra a tempo indeterminato.

In questo convento né moderno né connesso on-line, «obbedir tacendo» non è cosa che si dica tanto per dire. Stabilisce la Regola, quarto grado dell’umiltà, che non si dovrà replicare neppure in cuor proprio «pur trovandosi di fronte a qualcosa di molto duro e persino a ingiustizie di ogni genere». Giacché è il silenzio, s’apprende, un «morire a se stessi» ogni giorno, come un Cristo in croce. Si tace in cella, a tavola, al lavoro: le monache restaurano arazzi e pergamene, dipingono icone, gestiscono una piccola stamperia, fabbricano ostie, zitte e curve nei grandi stanzoni con vista sul lago. Riporranno i loro attrezzi poco prima delle diciassette, per tornare sui banchi: Vespri. Poi, dopo la cena leggera - minestra, un pezzo di formaggio, mezzo uovo sodo - un momento conviviale, l’unico, in cui le sorelle vengono aggiornate su quanto accade nel mondo. «Non abbiamo mai posseduto radio e televisore, né contiamo di possederle in futuro», spiega l’Abbadessa, «non ne abbiamo bisogno; però siamo abbonate a L’Avvenire e L’Osservatore romano, oltre che ai bollettini di tutte le nostre parrocchie di provenienza».

Compieta, cella

E’ Compieta, alle nove di sera, la preghiera più bella, le luci già abbassate, un clima di filiale confidenza, la madre che passa a benedire il sonno di ciascuna, quand’è tempo di scivolare invisibili e senza produrre un solo fruscio nella propria cella: letto, comodino, due crocifissi, un piccolo tavolo, niente specchio, il bagno fuori. La sveglia, da puntare alle 4.

E’ un’altra volta piena notte, col gelo che s’insinua nelle ossa strappate via da sotto la trapunta, e si raggiunge la cappella. «Vivere per pregare», è il titolo di uno dei tanti libri scritti da madre Canopi, ma potrebbe anche essere così: pregare per vivere. E succede a un certo punto del Mattutino che l’osservatrice la smetta di almanaccare sulle crude parole che va ascoltando, e quasi senza rendersene conto s’unisca al canto, scoprendo così le proprietà anestetizzanti dell’incessante salmodiare in una vita regolata alla perfezione; qualcosa che, come ogni «mulinello d’acque del profondo» troppo a lungo osservato, ammalia. Ma è tempo di abbandonare l’isola. (San Giulio-Orta, Stefania Miretti,  La Stampa, 27 novembre 2006)

 


 

Milano: Il Presepe non vende più

Via il Bambino, la Madonna e San Giuseppe. Per non parlare del bue e dell'asinello. Quest'anno i Re Magi troveranno una baracca vuota e desolata al termine della loro rincorsa alla Stella Cometa. Dagli scaffali dei più grandi (in tutti i sensi) magazzini della città sono infatti sparite le statuine, il muschio essiccato, la neve sintetica e tutto l'occorrente per mettere insieme il caro, vecchio presepe. Il motivo è semplice: dato che negli ultimi anni il settore era andato via via calando, gli esperti di marketing hanno preferito non investire più nella formula "mangiatoia e affini". Questione di business.

Ma procediamo con ordine. La scorsa settimana il signor Antonio (il nome è di fantasia, ndr) si reca alla "Rinascente" di piazza del Duomo - come è solito fare ad ogni festa - in cerca di nuove "reclute" per il suo esercito di statuine. Antonio, per la cronaca, non è un semplice amante del presepe. È un collezionista: «Con alcuni amici - spiega - ogni anno è una gara: chi ne ha di più, chi ha le più originali o le più rare. Alla Rinascente mi ero sempre trovato molto bene in virtù della gran varietà di scelta». Ma quest'anno niente. Niente statuette. Niente grotta. Niente di niente. «Era un settore in calo - spiegano dal grande magazzino -. Rappresentava introiti irrisori e per questioni commerciali non era conveniente mantenere quel tipo di merce sugli scaffali». Certo restano gli evergreen: la Rinascente pullula di alberi, palle colorate, nastrini e tutto il resto. Esattamente come alla "Standa" e all' "Oviesse", altri colossi della grande distribuzione: «Niente statuine, spiacenti. Però per il resto non manca nulla», spiegano i commessi. All' "Upim", invece, la pratica sopravvive: «Certo che abbiamo i presepi», confermano dal centralino. Ma veramente la tradizione del presepe sta crollando sotto il peso dei tempi moderni? «È un'assurdità - tuona al cellulare Salvatore Bastini, iscritto alla sezione meneghina dell'associazione italiana Amici del Presepio -. Dalle nostre parti, alla Barona, c'è un presepe nel novanta per cento delle case. La gente è affezionatissima a questa tradizione e ogni anno organizziamo una manifestazione dove ognuno può esporre la propria composizione. Arrivano centinaia di gruppi, da ogni angolo della diocesi». Il problema, allora, sta forse nella convivenza forzata fra religioni diverse che caratterizza i giorni nostri? «Macché - dice don Virginio Colmegna, fondatore della Casa della carità -. Da me coesistono persone di fedi diverse, ognuna col proprio credo e le proprie usanze, ma il presepe non manca mai. Quest'anno, come quelli precedenti, lo rifaremo. Casomai, sarebbe il caso di diminuire i babbi Natale in circolazione - puntualizza don Virginio -, quelli sì che non hanno significato». Il dato di fatto, però, è che se il Bambin Gesù svanisce dagli scaffali nel giro di poco la tradizione potrebbe davvero andar persa: «I privati sostiene l'assessore comunale all'Identità, Massimiliano Orsetti, sono liberissimi di commercializzare quel che vogliono. Ci mancherebbe. Tuttavia quella del presepe è un'usanza troppo preziosa per sparire». L'assessore, quindi, s'impegna «a risollevare questa tradizione facendo in modo che la richiesta torni alta. Così i grandi magazzini, rispettando le logiche di mercato, possano rimettere le statuine sugli scaffali». Controcorrente Philppe Daverio, ex assessore alla Cultura di Palazzo Marino: «La scomparsa del presepe mi pare il primo vero segno di rinascita intellettuale a Milano. Toglierlo è un'idea laica ed eccelsa. È una tradizione che non ha nulla a che spartire con la nostra identità». Esigenza commerciale o rinascita intellettuale? Sia come sia, qualcuno dovrà spiegare ai Re magi il perché del loro viaggio a vuoto. (Fabio Corti, Libero 24 novembre 2006)

 


 

«L’islam in Italia? Tutto bene» Un Dvd (idilliaco) per le scuole

È un’immagine del tutto idilliaca dell’islam e dei musulmani quella che si proporrà agli studenti delle scuole medie superiori di Milano e Lombardia, racchiusa in un Dvd che sarà presentato nei prossimi giorni. Dove i problemi che insorgono con la popolazione italiana non sarebbero affatto reali ma frutto della manipolazione e criminalizzazione attuata dai mass media. Accreditando la categoria dell’homo islamicus che, al di là di una specificità che fa riferimento alla moschea per tutti e al velo per le donne, non dovrebbe assolutamente preoccuparci. «Conosciamo l’islam — Giovani, musulmani, italiani» è il titolo del Dvd realizzato in mille esemplari dall’Università Cattolica di Milano, l’Ufficio scolastico regionale della Lombardia, il Centro servizi amministrativi di Milano e il Centro documentazione mondialità di Milano.

Il filmato di 26 minuti ha come principali protagonisti alcuni esponenti dell’Associazione Giovani Musulmani d’Italia, collegata all’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia), a sua volta espressione ideologica dei Fratelli Musulmani nel nostro Paese. Si comincia con Sarah Orabi, 19 anni, nata in Italia, che ha recentemente legittimato la lapidazione di un’adultera da parte di Al Qaeda in Iraq nel corso di una puntata di Porta a Porta su Raiuno: «Sono una studentessa normale, magari alcune differenze le riscontro quando cominciamo a parlare di questioni personali, di vita privata. Credo che sia normale che ognuno abbia un modo di vita diverso». Ma fino a che punto? Nel filmato non si fa cenno alla questione cruciale dell’integrazione che comporta la condivisione di regole, valori e un’identità collettiva. Dalle aule del liceo linguistico Virgilio ci si sposta nell’abitazione, sempre a Milano, di Abdallah Kabakebbji e Sumaya Albarq, figli di dirigenti dell’Ucoii. «Per una musulmana che vive in un Paese non a maggioranza islamica si pongono dei problemi visivi», dice lei mentre dà da mangiare a due splendide figliolette, «si vede subito che è una donna musulmana praticante perché porta il velo. Portare il velo non dovrebbe essere semplicemente una questione tradizionale, deve essere un atto di fede, di amore nei confronti di Dio, colei che ama Dio e vuole compiacergli, sceglie di portarlo».

La tesi secondo cui la regola sarebbe che la donna musulmana indossa il velo, mentre chi non lo indossa trasgredirebbe a un precetto religioso, è sostenuta anche da uno degli esperti italiani interpellati nel filmato, il sociologo Stefano Allievi: «Il velo è sicuramente un’affermazione identitaria forte. Va anche detto che molte donne e ragazze musulmane decidono di non portarlo per adeguarsi al costume del Paese in cui vivono: in questo caso ciò significa non solo non subirlo come scelta, ma farlo diventare parte della propria cultura, l’idea che non è più necessario, che l’islam si testimonia in una maniera diversa». Perfino Hend Aabid, laureanda in Medicina, si sente in difetto: «Tutti mi chiedono come mai non porto il velo. In effetti non ci sarebbe nessun problema, però è una scelta mia». Peccato che nessuno, tra i consulenti scientifici capeggiati da Paolo Branca, menzioni il fatto che solo fino a quarant’anni fa nell’insieme dei Paesi musulmani la maggioranza delle donne non indossava il velo, che la battaglia contro il velo ha costituito il simbolo della loro emancipazione e che la recente diffusione del velo ha coinciso con la crescita del potere degli integralisti e degli estremisti islamici.

Ed è Sumaya a sollevare la tesi della responsabilità primaria dei mass media nella demonizzazione dell’islam: «I musulmani con gli italiani hanno un rapporto quasi sempre molto buono. Poi tutta la paura che ne deriva, anche i pregiudizi, nascono principalmente dal mondo mediatico che propone semplicemente una faccia dell’islam terrorista». Lo storico Franco Cardini si spinge ancor oltre, sostenendo che la vera minaccia non è il terrorismo islamico ma chi lo denuncia: «Certamente ci possono essere fenomeni di disaffezione, fenomeni di fanatizzazione sempre marginali, alludo alla bassa forza reclutata dai gruppi fondamentalisti o addirittura terroristi,ma sono fenomeni tipici delle società multiculturali al loro avvio e che si possono tenere tranquillamente a bada. Quello che purtroppo è difficile tenere a bada è la propaganda intensiva di chi finge di rilevare il pericolo del cosiddetto scontro di culture e di civiltà, mentre in realtà lavora per rendere effettivo e reale questo scontro ». In conclusione, il messaggio trasmesso ai nostri studenti tramite questo Dvd è che il problema non è nella realtà ma nella percezione dell’islam e del vissuto dei musulmani.

Una mistificazione che rischia di diventare controproducente. Perché suona come una sonora presa in giro. Possibile che siano destituiti da ogni fondamento i fatti e le paure che concernono il terrorismo islamico globalizzato, i sermoni dell’odio nelle moschee che incitano alla distruzione di Israele e inneggiano ai kamikaze, la discriminazione nei confronti di ebrei e cristiani, la violenza contro le donne, la lapidazione delle adultere, le pene corporali per i trasgressori della morale islamica, la condanna a morte degli omosessuali e dei convertiti, la poligamia e i matrimoni combinati, il rifiuto dei valori e dell’identità occidentale? Di tutto ciò non vi è traccia nel Dvd. Le autorità scolastiche competenti hanno deciso di essere rassicuranti: con l’islam e i musulmani non ci sono problemi, basta sostenerlo e crederci. (Magdi Allam, Corriere della sera, 20 novembre 2006)

 


 

«Caro Cacciari, vacci tu a fare il martire in Turchia...»

Il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari - che i suoi avversari più cattivi chiamano "il Banal Grande" per la perfetta comprensibilità dei suoi libri - deve avere un Ego umile e appartato. «Macché narcisismo», sbottò un giorno Cacciari, «stia tranquillo che al "Costanzo Show" lei non mi vedrà mai» (così dichiarava a Gian Antonio Stella su Sette del 19 maggio 1994). Il successivo 18 ottobre 1994 risulta sia stato avvistato al "Costanzo show" a pontificare così: «se mi consente una citazione: virtus ipsa praemium est». In effetti, il sindaco - la cui amministrazione viene chiamata "la lacuna veneta" più che occuparsi di vaporetti, acqua alta o dell'illuminazione di calli, campielli e sestieri, sembra si senta chiamato a illuminare il mondo intero. In particolare si sente investito della missione di illuminare e guidare la Chiesa universale, a cominciare dal Vicario di Cristo. Ma che ne sa Cacciari di Papi e cristianesimo? Ieri per esempio, sul Corriere della sera, Cacciari ha prescritto al Papa di farsi martirizzare se vuole fare il Papa, altrimenti cambi mestiere.

Si parlava del prossimo, pericoloso viaggio del pontefice in Turchia, da dove arrivano pesanti minacce e il sindaco ha testualmente proclamato: «Benedetto XVI dev'essere testimone e quindi martire, anche fino all'ultimo. Altrimenti che lo fa a fare il Papa? Che faccia il sindaco sennò...». È perfettamente lecito esprimersi sulla visita del Papa in Turchia, ma pretendere col ditino alzato di insegnare al Papa che il suo mestiere è quello di farsi accoppare forse è un po' troppo. Non si sa perché il Corriere, dovendo parlare del Papa in Turchia, abbia intervistato il sindaco di Venezia. È turcomanno? No. È islamico? Non risulta. È cattolico? Neanche. Ha parenti turchi? Pare di no. È uno specialista di Turchia, Islam o di cattolicesimo? No. È un frequentatore di papa Ratzinger? Neanche per idea. Gestisce un negozio di tappeti a Istanbul? No, fa il sindaco a Venezia. E allora che c'azzecca? C'azzecca quanto il sindaco di Roccacannuccia. Ma al Corriere ogni volta che si parla di Chiesa intervistano lui. Perché Cacciari si gingilla da anni chiacchierando di cose religiose di cui in realtà è a digiuno. Anche Gianni Vattimo nel suo ultimo libro assesta una randellata a questa sua pretesa: «Cacciari parlava continuamente di angeli sostenendo però di non essere credente. E allora che diavolo parli di angeli!». Certo, chiunque può parlare di cristianesimo, ma la pretesa di insegnarlo restando atei fa un po' ridere. Anche nel caso del viaggio in Turchia Cacciari s'inventa una sua teoria secondo la quale se il pontefice vuole veramente fare il suo mestiere di testimone (parola che viene dal greco "martire"), dovrebbe comportarsi da suicida andando a cercare col lanternino qualcuno che lo stenda. Per che cosa poi? A sentire Cacciari non per Cristo: deve andare a farsi martirizzare in Turchia «non per evangelizzare» e «non per chiedere» (perché al mondo islamico non bisogna chiedere niente), ma solo per un «valore simbolico e culturale, nient'altro». Ma perché non ci va lui? Strana anche un'altra idea. Il Papa dovrebbe andar là per favorire la trattativa in corso fra Turchia ed Europa. Ma che diamine c'entra il Papa? È forse un funzionario dell'Unione europea? No, oltretutto è odiato dai turchi proprio perché - da Cardinale - si espresse contro l'ammissione di Ankara nella Ue, quindi sarebbe il "testimonial" più sbagliato. E in ogni caso è sensato che il Santo Padre rischi la pelle (e che noi rischiamo di perdere un grande Papa) solo - come dice Cacciari - «per un valore simbolico e culturale»? Oltretutto ormai sappiamo che sul piano simbolico questo evento ha assunto il connotato opposto, quello dello scontro, perché la visita è avversata sia dalle autorità di governo (che si rifiutano di incontrare il Papa), sia dalla piazza nazionalista e islamica che minaccia sfracelli. Dunque, anziché essere percepita come una mano tesa, per il dialogo, la visita del Papa è sentita come una provocazione. Per questo, proprio chi ha a cuore il dialogo dovrebbe puntare a raffreddare questo clima incandescente sospendendo a tempo indeterminato la visita. È chiaro che non può essere il Papa a fare questa mossa: sarebbe interpretata come un segno di disistima verso la Turchia. Dovrebbe essere il governo turco, ma non può farlo perché significherebbe confessare di non saper gestire l'ordine pubblico con pesantissime conseguenze sull'immagine del Paese. E allora? Potrebbe forse fare una mossa in questo senso il governo italiano. Che però non sembra pensarci proprio (eviterò qui di ricordare la gaffe di Prodi sulla sicurezza del Papa). Così ci troviamo in un'angosciante situazione di pericolo annunciato che nessuno sembra capace di scongiurare o evitare. Non vorremmo che il Papa - inerme e mite - finisse per essere un agnello sacrificale di una situazione internazionale tragica e allo sbando. […].

Ben al di là delle chiacchiere da bar di Cacciari, che si balocca con parole come «martirio», Papa Ratzinger ha manifestato di avere una percezione drammatica della sua missione. La sua prima omelia, nella messa di investitura, il 24 aprile 2005, era tutta incentrata sul martirio, con l'oscura richiesta di preghiere «perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi». Disse che non aveva da «esporre un programma», ma solo da confessare che intendeva seguire «il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore». Al primo Concistoro ricordò ai cardinali che il rosso porpora di cui venivano vestiti simboleggiava la disponibilità a spargere il sangue per Cristo. In questo anno è tornato continuamente sul tema dei martiri. E proprio l'altro ieri ha annunciato di pubblicare la prima parte del suo libro su Gesù perché «non so quanto tempo e quanta forza mi saranno ancora concessi». Ma tutto questo non significa affatto che il Papa debba cercare il martirio, non è questo che insegna il cristianesimo. Cacciari dovrebbe leggere quanto Thomas S. Eliot, in "Assassinio nella cattedrale", fa dire al vescovo san Tommaso Becket, che pure di lì a poco sarebbe stato assassinato: «un martirio cristiano non è l'effetto della volontà di un uomo di diventar santo, come un uomo volendo e tramando può conquistare il potere... Non così in Cielo. Un martire, un santo è fatto sempre dal disegno di Dio, per il Suo amore per gli uomini, per ammonirli e per guidarli, per riportarli sulle sue vie. Un martirio non è mai un disegno d'uomo... vero martire è colui che è divenuto strumento di Dio, che ha perduto la sua volontà nella volontà di Dio, anzi non perduta ma trovata... Il martire non desidera più nulla per se stesso, neppure la gloria del martirio». È per questo che papa Ratzinger nella messa di insediamento affermò: «Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà». È per questo che fa parte della sapienza cristiana la virtù della prudenza. L'uomo di Dio non è mai avventato, non cerca il rischio inutile per "provocare" o solo per futili motivi politici o simbolici. Il martirio di un papa in Turchia oltretutto sarebbe devastante per la pace stessa. Per questo bisogna con tutti i mezzi disinnescare questa bomba. (Antonio Socci, Libero 24 novembre 2006)

 


 

Il senso della preghiera comune del Papa e del Patriarca Bartolomeo I

L’incontro di preghiera si è celebrato mercoledì pomeriggio (29/11)  nella chiesa patriarcale di San Giorgio a El Fanar, accanto al Patriarcato ecumenico (ortodosso) di Costantinopoli (l’attuale Istanbul).

Dall’inizio del suo pontificato, Benedetto XVI si è posto come priorità l’impegno ecumenico e ha espresso la propria determinazione, sulle orme dei suoi predecessori, a coltivare ogni iniziativa opportuna per promuovere il contatto e l’intesa con i rappresentanti delle varie Chiese e comunità ecclesiali.

Come spiega l’Ufficio per le Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, la presenza del Santo Padre a Istanbul (nel contesto del suo viaggio apostolico in Turchia) si inserisce in questa prospettiva e ha un primo momento importante nell’incontro di preghiera e dialogo di questo mercoledì pomeriggio con il Patriarca Ecumenico di Constantinopoli, Sua Santità Bartolomeo I, nella cattedrale patriarcale.

Questo momento di preghiera vespertina – prosegue l’Ufficio – è stato costituito da una breve “akolouthia” composta per l’occasione, con vari elementi presi da diverse ore e feste dell’Ufficio della Chiesa bizantina.

All’ingresso del Papa e del Patriarca nella cattedrale sono state cantate sette antifone, cinque delle quali prese dal salterio e due dai testi dell’ufficio notturno bizantino della domenica.

Nella prima antifona, del Salmo 88, 16-17 – “Signore, alla luce del tuo volto cammineranno…, tutto il giorno esulteranno nel tuo nome, e nella tua giustizia saranno innalzati” –, si fa riferimento al tema della luce che unisce l’ufficio all’ora vespertina in cui si celebra. Le altre antifone dei salmi invitano a lodare il Signore glorioso.

La terza e la sesta antifona, tratte dall’ufficio domenicale, si riferiscono esplicitamente allo Spirito Santo dato agli apostoli: “Dal Santo Spirito scaturisce ogni sapienza, per lui agli apostoli è data la grazia… Il Santo Spirito è la sorgente dei divini tesori, da lui provengono sapienza, intelligenza, timore…”.

L’ufficio si è aperto con la benedizioni iniziale secondo tutti gli uffici della tradizione bizantina: “Benedetto il nostro Dio, ora e sempre e nei secoli dei secoli”.

In seguito sono stati cantati sei tropari scelti per la celebrazione: il primo è quello della Pentecoste, il giorno in cui il Signore, mandando lo Spirito Santo, ha fatto di alcuni pescatori, degli uomini sapienti per la salvezza del mondo.

Il secondo e terzo sono della festa dei Santi Pietro e Paolo, patroni della Chiesa di Roma, e di Sant’Andrea, patrono della Chiesa (ortodossa) di Costantinopoli. Il quarto tropario fa riferimento a San Benedetto.

Il quinto è considerato un testo “nuovo” perché è stato usato per prima volta nella visita di Sua Santità Paolo VI a Istanbul nel 1967: canta la gioia della città di Costantinopoli che riceve colui che presiede la Chiesa di Roma e occupa la sede di Pietro.

L’ultimo dei tropari è il “kontakion”, che si canta nelle settimane precedenti il Natale e descrive la gioia del mondo vedendo la Vergine che si avvia a partorire il Verbo eterno di Dio

La terza parte dell’ufficio è stata composta da sei versetti della Dossologia conclusa dal “Trisaghion”. E’ seguita una litania con sette intercessioni e una preghiera conclusiva, diretta dal Patriarca. Ci sono state intercessioni per il Papa, per il Patriarca, per le Chiese e per il mondo intero.

La lettura biblica che è stata proclamata di seguito è del profeta Zaccaria (8, 7-17): si è ascoltata la voce del profeta che chiama i popoli d’Oriente e d’Occidente e li riunisce a Gerusalemme.

Si è poi cantato il Padre Nostro, introdotto dalla formula della liturgia di San Giovanni Crisostomo: “Concedici, Signore, che con fiducia e senza condanna osiamo chiamare Padre Te, Dio del cielo, e dire…”. La preghiera si è conclusa con il versetto che in genere chiude la proclamazione del Vangelo: “Gloria a Te, Signore, gloria a Te”.

La visita di preghiera si è conclusa con la venerazione delle reliquie dei Santi Gregorio il Teologo e Giovanni Crisostomo. Durante quel momento sono stati cantati i due tropari dei santi.

Parte delle reliquie dei due Santi padri della Chiesa di Costantinopoli, un tempo conservate nella Basilica di San Pietro, è stata consegnata da Papa Giovanni Paolo II al Patriarca Bartolomeo I nel corso di una toccante cerimonia accolta dalla Basilica vaticana due anni fa.

Dopo il momento di preghiera di questo mercoledì, nel Palazzo Patriarcale si è svolto l’incontro privato tra Benedetto XVI e il Patriarca. (Zenit, 29 novembre 2006)

 


 

Il Papa cerca di superare con il Patriarca armeno lo scisma del 451

Il carattere ecumenico del viaggio di Benedetto XVI alle Chiese sorelle della Turchia è stato sottolineato anche questo giovedì con la visita di preghiera nella Cattedrale armena apostolica e con l’incontro con Sua Beatitudine il Patriarca Mesrob II Mutafian. Durante la Celebrazione della Parola, dopo il discorso del Patriarca, il Papa ha constatato che “il nostro incontro è ben più che un semplice gesto di cortesia ecumenica e di amicizia”.

“È un segno della nostra speranza condivisa nelle promesse di Dio e del nostro desiderio di vedere adempiuta la preghiera che Gesù elevò per i suoi discepoli alla vigilia della sua passione e morte: ‘Perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato’” (Gv 17,21).

“Dobbiamo perciò continuare a fare tutto il possibile per curare le ferite della separazione ed affrettare l'opera di ricostruzione dell'unità dei cristiani”, ha detto il Papa.

La storia della Chiesa armena affonda le proprie radici agli inizi del II secolo. La tradizione fa risalire, infatti, il primo annuncio del Vangelo in Armenia agli apostoli Taddeo e Bartolomeo. Ma è solo a seguito dell'apostolato di san Gregorio l' Illuminatore che nel 301 battezzò il re Tiridate III e la sua corte, che il cristianesimo divenne – per la prima volta nella storia – religione di Stato.

San Gregorio – più tardi ordinato Vescovo in Cesarea di Cappadocia – dedicò le proprie forze a debellare il paganesimo dando alla sua Chiesa un’organizzazione gerarchica, con a capo il Catholicos.

Successivamente, in seguito al quarto Concilio Ecumenico di Calcedonia del 451 – in cui fu condannato fra l’altro il monofisismo, secondo cui Gesù aveva avuto solo natura divina – ci fu la separazione della Chiesa armena da quella di Bisanzio e di Roma, poiché Papa Leone I rifiutò di accettare il 28.mo canone che sanciva l’uguaglianza fra la Sede apostolica di Roma e il Patriarca di Costantinopoli, assegnando a quest'ultimo il Primato.

Più tardi vi fu, tuttavia, una corrente assai importante di Vescovi, sacerdoti e popolo rimasti fedeli alla dottrina calcedonese, soprattutto nell’Armenia Minore. Persino dopo lo scisma del 608-609, alcuni Catholicos e Vescovi abbracciarono la dottrina calcedonese e scrissero ai Papi lettere di piena comunione nella fede.

Le diverse persecuzioni cui furono sottoposti nei secoli i sostenitori della fede calcedonese li spinsero in seguito al tentativo di costituire una gerarchia indipendente per la loro comunità. Così si giungerà ad eleggere come Catholicos calcedonese, monsignor Abraham Arzivian, Vescovo di Aleppo, che fu ufficialmente confermato dal Papa Benedetto XIV nel 1742.

Monsigor Arzivian, divenne così Patriarca di Cilicia per gli Armeni, con sede a Beirut (Libano) e con la giurisdizione della parte meridionale dell'Impero Ottomano. Successivamente, a causa di complicazioni politiche nell'impero, la sede venne però spostata a Constantinopoli (Istanbul).

Allora la Chiesa Armena Cattolica si separò dalla Chiesa Armena Apostolica con centro nella sede di Etchmiadzin (nei pressi di Erevan, la capitale dell’Armenia), fondata nel 1441 da alcuni Vescovi e monaci anticalcedonesi.

L’incontro personale e la preghiera comune, così come la scoperta di una lapide in lingua armena e turca in ricordo della visita di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e ora di Benedetto XVI, hanno voluto esprimere il vincolo esistente tra la Chiesa armena apostolica e la Chiesa cattolica.

E’ stato un momento di preghiera in cui le sequenze rituali sono state prese da vari elementi della Celebrazione Eucaristica della Liturgia Armena.

Prima di iniziare la processione di ingresso nella Cattedrale, sono stati presentati al Santo Padre, secondo la tradizione armena, pane, sale e acqua di rose come simboli di benvenuto e di buoni auspici.

Durante l’ingresso nella cattedrale di Benedetto XVI e di Mesrob II, il coro ha intonato “Herasciapar Asdvadz” (“Oh, Dio meraviglioso”), che ricorda la storia della conversione del popolo armeno al cristianesimo.

Ai piedi dell’altare è stata recitata una preghiera dopo la quale il Papa e Sua Beatitudine hanno occupato un luogo davanti al sacro altare, da cui è stato solennemente proclamato il Vangelo, portato in processione dall’ingresso della Cattedrale.

Il momento di preghiera nella Cattedrale armena apostolica ha espresso la gioia della Chiesa Armena Apostolica per la visita di Benedetto XVI.

All’uscita dalla Cattedrale è stata scoperta la lapide – a forma di croce armena – che commemora la visita dei tre Romani Pontefici.

La Chiesa Apostolica Armena è parte, con i Siri ortodossi, i Malankaresi dell’India, i Copti d’Egitto, nonché gli Etiopi ed Eritrei, delle Chiese ortodosse orientali.

Gli Armeni apostolici formano due grandi comunità, l’una tuttora presente nel fulcro storico dell’Armenia, attorno al Catholicos Mesrob II, e l’altra attorno al Catholicos Aram I di Cilicia, che risiede nel Libano.

In tutta la Turchia ci sono all’incirca 82.000  armeni. (Zenit, 30 novembre 2006)

 

 

 


 

Il Cardinale Zen: “indecente e sbalorditiva” l’ordinazione episcopale a Xuzhou

 

L’ordinazione illegittima avvenuta oggi a Xuzhou è stata organizzata “con metodi indecenti, quasi inimmaginabili” e “sbalordisce, perché non ci si aspettava una cosa del genere”. E’ questo il commento rilasciato ad AsiaNews dal vescovo di Hong Kong, il card. Joseph Zen Ze-kiun, a proposito dell’ordinazione episcopale illegittima di p. Wang Renlei. Per organizzarla, l’Associazione patriottica e l’Ufficio affari religiosi sono arrivati a rapire altri 2 vescovi, Mons. Li Liangui di Cangzhou (Xianxian) e mons. Pietro Feng Xinmao, che avrebbero dovuto dare una sorta di ufficialità alla cerimonia.

Il card. Zen sottolinea come questa decisione “sbalordisce: nessuno si aspettava una cosa simile. Queste persone sono proprio accanite  nel voler distruggere l’unità della Chiesa. La cosa più grave è che questa ordinazione è avvenuta a poca distanza da un ammonimento molto serio, quello di fine aprile: queste sono cose gravi, per le quali sono previste gravi sanzioni canoniche”.

Il 28 aprile e il 3 maggio sono avvenute le ordinazioni di p. Giuseppe Ma Yinglin e di p. Giuseppe Liu Xinhong, punite dalla scomunica latae sententiae e definite da una nota della Sala stampa vaticana “una grave violazione della libertà religiosa”, che hanno provocato il “profondo dispiacere” del Papa.

Il porporato spiega ad AsiaNews che “a quanto sembra, le ordinazioni sono state pianificate disobbedendo al governo. Ora non ci si può aspettare che Pechino sconfessi l’avvenuta cerimonia, ma non si può nemmeno scaricare la responsabilità sulla piccolissima chiesa locale, guidata da un vescovo di 94 anni”.

Il card. Zen, in partenza per il Vietnam, ha inoltre rilasciato una dichiarazione ufficiale in cui sottolinea come questi avvenimenti “danneggiano il vero bene della nazione” e chiede ai leader cinesi “in nome del tanto conclamato concetto di armonia sociale, di iniziare sostanziali dialoghi con la Santa Sede”.

Riportiamo di seguito la dichiarazione completa del cardinale.

“E’ difficile capire come mai vi sono persone che lavorano in maniera ostinata per la distruzione. Con la scusa di servire la Chiesa, lavorano per distruggerne l’unità. L’ordinazione illegittima di un vescovo, avvenuta a Xuzhou il 30 novembre scorso, rende ancora più evidente come costoro, con interessi nascosti, abbiano una terribile paura che la Chiesa possa un giorno operare normalmente e liberamente secondo le proprie regole.

Gli organismi al di fuori della Chiesa continuano ad usare il potere dato loro dallo Stato per sostenere i cattolici che tradiscono, danneggiando il vero bene comune della nazione.

Ciò che è accaduto questa volta è ancora più serio di quanto si è verificato fra la fine di aprile e l’inizio di maggio. Per prima cosa, dopo quegli avvenimenti la Santa Sede aveva chiarito ancora una volta che tali ordinazioni illegittime sono un’offesa molto seria, da cui derivano sanzioni previste dal codice canonico.

Il secondo punto che la rende più grave è che il governo centrale, dopo quei fatti, aveva invitato una delegazione della Santa Sede a Pechino e promesso di non promuovere più tali ordinazioni.

L’ultimo punto è che, per arrivare al loro scopo, questa volta hanno usato non solo minacce e promesse, ma persino rapimenti. Di questo, hanno cercato di dare la colpa alla minuscola Chiesa locale, guidata da un vescovo di 94 anni, e questo li rende semplicemente ridicoli.

Per amore della nostra Patria e della nostra Chiesa, ci appelliamo ai nostri più alti leader: per favore, non permettete più a queste persone di ignorare il vero bene della nazione e continuare a danneggiare la nostra Chiesa, ferendo i sentimenti di innumerevoli fedeli e facendo divenire la nostra nazione lo zimbello della famiglia mondiale.

Basandoci sul sovrano principio dell’armonia, vi imploriamo di prendere la ferma decisione di iniziare dialoghi sostanziali con la Santa Sede, per trovare una strada accettabile per entrambi e per dare alla Chiesa della nostra nazione la possibilità di operare normalmente ed ai fedeli la possibilità di offrirsi e contribuire al vero bene della nazione. (AsiaNews, 30 Novembre 2006)

 


 

Quantità di droga permessa:  bocciato il decreto Turco

È stato approvato in commissione Sanità del Senato un ordine del giorno che impegna il governo a «riesaminare» il decreto del ministro della Salute, Livia Turco, che ha raddoppiato la dose di cannabis detenibile per uso personale. Il documento è stato presentato dalle due senatrici della Margherita Paola Binetti e Emanuela Baio Dossi e hanno apposto le loro firme anche Giuseppe Caforio dell'Idv e Daniele Bosone del gruppo per le Autonomie. Il documento è stato sottoscritto anche dalla CdL, che di fronte alla iniziativa delle due senatrici, ha ritirato un suo testo presentato martedì, molto critico nei confronti della Turco, un odg, però, che aveva incontrato il parere contrario del governo.

Il testo della Binetti e della Baio Dossi ha raccolto i voti favorevoli di tutto l'Ulivo, compresi i Ds, tra cui Anna Serafini che è intervenuta nel dibattito a sostegno del documento (unico astenuto il presidente della commissione Ignazio Marino). Mentre si sono astenuti Tiziana Valpiana e Erminia Emprin di Rifondazione e Gianpaolo Silvestri dei Verdi. Nel complesso i voti favorevoli sono stati 21. Oltre al «riesame» del decreto, il testo approvato chiede all'esecutivo di «predisporre azioni finalizzate alla prevenzione delle droghe e ad affrontare globalmente il problema della detenzione di sostanze stupefacenti». Inoltre l'ordine del giorno evidenzia che qualunque modifica delle norme vigenti richiede il confronto, non solo con i ministri firmatari del decreto, ma anche con quelli dell'Istruzione e della Famiglia, con le commissioni competenti del Parlamento, il mondo scientifico, «e quanti sono quotidianamente impegnati nel confronto con i tossicodipendenti». «L'ordine del giorno votato - precisa la Binetti - non è tanto un messaggio rivolto al ministro Turco, con cui avevo già parlato e che conosce le mie posizioni, bensì all'intero Parlamento al quale chiedo di assumere una responsabilità condivisa nella tutela dei giovani». La senatrice della Margherita rafforza il suo pensiero, ricordando che lunedì ha avuto un incontro con il ministro della Salute, che si è svolto in «un clima molto sereno, volto a sviluppare la parte positiva relativa alla prevenzione, anche se possono sussistere ipotesi di strategie diverse per altre misure». In merito alla votazione in commissione la Binetti evidenzia: «Sono rimasta colpita molto positivamente dalla convinta adesione dei senatori Ds, tra cui la senatrice Anna Serafini». Una convergenza tanto ampia, come quella registratasi ieri in commissione, è poi «il segnale di una disponibilità a lavorare insieme per la tutela della salute in un settore così complesso come quello della tossicodipendenza, anche se su problemi specifici le posizioni possono divergere». La Baio Dossi, inoltre, rivendica una «linea di continuità» con la posizione assunta di fronte al decreto del ministro Turco, nel documento dei 51 esponenti della Margherita. «L'invito a riesaminare il decreto è finalizzato a rimettere mano alla legge - spiega - nella prospettiva di educare, prevenire, curare, e punire gli spacciatori. Crediamo che un intervento limitato alla dose consentita, sia un messaggio negativo per i giovani e le famiglie, perché li lascia soli di fronte al problema della droga, mentre è indispensabile che chi ha responsabilità pubbliche mostri il massimo di vicinanza». E la ds Serafini così chiarisce la posizione da lei espressa in commissione a favore del voto favorevole sull'ordine del giorno: «Un voto in piena sintonia con ciò che il ministro Livia Turco ha sostenuto nelle ultime settimane». Dunque «un voto pro-Turco. L'Ulivo ha preso posizione, unito, contro le droghe: in questo sosteniamo il ministro, che ha più volte affermato che la lotta agli stupefacenti è uno dei punti qualificanti del suo mandato». Quindi totale è, a detta della Serafini, l'accordo con l'impegno del ministro «a cambiare la legge Fini-Giovanardi e, in questo quadro, a esaminare tutte le misure necessarie al contrasto degli stupefacenti ». Non la pensa così il verde Silvestri, il vicepresidente della commissione: «Così si censura l'operato della Turco e il nostro programma e la solidità della coalizione è messa a dura prova». Per Cesare Cursi di An, altro vicepresidente della commissione, l'esito del voto dimostra «che sulla droga non si può fare demagogia». «Le appartenenze politiche - argomenta - su questioni che riguardano il messaggio educativo, la responsabilità verso i giovani, devono cedere il passo ad un comune dna a difesa della vita». Per Laura Bianconi, capogruppo di Fi in commissione, da cui era partita l'iniziativa della mozione della CdL che poi è stata ritirata, il messaggio alla Turco è chiaro: «il decreto va ritirato e la questione va discussa nelle aule parlamentari». Infine l'udc Sandra Monacelli registra: «Un dietro front della sinistra, certo, rispetto alle scorse settimane, ma meglio tardi che mai». (Avvenire 30 novembre 2006)

 


 

«Uomo e donna, creati per amare»

La Chiesa non si stanca mai di ricordare che Dio ha creato l'uomo e la donna con amore e per amore: non li ha condannati alla sterile solitudine, ma alla comunione delle persone unite dall'amore reciproco.

È questo il filo conduttore del nuovo libro del cardinale Carlo Caffarra, Creati per amare (edizioni Cantagalli, 316 pagine, euro 19,50) presentato ieri all'Istituto «Veritatis Splendor» di Bologna da monsignor Elio Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia della vita, e da Sergio Belardinelli, docente di sociologia della cultura. Il volume, curato da Rosanna Ansani, si rivolge in particolare a teologi, sacerdoti, sposi e giovani e raccoglie, tra l'altro, le catechesi proposte a Radio Maria e i testi di incontri che hanno avuto luogo a Bologna, Roma e Ferrara.

Con quest'opera l'arcivescovo di Bologna si inserisce a pieno titolo nella stessa tradizione pastorale e teologica cui diede inizio il giovane sacerdote Karol Wojtyla a Cracovia quando scrisse il suo Amore e responsabilità a seguito dei numerosi colloqui con coppie di fidanzati e sposi. Caffarra considera l'amore coniugale come un luogo santo così che per entrarvi «dobbiamo prima toglierci i calzari, cioè liberarci di tutte le idee sbagliate, i pregiudizi che oggi circolano e che più o meno tutti respiriamo».

L'arcivescovo sa che occorre impegnarsi senza riserve per insegnare ai giovani ad amare bene e che il loro amore ha bisogno della cura dei pastori e dell'aiuto delle comunità dei credenti. Una delle espressioni di questa cura è certamente la preparazione al matrimonio. Per questa, puntualizza Caffarra nel libro, non bastano quattro o cinque incontri «ma è necessaria una profonda preparazione spirituale fatta di preghiera, di prolungata meditazione sulla grande dottrina cristiana del matrimonio». E ai fidanzati rivolge parole essenziali e decisive: «È giunto il momento di ascoltare la voce del cuore. Che cosa dice il cuore ad un uomo quando incomincia ad amare vera mente una donna e viceversa? È un invito a guardare alla persona dell'altro, a volere il bene dell'altro semplicemente perché desideriamo sia realizzato, al dono di sé alla persona amata. Se in ciò che vi ho detto avete riconosciuto la voce del vostro cuore vi renderete conto che nel rapporto di vero amore fra l'uomo e la donna dimora un desiderio di eternità. Il vero amore chiede di durare per sempre».

Il cardinale si rivolge anche alle famiglie per chiarire che il loro compito educativo non deve limitarsi all'informazione ma soprattutto deve puntare alla formazione della persona. Sostiene i diritti dei genitori, ponendo in rilievo la loro «autorità educativa».

Ma non solo. Nei vari interventi tiene conto di tutti i problemi, compresi quelli economici, delle famiglie cristiane e si fa loro portavoce dichiarando che nei confronti delle difficoltà delle famiglie «lo Stato non può essere neutrale, se vuole conservare il senso del suo esserci, il senso della comunità politica».

Il libro si conclude con un vero e proprio manifesto sul valore del matrimonio e della famiglia nella proposta cristiana, valore che ha un indubbia rilevanza civile. «La società e lo Stato», è la tesi da cui parte Caffarra, «esigono un tessuto connettivo alla cui formazione sono indispensabili la famiglia e il matrimonio così come sono pensati dal cristianesimo in quanto istituzioni naturale». In questa prospettiva «ad ogni livello, compreso quello statale, deve essere riconosciuto nella sua positività questo modello di vita coniugale e familiare». «Non sto proponendo - sostiene l'autore - un astratto primato della famiglia difesa contro lo Stato; ancor meno una forma di teo-crazia. Ma una posizione pienamente laica di promozione e difesa di quei valori relazionali che hanno nella famiglia e nel matrimonio la loro culla e che si basa su una precisa giustificazione razionale e non di fede».

Una proposta, quella di Caffarra, che si spinge fino ad indicare i contenuti di una politica che vogli a riconoscere a tutti gli effetti la cittadinanza della famiglia: deve essere evitata qualsiasi forma, nascosta o palese, di equiparazione fra la famiglia - società naturale fondata sul matrimonio - e altre forme di convivenza; deve essere assicurato il diritto ad una casa adatta a condurre una vita familiare buona; deve essere assicurato il diritto di esercitare la propria responsabilità nell'ambito della trasmissione della vita e dell'educazione dei figli; devono essere conciliati e composti lavoro e famiglia. (Stefano Andrini, Avvenire, 29 novembre 2006)

 


 

“Figlia di un cane”

Maria Lourdes Carlotta sarà la prima bambina "figlia di un cane" e crescerà volutamente "senza genitori", pur avendoli. Un esperimento, una partorita per la scienza, in barba alla morale e all'amore naturale, alle regole, alla vita stessa, al rispetto dell'essere uomini e donne. Del resto è la cultura dei nostri tempi: andare oltre, spostare il limite della potenza umana sino all'onnipotenza, varcare il muro del "non posso". Non è stata certo Maria a decidere di essere "figlia di nn". Si tratta di gente adulta che insegue il Mefistofele del proibito, il mito della "figlia della scienza", che sogna di indagare i comportamenti umani, dalla testa ai piedi, e se ne infischia del resto.

Per capirci qualcosa in questa storia che sembra uscita da un libro di fantascienza bionica, bisogna cominciare dal principio, dalla nascita. Maria Lourdes è venuta al mondo alcuni giorni fa. L'ha partorita Cristina, una bella ragazza ucraina, ma il suo nascere è stato contrassegnato subito dal timbro della ricerca. La madre, infatti, avrebbe raggiunto un accordo con la Gunther Corporation di Miami, un trust economico internazionale che gestisce una business miliardario e che ha in Maurizio Mian, ricercatore, baffi da vichingo, il suo portavoce. Mian è nella compagine societaria del quotidiano l'Unità con una partecipazione del 20 per cento ed è stato candidato nella Rosa nel Pugno alla camera in Toscana nelle ultime elezioni.

Ha annunciato in un comunicato la sua Gunther Corporation: «Secondo quest'intesa la bambina verrà in pratica adottata dall'associazione e sarà il primo soggetto umano che volutamente crescerà senza famiglia, senza i propri genitori. Insomma, sarà una figlia della scienza e seguirà i canoni di vita elaborati dal gruppo di scienziati e ricercatori che lavorano per la Corporation».

L'ambiente come genitore

Già nel nome che le hanno affibbiato, povera bimba, si svela il destino di "oggetto" che qualcun altro ha segnato per lei. «è stata chiamata Maria Lourdes Carlotta in omaggio a Maria, la bambina bielorussa oggetto di una sorta di contesa familiare fra i coniugi Giusto di Genova e lo Stato bielorusso; Lourdes, per ricordare l'input dato dalla rockstar Madonna alla stesura dei nostri protocolli etico-scientifici quando decise di farsi inseminare da uno sperm donor e concepire una figlia "senza padre"; Carlotta, in ricordo della contessa Carlotta Liebestein che lasciò il proprio patrimonio al cane Gunther permettendo, con questi soldi, la nascita della fondazione che ora porta il suo nome. La bambina dal punto di vista economico potrà stare tranquilla. La Corporation sta mettendo a punto un documento economico che le permetterà di usufruire, per tutta la vita, di congrui sostentamenti materiali. Anche la madre, per il suo impegno fattivo nella realizzazione di questo esperimento, potrà godere di un beneficio economico, consentendo di dimostrare che non è la famiglia a permettere uno sviluppo ottimale al bambino ma è l'ambiente che lo circonda. Ovvero, le condizioni ambientali possono sopperire alla mancanza dei genitori».

Quello che lascia annichiliti in tutta questa vicenda, un groviglio strano di cani, ville, scienza senza tracce di umanesimo, è la linea portata avanti con cocciutaggine dalla Corporation. «La nascita della piccola Maria Lourdes Carlotta darà l'avvio alla "Global Revolution", una nuova dottrina comportamentale che sogna e spera di poter fondare una società basata sul superamento della coppia intesa come famiglia, un andare oltre da raggiungere attraverso una ricerca finalizzata all'individuazione ed alla sperimentazione di modelli di integrazione alternativi alla coppia stessa, modelli favorevoli alla promiscuità libera e a stili di vita nuovi».

La madre della neonata Maria, Cristina è anche lei, a modo suo, figlia culturale di questo desiderio di novità, tanto che da tempo appartiene al gruppo dei cosidetti "Burgundians" parola incomprensibile che sembra uscita dalle avventure di Asterix. Si tratta di giovani che hanno accettato di vivere all'interno di una comunità, secondo uno stile di vita stralunato e un po' folle, basato su dettami impliciti che riguardano l'abolizione di qualunque idea di coppia o famiglia, cancellate in favore di una vagheggiata promiscuità tecnologica.

La piscina e tutti i comfort

Maurizio Mian non è nuovo a queste provocazioni. Alle scorse elezioni incentrò la propria campagna elettorale sui "Fly for freedom", i voli gratuiti organizzati nella primavera scorsa dalla sua Corporation per portare all'estero le donne italiane che intendevano sottoporsi alla fecondazione assistita senza incorrere nei limiti etici e di buon senso posti dalla legge nazionale (la legge 40). A Tempi parla di quest'ultima sua impresa come della sfida scientifica del futuro: «A Miami già da tempo abbiamo fatto partire la sfida dei burgundians. Si tratta di un working title ed il nome è un omaggio al cane Gunther (Gunther era il nome del re dei Burgundi, ndr)».

Andando a guardare bene l'esperimento, però, si resta annichiliti. «Abbiamo preso un gruppo di giovani, dai 18 ai 35 anni, uomini e donne, e li abbiamo messi in una villa con piscina e tutti comfort. Qui loro vivono all'insegna dell'edonismo e del piacere. Dal punto di vista scientifico e di psicologia comportamentale lo studio punta ad approfondire le dinamiche della ricerca del godimento e dell'appagamento del corpo, da leggere soprattutto sotto il profilo delle neuroscienze. Le nostre attività - avverte, senza il minimo imbarazzo Mian - sono al limite della morale, a volte anche al di là della morale, ma ci teniamo a restare nei limiti previsti dalla legislazione. Del resto le operazioni etico-scientifiche della nostra Corporation sono in corso in molti paesi e uno di questi sono proprio gli Stati Uniti. Per adesso non è possibile ma io dico che i bambini che si potranno progettare secondo questi stili di vita, di educazione e di crescita, saranno l'anno zero di un nuovo tipo di società. Qualche volta, purtroppo, questi "esperimenti" vengono fatti male ma per uno scienziato è determinante il modo di portare avanti le ricerche che sono già in corso. Si tratta di capire, di approfondire, di conoscere quelle che un domani potranno essere le dinamiche delle nuove aggregazioni familiari, magari senza famiglia nel senso tradizionale della parola. Certo, devo dire che quest'ultima iniziativa su Maria Lourdes Carlotta come figlia della scienza rompe con la tradizione della Gunther Corporation, che è sempre stata incentrata su un gioco mediatico più simpatico e accattivante, che non toccava quasi mai la gravità dei temi etici e della ricerca».

Per capire come il limite sia andato oltre, basta pensare che anche i radicali, sempre in prima linea quando si tratta di spostare in avanti i limiti morali posti alla ricerca e alle tecnoscienze, su queste ultime iniziative di Maurizio Mian sono cauti, guardinghi. Daniele Capezzone, l'ex segretario, dice a Tempi di «non essere interessato all'iniziativa che non conosce» e Marco Pannella, il vecchio leader, ribadisce a Tempi di essere a conoscenza dell'iniziativa ma di non conoscerla nel dettaglio. Mian, comunque, non demorde. «La Rosa nel pugno per ora non rientra nell'iniziativa anche se, in futuro, spero di poterla coinvolgere». (Lenzi Massimiliano, Tempi, 45 del 23/11/2006)

 


 

In Parlamento si prepara la Religione “à la carte”

Cinque pause lavorative al giorno per recitare le sure del corano. Le vacanze per il mese del ramadan. I matrimoni celebrati dall’imam. La mensa aziendale a base di felafel e kebab. Immaginate un’Italia più multietnica innanzitutto più multireligiosa. Anzi preparatevi all’idea. Perché la commissione Affari costituzionali della Camera, mentre Giorgio Napolitano incontra Benedetto XVI, sta affrontando l’esame di una proposta di legge sulla libertà religiosa.

Si tratta di un testo abbinato, frutto di due iniziative legislative gemelle. Una appartenente al deputato verde Marco Boato. L’altra sottoscritta dal ds Valdo Spini e da altri compagni di partito, tra i quali il ministro Vannino Chiti. Ebbene, quella che all’apparenza sembra una proposta innocua, nasconde in realtà una vera rivoluzione socio-culturale. A partire dal principio intorno a cui ruota la proposta di legge. Che è assai semplice: viene abrogata la legislazione relativa ai culti ammessi dallo Stato e si procede alla “liberalizzazione” del settore. Una sorta di decreto Bersani dedicato agli emissari di Dio. Sicché finiscono per aver pari diritti tutte quelle confessioni che hanno personalità giuridica. Quali sono? A oggi, l’elenco è già lunghissimo. Si va dai centri islamici culturali alla chiesa cristiana evangelica. Passando per greci ortodossi, tradizione mahayana, buddisti, zen, induisti, scientisti, pentecostali, baha’i, chiesa della fratellanza nella realizzazione del sé. Ora, se dovesse passare la proposta Boato-Spini, tutte queste confessioni religiose avrebbero nuove prerogative. Compresa quella di celebrare matrimoni secondo i propri riti tradizionali. Unioni valevoli a tutti gli effetti per lo Stato italiano. Ma c’è di più. Il ministro di culto dell’occasione, ha la libertà di omettere la lettura degli articoli del codice civile. Che sono poi la base del matrimonio nella variazione occidentale, dove è paritaria la posizione tra l’uomo e la donna. Una rivoluzione, s’è detto. Il relativismo applicato un po’ ovunque: scuola, lavoro, famiglia, gusti alimentari. L’articolo 12 del testo all’esame della commissione stabilisce che “su richiesta degli alunni o dei genitori” si possono organizzare attività di promozione culturale sulla religione di interesse. Ciò significa il corano sui banchi di scuola. O la lettura degli scritti induisti sruti e smriti. O l’ora di respirazione zen. Insomma, l’era del monopolio della bibbia volge al tramonto. Come la tradizionale pausa caffè, che rischia di essere affiancata o sostituita dal break per le sure del corano. La Boato-Spini, inoltre, prevede anche un nuovo regime tributario per le confessioni religiose. A tutte andrà il diritto di percepire l’8 per mille delle dichiarazioni Irpef. D’altra parte, che la politica, in tema di fede, abbia le idee più singolari è presto dimostrato. Dagli archivi del Parlamento prendiamo la pdl 183 di Renzo Lusetti, ad esempio. I suoi alleati puntano ai privilegi della Santa Sede? Lui, che è della Margherita, chiede invece tempi rapidi per l’intitolazione di strade a Giovanni Paolo II. Di norma non si dedicano vie a persone decedute da meno di dieci anni. E’ possibile, però, stabilire delle deroghe. Ebbene il cattolico Lusetti ne chiede una anche per “i Sommi pontefici”. Alla faccia del laicismo toponomastico dei suoi alleati. Osvaldo Napoli è il firmatario di una proposta di legge che rende necessario il “certificato antiterrorismo” per tutti gli imam. Il deputato di Forza Italia sostiene che chi vuole aprire una moschea in Italia o chi ne è responsabile non deve appartenere a organizzazioni in odore di eversione. Di qui, l’idea di una certificazione ad hoc rilasciata dal Viminale. Quello del parlamentare della Lega Nord Andrea Gibelli, invece, è una sorta di federalismo delle moschee. L’esponente del Carroccio, con una iniziativa di legge, affida alle regioni la delicata materia del rilascio della concessione edilizia per la realizzazione di nuovi luoghi di culto islamico. Non solo. Gibelli, nella sua proposta, prevede anche l’indizione di un referendum che chiami al voto la popolazione della città scelta come sede della nuova moschea. La regola è: niente consenso popolare, niente tempio islamico. Il deputato leghista ha le idee chiare anche sul luogo dove far sorgere le "chiese" musulmane. Lontano da quelle cattoliche. Almeno a un chilometro di distanza. (L’Indipendente, 21 novembre 2006)

 


 

La Curia di Genova e le polemiche sulla Messa di S. Pio V

Poiché recentemente nell'Arcidiocesi sono circolati commenti anche fuorvianti, a proposito di una eventuale promulgazione di Motu proprio per facilitare l'applicazione dell'Indulto sull'uso del Messale, così detto di San Pio V, si ritiene pastoralmente utile chiarificare quanto segue:

1)     il Papa, in forza della sua suprema autorità, ha la facoltà di porre in essere atti giuridici e pastorali universalmente validi e vincolanti;

2)     la celebrazione legittima e fruttuosa dell'Eucaristia richiede la piena comunione ecclesiale, di cui - in ultima istanza - è garante il Sommo Pontefice che personalmente ha ricevuto dal Signore Gesù Cristo la missione di confermare i fratelli nella fede (cfr. Lc. 22, 32; Mt 16, 17-19; Gv 21,15-18); quindi, è proprio il Vescovo di Roma a presiedere, con grande misericordia e gioia, la carità universale, non smettendo mai di cercare l'unità di tutti coloro che credono in Cristo;

3)     il Concilio Vaticano II non ha abolito o chiesto di abolire la Messa di San Pio V; piuttosto ne ha chiesto la riforma dell'ordinamento come risulta in modo chiaro dalla lettura della Costituzione sulla Sacra Liturgia, capitolo III, numeri 50-58 (cfr. EV 1/86-106);

4)     l'ampliamento dell'indulto riguardante la liturgia cosiddetta di San Pio V, non equivale in alcun modo a sconfessare il Concilio Ecumenico Vaticano II, né il Magistero dei Papi Giovanni XXIII e Paolo VI;

5)     lo stesso Papa Paolo VI - che nel 1970 promulgò il Messale Romano, secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II -, concesse personalmente a Padre Pio da Pietrelcina l'Indulto per continuare a celebrare, anche pubblicamente, la Santa Messa secondo il rito di San Pio V, sebbene, dalla Quaresima del 1965 fosse in attuazione la riforma liturgica;

6)     già il Papa Giovanni Paolo II aveva offerto, il 3 ottobre 1984, con la Lettera "Quattuor abhinc annos" - della Congregazione per il Culto Divino (cfr. EV 9/1034-1035) -, la possibilità ai Vescovi Diocesani di usufruire di un Indulto, onde poter celebrare la Santa Messa usando il Messale Romano secondo l'edizione del 1962, promulgato da Papa Giovanni XXIII. Inoltre lo stesso Pontefice, col Motu Proprio: Ecclesia Dei adflicta, (2 luglio 1988 cfr. EV 11/1197-1205), stabiliva, tra le altre cose, in forza della sua autorità apostolica: "... dovrà essere ovunque rispettato l'animo di tutti coloro che si sentono legati alla tradizione liturgica latina, mediante un'ampia e generosa applicazione delle direttive, già da tempo emanate dalla Sede Apostolica, per l'uso del Messale Romano secondo l'edizione tipica del 1962";

7)     nella Chiesa sono in vigore - ad incominciare dal IV secolo -, differenti liturgie o riti che, pur rispondendo a tradizioni e sensibilità diverse, esprimono la stessa fede cattolica; tale varietà è segno tangibile della vitalità della Chiesa cattolica;

8)     il Concilio di Trento non volle unificare con atto d'imperio i riti allora esistenti nella Chiesa latina; infatti, in base al principio stabilito dallo stesso San Pio V - che su richiesta del Concilio attuava la riforma -, le chiese e gli ordini religiosi che da almeno due secoli avevano il loro proprio rito di veneranda tradizione, poterono conservarlo. Col passare degli anni, di fatto, il Rito romano si affermò ma mai in modo esclusivo; emblematico il caso del Rito ambrosiano diffuso in alcune valli del Ticino (denominate "Valli Ambrosiane"), in tutta l'Arcidiocesi di Milano ma, anche qui, con eccezioni: Monza, Trezzo, Treviglio;

9)     due espressioni valide della stessa fede cattolica  - quella di San Pio V e quella di Paolo VI - non possono essere presentate come "esprimenti visioni opposte" e, quindi, tra loro inconciliabili;

10) in ambito liturgico, le decisioni e l'operato dei Papi - segnatamente Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI - e dei Concili - Tridentino e Vaticano II - non possono essere presentati in modo conflittuale e, tanto meno, alternativo fra loro. (Diocesi di Genova, Documenti, 1605, 27 novembre 2006)

*  *  *

Riportiamo, per meglio comprendere la precisazione suddetta, il testo del documento cui la stessa si riferisce:

Lettera aperta al Papa contro il ripristino della messa tridentina e in difesa del Concilio Vaticano II

"Dietro al ripristino del messale di Pio V si cela, e nemmeno tanto, il progetto di un ritorno alla ‘Chiesa-cristianità' di stampo medioevale": scrive così don Paolo Farinella, prete di Genova, in una "Lettera aperta al papa Benedetto XVI contro il ripristino della messa in latino del 1570 e in difesa del Concilio Ecumenico Vaticano II" che intende inviare al papa, entro il prossimo 2 dicembre, con almeno 10mila firme di sostegno.

"Sembra proprio – scrive – che il papa Benedetto XVI stia per promulgare un Motu proprio con il quale concederebbe l'indulto non di celebrare la Messa in latino (possibilità già esistente), ma di ripristinare il rito della Messsa detta ‘di Pio V'", operando così una sorta di "sconfessione" di Giovanni XXIII e Paolo VI. Del resto, la questione della riforma liturgica è di importanza fondamentale perché rimanda alla concezione stessa che la Chiesa ha di sé e del proprio ruolo nel mondo. "È ben noto – prosegue – che la Messa in latino secondo il rito riformato del Concilio di Trento è un pretesto, un vessillo ideologico per portare a termine un progetto più ampio di ‘restaurazione' antistorica, per chiudere in modo definitivo e inglorioso il Vaticano II, dichiarandolo un semplice incidente della storia". Per questo don Farinella chiede a Benedetto XVI non solo di "desistere dal concedere l'indulto in deroga al Concilio", ma anche "di adempiere al suo mandato di rafforzare il popolo di Dio nella fede, facendo un pubblico ed espresso atto di ossequio nel Concilio Ecumenico Vaticano II".

Pubblichiamo di seguito la forma brevis della lettera a Benedetto XVI. Il documento si può sottoscrivere sul sito internet del portale Arcoiris, al link appelli.arcoiris.tv/proconciliovaticano, dove si trova anche il testo integrale della lettera. L'obiettivo, dice don Paolo, è quello di raggiungere le 10mila adesioni entro la prima settimana di dicembre.

Al papa Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger, già teologo di professione

Sembra che lei voglia promulgare un "motu proprio" per ripristinare il rito della "Messa di Pio V" del 1570 in vigore fino al 1962, cioè fino al Concilio Vaticano II. Con questo indulto lei vuole venire incontro a qualche decina di fondamentalisti irriducibili che si sono separati dal gruppo che fa capo al vescovo scismatico e scomunicato Marcel Lefébvre, rientrati nella Chiesa cattolica, ma a condizione che non sia loro chiesta alcuna adesione formale al magistero e alle riforme conciliari. Di fatto, lei sconfessa sia il Concilio che i papi del Concilio: papa Giovanni XXIII che lo indisse e papa Paolo VI che lo concluse e lo attuò, i papi più grandi del sec. XX.

Fin dalle origini della Chiesa la legge della preghiera è stata l'espressione della fede e la Messa che è l'atto centrale della vita ecclesiale è sempre stata riformata, aggiornata e modificata perché la fede del popolo di Dio si potesse esprimere consapevolmente. Alcuni asseriscono che la riforma voluta dal Concilio con il passaggio dal latino alle lingue nazionali e dall'altare rivolto al muro all'altare rivolto al popolo non è lecita e costituisce un abuso, anzi una rottura della costante tradizione "cattolica" della Chiesa. Costoro non hanno sufficiente spirito di discernimento e di conoscenza della storia della Chiesa e della storia liturgica in particolare, perché se ne avessero saprebbero che il rito di Pio V è frutto del riordino/riforma di quello precedente e che a sua volta fu riformato almeno quattro volte prima della riforma globale del concilio Vaticano II, attuata da Paolo VI.

Il problema non è la messa in latino (oggi anacronistica), il vero problema sta nel fatto che la Messa di Pio V è una bandiera issata dai tradizionalisti per esigere la sconfessione totale del Concilio Ecumenico Vaticano II e specialmente del papa Paolo VI che essi ritengono scismatico e ispirato dal diavolo. Denigrare consapevolmente il Concilio e i suoi papi è la missione e il compito pastorale di questi "campioni della fede". Ripristinando per loro il vecchio rito abrogato da Paolo VI come dimostra il documento che alleghiamo, lei si fa complice e fautore di uno scisma ancora più grande perché i discepoli di Lefebvre non accetteranno mai l'autorità del Concilio contravvenendo al Codice di diritto canonico dove sancisce che il Concilio esercita il magistero "in modo solenne sulla Chiesa universale" (CJC, 337 §1).

Lei è il papa e noi ne riconosciamo l'autorità, ma nello stesso tempo le diciamo che lei non può fare quello che vuole e non può contraddire un Concilio né tanto meno abrogarlo come sta facendo con la concessione "in esclusiva" della Messa di Pio V. Concedendo l'indulto a tutta la Chiesa, lei si esonera dal chiedere, come è suo dovere e obbligo, la dichiarazione di fedeltà al magistero del concilio. Da questo momento tutti si sentiranno in obbligo di chiedere indulti speciali sotto l'arma del ricatto di uno scisma, come egregiamente sta facendo il vescovo-stregone Milingo. Lei stesso in suo scritto autobiografico ha attribuito le colpe della crisi della Chiesa alla riforma liturgica, mettendosi sullo stesso piano di un politico italiano, Umberto Bossi, rappresentante di un partito xenofobo, il quale attribuisce tutti i mali dell'èra moderna, dalla rivoluzione francese alla globalizzazione niente meno che al "Concilio che ha girato gli altari". Non è, ci creda, in buona compagnia.

Noi affermiamo la nostra fedeltà al Concilio Ecumenico Vaticano II, di cui ci gloriamo di essere figli e custodi, ne accettiamo le riforme che riteniamo incompiute e superate perché per noi il Concilio è stato chiuso in fretta senza che abbia potuto affrontare i nodi irrisolti di oggi: la sopravvivenza della terra; la povertà di tre quarti dell'umanità; l'acqua sorgente di vita per tutti i popoli, lo sviluppo compatibile; la guerra bandita; il ritorno al "principio" della Parola; la struttura della Chiesa popolo di Dio; il contenuto e lo stile dell'autorità come servizio; i criteri di scelta dei vescovi; la teologia come comunione di teologie, i laici e le laiche soggetti attivi della Chiesa; l'autonomia e la libertà delle comunità in materia organizzativa e cultuale; i titoli e le onorificenze incompatibili con la fede; quali ministeri per quale Chiesa; i ministeri coniugati e celibatari; la Chiesa è la donna; gli ordinariati militari; il rapporto con "i regni di questo mondo" (concordati?); la formazione permanente del personale di Chiesa.

Di fronte a queste sfide che aprono il terzo millennio e che attendono la Chiesa come testimone del Lògos incarnato nella storia (Gv 1,14), volere ritornare al passato ripristinando formule e riti di altri tempi e fuori tempo, è sintomo di paura, peccato di superbia e sfiducia nello Spirito Santo che oggi non parlerebbe più come ha parlato nel passato, nonostante Cristo sia "lo stesso ieri e oggi e nei secoli" (Eb 18,3).

Noi le chiediamo di non pubblicare l'indulto che giustificherebbe il disprezzo di chi già disprezza il Concilio, ma le chiediamo di pretendere da vescovi, cardinali e cristiani un atto di adesione formale all'intero magistero del Concilio, cominciando lei a dare il buon esempio. In caso di pubblicazione dell'indulto che ripristina la Messa di Pio V, noi staremo in ginocchio, ma con la schiena dritta non lo attueremo, ma lo combatteremo in nome della nostra coscienza e del rispetto dovuto al Concilio ecumenico e ai papi suoi predecessori. Noi esigeremo con lo stesso trattamento una messa più partecipata e più condivisa con il nostro popolo. Oggi più che mai vale il grido di Cristo agli apostoli spaventati, fatto proprio da papa Giovanni Paolo II nel giorno d'inizio del suo pontificato: "Non abbiate paura!" (Mc 6,50). Noi non abbiamo paura! Genova, 12 novembre 2006, Paolo Farinella, prete. (Adista Notizie, Archivio anno 2006, n. 85)

  


 

Così è il prete del Nordest: stressato ma mai solo

Non si sente affatto solo. E non è in crisi di identità. Piuttosto è stressato dal numero calante di "colleghi", a fronte di una quasi invariata quantità di mansioni. E' il ritratto del sacerdote del Nordest, emerso dalla ricerca condotta dall'Osservatorio Socio-Religioso Triveneto per conto della Conferenza episcopale triveneta, ora pubblicato nel volume "Preti del nordest. Condizioni di vita e problemi di pastorale" (Marcianum Press , Venezia 2006).

La ricerca sul clero della nostra regione ecclesiastica (tredici diocesi su quindici hanno aderito all'iniziativa) è stata curata dal direttore dell'Osret Alessandro Castegnaro, coadiuvato da altri studiosi della sociologia della religione quali Giovanni Antonio Battistella, Dario Olivieri, Bernardo Cattarinussi, Giovanni Dal Piaz, Italo De Sandre e Valentino Grolla. «Da tempo c'era il desiderio di tracciare un quadro sulla vita dei preti delle nostre parrocchie del Triveneto - spiega Castegnaro - ma ne era sempre mancata l'opportunità. L'indagine compiuta a livello nazionale da Franco Garelli e pubblicata nel 2003 ("Sfide per la Chiesa nel nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia") è divenuta l'occasione per riprendere in considerazione questo progetto e completare in qualche modo i dati nazionali con quelli della nostra realtà locale. A differenza della citata indagine nazionale, che si era occupata soprattutto della vita pastorale, noi abbiamo voluto però soffermarci anche sulle condizioni di vita in cui i nostri preti si trovano ad operare».

Un campione di 600 sacerdoti, garantiti nell’anonimato. L'indagine ha coinvolto un campione di 600 sacerdoti di età inferiore ai 75 anni, rappresentativi sia delle diverse aree geografiche, sia degli incarichi pastorali che un prete in attività può ricoprire, che dell'età. La scelta di escludere gli ultra settantacinquenni è stata motivata dalla necessità di scegliere parametri conformi a quelli dell'indagine nazionale, ma anche dalla consapevolezza che quella dei preti quiescenti è una situazione particolare che meriterebbe un'indagine a parte. In genere i preti interpellati (contattati per posta e dunque nel massimo anonimato) hanno accolto con grande disponibilità l'iniziativa, rispondendo senza problemi alle numerose domande che componevano il questionario. La finalità della ricerca è stata in definitiva la volontà di far emergere lo sguardo dei preti su se stessi, sulla parrocchia e sull'azione della Chiesa nella sua globalità.

Né solo, né insoddisfatto. Solo un po’ stressato. Alcuni risultati sono stati davvero sorprendenti. A differenza di quanto in genere si pensi o certe analisi riportino sui giornali, il prete del Nordest non si considera in genere né solo né insoddisfatto della propria identità o della vita che conduce. La solitudine che deriva dal celibato non è considerata come un vero problema dalla maggior parte degli intervistati (così per l'88 %), che si sente invece inserito in una rete di relazioni significative con un laicato sempre più maturo e con i confratelli sacerdoti. Più che di insoddisfazione si può piuttosto parlare di stress, causato dalla diminuzione del numero dei sacerdoti, a fronte di una quasi inalterata richiesta di servizi religiosi. A questo si deve aggiungere anche la percezione diffusa di non riuscire in molti casi ad incidere realmente sulla vita delle persone. Molti preti provano come un senso di impotenza rispetto ad un contesto che generalmente li apprezza per quanto fanno e rappresentano, ma poi rimane distaccato e indifferente. In questo il prete si sente effettivamente solo: solo nel ricercare le soluzioni ad un secolarismo crescente e alle decisioni che quotidianamente come pastore è chiamato a prendere. Potremmo parlare dunque di una "identità difficile" ma non di una crisi del sacerdozio, di una solitudine "professionale" più che affettiva.

La solitudine “professionale” si può contrastare con la coabitazione. In conclusione, la maggior parte degli intervistati ha indicato con chiarezza anche le vie da seguire per uscire da questa situazione di "solitudine pastorale" che spesso rende difficoltoso il ministero del prete. Il superamento dell'individualismo parrocchiale verso forme nuove, più o meno strutturate, di collaborazione fra parrocchie (magari promuovendo anche la vita comune tra preti) e un rapporto di maggiore vicinanza con il "centro" (curia e uffici di pastorale) appaiono a tutti come realtà non solo auspicabili, ma necessarie. Un'ultima curiosità: cosa si aspettano i preti dal loro vescovo? Tre cose: capacità di ascolto; indicazioni pastorali chiare; che sia innanzitutto un uomo di fede e di preghiera. (Alessio Graziani, Gente Veneta, n. 43 del 1.12.2006)

 

 

 


 

 

 26 NOVEMBRE 2006

 

Il Cristianesimo oggi: l'innamoramento

Un'immagine che è tutto un programma. A un mese di distanza, il Convegno di Verona rimanda una delle immagini più nitide e parlanti della Chiesa italiana di questo inizio di Millennio: una folla di 2.700 credenti, uomini e donne di età, sensibilità e responsabilità diverse, provenienti dalle 226 diocesi d'Italia: un popolo, il grande popolo di Dio, capace di far coro. Non per stare lì a cantarsela e a suonarsela, ma per riflettere, contemplare, scambiarsi progetti, esperienze, cammini. Emblematici anche i tre luoghi delle assemblee ecclesiali: l'arena, la fiera, lo stadio. Il Papa lo rimarcava per il "Bentegodi", che ha ospitato la grande celebrazione eucaristica: in questi tre "moderni areopaghi" - i luoghi della cultura, degli affari, dello sport - è risuonata la bella notizia: "Cristo è risorto; noi ne siamo testimoni".

Quasi a dire che il vangelo è un lievito che può fermentare tutti i territori del vissuto: quelli del bello, dell'utile, e - con buona pace dei nipotini dei "maestri del sospetto" - anche quelli del piacere. Niente di ciò che è veramente umano ci è estraneo.

A Verona è emerso il "popolo del grande sì": una Chiesa non compiacente né aggressiva, ma neanche avvilita o rassegnata, e mai e poi mai supponente o arrogante. Un popolo con uno sguardo fisso - sul Risorto - e con un solo pensiero: il bene dell'uomo, la sua promozione, e - perché no? - la sua gioia. Perché la contemplazione del Risorto ci abbaglia, ma non ci acceca, anzi ci accende lo sguardo per vedere Lui dentro gli stracci del barbone, nelle carni del malato, nella dedizione dell'educatore, nella gioia dell'innamorato, nella fatica del lavoratore, nell'estasi dell'artista. Un popolo di figli, che non possono mai sentirsi orfani, perché immensamente e perdutamente amati, non per loro merito, ma per puro dono, e con una responsabilità grandissima: andare a dire tutti che Dio non è un faraone o un boss implacabile; non è un padre-padrone arcigno e lamentoso. Il Dio di Gesù di Nazar et è l'Abbà, il Padre-Papà che desidera solo farci felici.

A Verona Benedetto XVI ci ha dato la carica: il cristianesimo non butta l'acqua sporca con tutto il bambino; non manda al macero i valori della modernità: li mette al sicuro. A cominciare dal principio architettonico della morale del padre dei Lumi, I. Kant: "Considera l'umanità, sia in te che negli altri, sempre come fine e mai come mezzo". Come non sottoscrivere, se Dio per primo ha fatto dell'uomo e della sua salvezza il fine della sua opera? Ma allora perché avere paura del messaggio cristiano? La fede non uccide l'intelligenza, la tiene in vita. Il vangelo non spegne la razionalità, l'affettività, la sessualità: le mantiene in quota. Il divino non boccia l'umano e non lo schiaccia: lo promuove e lo esalta.

I cattolici italiani non hanno alcuna intenzione di prendere in giro chicchessia, ma sono anche sufficientemente maturi e sereni per non farsi intimidire né imbambolare. Essi sanno pure che è ormai giunto al capolinea il cristianesimo dell'abitudine, e sta nascendo il cristianesimo dell'innamoramento: quello del "grande sì". Questo sì a Verona è stato detto, ma ora bisogna continuare a declinarlo al carissimo prezzo di tre no chiari e forti ad altrettanti virus letali per l'evangelizzazione: il clericalismo, l'intimismo, il burocratismo.

La Chiesa disegnata a Verona non pensa affatto di fare sconti su questo prezzo, perché sa di vivere nel e per il "bel paese là dove 'l sì suona".  (Francesco Lambiasi, Avvenire, 23 novembre 2006)

  


 

Cristiani immigrati:scuola di ecumenismo

L'ecumenismo e il dialogo interreligioso ripartono dalle prospettive tracciate dal quarto Convegno ecclesiale nazionale. Senza dimenticare fatti e contesti sociali e culturali strettamente legati all'attualità. Sono i due registri intorno ai quali ruota il Convegno dei delegati diocesani per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso, in corso fino a domani a Roma e che vede la presenza di 180 rappresentanti dalle diocesi di tutta Italia. «Dai giorni che abbiamo vissuto a Verona vogliamo cogliere una nuova energia, per impegnare tutte le realtà ecclesiali in un rinnovato incontro con i cristiani delle altre Chiese e confessioni cristiane presenti in Italia», ha sottolineato aprendo i lavori il vescovo di Terni-Narni-Amelia Vincenzo Paglia, presidente della Commissione episcopale per l'ecumenismo e il dialogo.

Mettendo a fuoco in particolare un tema: «In questo nostro Paese - ha spiegato - si sta delineando come una nuova geografia cristiana a motivo soprattutto dell'immigrazione, che vede presenti centinaia di migliaia di ortodossi, provenienti in prevalenza dai Paesi dell'Est europeo. È robusta, altresì, la presenza di cristiani appartenenti alla complessa galassia neo-Pentecostale e ovviamente una nuova attenzione si richiede anche per i membri delle altre religioni, in particolare di quella islamica». Una fotografia di questo aspetto emerge chiara dai dati del Dossier statistico «Immigrazione 2006» di Caritas italiana e Fondazione Migrantes, più volte citato ieri al convegno da Franco Pittau, uno dei curatori dello studio, che ha approfondito il tema delle «religioni non cristiane in Italia». Secondo lo studio gli stranieri presenti regolarmente in Italia erano alla fine dell'anno scorso 3.035.000. «Si tratta di una stima, molto attendibile, perché basata su una serie di dati ufficiali - ha commentato padre Bruno Mioli, della Fondazione Migrantes -. Ora, alla fine del 2006, tale cifra va notevolmente maggiorata, grazie ai figli nati da ambedue i genitori stranieri (da qualche anno si va oltre le 50mila unità) e per i ricongiungimenti familiari (che da qualche tempo sono annualmente sui centomila)».

Per quanto riguarda l'appartenenza religiosa Mioli ha spiegato che «circa la metà degli immigrati sono cristiani; quindi a fine 2005 i cristiani erano circa un milione e 500mila, dei quali 670mila cattolici (il 22 per cento) e, poco meno, 660mila ortodossi (il 21,7 per cento). I protestanti, invece, sono poco più di 100mila. Se poi prendiamo in considerazione le stime per il 2006, i cattolici risultano quasi 800mila e altrettanti gli ortodossi; anzi c'è motivo di supporre che essi oltrepassino questa cifra, dal momento che la maggioranza dei 530mila immigrati per i quali si attende la regolarizzazione del lavoro e del soggiorno provengono dall'Est europeo, in alta percentuale ortodosso». Dal convegno emerge dunque sempre più l'urgenza di porre attenzione anche a questo volto delle migrazioni. Un impegno indispensabile - ha sottolineato Paglia - «sia per evitare che la loro fede venga messa in pericolo dal crescente secolarismo, sia per trovare nei valori legati alla fede una sorgente per una società più solidale, più umana». (Vincenzo Orienti, Avvenire, 23 novembre 2006).

  


 

«Sinodo sulla Parola, grande occasione»

L'annuncio che il Papa ha scelto di dedicare al tema della Parola di Dio l’assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi in programma nel 2008, ha avuto un’eco altamente positiva tra gli animatori biblici. Essi vedono nel Sinodo un momento provvidenziale di maturazione e rilancio della Bibbia, e dunque dell’Apostolato biblico, settore in continua diffusione nella Chiesa italiana.

Ci attendiamo anzitutto un rafforzamento del nostro servizio nella verità della Parola di Dio nella vita e missione della Chiesa. Abbiamo la sensazione che talora questo accorrere nei gruppi di ascolto si regga su una motivazione teologica fragile e l’incontro rischi l’abitudinarietà dello stare insieme parlando di Bibbia invece che di ascoltarla per quella che è, ed esserne provocati. Abbiamo bisogno di conoscere ed assimilare la Dei Verbum a livello di popolo, e il Sinodo – nella sua ottica strettamente pastorale – certamente ne farà una rilettura intensa ed aggiornata. Ma attendiamo anche una forte spinta alla pratica della Bibbia come pane della Parola .

Quattro sfide avvertiamo prioritarie come Settore nazionale dell’Apostolato biblico. La prima riguarda la valorizzazione della Bibbia nelle grandi azioni di Chiesa, in particolare nell’Eucaristia domenicale e nella catechesi. Si evidenzia qua e là una differenza che si fa conflitto invece che integrazione tra l’incontro diretto con la Bibbia e l’incontro inclusivo, ossia tramite gli altri canali di comunicazione della fede. La seconda sfida riguarda la pratica della lectio divina da far diventare esperienza popolare, impegnandoci per gli adattamenti necessari, affinché la nostra gente abbia dalla Scrittura quella «consolazione della speranza» (Rom 15,4) di cui ha bisogno per tirare avanti. La terza sfida riguarda l’iniziazione alla Bibbia nel cammino di iniziazione cristiana dei piccoli. Già si fa, ma quanto cammino da fare! La quarta sfida, che dico come ultima, ma che attualmente è la prima nel nostro lavoro, è suscitare ed allargare sempre di più l’incontro tra giovani e Bibbia. Siamo sollecitati dalla premura di Benedetto XVI che propone ai giovani il libro sacro come «bussola», né più né meno.

Molte esperienze si stanno facendo, vorremmo conoscerle, farne oggetto di riflessione e rilanciare. A questo scopo è in preparazione un seminario nazionale di studio da parte dell’Ufficio catechistico nazionale per il febbraio 2007 e un successivo convegno di Apostolato biblico per aprile 2007. Intendiamo questo nostro impegno una concreta preparazione al Sinodo. (Cesare Bissoli, 23 novembre 2006)

  


 

Aborto, a rischio l’obiezione di coscienza

Un colpo basso al diritto dei medici di fare obiezione di coscienza alla legge 194 sull'aborto. La riforma in corso del codice deontologico, che si concluderà a metà dicembre, potrebbe infatti obbligare i medici obiettori a produrre comunque la certificazione necessaria per l'interruzione volontaria di gravidanza. Un passaggio formale e burocratico, ma comunque essenziale nel percorso che conduce all'aborto. Un adempimento dal quale finora erano esentati i camici bianchi non abortisti.

A lanciare l'allarme sul rischio di erosione di un principio riconosciuto dalla stessa legge sull'interruzione di gravidanza è l'Amci, l'Associazione nazionale dei medici cattolici, riunita a Loreto per il proprio consiglio nazionale. Le proposte di modifica del codice deontologico, avanzate dagli ordini provinciali, verranno vagliate e votate il 14 e 15 dicembre dal consiglio nazionale della Fnomceo, la federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri.

Vincenzo Saraceni, presidente nazionale Amci, conferma: «Sì, siamo molto preoccupati dalla nuova formulazione dell'articolo 43 del nuovo codice, che se venisse approvata, intaccherebbe in modo serio il diritto all'obiezione». La proposta al vaglio della Fnomceo recita testualmente: «L'obiezione di coscienza del medico può esprimersi nell'ambito e nei limiti della legge vigente e comunque non lo esime - ecco il passaggio incriminato - dagli atti certificativi e dall'assistenza della donna nelle fasi precedenti e successiva all'intervento». Esentati dall'intervento abortivo, certo, non dai passaggi amministrativi che lo rendono possibile.

«Finora invece - spiega il presidente dell'Amci - gli articoli 8 e 9 della 194 che regolano l'obiezione di coscienza sono stati interpretati nel senso che era possibile obiettare anche nella fase in cui il medico deve rilasciare il certificato che documenta lo stato di gravidanza e l'avvenuta richiesta della donna di volerla interrompere». Una certificazione essenziale p er l'intervento. «Per questo nei consultori, dove pure non si praticano gli aborti, non ci sono medici obiettori».

Perché questo tentativo di intaccare il diritto a obiettare a una legge per motivi di coscienza? «La sensazione è che si considera l'obiezione dei medici alla 194 come un comportamento fastidioso, e non l'esercizio di un diritto collegato ad un convincimento etico. Qualcosa che ostacola una legge e va osteggiato. Tutto ciò è inaccettabile». Per Saraceni l'obiezione di coscienza dei medici oggi è semmai un diritto da ampliare, oltre la 194: «In Parlamento si discute di testamento biologico: in caso di interruzione di cure dovrà essere prevista la possibilità per i medici di astenersi».

Ma la riforma del codice deontologico pone un altra questione: la legge sulla procreazione medicalmente assistita vieta pratiche che la "carta etica" dei medici invece non sanziona. Come la fecondazione eterologa, cioè con gameti non della coppia. «Il nuovo codice deontologico farebbe bene ad allinearsi alla legge 40 del 2004 - dichiara il presidente dell'Amci Saraceni - perché sarebbe paradossale che un medico condannato penalmente per avere praticato l'eterologa, non ricevesse dall'Ordine nessuna sanzione». Il codice deontologico, peraltro, aveva posto alcuni paletti essenziali alle pratiche della "provetta selvaggia" quando non c'era nessuna legge e medici senza scrupoli praticavano impunemente inseminazioni a donne in menopausa o prestiti di utero. Allora il codice anticipava la legge. Ora è in ritardo. (Luca Liverani, Avvenire, 22 novembre 2006)

 


 

Il papa scrive "Gesù di Nazaret"

«Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: Ma voi, chi dite che io sia?». Finiva così - nel 1975 - il suo bel "Quinto evangelio" lo scrittore Mario Pomilio, evocando la domanda che da quel giorno, a Cesarea di Filippo, tra lo scrosciare delle acque sorgive del Giordano, Gesù ha fatto serpeggiare tra credenti e agnostici nei secoli. Tante e disparate sono state le risposte, a partire dai suoi stessi discepoli di allora. Lentamente si è operata una divaricazione che ha collocato su una sponda un Cristo teofanico e diafano alla luce divina e sull'altra un Gesù carnale, dai lineamenti storici più o meno decifrabili. Il linguaggio tecnico degli esegeti ha coniato categorie e classificazioni spesso dissonanti, tese però nello sforzo di isolare quei tratti, con risultati talora contrastanti che rendevano quel volto ora simile solo a un'icona remota, ora relegato nella fisionomia di un cittadino della terra, sia pure straordinario e irripetibile. In questo orizzonte si è ora alzato a parlare Joseph Ratzinger-Benedetto XVI col suo "Gesù di Nazaret" offrendo una risposta a quella domanda di Gesù mai spenta.

Sorprendente è la premessa, scandita da un'umiltà serena che in pratica riconosce, da un lato, il limite naturale e temporale ("non so quanto tempo e quanta forza mi saranno concessi" per completare anche la seconda parte dell'opera) e, d'altro lato, la qualità di "ricerca personale", che non coinvolge l'autorità magisteriale, per cui sarebbe legittima la critica e persino la "contraddizione".

Ma è il percorso proposto che colpisce e che rende - non solo per lo studioso - viva l'attesa di leggere il testo promesso tra poche settimane. Il teologo ora Papa vuole, infatti, operare una nuova congiunzione tra le due figure di Gesù a cui sopra si accennava, e non meramente in sede storico-critica, come hanno tentato di fare, con varie reticenze e precisazioni le cosiddette New Quest o Third Quest - per usare il linguaggio degli esegeti -, ossia la ricerca scientifica sul Gesù storico secondo differenti e nuove prospettive. La proposta è ben più radicale: è il "tentativo di presentare il Gesù dei vangeli come il vero Gesù, il Gesù storico" in senso autentico.

È una strada che, con qualche esitazione, è già stata imboccata da alcuni studiosi (penso al Gesù di Klaus Berger, appena tradotto dalla Queriniana). In essa l'autenticità della figura di Cristo non si ottiene ritagliando i dati storiografici verificabili e rispedendo alle competenze del teologo le componenti cristologiche, bensì tenendo il tutto ben compatto, nell'unità di una persona che è "storicamente sensata e convincente", pur contenendo in sé una dimensione trascendente. L'intreccio tra l'umano e il divino, che costituisce il cuore della teologia cristiana, palpita anche nel vissuto storico di Gesù: è per questo - osserva Ratzinger-Benedetto XVI - che la solenne cristologia dell'inno paolino di Filippesi 2, 6-8 vibra già nella persona di Gesù di Nazaret, così come era verificabile dai suoi contemporanei e come la scopriamo noi nell'incontro coi Vangeli.

Un progetto nitido, quindi, ma delicato nell'analisi, come ne è consapevole lo stesso autore già nella prefazione, dotato di un'originalità paradossalmente antica che esige di essere nuovamente declinata e che un po' tutti attendiamo con desiderio e interesse di percorrere insieme, memori di un'analoga avventura vissuta in passato da molti col teologo Ratzinger, quella dell'indimenticabile lettura della sua "Introduzione al cristianesimo".

Un viaggio non solo sul versante storico in penombra del monte della Trasfigurazione e neppure solo su quello opposto, abbagliato dalla gloria della Risurrezione, bensì un cammino sul crinale ove entrambi i versanti necessariamente s'incontrano e coesistono. (Gianfranco Ravasi, Avvenire, 22 novembre 2006)

 


 

«Aiuterà a raccontare una Persona vera e non una fotografia»

Il sì più importante tra quelli che ormai da qualche tempo Benedetto XVI invita i cristiani a riscoprire. Il sì alla persona di Gesù Cristo, in tutto il suo spessore raccontato dai Vangeli. Che non sono qualcosa di meno vero, ma un di più rispetto a quanto su di Lui dice la storia. È dentro queste coordinate che il teologo Franco Giulio Brambilla invita a leggere la cristologia di Joseph Ratzinger, il cui primo volume sarà pubblicato in primavera. Un libro quanto mai prezioso per chi il Risorto è chiamato a testimoniarlo.

«Credo che sia il perfezionamento di tutto il suo cammino di ricerca teologica - osserva -, iniziato con il primo libro, Introduzione al cristianesimo, il suo grande commento al Credo, con il tentativo di dire la fede nel suo profilo sintetico. Personalmente ricordo di averlo letto a 19 anni: mi colpì subito per la sua capacità di chiarezza. Ecco, questo cammino ora si compie, con lo sguardo sulla centralità della figura di Gesù. E avrà il passo della grande sintesi».

Perché oggi una cristologia è il dono più prezioso che si può offrire alla Chiesa?

«Il Papa vuole mettere in luce ciò che ha detto a Verona, e ripete ormai da qualche tempo: nel mondo di oggi dobbiamo ritrovare la dimensione del sì della fede. È una strategia pastorale che mira a condurre al centro. A percepire il cristianesimo non come un'idea, ma come un incontro vivo. È quanto scriveva chiaramente all'inizio dell'enciclica. E Gesù è questo grande sì che Dio dice all'uomo. Ma se vuoi incontrarlo davvero, se vuoi affidargli la tua vita, non puoi fermarti solo alla sua fotografia. Devi ricostruire l'intera persona. Dunque la ricerca storica da sola non basta».

In che senso il Gesù storico offre solo una «fotografia»?

«Perché in realtà costruisce un'immagine artificiale di Gesù, quella che riusciamo a ricostruire mediante la documentazione storica. Ma lo sguardo della fede penetra più in profondità. La storia è come se ti facesse vedere solo la scorza. Per comprendere l'insieme occorre uno sguardo più profondo, che conduce a vedere il mistero di Dio presente in Gesù».

Che cosa dicono in più, su questo insieme, i Vangeli?

«Intanto nel Gesù dei Vangeli ci sono alcuni elementi fondamentali che sono ricostruibili anche storicamente: il battesimo (riferito ben sei volte), i miracoli, le parabole, il suo rapporto singolare con il Padre (che è uno degli aspetti ricordati con precisione dal Papa in queste anticipazioni) e così via fino alla morte e alla resurrezione. Ma sono come i tratti impressionistici su un quadro, che poi sono colorati dalla tradizione di fede che anima il racconto. Perché i Vangeli non erano biografie in senso stretto. Dobbiamo comunque tenere presente che non solo chi ha scritto i Vangeli ha conosciuto Gesù, ma aveva anche l'idea di una trasmissione fortemente fedele. Nel famoso testo che sta in capo all'annuncio della Pasqua di 1 Corinzi 15, o in quello sull'Eucaristia di 1 Corinzi 11 si dice "vi ho trasmesso quello che a mia volta ho ricevuto". Dunque anche i Vangeli contengono elementi biografici certi».

Più di quelli del Gesù degli storici?

«Il Gesù storico si basa sui documenti e su tre principali criteri: la molteplice attestazione delle fonti; il criterio di coerenza con l'ambiente geografico e storico; il criterio di dissomiglianza, cioè la presenza di qualche elemento che non si può ricavare solo dalle attese e dalla cultura del tempo e dunque presuppone sia accaduto qualcosa. Però sono già emersi casi in cui la ricerca archeologica è arrivata a provare aspetti che fino a quel momento, seguendo questi criteri, non erano considerati storici e invece apparivano in un Vangelo. Ad esempio il caso della "Piscina probatica" di Gerusalemme citata da Giovanni. Si diceva che non era provata, perché ricorreva in un solo Vangelo. Poi l'archeologia ha trovato i riscontri. Questo ci fa capire che, anche se il Vangelo di Giovanni è un testo dall'alto profilo teologico, contiene ugualmente riferimenti storici di altissima precisione. Non ha senso contrapporre. È come distinguere i gesti di una persona da ciò che vogliono esprimere».

Ratzinger scrive che chi segue un approccio troppo storico più che Gesù racconta se stesso.

«Lo scriveva già Albert Schweitzer riguardo alle Vite di Gesù dell'800. Perché ricordiamoci che la separazione del Gesù storico dal Gesù della fede nasce già con Lessing. E che il XIX secolo è pieno di queste Vite di Gesù: ne hanno scritta una Kant, una Hegel, lo stesso Marx. Era un po' l'esercizio giovanile del filosofo. Ma cercando un Gesù storico separato da quello della fede, si compie un salto logico. Perché il vero non può essere solo quanto oggi siamo in grado di ricostruire storicamente. Se c'è arrivato solo un pezzo di una scultura e non abbiamo altri documenti per ricostruire come era il resto, non per questo ci azzardiamo a dire che all'inizio non esisteva una scultura intera. Qui è la stessa contraddizione logica».

Nella prefazione è descritta come «drammatica» la situazione in cui la fede è ferma al Gesù storico. Perché un'espressione così forte?

«Perché scomporre fino all'ultimo elemento, alla fine paralizza la certezza della fede. Si introducono così tante distinzioni da perdere l'unità. Questo è il dramma. E invece è solo il rapporto vivo con la figura di Gesù, in tutta la sua completezza, a consentirci la decisione della fede. E di conseguenza un annuncio veramente fondato. Altrimenti alla Chiesa rimane in mano solo un simulacro, una maschera di Cristo. Chiederemmo di accettare o rifiutare solo un vestito vuoto. Certo, anche questo vestito ha la sua importanza, e il Papa lo dice. Ci offre la direzione sopra la quale la fede si affida. Ma un conto è la direzione, un altro è la realtà».

Il Papa precisa che il suo libro non sarà un atto magisteriale. «Ognuno è libero di contraddirmi», scrive.

«Molti leggeranno questa affermazione in modo derubricante, diranno che mette un po' la sordina. Io invece la leggo in positivo. Si offre per le ragioni che porta, per la bellezza e la positività della figura che è capace di ricostruire. Attenzione: non è semplicemente "il suo Gesù". Il suo sarà un contributo accanto ad altri, perché ciò che noi vediamo non è mai l'intero, ma solo una faccia. Ma quella che lui ha davanti e descrive è la realtà di Gesù raccontata dai Vangeli». (Giorgio Bernardelli, Avvenire, 22 novembre 2006)

 


 

Clausura, oasi per l'umanità

Tutto passa, solo Dio resta. In questa espressione di santa Teresa d'Avila Benedetto XVI, durante la consueta preghiera dell'Angelus domenicale, ha indicato la chiave per comprendere le motivazioni che spingono ancora oggi alla vita claustrale. Una riflessione, quella del Papa, nata dalla ricorrenza della Giornata «pro orantibus», che viene dedicata al ricordo delle comunità religiose di clausura e che si celebra oggi in concomitanza con la memoria liturgica della Presentazione di Maria Santissima al Tempio.

«Perché rinchiudersi per sempre tra le mura di un monastero e privare così gli altri del contributo delle proprie capacità ed esperienze - ha chiesto il Papa, affrontando in maniera aperta le maggiori perplessità che oggi vengono sollevate davanti a questo genere di scelta -? Che efficacia può avere la loro preghiera per la soluzione dei tanti problemi concreti che continuano ad affliggere l'umanità?». La risposta, precisa il Papa, va ricercata in una «conversione», che porta in primo piano il cuore più profondo di ogni cosa esistente: «Anche oggi, suscitando spesso la sorpresa di amici e conoscenti, non poche persone abbandonano carriere professionali spesso promettenti per abbracciare l'austera regola d'un monastero di clausura - ha notato Benedetto XVI -. Che cosa le spinge a un passo tanto impegnativo se non l'aver compreso, come insegna il Vangelo, che il Regno dei cieli è "un tesoro" per il quale vale veramente la pena abbandonare tutto?». Una consapevolezza, questa, in grado di trasformare anche la vita delle persone che non la condividono: «Dinanzi alla diffusa esigenza che molti avvertono di uscire dalla routine quotidiana dei grandi agglomerati urbani in cerca di spazi propizi al silenzio e alla meditazione, i monasteri di vita contemplativa si offrono come "oasi" nelle quali l'uomo, pellegrino sulla terra, può meglio attingere alle sorgenti dello Spirito e dissetarsi lungo il cammino - ha affermato il Papa -. Questi luoghi apparentemente inutili , sono invece indispensabili, come i "polmoni" verdi di una città: fanno bene a tutti, anche a quanti non li frequentano e magari ne ignorano l'esistenza». A tracciare un profilo attuale della vita contemplativa è padre Gianfranco Gardin, recentemente nominato dal Pontefice arcivescovo e segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica: «Guardando alle concretizzazioni storiche della vita consacrata - afferma Gardin - si rilevano alcune specificità costanti che ne determinano l'identità, come il celibato, dimensione che è appartenuta anche a Gesù. Ritornano poi la povertà e l'obbedienza, ma anche la dimensione fraterna, primo segno di realizzazione del comandamento dell'amore reciproco». Le sfide ad intra e ad extra della vita consacrata sono molteplici: «Il contemplativo non è uno che ha capito una volta per sempre chi è Dio - evidenzia ancora Gardin -, ma è uno che si fa un cercatore di Dio. Di fronte al rischio di semplificare la fede, se non addirittura di banalizzarla, il contemplativo la custodisce come qualcosa di bello, di serio e difficile. Ma alla base della vita claustrale c'è un percorso di discernimento e una vocazione innestata in una maturità umana ricca di equilibrio e di armonia interiore». A proposito del rapporto tra monasteri e comunità diocesane, non sempre facile, Gardin ricorda che «spesso alcuni motivi di incomprensione sono superati semplicemente dalla conoscenza reciproca soprattutto tra consacrati e sacerdoti». In merito alla questione degli abbandoni, poi, «si deve riconoscere - precisa Gardin - che spesso sono la conclusione di percorsi sofferti e difficili, che meritano rispetto e astensione dal giudizio. Noi non possiamo dire quante vocazioni ad una vita di speciale consacrazione voglia il Signore; ma possiamo dire con sufficiente certezza quali vocazioni voglia il Signore. Anche in questo ambito, quindi - conclude il segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica - è certo che la qualità va assolutamente anteposta alla quantità». (Giacomo Ruggeri, Avvenire, 21 novembre 2006)

 


 

Dietro la grata, dentro il presente

Nella Giornata «pro orantibus», che si celebra oggi, la Chiesa invita le comunità cristiane a valorizzare la presenza dei monasteri nel proprio territorio e chiede alle contemplative di ripensare con coraggio la loro vita alla luce del Vangelo e dell'attualità. Per l'occasione il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato Vaticano, ha voluto inviare un messaggio ai consacrati, contemplative e contemplativi, di tutto il mondo, affidando loro il suo incarico, ricevuto da pochi mesi, e indicando loro l'attualità della figura di politico, laico e credente di Giorgio La Pira.

«Egli non poteva concepire una seria attività pubblica - scrive Bertone - che non fosse sorretta dalla preghiera. La preghiera deve sempre seguire la curva dei grandi eventi della Chiesa e delle nazioni, affinché ci conducano verso una pace sicura». La Pira, prosegue il segretario di Stato, «nel ricercare le componenti del moto storico, ne considerava una in modo speciale: la preghiera dei monasteri. Il momento storico che stiamo attraversando - aggiunge Bertone - è pieno di ombre e anche oggi la navicella della Chiesa naviga tra i marosi. Su questo cammino carico di tanti rischi, ma anche di tanta speranza, deve elevarsi - dice il porporato ai consacrati - la vostra umile e ardente preghiera».

La Giornata odierna provoca la riflessione anche di chi vive oggi la scelta claustrale: «La vita contemplativa riesce a provocare e a sostenere l'ardente attesa - si domanda madre Antonella Sana del monastero domenicano Matris Domini di Bergamo - e la ricerca di essenzialità della persona del nostro tempo? Dobbiamo avere il coraggio di chiederci come possiamo vivere la contemplazione nel quotidiano, nel nostro ambito lavorativo, sociale ed ecclesiale. La vita contemplativa delle monache è una testimonianza silenziosa ed efficace dell'unità verso cui tende ogni essere umano, unità di cuore, di spirito, di corpo e d'anima».

Ma dalla fatica di fare delle scelte di spessore non è esente né l'operaio e né la giovane universitaria: «Ho lottato a lungo con il Signore prima di dire di sì alla clausura - racconta suor Maria Manuela del monastero delle clarisse di Santa Lucia di Città della Pieve, Perugia -. Le fragilità che ci portiamo dentro e che cerchiamo di superare non sono che l'altro lato dei nostri punti di forza». Ma la grata non «preserva» da rischi: suor Maria Manuela lo ricorda indicando tre «pericoli»: «Il primo è che il contrario dello stupore è l'abitudine, il dare per scontato, fino alla rivendicazione, al sospetto; come secondo rischio - prosegue la clarissa perugina - vi può essere la dispersione e il vuoto rispetto alla gioia dell'unità; il terzo rischio è la presunzione, la superficialità, lo scoraggiamento che rema contro la santità e la custodia della grazia».

Sono questi tre rischi che ogni consacrato deve conoscere nel momento di pronunciare il «per sempre»: «Quel "sempre" che tanto spaventa - dice suor Maria Rosaria delle Carmelitane di Parma - non è un laccio teso alla libertà, ma è quel centro di gravità che rende autentico l'amore e riempie di senso la vita».

La vita contemplativa, dunque, è tutt'altro che rifugio dal mondo: è invece una provocazione per chi vive totalmente in esso. «Spesso il "fare" assorbe e a volte soffoca - mette in guardia la madre clarissa Elena Francesca di Città della Pieve -; nelle giovani che arrivano vediamo che c'è tanta solitudine, si vivono spesso rapporti superficiali. Il mondo corre a discapito di una profondità. La vita contemplativa - conclude madre Elena - coglie quel desiderio di cercare l'essenziale lasciando cadere il superfluo per vivere delle poche cose che servono realmente, là dove il mondo non distingue più tra ciò che è essenziale e ciò che non lo è». (Giacomo Ruggeri, Avvenire, 21 novembre 2006)

 


 

La Santa Sede e la questione ebraica”: si riaccende il dibattito sulla beatificazione di Pio XII

La pubblicazione e presentazione del libro “La Santa Sede e la questione ebraica (1933-1945)” (edizioni Studium)  ha riacceso il dibattito sul processo di beatificazione del Pontefice Pio XII. Il volume scritto dal professor Alessandro Duce, docente straordinario di Storia delle Relazioni internazionali nelle Facoltà di Scienze Politiche e Giurisprudenza dell’Università di Parma, mira ad offrire una ricostruzione dettagliata, precisa e completa dell’opera diplomatica e umanitaria svolta dalla Santa Sede di fronte alle persecuzioni subite dalle popolazioni ebree negli anni più drammatici della storia del Novecento, a partire dall’ascesa al potere in Germania di Adolf Hitler, fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Il libro del professor Duce si distingue per la vastità delle fonti diplomatiche vaticane ed internazionali usate e consultate. Grazie alla consultazione dei fondi archivistici vaticani relativi all’attività della Santa Sede negli anni Trenta e delle poco conosciute fonti diplomatiche italiane, l’autore è stato in grado di ricostruire in maniera nuova momenti cruciali delle relazioni tedesco-vaticane, svelando inediti retroscena.

Si viene così a conoscenza delle innumerevoli iniziative relative alla questione ebraica intraprese dalla diplomazia vaticana e dai Pontefici nei vari paesi europei, tra cui gli sforzi vaticani per facilitare l’emigrazione degli ebrei europei nel continente americano e l’azione della Santa Sede per contrastare l’emanazione di legislazioni anti-ebraiche in Europa centro-orientale.

La presentazione del volume “La Santa Sede e la questione ebraica (1933-1945)”, avvenuta a Roma il 25 ottobre, ha destato attenzione anche per polemiche relative alla causa di beatificazione di Pio XII. Numerosi organi di stampa hanno infatti riportato la notizia secondo cui cui il Cardinale José Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, avrebbe dichiarato che “la causa di Pio XII sarebbe ‘in stallo’”.

Interpellato da Zenit il relatore della causa di beatificazione di Pio XII, padre Peter Gumpel, ha raccontato di essere stato chiamato dal Cardinale Saraiva Martins, il quale lo ha autorizzato a dichiarare che lui “non ha mai rilasciato una dichiarazione in cui si sosteneva che la causa di Pio XII è in stallo”.

Padre Gumpel ha criticato anche l’articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 26 ottobre, in cui “si riporta in maniera parziale il libro di Duce, presentandolo come critico nei confronti di Papa Pio XII, invece è evidente che ci sono centinaia di pagine con tante prove documentali che provano come e quanto i pontefici Pio XI e soprattutto Pio XII hanno fatto in favore degli ebrei”.

Per avere una idea più vasta ed articolata della questione, Zenit ha intervistato il professor Alessandro Duce.

Le sono serviti cinque anni di ricerca negli Archivi per scrivere questo libro. Quali sono le ragioni che l’hanno spinta ad approfondire i rapporti tra la Santa Sede e la questione ebraica?

Duce: Da un esame della vasta letteratura esistente e degli Archivi disponibili ho tratto un convincimento: non c’era un lavoro sistematico e complessivo che esaminasse l’operato della Santa Sede e delle sue strutture diplomatiche nell’intero arco di tempo (1933-1945) e su tutta l’area nella quale si è manifestata la violenza nazista e antiebraica. Ho cercato di colmare questo vuoto; non spetta a me dire se ci sono riuscito.

Quali sono le conclusioni della sua ricerca? In che modo i Pontefici Pio XI e Pio XII intrattennero rapporti con gli ebrei? E come si comportarono di fronte alle leggi razziali e alle persecuzioni del popolo ebraico?

Duce: Durante gli anni della persecuzione i rapporti fra i vertici delle Comunità ebraiche con il Vaticano diventano più frequenti ed intensi. I due Pontefici del periodo non possono essere accusati di indifferenza, di istigazione, di complicità con i persecutori.

In un articolo pubblicato il 26 ottobre dal Corriere della Sera si afferma che il suo libro sostiene la tesi di un Papa Pio XII “esitante, isolato” addirittura immobile, “non in grado di tutelare né i credenti né i religiosi dalla persecuzione e dal martirio”. E’ questo il risultato delle sue ricerche?

Duce: L’osservazione del giornalista del Corriere della Sera è precisa e pertinente nella sostanza; necessita però di interpretazione cioè di una lettura più specifica, collocata nel contesto degli avvenimenti. L’impossibilità di Pio XII di tutelare dalla violenza nazionalsocialista gli stessi credenti ed il clero deve far riflettere: si può pretendere da chi non ha la forza di tutelare il “proprio gregge” di salvare quello dei “vicini”? Il contesto del periodo è quello di una doppia persecuzione: anticattolica (in genere antireligiosa) ed antiebraica. Penso sia inutile precisare che la seconda è molto più violenta e crudele della prima.

In occasione della presentazione del suo libro a Roma, si sono levate voci per fermare il processo di beatificazione del Pontefice Pio XII. Qual è la sua opinione in proposito

Duce: La mia ricerca non aveva lo scopo di influire sul processo di beatificazione di Pio XII. Devo confessare che io stesso non conosco i termini precisi di questo procedimento né a che punto esso sia oggi. Ho evidenziato centinaia di documenti (molti fino ad oggi ignorati); non escludo che alcuni di essi possano risultare utili al lavoro della Commissione preposta alla beatificazione. Per me è già molto impegnativo il lavoro di “storico”; non ho alcuna intenzione di farmi carico anche di quello della Commissione.

Alla fine del suo libro c’è un capitolo intitolato “la crociata della carità”, può spiegarci di cosa si tratta?

Duce: La “crociata della carità” è una espressione efficace e felice usata in diverse occasioni da autorevoli rappresentanti vaticani. Essa vuole evidenziare l’attività svolta dalla Santa Sede durante il conflitto a favore di tutti i sofferenti (ricerca dei dispersi, informazioni, aiuti ai detenuti, sostegno per le emigrazioni, assistenza economica alle famiglie, prigionieri, deportati ecc. ). Appare evidente uno sforzo enorme e duraturo sostenuto dalle strutture vaticane e dalle Nunziature che pure non erano state costituite con questi obiettivi. La Chiesa di Roma vuole fornire assistenza in tutte le direzioni senza preclusioni di religione, di nazionalità o di stirpe. In questa folla di sofferenti ci sono anche gli ebrei (convertiti o non convertiti). (Zenit, 8 novembre 2006)

  


 

Nonostante le difficoltà, il Papa promuove il dialogo cattolico-anglicano

Nonostante le attuali difficoltà tra anglicani e cattolici per questioni di carattere teologico ed etico, Benedetto XVI ha promosso con decisione il dialogo ricevendo in udienza questo giovedì il Primate della Comunione Anglicana. L’Arcivescovo Rowan Williams di Canterbury ha fatto visita al Papa e alla Santa Sede in occasione dei quarant’anni dello storico incontro tra l’allora Arcivescovo di Canterbury, Michael Ramsey, e Papa Paolo VI, che ha dato origine a una nuova era di rapporti dopo la rottura verificatasi al tempo di Enrico VIII nel XVI secolo.

“E’ stata una visita piena di grandi promesse, perché la Comunione Anglicana e la Chiesa cattolica hanno fatto dei passi verso l’inizio di un dialogo sulle questioni che devono essere affrontare nella ricerca della piena unità visibile”, ha ricordato.

Il Vescovo di Roma ha riconosciuto che negli ultimi tre anni lo stesso Arcivescovo Williams “ha parlato apertamente delle tensioni e delle difficoltà che assediano la Comunione Anglicana e quindi dell’incertezza del futuro della Comunione stessa”.

“Recenti sviluppi, soprattutto relativi al ministero ordinato e a certi insegnamenti morali, hanno interessato non solo i rapporti interni alla Comunione Anglicana, ma anche i rapporti tra la Comunione Anglicana e la Chiesa cattolica”.

La decisione della Chiesa d’Inghilterra di approvare l’ordinazione di donne sacerdote, nel 1992, è diventata uno dei problemi nella via verso la piena unità tra le due Chiese.

Nel 2003, Vescovi anglicani di Africa, Asia e America Latina hanno criticato duramente la decisione della Chiesa Episcopale degli Stati Uniti (appartenente alla Comunione Anglicana) di designare Vescovo un omosessuale nel New Hampshire.

La Chiesa Episcopale degli Stati Uniti ha anche nominato Presidente per la prima volta una donna, Katharine Jefferts Schori, fino a poco tempo fa “Vescovo” del Nevada.

Il Papa ha riconosciuto come temi di questo tipo, “attualmente in discussione all’interno della Comunione Anglicana, siano di fondamentale importanza per la predicazione del Vangelo nella sua integrità, e che le vostre attuali discussioni modelleranno il futuro dei nostri rapporti”.

“Si deve sperare che il lavoro del dialogo teologico, che aveva registrato un grado non indifferente di accordo su queste e su altre importanti questioni teologiche, continuerà a essere preso sul serio nel vostro discernimento”, ha aggiunto. Assicurando che “in queste deliberazioni vi accompagniamo con una sentita preghiera”, il Papa ha auspicato che la Comunione Anglicana rimanga radicata nei Vangeli e nella Tradizione Apostolica, “ che formano il nostro patrimonio comune e sono le basi della nostra comune aspirazione a lavorare per la piena unità visibile”.

L’Arcivescovo di Canterbury era accompagnato da sua moglie Jane e dal figlio Philip, così come da una delegazione anglicana del più alto livello. Si calcola che in tutti i continenti ci siano più di 70 milioni di anglicani. Dopo aver firmato una “Dichiarazione Comune” in presenza dei membri della delegazione anglicana e dei rappresentanti cattolici, questi ultimi guidati dal Cardinale Cormac Murphy-O'Connor, Arcivescovo di Westminster, il Santo Padre ha presieduto, nella Cappella "Redemptoris Mater", la Celebrazione dell'Ora Media alla quale ha partecipato Sua Grazia il Dr. Rowan Williams, con la delegazione al seguito. (Zenit, 23 novembre 2006).

  

 

 


 

Domenica 19 NOVEMBRE 2006

 

Il diritto dei telespettatori? Non è l'assillo dei comici

Èpossibile una satira capace di far ridere e pensare, senza ferire i sentimenti più profondi di larga parte del pubblico? La domanda ti viene spontanea quando senti umoristi, comici, imitatori, showman che fanno strame del Papa. Prendiamo ad esempio Maurizio Crozza. Il vero problema del suo "Crozza Italia" è la debolezza dei testi e la mancanza di ritmo, che vanificano l’indubbio talento dell’imitatore. Ma non è questa la sede per approfondire il tema. Talento: perché metterlo a repentaglio piazzando in scena un Benedetto XVI che è la parodia dopolavoristica del Dottor Stranamore, un Peter Sellers schizzato? Nel siparietto di Crozza, Benedetto XVI sarebbe un personaggio isterico spalleggiato da due cardinali-chierichetti, preoccupato di avere buone battute da recitare, fuori di giri, le dita gonfie di anelloni, dalle movenze da burattino. Che cosa c’entra con il Papa reale? Nulla. Se la satira può consistere nell’ingigantire un difetto o un tic per stigmatizzarlo, l’operazione è fallita. E quando un Fiorello annuncia che il Papa fuma tre pacchetti di sigarette al giorno, come un turco, per prepararsi al viaggio in Turchia, la risata può sgorgare soltanto come atto di fiducia in Fiorello che, si sa, è bravissimo ma anche lui ha i suoi passaggi a vuoto; e qui la battuta è debolissima.

Rimandiamo ad altro momento la discussione infinita se si possa fare satira sul Papa. Sul presidente della Repubblica, ad esempio, nessuno si permette qualcosa di simile. Se si possa scherzare poi sull’islam si è discusso recentemente proprio su La7 attorno al tavolo di Giuliano Ferrara – presente tra gli altri lo stesso Crozza – tra imbarazzi e reticenze. Per potere si può, è stato detto o fatto capire, ma a tuo rischio e pericolo. Già. Intanto il Papa viene allegramente svillaneggiato e i villani commettono l’errore più banale che un comunicatore possa compiere: dimenticano il proprio pubblico, non si sintonizzano su di lui. Perché? Perché, prendendosi troppo sul serio, si concentrano unicamente su se stessi, sul proprio presunto talento, sul proprio ruolo "sacrale", sul proprio diritto di esprimersi come gli pare. E il diritto di chi, umilmente, sta a casa davanti alla tv e viene ferito nei suoi sentimenti? Di quel diritto i comici democratici fanno democratica carne di porco, nel nome di una "democrazia aristocratica" ed elitaria che vede lassù, sui pulpiti televisivi e radiofonici, i circoli esclusivi dei mandarini della comunicazione, e quaggiù la gente normale che si sente presa a sberle. Ma forse si è assuefatta, perché è raro che reagisca e invece tace. Se poi reagisci osando sussurrare che la volgarità è ben triste pretesto per far ridere, ti becchi la fatwa di Daniele Luttazzi: «L’accusa di volgarità è il pretesto principe per tappare la bocca alla satira». Luttazzi, in un eccesso di modestia, cita Rabelais, Swift e Sterne. È chiaro con chi ha a che fare il pubblico? Se questo è il circo, chiediamo ai clown: giù le mani dal Papa, per cortesia. Se proprio dovete allungarle, fatelo con delicatezza e rispetto. E se vi riesce impossibile provare delicatezza e rispetto per il Papa, cercate di provarne per le centinaia di milioni di cattolici in tutto il mondo, che seguendovi vi danno da vivere. Prima della satira, c’è la persona con la sua sensibilità, il suo cuore e la sua anima. Altrimenti è fondamentalismo satirico, roba su cui c’è poco da scherzare. (Umberto Folena, Avvenire, 11 novembre 2006)

 


 

Una satira fallimentare non priva di vigliaccheria, quella di prendere in giro il Papa.

È stato detto che quello anticattolico è l’unico pregiudizio ancora tollerabile. L’affermazione, nonostante una certa paradossalità, coglie il senso di concrete derive che la quotidianità squallidamente presenta. Una di queste, particolarmente indicativa, è dato riscontrare in alcuni programmi televisivi di livello piuttosto scadente, infarciti di pesanti volgarità, con fallimentari pretese di ironia, che sembrano sorprendentemente mirare al basso anziché all’alto, nel tentativo continuo di ridicolizzare figure e persone care al mondo cattolico. Tra queste, con ripetuta insistenza, la persona stessa del Papa.

Si tratta nel caso di comportamenti che vanno ben al di là dei limiti di una legittima manifestazione del pensiero, anche fortemente critica, e che oggettivamente si presentano come espressioni altamente offensive.

A fronte di comportamenti del genere potrebbe invocarsi la forza della legge penale, che detti comportamenti oggettivamente ledono in più punti. Ma in questa sede interessa piuttosto richiamare l’attenzione su altri aspetti di una questione che tocca tutti, tanto da essere oggetto di trattazione da parte dello stesso legislatore penale.

Un primo dato riguarda le caratteristiche del comportamento censurato che, non senza una certa dose di vigliaccheria, prende di mira solo la religione cattolica e persone che ne sono rappresentative. Nel caso specifico le espressioni irridenti ed oltraggiose sono rivolte a chi per altezza morale non intende difendersi e per ragioni istituzionali non può difendersi. Un secondo aspetto attiene alla sostanza del comportamento che non si concretizza solo nell’offesa di una singola persona, pur fatto gravissimo in sé, ma in una lesione molto ampia di beni che una democrazia deve tutelare con la massima cura: anzitutto il sentimento dei cattolici, che pure rappresentano un parte consistente della società italiana; ma poi anche quello di una ben più larga cerchia di persone educate e di buon senso democratico, le quali tuttora ritengono che esprimere il proprio pensiero critico si possa, vilipendere no.

A fronte del persistere di tali comportamenti, sorprende la disattenzione di molti: nel mondo della cultura, dell’educazione, dei mass-media, della stessa politica. È una disattenzione che al contempo non può non preoccupare. Perché fenomeni del genere, insinuandosi corrosivamente nel tessuto connettivo della società, creano divisioni e dissensi nel corpo sociale, sensi di disgusto e di lesione del sentimento di appartenenza in una casa comune, abbassando così le difese di una sana democrazia ed allentando pericolosamente i collanti della società. È proprio di questo che ha bisogno l’Italia di oggi?  (Giuseppe Dalla Torre, Avvenire, 11 novembre 2006)

 


 

I giovani religiosi hanno bisogno di padri spirituali

Dopo cinque giorni di lavori, è toccato al presidente della Cism tirare le conclusioni della 46ª assemblea generale dei superiori maggiori d'Italia, tenutasi a Olbia. Conclusioni che il salesiano ha riassunto in sei punti principali, frutto in un certo senso della seguente premessa: Formazione è una parola sola. Ma ne racchiude molte altre. Cammino, ad esempio, e poi vita e persona. Sì, perché «la formazione dei giovani religiosi è un cammino che come tale non potrà non durare tutta l'esistenza, per coinvolgere tutta la persona - cuore, mente e forze - e renderla simile al Figlio che si dona al Padre per l'umanità».

Il ruolo del superiore maggiore. Anche nel campo della formazione, ha ricordato don Lorenzelli, «il superiore maggiore deve recuperare una sua precisa responsabilità di valutazione e accompagnamento. Nessun superiore può rinunciare alla sua missione di animazione, di aiuto fraterno, di proposta, di ascolto e di dialogo». E la sua deve essere «una presenza discreta, rassicurante, costante, capace di far sentire al giovane confratello la solidarietà di tutta la comunità provinciale».

Rapporti con l'équipe formativa. «È compito del superiore maggiore - ha aggiunto il presidente della Cism - provvedere alla preparazione dei formatori e al loro continuo aggiornamento, come pure delle équipe formatrici», anche attraverso periodiche riunioni in cui il cammino di formazione viene attentamente verificato.

L'importanza della comunità. Don Lorenzelli ha poi insistito su un altro dei punti maggiormente sottolineati nel corso dell'assemblea. «La comunità - ha detto - è luogo di formazione in quanto tale. La consistenza comunitaria e la qualità della comunità, come ambiente di formazione costituiscono, infatti, una esigenza istituzionale e metodologica determinante al servizio di una preparazione personalizzata». Il clima generale e lo stile di vita dei suoi membri possono incidere fortemente sul cammino vocazionale e formativo.

I criteri di discernimento. Fondamentale è anche saper imprimere a questo cammino «una responsabilità condivisa tra il superiore maggiore e il suo consiglio, il formatore e l'équipe formativa». Lo stesso candidato deve conoscere i criteri di discernimento e il fatto che su questi deve crescere e responsabilizzarsi. Citando la relazione di padre Giovanni Salonia, don Lorenzelli ha invitato a incrementare il dialogo tra i diversi agenti del processo formativo: superiori maggiori, direttori spirituali e docenti, soprattutto.

La direzione spirituale. «È un'esperienza che devono vivere tutti», ha ribadito il presidente della Cism. «Occorre recuperare la figura classica del direttore spirituale: testimone credibile, uomo di esperienza e di sapiente accompagnamento». Perciò intorno a questo ruolo è necessario evitare equivoci. «Si devono prevedere dei momenti di coinvolgimento per valorizzare appieno la sua conoscenza dei candidati».

La formazione permanente. In ogni caso, ha fatto notare ancora il religioso, «la formazione dura tutta la vita». «Non solo perché i consacrati diventino sempre più capaci di inserirsi in una realtà che cambia con un ritmo spesso frenetico, ma perché, ancor prima, è la stessa vita consacrata che esige, per sua natura, disponibilità costante al cambiamento e una progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo».

Le ultime parole della sua relazione don Lorenzelli le ha riservate a padre Fidenzio Volpi, che lascia dopo 13 anni la segreteria generale della Cism. «Verso di lui abbiamo tutti un grande debito di gratitudine», ha detto. «Non solo per il servizio svolto, ma perché anche in questi giorni ci ha ricordato che il sentire cum Ecclesia et in Ecclesia è la dimensione nella quale si gioca la credibilità del nostro organismo». (Mimmo Muolo, Avvenire, 11 novembre 2006)

 


 

«Con Paolo riscopriamo il vero volto dello Spirito»

Per la terza volta il Santo Padre Benedetto XVI ha dedicato la sua catechesi durante l’udienza generale del mercoledì al pensiero di San Paolo: “Siamo davanti ad un gigante non solo sul piano dell'apostolato concreto - ha detto il Papa -, ma anche su quello della dottrina teologica, straordinariamente profonda e stimolante… Vediamo oggi ciò che egli dice sullo Spirito Santo e sulla sua presenza in noi”.

Ricordando quanto San Luca dice negli Atti degli Apostoli, il Papa ha detto: “Lo Spirito pentecostale reca con sé una spinta vigorosa ad assumere l’impegno della missione per testimoniare il Vangelo sulle strade del mondo... San Paolo però nelle sue Lettere ci parla dello Spirito anche sotto un’altra angolatura. Egli non si ferma ad illustrare soltanto la dimensione dinamica e operativa della terza Persona della Santissima Trinità, ma ne analizza anche la presenza nella vita del cristiano, la cui identità ne resta contrassegnata. Detto in altre parole, Paolo riflette sullo Spirito esponendone l’influsso non solo sull'agire del cristiano, ma anche sull’essere di lui”. San Paolo afferma che lo Spirito di Dio “abita in noi” e che "Dio ha inviato lo Spirito del suo Figlio nei nostri cuori". “Si vede bene dunque che il cristiano, ancor prima di agire, possiede già un’interiorità ricca e feconda, a lui donata nei sacramenti del Battesimo e della Cresima, un’interiorità che lo stabilisce in un oggettivo e originale rapporto di filiazione nei confronti di Dio. Ecco la nostra grande dignità: quella di non essere soltanto immagine, ma figli di Dio. E questo è un invito a vivere questa nostra figliolanza, ad essere sempre più consapevoli che siamo figli adottivi nella grande famiglia di Dio”.

Paolo ci insegna anche che “non esiste vera preghiera senza la presenza dello Spirito in noi… Lo Spirito, infatti, sempre desto in noi, supplisce alle nostre carenze e offre al Padre la nostra adorazione, insieme con le nostre aspirazioni più profonde. Naturalmente ciò richiede un livello di grande comunione vitale con lo Spirito. E’ un invito ad essere sempre più sensibili, più attenti a questa presenza dello Spirito in noi, a trasformarla in preghiera, a sentire questa presenza e ad imparare così a pregare, a parlare col Padre da figli nello Spirito Santo.”

Un altro aspetto insegnatoci da san Paolo riguarda la connessione dello Spirito Santo con l’amore. “Non è senza significato che Paolo, quando enumera le varie componenti della fruttificazione dello Spirito, ponga al primo posto l'amore - ha ricordato il Santo Padre -. E, poiché per definizione l'amore unisce, ciò significa anzitutto che lo Spirito è creatore di comunione all'interno della comunità cristiana… D'altra parte, però, è anche vero che lo Spirito ci stimola a intrecciare rapporti di carità con tutti gli uomini. Sicché, quando noi amiamo diamo spazio allo Spirito, gli permettiamo di esprimersi in pienezza”.

Infine il Santo Padre ha messo in evidenza come, secondo San Paolo, lo Spirito “è una caparra generosa dataci da Dio stesso come anticipo e insieme come garanzia della nostra eredità futura” ed ha concluso esortando ad imparare da Paolo “che l’azione dello Spirito orienta la nostra vita verso i grandi valori dell’amore, della gioia, della comunione e della speranza. Spetta a noi farne ogni giorno l'esperienza assecondando gli interiori suggerimenti dello Spirito”. (S.L., Agenzia Fides 16/11/2006)

 


 

Il celibato sacerdotale, orizzonte di un amore più grande

Affermava il Card. Joseph Ratzinger nel «Rapporto sulla fede» del 1985 «Il prete è sempre stato tentato di abituarsi alla grandezza, di farne una routine. Oggi la grandezza del Sacro potrebbe avvertirla come un peso, desiderare (magari inconsciamente) di liberarsene, abbassando il Mistero alla sua statura, piuttosto che abbandonarvisi con umiltà ma con fiducia per farsi elevare a quell’altezza» (p. 58). Più volte nella storia si è cercato di mettere in discussione, magari prendendo a pretesto le debolezze umane, la vocazione al ministero sacerdotale che la Chiesa cattolica latina ritiene indissolubilmente legata al celibato. Ora, basterebbe consultare i bollettini ufficiali della Congregazione per il Clero per dimostrare, statistiche alla mano, che ingiustamente enfatizzate dai media, le defezioni costituiscono una percentuale irrisoria e quasi fisiologica.

Al contrario, dal momento che si invoca l’autorità del Concilio Ecumenico Vaticano II a sostegno di qualsiasi novità, sembra strana in molti l’assenza di una seria domanda sul perché, nella sua opera di aggiornamento, non sia stato minimamente intaccato il celibato ecclesiastico ma anzi il Concilio l’abbia notevolmente sostenuto e confermato nel decreto «Presbyterorum ordinis» al numero 17.

«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me; […] chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (Mt 10,34-37;39-40). Così, tra i vari detti sulla sequela, il Signore Gesù preannuncia, per chiunque lo avrebbe seguito, la persecuzione persino da parte dei familiari e propone ad un tempo se stesso, Figlio di Dio che è amore, come il centro dell’affettività e della libertà di ogni uomo.

Nel descrivere i sentimenti naturali che intercorrono tra gli esseri umani, il Signore ci ammonisce: alla radice o c’è Lui o tutto è destinato a seccare. Non anteponendoGli alcun rapporto con persone e cose, paradossalmente si arriva a possedere tutto. Egli è il sale che permette ad ogni rapporto affettivo di non corrompersi: questa è la verginità del cuore o il celibato per il regno dei cieli; è l’amore che non si corrompe né muore ma dura in eterno. In tal senso il celibato è caparra, anticipo della condizione del regno di Dio.

Non a tutti è dato di capirlo ma solo a quanti è stato concesso dall’Alto. Per questo Gesù ha proposto in se stesso il modello alto e perfetto dell’amore di Dio che è Agape. Come «all’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico» («Deus Caritas Est» 11) così a quella di Gesù Unico Signore e Salvatore, corrisponde il sacerdozio celibe: segno di un amore inesauribile che affonda le proprie radici nella verginità, nel cuore indiviso.

Tale tensione alla perfezione deve caratterizzare anche il matrimonio. Non si può amare davvero la sposa o lo sposo fermandosi alla sembianza che è solo il segno di un mistero, di una bellezza più grande ed eterna. Perciò la verginità o celibato è un possesso nuovo con un distacco dentro, una rinuncia temporale che ottiene già «il centuplo quaggiù e l’eternità».

Seguire Gesù significa vivere come Lui: è un’unica vocazione. L’ideale del celibato si rivela impossibile da realizzare, senza l’esperienza di Cristo come pienezza dell’umano. La consacrazione del sacerdozio verginale e l’indissolubilità del matrimonio attestano entrambe l’eternità dell’amore e la verità che «per Dio nulla è impossibile». Anzi, si è detto che in certo senso i sacerdoti col celibato e gli sposi con la fedeltà coniugale sono richiamo, gli uni per gli altri, alla testimonianza che la ragione e la libertà sono costantemente attratte dalla bellezza dell’ideale dell’amore casto e fecondo: per i primi all’origine della generazione spirituale di quella moltitudine di figli che è la Chiesa, per i secondi all’origine di una famiglia umana che è piccola Chiesa domestica.

Il celibato sacerdotale, come tutti i doni di Dio, è per tutta la Chiesa. Come per i coniugi è possibile vivere la fedeltà grazie al vincolo coniugale, così per i sacerdoti è possibile vivere il celibato grazie al vincolo dell’intima fraternità sacramentale come ricorda l’Enciclica di Paolo VI «Sacerdotalis coelibatus» al n. 8. Il Sinodo del 1971, il primo dopo l’istituzione sinodale stessa, confermò il celibato come grande bene nella e per la missione della Chiesa, sulla scia della sequela apostolica. Se è Cristo che battezza quando il sacerdote battezza, se è Cristo stesso che si fa presente quando il sacerdote pronuncia le parole sul pane e sul vino, allora il fondamento del celibato è Cristo stesso e la sua sequela apostolica, da cui scaturisce e prende forma la disponibilità al servizio pastorale. In definitiva, se rinunciasse al celibato sacerdotale, la Chiesa cattolica latina non guadagnerebbe nulla in ordine alla testimonianza a Cristo ed alla missione al mondo, né incrementerebbe il numero delle vocazioni, ma al contrario perderebbe molto della propria storia e tradizione, della profonda identità che la caratterizza. (don Nicola Bux e don Salvatore Vitello, Agenzia Fides 16/11/2006).

 


 

Il diritto canonico: «Sia vissuto come dono»

Le richieste di dispensa dall'obbligo del celibato presentate negli ultimi anni e la possibilità di riammissione all'esercizio del ministero sono stati i temi attorno ai quali ieri mattina si è soffermata la riflessione di Benedetto XVI assieme ai capi dicastero della Curia romana. Si tratta di questioni per le quali è stato indicato il valore delle scelte finora compiute nell'ambito della tradizione cattolica. Dal Vaticano II fino a oggi, infatti, non sono mancati documenti magisteriali (fin dall'enciclica «Sacerdotalis caelibatus» di Paolo VI) e indicazioni giuridiche chiare riguardo all'obbligo del celibato per i sacerdoti e sulle risposte da dare a chi chiede la dispensa, rinunciando così allo stato clericale. Tra i diritti e i doveri del «chierico» appare l'obbligo della «continenza perfetta» e quindi, come ricorda il canone 277 del Codice di diritto canonico del 1983, del celibato.

Quest'ultimo non è descritto come pura costrizione e condizione di accesso all'ordinazione: si tratta in realtà, ricorda il Codice, di «un dono particolare di Dio mediante il quale i ministri sacri possono aderire più facilmente a Cristo con cuore indiviso e sono messi in grado di dedicarsi più liberamente al servizio di Dio e degli uomini». La stessa logica, quindi, guida i casi in cui viene meno la fedeltà a questo obbligo; una materia che nel Codice viene trattata ai canoni 290-293. Una volta chiarito che l'ordinazione, nel momento in cui avviene in maniera valida, è indelebile, il codice parla di perdita dello stato clericale che può avvenire in casi particolari (tra questi il canone 1395 cita espressamente il concubinato). Tra le conseguenze di tale perdita non appare, però, automaticamente l'esenzione dall'obbligo del celibato: il canone 291 specifica che la dispensa, con la conseguente possibilità di contrarre matrimonio, può essere concessa solo dal Pontefice.
La procedura per istruire una «causa di dispensa dagli obblighi dell'ordinazione» viene descritta nella «Lettera circolare» firmata dal cardinale Franjo Seper, l'allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il 14 ottobre 1980. Da evitare, ricorda il documento, è che la dispensa «sia considerata come un diritto che la Chiesa debba riconoscere in modo indiscriminato per tutti i sacerdoti». Ecco perché la richiesta prevede alcune tappe particolari e la presentazione di una lunga documentazione così come descritto negli articoli in appendice alla stessa Lettera del 1980. La pratica solitamente viene trattata dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, cui spetta valutare ogni singolo caso. Questa stessa Congregazione può decidere se inoltrare al Pontefice la richiesta di riammissione allo stato clericale e all'esercizio del ministero. Decisione che - si legge in un'altra lettera circolare firmata da Seper il 26 giugno 1972 - avviene su petizione dell'interessato, laddove vi siano le giuste condizioni, «dopo un tempo di prova e tenuto presente il parere dell'ordinario». (Matteo Liut, Avvenire, 17 novembre 2006)

 


 

Quale Italia vogliamo? Sulle droghe leggere troppe bugie

Spinello libero del tutto? Il ministro Livia Turco dispone che da oggi in poi, nelle loro tasche, i ragazzi possono avere fino a quaranta spinelli circa. Per consumo personale? Non è pensabile. Per creare comunella coatta tra amici? O per spaccio? Occorre il coraggio di risposte oneste, se no la prossima tappa sarà un nuovo decreto per spinelli venduti ai supermercati, nelle discoteche, nei pub. Se la filosofia che sta dietro al provvedimento appena preso è quella di alzare la soglia di tolleranza per scongiurare il carcere a chi viene trovato con la "roba" in tasca, dobbiamo riconoscere che siamo già in una china pericolosa. Quali altri reati declasseremo per evitare le sbarre?

Intanto il ritornello si ripete: «Le droghe leggere non sono da confondere o equiparare con quelle pesanti»; «Ognuno ha il diritto di usare la droga o di rifiutarla». Grazie a queste pubbliche esternazioni, sappiamo ora che accanto agli spacciatori di sostanze illecite ci sono politici che preparano il terreno. La domanda pesa: forse che alla classe di governo piace il giovane sballato, euforico e disordinato? Ed è forse così che si predispone l'Italia di domani, meno "impazzita" di quanto a qualcuno appaia oggi? Quali no siamo disposti oggi a dire, per avere domani dei cittadini migliori?

C'è chi ha affermato, in interviste andate in onda al telegiornale, che l'uso di marijuana e hashish facilita un concetto positivo di sé. Ipotecare una simile idiozia, equivale a sostenere la tesi che tutte le persone per evolvere e prendere coscienza del proprio io, dovrebbero usare "canne" o altre sostanze stupefacenti, stimolanti, eccitanti. Ma così siamo realmente alla fiera del demenziale. Si vuole legittimare una sostanza stupefacente che, assunta magari per capriccio, nuoce gravemente alla salute. Si cerca, inoltre, di sostenere che gli "spinelli" abbiano assunto, nella cultura giovanile, lo stesso significato psico-sociali che veniva associato all'alcol e al tabacco nelle generazioni pr ecedenti.

Di fronte a simili affermazioni, sarà bene precisare - come già faceva ieri don Mazzi dalle colonne di questo giornale - che i consumatori di marijuana e hashish corrono rischi concreti. Queste sostanze stupefacenti - falsamente definite leggere - producono nel tempo effetti pesanti. Si può clinicamente sostenere che un bombardamento di hashish e marijuana sulla struttura neurologica è psicotizzante. Sono ormai documentati, nelle cartelle cliniche dei diversi centri psichiatrici, centinaia di casi psicotici provocati dall'uso o abuso di cannabis.

Lavoro da più di 25 anni tra i tossicomani e non ho alcuna voglia di fare del terrorismo massmediale. Ma la verità che è portato di un'esperienza va pur detta. Talora, tra i più compromessi nella psiche ci sono proprio i consumatori della cosiddetta "droga leggere" o "erba". Molti psichiatri ormai parlano di disturbi vari di personalità causati proprio dal consumo di marijuana e hashish. Gli effetti tossici e gli scompensi non sono leggeri. L'esame dell'urina può rilevare la presenza di cannabinoidi anche dopo due mesi dall'uso. L'alta solubilità dei cannabinoidi nei grassi, nei lipidi, spiega la lunghissima permanenza nel corpo di tali sostanze.
Il criterio per definire "droghe leggere" i derivati della cannabis è quello obsoleto della crisi d'astinenza fisica come per l'eroina, la morfina e gli oppioidi in generale. La cannabis non provoca crisi dolorose d'astinenza, ma dà un'indubbia dipendenza psicologica, legata al ricordo dell'esperienza piacevole. Se è vero che una "canna" sopisce le fonti interne ed esterne d'ansia, disinibisce e rilassa, è altrettanto certo che produce impulsività, distorsione del tempo e dello spazio, pensieri deliranti, angoscia. Leggiamo su un pacchetto di sigarette: «Il fumo danneggia gravemente te e chi ti sta intorno». Forse varrebbe la pena dire la stessa cosa per le cannabis, altro che raddoppiare la disponibilità giornaliera. (Chino Pezzoli, Avvenire 15 novembre 2006)

 


 

Giovani a rischio: sulla droga, un permissivismo decisamente diseducativo

La «scelta del ministro Livia Turco di liberalizzare l'uso dello spinello» rappresenta un trampolino di lancio, «uno scivolo naturale» verso il consumo delle droghe pesanti, «dalla cocaina all'eroina». Dal suo ufficio ad Amelia, in Umbria, il leader della Comunità Incontro, don Pierino Gelmini, esprime tutta la sua amarezza per la scelta «scellerata» del ministro Livia Turco: quella cioè di aumentare la quantità massima di principio attivo, così che sarà possibile detenere, senza incorrere nelle sanzioni penali, non più 20 ma ben 40 spinelli. «Il ministro - confida amaro il sacerdote - dovrebbe essere un po' più coerente. Di sicuro a suo figlio non farebbe fumare la marijuana, ma col suo decreto mette altri ragazzi in condizione di farlo. Col rischio che in futuro passino a sostanze più pesanti, anche se spero che ciò non accada».

Il pensiero di don Gelmini si rivolge soprattutto alle generazioni che verranno. «Una legge non cambia l'animo di una persona - riflette - , ma ha il potere di creare un costume sociale». La strada imboccata, agli occhi di don Gelmini, può rappresentare il «primo gradino di una cultura dove per i ragazzi tutto è lecito, dal consumo di alcol a quello della droga: tanto la legge lo permette».

Anche il presidente della Fict (Federazione Italiana Comunità terapeutiche), don Mimmo Battaglia, esprime la sua «personale perplessità» sulla scelta del ministro della Salute. Don Battaglia si sente di lanciare un appello al governo: «L'urgenza di un confronto franco e sostanziale su livelli educativi e di prevenzione». Il succo del ragionamento del presidente della Fict è che su una «questione così complessa» non si possono «dare risposte semplici come quella della Turco».

Un giudizio, quello del presidente della Fict, che trova corrispondenza nelle parole di don Giacomo Panizza, presidente e fondatore della Comunità «Progetto Sud» di Lamezia Terme. «Ho la sensazione che invece di pensare al disorientamento che regna tra i giovani - è l'amara riflessione di don Panizza - si pensi ad alimentare un conflitto tra i partiti politici. Questa decisione è un segnale certamente diseducativo: c'è uno Stato che non guarda in profondità ai valori morali dei giovani».

Sulla stessa lunghezza d'onda è la riflessione del presidente del Centro Gulliver di Varese, Federica Massobrio. «Anche in questo caso si tratta del segnale di una politica dissennata - spiega - non attenta al futuro dei giovani e che vede nello spinello "libero" una scelta di tipo ideologico. Ora, ad esempio, tutta la campagna di prevenzione messa in campo da noi nelle scuole di Varese è destinata a non avere più successo tra i giovani».

Duro e severo infine anche il commento pubblicato dal quotidiano della Santa Sede. L'Osservatore Romano definisce il decreto Turco «un grave errore, un rischio e un segnale negativo per migliaia di giovani». «Difficile da comprendere - si legge ancora nell'editoriale - l'entusiasmo di un ministro che, almeno istituzionalmente, dovrebbe avere a cuore la salute, appunto, dei cittadini». (Filippo Rizzi, Avvenire, 15 novembre 2006)

 


 

«Unità dei cristiani, carità non irenismo»

Il Papa, alla vigilia dell’incontro con Bartolomeo I, ha ricevuto la Plenaria del dicastero vaticano per l’ecumenismo e ha fatto il punto sul tema. La carità è un elemento «insostituibile» nel dialogo ecumenico. Essa infatti «illumina» la verità sulla quale lo stesso dialogo deve fondarsi, contribuendo a creare quel clima di rispetto e fiducia che solo può farlo crescere. È ciò che - richiamando quanto affermato nel suo primo giorno di pontificato e con uno sguardo particolare al suo ormai imminente incontro col Patriarca di Costantinopoli - Benedetto XVI è tornato ieri a ribadire ricevendo il cardinale Walter Kasper e i partecipanti all'Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, centrato su L'ecumenismo in una situazione di trasformazione.

Tema attualissimo, ha sottolineato il Pontefice, perché «non c'è da stupirsi» se «in un periodo di grandi cambiamenti in quasi tutti i settori della vita» tale realtà finisca per incidere «anche sulla vita della Chiesa e sulle relazioni fra i cristiani». Tuttavia, ha aggiunto, «pur in presenza di mutamenti di situazioni, di sensibilità, di problematiche, lo scopo del movimento ecumenico rimane immutato: l'unità visibile della Chiesa», secondo quanto indicato da «uno dei principali intenti» del Concilio Vaticano II. Da allora, certo, «molti passi sono stati fatti verso la piena comunione», e «la fraternità fra tutti i cristiani è stata riscoperta e ristabilita come condizione di dialogo, di cooperazione, di preghiera comune, di solidarietà». «Anche la mia imminente visita a Sua Santità Bartolomeo I e al Patriarcato Ecumenico - ha quindi affermato - sarà un ulteriore segno di considerazione per le Chiese ortodosse, ed agirà come stimolo, così confidiamo, per affrettare il passo verso il ristabilimento della piena comunione». Questo ovviamente non può far dimenticare che «molto cammino resta ancora da fare», ha proseguito il Papa. «Ciò che, comunque, va innanzitutto promosso - ha osservato Benedetto XVI a proposito del futuro del dialogo - è l'ecumenismo dell'amore, che discende direttamente dal comandamento nuovo lasciato d a Gesù ai suoi discepoli. L'amore accompagnato da gesti coerenti crea fiducia, fa aprire i cuori e gli occhi. Il dialogo della carità per sua natura promuove e illumina il dialogo della verità: è infatti nella piena verità che si avrà l'incontro definitivo a cui conduce lo Spirito di Cristo. Non sono certamente - ha puntualizzato ancora Papa Ratzinger - il relativismo o il facile e falso irenismo che risolvono la ricerca ecumenica. Essi anzi la travisano e la disorientano. Va poi intensificata la formazione ecumenica partendo dai fondamenti della fede cristiana, cioè dall'annuncio dell'amore di Dio che si è rivelato nel volto di Gesù Cristo e contemporaneamente in Cristo ha svelato l'uomo all'uomo e gli ha fatto comprendere la sua altissima vocazione». Nel suo discorso il Pontefice ha anche accennato allo stato in cui si trovano i diversi dialoghi avviati con le altre Chiese cristiane, sottolineando per esempio come il «riavvicinamento tra la parte orientale e quella occidentale dell'Europa» stimoli «le Chiese a coordinare i loro sforzi per la salvaguardia della tradizione cristiana e per l'annuncio del Vangelo alle nuove generazioni». Una collaborazione, ha puntualizzato, «resa particolarmente urgente dalla situazione di avanzata secolarizzazione soprattutto del mondo occidentale». E anche per questo va riaffermata «l'importanza del tutto speciale dell'ecumenismo spirituale. Giustamente pertanto - ha concluso - il Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani si impegna in esso, facendo leva sulla preghiera, sulla carità, sulla conversione del cuore per un rinnovamento personale e comunitario». (Salvatore Mazza, Avvenire, 18 novembre 2006)

 

 

 


 

 

Domenica 12 NOVEMBRE 2006

 

Salvare i monasteri del Kosovo

Più di 200 studiosi, artisti, donne e uomini di cultura, amanti del patrimonio artistico-religioso del Kosovo e Metohija e di ogni altro paese del mondo, hanno aderito all'appello a favore della salvaguardia dei monasteri ortodossi, a seguito dell’allarme lanciato dalla regista Elisabetta Valgiusti, che ha documentato nel suo "Enclave Kosovo" scene di vera e propria follia distruttiva. (cfr. il sito Salvaimonasteri). Particolarmente shoccante è il filmato, diffuso dalla cnsnews (che qui vi proponiamo: video) sulla dissacrazione e l’incendio della Chiesa di S. Andrea a Podujevo. Una folla assalta e incendia il monastero ortodosso, poi tutti applaudono. Sono le immagini feroci del 17 marzo 2004 quando si scatenò la furia della contropulizia etnica albanese contro i pochi serbi rimasti in Kosovo che aveva preso inizio nel giugno del 1999 appena erano entrati i primi soldati della Nato. Nel marzo 2004 vennero uccise 19 persone e distrutti 35 tra chiese e monasteri, in soli tre giorni.

Podujevo dista da Bari più o meno quanto Ancona; l'odio etnico non è ancora cessato, e probabilmente solo la presenza della KFOR impedisce che divampi di nuovo. Pure, se ne parla pochissimo. (Giona, newsletter, 7 novembre 2006)

 


 

Il Papa: l’unicità di Cristo è discriminante anche nel dialogo con le altre religioni

L’unicità di Cristo, “apice della storia salvifica”,  “è il vero punto discriminante anche nel dialogo con le altre religioni”. L’ha affermato oggi Benedetto XVI nel discorso rivolto ai circa 20mila fedeli presenti all’udienza generale del mercoledì, ribadendo l’idea che, da cardinale prefetto per la Congregazione per la dottrina della fede aveva posto al centro della dichiarazione “Dominus Iesus” del 6 agosto del 2000 “circa l'unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa”.

Nel corso dell’udienza, salutando in inglese i partecipanti ad un incontro interreligioso che si svolge ad Assisi, Benedetto XVI ha anche parlato della “necessità di costruzione della pace”, “grande dono di Dio”. Ricordando il 20mo anniversario dell’incontro del 1986 voluto da Giovanni Paolo II, il Papa ha parlato di “bisogno urgente di pace, di preghiere per costruire la pace, per trasformare i cuori, aprire al dialogo e abbattere i muri della violenza, dell'odio e della vendetta”.

La centralità e l’inevitabilità del riferimento a Gesù è stata fatta oggi illustrando la figura di Paolo, che era già stata oggetto della riflessione di Benedetto XVI per la precedente udienza generale. L’apostolo “ci aiuta a capire – ha sottolineato - il valore assolutamente fondante e insostituibile della fede”. L'uomo, infatti, “non è giustificato dalle opere della legge, ma dalle opere della fede. Essere giustificati significa essere giusti, accolti dalla giustizia misericordiosa di Dio, che ci porta a costruire rapporto autentico con i fratelli”.

L’identità cristiana, “descritta da San Paolo nella sua propria vita”, nelle parole del Papa, “si compone di due elementi: il non cercarsi ma riceversi da Cristo e donarsi a Cristo” ed una “partecipazione personale alla vicenda di Cristo, perché non basta che i cristiani siano battezzati o credenti, ma è importante che essi siano in Cristo Gesù” fino “ad immergersi in lui e condividere con lui la sua morte e la sua vita”.

 “La fede - ha rilevato Benedetto XVI - ci unisce a Cristo, ma sottolinea la distinzione tra Lui e noi. Ciò che noi siamo come cristiani lo dobbiamo a Gesù e alla sua grazia. A nient'altro e a nessun altro tributiamo la nostra devozione”. “Nessun idolo - ha ammonito - deve contaminarci perché altrimenti ricadremmo in forme di umiliante schiavitù. Questa condizione di vita non dipende da nostre eventuali opere buone, ma dalla grazia di Dio".

L'esempio di San Paolo, ha continuato il Pontefice, ci dice proprio questo: “nella luce del suo incontro con Cristo, San Paolo ha capito che un nuovo orientamento della sua vita era necessario. Paolo non vive più per sé, ma da Cristo e con Cristo”. Si tratta di saper prendere il coraggio di “'calare tutto questo nella vita quotidiana”.  (AsiaNews 8 Novembre 2006)

  


 

La scienza non venga mai utilizzata contro la vita umana e la sua dignità

“Alcuni hanno visto nel progresso della scienza e della tecnologia moderna una delle principali cause della secolarizzazione e del materialismo... il cristianesimo non presuppone un conflitto inevitabile tra la fede soprannaturale e il progresso scientifico… Se pensiamo, per esempio, a come la scienza moderna, prevedendo i fenomeni naturali, ha contribuito alla protezione dell'ambiente, al progresso dei Paesi in via di sviluppo, alla lotta contro le epidemie e all'aumento della speranza di vita, appare evidente che non vi è conflitto tra la Provvidenza di Dio e l'impresa umana. In effetti, potremmo dire che il lavoro di prevedere, controllare e governare la natura, che la scienza oggi rende più attuabile rispetto al passato, è di per se stesso parte del piano del Creatore.” A ribadirlo è stato il Santo Padre Benedetto XVI che il 6 novembre ha ricevuto in udienza i partecipanti alla Assemblea Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, che aveva per tema “La prevedibilità nella scienza: accuratezza e limiti”.

Il Santo Padre ha sottolineato che “l'uomo non può riporre nella scienza e nella tecnologia una fiducia talmente radicale e incondizionata da credere che il progresso scientifico e tecnologico possa spiegare qualsiasi cosa e rispondere pienamente a tutti i suoi bisogni esistenziali e spirituali. La scienza non può sostituire la filosofia e la rivelazione rispondendo in mondo esaustivo alle domande più radicali dell'uomo”. Inoltre il Papa ha posto l’accento sulle responsabilità etiche dello scienziato, le cui conclusioni “devono essere guidate dal rispetto della verità e dall'onesto riconoscimento sia dell'accuratezza sia degli inevitabili limiti del metodo scientifico”. Ciò implica evitare “le previsioni inutilmente allarmanti” ma anche il silenzio dinanzi ai problemi autentici.

“Cari Accademici, il nostro mondo continua a guardare a voi e ai vostri colleghi per una chiara comprensione delle possibili conseguenze di molti importanti fenomeni naturali” ha proseguito Papa Benedetto XVI citando le continue minacce all'ambiente che colpiscono intere popolazioni, e la necessità di scoprire fonti energetiche alternative, “sicure, accessibili a tutti”. Il Santo Padre ha aggiunto: “Gli scienziati troveranno il sostegno della Chiesa nei loro sforzi per affrontare simili questioni, poiché la Chiesa ha ricevuto dal suo divino Fondatore il compito di guidare la coscienza delle persone verso il bene, la solidarietà e la pace. Proprio per questa ragione considera suo dovere insistere sul fatto che la capacità della scienza di prevedere e controllare non venga mai utilizzata contro la vita umana e la sua dignità, ma che sia sempre messa al suo servizio, al servizio della generazione presente e di quelle future”.

Infine il Papa ha sottolineato come il metodo scientifico abbia dei limiti e non possa quindi pretendere “di fornire una rappresentazione completa, deterministica, del nostro futuro e dello sviluppo di ogni fenomeno”. La filosofia e la teologia “potrebbero dare un importante contributo a questa questione”. “Allo stesso tempo - ha concluso Papa Benedetto XVI - vi è un livello più alto che necessariamente trascende tutte le previsioni scientifiche, vale a dire, il mondo umano della libertà e della storia. Mentre il cosmo fisico può avere il proprio sviluppo spaziale-temporale, solo l'umanità, in senso stretto, ha una storia, la storia della sua libertà. La libertà, come la ragione, è una parte preziosa dell'immagine di Dio dentro di noi, e non può mai essere ridotta ad una analisi deterministica. Negare questa trascendenza in nome di una supposta capacità assoluta del metodo scientifico di prevedere e condizionare il mondo umano comporterebbe la perdita di ciò che è umano nell'uomo e, non riconoscendo la sua unicità e la sua trascendenza, potrebbe aprire pericolosamente la porta al suo sfruttamento”. (S.L., Agenzia Fides, 7/11/2006)

 


 

Romano Guardini: è l'ora del genio femminile

Oggi ci si accosta a Romano Guardini come alla figura rappresentativa di un'epoca. Nato a Verona nel 1885, ebbe un'infanzia tranquilla nella casa paterna italiana a Magonza, ma assimilò in modo indelebile anche la lingua e la spiritualità della Germania: la teologia di Tubinga e Friburgo, la prima fenomenologia, la Weltanschauung. «Vedere ciò che è», l'educazione dello sguardo: questo insegnava Guardini dalla sua cattedra di Weltanschauung cattolica a Berlino finché i nazisti, nel 1939, non lo congedarono, poi dopo la guerra a Tubinga e dal 1948 a Monaco, dove morì nell'infausto 1968. Il grande, indimenticato maestro insegnava la "percezione": i grandi messaggi dell'Occidente, da Socrate, Agostino e Bonaventura fino a Rilke, Freud e Kafka, e così trasmetteva in modo critico conoscenze fondamentali di antropologia ed etica, sempre imperniate sul mysterium Christi, Colui che si è fatto uomo.

Ma occupiamoci delle riflessioni di Guardini sulla donna, certamente nella consapevolezza delle sfide attuali lanciate da femminismo e gender-studies.

Fra i molti problemi affrontati da Guardini, il tema "donna" non figura fra i grandi ambiti tematici dei quali si occupò per tutta la sua esistenza, ma appare piuttosto marginale . Nell'Etica, lasciata incompiuta, il capitolo previsto dal titolo «L'attività e i compiti della donna» non fu scritto. Incalzati della prospettiva odierna, saremmo tentati di liquidare il tema come irrilevante o di moda, ma viene invece il sospetto che questo argomento - come del resto anche altri - sia rimasto in secondo piano proprio perché introduce in quell'ambito inesprimibile che, nel pensiero di Guardini, è legato all'intimità, alla sensibilità e alla tenerezza.

Nelle sue giustamente famose interpretazioni di celebri opere letterarie, Guardini si è più volte soffermato sulle figure femminili, incrinando un'ovvietà ormai cristallizzata (come per la Beatrice di Dante) e illuminando la molteplice stratificazione dello spirito e dell'animo femminili (come in Dostojevskij).

Le opposte figure femminili spingono a chiedersi se Guardini faccia derivare questa molteplicità da una determinazione comune a tutto il "femminile": chi si occupa di Guardini conosce l'importanza del suo pensare per opposti, il metodo che egli stesso sviluppò fin dagli inizi . Così bisogna per prima cosa domandarsi se l'essere donna, in questa teoria dell'opposto, non sia un "polo" subordinato al "polo" dell'essere uomo - non però come banale completamento della specie, ma con un contenuto qualificato: se la donna, cioè, nell'insieme del reale, non rappresenti il polo della "pienezza" in rapporto al polo, concepito come maschile, della "forma". Guardini stesso pone questa domanda, ma per bollarla come un malinteso; si tratta però non tanto di un malinteso da parte di alcuni pensatori, quanto piuttosto di un errore tragico e fatale nella percezione occidentale dei valori, che vede nella "pienezza" una pericolosa vicinanza al caos, al mutevole, all'illogico - elementi che, nel pensiero classico, potevano rappresentare soltanto dei non-valori. Di conseguenza l'essere donna, visto nella prospettiva della pienezza non strutturata, fu tragicamente disconosciuto e relegato vicino a questo non-valore.

In questa prospettiva, le figure femminili di Dostojevskij mostrano in misura preponderante un elemento ambiguo e sfuggente - fermo restando il presupposto che ho già illustrato, che cioè così facendo non si intenda qualcosa di "tipicamente femminile" né tanto meno qualcosa di negativo: l'elemento fluido e molteplice serve alla caratterizzazione dell'essere umano in quanto tale, e le donne di Dostojevskij costituiscono una zona brillante e multicolore nello spettro di questa immagine dell'uomo.

Ancora più profondo e intenso appare, di conseguenza, il sintetico ritratto di Beatrice, che si staglia su un mondo di impronta del tutto diversa: il mondo occidentale del Medioevo cristiano. Beatrice è maggiormente orientata all'ordine, addirittura all'«or dine divino» delle gerarchie celesti nelle quali essa, l'amata, introduce; a intenderlo bene, dunque, un mondo con un elevato sentimento della forma nel quale anche la donna, e questa donna in particolare, si muove sicura e a proprio agio. Senza però - per evitare nuovamente il malinteso - divenire maschile, poiché la distinzione dei due poli "pienezza" e "forma" non corrisponde affatto alla distinzione fra i sessi, che si dispiegano invece in un fluido comune e, ovviamente, nel complesso della realtà. Questo complesso può senza dubbio essere mutilato sia culturalmente che individualmente: o per una cattiva regolamentazione di una "metà" di questo sistema di valori, o per una particolare accentuazione, per la configurazione vitale che uno dei due valori assume (facendo quindi retrocedere l'altro, di segno opposto). Ma in linea di principio sia la donna che l'uomo sono abilitati, anzi: vincolati al mantenimento dell'intera struttura vitale, formata da pienezza e forma. (Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, Avvenire, 8/11/2006)

 


 

Thomas Merton, contemplazione e azione

«A motivo di un'opera vecchia di vent'anni, sono diventato una sorta di stereotipo del contemplativo che fugge il mondo, che ha disprezzato New York ed è arrivato a Louisville, correndo verso i boschi con Giovanni della Croce in una mano e le pagine iniziali dell'Apocalisse nell'altra. Probabilmente sono io il responsabile di questo cliché, ma cerco di distruggerlo per quanto è nelle mie possibilità. Non sono la voce ufficiale del silenzio trappista, il monaco nascosto nel suo cappuccio che medita davanti a un lago artificiale voltando le spalle alla macchina fotografica. La mia voce è solo quella di un uomo che si interroga, che, come tutti i suoi fratelli, lotta per fronteggiare un'esistenza agitata, sconcertante, massacrante, appassionante, deludente, confusa: un'esistenza in cui nulla è veramente prevedibile, in cui tutte le definizioni, le spiegazioni e le giustificazioni sono superate ancor prima di essere espresse». Così, pochi mesi prima della sua morte improvvisa nel 1968, Thomas Merton rileggeva criticamente la propria autobiografia, quella «Montagna dalle sette balze» che, pubblicata per la prima volta nel 1948 e che l'editrice Garzanti rimanda ora in libreria, aveva incontrato un enorme successo negli Stati Uniti e nel mondo intero. In effetti l'opera aveva tutti gli ingredienti per divenire un "classico" della spiritualità: una vicenda autobiografica affascinante, scritta con piglio e grande stile, uscita in anni ricchi di tensione etica e di desiderio di ricostruire un mondo migliore sulle macerie della seconda guerra mondiale. L'autore, poi, sembrava davvero lo "stereotipo" ideale per riproporre, adattato al XX secolo, il fascino del grande "convertito" che apre i segreti del proprio cuore, come Agostino con le sue «Confessioni»: giovane, figlio e orfano di due artisti, cosmopolita per nascita ed educazione, studi classici, vita mondana brillante, fino alla svolta esistenziale: notte oscura del non senso, conversione al cattolicesimo e, solo tre anni dopo il battesimo, ingresso nel più rigido degli ordini monastici del tempo, i trappisti. Eppure, rileggere oggi quelle pagine pone un interrogativo: come mai solo pochi dei milioni di lettori affascinati dal racconto di quella "conversione" eccezionale hanno saputo poi "leggere" la conversione quotidiana e ininterrotta di quel monaco refrattario al cliché da lui stesso creato? Come mai la marginalità profetica e il faticoso viaggio di Merton nelle profondità di senso all'interno e attorno alla vita monastica non ha destato lo stesso interesse? Gli ultimi dieci anni di vita di Merton sono stati un progressivo avvicinamento alla vita eremitica e, nel contempo, un appassionato farsi carico dei grandi interrogativi sociali - la pace e il rifiuto degli armamenti atomici, i diritti civili... - e dell'ineludibile dialogo con il mondo orientale e il buddismo in particolare? Sì, a volerlo ascoltare al di là delle mode, Merton ha fatto di tutto per "distruggere" il mito da lui stesso creato attorno all'ideale del contemplativo. A noi resta da rileggere la conversione di un giorno come chiave di comprensione del costante cambiamento di mentalità che il vangelo richiede ogni giorno al cristiano di fronte al mutare dei "segni dei tempi". (Enzo Bianchi, Avvenire, 8/11/2006)

 


 

Vita consacrata, formare è «costruire» il futuro

Ogni anno in Italia 300 giovani scelgono di seguire la vita religiosa. Una scelta certamente non facile, che deve fare i conti con il clima culturale non proprio incline a favorire la nascita di nuove vocazioni. Quale formazione assicurare loro? Quali percorsi di accompagnamento e di maturazione della personalità si possono immaginare per far sì che i consacrati di domani siano in grado di annunciare il Vangelo in una società fortemente secolarizzata? Don Alberto Lorenzelli, presidente della Cism, sceglie due icone per rappresentare plasticamente il ruolo del superiore maggiore nei processi formativi dei giovani che entrano in convento. L'una tratta da un filosofo cinese del VI secolo a.C., l'altra dal Vangelo. Cita innanzitutto Kuan-Tze: «Se i tuoi progetti mirano a un anno, semina il grano. Se mirano a dieci anni, pianta un albero. Ma se miri a cento anni, istruisci la gente». E commenta: «Come pazienti contadini della formazione, noi superiori maggiori e formatori riteniamo importante seminare a piene mani la semente della formazione umana, cristiana, consacrata e carismatica, perché formare è costruire il futuro». Quanto al come, il salesiano chiama in causa l'episodio di Emmaus. «Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro». «Il superiore e il formatore - ricorda il presidente della Cism - sono fratelli maggiori, nell'esperienza e nel discepolato, che si pongono accanto ad un fratello per condividere con lui un tratto di strada e di vita, perché questi possa meglio conoscere se stesso e il dono di Dio, e decidere di rispondervi in libertà e responsabilità».

Così la seconda giornata dell'Assemblea annuale della Conferenza dei superiori maggiori d'Italia ha cominciato ad affrontare il tema principale dell'assise. Un tema che già nel messaggio del Papa, giunto lunedì, aveva trovato una prima e fondamentale indicazione. «Contemplare l'icona di Cristo Buon Pastore, traendone criteri di discernimento e di formazione». La relazione di don Lorenzelli va proprio in questa direzione. «Formare è favorire un'identificazione interiore, prima ancora che operativa, con Cristo». Perciò diventa importante agire secondo un progetto complessivo, che tenga conto anche dei carismi dei singoli istituti, verificare con regolarità il cammino di maturazione del giovane (e questi sono compiti del superiore maggiore, in relazione con l'equipe educativa), dare in sostanza all'itinerario una conformazione comunitaria.

«Una delle comunità formatrici che ha assunto grande importanza in questi anni - ha ricordato ancora il presidente della Cism - è il prenoviziato. Un tempo di formazione soprattutto umana, data la tendenza ad una certa fragilità psicologica delle giovani generazioni». Strumento prezioso per «conoscere bene le motivazioni e i sentimenti che spingono i candidati a scegliere la vita religiosa» e per discernere, sia da parte del candidato stesso, sia della congregazione, «l'autenticità della chiamata». Don Lorenzelli ha poi fatto riferimento al noviziato («tempo dell'iniziazione integrale») e al post noviziato (cioè al periodo che intercorre tra la prima professione e quella definitiva), sottolineando anche che oggi la formazione deve essere permanente. «Bisogna aiutare i religiosi a trovare tempi e criteri giusti per superare l'attivismo e la superficialità e programmare momenti per lo studio, la lettura personale, la riflessione comunitaria», come anche per «la ricreazione e il riposo». Tutti spunti che saranno ripresi nei lavori fino a venerdì.

Ieri pomeriggio, intanto, padre Fidenzio Volpi ha presentato una sorta di bilancio dei suoi 13 anni da segretario generale della Cism. Un'esperienza, ora raccolta anche in un libro («Tredici anni di servizio, in dialogo con la Chiesa e la vita consacrata»), che il cappuccino ha definito «intensa e impegnativa, ma anche ricca di soddisfazioni». In questo periodo, ha detto, «la Cism ha preso a cuore il punto di vista della Chiesa, prima del nostro pur legittimo modo di pensare ed affrontare i problemi della vita consacrata». In altri termini è stata superata la tentazione dell'autoreferenzialità, «per ricollocare le nostre situazioni in orizzonte più ampio». Così è avvenuto nei rapporti con la Cei («che non ha fatto mancare sostegno e apprezzamento»), e in diverse altre situazioni. Anche per il futuro, dunque, ha concluso il segretario uscente, «è necessario continuare a pensare insieme come religiosi, per fornire risposte pertinenti alle domande della gente del nostro tempo». (Mimmo Muolo, Avvenire, 8/11/2006)

  


 

La vera scienza non è mai astiosa

Una concezione totalizzante della ricerca, che voglia escludere la trascendenza e la possibilità di integrazione, pur nella distinzione, con altri processi conoscitivi, diventa scientismo. È una visione ancora operante nella cultura di oggi, ma anacronistica, che rivela la crisi del riduzionismo

Il fascino della scienza viene dal fatto che la conoscenza umana sembra non avere confini. La scienza, intesa come ambito di esplorazione della natura e della sua razionalità, rappresenta un campo privilegiato per allargare le conoscenze. Ma non si può ignorare un problema che di tanto in tanto si ripropone: Ci sono limiti o confini per la ricerca scientifica? Quali?

Domande non nuove, ma sempre di grande attualità, come dimostrano frequenti interventi di scienziati che rivendicano la libertà della scienza su riviste specializzate e su giornali di opinione. La vicenda referendaria dello scorso anno lo evidenziò. Eventi che si svolgono sotto i nostri occhi, dalla conferenza di Venezia sul futuro della scienza al Festival di Genova sulla scienza, sono occasioni per riproporcele. Per non parlare degli interventi di Benedetto XVI che anche nelle singole parole vengono passati al vaglio critico.

Parlare di limiti della scienza o richiamare problemi che non siano di natura meramente scientifica sembra evocare tempi da inquisizione e riportare all'epoca premoderna. Si tratti delle ricerche sulle cellule staminali o sul cervello o sull'evoluzione vengono rivendicati il valore conoscitivo della scienza, la libertà e l'autonomia della ricerca.

Alcuni recenti interventi di scienziati sulla stampa inducono a qualche riflessione. Mi riferisco a quelli di Edoardo Boncinelli (sul «Corriere della Sera»), che hanno preso lo spunto da alcuni rilievi fatti in campo cattolico a proposito del Festival della Scienza a Genova, e a quello di Luca e Francesco Cavalli Sforza (su «La Repubblica») relativo a un passo del recente discorso di Benedetto XVI alla Pontificia Università Lateranense. Come ha rilevato Francesco D'Agostino su questo giornale in un interessante dialogo con Boncinelli, sono fuori discussione i meriti e le possibilità della scienza. Ma non si deve pensare che la scienza sia l'unica forma valida di conoscenza o possa rispondere alle domande di senso che l' uomo si pone. In realtà non è la scienza, ma più spesso sono le persone che fanno scienza a voler trarre dalla scienza quello che la scienza non può dirci o a precludere altre forme di conoscenza. Le posizioni, polemiche e astiose, espresse anche recentemente da Dawkins su evoluzione e religione ne sono un esempio eclatante.

Ma forse il punto più critico che intercetta la ricerca scientifica rimane quello della tecnica che viene utilizzata e delle applicazioni dei risultati raggiunti. Benedetto XVI nel citato discorso ha osservato che "il contesto contemporaneo sembra dare il primato a un'intelligenza artificiale che diventa sempre più succube della tecnica sperimentale e dimentica in questo modo che ogni scienza deve pur sempre salvaguardare l'uomo e promuovere la sua tensione verso il bene autentico". Qualora ciò avvenisse si avrebbero conseguenze rovinose per l'uomo. Questo richiamo è stato visto da Luca e Francesco Cavalli Sforza (in una esegesi piuttosto parziale del testo), come una critica alla scienza sperimentale instaurata da Galileo, quasi "una seconda condanna e un ritorno a un passato lontano di secoli". A parte il fatto che la scienza e il metodo galileiano non possono esaurirsi nella tecnica sperimentale, per conoscere il pensiero del Papa su Galileo basterebbe rileggere il discorso fatto nel mese scorso a Verona nel Convegno ecclesiale. Certamente "la scienza usa la sperimentazione come mezzo per giungere alla verità", come viene affermato nel citato articolo. Ma anche la sperimentazione non è esente da giudizi di valore. Un sperimentazione che comportasse la morte o gravi danni a degli esseri umani sarebbe praticabile? Giovanni Paolo II ha osservato che «il progresso scientifico non può pretendere di situarsi in una sorta di terreno neutro. La norma etica, fondata nel rispetto della dignità delle persone deve illuminare e disciplinare tanto la fase della ricerca quanto quella dell'applicazione dei risultati in essa raggiunti» (Ai partecipant i di due Convegni di Medicina e Chirurgia, 27 ottobre, 1980).

Va inoltre rilevato che qui non è in gioco una verità di fede (e di verità, secondo gli autori dell'articolo, ce ne sarebbero tante quante le religioni…); è in gioco la ragione, la sua capacità di riconoscere il valore dell'uomo e quindi la verità dell'uomo.

Si affaccia il problema non nuovo del rapporto fra scienza e tecnica nella ricerca della verità mediante i mezzi della tecnica. Come pure diventa rilevante per il ricercatore il fine per cui la ricerca viene effettuata e l'uso che se ne potrà fare. La tecnica è ambivalente, «può essere impiegata per il bene come per il male» (Giovanni Paolo II Agli scienziati di Colonia, 15.11.1980).

Non possono essere negate le istanze di ordine etico, nel momento stesso in cui viene affermata la libertà della ricerca e l'autonomia della scienza, riconosciuta anche dal Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes, 36). La ricerca, come la tecnica e la sperimentazione, sono subordinate al rispetto della dignità dell'uomo. E' una esigenza della verità dell'uomo.

Nella scienza ci sono poi dei confini dettati dall'orizzonte in cui ci si muove e dalle metodologie impiegate. Pretendere di andare oltre può essere una tentazione per il ricercatore. Ma se lo scienziato lo facesse nelle sue interpretazioni, dovrebbe esplicitarlo, così da non presentare come scienza la sua opinione.

Secondo l'accezione comune nella nostra cultura, la scienza si basa su quello che è osservabile e sperimentabile. Di conseguenza la sua competenza riguarda l'orizzonte conoscitivo delle scienze empiriche. Proprio per questo si tratta di una conoscenza parziale da integrare con altre forme di conoscenza, come quelle della filosofia e della teologia, per avvicinarsi alla verità delle cose e dell'uomo, come più volte ha rilevato Giovanni Paolo II e recentemente anche Benedetto XVI all'Università di Ratisbona. Lunedì Benedetto XVI nell'incontro con la Pontificia Accademia delle Scienze è tornato su questo argomento sollecitando una integrazione tra scienza, filosofia e teologia sia in ordine agli interrogativi più radicali dell'uomo sull'esistenza, sia per quanto si riferisce all'interpretazione di eventi passati e alla predicibilità di eventi futuri.

Una visione totalizzante della scienza, che voglia escludere la trascendenza e la possibilità di integrazione, pur nella distinzione, con altri approcci conoscitivi, diventa scientismo, un posizione ancora presente nella cultura contemporanea, ma anacronistica.

Nella riflessione epistemologica moderna si riconosce la crisi del riduzionismo e si avverte la necessità di superarlo ripensando gli stessi fondamenti delle scienze. Molti equivoci sorgono, oltre che dalla negazione di approcci diversi dal proprio, dalla confusione dei piani di conoscenza. A volte si giunge alla denigrazione e quasi all'accanimento verso chi non la pensa allo stesso modo. Le personali convinzioni non dovrebbero mai impedire il dialogo riconoscendo ciò che è specifico di ognuno e ricercando qualche base comune. La vera scienza non è mai settaria. (Fiorenzo Facchini, Avvenire, 8/11/2006)

 


 

Mostruoso ma vero «Uccidiamo i bimbi disabili»

Già il titolo dell'articolo è un colpo allo stomaco: «Lasciateci uccidere i bambini disabili». Lo chiedeva domenica, dalle colonne del Sunday Times, l'associazione dei ginecologi inglesi, il prestigioso Royal College of Obstetricians and Gynaecology. La proposta si innesta su un ragionamento paradossale, che parte da una constatazione condivisibile: in Gran Bretagna si fanno troppi aborti tardivi, ed è urgente una strategia per limitarli. Cosa fare, allora? Chiedere più aiuti per le famiglie? Più strutture di assistenza per i piccoli con gravi problemi fisici o psichici? Una legge che vieti la barbara pratica dell'aborto a gravidanza avanzata? No, la soluzione individuata dai medici è la più radicale e sorprendente: l'eutanasia attiva. Se una donna fin dall'inizio sa che in caso di disabilità il neonato si può sopprimere, forse sarà incoraggiata a rischiare, e a portare avanti una gravidanza non del tutto sicura.

Non si tratta di una trovata giornalistica, di un dibattito che si esaurisce sulla carta stampata. Il Royal College ha fatto passi concreti perché il tema sia discusso ufficialmente, inserendolo in un'inchiesta sui problemi etici che riguardano gli interventi per la sopravvivenza dei neonati. Naturalmente Pieter Sauer, uno degli estensori del protocollo di Groningen - il testo con cui si sono stabilite le nuove linee guida per l'eutanasia neonatale in Olanda - offre il suo entusiastico sostegno alla proposta dei medici inglesi.

In questo panorama desolato è confortante che una delle voci che si sono levate contro la legalizzazione dell'eutanasia infantile per i disabili venga da qualcuno che è quotidianamente a contatto con i piccoli che lottano per sopravvivere, il neonatologo John Wyatt: «Introdurre la possibilità di uccidere intenzionalmente un malato snatura il senso della cura medica. Se un dottore stabilisce chi deve vivere, la medicina si trasforma in una forma di ingegneria sociale, il cui scopo è massimizzare i benefici per la società, e minim izzarli per coloro la cui vita è giudicata priva di valore». L'argomentazione più agghiacciante a sostegno del Royal College la adopera John Harris, docente di bioetica (ma possiamo ancora chiamarla così?) alla Manchester University. Poiché in Inghilterra l'eutanasia non è legale, ma l'aborto negli ultimi mesi di gravidanza sì, il professore si chiede cosa mai accada di straordinario nel momento del passaggio dall'interno all'esterno del grembo materno: il bimbo è sempre quello, perfettamente formato, dunque se lo si può uccidere prima, lo si può fare anche dopo. Su quanto tempo dopo, Harris non si pronuncia. Ma è evidente che con simili criteri la barriera potrebbe essere spostata in modo illimitato. All'interno di un quadro etico così concepito, la vita non è che un valore incerto, totalmente affidato alle opinioni, e basta estendere il parametro adottato per concludere che un essere umano, in particolare se disabile, possa essere eliminato in qualunque momento. Perché no? Come afferma il professor Harris, perché un momento prima si può e il momento successivo non più?

Coraggio: stiamo entrando nel terrorizzante universo descritto in un vecchio racconto fantascientifico di Philip Dick, Le pre-persone, in cui l'autore immaginava una società in cui i bambini erano considerati pienamente persone solo quando in grado di risolvere un'equazione algebrica. Solo allora entravano nel cerchio privilegiato di coloro la cui esistenza ha valore sociale. (Eugenia Roccella, Avvenire, 7/11/2006)

 


 

«Passa oltre gli steccati la strada della laicità»

Il tema del confronto tra una dimensione laica ed una confessionale anima da molto tempo un acceso dibattito all'interno della società italiana. In particolare ci si interroga se sia possibile, e in che termini, proporre una laicità in grado di diventare punto di incontro tra credenti e non credenti. Su questo interrogativo si sono soffermati per due giorni numerosi studiosi durante il seminario, svoltosi ad Aosta, dal titolo «Quale laicità per il mondo contemporaneo? Radici storiche e sfide future di un dialogo possibile», organizzato dal Corso di laurea in Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell'Università della Valle d'Aosta con il patrocinio del Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana e della diocesi di Aosta. Paolo Gheda, ricercatore di storia contemporanea presso l'ateneo valdostano, ha sottolineato che se storicamente la stessa definizione di laico è stata introdotta nel Medioevo dalla cultura ecclesiastica e ancor prima dalla teologia cattolica, «oggi - attraversati il crogiolo dell'ideologia illuminista, del positivismo e più recentemente di un fase di secolarizzazione - pare aver riacquistato valore alla luce soprattutto dei contenuti etici che tendono a dividere la comunità civile tra l'adesione a principi morali "naturali" - con al centro l'uomo e la sua capacità di evolversi autonomamente - e la "fedeltà" ad una visione della vita incentrata sulla presenza di Dio». Il vescovo di Aosta Giuseppe Anfossi, presidente della Commissione episcopale per la famiglia e la vita, ha aperto i lavori di una tavola rotonda sul tema I laici tra Chiesa e società ponendo fra i temi cardine di questo confronto l'idea di famiglia, constatando come a partire dal Concilio Vaticano II sia progressivamente cresciuto il numero dei documenti del magistero e degli scritti teologici sull'argomento del matrimonio e della famiglia. Il vescovo di Aosta in particolare ha sottolineato il contributo del pensiero personalista nella valorizzazione del matrimonio e della famiglia, compiuta in questi anni dalla Chiesa. «L'assunzione di questa prospettiva - ha detto il vescovo - ci porta dal matrimonio inteso come oggetto dell'azione pastorale della Chiesa al riconoscimento degli sposi come soggetto di pastorale. Viene così valorizzato il loro ruolo di ministri del sacramento e di soggetti protagonisti del servizio comunitario sia ecclesiale che sociale». Edoardo Greppi, preside del Corso di laurea in Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell'Università della Valle d'Aosta, ha invece proposto uno sguardo da giurista attento in merito al Trattato della Costituzione europea illustrando i termini di un dibattito a lungo vivace. Ad Antonio Carioti, giornalista culturale del Corriere della sera, il compito di portare il punto di vista e le riflessioni che attraversano il mondo laico. Il che l'ha visto identificare subito due elementi di autocritica: «Credo che sia sbagliato ritenere che la religione sia esclusivamente un fatto di coscienza individuale, ma che sia prima di tutto sociale; e credo anche che il dibattito culturale degli ultimi vent'anni si sia fondato sul preconcetto errato di ritenere la religione un'eredità del passato che progressivamente avrebbe dovuto venir meno». Carioti ha anche però evidenziato come vada rivisto il peso della Chiesa cattolica all'interno della politica italiana. «Una situazione che scaturisce anche dal fatto - ha precisato Carioti - che nel nostro Paese è ormai manifesta una crisi profonda della classe dirigente. Sono convinto che le parole della Chiesa dovrebbero trovare come interlocutore un mondo politico più forte capace di maggiore mediazione. Penso che sia anche interesse della Chiesa». Francesco Bonini, coordinatore del Servizio nazionale per il Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana, ha infine concluso la serata ragionando su quali possano essere i termini del dialogo, aggiungendo la necessità di una costruzione condivisa di un comune senso di identità, cercando di ovviare alla consuetudine tutta italiana di affrontare ogni confronto secondo schemi pesantemente conflittuali, modello «guelfi e ghibellini». (Fabrizio Favre, Avvenire,  5/11/2006)

 


 

Papà e mamma per sempre

Accendi il televisore e incontri tante simpatiche, belle, allegre "famiglione" ricostituite. Non c’è fiction ormai che non porti al successo nuclei "allargati" e "tutti nuovi" (mai che i protagonisti vivano in un’usuale famiglia di quelle che le statistiche demografiche danno largamente più diffuse nel Paese, ma considerate noiose ai fini dell’audience). Non c’è programma di intrattenimento che non dia parola al vip di turno per celebrare la storia in cui si intrecciano tre mamme, quattro papà, fratelli, figli del fidanzato della mamma e nuove sorelle generate dall’ex papà, con contorno di decine di nonni. «Una ricchezza di affetti, una varietà di rapporti», commenta qualcuno. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Inutile dire che il retro della fotografia racconta ben altro, a stare almeno a quello che emerge dalla quotidianità di tutti e anche a quanto ci scrivono i molti lettori alla ricerca di un aiuto, un parere o una presa di posizione sulla vicenda di un bambino conteso da due genitori che non si amano più. Lacrime e sofferenze che chiedono ben altra attenzione e cura che un superficiale "avanti così". Lo sanno bene i tanti genitori separati che ogni giorno vanno incontro al faticoso e difficile compito di combinare e sciogliere sentimenti contrastanti e orari diversi, esigenze di vita, crucci e rimorsi per continuare a essere buone mamme e buoni papà. Da un anno le nuove disposizioni sull’affido condiviso hanno facilitato il compito di qualcuno, ma nulla diventa facile e, forse ancor più, c’è un gran bisogno di trovare sostegno, comprensione e aiuto al di fuori della famiglia.

MA "SEPARATI" SONO ANCHE I NONNI

Hanno sfilato di recente in occasione della festa dei nonni (2 ottobre, giorno degli Angeli custodi) con tanto di striscioni e anche qualche "nonno-sandwich" per ricordare a tutti che esistono pure loro, i genitori di uno di quei papà separati (o, più raramente, mamme) che non riescono più ad avere contatti con i nipoti. In questo modo l’associazione Famiglie separate cristiane ha voluto riaffermare l’importanza della presenza di entrambi i nonni, materni e paterni, accanto ai bambini.

Famiglie separate cristiane (via Appiani 25 - 20121 Milano, telefono 02/65.99.300), membro del Forum delle associazioni familiari, è diffusa in molte città italiane con una quarantina di gruppi per l’accoglienza e l’ascolto della Parola e collaborazioni con molte diocesi.

«L’obiettivo», spiega il presidente Ernesto Emanuele, «è far sentire ai separati che non sono fuori dalla Chiesa, che non sono emarginati e che non si è giudicati, e presentare una forma di preghiera accettabile da tutti, anche da persone da anni "lontane" dalla pratica religiosa. Inoltre, vogliamo portare all’interno della Chiesa la voce, le problematiche e, soprattutto, la sofferenza delle famiglie separate e far crescere all’interno delle comunità la vera accoglienza verso queste persone sofferenti». (Famiglia cristiana, 46/2006)

  


 

Matrimoni: in Italia: se ne rompe uno ogni 4 minuti.

Nel nostro paese ci si sposa sempre meno e aumentano le separazioni e i divorzi, che hanno raggiunto il preoccupante ritmo di uno ogni quattro minuti. E' quanto risulta dal rapporto Eures "Finché vita non ci separi...”  L'indagine, oltre a confermare la costante crescita dell'età media degli sposi (salita negli ultimi 3 decenni di 7 anni tra gli uomini e di oltre 5 tra le donne), rivela un aumento di matrimoni civili, seconde nozze e mogli straniere.  Ci si sposa meno e ci si lascia di più in Italia, soprattutto al Sud.

Il primo dato che salta agli occhi e' quello relativo alle separazioni e i divorzi, saliti rispettivamente a +59% e +66% per cento negli ultimi dieci anni in Italia. E' il sud a registrare l'incremento più consistente, nell'ultimo decennio sia delle separazioni (+84,7 per cento, contro il 46,3 del nord) che dei divorzi (+74,7 per cento, contro il +61,3 del nord).  Complessivamente, nel 2004 si contano oltre 128mila separazioni e divorzi  (rispettivamente 83.179 e 45.097), pari a 352 sentenze al giorno.  A livello regionale, i valori più elevati si registrano in Liguria, (con  l'impressionante cifra di 91,2 separazioni e divorzi ogni cento matrimoni);  il valore più "rassicurante" si registra invece in Calabria, dove per ogni  cento matrimoni si registrano "solo" 24 tra divorzi e separazioni. Più solidi si  rivelano indubbiamente i matrimoni religiosi (5,6 divorzi ogni cento  matrimoni in chiesa, contro 13,1 divorzi tra chi si sposa civilmente).

Il picco delle separazioni si registra fra il terzo e il quinto anno di matrimonio (come dire che alla classica crisi del settimo anno ormai non si fa nemmeno più in tempo ad arrivare).  E non ci si lascia più per colpa, ma per intolleranza reciproca, e consensualmente: la stragrande maggioranza dei divorzi e' infatti concessa a seguito di domanda congiunta dei coniugi, con valori che passano dal 69,4 per cento del 1995 al 78,2 del 2005.

Dall'aumento delle separazioni scaturisce anche l'incremento delle famiglie monogenitoriali e dei figli affidati: secondo i dati ISTAT, infatti, il numero dei minori affidati dopo una separazione e' pari nel 2004 a 64.292. In oltre la metà delle separazioni (52,9 per cento) e' presente almeno un figlio minore; nell'80 per cento dei casi, e' la madre che ottiene l'affidamento, mentre si rileva una crescita costante degli affidamenti congiunti, che arrivano nel 2004 al 12,7 dei casi di separazione e al 10% dei divorzi. (Rainews24,  8 novembre 2006)

 


 

Il governo parla di famiglia con le coppie omosessuali

Le coppie omosessuali non possono rappresentare la famiglia. Dunque il confronto in Parlamento sulle politiche sociali per i nuclei familiari non contempla, perchè non può contemplare, l'audizione di rappresentanti dei conviventi gay. Per la Casa delle Libertà non ci sono dubbi su questo punto: la famiglia è una, quella tutelata dall'articolo 29 della Costituzione. Ma ieri a Montecitorio in Commissione Affari sociali il presidente Mimmo Lucà (Ulivo) aveva invitato alle audizioni delle associazioni familiari anche i rappresentanti della Liff, la Lega italiana per le famiglie di fatto, associazione che tutela le coppie conviventi fondata nel '97 da Franco Grillini, il diessino ex presidente dell'Arcigay. E così i deputati di centrodestra senza starci troppo a pensare si sono alzati e hanno lasciato la Commissione. Anche perchè è sembrato che la sinistra così facendo volesse dare quasi per scontato il riconoscimento delle coppie gay, aprendo di fatto ai Pacs. Pacs ai quali in effetti sono contrari anche i cattolici della maggioranza. Ma di fronte alla decisione di Lucà quelli della Margherita hanno preferito soltanto «dissentire» a parole senza lasciare la commissione.

Insomma in Parlamento se si parla di famiglia il dialogo tra centrodestra e centrosinistra è diventato impossibile visto che le posizioni sono inconciliabili come spiega Elisabetta Gardini, responsabile del coordinamento nazionale di Forza Italia per le politiche sociali. «Pur rispettando i problemi delle coppie di fatto anche omosessuali, è evidente a tutti che queste problematiche appartengono ad un ambito differente di quello della famiglia - dice la Gardini -. Non si può arbitrariamente inserire una associazione che per forza di cose sposta l'attenzione dai problemi reali della famiglia, alla definizione di che cosa sia famiglia. Un comportamento scorretto nei confronti dei componenti della Commissione,e soprattutto nei confronti dei rappresentanti delle Associazioni familiari». E infatti il Forum delle famiglie ha espresso a Lucà «tutto il disappunto per il metodo seguito» visto che le audizioni prevedevano l'ascolto «dei diretti interessati al sistema delle politiche familiari, cioè le famiglie» mentre allargando a «realtà diverse», denuncia il Forum, si contribuisce «solo a perpetuare la confusione sul soggetto cui le politiche familiari si rivolgono».

Scontata la protesta di Grillini che accusa la Cdl di «razzismo». Per l'ex presidente di Arcigay «escludere dall'indagine conoscitiva sulla famiglia l'unica associazione nazionale che rappresenta le famiglie di fatto, comprese quelle dello stesso sesso, attesta la volontà della destra nostrana di escludere e discriminare con atteggiamenti al limiti del razzismo».

Ma Riccardo Pedrizzi, responsabile delle politiche della famiglia per Alleanza Nazionale, lo rintuzza: «È vero che il Parlamento deve ascoltare la società, è vero che bisogna dialogare con tutti, ma è anche vero che la Lega italiana delle famiglie di fatto rappresenta solo se stessa e che qui si tratta di un'indagine conoscitiva sulla famiglia. Che c'entra la Liff?». Il capogruppo Udc alla Camera, Luca Volontè, denuncia invece «la violazione degli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione. La maggioranza vogliano strumentalizzare e discriminare le famiglie italiane». Ma la maggioranza, nonostante le divisioni interne, sui Pacs non molla. Il ministro per le Pari Opportunità Barbara Pollastrini, critica il centrodestra e annuncia al più presto «norme per le coppie di fatto». (Il Giornale, 9/11/2006)

 


 

Eucaristia e Matrimonio: una breve catechesi

Pubblichiamo la relazione pronunciata l’8 ottobre scorso dal Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, in occasione del Convegno Diocesano di Pastorale Familiare sul tema "L’Eucaristia e la Famiglia, doni di Dio".

All’inizio delle celebrazioni del Congresso eucaristico diocesano è giusto e bello ritrovarsi assieme con le famiglie cristiane per meditare sul rapporto fra Eucarestia e Matrimonio.

1. Inizio da una riflessione sul sacramento del matrimonio. Penso che sia capitato a tutti, almeno qualche volta, di confrontare la bellezza di un volto colla bellezza di un altro, di un quadro o di una pagina musicale di un autore con la bellezza di una pagina musicale o di un quadro di un altro autore. E di pronunciare un giudizio del genere: è più bello, è meno bello questo di quello. È un’esperienza semplice, quasi banale. Tuttavia in essa è accaduto un evento spirituale di immensa grandezza. Dire e pensare un "più" e un "meno", istituire cioè una gradazione all’interno della stessa perfezione [la bellezza nel nostro caso] implica che si abbia la percezione almeno oscura di quella perfezione allo stato puro. Infatti ha senso dire e pensare un "più" e un "meno" solo in riferimento a qualcosa dello stesso genere realizzato in tutta la sua perfezione. Il rapporto che esiste fra ciò che è "più" o "meno" (bello) e ciò che è nella perfezione insuperabile si chiama partecipazione. Come dice la parola – prendere una parte – si tratta del fatto che il "più" e il "meno" prende parte di una perfezione che si comunica in gradazioni diverse. Si potrebbe esprimere lo stesso fatto con il concetto di "vicinanza" e "lontananza": se vuoi scaldarti, devi avvicinarti alla sorgente di calore. Più sei lontano, meno ti scaldi.

Questa riflessione ci aiuta a capire che cosa noi cristiani diciamo, quando diciamo che il matrimonio è un sacramento. Tenete ben presente nella vostra mente il concetto di partecipazione. C’è una gradazione nell’amore umano: sia in quello coniugale sia in quello di altro genere. Non c’è dubbio. Ed allora possiamo chiederci: esiste un amore umano perfetto? un amore cioè "di cui non se ne può pensare uno maggiore"? Oppure la perfezione nell’amore umano è come una sorta di orizzonte verso il quale si cammina ma non è mai raggiungibile? Ascoltiamo quanto ci dice Giovanni nel suo Vangelo: "Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" [13,1]. Il testo greco – sino alla fine – non ha solo significato cronologico, ma ontologico: li amò con un amore perfetto. Non si può amare più che Gesù. Sto parlando dell’amore umano di Gesù. Esiste quindi un amore umano perfetto.

Facciamo ora una breve premessa sui sacramenti in generale. Essi sono atti del Signore risorto compiuti mediante il ministro umano: non è il sacerdote x, y … che battezza, ma è Cristo stesso attraverso di Lui. Il contenuto dell’azione, ciò che Cristo compie mediante il ministro varia da sacramento a sacramento. Ed ora ritorniamo al nostro tema. È Cristo che mediante il ministro – i due sposi – celebra il sacramento del matrimonio: il sacramento del matrimonio è un atto di Cristo. Quale è il contenuto di questo sacramento? che cosa Cristo opera quando celebra il sacramento del matrimonio? Per rispondere a questa domanda correttamente dobbiamo tener conto del fatto che il matrimonio … non è stato inventato da Cristo. Mentre gli altri sacramenti sono stati interamente inventati da Cristo per cui per sapere ciò che Cristo compie in essi, devo interrogare esclusivamente la fede della Chiesa, nel caso del matrimonio devo sapere e conoscerne la verità anche mediante la ragione umana. Più concretamente: è ciò che fanno – intendono fare – i due sposi quando consentono di istituire fra loro il patto coniugale, che costituisce il sacramento del matrimonio.

Premesso questo, rifacciamoci la domanda che cosa fa Cristo quando mediante gli sposi celebra il sacramento del matrimonio? Rende partecipi gli sposi del suo stesso amore. Che cosa significhi in generale "essere partecipi di …" l’ho già spiegato. In che cosa consiste questa partecipazione? essa ha come due aspetti o livelli che non devono essere confusi.

Il primo. Ritorniamo per un momento alla … fonte: a Cristo che "ama i suoi sino alla fine". La Scrittura denota sicuramente la morte della croce. Ed infatti l’ultima parola di Gesù è stata: "tutto è compiuto" [Gv 19,30]. La stessa radice che la parola "sino alla fine". Orbene, secondo Ef 5, in quel momento si è definitivamente siglata l’alleanza eterna di Dio in Cristo con l’umanità lavata nel sangue, con la Chiesa. La perfezione dell’amore si esprime nella sua definitività; nel non "poter più riprender indietro se stesso": il sangue è stato effuso. Quando Cristo celebra il matrimonio, rende partecipi i due sposi della definitività insita nel suo amore. Istituisce fra essi un "vincolo" che li lega in un’appartenenza indistruttibile. Il dovere della fedeltà, la forma giuridica dell’indissolubilità sono conseguenze non l’essenza di questo vincolo. Gli sposi infatti possono essere infedeli; possono divorziare: ma il vincolo che li unisce l’uno all’altro permane più forte di ogni divisione. Esso è stato istituito da Cristo stesso.

Il secondo. Come dicevo poc’anzi, la sorgente ultima dell’eternità del vincolo che unisce Cristo con l’umanità-Chiesa, è il suo amore perfetto. Il dono è per sempre. Quando Cristo celebra il matrimonio, rende partecipi i due sposi della sua capacità di amare. E qui tocchiamo il "cuore" del matrimonio, in cui rifulge tutto lo splendore della sua dignità. Mediante il dono dello Spirito Santo che ha spinto Cristo a donarsi sulla Croce, gli sposi sono resi partecipi di questa stessa forza amorosa: questa partecipazione effusa nel cuore degli sposi è la carità coniugale. È questa l’operazione più preziosa compiuta da Cristo quando celebra il sacramento del matrimonio. Sono dunque questi i due livelli di partecipazione: il sacro vincolo coniugale; la carità coniugale. L’uno implica l’altro: il vincolo esige la carità coniugale ed è il titolo permanente ad ottenerla dallo Spirito Santo; la carità coniugale vivifica e dona forma compiuta al vincolo coniugale. Esso sussiste certo anche senza carità coniugale, ma è un "monstrum", questa situazione. Così come un sacerdote può esercitare il suo ministero sacerdotale senza la carità pastorale, ma è un "monstrum".

2. Penso che ora possiamo comprendere il rapporto che vige fra l’Eucarestia ed il Matrimonio. In sostanza, la necessità che la Chiesa ha di celebrare l’Eucarestia prende una particolare configurazione per gli sposi. La Chiesa viene fatta dall’Eucarestia. È mediante la celebrazione, non solo rituale ma intimamente partecipata [vedete: è sempre lo stesso concetto di "partecipazione"], che si costituisce la nuova ed eterna Alleanza. Amata da Cristo, la Chiesa riceve lo Spirito Santo che la rende capace di corrispondere. L’Eucarestia è veramente il banchetto nuziale dove si celebrano le nozze di Cristo colla Chiesa. Di questa alleanza gli sposi cristiani hanno ricevuto una speciale partecipazione nel sacramento del matrimonio e l’Eucarestia è la sorgente della grazia del loro stato coniugale. E ciò lo si può evincere da vari punti di vista, che ora vorrei brevemente presentarvi. In primo luogo, l’effetto proprio, specifico della partecipazione dell’Eucarestia è l’aumento della carità. Teologicamente questo significa che essa penetra sempre più profondamente nella persona così che questa diventa sempre più capace di amare. Più precisamente: l’Eucarestia rende la persona sempre più conforme a Cristo nello Spirito Santo.

Ma questo accade assumendo la forma coniugale: è la carità nella forma della coniugalità che è continuamente accresciuta dalla partecipazione all’Eucarestia da parte degli sposi. Cresce dunque in intensità la loro reciproca appartenenza; si intensifica il loro vincolo coniugale e la loro unione sponsale. Vengono sempre più attirati dentro all’amore di Cristo. L’Eucarestia ha anche un secondo effetto. Scrive S. Bonaventura: "L’Eucarestia fa che l’amore sia più ardente e l’amore, quando arde, aiuta a purificare la ruggine del peccato". Che cosa comporta questo per gli sposi? L’amore coniugale, come ogni amore umano, è un amore insidiato. Possiamo connotare tutte le insidie con una sola parola: la "concupiscenza". Essa è la ripresa di sé stesso dal dono fatto all’altro; è in sostanza una "riserva" messa sul dono di sé all’altro. Agostino scrive: "il nutrimento della carità è la diminuzione della concupiscenza; la perfezione, la sua assenza" [in LXXXIII quaest. q.36]. È effetto proprio dell’Eucarestia nel cuore degli sposi di liberarli da ciò che impedisce loro di amarsi perfettamente. È la partecipazione all’Eucarestia che scandisce l’itinerario degli sposi verso l’amore perfetto.

Ma tutta la tradizione della Chiesa insegna che l’efficacia dell’Eucarestia investe anche il corpo della persona. Questa tradizione ha un esplicito fondamento biblico, ed anche la liturgia cristiana attribuisce la risurrezione finale del nostro corpo all’Eucarestia. Mi sembra che questo insegnamento della Chiesa abbia un significato particolare per gli sposi. La dimensione fisica è essenziale all’amore coniugale, e l’unione delle persone è espressa e realizzata nell’unione anche fisica. Il corpo è il linguaggio della persona; è il linguaggio dell’amore coniugale. L’integrazione del corpo nella persona ne è pertanto condizione fondamentale. L’Eucarestia opera progressivamente negli sposi questa trasfigurazione del corpo, così come fa nel corpo dei vergini nel modo loro proprio. Come vedete partecipando all’Eucarestia con fede e devozione, tutta la persona degli sposi – spirito, psiche, corpo – viene trasfigurata e resa conforme al Cristo, perché trasformata in Lui che dona se stesso sulla Croce.

3. In questa terza parte della mia riflessione vorrei affrontare questioni più particolari, ma non meno importanti. L’approccio alla prima questione è costituito da un testo di Benedetto XVI. Dice il S. Padre: "per me rimane molto importante che nella Lettera di S. Paolo agli Efesini le nozze di Dio con l’umanità, tramite l’Incarnazione del Signore, si realizzino nella Croce, nella quale nasce la nuova umanità, la Chiesa. Il matrimonio cristiano nasce proprio in queste nozze divine … Così dobbiamo sempre imparare questo legame tra Croce e Risurrezione, tra Croce e bellezza della Redenzione" [Ai sacerdoti della diocesi di Albano, 31 agosto 2006]. La radicazione del matrimonio nell’evento della croce indica agli sposi come devono affrontare e vivere le loro eventuali crisi. Non raramente oggi si pensa che alle prime difficoltà più o meno serie sia meglio separarsi o perfino divorziare. Non è così. È attraverso la Croce che si giunge alla Risurrezione: proprio in questo modo l’amore coniugale si purifica e si intensifica.

Una seconda questione non è meno grave oggi: è la poca stima che si ha del matrimonio e dell’amore coniugale. È una sfida enorme. Sono ogni giorno più convinto che solo la testimonianza degli sposi in cui risplenda la bellezza dell’amore coniugale possa suscitare nel cuore dei giovani una profonda attrazione verso lo stato coniugale. E a questo punto innesto un’altra ed ultima questione. La riflessione sul rapporto Eucarestia e matrimonio è una porta principale d’ingresso nella verità e nella preziosità propria del matrimonio medesimo. Quanti, anche fra coloro che si sposano in Chiesa hanno questa percezione di fede? È un’opera di catechesi che ci aspetta e di cui la Chiesa ha immenso bisogno.

Concludo. Da ciò che ho detto risulta come il rapporto che la persona coniugata ha con l’Eucarestia è davvero singolare, in analogia alla singolarità che ha coll’Eucarestia il sacerdote. Attraverso questo rapporto possiamo entrare nel mistero più profondo della vicenda umana. Questa vicenda alla fine si risolve dentro al grande dramma dell’amore e quindi della libertà. Dio per liberare l’uomo si manifesta come amore che si dona, e lo fa facendosi uomo. Così rivela anche l’uomo a se stesso nella sua intera verità e libertà. Questo avvenimento è eucaristicamente sempre presente in questo mondo. Pertanto la celebrazione dell’Eucarestia è il punto in cui si concentra tutta la storia, e che sostiene tutta la realtà. E il segno visibile personale di ciò che accade quando celebriamo l’Eucarestia è il sacramento del matrimonio. (Zenit, 4 novembre 2006)

 

 

 


 

Perde quota nella Chiesa la filosofia di San Tommaso d’Aquino?

Tra le diverse novità che l'inizio del nuovo anno accademico nelle Università e negli Atenei Pontifici romani reca solitamente con sé vi è stata l'attivazione, nella Facoltà di Filosofia dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”, di un corso di specializzazione nel pensiero di San Tommaso d’Aquino.

A questo proposito, Zenit ha intervistato il filosofo Jesús Villagrasa, L.C., per conoscere qual è lo stato attuale della filosofia tomistica nella vita della Chiesa.

Padre Villagrasa è autore di un libro intitolato “Neotomismo e Suarezismo: Il confronto di Cornelio Fabro” (Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”, Roma 2006), che raccoglie gli Atti di una Giornata di Studi svoltasi lo scorso mese di novembre nello stesso Ateneo, in occasione della presentazione del quarto volume delle Opere complete del filosofo tomista italiano Cornelio Fabro, intitolato appunto “Neotomismo e Suarezismo” (Editrice del Verbo Incarnato, Segni 2005).

In cosa consiste l’attualità dello studio che lei ha appena pubblicato?

P. Villagrasa: L’attualità è propria delle perenni questioni filosofiche. Il libro di Fabro “Neotomismo e Suarezismo” è stato scritto nel 1951, nell’ambito di una polemica con Pierre Descoqs, un suareziano battagliero. La loro discussione riguardava alcune affermazioni filosofiche che un documento pubblicato dalla Sacra Congregazione degli Studi nel 1914 attribuiva al santo Tommaso di Aquino e che i seguaci di Francisco Suárez non condividevano. Questo documento del Vaticano, noto come “Le XXIV tesi tomistiche”, era una guida per i professori di filosofia dei seminari.

La Chiesa richiede l’insegnamento della filosofia di San Tommaso d’Aquino nei seminari?

P. Villagrasa: La richiedeva nel Codice di Diritto Canonico del 1917. Il Codice attuale, vigente dal 1983, riporta quasi testualmente il n. 15 del Decreto “Optatam totius” del Concilio Vaticano II che tratta degli studi filosofici dei seminaristi e, senza citare San Tommaso, richiede che questi si fondino sul “patrimonio filosofico perennemente valido”.

Da un’interpretazione oggettiva del n. 15 e delle sue note a piè di pagina, risulta che con questa espressione il Concilio ha voluto collocarsi in continuità con il precedente Magistero della Chiesa che raccomandava lo studio di San Tommaso d’Aquino come maestro di filosofia e di teologia.

Poiché alcuni padri conciliari pensarono che l’insegnamento della Chiesa cambiava in questa materia, è stato necessario chiarire prima della votazione che con questa espressione si intendeva la filosofia di San Tommaso. Per ragioni di opportunità non si è fatta menzione del suo nome nel testo perché alcuni padri conciliari non volevano far sembrare che San Tommaso fosse considerato come l’unico maestro nella Chiesa. Temevano una Chiesa intellettualmente chiusa al dialogo con il mondo.

Il Papa del rinascimento tomista, Leone XIII, chiedeva già alla fine del secolo XIX che San Tommaso venisse studiato nelle sue fonti e che venisse aperta la dottrina tomista ai problemi del tempo.

Queste sono, a mio avviso, le caratteristiche principali del tomismo autentico: studio serio e scientifico delle opere di San Tommaso nel suo contesto; apertura e dialogo agli altri pensatori del passato e contemporanei; riconoscimento del valore e dell’attualità di questo pensiero per i problemi del presente.

Se prima veniva richiesto e oggi no, si è verificato un cambiamento nel Magistero?

P. Villagrasa: Si potrebbe dire che vi è stato qualche cambiamento. Nei primi anni del secolo XX il Magistero insisteva sull’importanza della metafisica di San Tommaso. Questa continua ad essere considerata tale anche oggi, ma Giovanni Paolo II ha sottolineato l’importanza dell’insegnamento morale di San Tommaso ed ha invitato i tomisti a studiare il contributo del suo pensiero al dialogo interculturale e interreligioso.

Il cambiamento nella forma di proporre San Tommaso come “guida degli studi” non significa cambiarne la sostanza, ovvero apprezzare e raccomandare lo studio del suo pensiero. Il Concilio Vaticano II e gli ultimi Papi hanno preferito non insistere sull’aspetto vincolante delle indicazioni su San Tommaso.

Giovanni Paolo II l’ha detto molto chiaramente: oggi la Chiesa non ricorre a direttive di indole giuridica, ma confida nella maturità e saggezza degli alunni e dei professori. D’altra parte, la continuità del Magistero della Chiesa nel raccomandare San Tommaso è impressionante. Basti leggere i capitoli IV e V dell’Enciclica “Fides et Ratio”.

Altra questione è che questo Magistero abbia incontrato opposizioni, sin dai tempi di Leone XIII. È triste che un Papa debba affermare che, se il Magistero ha dovuto ribadire in diverse circostanze il valore del pensiero di San Tommaso, “ciò è dipeso dal fatto che le direttive del Magistero non sono state sempre osservate con la desiderabile disponibilità” (Fides et Ratio, n. 61).

Si dice che il nuovo Pontefice sia più “agostiniano” che “tomista”. San Tommaso avrà un’importanza minore nella Chiesa?

P. Villagrasa: Il Papa Benedetto XVI professa, sin dagli anni in cui era studente, una grande stima per il pensiero fresco e vitale di Sant’Agostino. Come Vescovo ammirava la generosità di questo santo che ha rinunciato alla vita di studio per darsi con tutto il cuore ai suoi doveri pastorali.

D’altra parte, egli stesso ha detto che nei suoi anni di studio ha conosciuto l’impenetrabile tomismo della neoscolastica. Ma l’arido tomismo della neoscolastica non è il pensiero originale di San Tommaso. Anche Karol Wojtyla, che professava una grande stima per l’opera di San Tommaso d’Aquino, ha dovuto battagliare quando era seminarista con l’aridità della metafisica neoscolastica. Inoltre, i gusti personali di un teologo o di un Papa non sono il Magistero del suo pontificato.

Però, di fatto, nella sua Enciclica “Deus caritas est”, il Papa cita Sant’Agostino e non cita San Tommaso d’Aquino...

P. Villagrasa: Non è il caso di arrivare a conclusioni affrettate su questo. Una caratteristica del pensatore Joseph Ratzinger è la consapevolezza del fatto che né il teologo né il pastore creano la verità, ma si mettono al servizio di essa.

Entrambi pensano, parlano e agiscono nella fede e nella vita della Chiesa. Nel soggetto vivo della Chiesa sussiste una continuità. Da Papa Leone XIII ai nostri giorni, tutti i Papi, con toni e circostanze diverse, hanno raccomandato San Tommaso d’Aquino come modello del filosofo e del teologo.

Gli interventi principali sono contenuti nelle Encicliche “Aeterni Patris” di Leone XIII, “Studiorum Ducem” di Pio XI, “Fides et Ratio” di Giovanni Paolo II e nella Lettera apostolica “Lumen Ecclesiae” di Paolo VI. Fino ad oggi, gli interventi del Papa Benedetto XVI in questa materia sono stati brevi ma significativi.

Nell’Angelus del 29 gennaio 2006, quello precedente la pubblicazione della sua Enciclica, egli ha citato alcuni santi “testimoni privilegiati” del primato dell’amore, e tra questi ha citato San Tommaso d’Aquino come “il modello del teologo cattolico, che incontra in Cristo la suprema sintesi della verità e dell'amore”.

Nella sua visita all’Università del Sacro Cuore, lo scorso mese di dicembre, il Papa ha posto San Tommaso come esempio di dialogo tra fede e ragione. Il 6 ottobre, invece, nell’omelia rivolta alla Commissione Teologica Internazionale, riunita in Vaticano per la Sessione plenaria annuale, ha citato San Tommaso per due aspetti: la sua idea sulla natura della teologia e il suo esempio di teologo contemplativo.

Come vede gli studi tomistici oggi?

P. Villagrasa: Un’istituzione fondamentale come la Pontificia Accademia di San Tommaso, è stata rinnovata con nuovi statuti da Papa Giovanni Paolo II. In molti Paesi vi sono studiosi giovani e validi che ruotano intorno alla Società internazionale Tommaso d’Aquino. Poi vi è l’ICUSTA (International Council of Universities of Saint Thomas Aquinas) che si sta sviluppando notevolmente.

Nell’ultimo decennio si sono moltiplicate le traduzioni delle opere di San Tommaso in diverse lingue. Un altra iniziativa è la recente apertura del corso di specializzazione nel pensiero di San Tommaso d’Aquino presso la Facoltà di filosofia dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”.

Penso che la vitalità di queste istituzioni ed iniziative, e più in generale del tomismo, dipenderà dalla serietà con cui questo Santo verrà studiato nelle sue fonti e dall’apertura della sua dottrina ai problemi del presente.

 

 

 


 

 

DOMENICA 05 NOVEMBRE 2006

  

L’intervento: Se la sinistra invidia i «teocon»

L'incontro della Cei a Verona ha avuto una prevalente lettura di "destra". In particolare per la frase di Benedetto XVI che sollecita la Chiesa a collaborare con quanti, pur non credenti, riconoscano l'importanza del messaggio cristiano nelle nostre società. Trovo questa lettura incomprensibile. Nella cultura progressista non esistono forse figure che abbiano queste caratteristiche? Credo di sì, e penso che si farebbe un regalo alla destra - ad una destra che spesso vuole ridurre il cristianesimo a ideologia - se accettassimo la categoria dei cosiddetti atei devoti come destinataria esclusiva dell'invito del Papa. Non dovremmo in questo caso prendercela con Benedetto XVI ma con noi stessi, perché si possono non condividere alcuni approcci, ma se la cultura laico-progressista rinunciasse a confrontarsi con il cattolicesimo, più in generale con il pensiero religioso, dimostrerebbe insensibilità rispetto alle domande sul senso della vita che rinascono nel nostro tempo. Anche per questo tanta parte del mondo di sinistra non dovrebbe cadere nell'errore di presentare questo Papa come il rifondatore di una Chiesa medievale. Non vederne i punti di innovazione, è sbagliato. Quello cui siamo chiamati è l'impegno a costruire una società post-secolare, nella quale credenti e non credenti, insieme, scoprano il dialogo come mezzo per realizzarla e per realizzare se stessi.

In Occidente rischia di prevalere un pensiero unico, che vuole imporsi al mondo. Il pensiero che fa del denaro, del potere, del mercato le nuove divinità del Terzo millennio. Il Papa denuncia principalmente l'idea che «soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali». Sono due facce della stessa medaglia. È vero che le culture del resto del mondo, non solo quelle profondamente religiose, vivono questo modo di porsi dell'Occidente come un «attacco alle loro convinzioni più intime». Il Papa dice che occorre il «coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, no n il rifiuto della sua grandezza», per impostare un dialogo tra culture e fedi religiose. Il coraggio di un Occidente che sappia porre al centro il primato della persona, dei suoi diritti, della sua dignità. Non imponendo una visione religiosa del suo destino, ma neppure considerando residui del passato chi in essa voglia avvertire anche i segni di una trascendenza. Questo vuol dire non imporre con la violenza o col braccio dello Stato uno spazio per il sacro, ma neppure bandirlo o al massimo concederlo come diritto di culto.

Ho riletto il discorso di Benedetto XVI all'Università di Ratisbona. È percorso dalla riaffermazione del rapporto tra fede e ragione. Si badi bene, del rapporto reciproco, non della subordinazione dell'una all'altra. Sulla base di questa impostazione Papa Ratzinger esprime critiche non solo nei confronti di alcune tendenze della religione musulmana ma anche di orientamenti presenti nel cattolicesimo.

Per questo mi pare importante per tutti i laici l'affermazione del Papa: «Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi…» ma il Dio veramente divino è quello che si è mostrato come «ragione e parola». Partendo da qui vorrei porre alcune questioni a noi laici, laici senza aggettivi e dunque credenti o meno.

Non sono convinto di alcune letture del discorso di Ratisbona fatte nel versante laico-progressista. È questione che non riguarda i laici che un Papa oggi affermi la necessità dell'incontro «tra autentico illuminismo e ragione»? Che rifiuti per ogni religione «la conversione mediante violenza», fondandola sul principio che «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio»?

Benedetto XVI pone a noi una questione e una sfida: le fedi religiose hanno una dimensione pubblica, non possono più essere chiuse nella sfera privata. Pone questo tema guardando avanti, alla costruzione di un nuovo umanesimo. Sono convinto che la laicità oggi debba rinnovarsi assumendo la legittimità di uno spazio pubblico per la religio ne. Naturalmente tutto ciò presuppone alcuni punti fermi. La dimensione pubblica non è retta da verità assolute, da dottrine di fede che possano pretendere di imporsi con il braccio dello Stato. La sfera pubblica si fonda su due cardini: il principio di maggioranza e quello dei diritti inalienabili delle minoranze culturali o religiose. Il Papa però pone un problema di grande respiro, che interroga l'Occidente nel cuore della sua cultura. Riguarda la nostra visione della scienza, ma prima ancora quel nostro riconoscimento di un'unica verità possibile: quella fondata sul metodo empirico-sperimentale. Al di fuori di esso poco più che superstizioni.

Qui il filo del ragionamento si ricollega a quanto nel 2004 aveva sostenuto l'allora cardinale Ratzinger nel dialogo con il filosofo Habermas all'Accademia cattolica di Monaco. Anche allora aveva definito patologie della religione il fondamentalismo, l'esistenza di organizzazioni che praticano violenza e terrorismo; patologie della ragione la costruzione di armi di distruzione o di tecnologie che possono sfuggire al controllo dell'uomo. Mi pare convincente quella comune conclusione con Habermas di un «apprendimento complementare» tra ragione e religione: «Hanno bisogno l'una dell'altra e devono riconoscersi l'una con l'altra». Mi pare significativa la consapevolezza dell'allora cardinale Ratzinger sul «limite» del ruolo dell'Occidente nel nostro tempo: le due protagoniste fondamentali della cultura occidentale, la ragione secolare e la ragione credente, non sono le sole voci del mondo. Né la religione cristiana né la razionalità occidentale sono esperienze universali. Non esiste oggi una formula razionale o etica o religiosa capace di riunire tutti gli uomini. Per questo, sottolineava Ratzinger, la «mutua correlazione» deve saper diventare una «correlazione polifonica».

Non voglio dire che tra una cultura laico-progressista e la Chiesa di Benedetto XVI non esistano differenze. Penso che sul ruolo della donna, nella socie tà e nelle istituzioni religiose, sulla scienza, o anche sulla pienezza del ruolo dei laici nella Chiesa esistano sensibilità e linguaggi diversi. Ma non è impraticabile un dialogo convinto e rispettoso.

So bene che la strada di un nuovo incontro tra fede e ragione è difficile, ma è anche l'unica giusta per chi non voglia rassegnarsi a perdere il futuro. (Vannino Chiti, Ministro per i Rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali, Avvenire, 3 novembre 2006)

 


 

La replica: Ma sull'etica vince sempre il laicismo scientista

Il ministro Vannino Chiti polemizza con la stampa che ha dato un'interpretazione unidirezionale del messaggio del Pontefice a Verona, e su questo punto non si può che dargli ragione. È del tutto ovvio che Benedetto XVI, nel parlare di collaborazione con quanti, pur non credenti, riconoscono l'importanza del messaggio cristiano, non abbia posto alcuno steccato, tanto meno di carattere politico. In quello stesso discorso, peraltro, era evidente l'affermazione che non spetta alla Chiesa indicare le specifiche vie politiche che debbono essere seguite, anche dai credenti, per la promozione della società umana. Un po' meno persuasiva, invece, appare la contrapposizione se non altro un po' spicciativa tra «una destra che spesso vuole ridurre il cristianesimo a ideologia» e una cultura che Chiti definisce «laico-progressista» presentata come l'unica con le carte in regola per un dialogo fecondo con la Chiesa. Chi non vuole essere emarginato da steccati non dovrebbe costruirne. Il terreno di incontro tra sensibilità religiosa e laico-progressista è, per Chiti, l'impegno a costruire la «società post-secolare». Il termine impiegato, suggestivo più che esplicativo, pare suggerire che il processo di secolarizzazione avviato dall'Illuminismo si sia concluso. Chiti esprime anche la convinzione che il «pensero unico» che fa del mercato l'unica misura di valore non sia che l'altra faccia della medaglia della presunzione di esclusività delle culture di origine positivista, della paradossale assolutizzazione del relativismo. Si tratta di premesse assai incoraggianti, delle quali però è difficile scorgere qualche conseguenza nel comportamento concreto dei laico-progressisti, almeno finora. In Italia c'è stato e c'è un confronto serrato su questioni eticamante sensibili, e su queste, quasi invariabilmente, i laico-progressisti hanno mostrato più attenzione per le sirene laiciste e scientiste che per gli orientamenti cattolici. I cosiddetti atei devoti sono convinti, come il ministro per i Rapporti con il Parlamento, che vi sia una distanza pericolosa tra le potenzialità offerte dallo sviluppo scientifico e tecnologico e la capacità di dominarle e di ricondurle a una dimensione umana da parte della coscienza pubblica e dell'agire politico. Ne hanno tratto la conseguenza della necessità di difendere l'unicità e la dignità della vita rispetto ai rischi di manipolazione genetica o neurologica, temi sui quali invece i laico-progressisti hanno scelto un'altra strada, per esempio raccogliendo le firme e poi sostenendo l'appoggio ai referendum contro la regolamentazione della fecondazione assistita. In queste diverse scelte non c'è una strumentalità ideologica, c'è la differenza tra un sì e un no. Successivamente, nonostante il fallimento dell'iniziativa referendaria, di fronte al problema della possibilità di utilizzare staminali embrionali nella ricerca finanziata dall'Unione europea, si è riprodotta la stessa divisione. Si tratta di questioni ancora aperte e reali, sulle quali i laico-progressisti restano quantomeno afasici. Chiti indica invece altri temi di dissenso tra «la cultura laico-progressista e la Chiesa di Benedetto XVI», che riguardano soprattutto temi come «il ruolo della donna, nella società e nelle istituzioni religiose» o la «pienezza del ruolo dei laici nella Chiesa». Temi senza dubbio rilevanti, ma sui quali, per il loro carattere interno all'ordinamento ecclesiastico, l'intervento di una parte politica appare del tutto improprio, al punto da rappresentare una vera e propria «intromissione». (Sergio Soave, Avvenire, 3 novembre 2006)

 


 

Conclusioni dell'IV Congresso Internazionale di Bioetica, Dignità Umana e Bene Comune.

“Non è possibile favorire, o nemmeno rispettare, il bene comune, senza mettere nel centro dell’interesse, delle preoccupazioni e delle decisioni di tutti, specialmente delle autorità pubbliche, il valore e la dignità sublimi di ogni persona umana”: è quanto si afferma nelle conclusioni del IV Congresso Internazionale di Bioetica, Dignità Umana e Bene Comune che si è celebrato il 27-28 ottobre a Cordova (Spagna) organizzato dalla Federazione Internazionale di Bioetica Personalista (FIBIP). I lavori del Congresso si sono incentrati sulla relazione tra dignità della persona umana ed il bene comune, dalla prospettiva del bioetica.

Come si legge nel testo delle dichiarazioni conclusive, rimangono ancora molti i compiti pendenti ed urgenti nel riconoscimento del bene comune soprattutto perché “nella nostra cultura sembra sempre di più difficile sapere che cosa il bene ed è più arduo compromettersi affinché questo sia comune”. Inoltre il relativismo morale, l'incertezza attuale sui fondamenti della dignità umana, l'individualismo ed edonismo regnanti “ostacolano la ricerca generosa degli interessi comuni”.

“La persona umana è degna di rispetto assoluto - continua il messaggio finale del Congresso - per il solo fatto di essere persona, cioè, per il fatto di essere un membro della famiglia umana. La dignità della persona non si attribuisce, si riconosce; non si concede, si rispetta. È scritta nell'interno stesso di ogni essere umano”. In questo senso uno dei compiti ancora da fare, è “la distinzione discriminatoria tra gli esseri umani già nati ed quelli ancora per nascere”. Come si legge nel testo, si deve respingersi la strumentalizzazione distruttiva di esseri umani allo stato embrionale, perché “il bene comune fondamentale esige anche che non si falsifichi la realtà scientifica, facendo credere all'opinione pubblica che le cellule staminali embrionali possono già curare malattie”, quando la realtà è molto diversa.

Il Messaggio termina con l’impegno della FIBIC “a favore del bene comune, centrato nel bene di ogni persona umana” e l'invito alla comunità sociale e specialmente ai responsabili della cosa pubblica a fare proprio questo impegno.

Durante il Congresso sono state affrontate, tra le altre questioni, la situazione attuale dei paesi del terzo mondo ed il suo accesso alle risorse sanitarie disponibili, le prospettive del Bene Comune con speciale attenzione a chiarificare i concetti di dignità, persona e bene comune negli ambiti teorici e pratici relazionati con la Bioetica, e le sfide morali esposte nella ricerca farmaceutica attuale. (Agenzia Fides, 30/10/2006)

 


 

Omaggio a San Benedetto da Norcia

Uno degli elementi che ha maggiormente colpito l’opinione pubblica internazionale, all’elezione alla cattedra di Pietro di Joseph Ratzinger, è stato la scelta del nome: Benedetto XVI. I commenti, a ridosso dell’evento, si sono moltiplicati, non sempre in modo opportuno e sufficientemente fondato. Con una certa distanza temporale è, forse, oggi possibile una più autentica e radicata lettura di quella scelta.

Prima di ogni, pur legittimo, riferimento ai Suoi Predecessori, Benedetto XVI ha voluto ispirarsi a quel gigante di Santità, dottrina, cultura e pietà che è San Benedetto da Norcia. Senza scadere in letture di tipo eurocentrico, è tuttavia fuori dubbio che San Benedetto sia stato il Padre dell’Europa e, con essa, il padre della Civiltà occidentale. Una paternità costruita con due mezzi semplicissimi, che oggi lascerebbero sconcertati la maggior parte degli intellettuali: la preghiera ed il lavoro.

Riconoscendo Cristo come centro assoluto della propria esistenza personale, san Benedetto è divenuto figura di sicuro fascino per i suoi contemporanei e lo Spirito ha creato intorno a lui uno straordinario movimento di uomini che hanno cambiato il volto dell’Europa e del mondo.

L’aspetto cristocentrico è la prima caratteristica benedettina che ritroviamo nelle intenzioni, nel Magistero e nell’Opera di Benedetto XVI: Cristo è il centro della storia, il centro della vita della Chiesa, che ne è il Corpo mistico, quindi presenza divina nel mondo; Cristo è il centro della vita di ogni uomo, poiché solo alla luce della Rivelazione l’uomo comprende se stesso e non rimane un enigma insoluto; Cristo è, ancora, il centro della concreta esperienza esistenziale di ciascuno, quando essa non si riduce a vaga spiritualità o ad appiattimento in opere sociali, immemori della propria origine. Cristo al centro non solo a parole, ma nella concreta esperienza di ciascuno, come fondamento delle scelte dei singoli, delle comunità, delle Chiese: Cristo come unico fondamento normativo della morale, perché vissuto non come un lontano ricordo, seppur bello, ma come presenza viva del Risorto oggi in mezzo a noi.

La preghiera, l’ORA benedettino, è il primo grande pilastro della costruzione della civiltà cristiana. Benedetto XVI sta con insistenza indicando a tutta la Chiesa ed all’umanità intera il primato della preghiera sull’agire dell’uomo: “È venuto il momento di riaffermare l'importanza della preghiera di fronte all'attivismo e all'incombente secolarismo di molti cristiani” (Deus Caritas est n. 37). Un uomo che non prega è “meno uomo”, perché incapace di stare nella posizione originaria che caratterizza la creatura rispetto al Creatore: quella del mendicante. La preghiera non è una fuga dalla realtà, un rifugio o solo una consolazione spirituale: la preghiera è il primo indispensabile elemento di una corretta antropologia in cui l’uomo non s’illuda di essere autore di se stesso e del cosmo, ma riconosca realisticamente, quindi umilmente, il proprio limite, sapendolo amato e superato dalla misericordia del Signore: facendo quindi esperienza dell’Amore.

Una Chiesa tutta protesa sul mondo ma distratta da Dio, non potrebbe sopravvivere e non sarebbe assolutamente credibile: fonte della credibilità è la fede professata personalmente e pubblicamente, e vissuta nella quotidianità dell’esperienza.

La liturgia è il gesto principale attraverso il quale il Signore incontra la Sua Chiesa e la Chiesa riconosce il suo Signore. La liturgia intesa non come autocelebrazione dell’opera umana o dello spirito comunitario, ma come adorazione dell’uomo verso Dio, adorazione attraverso la quale è possibile un contatto, un’esperienza autentica, in senso sacramentale, con il Santo dei Santi. Solo una tale esperienza è capace di fondare l’intera esistenza dell’uomo, dando forza e sostegno al suo stesso agire nel mondo. Lo stesso ammonimento di Benedetto XVI a rifuggire ogni forma di attivismo che, inevitabilmente, conduca ad una mentalità secolarizzata, è da leggere in questa direzione.

Il secondo insostituibile pilastro di San Benedetto è il LABORA. Quale reale significato ha l’agire umano? Nella stessa esperienza umana di Joseph Ratzinger è possibile scorgere una straordinaria dedizione al lavoro ed il suo straordinario contributo intellettuale alla cultura dell’umanità nel nostro tempo, è ancora tutto da comprendere e recepire. Il lavoro, che preferiamo interpretare come “opera”, è parte integrante del progetto creaturale di Dio. Nel “facciamo l’uomo a nostra Immagine e Somiglianza” è inclusa la dimensione dell’opera che è capace di trasformare sia l’io che la compie sia la realtà.

San Benedetto, con la sua opera, ha trasformato il mondo in cui viveva. Egli non ha escluso nessuna dimensione autenticamente umana dal suo agire: i monasteri sono vera e propria “fonte di civiltà” attorno alla quale tutta una vita prende forma innanzitutto dal punto di vista spirituale e di formazione dottrinale, poi sia a livello culturale sia a livello economico sociale, essi rappresentano una vera e propria “rivoluzione cristiana” che è anche un grande processo di umanizzazione.

Benedetto XVI invita tutta la Chiesa a riprendere pienamente coscienza dello straordinario compito che Cristo le ha assegnato: essere sua presenza nel mondo e per questo non smettere mai d’essere missionaria. La missione non è una dimensione della Chiesa, ma è la sua stessa Natura ontologica: la Chiesa non è più tale se non annuncia Cristo, se non evangelizza, se non genera figli e figlie, se non costruisce coraggiosamente la civiltà degli uomini, guardando alla città di Dio.

La disciplina, che deriva dall’essere discepoli, è caratteristica essenziale della regola benedettina, e deve essere l’elemento proprio di ogni cristiano, uomo o donna, laico o chierico, sacerdote o vescovo, monaco o cardinale: tutti discepoli di Cristo e perciò disposti alla sequela ed all’obbedienza piena e cordiale, senza se e senza ma, perché affascinati e rapiti dall’unico Signore della nostra libertà: Gesù Cristo Risorto.

Riandare a san Benedetto è così un grande aiuto per comprendere le ragioni di una scelta ed i frutti che il prezioso Magistero di Benedetto XVI sta portando e porterà per tutta la Chiesa e, conseguentemente, per il mondo. La rilettura della breve regola del Santo di Norcia, potrebbe essere una buona chiave ermeneutica per comprendere il pensiero di Benedetto XVI. (S.V.) (Agenzia Fides 30/10/2006)

 


 

 Benedetto XVI e gli «atei devoti»: per i gesuiti non c'è alleanza politica, ma il rallegrarsi del pastore

Nel discorso tenuto da Benedetto XVI giovedì 19 ottobre al Convegno ecclesiale di Verona non è mancata, secondo «Civiltà Cattolica», un'allusione ai «cosiddetti "teocon" o "atei devoti"», cioè ai «credenti non praticanti o non credenti i quali ritengono che vadano salvaguardate le radici cristiane della società italiana, pur non appartenendo essi alla comunità ecclesiale». A tale proposito, in un editoriale la rivista dei gesuiti sottolinea il passo in cui il Papa, ricordando come venga avvertita «la gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà», spiega che tale sensazione «viene formulata espressamente e con forza da parte di molti e importanti uomini di cultura, anche tra coloro che non condividono o almeno non praticano la nostra fede». Secondo «Civiltà Cattolica», comunque, in tale affermazione di Benedetto XVI «non c'è alcuna implicazione di carattere politico, né la riduzione del cristianesimo a semplice ragione civile, ma soltanto la preoccupazion e del pastore che non può non rallegrarsi se al di fuori della Chiesa nascono posizioni comuni a quelle della tradizione cristiana, per il bene delle persone». In un articolo a firma di padre Giandomenico Mucci, inoltre, «Civiltà Cattolica» passa in rassegna lo scontro intellettuale in atto tra i fautori del «neolaicismo tenero» (coloro che non sono «pregiudizialmente chiusi nel dogma laicista») e i «campioni del laicismo puro e duro». E qui emerge l'apprezzamento per posizioni come quelle assunte da Giiuliano Amato, Francesco Rutelli o Marcello Pera. «Il fenomeno del neolaicismo tenero - scrive Mucci - sembra convalidare la posizione cattolica che non scorge pericoli per la fede negli argomenti della ragione e si attende, anzi, molto dalla ragione quando il suo esercizio non è pregiudizialmente chiuso e avverso al mistero del trascendente». (Avvenire, 3 novembre 2006)

 


 

Ragazze spericolate e anticonformiste: il fascino della clausura, l’avventura di Dio…

I mass media trasformano ogni piccola scemenza in una tendenza, ogni stravaganza finto-trasgressiva in una moda, ogni sgallettata che appare in tv in un “evento” da immortalare. Ma non si sono accorti di un fenomeno che – questo sì – è l’unico veramente trasgressivo e anticonfomista: l’aumento delle giovani ragazze che scelgono la clausura. Anche la televisione – dovendo riempire ore del palinsesto per propagare le “eroiche” gesta dell’Isola dei famosi, così da rincoglionire il pubblico sotto tonnellate di Nulla – sta alla larga da questo eroismo autentico e da questo sorprendente amore.

I dati sono semplici. Fra il 2004 e il 2005, in Italia, sono aumentate di 300 unità le vocazioni claustrali. Trecento giovani ragazze italiane, spesso laureate, del tutto normali, figlie del loro tempo (discoteche comprese), che si sono “innamorate” così e hanno lasciato tutto, proprio tutto, scegliendo le quattro mura di una clausura e una vita di totale povertà, silenzio e preghiera, per questo Amore.

Complessivamente le professe solenni sono 6.672 (anche i monasteri sono passati da 524 a 533). Ed è una fioritura non solo italiana. Sempre nel periodo 2004-2005 le claustrali nel mondo sono aumentate di 1.147 unità, arrivando a 47. 626 (a cui vanno aggiunte 8.107 ragazze in periodo di formazione). Curiosamente sono le laicissime Spagna e Francia che, con l’Italia, hanno il maggior numero di vocazioni di questo tipo. Queste stupende avventuriere innamorate, sono figlie di una generazione che non conosce più la carezza di Dio, la compagnia forte e dolce dell’Eterno. Facevano parte di una generazione consumata dal desiderio di qualcosa a cui non sa dare un nome, del senso della vita che non sa trovare. Vengono in mente le antiche parole del profeta biblico Amos: “Ecco stanno per venire dei giorni/ nei quali manderò la mia fame sopra la terra:/ non una fame di pane, non una sete d’acqua,/ ma fame e sete di udire la Parola di Dio./ Ed essi andranno errando da un mare all’altro,/ e dal Settentrione all’Oriente;/ ed andranno qua e là cercando la parola di Dio/ e non la troveranno./ In quei giorni saranno sfiniti per la sete/ le fanciulle e i giovani” (VIII, 11-13).

Ma c’è chi ha la fortuna di trovare. Anzi di essere trovato. Come ha detto ad una cronista di Avvenire suor Maria Eliana del Carmelo di Carpineto Romano: “non pensavo al Signore, ma Lui, nel suo amore, ha pensato a me e si è fatto presente”. Racconta: “non ho mai pensato di farmi suora. Tanto meno monaca di clausura. Sono nata a Rimini e ho vissuto per 19 anni a Cattolica, perciò non mancava il modo di divertirsi”. Alla maniera di tutti: “la mia vita era come quella di tanti giovani: mare, discoteca, uscite con gli amici…”. Poi è arrivato il grande amore: “Mi sono sentita amata da Lui e questo amore mi ha toccato il cuore”.

Mi è capitato di visitare un monastero di clausura umbro, di clarisse. Ne sono uscito abbagliato. Ho parlato con quattro suore: due erano sull’ottantina, stavano lì dentro da 50 anni. Ma io non ho mai conosciuto persone più ilari, vitali, dolci, piene perfino di buonumore. Poi ho parlato con due nuove clarisse: sui 25-26 anni. Ero stupito dai loro volti e dai loro occhi. Avrei voluto avere una telecamera per fare loro un primo piano stretto mentre parlavano. Vi assicuro che chiunque rimarrebbe colpito. Non era solo la consueta bellezza di due giovani donne. Era, la loro, una bellezza speciale, piena di luce, perché soprattutto erano felici. Parlando con semplicità delle cose normali della loro vita trasmettevano dolcezza e bontà. Loro che avevano rinunciato a tutto, anche alla loro giovinezza e vivevano totalmente povere dietro quella grata, mi sembravano possedere tutto. Soprattutto la pace che noi non conosciamo. Pur portando davanti al trono di Dio, ogni ora, tutti i dolori e le sofferenze del mondo che affluiscono fra queste mura.

E’ il fascino di questa ricchezza, di questa Bellezza sconosciuta a tutti noi che viviamo nel mondo, che sta dietro il successo del film “Il grande silenzio”. Non si ha la sensazione di persone che abbiano perduto qualcosa o rinunciato a qualcosa, ma piuttosto di donne e uomini che possiedono ciò che noi affannosamente cerchiamo e la cui mancanza ci sfianca e ci addolora. Il vero deserto, quello dove si muore di sete, è nei nostri cuori sazi e disperati e non certo in quei chiostri silenziosi, simili piuttosto a oasi verdi e fresche. Ciò che il mondo chiama “felicità” è dissipazione che lascia solo la cenere di un fuoco troppo fatuo. L’insoddisfazione perenne accompagna gli umani. Da sempre. Ciò che dappertutto è ricerca agitata e nervosa lì, in quei chiostri, è gioia dell’abbandono. Ciò che dovunque è convulsa corsa al possesso del nulla lì è godimento di Dio, l’Eterno per cui siamo fatti.

E’ letteralmente una cosa dell’altro mondo. Un altro mondo dentro il nostro mondo. Dove la verginità significa amore totale e trasfigurazione della propria stessa carne, “divinizzazione”, come dicono i padri della Chiesa orientale che sanno ben riconoscere l’aureola nel volto luminoso degli uomini di Dio. Il cardinal Ruini, concludendo il convegno di Verona, ha sottolineato questo “boom” delle vocazioni alla clausura, ma forse anche la Chiesa dovrebbe rifletterci. Perché gli istituti religiosi in genere hanno crisi di vocazioni mentre la clausura attrae? Non sarà che troppo spesso i religiosi sono stati trasformati in assistenti sociali o attivisti? Non sarà che il “fare” prevale sul “mendicare” e sull’adorazione amorosa? Non sarà che in troppi ordini religiosi – per dire – i superiori hanno sostituito il Buon Samaritano che guarisce (che è Cristo) con psicologi e psicanalisti?

Si potrebbe imparare qualcosa da questo fatto se si ascoltasse finalmente il Papa. Nelle sue parole pronunciate a Verona c’è tutto. C’è innanzitutto la passione per Gesù Cristo. Che è tutto. E che basta alla vita. S. Agostino, che aveva vissuto una giovinezza dissipata (in un modo simile alla nostra epoca erotomane e intellettualistica), ha descritto meglio di chiunque altro questo innamoramento di Cristo, la Bellezza fatta carne: “Tardi ti ho amato, o Bellezza sempre antica e sempre nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo ed io nella mia deformità mi gettavo sulle cose ben fatte che tu avevi creato. Tu eri con me ed io non ero con te. Quelle bellezze esteriori mi tenevano lontano da te e tuttavia se esse non fossero state in te non sarebbero affatto esistite. Tu mi hai chiamato e hai squarciato la mia sordità; tu hai brillato su di me e hai dissipato la mia cecità. Tu hai emanato la tua fragranza e io ho sentito il tuo profumo e ora ti bramo. Ho gustato e ora ho fame e sete. Tu mi hai toccato e io bramo la tua pace”. (Antonio Socci, Lo Straniero, 2 novembre 2006)

 

 


 

DOMENICA 29 OTTOBRE 2006

 

Il caso «pietoso», un metodo spuntato: alla ribalta una coppia sterile portatrice di talassemia

Sono piovute numerose le critiche alla decisione della Consulta di difendere la legge 40, e tutte centrate sulla vicenda - che in verità suscita pena - di una coppia sarda "sterile" e al tempo stesso portatrice di talassemia. In attesa della pubblicazione della sentenza, abbiamo però avuto una importante conferma: non esiste il «diritto al figlio sano» cui essi si erano appellati. Si tratta, come nel caso Welby, di un tentativo di cambiare la legge - stavolta addirittura una legge confermata da un referendum - facendo appello alla compassione che provoca il dolore di due persone, e in particolare dell'aspirante madre. Il solito ricorso al «caso pietoso» che porta a identificarsi con le vicende particolari e dolorose di una persona e induce, sull'onda emotiva, a considerare «cattivo» chiunque non si presti a cancellare al più presto questa sofferenza. Una situazione che offre, su un piatto d'argento, ai politici di entrambi gli schieramenti l'occasione di mostrarsi buoni e compassionevoli. Pochi sono coloro che protestano per il fatto che una questione di principio sia stata manipolata fino a sembrare il rifiuto alla compassione verso una donna sofferente. Si tratta in realtà del dramma morale che sopravviene quando si passa dal rapporto umano fra noi e l'Altro a un ambito allargato, normativo, quando si passa cioè dalla responsabilità per un «altro uomo in quanto tale» - per dirla con le parole di Lévinas - a un «senza volto». Fra i due passaggi interviene la ragione che fa passare dall'unicità, così fondamentale per il rapporto morale, alla giustizia cioè al «giudizio, e quindi l'oggettività, l'oggettivazione, la tematizzazione, la sintesi». In sostanza - ed è sempre Lévinas che parla - l'idea della giustizia nasce dall'incontro tra l'esperienza dell'unicità e l'esperienza della molteplicità degli altri e quindi delle regole che devono governarli. L'impulso morale e compassionevole, autorevole e autosufficiente nell'ambito della morale a due si rivela invece una misera guida appena oltrepassa i propri confini. Un atto di compassione per questa donna significa infatti, in realtà, aprire la porta alla selezione eugenetica degli embrioni, e quindi a trasformare in modo irrevocabile la nostra società e la nostra visione dell'uomo. Significa convalidare l'idea che ci sia una vita «non degna di essere vissuta» cioè quella dei bambini portatrici di malattie genetiche. La tentazione di sentirsi «buoni» riparando torti specifici e sistemando questioni concrete non deve, invece, offuscare la comprensione più ampia delle conseguenze dei nostri gesti, il senso complessivo delle nostre decisioni. È questo il pericolo che corre una politica centrata su campagne stampa su casi pietosi per orientare l'opinione pubblica nel senso desiderato - in questo caso la modifica della legge 40 - facendo perdere di vista il quadro complessivo dei valori in gioco. Bisogna quindi avere il coraggio di sentirsi considerati «cattivi» per non diventare complici di tragici esiti culturali per la nostra società.  (Lucetta Scaraffia, Avvenire, 26 ottobre 2006).

 


 

Il celibato ecclesiastico nell’attuale contesto secolarizzato.

Il caso triste di Mons. Milingo sta riaprendo la querelle, mai sopita, sul matrimonio dei preti, aggiornata magari come opportunità o addirittura come convenienza per evitare i casi di pedofilia e di omosessualità. A parte che in tal caso si ritornerebbe alla vituperata idea del matrimonio come “remedium concupiscentiae”, bisogna osservare innanzitutto l’aggiramento quasi sistematico del consiglio evangelico del Signore: «Se vuoi essere perfetto lascia tutto quello che hai e seguimi».

E’, per così dire, la “Christica vivendi forma” che il Signore Gesù ha proposto ai discepoli che l’hanno seguito al punto che la loro vita è diventata obbediente, povera e casta. Per questo il celibato di Vescovi, presbiteri e diaconi si fregia d’essere “Apostolica vivendi forma”. Rimandiamo volentieri alla bella meditazione di mons. Mario Marini, Il Celibato Sacerdotale «Apostolica Vivendi Forma», con testi di Benedetto XVI e Giovanni Paolo II (ed. Cantagalli, Siena 2005).

La prima cosa da dire è che il celibato sacerdotale non si può disgiungere dagli altri due consigli evangelici di povertà e obbedienza. Né si potrebbe obiettare che la promessa di celibato non sia il voto di castità. Guardando alla vita dei Santi, a cominciare da quelli sposati, il paradosso è proprio che per chi segue Gesù Cristo con tutto se stesso, diventa difficile scomporre le ‘percentuali’ di castità, povertà e obbedienza, di cui è intessuta quella sequela. Non vivere più per se stesso ma per il Signore, comporta l’offerta del corpo in sacrificio vivente (castità), di ogni bene (povertà), della volontà (obbedienza). Ciascuna di queste virtù può essere allo stesso tempo l’altra, in quanto, obbedire significa povertà dalla ricchezza del proprio orgoglio; essere privo di beni significa obbedienza ad un unico Bene: rimanere casti significa non possedere nemmeno se stessi. Non sembri pertanto azzardato affermare che le tre virtù, che sono anche consigli evangelici, si possono riassumere in quel «possesso nuovo» delle cose, come dice san Paolo, che è la verginità.

Prendiamo ad esempio la vita dei coniugi Maria Corsini e Luigi Beltrame Quattrocchi, beatificati da Giovanni Paolo II. Hanno praticato la virtù dell’obbedienza, soprattutto con la sottomissione coniugale nel matrimonio, con l’obbedienza al Papa nella Chiesa: un’obbedienza libera, fatta prima di tutto d’amore. L’obbedienza parte da Dio e termina in Lui come puro atto di fede. Perciò la fede è criterio di giudizio non adagiato sulla mentalità mondana o semplicemente umana; attraverso la vita sacramentale e di preghiera, si cammina alla presenza di Dio e si viene progressivamente assimilata alla sua volontà. Questo era il loro programma di vita. Anche la scelta permanente di un padre spirituale è una chiara espressione della rinuncia a se stessi. Infine, il rapporto di coppia, vissuto come si è detto nella sottomissione coniugale, diventa una gara di reciproca obbedienza nella carità.

I beati, pur non provenendo da famiglia povera, si fecero poveri, soprattutto interiormente, sì da apparire immersi in una rinuncia totale, svincolata dai beni terreni, ricca solo di Gesù. Ciò li portò ad usare e apprezzare ogni cosa senza dissipazione; con la gioia che è propria dei santi sposarono la loro dignità alla povertà, in un connubio che ha il suo punto essenziale in Dio.

Da tutto questo scaturisce la castità, virtù esercitata in grado eroico in quanto passaggio dell’io verso il tu del quale desidera il bene più del proprio. Da sposati, seppero mantenere la santità e il rispetto del corpo. I beati coniugi Maria Corsini e Luigi Beltrame Quattrocchi sono giunti così a considerare la purezza una virtù sociale, possibile per ciascun individuo. Inoltre hanno vissuto la famiglia come meta della loro aspirazione coniugale, trasmettendo ai figli lo stesso senso di purezza, nel timore di Dio vissuto nella comunità famigliare, quale santuario e chiesa domestica. Tutto questo dimostra la ricchezza di grazia in cui, sia l’uno che l’altra, hanno vissuto il carisma sacramentale del matrimonio. Dunque, Maria e Luigi Corsini Beltrame Quattrocchi furono, anche nella castità, modello di sposi cristiani.

Se i laici danno un tale esempio nell’esercizio dei consigli evangelici, quanto più possono e devono darlo i chierici. Innanzitutto la povertà va vissuta come spoliazione interiore che si esprime anche nell’uso distaccato dei beni materiali per amore e per il regno dei cieli. Bisogna darsi a Gesù, «mettere mano all’aratro» vuol dire lasciare gli agi e le comodità della famiglia ed innamorarsi della povertà di Gesù Cristo e del suo sacrificio per amore di lui e per le anime, perché tutti gli uomini possano incontrarLo.

L’obbedienza è una virtù da vivere nel rifiuto di ogni privilegio e nella cordiale adesione al vescovo in comunione con il Papa ed al Papa stesso, a cui bisogna sempre obbedire con fede, come a Gesù Cristo secondo il celebre invito di Ignazio d’Antiochia. Infine la castità: amare tutti con cuore indiviso, nell’atteggiamento mistico di Gesù Cristo sposo della Chiesa. L’esercizio della verginità deve guardare anche alla vergine Maria che appunto è invocata come Regina Apostolorum. Per difendere la castità bisogna sottoporsi alle mortificazioni. Ma se il nostro cuore si abitua a stare sempre totalmente con Dio, che è poi il carisma verginale, esso diviene capace di farsi dono ai fratelli.

Il celibato e la verginità sono un martirio (una testimonianza), come ci ricordano i monaci che agli inizi della Chiesa fiorirono dopo l’epoca dei martiri: il monachesimo era visto come martirio quotidiano. Il sacerdote proprio col celibato è monaco nel suo cuore. In tal modo il celibato va esercitato come virtù e come voto, come una croce da portare. Il celibato deve in certo modo trasparire dal raccoglimento del sacerdote, dalla sua modestia e riservatezza; così manifesta pure la purezza della sua anima e la fedeltà alla virtù. Tutto questo si può racchiudere nell’espressione “Ti preghiamo umilmente” con cui nell’anafora il sacerdote si rivolge al Signore. In definitiva il celibato è la sintesi mistica della comunione sponsale che porta a vivere in unità con Cristo quanti si lasciano attrarre da Lui. (Agenzia Fides, 26/10/2006)

 


 

Pacs, Ivg, Pma, quando le parole ingannano la realtà

Orwell la chiamava Neolingua, Calvino Antilingua. Consiste nell’uso di parole inventate apposta per non dire quello che si ha paura di dire, o che non si vuol dire. Ci sono parole, caricate di una valenza negativa, che vengono usate come pietre, scagliate addosso a chi è fuori dal coro per demonizzarlo e condannarlo senza appello: è il caso di «reazionario», «conservatore», «moderato», «revisionista», «fideista», «integralista cattolico» o anche semplice mente «cattolico».

Ma ormai sono considerati off-limits e denotano l’essere oscurantisti (il buio Medioevo!), anche i termini «civiltà», «radici», «identità», «valori», a meno che questi ultimi quattro siano riferiti a persone di fede musulmana e alla loro cultura, perché in questo caso la musica cambia. È esecrabile addirittura «centro», dal momento che nel «bipolarismo» e nell’ «alternanza» (paroline magiche che sintetizzano il migliore dei sistemi politici possibili), hanno diritto di cittadinanza solo la sinistra e la destra, con le varianti del centro sinistra e del centro destra. Ma ci so no parole ed espressioni, magari coniate ex novo, che vengono invece utilizzate come morbidi strumenti di dissimulazione, per nascondere la verità dei fatti, in modo chiaro, evidente e comprensibile. Tali parole ed espressioni, spesso semplici sigle, sono la vera insidia della lingua corrente, soprattutto scritta, sempre più «manipolata». Proviamo a fare alcuni esempi.

C’era una volta (e c’è ancora) l’Ivg. Quando la sigla fu usata per la prima volta correva l’anno 1978. E se ne fece un gran parlare. Ventisei anni dopo, è storia recente, comparve la Pma. E ora, da qualche settimana, non si parla d’altro che di Pacs. Meno fortuna ha avuto invece un termine come Cav, emanazione peraltro del «cosiddetto» MpV. Siamo impazziti? Non proprio. Semplicemente stiamo utilizzando alcuni dei tanti acronimi che ormai fanno parte del linguaggio dei media e burocratico, anche se non sono ancora entrati del tutto, per fortuna!, nell’uso comune parlato e popolare. Sigle spesso create, come detto, per celare, più che per rivelare, la realtà a cui si riferiscono. Così, l’aborto volontario, cioè la decisione della mamma (non «donna») di sopprimere il bimbo (non «feto» o «prodotto del concepimento») che porta in grembo, è diventato una più innocua interruzione volontaria di gravidanza, appunto Ivg. E quella che a lungo si è chiamata fecondazione artificiale — perché di «naturale», cioè secondo natura, non ha proprio nulla — è diventata, in occasione del recente referendum che ha confermato la legge esistente, una più asettica procreazione medicalmente assistita, appunto Pma. Dove l’accoppiata «medicalmente» e «assistita» suggerisce un contesto rassicurante, quasi che invece una fecondazione nor male, frutto della unione naturale di un uomo e una donna, assomigli invece a un atto azzardato, a rischio, retaggio di una società arretrata, istintiva e primitiva. E forse lo è, dal momento che una unione normale non consente la «diagnosi pre-impianto» (dpi?) che altro non è se non la vecchia «selezione eugenetica» di hitleriana memoria. Ma guai a dirlo.

E infine, dulcis in fundo, eccoci ai Pacs. Scoppiettante espressione flash, e bipartisan, che letteralmente sta per patti civili di solidarietà. Con quelle due parole — «civili» e «solidarietà» — a far bella mostra di sé, ma che nasconde un’insidia: i Pacs infatti sono il cavallo di Troia per il riconoscimento della pari dignità tra famiglie tradizionali e convivenze, a scapito ovviamente della famiglia. In attesa delle nozze gay di stampo zapateriano. La sigla Pacs era praticamente sconosciuta ai più. Ha fatto prepotentemente irruzione sulla scena quando Romano Prodi, al momento di presentare la sua candidatura alle primarie per l’Unione, ha pensa to bene di introdurre nel programma il tema del riconoscimento delle coppie o unioni di fatto. Quasi che fosse una priorità per il Paese. E scatenando così il putiferio.

Espressioni sintetiche, che fanno riferimento a realtà sicuramente benemerite e posi tive, non sono invece state accolte nel lin guaggio della grande stampa con lo stesso rilievo, e per questo hanno finora avuto difficoltà a entrare nel linguaggio comune. Ci riferiamo ai Cav, Centri di aiuto alla vita, diffusi da decenni capillarmente sul territorio, e all’MpV, Movimento per la vita. Quest’ultimo, spesso e volentieri definito come il «cosiddetto» Movimento per la vita, perché il fatto che operi realmente e concretamente a favore della vita umana, in particolare dei più deboli come i nascituri, dà naturalmente fastidio ai paladini dell’ideologia abortista.

La manipolazione del linguaggio a fini ideologici e di controllo della popolazione ha almeno due riferimenti illustri. Il primo è il celeberrimo romanzo 1984 di George Orwell, in cui lo scrittore inglese, nella sua terrificante previsione della società futura ipotizza, nel 1949!, uno Stato totalitario in cui vige la Neolingua (Newspeak), da sostituire gradualmente a quella comune e corrente o Archeolingua. Scopo della NeoIingua è «soprattutto rendere impossibile ogni altra forma di pensiero». L’altro riferimento, meno noto ma forse ancor più efficace nel rappresentare ciò che sta accadendo, è un articolo scritto giusto cinquant’anni fa per il quotidiano Il Giorno da Italo Calvino, che conia il neologismo Antilingua, per indicare l’uso di parole inventate apposta per non dire quello che si ha paura di dire, o che non si vuoi dire. Oggi siamo ben oltre. Impazzano espressioni come «salute sessuale e riproduttiva», un contenitore di significati nascosti che comprende tutto, dal l’aborto alla contraccezione, dai rapporti precoci (purché «protetti») alla «scelta» (?!) delle proprie «referenze» sessuali. Ma ac cade anche, ahimè, che una marcia per la «pace» si trasformi in incitamento all’odio, e che parole come «padre» o «madre» le si vogliono far scomparire dagli ordinamenti giuridici. Perché troppo ingombranti e fuori moda.

Cfr. in proposito: Pier Giorgìo Liverani, La societa multicaotica con il Dizionario dell’Antiingua, Edizioni Ares 2005. Veronese trapiantato a Roma, laurea in Legge, oltre mezzo secolo di giornalismo militante per varie testate cattoliche, Pier Giorgio Liverani ha il pregio di scrivere cose scomode, oggi si potrebbe anche dire «politicamente non corrette», cioè sgradite alla mentalità dominante. E svolge questo prezioso lavoro di controinformazione a partire da quel pamphlet Aborto anno uno (Ares, due edizioni nel 1979 e 1981), che mise subito nero su bianco tutte le contraddizioni e le falsità del l’ideologia abortista e della legge 194. Liverani ora ci offre nuovi e stimolanti spunti di riflessione con La società multicaotica, che riprende e amplia il Dizionario dell’Antilingua (già pubblicato con successo nel 1993).

Il saggio indaga con acume e ricchezza di esempi la manipolazione del linguaggio, che ha come scopo la distruzione soft dei valori su cui si fonda la nostra società, a cominciare dalla tutela della vita sin dal momento del concepimento. Il testo è utile soprattutto per gli operatori della comunicazione e gli educatori. (Vincenzo Sansonetti, Il Timone n. 46/2005)

 


 

Eutanasia... non e' una soluzione

Se le parole del Presidente della Repubblica saranno intese come un richiamo a non spingere il virtuosismo medico fino a un accanimento terapeutico fine a se stesso e inutile a salvare o migliorare la vita dei malati terminali, ben pochi avranno qualcosa da obiettare. Leggi e circolari esistono già: si tratta solo di rispettarle, e anche la Chiesa non si è mai detta contraria. Se invece si vuole aprire la porta all'eutanasia come esiste nella legislazione olandese, allora occorre dire forte e chiaro che si tratta di un vaso di Pandora che, una volta scoperchiato anche in nome del più pietoso dei casi singoli, slega vecchi demoni che l'unanime condanna delle leggi naziste sull'eliminazione dei malati incurabili aveva incatenato in Europa per decenni.

Qui Benedetto XVI non fa che richiamare quanto Giovanni Paolo II aveva detto a proposito della legge olandese. Nel 2004 la Santa Sede, per mezzo della Pontificia Accademia per la Vita, aveva diffuso un'articolata analisi del caso Olanda, mostrando come quando si tratta di attacchi alla vita il primo intervento legislativo inneschi la logica scivolosa del «piano inclinato», per cui leggi già pessime sono continuamente peggiorate da ulteriori emendamenti.

L'eutanasia in Olanda è stata introdotta nel 2000 per gli infermi maggiorenni capaci di intendere, di volere, e di farne richiesta scritta. Approvata la legge, i promotori hanno subito fatto notare che anche i minorenni possono soffrire in modo atroce. Così, nel 2002 la possibilità di chiedere l'eutanasia è stata estesa agli adolescenti sopra i dodici anni, ritenuti capaci di consenso in una società dove si cresce in fretta. Apriamo qui una parentesi per ricordare che i tribunali olandesi quando, qualche mese fa, hanno dichiarato legittima la costituzione di un «partito dei pedofili» che chiede libertà di relazioni sessuali con gli adulti per i minori che abbiano compiuto i dodici anni, hanno suscitato scandalo in tutto il mondo ma hanno ragionato, non senza una certa logica, proprio a partire dalla legge sull'eutanasia del 2002. Se il legislatore olandese ritiene un - e una - dodicenne abbastanza maturi per decidere se preferiscono vivere o morire, come non ipotizzare che questa maturità si estenda alle scelte sessuali, compresi i rapporti con i maggiorenni?

Nel 2004 - secondo le parole del documento vaticano - anche «l'ultimo limite è stato varcato» in Olanda, e si è estesa l'eutanasia ai bambini sotto i dodici anni, per i quali basta l'assenso dei medici e dei genitori. Commentava allora la Santa Sede: «È facile prevedere che lo scivolamento sul piano inclinato dell'eutanasia continuerà nei prossimi anni, fino a includere i pazienti adulti ritenuti incapaci di chiedere il consenso». Siamo nel 2006 e la profezia si è già avverata: il Parlamento olandese discute l'estensione dell'eutanasia ai malati di mente, riservando la decisione ai medici. Quando questa proposta di legge fu presentata, l'allora ministro Giovanardi evocò le leggi naziste. Anche qualche alleato pensò che si dovesse chiedere scusa all'Olanda. Ma in realtà già il documento pontificio del 2004 evocava «processi di Norimberga» per chi avesse votato a favore dell'uccisione dei disabili e dei malati mentali. Certo, in Italia non siamo ancora a questo punto. Ma è meglio fermarsi prima di fare il primo passo. Vigiliamo pure con Napolitano perché i malati terminali non siano vittime di un malinteso accanimento terapeutico. Ma sull'eutanasia diamo retta al Papa: non apriamo quella porta. (Massimo Introvigne, Il Giornale, 25 settembre 2006)

 


 

Bacchettata a Tettamanzi. E non soltanto a lui

Benedetto XVI giganteggia su un ceto clericale che fa letteralmente cadere le braccia (e non solo). Al convegno della Chiesa italiana svoltosi a Verona, con un altro splendido intervento il Pontefice ha riportato la Barca di Pietro sulla rotta giusta. Da buon padre non ha attaccato nessuno, non ha fatto nomi, ma le "correzioni" che ha fatto sono tante e poderose. Allora i nomi li faremo noi.

La prima salutare correzione è verso l'incredibile cardinale Tettamanzi. Inaugurando il convegno di Verona, il prelato milanese ha fatto un intervento che il Corriere della Sera ha titolato così: "Tettamanzi ai teocon: basta con la fede a parole"". La sua frase centrale è questa: «È meglio essere cristiano senza dirlo che proclamarlo senza esserlo». Era, nelle sue intenzioni, una sciabolata contro tutti quei laici - da Giuliano Ferrara a Marcello Pera - che hanno il grave torto di stimare e difendere la Chiesa. I "cattoprogressisti" evocano ogni due per tre l'apertura al mondo laico voluta dal Concilio, ma poi sparano a zero quando appaiono dei laici che sono interessati alla Chiesa. La frase di Tettamanzi («Meglio essere cristiani senza dirlo»), pronunciata in un momento in cui si rischia il licenziamento se si porta un crocifisso al collo, sarà considerata da certi cattolici come un elogio della propria viltà e del proprio opportunismo. L'incredibile gaffe di Tettamanzi conferma che il drammatico grido di don Giussani nella sua ultima intervista («La Chiesa si è vergognata di Cristo!») è l'istantanea di questo momento storico. Veniamo al "caso Ferrara". Sant' Agostino nel De Civitate Dei ha spiegato che Cristo ha suoi amici-alleati nella città degli uomini e ha suoi nemici dentro la città di Dio. Il Papa, che conosce bene Agostino, ha spiegato alla Chiesa italiana quale grande grazia sia il trovarci oggi un mondo laico che non ha più il volto anticattolico di Eugenio Scalfari e Paolo Flores d'Arcais, ma anche quello pieno di stima e interesse di Ferrara, Pera e tanti altri (non sempre teocon, come Ernesto Galli Della Loggia). Ecco le sue parole testuali: «Si avverte la gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà. Questa sensazione, che è diffusa nel popolo italiano, viene formulata espressamente e con forza da parte di molti e importanti uomini di cultura, anche tra coloro che non condividono o almeno non praticano la nostra fede. La Chiesa e i cattolici italiani sono dunque chiamati a cogliere questa grande opportunità, e anzitutto ad esserne consapevoli. Il nostro atteggiamento non dovrà mai essere, pertanto, quello di un rinunciatario ripiegamento su noi stessi: occorre invece mantenere vivo e se possibile incrementare il nostro dinamismo, occorre aprirsi con fiducia a nuovi rapporti, non trascurare alcuna delle energie che possono contribuire alla crescita culturale e morale dell'Italia». Naturalmente il Papa - non essendone culturalmente subalterno (come qualche cattolico) - invita anche loro, questi provvidenziali alleati della Chiesa, a guardare in faccia Gesù. Li invita a riconoscere con la ragione l'evidente Intelligenza che ha fatto e regolato il cosmo. E li invita a riconoscere - con il loro connaturato «bisogno di amore» - la risposta totale a questo desiderio di felicità che è Cristo stesso. Ma qui non ho spazio per farvi gustare tutte le perle di questo intervento. Posso solo enucleare le altre "correzioni". A chi riduce la fede a crociata moralistica o ideologica il Papa spiega che «all'origine della nostra testimonianza di credenti non c'è una decisione etica o una grande idea, ma l'incontro con la Persona di Gesù Cristo». A chi trasforma la Chiesa in agenzia umanitaria ideologizzata dice che occorre «testimoniare la carità mantenendosi liberi da suggestioni ideologiche e simpatie partitiche» e «soprattutto misurando il proprio sguardo sullo sguardo di Cristo». Alla Civiltà Cattolica, che il mese scorso sparava sull'apologetica, spiega: «Dobbiamo essere sempre pronti a dare risposta (apo-logia) a chiunque ci domandi ragione (logos) della nostra speranza». A quei laicisti che, in nome del dialogo, lo hanno attaccato per il discorso di Ratisbona risponde che la moderna e laicista «riduzione dell'uomo», che viene «trattato come ogni altro animale» (ovvero «relativismo e utilitarismo»), rende impossibile dialogare «con le altre culture nelle quali la dimensione religiosa è fortemente presente». Infine il Papa proclama che la novità cristiana nasce dalla «Resurrezione di Cristo che è un fatto avvenuto nella storia». E con queste parole chiare liquida le tendenze dominanti nella teologia attuale secondo le quali bisognerebbe distinguere la «fattualità storica» della Resurrezione dalla sua «realtà». Sofismi heideggeriani con i quali certi teologi hanno fatto anche grandi carriere ecclesiastiche. Già Paolo VI sottolineava «il fatto empirico e sensibile» delle apparizioni di Gesù dopo la Resurrezione: «Se non manteniamo la fede in questo fatto empirico e sensibile», disse, «trasformiamo il cristianesimo in una gnosi». Che è il rischio di tanta teologia moderna. (Antonio Socci, Libero, 20 ottobre 06)

 


 

Fuoco senza quartiere sul Papa, dal gesuita islamologo Thomas Michel

[Ossia di come aspre critiche in contro tendenza, date inopportunamente in pasto ai media da un esperto islamologo del Vaticano, siano chiaramente riconducibili ad una malcelata ripicca personale per essere stato in qualche modo messo da parte….]. Lunedì 25 settembre, mentre Benedetto XVI parlava ai rappresentanti diplomatici dei paesi musulmani, un dotto gesuita islamologo spiegava a una vasta platea di musulmani che il papa aveva sbagliato tutto: lo spiegava in diretta radiofonica sul sito multilingue on line dello sceicco Yusuf Qaradawi, l'opinion maker più ascoltato del mondo arabo, star della tv Al Jazeera, ideologo dei Fratelli Musulmani, esaltatore del "martirio" degli uomini bomba.

Questo gesuita è Thomas Michel, canadese trapiantato a Roma, dal 1981 al 1994 l'islamologo più autorevole del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, di cui peraltro resta consultore, attualmente responsabile ufficiale del dialogo con l'islam per la Compagnia di Gesù e per la federazione delle conferenze episcopali dell'Asia.

Rispondendo alla prima domanda, padre Michel ha subito ricordato che Giovanni Paolo II faceva sempre controllare in anticipo da lui i propri discorsi riguardanti l'islam: "In qualche occasione trovavo delle frasi che mi sembravano offensive, lo facevo notare al papa e lui sempre le cancellava dal testo". Cosa che invece - ha aggiunto - Benedetto XVI non fa.

La trascrizione completa in inglese del botta e risposta tra padre Michel e i suoi interlocutori si trova nel sito www.islamonline.net, sotto il titolo Fr. Thomas Michel. Ask a Vatican Official.

Eccone qui di seguito alcuni passaggi:

"A Ratisbona, Benedetto XVI ha esposto il suo punto di vista personale. Non c'è dubbio che in Vaticano alcuni sono d'accordo con lui, ma ce ne sono anche molti che non concordano affatto con le vedute personali del papa".

"Sì, penso che utilizzando un autore mal informato e carico di pregiudizi come Manuele Paleologo il papa abbia seminato mancanza di rispetto nei confronti dei musulmani. Noi cristiani dobbiamo ai musulmani delle scuse".

"Il papa probabilmente ragionava come un accademico e non ha capito che così tanta gente avrebbe ascoltato quello che diceva. In questo caso, penso che il papa avrebbe dovuto avere migliori consiglieri, i quali gli avrebbero detto che quelle sue parole distruggevano anni di fiducia e di apertura tra cristiani e musulmani".

"La citazione del Paleologo è stata una pessima idea. Il mio pensiero è che ogni volta che usiamo un esempio negativo noi dovremmo prenderlo dalla nostra storia piuttosto che da quella degli altri. Il papa avrebbe potuto usare le Crociate, per esempio, se voleva criticare la violenza ispirata dalla religione e non recare offesa ad altri".

"Non credo che le parole del papa siano state sagge. Qualcuno in Vaticano avrebbe dovuto dirglielo prima che egli rendesse pubblico il suo pensiero. La rabbia che è esplosa sarebbe stata evitata se i consiglieri e gli assistenti del papa avessero fatto bene il loro lavoro. Spero che le parole del papa, che non sono state sagge, non diano alimento ad altra violenza. Spero che i musulmani accettino le sue scuse e perdonino. Ma ci vorrà molto tempo per ricostruire la fiducia che c'era stata con papa Giovanni Paolo II".

"Ho lavorato in Vaticano come capo dell'ufficio per l'islam tredici anni, dal 1981 al 1994. Ora non ho più questa carica, ma sono un 'consultore''. Amici in Vaticano mi hanno detto che il papa non li ha chiamati per spiegare loro che cosa intendeva dire nel suo discorso. Fin dall'inizio il suo messaggio non era chiaro a tutti i dirigenti vaticani. La grande maggioranza di loro non ha neppure visto il testo fino a che ne hanno letto qualcosa sui giornali. I pochi che erano vicini al papa dissero ai giornalisti - a condizione di restare anonimi - che essi avevano espresso delle riserve sul testo".

"Quello che i musulmani hanno chiesto è stata una precisa, diretta richiesta di scuse, una volta per tutte, niente di più. E' ciò che anch'io vorrei vedere. Tra uomini, ciò che comincia come una richiesta di scuse spesso diventa una autogiustificazione. Per esempio: 'Mi dispiace di essere arrivato in ritardo, ma ho ricevuto troppo tardi il vostro messaggio e poi non mi avete detto con chiarezza dove ci si doveva incontrare...'. Simili 'scuse' tendono a non essere accettate e i cattivi sentimenti continuano". (cfr. blog,espressonline, 4 ottobre 2006)

 

 

 


 

 

DOMENICA 22 OTTOBRE 2006

 

Gli Ebrei nascosti nei Monasteri: il Santo Padre ordina...

Pubblichiamo il memoriale inedito del monastero dei Santi Quattro Coronati, relativo agli anni dell’occupazione nazista di Roma: l’ordine di Pio XII di aprire il monastero ai perseguitati, i nomi degli ebrei nascosti, la vita nel convento durante quegli anni terribili

«La nostra vuole essere solo una piccola testimonianza su papa Pio XII. Senza nessuna pretesa, per carità. Certo, la mole di scritti sulla presunta indifferenza del Pontefice e sui suoi “silenzi” nei confronti degli ebrei negli anni del nazifascismo, ci addolorano profondamente. E allora c’è sembrato utile far conoscere quanto accadde qui da noi oltre sessant’anni fa».

“Qui da noi” è il monastero di clausura delle agostiniane annesso alla millenaria Basilica dei Santi Quattro Coronati, sulle pendici del Celio a Roma. A prendere la parola è suor Rita Mancini, la madre superiora alla guida della comunità monastica agostiniana dal 1977.

Sollecitate e incoraggiate dal convegno internazionale “Pio XII. Testimonianze, studi e nuove acquisizioni”, organizzato da 30Giorni il 27 aprile scorso presso la Pontificia Università Lateranense, le claustrali dei Santi Quattro si sono messe in contatto col nostro giornale per offrire il loro contributo: alcune preziosissime pagine del Memoriale delle religiose agostiniane del venerabile monastero dei Santi Quattro Coronati. Vale a dire una parte del diario ufficiale della comunità che raccoglie dal 1548 – anno in cui le agostiniane si insediarono ai Santi Quattro – le cronache della vita monastica.

Grazie alle agostiniane dei Santi Quattro c’è la possibilità di aprire una finestra su quel microcosmo separato dal mondo e improvvisamente chiamato da papa Pio XII ad aprire le porte, alzare le grate e lasciarsi coinvolgere, rischiando gravi conseguenze, dai destini di tanta gente in pericolo di vita.

«Quando arrivai qui, nel  1977, conobbi suor Emilia Umeblo» racconta la madre superiora dei Santi Quattro. «Ai tempi dell’occupazione lei era la suora “esterna”, cioè la persona autorizzata, per motivi pratici, a uscire dalla clausura. Mi parlò a lungo di quei mesi e degli aspetti logistico-organizzativi per facilitare l’ospitalità ai rifugiati ebrei e a molti  altri  antifascisti. Tra l’altro suor Emilia era in contatto costante con Antonello Trombadori, dirigente del Partito comunista e capo dei Gruppi armati partigiani di Roma, e con tanti altri oppositori al nazifascismo. Ho pregato suor Emilia più volte di scrivere tutto quello che mi andava raccontando. Purtroppo non l’ha mai  voluto fare. Non c’è più e i suoi ricordi se li è portati via con sé».

Per fortuna restano le pagine che suor Rita Mancini ha messo a disposizione di 30Giorni. Esse riguardano un lasso di tempo che va dalla fine del 1942 al 6 giugno 1944 e che comprende quindi il periodo dell’occupazione nazista a Roma fino alla liberazione della città avvenuta il 4 giugno del ’44.

«Arrivate in questo mese di novembre dobbiamo essere pronte a rendere servigi di carità in maniera del tutto inaspettata» scrive l’anonima cronista alla fine del 1943.  «Il Santo Padre vuol salvare i suoi figli, anche gli ebrei, e ordina che nei monasteri si dia ospitalità a questi perseguitati, e anche le clausure debbono aderire al desiderio del Sommo Pontefice». Scorrono i nomi degli ospiti segnalati dall’elenco del memoriale: Viterbo, Sermoneta, Ravenna, De Benedetti, Caracciolo, Talarico… «A tutte le persone su elencate, oltre l’alloggio, si dava anche il vitto facendo miracoli per il momento che si traversava»; leggiamo che «tutto era tesserato. La Provvidenza è sempre intervenuta… Per la Quaresima anche gli ebrei venivano ad ascoltare le prediche, e il signor Alberto Sermoneta aiutava in Chiesa. La madre priora gli faceva fare tante cose all’altare del Santissimo preparato per il Giovedì Santo».

E nel bel mezzo della tempesta, mentre il chiostro del XIII secolo si riempie di paglia e fieno dove far riposare tutta quella povera gente, nulla si interrompe: lavoro e celebrazioni liturgiche procedono, sotto la paterna vigilanza di monsignor Carlo Respighi, l’allora rettore della Basilica dei Santi Quattro e prefetto delle cerimonie apostoliche, morto nel 1957. In un grande locale adiacente all’orto le monache nascondono nientemeno che undici automobili, compresa quella del maresciallo Pietro Badoglio, il capo del governo militare italiano, scappato da Roma all’indomani dell’8 settembre. E poi sette cavalle, quattro mucche…

Ma da quel che veniamo a sapere dal memoriale, anche dopo la liberazione ai Santi Quattro l’ospitalità proseguì: «Dalla Segreteria di Stato ci è ordinato di ospitare con la più scrupolosa precauzione il generale Carloni che era cercato per essere condannato a morte». Si trattava di Mario Carloni, generale dei bersaglieri che era stato a capo della IV divisione alpina Monte Rosa della Repubblica di Salò.

Che il monastero romano facesse parte del fitto reticolato degli istituti cattolici che ospitarono ebrei e perseguitati politici durante l’occupazione fascista, era cosa nota: è inserito nell’Elenco delle case religiose in Roma che ospitarono ebrei pubblicato nella sezione dei documenti della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice, uscita in prima edizione nel 1961 (Einaudi, Torino 21993, pp. 628-632), dove si legge che le «suore agostiniane dei Santi Quattro Incoronati» avevano ospitato 17 ebrei. L’elenco, che riprende un articolo della Civiltà Cattolica del 1961 firmato da padre Robert Leiber,  rimane ancora oggi uno dei documenti-chiave per tutte le indagini successive. Fino alle più recenti. Come quella, avviata nel 2003 dal Coordinamento storici religiosi, sugli ebrei ospitati presso le strutture cattoliche a Roma tra l’autunno del 1943 e il 4 giugno del 1944.  Suor Grazia Loparco, docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Facoltà Auxilium e membro del Coordinamento, nel gennaio del 2005 ha reso noti all’agenzia internazionale Zenit i primi risultati dell’indagine: gli ebrei salvati a Roma all’interno degli istituti religiosi furono, secondo una stima per difetto, almeno 4.300.

Altre testimonianze inedite fornite da persone salvate grazie all’accoglienza negli istituti religiosi sono state rese note nei  volumi di Antonio Gaspari, Nascosti in convento (Ancora, Milano 1999), e di Alessia Falifigli, Salvàti dai conventi. L’aiuto della Chiesa agli ebrei di Roma durante l’occupazione nazista (San Paolo, Cinisello Balsamo 2005). Sia in questi ultimi studi che in tutti quelli che da almeno quarant’anni indagano sul ruolo giocato dai cattolici nella salvezza degli ebrei dalle persecuzioni nazifasciste, è presente  l’interrogativo se quell’accoglienza ebbe solo carattere spontaneo, o ci furono ordini provenienti dai vertici della Chiesa. La risposta è stata sempre sostanzialmente la stessa. E cioè che la natura dell’ospitalità data dalla Chiesa romana ai perseguitati, soprattutto ebrei, è stata spontanea, non decisa preventivamente dai vertici della Chiesa, ma da essa assecondata e sostenuta moralmente e materialmente. E nella  presentazione al volume della Falifigli, Andrea Riccardi, storico del cristianesimo presso la Terza Università di Roma e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, chiarisce: «Per superare i divieti della clausura, quella stretta dei monasteri ma anche quella più blanda dei conventi, ci voleva una direttiva superiore». E aggiunge: «Ma tutti, unanimemente, hanno sorriso all’idea che potesse esserci un qualche documento vaticano in proposito. Chi avrebbe fabbricato una prova contro sé stesso per un’attività proibita e clandestina? Eppure tutti i responsabili erano convinti che fosse la volontà del Papa, quella di aprire le porte delle loro case agli ebrei e ai perseguitati». Giudizio già espresso dallo scrittore e giornalista di origine ebrea Enzo Forcella in un volume del 1999: «L’assenso all’asilo era stato dato solo verbalmente, s’intende. Per tutta la durata dell’occupazione le autorità religiose si atterranno alla loro antica regola: è sempre meglio far capire che dire, se qualcosa deve essere detta è bene evitare di lasciarne traccia scritta e, in ogni caso, alle eventuali contestazioni bisognerà rispondere che si era trattato di iniziative personali dei singoli sacerdoti prese all’insaputa delle autorità superiori» (La Resistenza in convento, Einaudi, Torino 1999, p. 61).

Cosa aggiungono allora le pagine del memoriale agostiniano che 30Giorni pubblica? «Basta leggerle, non c’è molto altro da dire: le  nostre consorelle non ricevettero un vago invito della Santa Sede ad aprire il convento a chi ne avesse bisogno. Ma un ordine» ribadisce suor Rita Mancini. «L’ordine perentorio del Pontefice  di ospitare ebrei e chiunque altro stesse rischiando la vita a causa delle persecuzioni dei nazifascisti. Condividendo con loro tutto, facendoli sentire a casa propria. Con gioia, nonostante il pericolo. Se questa è indifferenza…».

Il memoriale è redatto in uno stile asciutto, sobrio, eppure emozionante, capace di restituire il clima di quei mesi vissuti pericolosamente all’interno delle sacre e invalicabili mura del monastero, dove giunge l’eco di una Roma terrorizzata e sofferente.  Che in rapida successione aveva dovuto subire: il bombardamento dal quartiere San Lorenzo il 19 luglio del ’43, con 1.400 morti, 7.000 mila feriti e la distruzione dell’antica Basilica di San Lorenzo; sei giorni dopo, l’arresto di Mussolini per ordine di Vittorio Emanuele III di Savoia e la nomina del maresciallo Pietro Badoglio a capo del governo militare; un secondo bombardamento  degli Alleati «ancora più disastroso del primo», scrissero i giornali romani, il 13 agosto: ad essere presi di mira furono allora i quartieri Tiburtino, Appio e Tuscolano; la successiva acquisizione dello status di “città aperta”, cioè zona smilitarizzata; poi l’armistizio dell’8 settembre tra il governo italiano e le Forze alleate; la fuga di Badoglio e dei Savoia verso Brindisi; il disorientamento dei soldati italiani lasciati allo sbaraglio; l’attesa degli angloamericani, sbarcati in Sicilia già dal 10 luglio, e l’arrivo invece dei carri armati tedeschi, che occuparono il cuore della città, dopo aver sopraffatto, presso Porta San Paolo, l’ultima postazione di civili e soldati italiani a difesa di Roma. E poi c’era stato quel sabato del 16 ottobre al Ghetto, quando, alle 5 di mattina, i nazisti avevano strappato 1.023 ebrei dalle loro case con destinazione il campo di sterminio di Auschwitz.

Ma «anche durante il periodo dell’occupazione tedesca, la Chiesa splende su Roma», dirà un grande laico, lo storico Federico Chabod, agli studenti della Sorbona. Splende, continua Chabod, «in modo non molto diverso da come era accaduto nel V secolo. La città si trova, da un giorno all’altro, senza governo; la monarchia è fuggita, il governo pure, e la popolazione volge il suo sguardo a San Pietro. Viene meno un’autorità ma a Roma – città unica sotto questo aspetto – ne esiste un’altra: e quale autorità! Ciò significa che, benché a Roma vi sia il comitato e l’organizzazione militare del Cln, per la popolazione è di gran lunga più importante e acquista un rilievo ogni giorno maggiore l’azione del papato» (Federico Chabod, L’Italia contemporanea 1918-1948, Einaudi, Torino 1993, pp. 125-126).

Ecco a seguire il memoriale relativo al periodo dell’occupazione nazifascista a Roma. Esso comprende anche un brano di un articolo apparso sull’Osservatore Romano.  (Pina Baglioni,  30 Giorni, 7-8/2006)

 

Memoriale inedito delle monache agostiniane del monastero dei Santi Quattro Coronati in Roma

 VENERABILE MONASTERO DEI SANTI QUATTRO CORONATI -  ROMA

 Anno Domini 1942  [Ultime nove righe]

 Durante l’anno nessuna novità di rilievo. Si va avanti colle ansietà procurateci dalla grande guerra. Spaventi continui per allarmi notturni. Privazioni di cose necessarie. Pane, pasta, olio ecc.

Si celebra lo stesso con la consueta solennità la stazione quaresimale. Le funzioni della Settimana Santa per mezzo degli studenti irlandesi. Così la solennità del santo padre Agostino, poi dei Santi Quattro e si giunge a chiudere l’anno benedicendo il Signore che ci ha salvato da tanti pericoli, per l’immane guerra, per le privazioni e preoccupazioni di ogni genere. Il Te Deum fu cantato ringraziando Dio che ci ha protette.

 Anno Domini 1943

 Con la consueta funzioncina della processione col Santo Bambino, pia pratica che per noi ci assicura le benedizioni divine, si inizia questo anno fra gli orrori della guerra, fra le privazioni di ogni genere, e l’incertezza dell’esito della guerra stessa.

La Provvidenza ci assiste, e ci è dato di far fronte a tutte le difficoltà, mediante il lavoro di parati sacri, e il lavaggio di biancheria di chiesa della Pontificia Università Gregoriana, del Pontificio Istituto Biblico, del Collegio Borromeo, e altre chiese. Monsignor Respighi si adopera come al solito perché la liturgia della stazione quaresimale riesca solenne come sempre. La comunità può fare gli esercizi spirituali, e avere le due prediche ogni settimana durante la Quaresima. Intanto ci avviciniamo alla Settimana Santa, e si svolgono le funzioni del Triduo. Il Santo Sepolcro è visitato da molti fedeli. Si procede col medesimo ritmo fino alla solennità di sant’Agostino che viene celebrata con intenso fervore. Ci avviciniamo alla festa titolare dei Santi Quattro che è celebrata coi vespri pontificali e la messa pontificale la mattina del giorno 8, in cui sono celebrate parecchie sante messe lette.

Arrivate a questo mese di novembre dobbiamo essere pronte a rendere servigi di carità in maniera del tutto inaspettata. Il santo padre Pio XII, dal cuore paterno,  sente in sé tutte le sofferenze del momento. Purtroppo con l’entrata dei tedeschi in Roma, avvenuta nel mese di settembre, si inizia una guerra spietata contro gli ebrei che si vogliono sterminare mediante atrocità suggerite dalla più nera barbarie. Si rastrellano i giovani italiani, gli uomini politici, per torturarli e farli finire tra tremendi supplizi. In queste dolorose situazioni il Santo Padre vuol salvare i suoi figli, anche gli ebrei, e ordina che nei monasteri si dia ospitalità a questi perseguitati, e anche le clausure debbono aderire al desiderio del Sommo Pontefice, e, col giorno 4 novembre, noi ospitiamo fino al 6 giugno successivo le persone qui elencate:

dal 4 novembre al 14, la signora Bambas moglie di una personalità politica. Il marito era nascosto in altra casa religiosa, e lo volle raggiungere.

 dal 1° dicembre al 27, tutta la famiglia Scazzocchio di 9 persone.

dal 1° dicembre a tutto il febbraio successivo, la mamma del dottor Scazzocchio. Queste persone furono sistemate nella sala del Capitolo, con l’annessa stanzetta, e l’adiacente corridoio. I pasti li consumano in refettorio.

dal 7 dicembre al 23 gennaio, il Ravenna ebreo (rabbino) dai paliotti.

dal 15 dicembre al 18 gennaio, il signor Viterbo col suocero, ebrei, solo dormire.

Anno Domini 1944

dal 1° gennaio al 21, la signora Dora ebrea – cameretta del salone.

dal 5 gennaio al 9 maggio il signor Alfredo Sermoneta (ebreo) dai paliotti.

dal 2 febbraio al 7 maggio, il signor Salvatore Mastrofrancesco (politico) nipote di suor Maria Veronica Del Signore.

dal 2 febbraio al 5 giugno, il signor Eugenio Sermoneta (ebreo) dai paliotti.

dal 2 febbraio al 5 giugno, il signor Fernando Pisoli (politico) dai paliotti.

dal 2 febbraio al 9 maggio, il signor Fernando Talarico (di leva).

dal 13 dicembre al 6 giugno, il giovane Francesco Caracciolo.

dal 15 dicembre al 6 giugno, suo fratello Alberto, figli del generale Caracciolo.

dall’8 marzo al 7 maggio, Piero De Benedetti (patriota).

nel mese di marzo, per otto giorni, Franco Talarico.

nel medesimo tempo abbiamo nascosto in refettorio cento tonnellate di carta di Fabriano e abbiamo sostenuto per questo delle rappresaglie dai parenti del proprietario.

in un grande locale adiacente all’orto, abbiamo nascosto undici automobili, compresa quella del generale Badoglio, e del generale Tessari, due camion portati qui da militari subito dopo l’8 settembre ’43.

un autotreno, una motocicletta del capitano di Trapani, un triciclo, dieci biciclette.

dell’azienda Gianni abbiamo nascosto sette cavalle, quattro mucche, quattro buoi, tutte le macchine agricole, e mezzi di trasporto. Il chiostro, chiuso ai visitatori per far passeggiare i rifugiati, era pieno di paglia e fieno. Il mobilio e biancheria di varie famiglie sfollate, oggetti di valore e titoli bancari.

6 giugno. Finalmente si aprirono le porte a questi poveri rifugiati, e restammo di nuovo nella nostra libertà, ma per poco tempo, poiché il giorno 4 ottobre successivo ci fu ordinato di ospitare con la più scrupolosa precauzione il generale Carloni che era cercato per essere condannato a morte. Dalla Segreteria di Stato del Vaticano ci è ordinato di ospitarlo, imponendoci solenne segreto. E fu accomodato alla meglio nella piccola stanza sotto il salone, ma però era costretto a passare nel centro della comunità. Con lui fu ospitata la signorina direttrice di casa sua perché, malato di fegato, aveva bisogni di riguardi per il vitto. Detta signorina cucinava nella nostra cucina. Di questo i superiori erano al corrente. Si sperava che anche questo ospite in pochi mesi si sarebbe liberato. Purtroppo nel mese di marzo successivo fu scoperto che era presso di noi, e con tutta fretta monsignor Respighi con monsignor Centori lo condussero in auto in Vaticano presso le sacre Congregazioni in casa di monsignor Carinci e ivi si trattenne fino al 15 settembre, che dovemmo riceverlo di nuovo. E per ben cinque anni fu nostro ospite.

 A tutte le persone su elencate, oltre l’alloggio, si dava anche il vitto facendo dei miracoli per il momento che si traversava, che tutto era tesserato. La Provvidenza è sempre intervenuta. Negli ultimi mesi ci davano L. 40... In tal modo proseguimmo l’anno. Per la Quaresima anche gli ebrei venivano ad ascoltare le prediche, e il signor Alfredo Sermoneta aiutava in chiesa. La madre priora, suor Maria Benedetta Rossi, gli faceva fare tante cose all’altare del Santissimo preparato per il Giovedì Santo, sperava che quell’anima ne restasse impressionata. Ma purtroppo non ci fu data questa santa soddisfazione. Abbiamo avuto anche degli spaventi, specialmente un giorno che si presentarono due agenti delle SS, Servizio speciale per rintracciare ebrei e giovani. Uno dei due era italiano e fu maggiore la dolorosa impressione ricevuta. Però non ci lasciammo vincere né dalle minacce né dalle persuasioni, e se ne andarono.

A guerra finita, si parlava della bontà del Santo Padre che aveva aiutato, e fatti salvare tanti, sia ebrei che giovani e intere famiglie. La stampa riempiva le colonne e in un giornale cattolico, L’Osservatore Romano, leggemmo questo articolo del professor Tescari che conosceva bene quanto si era fatto nei monasteri di clausura per la salvezza di tanti perseguitati:

 Partigiani pacifici

«Chi scriverà la storia della più recente oppressione tedesco-fascista in Roma dovrà dedicare un capitolo speciale all’opera generosa, vasta, multiforme, spiegata in pro dei perseguitati dai religiosi. Uffici parrocchiali trasformati in veri e propri uffici di collocamento-rifugio (ne frequentavo uno dove, nei pochi minuti in cui mi trattenevo, vedevo affluire una moltitudine di uomini e donne di ogni classe, di ogni età, e il parroco ascoltare, prendere nota, indirizzare, promettere, elargire con generosità), case di sacerdoti diventate alberghi di fuggitivi (odo ancora la governante di uno di questi brontolare che in casa non vi era più niente ecc.): lamenti insolitamente popolati di facce atteggiate a confusione nuova e strana, ma coloro che in cotesto campo della carità si dimostrarono vere eroine, furono le suore che travestirono da consorelle donne ebree (di null’altro colpevoli di essere sangue di Gesù e di Maria), che violarono la secolare clausura per dare ricetto a uomini per ragioni di razza o politica perseguitati, che accolsero bimbi di fuggitivi, che si prestarono a falsificazioni di documenti personali procurando esse stesse o agevolandone il conseguimento: l’opera grandiosa e pericolosa compiendo con semplicità e coraggio e disinteresse indicibile. Il persecutore ne era informato, ma non osò violare i sacri recinti oltre un certo limite: l’ombra grande proiettata da San Pietro salvaguardava anche gli asili più remoti e solitari. O sorelle buone e care, siate benedette insieme con gli altri, da Dio, il Quale del premio destinatovi, vi ha dato anche quaggiù un prezioso saggio, consentendovi di assistere a tante mirabili conversioni di persone da voi beneficate, le quali dopo aver sperimentato che la sostanza della religione nostra è amore, amore senza distinzione, amore senza limiti, non hanno resistito al dolce invito della grazia e sono ridivenuti, o divenuti, anche per fede fratelli nostri» (Onorato Tescari).

 Restate di nuovo nella nostra pace, si continua la vita di comunità. Preghiera e lavoro. Già dal 1925 si lavora per la ditta Gammarelli di parati sacri, più tardi, nel medesimo anno anche la ditta Romanini domanda che si confezionino i parati sacri. Già dalla venuta delle consorelle agostiniane di Santa Prisca che lavavano la biancheria personale dei padri della Compagnia di Gesù, nella Pontificia Università Gregoriana, si proseguì per alcuni mesi, poi la biancheria personale la lasciammo e cedemmo alle Suore delle sordomute, proseguendo a occuparci della biancheria di sagrestia tanto della Pontificia Università, che dell’Istituto Pontificio Biblico, in seguito del Collegio Borromeo e Sant’Andrea al Quirinale. Per la chiesa della Vittoria, si attendeva già da più di cinquant’anni e così dei padri Trappisti.

Si seguita nella vita ordinaria, si celebra la solennità di padre Agostino con le consuete funzioni. Senza novità, giungiamo alla solennità dei Santi Quattro che monsignor Respighi celebra sempre in maniera grandiosa. Quindi chiudiamo anche quest’anno, così speciale di avvenimenti, ringraziando il Signore di tutte le grazie concesse.

 

 

 


 

 

DOMENICA 15 OTTOBRE 2006

 

La «secolarizzazione interna» alla Chiesa. Cattolici, le sirene della fede «fai da te»

La secolarizzazione? Non riguarda solo chi sta fuori dalla porta delle nostre chiese. Viviamo costantemente anche «l'insidia di una secolarizzazione interna». E riflettere sulla testimonianza cristiana, come farà la Chiesa italiana a Verona, significa fare i conti anche con questo problema.

Il cardinale presidente della Cei, Camillo Ruini, inquadrava così, in uno dei passaggi della prolusione di lunedì al Consiglio episcopale permanente, una delle grandi sfide legate al decennio su cui i 2.700 delegati si preparano a confrontarsi al Convegno ecclesiale. E lo ha fatto attingendo al magistero dei vescovi spagnoli, che proprio a tale tema hanno dedicato di recente un documento. «La questione principale che deve affrontare la Chiesa in Spagna è la sua secolarizzazione interna», all'origine della quale assumono «un ruolo importante alcune proposte teologiche deficitarie», si legge in uno dei passaggi chiave dell'Istruzione pastorale Teologia e secolarizzazione in Spagna. A quarant'anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II, resa nota lo scorso mese di aprile. Un testo che vale dunque la pena di ripercorrere.

Il documento, scrivono i vescovi spagnoli, ha un duplice obiettivo: da una parte «offrire una parola di orientamento» di fronte a interpretazioni dottrinali «che hanno trovato una diffusa accoglienza anche in Spagna, turbando la vita ecclesiale e la fede dei semplici»; dall'altra, si vorrebbero «identificare le cause principali» di tale «secolarizzazione interna». La loro analisi non è priva di luci, ma conferma l'esistenza di molte ombre. Fra tutte spicca la preoccupazione dei vescovi per la «presentazione deformata del Mistero di Cristo». Le «interpretazioni riduzioniste» rilevate dalla Cee (la Conferenza episcopale spagnola) trovano le loro radici essenzialmente in quattro grandi nodi: la «concezione razionalista della fede e della Rivelazione», l'«umanesimo immanentista applicato a Gesù», «l'interpretazione puramente sociologica della Chiesa» e infine il «soggettivismo-relativismo secolare nella morale cattolica». Sono letture che provocano confusione e dubbi fra i fedeli e all'interno della Chiesa - avvertono i vescovi - e ostacolano l'evangelizzazione. In Spagna - continua il documento - sono state diffuse «concezioni erronee» del ministero della Chiesa, come se Gesù non avesse voluto fondare la «sua Chiesa» e le ragioni all'origine della «costituzione gerarchica» di quest'ultima fossero esclusivamente umane, null'altro. Ci sono alcuni - sottolinea la Cee - che vorrebbero presentare una divisione, una spaccatura fra la «Chiesa delle origini» e «l'istituzionale e gerarchica». Non solo: esistono gruppi che «divulgano sistematicamente insegnamenti contrari al magistero della Chiesa in questioni di fede e morale». In questo senso il problema non è solo esterno, e non proviene solo da una secolarizzazione generalizzata della società spagnola, che negli ultimi tempi ha avuto un'ampia eco dopo l'approvazione di polemiche leggi da parte del governo di José Luis Rodriguez Zapatero. Anche gruppi che si dicono cristiani e cattolici - e grazie ad una presenza costante in alcuni mass media - parlano attraverso «manifestazioni, comunicati collettivi e interventi personali in aperto dissenso con l'insegnamento del Papa e dei vescovi». Non sono associazioni molto numerose, afferma la Cee, ma hanno ripercussione nei media e toccano temi delicati - questioni etiche o morali: hanno preso posizione a favore delle assoluzioni collettive, del sacerdozio femminile, delle unioni fra persone omosessuali, provocando «divisioni» e disorientando i fedeli.

Ma soprattutto preoccupa la «concezione deformata della Chiesa» che propongono quei gruppi, convinti dell'esistenza di una frattura fra «gerarchia» (fonte di «imposizioni» e «condanne») e «popolo» («libero» e «plurale»): una lettura che causa «sofferenza» nella Chiesa. Di fronte all'imperante «relativismo radicale» che vive la società, i vescovi ricordano i fondamenti della dottrina della Chiesa nella difesa della vita, nel campo della sessualità e nella morale sociale. Infine, un appello alla coerenza anche nell'ambito socio-politico: il documento critica quanti «rivendicano la condizione di cristiani» ma poi la contraddicono, difendendo proposte contrarie alla verità del Vangelo. Secondo la Cee i fedeli devono invece «diffondere e appoggiare formazioni o attuazioni politiche che promuovano la dignità della persona umana e della famiglia» e ricordare la «responsabilità pubblica» dei cattolici per «frenare delle leggi negative». (Michela Coricelli in Avvenire 23 settembre 2006)

 


 

Contro il Papa l’indifferenza dell’Occidente

Partendo dalla citazione di un imperatore bizantino da lui stesso definita a Regensburg «sorprendentemente brusca» e «pesante» - così che la precisazione secondo cui citando queste antiche parole il Papa non intendeva farle sue esplicita l’ovvio, e non configura affatto una richiesta di scuse ai musulmani - Benedetto XVI ha rotto un tacito patto fra gli uomini politici dell’Occidente e l’islam, scattato dopo l’11 settembre.

Si poteva e si doveva condannare il terrorismo. Ci si poteva spingere fino a parlare male del fondamentalismo. Ma si doveva rimanere sul terreno dell’ordine pubblico, senza mai parlare delle radici teologiche profonde del nesso fra islam e violenza. Questo nesso non sta in una deviazione dal Corano ma in alcune sure del Corano stesso; non in un fraintendimento del Profeta Muhammad ma in insegnamenti precisi della seconda fase del suo magistero; non in un’idea di Dio inventata da Bin Laden ma nella nozione stessa della Divinità che è storicamente prevalsa nel percorso della teologia islamica. Questo il Papa ha detto a Regensburg, e non ha certo rinnegato in seguito.

Senza escludere - e anzi auspicando - che la pianticella, per ora piccola e gracile, di un islam diverso e davvero moderato possa svilupparsi, e quindi continuando a cercare il dialogo con chi lo rappresenta, il Papa ha rotto il patto per cui si doveva parlare sempre di polizia e mai di teologia. Gli stessi Bush e Blair avevano proclamato l’islam una «religione di pace», coltivando la finzione - che fa prevalere la ragion politica sulla ragione storica - per cui la fragile minoranza moderata sarebbe l’unica titolata a rappresentare il «vero» islam. A cinque anni dall’11 settembre, dopo le folli dichiarazioni di Ahmadinejad, il rinnovato terrorismo di Hamas e degli Hezbollah, il continuo reclutamento anche in Occidente di terroristi suicidi di Al Qaida, il Papa ha deciso che non è più tempo di reticenza ma di chiarezza.

Calmata la prima tempesta, nel mondo islamico si sono levate voci di buon senso disponibili ad ammettere che molto di quanto il Papa ha detto merita almeno una seria riflessione. Molto, molto peggio è andata in Occidente. Abbiamo visto tre tipi di critici non solo non difendere il Papa, ma attaccarlo. I primi sono gli ignoranti, che sanno poco di islam, nulla di storia delle religioni e semplicemente non hanno le categorie per capire un discorso difficile come quello di Regensburg. Un Di Pietro che, tra uno sforzo e l’altro di azzeccare i congiuntivi, cerca di dare lezioni di teologia al Papa fa semplicemente ridere, e perde l’ennesima occasione di stare zitto. I secondi - si vedano l’editoriale del New York Times, ma anche i giri di parole di D’Alema e Prodi - sono i sostenitori del patto tacito secondo cui alcune autorità islamiche condannano il terrorismo e l’Occidente in cambio rinuncia a indagare sulle sue radici teologiche. Anziché stracciarsi le vesti per le semplici verità che Benedetto XVI ha detto sull’islam, farebbero meglio ad ammettere che il patto non ha funzionato, visto che il terrorismo continua, e che dove ha fallito la polizia è giusto che torni alla ribalta la teologia. I terzi sono i laicisti, che avversano il Papa in quanto Papa, e per cui ogni occasione per attaccare Benedetto XVI è buona. In ogni caso, nell’attuale scontro di civiltà, il Papa è stato l’unico che ha avuto il coraggio di rinunciare al politicamente corretto e schierasi senza reticenze per l’Occidente e per i suoi valori: per tutto ringraziamento, l’Occidente lo ha in sostanza lasciato solo. (Massimo Introvigne, il Giornale, 19 settembre 2006).

 


 

Sulla morte «dolce» e altri inganni

Il dibattito sull’eutanasia che si è appena riaperto serve a capire i valori in gioco e a riflettere attorno a soluzioni rispettose della vita e umanizzanti per le persone coinvolte. Da questo punto di vista dobbiamo riconoscere che spesso si usano i media più per far clamore, giocare a chi grida più forte per imporsi e non invece per avviare una serena discussione. Per dare un contributo di chiarezza il più semplice possibile proviamo a replicare ad alcune espressioni assai ricorrenti nelle argomentazioni di chi vorrebbe legalizzare l’eutanasia.

«Quando si soffre troppo, la vita non ha più senso: è solo una tortura».

Qui si pone innanzitutto la questione del dolore nella fasi terminali della vita. Va detto con chiarezza che la medicina oggi è in grado di lenire tutte le forme della sofferenza fisica. Se ci sono persone che ancora non vengono curate adeguatamente, vuol dire che ci sono responsabilità organizzative negli ospedali e nella cultura di alcuni medici. In secondo luogo credo che sia errato stabilire il senso della vita in relazione alla sofferenza. Poniamoci una semplice domanda: la vita dei bambini africani che soffrono gravemente per la fame è priva di senso? La risposta è ovviamente no. Si deve fare di tutto perché stiano meglio. Così noi dobbiamo fare di tutto perché i malati gravi possano vivere la parte finale della loro vita senza dolore fisico e con una assistenza veramente umana.

«Un uomo è libero di decidere la propria sorte, anche di essere fatto morire».

Questa affermazione si presenta un poco astratta. Infatti nella vita di tutti i giorni dobbiamo constatare che la nostra libertà è sempre fortemente condizionata da ciò che fanno gli altri. Neppure la nostra sorte si realizza senza un continuo dialogo e magari scontro con gli altri. Proprio in punto di morte questa dipendenza dagli altri aumenta. Sono gli altri a decidere se quello che io ho detto una volta si sta verificando. Sarà il medico o parenti a dire se è arrivato il momento in cui io avrei voluto morire. Quindi l’idea che facciamo solo di testa nostra è molto irrealistica. Inoltre, va detto che anche nel caso in cui ciascuno di noi potesse scegliere, si avrebbe un forte conflitto tra la liberta del soggetto che chiede di morire e la libertà degli altri uomini, i quali non possono essere considerati come semplici strumenti della nostra volontà.

«Io non la chiederei mai per me e i miei cari, ma non è giusto impedire ad altri il ricorso all’eutanasia».

Questo atteggiamento liberale, che sembra avere a cuore il bene degli altri, merita molta comprensione, ma è profondamente sbagliato. Siamo di fronte a una illusione che non deve essere sottovalutata. Innanzitutto una volta che una cosa come l’eutanasia diventasse comune, difficilmente qualcuno potrebbe sottrarsi alla pressione di togliere il disturbo. In tempi di tagli profondi alla sanità, nei quali chi occupa un letto in ospedale fa spendere molti soldi alla comunità, potrebbe essere forte la tentazione di "indurre" i malati terminali a togliere il disturbo. Potrebbe accadere che ciascuno di noi senta quale dovere di buona creanza non pesare più sugli altri sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista assistenziale. Quindi, già per questo aspetto, è difficile distinguere ciò che succede a me da ciò che succede agli altri. Siamo accomunati da un destino simile. Su un piano un po’ più di teoria bisogna dire che il ragionamento è sbagliato per un motivo che ci riguarda in profondità. Se ciascuno di noi è un uomo vero, cerca la verità, cerca il bene. Nonostante le incertezze che si possono avere su molti problemi, piano piano ci facciamo un’idea di molte questioni. Come cittadini noi diamo un contributo onesto alla società e costruiamo il bene comune dando il meglio di noi stessi, cioè quanto nella nostra ricerca personale abbiamo avuto modo di elaborare. Portiamo quello che riteniamo giusto. In una società democratica poi queste diverse concezioni si confrontano. Sarebbe strano, come essere divisi in se stessi, ragionare dicendo: per me è giusto così, ma mi sta bene che altri facciano ciò che non è giusto. Sarebbe una grande contraddizione interiore ed una mancanza di identità. (Michele Aramini, Avvenire, 28 settembre 2006)

 


 

Il Papa: non solo tolleranza, ma autentico rispetto tra ebrei cristiani e musulmani

La necessità di approfondire la reciproca conoscenza tra le religioni per costruire “rapporti non solo di tolleranza, ma di autentico rispetto” e la convinzione che l’impegno umanitario e sociale offre ad ebrei, cristiani e musulmani numerosi campi nei quali “possono e debbono” cooperare sono stati gli argomenti dei quali Benedetto XVI ha parlato oggi in un breve discorso che ha rivolto ad una delegazione della “Anti-Defamation League”, ricevuta in udienza.

Parlando con i rappresentanti del gruppo ebraico, il Papa ha anche ribadito l’opposizione della Chiesa ad ogni forma di antisemitismo.

 “Oggi, nel nostro mondo, i responsabili religiosi, politici, accademici ed economici sono seriamente sfidati a migliorare il livello del dialogo tra popoli e culture. Renderlo effettivo richiede l’approfondimento della nostra reciproca comprensione ed un impegno condiviso per la costruzione di una società di sempre maggiore giustizia e pace. Dobbiamo conoscerci meglio e, grazie alla reciproca scoperta, costruire rapporti non solo di tolleranza, ma di autentico rispetto. Di fatto, ebrei, cristiani e musulmani hanno numerose comuni convinzioni e ci sono numerosi campi di impegno umanitario e sociale nei quali possono e debbono cooperare”.

Rifacendosi poi alla dichiarazione “Nostra Aetate” del Concilio, Benedetto XVI ha affermato che “le radici ebraiche del cristianesimo ci obbligano a superare i conflitti del passato ed a creare nuovi legami di amicizia e collaborazione” e che “la Chiesa deplora tutte le forme di odio o persecuzione contro gli ebrei ed ogni manifestazione di antisemitismo in ogni tempo e da parte di chiunque”.

I quattro decenni trascorsi dalla Nostra Aetate, ha detto ancora il Papa “hanno prodotto numerosi positivi progressi e sono anche stati testimoni di alcuni passi precoci, forse ancora solo tentativi, verso un più aperto confronto sui temi religiosi. E’ proprio a questo livello di franco scambio e di dialogo – ha concluso - che dobbiamo trovare le basi e la motivazione per un rapporto solido e fruttuoso”. (AsiaNews, 12 Ottobre 2006)

 


 

L'impegno a non tacere mai per paura

È due volte importante l'ordine del giorno attraverso il quale il Senato della Repubblica, con felice spirito bipartisan, ha espresso ieri «piena solidarietà» a Benedetto XVI e ha sottolineato, al cospetto dell'opinione pubblica interna e internazionale, la convinta volontà dell'Italia di affermare il «diritto alla libertà religiosa e di parola, in un'ottica di reciprocità». È importante perché rappresenta la risposta pacata e ferma di un consesso democratico agli «ingiusti attacchi» e alle «inaccettabili minacce» che hanno fatto da corona di spine alla limpida lezione magistrale su «fede e ragione» tenuta dal Papa all'Università di Ratisbona e al palese fraintendimento su una presunta offesa all'islam in essa contenuta. La prima risposta di tale dignità che sia risuonata in un Vecchio Continente largamente e incredibilmente incapace di esprimersi nelle sue sedi istituzionali nazionali e comunitarie. Ma è importante anche per il senso che ha assunto questo solenne gesto parlamentare, quello di un'esemplare scelta politica che conferma un principio cardine (e, purtroppo, non sempre onorato) della nostra civiltà: non si può tacere di fronte a un'ingiustizia che si fa ingiunzione a chiudere la bocca e a chinare il capo. E, certo, non si può farlo per paura. O per opportunismo.

È vero che la presa di parola del Parlamento italiano arriva mentre ha ormai perso virulenza la tambureggiante campagna avviata da rappresentanti dell'islamismo politico e culturale, ma anche da terroristi che si proclamano orgogliosamente tali, contro il Pontefice e che purtroppo, in più circostanze, è drammaticamente sfociata in violenze nei confronti di fedeli e comunità cristiane. È però altrettanto vero che l'abbassamento dei toni e il ristabilimento della verità dei fatti non sono avvenuti per caso. Il disarmato coraggio della parola, e la capacità di ascolto, di Benedetto XVI e dei suoi collaboratori hanno infatti permesso in queste settimane - ancora ieri è stato così , nell'incontro tra il Papa e un'importante espressione del mondo ebraico - di affermare, ribadire e precisare la volontà della Chiesa cattolica di costruire attraverso il sereno riconoscimento delle differenze, con profonda ragionevolezza e nel più rigoroso rispetto reciproco il necessario dialogo di pace tra le grandi religioni e tra tutte le persone di buona volontà.

Ci piace pensare che in questo stesso solco si collochi la laica determinazione espressa ieri dall'assemblea di Palazzo Madama. Che ha trovato modo di farsi teatro di qualche scaramuccia verbale di troppo e di alcuni incomprensibili distinguo, ma che soprattutto si è mostrata capace, su una questione di tale rilevanza, di trarre da cinque diverse ipotesi di mozione un testo unitario. Votato da parlamentari di tutte le forze politiche, e da nessuno bocciato. Un ordine del giorno vincolante non solo sul versante - ovvio e, da sempre, efficacemente presidiato - dell'impegno per la «sicurezza della persona del Pontefice e dei luoghi di culto su tutto il territorio nazionale», ma anche - e con particolare forza - su un fronte più squisitamente politico-diplomatico e, in buona sostanza, culturale.

Il Senato sollecita, infatti, il governo nazionale ad agire a livello europeo per «ampliare il fronte della solidarietà contro le esortazioni alla violenza di esponenti del radicalismo islamico» e ad adoperarsi in ogni sede internazionale per promuovere «iniziative volte a riaffermare i principi di libertà religiosa e di rispetto dei diritti civili». Dare sostanza a un simile programma non sarà facile. Ma è importante - due volte importante, appunto - che il programma ci sia. Che in esso si sostanzi una solidarietà non di maniera con Papa Benedetto. E che i suoi contenuti vengano scanditi, rompendo lo stordito silenzio dell'Europa. Libera e pacata affermazione di una democrazia presente a se stessa, conscia delle sue radici e di valori essenziali per tutti. (Marco Tarquinio, Avvenire, 13 ottobre 2006)

 


 

Il Senato si divide sul Papa: Pontefice o Santo Padre?

Nell’approvare un documento comune di solidarietà a papa Benedetto XVI per le violenti critiche e minacce piovute dal mondo islamico dopo la lezione di Ratisbona, oggi il Senato si è imbarcato in una curiosa querelle circa il modo in cui definire Benedetto XVI: Pontefice, Santo Padre o Sua Santità?

Vi proponiamo il resoconto sull’istruttiva vicenda così come presentato dall’agenzia ANSA.

«Pontefice, Pontefice massimo, Santo Padre o Sua Santità? Il Senato stamani si è imbarcato in una sottile e complessa disputa filologico-politica sulla definizione da utilizzare nell' ordine del giorno che esprime solidarietà a Benedetto XVI, dopo le critiche venute dal mondo islamico per la lezione tenuta all' università di Ratisbona.

Una disputa foriera di inciampi perchè il testo di mediazione dell' unico e unitario odg riportava inizialmente la definizione di "Sua Santità" e di "Santo Padre", sostituita a penna con un più laico Pontefice. Una correzione che ha suscitato le critiche di Giacomo Santini (Dc-Pri-Ind-Mpa). Santini ha parlato di un atto di solerzia che non condivideva e non capiva. Immediati i commenti venuti dai banchi dell' Ulivo e di Forza Italia, ma anche la replica del senatore, che ha sventolato in aula un foglio che parlava della visita che terrà oggi in Senato il Dalai Lama, qualificato come "Sua Santità". "Prego, dunque, di correggere anche questo volantino".

È intervenuto subito Francesco D'Onofrio, che in punta di Costituzione ha ricordato il Concordato e che lo Stato italiano riconosce il Pontefice: "Il termine 'Santo Padrè è un fatto dei cattolici. Quanto al volantino sul Dalai Lama, se questo diventasse oggetto di voto del Senato, sarei favorevole a non chiamarlo Sua Santità per le stesse ragioni". Giovanni Russo Spena (Prc) ha detto che non c' erano obiezioni da parte dei capigruppo nell' usare la motivazione laica della parola "Pontefice". Stessa linea da Beppe Pisanu, ma c'è stata l'opposizione, anche rispetto al suo gruppo che sosteneva la definizione di Pontefice, di Gustavo Selva, che ha chiesto che venisse corretta la definizione del Papa in "Pontefice Massimo". Il senatore di An ha ricordato che il presidente della Repubblica francese si rivolge al capo della Chiesa cattolica utilizzando l' espressione "Tres Saint Pere", cioè Santissimo Padre. Ha chiuso la questione il presidente Marini, che ha sintetizzato il dibattito chiarendo che nel testo approvato Benedetto XVI è definito "Pontefice" invece di "Santo Padre".»

Noi ci permettiamo solo di notare una questione: come mai solo con i cattolici si sente il bisogno di dimostrare la propria laicità mentre poi si dà della "Sua Santità" a tutti gli altri senza alcun problema?  (Il Timone, 12-10-2006)

 

 

 


 

 

DOMENICA 8 OTTOBRE 2006

 

Il papa riscrive il vademecum del buon parroco   (08 ottobre 2006)

 Ecco alcuni passaggi delle risposte di Benedetto XVI ai preti di Albano, ricevuti a Castel Gandolfo il 31 agosto 2006:
1. SULLA RECITA DEL BREVIARIO
La vita interiore è essenziale per il nostro servizio di sacerdoti. [...] È proprio del pastore che sia uomo di preghiera, che stia dinanzi al Signore pregando per gli altri, sostituendo anche gli altri che forse non sanno pregare, non vogliono pregare, non trovano il tempo per pregare. [...] La Chiesa ci dà, quasi ci impone – ma sempre come una madre buona – di avere tempo libero per Dio, con le due pratiche che fanno parte dei nostri doveri: celebrare la santa messa e recitare il Breviario. Ma più che recitare, realizzarlo come ascolto della parola che il Signore ci offre nella Liturgia delle Ore.
Occorre interiorizzare questa parola, essere attenti a che cosa il Signore mi dice con questa parola, ascoltare poi il commento dei Padri della Chiesa o anche del Concilio, nella seconda lettura dell'Ufficio delle Letture, e pregare con questa grande invocazione che sono i Salmi, con i quali siamo inseriti nella preghiera di tutti i tempi. Prega con noi – e noi preghiamo con esso – il popolo dell’Antica Alleanza. Preghiamo con il Signore che è il vero soggetto dei Salmi. Preghiamo con la Chiesa di tutti i tempi. [...]
Oggi abbiamo avuto [nel Breviario] questo meraviglioso commento di san Colombano su Cristo fonte di acqua viva alla quale beviamo. [...] La gente ha sete. E cerca di rispondere a questa sete con diversi divertimenti. Ma comprende bene che questi divertimenti non sono l'acqua viva della quale ha bisogno. Il Signore è la fonte dell'acqua viva. [...] Così cerchiamo di berla nella preghiera, nella celebrazione della santa messa, nella lettura: cerchiamo di bere da questa fonte perché diventi fonte in noi. E possiamo meglio rispondere alla sete della gente di oggi.
2. SULLA CHIESA CHE È SEMPRE VIVA
Abbiamo speranza per questa diocesi [...] e per la Chiesa? Rispondo senza esitazione: sì! [...] La Chiesa è viva! Abbiamo duemila anni di storia della Chiesa, con tante sofferenze, anche con tanti fallimenti: pensiamo alla Chiesa in Asia Minore, alla grande e fiorente Chiesa dell'Africa del Nord che con l'invasione musulmana è scomparsa. Quindi porzioni di Chiesa possono realmente scomparire, come dice il Signore nell’Apocalisse: “Se non ti ravvederai verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto” (2, 5). Ma, d'altra parte, vediamo come tra tante crisi la Chiesa è risorta con una nuova giovinezza, con una nuova freschezza.
Nel secolo della Riforma, la Chiesa Cattolica appariva in verità quasi finita. Sembrava trionfare questa nuova corrente, che affermava: adesso la Chiesa di Roma è finita. E vediamo che con i grandi santi, come Ignazio di Loyola, Teresa d'Avila, Carlo Borromeo ed altri, la Chiesa risorge. Trova nel Concilio di Trento una nuova attualizzazione e una rivitalizzazione della sua dottrina. E rivive con grande vitalità.
Vediamo il tempo dell'Illuminismo, nel quale Voltaire ha detto: finalmente è finita questa antica Chiesa, vive l'umanità! E cosa succede, invece? La Chiesa si rinnova. Il secolo XIX diventa il secolo dei grandi santi, di una nuova vitalità per tante congregazioni religiose, e la fede è più forte di tutte le correnti che vanno e vengono.
È così anche nel secolo passato. Ha detto una volta Hitler: “La Provvidenza ha chiamato me, un cattolico, per farla finita con il cattolicesimo. Solo un cattolico può distruggere il cattolicesimo”. Egli era sicuro di avere tutti i mezzi per distruggere finalmente il cattolicesimo. Ugualmente la grande corrente marxista era sicura di realizzare la revisione scientifica del mondo e di aprire le porte al futuro: la Chiesa è alla fine, è finita! Ma la Chiesa è più forte, secondo le parole di Cristo. È la vita di Cristo che vince nella sua Chiesa.
Anche in tempi difficili, quando mancano le vocazioni, la parola del Signore rimane in eterno. E chi – come dice il Signore – costruisce la sua vita su questa “roccia” della parola di Cristo, costruisce bene. Perciò, possiamo essere fiduciosi. Vediamo anche nel nostro tempo nuove iniziative di fede. Vediamo che in Africa la Chiesa, pur con tutti i problemi, ha tuttavia una freschezza di vocazioni che incoraggia. E così, con tutte le diversità del panorama storico di oggi, vediamo – e non solo, crediamo – che le parole del Signore sono spirito e vita, sono parole di vita eterna [...] come abbiamo sentito domenica scorsa nel Vangelo, [...] e quindi una speranza che non fallisce.

3. SUL VALORE MISSIONARIO DEL BATTESIMO E DELLA CRESIMA
Il battesimo [...] ci mette in contatto anche con quanti non sono troppo credenti e [...] raramente vanno in chiesa. L'impegno di preparare il battesimo, di aprire le anime dei genitori, dei parenti, dei padrini e delle madrine, alla realtà del battesimo, già può essere e dovrebbe essere un impegno missionario, che va molto oltre i confini delle persone già “fedeli”. Preparando il battesimo, cerchiamo di far capire che questo sacramento è inserimento nella famiglia di Dio, che Dio vive, che Egli si preoccupa di noi. Se ne preoccupa fino al punto di aver assunto la nostra carne e di aver istituito la Chiesa che è il suo corpo, in cui può assumere di nuovo carne nella nostra società. Il battesimo è novità di vita nel senso che, oltre al dono della vita biologica, abbiamo bisogno del dono di un senso per la vita che sia più forte della morte e che perduri anche se i genitori un giorno non ci saranno più. [...]
C'è poi la cresima, da preparare nell'età in cui le persone iniziano a prendere decisioni anche nei riguardi della fede. Certamente non dobbiamo trasformare la cresima in una specie di “pelagianesimo”, quasi che in essa uno si faccia cattolico da solo, ma in un intreccio tra dono e risposta.
4. SUL MATRIMONIO E I DIVORZIATI RISPOSATI
Anche il matrimonio si presenta come una grande occasione missionaria, perché oggi – grazie a Dio – vogliono ancora sposarsi in chiesa anche molti che non la frequentano tanto. È un'occasione per portare questi giovani a confrontarsi con la realtà che è il matrimonio cristiano, il matrimonio sacramentale.
Mi sembra anche una grande responsabilità. Lo vediamo nei processi di nullità e lo vediamo soprattutto nel grande problema dei divorziati risposati, che vogliono accostarsi alla comunione e non capiscono perché non è possibile. Probabilmente non hanno capito, nel momento del “sì” davanti al Signore, che cosa è questo “sì”. È un allearsi con il “sì” di Cristo con noi. È un entrare nella fedeltà di Cristo, quindi nel sacramento che è la Chiesa e così nel sacramento del matrimonio.
Perciò penso che la preparazione al matrimonio è un'occasione di grandissima importanza, di missionarietà, per annunciare di nuovo nel sacramento del matrimonio il sacramento di Cristo, per capire questa fedeltà è così capire il problema dei divorziati risposati.
5. SULLA PREPARAZIONE DELL’OMELIA
Nel sinodo dei vescovi dello scorso anno i padri hanno parlato molto dell'omelia, evidenziando come sia difficile oggi trovare il “ponte” tra la parola del Nuovo Testamento, scritta duemila anni fa, e il nostro presente.
Devo dire che l'esegesi storico-critica spesso non è sufficiente per aiutarci nella preparazione dell'omelia. Lo constato io stesso, cercando di preparare delle omelie che attualizzino la parola di Dio, o meglio – dato che la parola di Dio ha un'attualità in sé – per far vedere, sentire alla gente questa attualità. L'esegesi storico-critica ci dice molto sul passato, sul momento in cui è nata la parola, sul significato che ha avuto al tempo degli apostoli di Gesù, ma non ci aiuta sempre sufficientemente a capire che le parole di Gesù, degli apostoli e anche dell'Antico Testamento sono spirito e vita: in esse il Signore parla anche oggi.
Penso che dobbiamo “sfidare” i teologi – il sinodo lo ha fatto – ad andare avanti, ad aiutare meglio i parroci a preparare le omelie, a far vedere la presenza della parola: il Signore parla con me oggi e non solo nel passato. Ho letto, in questi ultimi giorni, il progetto dell'esortazione apostolica post-sinodale. Ho visto, con soddisfazione, che vi ritorna questa “sfida” nel preparare modelli di omelia.
6. SULL’ARTE DI CELEBRARE LA MESSA
San Benedetto, nella sua “Regola”, dice ai monaci, parlando della recita dei Salmi: “Mens concordet voci”, la mente si accordi alla voce, alle parole. [...] La Sacra Liturgia ci dà le parole; noi dobbiamo entrare in queste parole, trovare la concordia con questa realtà che ci precede.
Oltre a questo, dobbiamo anche imparare a capire la struttura della liturgia e perché è articolata così. La liturgia è cresciuta in due millenni e anche dopo la riforma [del Concilio Vaticano II] non è divenuta qualcosa di elaborato soltanto da alcuni liturgisti. Essa rimane sempre continuazione di questa crescita permanente dell'adorazione e dell'annuncio. Così, è molto importante, per poterci sintonizzare bene, capire questa struttura cresciuta nel tempo ed entrare con la nostra mente nella “voce” della Chiesa. [...]
Questa è la prima condizione: noi stessi dobbiamo interiorizzare la struttura, le parole della liturgia, la parola di Dio. Così il nostro celebrare diventa realmente un celebrare con la Chiesa: il nostro cuore è allargato e noi non facciamo un qualcosa, ma stiamo con la Chiesa in colloquio con Dio. Mi sembra che la gente avverta se veramente noi siamo in colloquio con Dio, con loro, e attiriamo gli altri in questa nostra preghiera comune, attiriamo gli altri nella comunione con i figli di Dio; o se invece facciamo soltanto qualcosa di esteriore. L'elemento fondamentale della vera “ars celebrandi” è questa consonanza, questa concordia tra ciò che diciamo con le labbra e ciò che pensiamo con il cuore. [...]
In altre parole, la “ars celebrandi” non intende invitare a una specie di teatro, di spettacolo, ma ad una interiorità che si fa sentire e diventa accettabile ed evidente per la gente che assiste. Solo se vedono che questa non è una “ars” esteriore, spettacolare – non siamo attori! – ma è l'espressione del cammino del nostro cuore, che attira anche il loro cuore, allora la liturgia diventa bella, diventa comunione di tutti i presenti con il Signore.
Naturalmente, a questa condizione fondamentale espressa nelle parole di san Benedetto “Mens concordet voci” – il cuore sia realmente innalzato, elevato al Signore – devono associarsi anche cose esteriori. Dobbiamo imparare a pronunciare bene le parole. Qualche volta, quando ero ancora professore nella mia terra, i ragazzi leggevano [nella messa] la Sacra Scrittura. E la leggevano come si legge un testo di un poeta che non si è capito. Naturalmente, per imparare a pronunciare bene, si deve prima aver capito il testo nella sua drammaticità, nel suo presente. Così anche il prefazio. E la preghiera eucaristica. È difficile per i fedeli seguire un testo così lungo come quello della nostra preghiera eucaristica. Perciò nascono certe nuove “invenzioni”. Ma con preghiere eucaristiche sempre nuove non si risponde al problema. Il problema è che questo sia un momento che inviti anche gli altri al silenzio con Dio e a pregare con Dio. Quindi solo se la preghiera eucaristica è pronunciata bene, anche con i dovuti momenti di silenzio, se è pronunciata con interiorità ma anche con l'arte di parlare, le cose possono andare meglio. [...] Penso che dobbiamo anche trovare occasioni, sia nella catechesi, sia nelle omelie, sia in altre occasioni, per spiegare bene al popolo di Dio questa preghiera eucaristica, perché possa seguirne i grandi momenti: il racconto e le parole dell'istituzione, la preghiera per i vivi e per i morti, il ringraziamento al Signore, l'epiclesi, per coinvolgere realmente la comunità in questa preghiera.
Quindi le parole devono essere pronunciate bene. Poi ci deve essere una adeguata preparazione. I chierichetti devono sapere che cosa fare, i lettori devono sapere realmente come pronunciare. E poi il coro, il canto, siano preparati, l'altare sia ornato bene. Tutto ciò fa parte – anche se si tratta di molte cose pratiche – di quella “ars celebrandi” che [...] è l’arte di entrare in comunione con il Signore.
7. SULLA FEDELTÀ NEL SACERDOZIO COME NEL MATRIMONIO
Molti giovani tardano a sposarsi in chiesa, perché hanno paura della definitività: anzi, tardano anche a sposarsi civilmente. La definitività appare oggi a molti giovani, e anche non tanto giovani, un vincolo contro la libertà. E il loro primo desiderio è la libertà. Hanno paura che alla fine non riescano. Vedono tanti matrimoni falliti. Hanno paura che questa forma giuridica, come essi la sentono, sia un peso esteriore che spegne l'amore.
Bisogna far capire che non si tratta di un vincolo giuridico, un peso che si realizza con il matrimonio. Al contrario, la profondità e la bellezza stanno proprio nella definitività. Solo così esso può far maturare l'amore in tutta la sua bellezza. [...]
Anche nella crisi, nel sopportare il momento in cui sembra che non se ne può più, realmente si aprono nuove porte e una nuova bellezza dell'amore. Una bellezza fatta solo di armonia non è una vera bellezza. [...] La vera bellezza ha bisogno anche del contrasto. L'oscuro e il luminoso si completano. Anche l'uva per maturare ha bisogno non solo del sole ma della pioggia, non solo del giorno ma della notte.
Noi stessi, sacerdoti, sia giovani che adulti, dobbiamo imparare la necessità della sofferenza, della crisi. Dobbiamo sopportare, trascendere questa sofferenza. Solo così la vita diventa ricca. Per me ha un valore simbolico il fatto che il Signore porti per l'eternità le stimmate. Espressione dell'atrocità della sofferenza e della morte, esse sono adesso sigilli della vittoria di Cristo, di tutta la bellezza della sua vittoria e del suo amore per noi.
Dobbiamo accettare, sia da sacerdoti sia da sposati, la necessità di sopportare la crisi dell'alterità, dell'altro, la crisi in cui sembra che non si possa più stare insieme. Gli sposi devono imparare insieme ad andare avanti, anche per amore dei bambini, e così conoscersi di nuovo, amarsi di nuovo, in un amore molto più profondo, molto più vero. Così, in un cammino lungo, con le sue sofferenze, realmente matura l'amore.
Mi sembra che noi sacerdoti possiamo anche imparare dagli sposi, proprio dalle loro sofferenze e dai loro sacrifici. Spesso pensiamo che solo il celibato sia un sacrificio. Ma, conoscendo i sacrifici delle persone sposate – pensiamo ai loro bambini, ai problemi che nascono, alle paure, alle sofferenze, alle malattie, alla ribellione, e anche ai problemi dei primi anni, quando le notti trascorrono insonni a causa dei pianti dei piccoli figli – dobbiamo imparare da loro, dai loro sacrifici, il nostro sacrificio. E, insieme imparare che è bello maturare nei sacrifici e così lavorare per la salvezza degli altri. [...]
Per me rimane molto importante che nella Lettera di san Paolo agli Efesini le nozze di Dio con l'umanità tramite l'incarnazione del Signore si realizzino nella croce, nella quale nasce la nuova umanità, la Chiesa. Il matrimonio cristiano nasce proprio in queste nozze divine. È, come dice san Paolo, la concretizzazione sacramentale di quanto succede in questo grande mistero. Così dobbiamo sempre di nuovo imparare questo legame tra croce e risurrezione, tra croce e bellezza della redenzione, e inserirci in questo sacramento. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad annunciare bene questo mistero, a vivere questo mistero, a imparare dagli sposi come lo vivono loro, ad aiutarci a vivere la croce, così da giungere anche ai momenti della gioia e della risurrezione.
8. SU SAN FRANCESCO “IL CONVERTITO”
Qui ad Albano, ho sentito, è stata fatta una rappresentazione della vita di san Francesco. [...] Può essere un'educazione ad entrare in un contesto di tradizione cristiana, a risvegliare la sete di conoscere meglio da dove ha attinto questo santo. Egli non era solo un ambientalista o un pacifista. Era soprattutto un uomo convertito. Ho letto con grande piacere che il vescovo di Assisi, monsignor [Domenico] Sorrentino, proprio per ovviare a questo “abuso” della figura di san Francesco, in occasione dell'ottavo centenario della sua conversione vuol indire un “Anno di conversione”, per [...] far capire che cos'è la conversione collegandoci anche alla figura di san Francesco, per cercare una strada che allarghi la vita. Francesco prima era quasi una specie di play-boy. Poi, ha sentito che questo non era sufficiente. Ha sentito la voce del Signore: “Ricostruisci la mia casa”. E man mano ha capito cosa voleva dire “costruire la casa del Signore”.

 

 

 


 

 

DOMENICA 18 GIUGNO 2006

 

La religione entra nel mondo dei media

Continua a crescere la domanda di contenuti religiosi nei mezzi di comunicazione. Una tendenza costante - nonostante i segnali contrari come “Il Codice da Vinci” e il “Vangelo di Giuda” - che dimostra un’apertura alla presenza e alla trasmissione del messaggio cristiano.

Le vendite di prodotti religiosi negli Stati Uniti, secondo le stime, dovrebbero raggiungere i 9,5 miliardi di dollari (7,4 miliardi di euro) nel 2010, come riportato dal New York Times il 26 aprile. I dati sono tratti dalla società di marketing Packaged Facts. L’aumento delle vendite di prodotti cristiani riguarda sia il mercato cinematografico che quello dei libri, della musica, dei videogame e dei software informatici.

Anche la televisione si sta aprendo ai programmi religiosi. Il 21 maggio, il quotidiano britannico Observer ha reso noto che la BBC sta ultimando un progetto per la rappresentazione della vita di Gesù e degli eventi che condussero alla sua crocifissione. Esso è programmato per la Settimana Santa del 2008 e sarà composto di una serie di trasmissioni serali in formato fiction.

L’articolo dell’Observer commenta anche la recente premiazione annuale per i programmi televisivi religiosi, che si è svolta a Lambeth Palace, sede dell’Arcivescovado anglicano di Canterbury. Il presidente della giuria, Jane Drabble, ex dirigente della BBC, ha espresso la sua sorpresa per la buona qualità dei programmi concorrenti.

Il vincitore è stato “A Test of Faith”, prodotto dalla britannica ITV. Esso si basa sulle reazioni delle persone coinvolte negli attentati terroristici di Londra del 7 luglio 2005. Il secondo posto è stato vinto da una serie sperimentale dal titolo “Priest Idol”, andata in onda in prima serata sulla rete britannica Channel 4. Si tratta di un programma che narra dei tentativi di un prete anglicano, James McCaskill, di ravvivare una parrocchia in fin di vita. Il reality show “The Monastery” di 5 uomini che hanno trascorso 40 giorni in un convento ha vinto un premio di merito. Questo programma ha registrato un’audience di 2,5 milioni di telespettatori e se ne prevede un seguito.

I reality show

Il 22 maggio, un altro quotidiano britannico, l’Independent, ha evidenziato la popolarità dei programmi religiosi tipo I reality show. A giugno la BBC2 trasmetterà “The Convent”, in cui si seguirà la vita di 4 donne che trascorreranno 6 settimane in una comunità di suore. Sempre a giugno, Channel 4 trasmetterà “Six Feet Under: The Muslim Way”, su un’attività di onoranze funebri musulmana con sede a Londra.

Secondo l’Independent, per attirare l’attenzione delle giovani generazioni, la religione deve essere presentata anche nella forma dell’intrattenimento. E il profilo di interesse umano tipico dei I reality show è un modo per fare ciò.

Anche negli Stati Uniti sta decollando il format dei I reality show con contenuto religioso. La Domenica di Pasqua è iniziata una serie in 5 parti, intitolata “God or the Girl”, trasmessa dalla A&E Television, in cui i quattro protagonisti dovevano decidere se entrare in seminario o scegliere il matrimonio.

È in preparazione anche una versione per gli Stati Uniti di “The Monastery”. Divisa in 10 parti, essa dovrebbe andare in onda questo autunno su Learning Channel. Cinque uomini e cinque donne, provenienti da diverse estrazioni vengono ripresi mentre trascorrono 40 giorni in un monastero, come riferito dal Boston Globe l’11 aprile.

Gli uomini sono stati nel Monastery of Christ, a nord di Santa Fe, New Mexico, dai primi di febbraio a metà marzo. Le donne invece nell’abbazia di Nostra Signora del Mississippi, in una fattoria nei pressi di Dubuque, Iowa, da dicembre ai primi di febbraio.

“Siamo interessati a capire come la gente normale possa dare senso alla vita e a verificare come la tradizione monastica di 1500 anni fa possa essere ancora di insegnamento al giorno d’oggi”, ha spiegato il produttore Sarah Woodford.

Boom dell’editoria

Per quanto riguarda il settore dell’editoria si sta riversando un’ondata di libri religiosi sulle librerie, secondo quanto riportato dalla Reuters il 28 marzo.

Gli autori vogliono approfittare del polverone sollevato dal “Codice da Vinci” di Dan Brown. Tra le proposte vi è il libro di Michael Baigent “The Jesus Papers”, in cui si nega che Cristo sia morto sulla croce. Molto successo riscuotono anche i libri che criticano Dan Brown: Erwin Lutzer, ministro evangelico, ha venduto 300.000 copie del suo “The Da Vinci Deception”.

Tra gli altri libri figura “Divine”, che narra di una moderna figura della Maddalena, scritto da Karen Kingsbury, descritta come autrice di romanzi cristiani, che ha venduto più di 4 milioni di copie dei sui libri, secondo la Reuters.

Bart Ehrman pubblicherà un libro dal titolo “Peter, Paul and Mary Magdalene”, che affronta alcune questioni sollevate da Dan Brown, e nega l’esistenza di prove di alcun matrimonio tra Gesù e Maria Maddalena.

Per quanto riguarda la fumettistica, vendono bene anche quelli di stampo religioso. Secondo il quotidiano di Londra Telegraph del 26 marzo, si sta lavorando su un progetto per mettere la vita dei santi in fumetti. Un progetto che rientra nel tentativo di attrarre i giovani alla Chiesa cattolica.

Il fumetto sarà pubblicato da Arcadius Press, di Springfield, Missouri. La serie sarà inaugurata in Gran Bretagna alla fine di quest’anno, e l’intenzione è di pubblicare 4 edizioni al mese.

Intanto, a Hong Kong si sta pubblicando una versione a fumetti del Nuovo Testamento, secondo il South China Morning Post del 21 maggio. L’immobiliarista australiano Larry Lee Siu-kee ha commissionato ad Apeiron Production Company questa pubblicazione.

Lee ha affermato di essere stato invogliato a farlo dopo la recente pubblicazione di ciò che ha definito come falsità. “Affermando le loro storie come se fossero dei fatti, come nel ‘Codice da Vinci’, essi avvelenano i giovani, molti dei quali penseranno che si tratti di cose vere”, ha spiegato. Lee ha detto che le 6.000 copie della prima edizione sono sparite dagli scaffali in un attimo, e che quindi ne ha fatte stampare altre 20.000.

Elettronica

L’apocalittica serie bestseller di “Left Behind” esiste adesso anche in versione videogame, secondo il Los Angeles Times del 10 maggio. Il gioco dal titolo “Left Behind: Eternal Forces”, è stato presentato all’esposizione annuale Electronic Entertainment Expo di Los Angeles.

Ma non era l’unico. Un altro produttore era presente con giochi basati sulla serie cristiana per bambini intitolata “Veggie Tales”. Un altro ancora presentava “Bibleman: A Fight for Faith”, che narra di un supereroe che lotta per difendere la parola di Dio.

I video giochi di stampo cristiano hanno ancora molta strada da fare, secondo il Los Angeles Times. Uno dei videogame cristiani più venduti, dal titolo “Catechumen”, prodotto dalla Christian Game Developers Foundation di San Diego, ha venduto 80.000 copie sin dal 1999. Una quantità assai inferiore rispetto al successo, ad esempio, delle 5,1 milioni di copie di “Grand Theft Auto: San Andreas”.

Altre iniziative dirette a trasmettere il messaggio religioso riguardano la creazione di una stazione radiofonica satellitare per la città di New York. L’Arcidiocesi cattolica locale, di recente, ha annunciato di essersi impegnata, insieme a Sirius Satellite Radio, a costituire un’emittente, secondo quanto riportato dal New York Times dell’11 maggio. Joseph Zwilling, un portavoce dell’Arcidiocesi, ha detto che dovrebbe essere inaugurata in autunno.

Secondo questo articolo, delle 17.000 stazioni radiofoniche autorizzate negli Stati Uniti, 1.700 sono protestanti o evangeliche, mentre solo 130 sono cattoliche. Ma Stephen Gajdosik, presidente della Catholic Radio Association, ha affermato che il numero delle emittenti cattoliche sta crescendo al ritmo di circa una al mese.

La Chiesa ha celebrato lo scorso 28 maggio la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Nel suo messaggio per questa occasione, scritto in data 24 gennaio, Benedetto XVI ha invitato i media a “contribuire costruttivamente alla diffusione di tutto quanto è buono e vero” (n. 2).

Il Papa ha anche osservato che i cristiani sono chiamati a condividere il messaggio di Dio con gli altri. Questa chiamata deriva dal riconoscimento della forza dinamica di Cristo dentro di noi, “che da noi desidera espandersi agli altri, affinché questo amore diventi realmente la misura dominante del mondo” (n. 1). Una forza che sta trovando sempre maggiore spazio nei media. (Zenit, 10 giugno 2006)

 


 

Eucaristia, liturgia e arte sacra per contrastare la secolarizzazione

Monsignor Raffaello Martinelli, dal 1980 Officiale della Congregazione della Dottrina della Fede, sostiene che ci sono tre strade privilegiate in grado di contrastare l’odierna secolarizzazione: l’Eucaristia, la liturgia e l’arte sacra.

In un libro appena pubblicato dalle Edizioni San Clemente, con il titolo “L’Eucaristia, dono incomparabile di Dio agli uomini”, monsignor Martinelli ha rilevato che per spiegare l’Eucaristia, mai sufficientemente contemplata, celebrata e vissuta, si è servito di numerose immagini sacre, perché “l’arte parla sempre, almeno implicitamente del divino, della bellezza infinita di Dio, riflessa nell’Icona per eccellenza Cristo Signore, immagine del Dio invisibile”.

Facendo riferimento a quanto scritto dal Pontefice Benedetto XVI nell’introduzione al Compendio del Catechismo, monsignor Martinelli ha sottolineato come “le immagini sacre con la loro bellezza sono anch’esse annuncio evangelico” perché “esprimono lo splendore della verità cattolica mostrando la suprema armonia tra il buono e il bello”.

Scriveva San Giovanni Damasceno “la bellezza e il colore delle immagini sono uno stimolo per la mia preghiera. E’ una festa per i miei occhi, così come lo spettacolo della campagna apre il mio cuore a rendere gloria a Dio”.

Il prelato che è dal 1987 Rettore del Collegio ecclesiastico Internazionale San Carlo e Primicerio della Basilica dei SS Ambrogio e Carlo al Corso, a Roma, ha sollecitato i credenti a conoscere il mistero eucaristico, amandolo, contemplandolo, celebrandolo e pregandolo.

Interrogato da Zenit sul perché oggi il sacramento dell’Eucaristia trovi difficoltà a diffondersi, monsignor Martinelli ha risposto che “le inchieste ci dicono che le percentuali di persone che frequentano la messa domenicale nelle grandi città italiane sono tra l’8 ed il 9 per cento della popolazione. Certo le statistiche sono da prendere con le molle, ma i dati sono bassi”.

“Uno dei problemi maggiori della celebrazione eucaristica odierna è stata la tentazione di abbandonare le forme tradizionali senza proporre una sostituzione adeguata – ha indicato –. E’ stato facile demolire il passato, ma non si sono proposte forme che potessero durare di più nel tempo”.

“Certo – ha continuato – la soluzione non è quella di continuare sulla falsariga del passato, più che rinnovare le forme esteriori dobbiamo immettere nuova linfa vitale. La forma può anche variare o rimanere la stessa, quello che è importante è che venga data una nuova giustificazione, con più vigore e sostegno”.

Monsignor Martinelli ha quindi aggiunto che questa nuova via, “secondo la tradizione cristiana andrebbe presa dalla liturgia, quindi bisogna creare un maggior interscambio tra liturgia e pietà popolare”.

“In questa maniera riusciamo a rinnovare, ringiovanire, e mantenerci anche in quello che è l’aspetto fondamentale ed autentico della nostra fede”, ha sottolineato.

“Sono convinto – ha poi sottolineato – che bisogna ricominciare dall’ABC, spiegando per bene i segni, i gesti, le forme della liturgia”.

Monsignor Martinelli ha quindi accennato al successo riscosso dal libro “Il Codice da Vinci”, spiegandolo alla luce del “grande bisogno di catechesi che emerge dalla gente”.

“Il romanzo e la rappresentazione cinematografica non sono molto interessanti, quello che però essi mettono in evidenza è una grande carenza e ignoranza religiosa proprio in merito alla fede cattolica.

Le argomentazioni di Dan Brown non sono cose nuove, sono già state confutate parecchi secoli fa, e oggi vengono presentati come una scoperta inimmaginabile”.

Allo stesso tempo, però, proprio il successo di vendite e di pubblico de “Il Codice da Vinci” mostrano una evidente “difficoltà”: “In Italia quasi tutti i ragazzi passano attraverso l’educazione cristiana, la comunione, la cresima, l’insegnamento della religione a scuola, e poi però ci ritroviamo di fronte a questa ignoranza già in età adolescenziale e poi da adulti”.

“Dall’altra c’è una richiesta di catechesi evidente. Lei non può immaginare quanto forte e diffusa sia la richiesta di conoscenza religiosa”, ha osservato.

“Ad esempio, riflettendo su moltissime delle domande che i fedeli mi fanno, da un anno a questa parte ho scritto, pubblicato e messo a disposizione nella Basilica dei SS Ambrogio e Carlo al Corso a Roma, alcune schede catechistiche su 33 argomenti di attualità: dal perché è necessario annunciare Gesù Cristo, a come pregare, qual è l’importanza del S. Rosario, come valutare i miracoli, perché i PACS sono dannosi, come la Chiesa considera le unioni omosessuali ecc. Ebbene con mio grande stupore ho constatato che in un anno ben più di 800.000 schede sono state prese ed utilizzate dai fedeli”.

“Una cifra enorme, considerando che le schede passano poi di mano in mano e quindi le persone che la leggono sono molte di più. E devo rilevare che la scheda più gettonata è stata quella che si intitola ‘perché è necessario annunciare Gesù Cristo?’”, ha proseguito. “Questa esperienza mi ha convinto a pubblicare con le edizioni San Clemente un cofanetto intitolato ‘Catechesi Dialogica – Argomenti di attualità’ contenente un CD e tutte le 33 schede che si possono riprodurre”.

“Adesso sto facendo una scheda sui quattro Vangeli autentici, dove spiego perché li riteniamo autentici, perché questi e non i Vangeli apocrifi sono stati accolti dalla Chiesa”, ha affermato l’Officiale della Congregazione della Dottrina della Fede. “Si tratta di un fenomeno interessante, una fame di catechesi che va soddisfatta”, ha poi concluso. (Zenit, 11 giugno 2006)

 


 

Votate contro la ricerca sugli embrioni: l’appello delle Associazioni cristiane ai parlamentari europei

Alcune Associazioni cristiane hanno lanciato in Italia una raccolta di firme per proporre ai parlamentari europei di votare contro il finanziamento europeo alle ricerche sulle cellule staminali embrionali, in modo che ogni Stato possa decidere liberamente ed autonomamente se finanziare o no questo tipo di ricerche.

A farsi promotori dell’iniziativa sono stati il Comitato nazionale “Scienza & Vita”, e le Associazioni “Medicina e Persona”, Universitas University, “Salute Femminile”, Magna Charta, “Movimento per la Vita e Fondazione Ideazione”.

“Noi italiani abbiamo già espresso la nostra contrarietà alla distruzione di embrioni, astenendoci al referendum lo scorso anno, affermano in un comunicato recapitato a Zenit. Non vogliamo finanziare con i nostri soldi questo tipo di ricerche, e vogliamo che la nostra volontà sia rispettata”.

L’appello, indirizzato “a tutti i deputati del Parlamento Europeo”, afferma: “Proprio un anno fa in Italia c’è stato un referendum con cui si voleva abrogare la legge che regola la fecondazione assistita. A quella votazione si è astenuto il 75% degli italiani, favorevoli al mantenimento di quella legge, nella quale, fra l’altro, si vieta la ricerca sugli embrioni”.

“Il 30 maggio, al Consiglio dell’Unione Europea, il nuovo Ministro italiano dell’Università e della Ricerca Scientifica ha compiuto un atto politico grave e prevaricatorio, scegliendo di ignorare il risultato della consultazione democratica dello scorso anno”, si legge ancora.

“Il Ministro Mussi ha infatti ritirato l’adesione dell’Italia alla ‘dichiarazione etica’ dello scorso 28 e 29 novembre 2005, in cui l’Italia, insieme ad altri paesi europei, si opponeva al finanziamento di ricerche - nell’ambito del settimo programma quadro - che avrebbero comportato la distruzione di embrioni”, ricordano.

“L’Italia e gli altri paesi firmatari chiedevano che ogni nazione dell’Unione Europea fosse libera di decidere autonomamente se finanziare o no questo tipo di ricerche, nel rispetto della cultura e della volontà di ogni popolo”, affermano le Associazioni cristiane.

“Ritirando del tutto arbitrariamente l’adesione dell’Italia a quella dichiarazione, il Ministro Mussi costringe noi italiani a finanziare con i nostri soldi le ricerche sugli embrioni che avvengono in altri paesi europei, e che in Italia non sono legali”.

“Il Ministro Mussi ha compiuto un atto politico autoritario, violando la volontà dei cittadini, che si è espressa chiaramente lo scorso anno”, osservano.

I firmatari dell’appello dichiarano, inoltre, la responsabilità in questa vicenda del nuovo governo italiano il quale “ha sostenuto e coperto l’iniziativa del Ministro, smentendo tutte le dichiarazioni fatte in proposito durante la campagna elettorale”.

“Il motivo è semplice: la maggioranza dei membri dell’attuale governo fa parte dello schieramento uscito sconfitto dal referendum dello scorso anno. Invece di accettare democraticamente il verdetto popolare del referendum, il governo attuale, che ha vinto con uno scarto di voti minimo, ha deciso di rovesciarlo attraverso arbitrarie iniziative di potere”, sostengono.

“Per questo ci rivolgiamo a voi, parlamentari europei. E’ in gioco il rispetto delle regole democratiche nel nostro paese, e quindi in Europa”.

“Vogliamo che sia considerata la volontà popolare espressa dai singoli stati membri dell’Unione, nel corso di libere e regolari consultazioni democratiche”, ribadiscono poi.

“Il prossimo 15 giugno, vi chiediamo di votare contro il finanziamento europeo sulla ricerca sulle cellule staminali embrionali, perché ogni stato possa decidere, in assoluta autonomia, se supportare o no questo tipo di ricerche”, concludono.  (Zenit, 12 giugno)

 


 

Un eminente storico svela le bugie sui sacerdoti collaboratori con il regime comunista in Polonia

In una lunga intervista lo storico Peter Raina chiarisce le condizioni in cui viveva il clero polacco sotto il regime comunista e spiega in che modo sia stata orchestrata la campagna di calunnie scatenata contro di esso dopo la morte del Pontefice Giovanni Paolo II.

Il professor Peter Raina ha studiato ad Oxford, ha conseguito il dottorato all’Università di Varsavia ed ha insegnato Storia Contemporanea all’Università di Berlino. E’ autore di numerosissimi volumi sulla Storia Moderna della Chiesa ed ha pubblicato 13 volumi sulla storia del Primate polacco, il Cardinale Stefan Wyszyński.  Si è occupato, inoltre, con saggi ed articoli anche della vicenda del padre Jerzy Popieluszko, ucciso dal regime comunista, e di padre Corrado Hejmo, accusato dalla stampa di essere una spia russa in Vaticano.

L’intervista a Zenit è stata condotta e redatta da Włodzimierz Redzioch.

Qualche settimana dopo la morte del Servo di Dio Giovanni Paolo II è cominciata una grande campagna di denigrazione del clero polacco, accusato di aver collaborato con i Servizi di Sicurezza del regime comunista. Il primo sacerdote ad essere fatto oggetto di tale accuse è stato padre Konrad Hejmo, persona conosciutissima in Polonia ed in Vaticano perché per 20 anni ha diretto il centro per i pellegrini polacchi a Roma ed ha accompagnato i gruppi dei pellegrini dal Papa. I titoli dei giornali di tutto il mondo sono stati tremendi (“La spia comunista nella corte di Giovanni Paolo II” – tanto per citare uno dei più diffusi). Lei, professore, ha chiamato l’affare Hejmo “un linciaggio del sacerdote”. Potrebbe spiegarci i retroscena di questo linciaggio?

Ho descritto dettagliatamente “l’affare Hejmo” nel mio libro pubblicato in polacco intitolato “l’Anatomia del linciaggio” (Editrice “Von Borowiecky”), ma posso brevemente ricordare questa triste storia. Nemmeno due settimane dopo la morte di Giovanni Paolo II il dott. Kieres, direttore dell’Istituto della Memoria Nazionale (IPN), ha dato la notizia, che uno dei sacerdoti vicini al Santo Padre forniva delle informazioni ai Servizi di Sicurezza. Siccome il direttore non ha rivelato il nome della presunta spia, in primo momento tutti pensavano che si trattasse di un vecchio amico del Cardinale Wojtyła, padre Mieczysław Maliński. Nei giorni successivi Maliński doveva ripetere ai media che non si trattava di lui.

Qualche giorno dopo, inoltre, Kieres ha rivelato in modo spettacolare davanti ai giornalisti il nome di padre Hejmo. Ma purtroppo, dall’inizio le notizie fornite dal direttore dell’Istituto erano dubbie o false. Prima di tutto, ha informato i giornalisti che ha ricevuto il dossier di padre Hejmo dal Ministero degli Interni soltanto il 14 aprile del 2005 (dopo si è scoperto che era in possesso del materiale già dal 2 dicembre del 2004). Nascono allora tante domande: perché il Ministero degli Interni ha mandato il materiale riguardante padre Hejmo nel dicembre 2004? Chi ha richiesto questo materiale? Secondo le norme stabilite dal Parlamento polacco circa il funzionamento dell’Istituto della Memoria Nazionale, gli organi di Stato possono richiede all’Istituto di controllare se una persona che deve occupare un posto nell’amministrazione di Stato collaborava con i Servizi comunisti. Ma padre Hejmo non pretendeva di occupare nessun posto nell’apparato dello Stato!

Perché allora hanno deciso di occuparsi del suo caso? Per di più, il direttore Kieres non poteva rivelare pubblicamente, lo dice lo statuto dell’Istituto, il nome della persona verificata. Perché allora ha deciso di farlo, attirando su di sé anche le critiche del Garante dei Diritti di Cittadini? Il “caso Hejmo” è soltanto uno dei tanti. Dopo è toccato a padre Drozdek, rettore del famosissimo santuario mariano a Zakopane, e agli altri.

Come era organizzato in Polonia l’apparato della repressione del clero?

Uno degli scopi principali del totalitarismo comunista era la distruzione psicologica o l’eliminazione fisica degli oppositori. La persecuzione fisica consisteva nell’uso della violenza, compreso l’assassinio. Il terrore psicologico serviva a distruggere la personalità dell’uomo. A questo serviva la reclusione per lunghi anni nelle prigioni, spesso in completo isolamento. Ogni cittadino poteva trovarsi nella situazione “senza uscita”. Tutti dovevano essere coscienti che la loro vita privata, la carriera professionale e il futuro dipendevano dai Servizi di Sicurezza (in polacco Służby Bezpieczeństwa o SB). L’apparato di sicurezza faceva parte della struttura del Ministero degli Interni (MSW), dove esisteva un dipartimento speciale, il cosiddetto Dipartimento IV, che si occupava specificamente della lotta contro la Chiesa (allora si parlava della lotta contro il “clero reazionario“). Esisteva anche uno speciale ufficio investigativo (biuro“C”), che raccoglieva tutte le informazioni riguardanti le persone “sospette”.

Bisogna dire che malgrado le persecuzioni che si protraevano per lunghi anni, le autorità comuniste non sono riuscite né a distruggere la Chiesa cattolica, né a rompere i suoi legami con il popolo, come hanno fatto con tante altre organizzazioni non comuniste. La ragione di questo fallimento era il radicamento profondo della Chiesa nella società polacca. I comunisti hanno fallito anche perché a capo della Chiesa in Polonia in questi anni difficili c’era un grande pastore e statista – il Primate della Polonia, il Cardinale Stefan Wyszyński. Il suo atteggiamento verso il totalitarismo è diventato il simbolo della lotta contro il comunismo.

In che modo i funzionari dei Servizi di Sicurezza riuscivano a costringere i sacerdoti a collaborare e in che cosa consisteva questa collaborazione?

I Servizi di Sicurezza usavano due metodi. Il primo metodo era la politica antiecclesiale delle autorità, per esempio: l’abolizione delle lezioni di religione nelle scuole, i divieti di organizzare delle cerimonie religiose, l’ostacolare l’uso dei mass media da parte della Chiesa. Il secondo metodo, il terrorismo psicologico, era molto più perfido. I modi di terrorizzare i sacerdoti erano molteplici e vale la pene elencarne alcuni: I sacerdoti più zelanti venivano accusati di attività contro lo Stato e di servizio al nemico imperialista. Essi venivano processati in spettacolari processi-farsa che finivano con la pena capitale o le lunghe pene di detenzione. Certi sacerdoti, come per esempio il rev. Kaczyński, sono morti di stenti nelle prigioni. Si cercava di compromettere il sacerdote per poterlo ricattare. Era una prassi comune raccogliere tutte le informazioni possibili circa le abitudini di ogni sacerdote: se gli piacevano gli alcolici o le donne, se era frustrato del lavoro. Spesso, si impiegavano gli agenti-donne per creare qualche situazione compromettente per il sacerdote; di nascosto venivano fatte le fotografie o l’agente-donna informava di essere incinta. Allora, potendo ricattare il sacerdote, gli si faceva una proposta di collaborazione con i Servizi. La collaborazione con il SB consisteva nel fornire le informazioni circa la situazione in parrocchia, l’attività del parroco, il comportamento e le convinzioni del vescovo ecc.

In ogni provincia funzionavano gli Uffici per le Confessioni Religiose (Urzad ds. Wyznań) legati ai Servizi Segreti, che controllavano le attività delle organizzazioni ecclesiastiche. Ogni qual volta l’Episcopato Polacco pubblicava una lettera pastorale contenente una critica del sistema comunista, ogni Vescovo locale veniva chiamato dal presidente della provincia per un incontro durante il quale doveva dare spiegazioni e chiarimenti circa tale Lettera. In quelle occasioni i funzionari statali usavano il metodo del “bastone e carota”: passavano dalle minacce alle offerte di aiuto (per esempio nella costruzione di una nuova chiesa), se il Vescovo avesse promesso di prendere le distanze dal Primate. Di solito i Vescovi rifiutavano qualsiasi collaborazione e per questo motivo le chiese non venivano costruite, la guardia di finanza controllava con cattiveria i conti e le tasse delle parrocchie, i seminaristi venivano maltrattati durante il servizio militare obbligatorio.

La censura di Stato di solito limitava la tiratura delle riviste ecclesiastiche. L’aumento della tiratura dipendeva dalla decisione dell’impiegato dell’Ufficio per le Confessioni Religiose, che collaborava con i Servizi Segreti. Con i preti direttori o segretari delle riviste si usava il metodo che chiamerei: “Qualche cosa in cambio di qualcosa”. Si prometteva di dare il permesso per aumentare la tiratura o di fornire più carta (allora la distribuzione della carta era completamente nelle mani dello Stato), se i responsabili delle riviste si impegnavano a fornire le informazioni riguardanti i membri della redazione. Certi responsabili, con il permesso verbale dei superiori, accettavano tali ricatti perché la possibilità di aumentare la tiratura della stampa religiosa veniva percepita come prioritaria.

Una delle armi di ricatto più usate dai Servizi Segreti era la concessione di un passaporto per poter viaggiare all’estero. Ogni cittadino che faceva richiesta di passaporto veniva invitato per un incontro presso gli uffici del SB. Anche in questi casi valeva la regola “Qualche cosa in cambio di qualcosa”: al cittadino veniva dato il passaporto se prometteva di fornire delle informazioni, e i Servizi volevano sapere tutto sulla gente. Ovviamente questa regola valeva anche per i sacerdoti che per poter andare a studiare all’estero (tanti sacerdoti sognavano di visitare Roma e di continuare gli studi nelle Università pontificie) o per fare i missionari dovevano richiedere il passaporto. Di solito i sacerdoti raccontavano fatti senza nessun significato tanto per soddisfare in qualche modo l’ufficiale dei Servizi, che prendeva nota di tutto.

Dopo la caduta del comunismo, i membri del vecchio apparato di repressione sono stati giudicati per i loro crimini?

Purtroppo no. E’ stato condannato qualche criminale del periodo staliniano (anni ‘50), ma quasi nessuno del periodo successivo (dagli anni ‘60 agli anni ‘80). Questa impunità è la colpa dei governi che si sono succeduti nel periodo postcomunista.

Che cosa è successo agli enormi archivi dei Servizi di Sicurezza comunisti?

Tutto quello che succedeva e succede nei vecchi archivi dei Servizi comunisti è una cosa strana e fuori di ogni regola. Le do un esempio, cominciando dal primo governo postcomunista di Tadeusz Mazowiecki. Il Primo ministro ha nominato ministro degli interni il suo collega sig. Kozłowski, sostituto del redattore-capo del settimanale Tygodnik Powszechny di Cracovia. Con il permesso del ministro Kozłowski quattro persone, tra cui due attivisti della vecchia opposizione politica, uno storico e un giornalista, frugarono negli archivi per 6 settimane. Il solo fatto che Kozłowski permise agli estranei di avere accesso agli archivi con i segreti di Stato è un gesto illegale, che nello Stato di Diritto sarebbe punito. Ufficialmente queste persone “facevano ordine” negli archivi del Ministero degli Interni, ma un ufficiale dello stesso Ministero privatamente ha detto che “certe persone” hanno distrutto i suoi dossier. Per di più lo stesso storico ha ammesso recentemente d’aver collaborato con i Servizi Segreti negli anni ‘70, durante il suo soggiorno-studio nella Germania Federale.

Non si sa invece niente su che cosa abbia fatto negli archivi il giornalista. Fatto sta, che nel frattempo si è scoperto che delle persone della redazione di Tygodnik Powszechny collaboravano con i Servizi. La cosa è tanto più disgustosa se si pensa che riguarda l’ambiente che oggi spesso si erge a “voce libera” della nazione. La gente ha il diritto di sapere la verità su questi personaggi. Secondo la decisione del Parlamento polacco (Sejm) gli archivi dei Servizi Segreti dovrebbero già da tempo stare nei magazzini del cosiddetto Istituto della Memoria Nazionale (in polacco Instytut Pamięci Narodowej – IPN), ma non è così. Una parte degli archivi è stata trattenuta nel Ministero e, paradossalmente, per mettere ordine negli archivi vengono impiegati gli ex dipendenti dei Servizi. Possiamo solo immaginare quali siano i risultati di tale lavoro.

Quali forze e quali ragioni stanno dietro questo linciaggio mediatico del clero in Polonia?

Non ho nessun dubbio: dietro questo linciaggio ci sono certi ambienti ex-comunisti insieme ai cosmopolitici ambienti liberali che vogliono compromettere la Chiesa agli occhi dei cittadini. Non a caso hanno scelto le persone che hanno un certo prestigio morale nella società. Il momento ovviamente non è casuale: i sopraccitati ambienti hanno aspettato la morte del Papa che temevano, per scatenare un attacco frontale contro la Chiesa cattolica.

Le accuse contro i sacerdoti si basano sui rapporti scritti dai membri dei Servizi di Sicurezza. Che valore hanno questi documenti?

I documenti dei Servizi che potevo consultare personalmente sono credibili ma ogni documento va letto attentamente e bisogna saperlo valutare. Non dobbiamo dimenticare come furono redatti questi rapporti. Spesso i funzionari nei loro rapporti aggiungevano sempre qualche cosa per far vedere che lavoravano bene. Succedeva che i funzionari dichiaravano d’aver pagato un agente, ma non era vero perché i soldi finivano nelle loro tasche. Bisogna sottolineare che avere degli incontri con i funzionari dei Servizi non vuol dire esserne il collaboratore; allora prima di accusare qualcuno, bisogna essere sicuri che aveva firmato il documento di collaborazione o che riceveva i soldi. Non si può dichiarare pubblicamente che qualcuno era un agente, una spia solo perché incontrava i funzionari dei Servizi. Questo vuol dire denigrare la persona.

Da quando il Cardinale Stanisław Dziwisz è diventato Arcivescovo di Cracovia, anche in questa città hanno cominciato ad accusare i sacerdoti di essere collaboratori dei Servizi Segreti comunisti. Queste accuse sono state mosse anche da un sacerdote, padre Isakowski-Zalewski, il quale, senza il permesso dell’Arcivescovo e senza nessuna preparazione scientifica, ha cominciato a frugare tra i documenti dei Servizi. Questo sacerdote ha successivamente convocato una conferenza stampa per distribuire l’elenco delle presunte “spie”. Così il Cardinale Dziwisz si è opposto per evitare di denigrare dei sacerdoti. La decisione del porporato è stata aspramente criticata da certi media, compresi i media italiani. Come valuta lei la decisione del Cardinale Dziwisz?

La decisione del Cardinale Dziwisz è giustissima, perché padre Isakowski-Zalewski non si è comportato correttamente e secondo la legge. Se è riuscito ad ottenere il suo dossier dall’Istituto della Memoria Nazionale, è libero di diffondere il suo contenuto. Ma perché minaccia di pubblicare i nomi degli altri sacerdoti? E come mai l’Istituto gli ha dato i dossier riguardanti altre persone? Secondo la legge, l’Istituto può dare tali dossier solo agli storici per la loro ricerca, ma padre Zalewski non fa ricerche storiche, cerca piuttosto di suscitare clamore intorno al suo caso. Il controllo dei cittadini per verificare se collaboravano con il regime comunista deve essere fatto molto responsabilmente. Perciò l’iniziativa del Cardinale Dziwisz di creare una speciale commissione diocesana per studiare il fenomeno di collaborazionismo tra i sacerdoti è importante e lodevole.

La maggioranza dei Polacchi è delusa perché nella Polonia democratica non si è riusciti a processare i criminali del passato regime comunista, gli organizzatori e gli esecutori del sistema del terrore. Per di più, si sottopongono le vittime, cioè i sacerdoti, alla pubblica condanna dei mezzi di comunicazione, rendendoli vittime per la seconda volta. E fatto ancora più strano, non si è riusciti a processare i giornalisti e i giudici che fedelmente servivano lo Stato dittatoriale comunista. Perché tutto questo?

E’ vero che in Polonia funzionano le istituzioni democratiche, ma la Polonia non ha ancora raggiunto la condizione dove vige un vero Stato di Diritto. Purtroppo, la lotta politica riguarda le poltrone e gli interessi privati e non l’interesse e il bene della nazione. E’ prevalso l’opportunismo. I media si caratterizzano per il loro estremismo e non per la loro imparzialità. Direi che questa è una nuova forma di totalitarismo e in questo clima vengono linciate per la seconda volta le vittime del totalitarismo comunista.  (Zenit, 12 giugno)

 


 

Enzo Bianchi e la «differenza» dei  cattolici

Una fortezza assediata. Se c'è un'immagine della Chiesa che Enzo Bianchi proprio non accetta è questa: «La Chiesa - afferma il priore di Bose - non può sentirsi e comportarsi come una fortezza assediata». È un rischio paventato in “La differenza cristiana” (Einaudi, pagine 118, euro 8,00), una riflessione schietta sul concetto di laicità che è da circa tre settimane ai primi posti nella classifica dei libri più venduti.

Per l'autore tira una brutta aria tra cattolici e laici nel nostro Paese. Ormai ogni giorno la Chiesa subisce nei media un «rigurgito di laicismo e anticlericalismo». Potrebbe generarsi nella comunità ecclesiale il timore di essere accerchiata così da rispondere in modo «dogmatico e fondamentalista». Le frizioni si fanno incandescenti soprattutto in campo etico in una società permeata sempre più da un «nuovo ordine libertario». Spiega Bianchi: «I cristiani non possono rinunciare alle proprie convinzioni su etica sessuale e matrimoniale, aborto, eutanasia, bioetica. E hanno il diritto di esporle pubblicamente e vederle recepite senza preconcetti nel dibattito per la formazione delle leggi».

Però l'autore ammette con franchezza che i cristiani non sempre riescono a farsi capire. L'autocritica ricorre spesso nel testo: «Se c'è assenza di Dio nella vita sociale oggi, dovremmo chiederci quanto non dipenda anche dai cristiani e dalla loro incapacità a farsi comprendere». Occorre, secondo il fondatore di Bose, un linguaggio capace di trasmettere quanto il cristianesimo sia al servizio della dignità di ogni uomo. In nome di quella laicità inaugurata proprio da Gesù, con la separazione tra politica (Cesare) e religione (Dio). A Bianchi preme ribadire come «lo scenario attuale non sia da incubo»: la Chiesa ha conosciuto sin dalle origini l'ostilità verso il Vangelo. Altrimenti tra i cattolici si alimenta solo il vittimismo. L'evangelizzazione deve invece affrontare due fenomeni inediti: l'indifferenza e il pluralismo religioso dovuto all'immigrazione. Problemi nuovi, che non combattono apertamente il cristianesimo ma lo rendono insignificante o una proposta come altre.

Lo sforzo dei credenti sarà allora quello di costruire con pazienza un dialogo che sia prima di tutto ascolto. Qui deve emergere la «differenza cristiana», il prendersi cura quotidianamente dell'umanità senza la pretesa di reciprocità, come ha fatto Cristo. Ma per essere "diversi" «i cristiani stessi devono essere evangelizzati» ammonisce Bianchi. Colpisce la sproporzione tra le poche pagine del saggio e i numerosi spunti per la discussione. Se l'autocritica cattolica è assai severa, il motivo è racchiuso nella premessa in cui l'autore si augura che tutti possano riconoscere «il patrimonio di sapienza umana e spirituale della Chiesa». Alla fine del libro permane però la sensazione del difficile compito che attende il credente: la sua testimonianza si muove tra custodia dell'identità e confronto senza pregiudizi; desiderio di dialogo senza caduta nel relativismo o abiura della propria storia. Forse perché il biblista Bianchi sa bene quante volte nelle Scritture Dio ripete al fedele: «Non temere». Ben 365: ogni giorno dell'anno. (Antonio Giuliano Avvenire 14 giugno 2006)

 


  

Il matrimonio. Un confronto vero con la realtà

Vanno molto di moda i legami “autentici”, ma è il matrimonio che ci fa misurare con la realtà

A cosa serve un marito? A fare di una donna una donna onesta, avrebbe detto mia nonna” scrive Lucy Mair, autrice di una delle prime ricerche antropologiche sul matrimonio. Oggi il matrimonio non “serve” più a nessuno, né alle donne né agli uomini. Ed è proprio da questo deriva la sua tremenda fragilità. Un tempo, quando era forte, serviva addirittura alla sopravvivenza, perché univa due esseri che svolgevano ruoli diversi, e proprio per questo erano indispensabili l’uno all’altra. Oggi, il matrimonio non è neppure più la cornice – se non indispensabile, almeno desiderabile – per la procreazione di un figlio: sempre più numerosi sono i bambini concepiti al di fuori di esso, e stanno aumentando anche quelli che nascono al di fuori della coppia donna-uomo. Alla separazione fra sessualità e procreazione è seguita subito, come conseguenza, quella fra matrimonio e procreazione, e quindi fra matrimonio e sessualità: il matrimonio, cioè, è stato privato della ragione profonda del suo esistere. Oggi, liberato di tutti quei condizionamenti che abbiamo percepito come vincoli all’espressione della nostra libertà individuale, è ridotto alla sua sostanza, o meglio a quella che a noi, figli del romanticismo, sembra la sua sostanza: l’“autenticità” dei sentimenti che lo ispirano, l’innamoramento e l’attrazione sessuale che, come ben sappiamo, hanno una breve durata. E non sappiamo più vivere il matrimonio senza queste componenti che la cultura romantica ci ha insegnato essere le sole degne di giustificare un’unione. Ridotto alla sostanza dell’autenticità del legame, il matrimonio può anche prescindere dalla differenza sessuale, da quella che tutte le società della storia hanno sempre considerato la preziosa fecondità su cui si basava ogni società naturale e storica. E viene privato ancora una volta di una delle sue ragioni di essere essenziali: il confronto con il diverso.

L’illusoria corsa verso la felicità

Ma proprio in questo panorama di crisi e difficoltà, proprio mentre il matrimonio sembra destinato a scomparire a favore di una successione di legami “autentici” liberamente scelti ogni momento, anche a prescindere dalla diversità di genere, che ci viene presentata come una corsa verso la felicità molto allettante – se pure destinata a fallire, la speranza si rinnova sempre – ne possiamo vedere tutto il potenziale positivo. Il matrimonio è l’unica scelta “per la vita” che ci offre la nostra società: oggi che tutto è labile, che sembra dipendere solo dai nostri desideri, il matrimonio è l’unica esperienza che ci sfida a prendere una decisione profonda e duratura, a intervenire in modo stabile a definire la nostra identità. E’ l’unica occasione che ci si offre per superare una fase adolescenziale – cioè quella in cui non è definito niente, tutti i giochi sono ancora aperti – che oggi si è dilatata bel al di là degli anni della giovinezza, fino a invadere anni un tempo considerati come appartenenti all’età “matura”. Il matrimonio, definendoci come marito o moglie di quella persona, chiude una porta alle infinite possibilità nuove di definirci, di immaginarci, e ci costringe a misurarci con la realtà. E, proprio per questo, è l’unica scelta che ci permette di fare dei passi in avanti nella conoscenza e nella costruzione di noi stessi, come tutti i confronti veri con la realtà. In sostanza, ci fa uscire da quel ciclo di ripetizioni continue a cui ci riduce la moltiplicazione infinita delle avventure amorose – in fondo sempre uguali a se stesse, o meglio in cui noi siamo uguali a noi stessi – e ci apre finalmente le porte al nuovo, alla scoperta di nuove capacità, nuove debolezze, nuovi pezzi di noi stessi che non conoscevamo. In fondo, il matrimonio è l’unica esperienza, oggi, che ci offre la possibilità di vivere veramente qualcosa di nuovo. (Lucetta Scaraffia, Il Foglio, 23 maggio 2006)

 


  

Le radici filosofiche dell’odio nei confronti della famiglia

Ciò che stiamo assistendo in questa epoca storica è un attacco fortissimo alla famiglia tradizionale. Perché tanto odio? E’ un fatto casuale o la famiglia, nella sua ragione più profonda, è incompatibile con la cultura dominante?

Questi tempi vengono culturalmente definiti come tempi postmoderni. Chiediamoci allora: cosa è la postmodernità?

Per modernità s’intende la sostituzione delle certezze religiose con certezze di ordine scientifico o parascientifico. La postmodernità, invece, è la negazione del concetto stesso di “certezza”: non più un ordine valoriale né un centro a cui far riferimento, bensì una prospettiva policentrica e complessa. Non a caso, oggi, si parla molto di teoria della complessità.

Attenzione però: questa diversità tra modernità e postmodernità è solo a livello d’identità filosofica, infatti vi è comunque una pretesa comune che le fonda così come comuni sono gli “ostacoli” che entrambe pretenderebbero rimuovere. Tutte e due (modernità e postmodernità) si basano sull’intenzione di rendere l’uomo fondamento di tutto, di liberarlo da qualsiasi vincolo dell’autorità: Dio, prima; la scienza galileiana con i suoi princìpi immutabili, dopo.

Tra gli ostacoli da rimuovere tanto nella modernità quanto nella postmodernità vi è stata e vi è la famiglia.  

Perché questa avversione nei confronti della famiglia? Principalmente per quattro motivi.

Primo: perché la famiglia si pone come luogo del mistero della vita dell’uomo. Quel mistero che si radica nel limite come realtà costitutiva dell’esistere di ognuno. Nella famiglia si riconosce il bisogno reciproco e si riconosce l’interdipendenza, verità queste che, invece, la pretesa prometeica ed autosufficiente della modernità e della postmodernità hanno voluto dissolvere. L’uomo non avrebbe bisogno di nessuno e di nulla perché lui (l’uomo) sarebbe il tutto. E non importa se questa pretesa autosufficienza naufraghi dinanzi ad un reale che dice tutt’altro, che costringe al bisogno. “In stracarichi tranvai accalcandoci insieme, dimenandoci insieme, insieme barcolliamo. Uguali ci rende una grande stanchezza” canta il poeta Evtusenko pensando al fallimento esistenziale dell’uomo contemporaneo che decide di trovare in se stesso il significato del suo vivere.

Secondo: perché la famiglia è il luogo dove si realizza la tradizione. Quando la tradizione rimane ad un livello teorico non incide nella società. E’ quando si esprime concretamente che diviene civiltà e comportamenti sociali, che s’incarna e modella la storia. La tradizione diviene questo grazie principalmente alla famiglia: l’insegnamento dei genitori, l’ascolto dei figli…e poi i figli che a loro volta diventano genitori, ecc.

Terzo: perchè la famiglia è uno dei più importanti luoghi dove si perpetua la convinzione della perennità delle categorie del bene e del male. Detto più semplicemente: la famiglia è il tempio dell’educazione ai valori perenni, di quei valori che non cambiano e che non sono relativizzabili. Nella famiglia il bene è sempre riconoscibile come tale, così il male. Non ci può essere compatibilità tra famiglia e relativismo etico. L’uno esclude l’altro. Se tutto fosse possibile, se il bene si confondesse con il male e il male con il bene, la famiglia si dissolverebbe.

Quarto: perchè la famiglia è il luogo della persona. Ovvero di quella realtà individuale e razionale che si pone liberamente e protagonisticamente nel divenire dell’esistenza e dell’esistente, cioè all’interno della sua vita e di ciò che la circonda. L’interdipendenza e il reciproco bisogno (elementi su cui si fonda la famiglia) sono i segni evidenti che la famiglia stessa non può basarsi su un’antropologia in cui l’uomo è visto come momento transitorio del divenire, come onda sulla superficie del mare destinata a scomparire, ma sull’antropologia classica: l’uomo come rationalis naturae individua substantia, cioè come persona. La famiglia non è un magma informe ma un insieme di individualità umane unite nell’affetto parentale.

Quest’ultimo motivo può sembrare un po’ astratto, eppure, soprattutto oggi, è importante ribadirlo. C’è chi ha indicato la cultura contemporanea come una cultura sostanzialmente gnostica. La gnosi si fonda sulla convinzione che l’uomo sia una sorta di “scintilla” che momentaneamente si sarebbe separata da un divino impersonale. Ciò vuol dire che la corporeità dell’uomo e quindi la sua individualità sarebbero o pure illusioni o “prigioni” da cui doversi liberare al più presto. L’essenza prometeica tanto della modernità quanto della postmodernità troverebbero proprio nella gnosi la loro ragion d’essere. Non a caso in un pensiero postmoderno come quello di Marcuse s’inneggia al dissolvimento dell’io: l’uomo deve rinnegare e dissolvere i limiti della sua creaturalità.

Ecco perché oggi –anzi, oggi più di ieri!- l’odio nei confronti della famiglia. Famiglia che è luogo di significato, di verità e di bisogno; luogo di limite, di umiltà e di riconoscimento di un giudizio al di sopra di sé. (Corrado Guerre, in “Radici cristiane”, giugno 2006)

 


 

Il laicismo europeo è senza futuro: nella laicissima Francia, Nicolas Sarkozy rompe il tabù

L’indizio più eclatante di uno sguardo nuovo al fatto religioso europeo riguarda la Francia, ossia il più laicizzato dei paesi dell’Europa cattolica. Ed è un libro dal titolo “La République, les religions, l’espérance”, uscito nel 2004 e ora pubblicato anche in Italia, il cui autore è Nicolas Sarkozy, il politico che molti pronosticano vincitore alle elezioni presidenziali che si terranno in Francia nel 2007.

La presentazione del libro che appare sulla controcopertina sintetizza così le ragioni della sua novità:

“Con questo libro, Nicolas Sarkozy affronta uno dei tabù della società francese: il posto delle religioni nella République. Sarkozy vuole inventare una laicità aperta e pacificata, in cui ciascuno possa vivere la propria speranza e partecipare alla costruzione della società democratica. Egli parla della fede, dei suoi incontri con personalità spirituali che l’hanno marcato, delle convinzioni che vuole trasmettere ai suoi figli. Il libro è un grande contributo alla riflessione sui valori fondanti della République e sull’avvenire della laicità in Francia”.

Il maggiore interesse del libro è naturalmente legato al suo autore, probabile successore di presidenti laicissimi come François Mitterrand e Jacques Chirac. Ma altri elementi vanno sottolineati.

La prima edizione del libro è uscita per i tipi delle Éditions du Cerf, la più prestigiosa e famosa delle editrici cattoliche francesi.

Inoltre il libro è in forma di intervista. E a porre le domande a Sarkozy sono un professore di filosofia, Thibaud Collin, e un religioso dell’ordine di San Domenico, padre Philippe Verdin O.P.

E ancora. In apertura del libro, Sarkozy ha voluto riportare questo brano tratto da “La democrazia in America” di Alexis de Tocqueville, opera maestra del cattolicesimo liberale, pubblicata in Francia nel 1835 dopo un viaggio negli Stati Uniti:

“Vi sono delle persone in Francia che vedono nella République uno stato permanente e tranquillo, un fine necessario verso il quale le idee e i costumi conducono ogni giorno le società moderne, e che vorrebbero sinceramente aiutare gli uomini a essere liberi. Quando però attaccano le credenze religiose, essi seguono le loro passioni, non i loro interessi. È il dispotismo che può fare a meno della fede, ma non la libertà. La religione è molto più necessaria nella République da essi preconizzata che nella monarchia che essi attaccano, e lo è nelle repubbliche democratiche più che in tutte le altre”.

Pubblicato anche in Italia, il libro di Sarkozy ha incontrato l’interesse degli intellettuali più attenti al rapporto tra Chiesa e stato, tra religione e politica.

Questo interesse non è esclusivo dei cattolici. Vi sono in Italia importanti intellettuali non cattolici che hanno una viva sensibilità per la presenza della Chiesa nella società moderna e spesso si trovano in sintonia con la visione di Benedetto XVI o del cardinale Camillo Ruini.

Tra questi si possono ricordare Oriana Fallaci, celebre in tutto il mondo per i suoi scritti sulla sfida islamica; Marcello Pera, filosofo popperiano autore di libri assieme a Ratzinger; Giuliano Ferrara, ex marxista e straussiano come altri neoconservatori americani, direttore del quotidiano “il Foglio”; la femminista Eugenia Roccella; l’ebreo Giorgio Israel; i musulmani Magdi Allam e Khaled Fouad Allam, il primo vicedirettore del “Corriere della Sera” e il secondo professore di islamologia all’università di Trieste ed eletto in parlamento nella coalizione di centrosinistra.

A essi va aggiunto Carlo Cardia, professore di diritto ecclesiastico e di filosofia del diritto all’Università di Roma Tre. Come esperto dell’allora partito comunista e come consulente per il governo italiano, Cardia preparò la revisione del concordato tra Italia e Santa Sede del 1984 e la successiva regolazione del finanziamento alla Chiesa italiana. Fa parte della commissiona paritetica italo-vaticana per l’applicazione del Concordato. Ed è proprio al laico Cardia che “Avvenire” – il giornale di proprietà della conferenza episcopale italiana presieduta dal cardinale Ruini – ha affidato il commento del libro di Sarkozy, in un editoriale pubblicato il 3 maggio 2006. (Sandro Magister, 11 maggio 2006)

 

 

 


 

 

DOMENICA 11 GIUGNO 2006

 

Viaggio alle fonti benedettine.

Subiaco, Santa Scolastica, Montecassino: qui Benedetto, patrono d’Europa, fondò il monachesimo occidentale. Abbiamo chiesto a monsignor Bernardo D’Onorio, abate e vescovo di Montecassino, di accompagnarci nei luoghi dove nacque il monachesimo benedettino.

Padre abate, possiamo partire dal piccolo, suggestivo Sacro Speco di Subiaco?

«È la vera "Betlemme" del monachesimo e porta il nome di "Sacro Speco" perché, venendo da Roma, il giovane Benedetto, intorno all’anno 500, si ritirò qui in una grotta, o "speco", per iniziare una vita ascetica ed eremitica. La sua santità e i suoi miracoli richiamarono gli abitanti della zona e intorno a lui si formò il primo nucleo di discepoli. Dalla concezione eremitica si passò all’organizzazione monastica cenobitica e lo stesso san Benedetto, prima di lasciare Subiaco per Montecassino, fondò ben 12 monasteri. Subiaco è un vero scrigno di affreschi che raccontano gli episodi evangelici e la vita taumaturgica di Benedetto. Tra le immagini troviamo il più antico ritratto di san Francesco, che venne a Subiaco verso il 1224 e volle ripetere il gesto eroico di Benedetto di gettarsi, per spirito di penitenza, su un rovo di spine dal quale poi sbocciarono rose».

Ci parli dell’abbazia di Farfa, in Sabina, alle falde del monte Martino...

«Fondata nel 680, conserva ancora l’antica bellezza della sua splendida basilica, del campanile carolingio e del torrione difensivo. Il paesaggio è molto suggestivo, con le cime del monte Tancia (m 1.282) e del monte Pizzuto ( m1.287). Secondo un’antica tradizione, il monaco Tommaso da Morienna verso la fine del sec. VII, dopo un pellegrinaggio in Terra Santa, si fermò qui in Sabina, dove la Vergine Maria gli apparve in sogno e gli indicò il luogo della fondazione. Non tardarono donazioni di terreni e fabbricati, e tutto il patrimonio venne chiamato Res Sanctae Mariae. Carlo Magno pose sotto la sua protezione il monastero e gli concesse doni e privilegi. Nel IX secolo la potenza di Farfa raggiunse la sua massima espansione, dalla Sabina alla Valle padana. Dopo le invasioni barbariche e il declino, Farfa si riprese grazie all’intervento di Odilone, abate di Cluny. Nel 1492 la famiglia degli Orsini ricostruì a tre navate la basilica, che fu consacrata nel 1496. Il soffitto a cassettoni fu ricoperto con il primo oro riportato dall’America. Farfa è famosa anche per le sue fiere internazionali che si tenevano due volte all’anno, in aprile e a settembre. Ancora oggi, intorno al complesso del monastero ci sono costruzioni dell’antico borgo, con la facciata delle varie botteghe. Il beato cardinale Ildefonso Schuster, benedettino e frequentatore di Farfa, ha contribuito alla gloriosa storia del monastero con importanti studi e pubblicazioni».

Trasferendoci sul mare, presso Gaeta, al santuario della Montagna Spaccata, dedicato alla Santissima Trinità...

«Si tratta di una sporgenza montuosa che forma una piccola penisola dagli alti costoloni, emergenti all’improvviso dal mare. Su queste pareti a strapiombo si aprono tre fenditure: la prima è la "grotta del turco", la seconda quella del santuario propriamente detto, la terza viene chiamata "del belvedere", e da qui lo sguardo spazia fino a Ischia e Capri. In queste fenditure e su antichi resti di strutture romane, i monaci si insediarono prima come eremiti e poi in cenobio. Siamo intorno all’anno Mille e l’abate di Montecassino volle dedicare il santuario alla Santissima Trinità forse proprio per il richiamo di quelle tre fenditure. Il luogo fu visitato da san Filippo Neri e lo stesso papa Pio IX, durante il suo esilio a Gaeta, venne qui più volte. Anche lo scrittore Miguel Cervantes nel suo Don Chisciotte ricorda il santuario della Trinità della Montagna Spaccata, "fiore, cima e vanto dei cavalieri erranti"».

E siamo a Montecassino, ultima e più importante tappa di questo pellegrinaggio alle origini del monachesimo benedettino...

«Questo venerando luogo di fede e di cultura, meta di oltre un milione di pellegrini l’anno, sorge a 510 metri sul livello del mare ed è un punto strategico, crocevia di importanti snodi stradali e ferroviari. Per questo fu per quattro volte bombardato, distrutto e ricostruito. Il suo motto è: succisa virescit : "benché schiantata, risorge". Il primo nucleo del monastero risale ai tempi di san Benedetto, che da Subiaco venne fin quassù verso il 529. Al visitatore e al pellegrino il complesso di Montecassino appare un unicum che incanta e solleva lo spirito prima ancora degli occhi. Da qui il detto popolare: "Chi Montecassino non vede, paradiso non crede!"».

Montecassino subì dunque quattro distruzioni e ricostruzioni?

«Sì. La più tremenda è stata l’ultima, quella del 15 febbraio 1944, quando sul monastero si riversarono tonnellate e tonnellate di bombe. Questo centro millenario di spiritualità, scrigno prezioso di cultura e arte, venne ridotto in poche ore a un cumulo di rovine. La ricostruzione iniziò solo un anno dopo, secondo il programma voluto dall’abate del tempo, Ildefonso Rea: "Dove era e come era", e nel 1964 poteva dirsi già completata. Paolo VI consacrò la nuova basilica che custodisce le spoglie dei santi Benedetto e Scolastica, proclamando Benedetto patrono d’Europa. Quasi tutto il preziosissimo patrimonio di stampe e manoscritti poté essere salvato. Nonostante il notevole afflusso di pellegrini e visitatori, non si sono costruiti alberghi o ristoranti e si è voluto conservare intorno al monastero la sua primitiva bellezza e severità. Così chi viene a Montecassino è aiutato ad avere l’ansia di incontrare il Signore e il desiderio di contemplare le cose belle, che diventino per lui l’anticamera del paradiso».  (Alfredo Tradigo, Famiglia Cristiana,  n. 23 del 4 giugno 2006)

 


  

Golpe di Mussi contro la Carta Etica europea

Possibile che un ministro faccia queste scelte autonomamente? E che ne dicono quei suoi colleghi che un anno fa avevano posizioni ben diverse?

L'Italia ha ritirato la sua adesione alla Dichiarazione etica della Unione europea contraria all'utilizzo delle cellule staminali embrionali per fini di ricerca, che il governo precedente aveva firmato in novembre. Polonia, Slovacchia, Austria e Germania rimangono così i soli membri dell'Unione programmaticamente sfavorevoli all'uso di embrioni umani. L'Italia, che pure con la sua legge 40 vieta questo utilizzo, si è sfilata dall'esigua minoranza di contrari, benchè il referendum dello scorso giugno abbia bocciato tutte le abrogazioni pretese dal fronte radicale, e anche l'abolizione del divieto di ricerca.

Non è passato un anno, e il fresco ministro alla Ricerca e Università, Fabio Mussi, Ds, si presenta a Bruxelles e disinvoltamente traccia un rigo su quella firma, che trascriveva una volontà espressa dalla consultazione popolare. A chi gli chiedeva se la decisione presa corrispondesse a una posizione del governo italiano il ministro ha risposto seccamente: "La firma è mia".

La firma è sua? Sbalorditivo che una decisione simile, riguardante simili temi in seno all'Europa, venga presa, se così è stato veramente, in uno slancio di zelo da un singolo membro del Consiglio dei ministri. Qui si va oltre un'esternazione sui Pacs, o sull'adozione della pillola abortiva. Qui si cancella da un giorno all'altro l'adesione a una dichiarazione europea, sia pure d'intenti, ma estremamente rilevante, e fedele, nella volontà espressa, a ciò che hanno manifestato i cittadini. Possibile davvero, che un ministro autonomamente faccia queste scelte? E che ne dicono quegli esponenti dello stesso governo, che un anno fa avevano posizioni ben diverse? Oppure, davvero in questo governo si può fare e disfare ciò che si vuole, ognuno per sé e Dio - si spera - per tutti? Uno s'alza il mattino, e sulla base delle sue personali convinzioni va dove lo porta il cuore, cioè a dire che l'Italia è favorevole alla ricerca sugli embrioni - benchè il referendum abrogativo della legge 40 sia stato una Caporetto.

Nel breve arco di un mese, dispiace dirlo, ci siamo adusi a questi colpi di vento, a questo incontenibile rigoglio della istintività dei ministri, ansiosi di annunciare di persona l'avvento di una laicizzazione metodica dell'Italia. Il "cuore" porta sempre da quella parte, in una fatale attrazione, né i richiami a stare un po' zitti paiono arginare la frenesia modernizzatrice. Al cuore, come si dice, non si comanda.

Qualcuno gioisce. Una deputata verde, tale Luana Zanella, plaude alla ritirata di Bruxelles, in quella logica misteriosa di certi ambientalisti, per cui guai a toccare un topo, mentre con l'embrione umano va tutto bene. Esultano i soliti: Bonino e Capezzone, mentre alcuni di Ds e Rifondazione si "rallegrano" con Mussi.

Dimentichi, come nulla fosse stato, di quel 12 giugno, del secco schiaffo preso da chi si illudeva di un'Italia plebiscitaria su libere provette e libera ricerca sul principio dell'uomo. Un referendum popolare, certo. Ma pochi disprezzano di più la volontà popolare, che i suoi primi paladini, quando non coincida con il loro corretto pensare. Quando, è evidente, questa volontà sia malguidata, oscurantista e ignorante. Allora, appena si può, si va Bruxelles e si traccia brevemente un rigo. Nel nome del Progresso e della Ricerca, di quel Bene che qualcuno vuole darci per forza.  (Marina Corradi, Avvenire,  31 maggio 2006)

 


 

Plagio e sette religiose. La deriva della tolleranza

Monsignor Gervasio Gestori, Vescovo di San Benedetto del Tronto, Ripatransone e Montalto, critica il cattivo uso che si fa del termine “tolleranza”, sostenendo che esso “non appartiene propriamente alla riflessione cristiana, ma si tratta piuttosto di un atteggiamento politico”.

Così ha affermato il presule, intervenendo il 2 giugno al Convegno diocesano del Gris ( Gruppo Ricerca Informazione Socio-religiosa) su “Plagio e sette religiose. La deriva della tolleranza”.

Monsignor Gestori nel parlare del “pluralismo religioso” ha affermato che “la tolleranza è una decisione di rispetto verso le libertà dei cittadini, ma potrebbe ridursi ad essere, a livello socio-politico, una scelta di comodo suggerita da individualismo verso le persone, ed a livello dottrinale, una teorizzazione di indifferenza verso le idee religiose derivante da una visione scettica”, ha affermato.

Il Vescovo ha affrontato il tema della “religiosità tra libertà e verità” cercando di precisare i confini ed i modi entro i quali lo Stato e la Chiesa possono intervenire per contrastare la diffusione delle sette.

A questo riguardo, ha cominciato con lo spiegare i diversi tipi di percezione della religiosità: “Alcuni affermano che la religione sia un ‘male’ ed una ‘impostura’ che danneggia l’uomo, umiliandone l’intelligenza e perventendone lo spirito e quindi pensano che occorra promuovere la libertà dalla religione”.

“Altri – ha poi continuato – sono indifferenti al fatto religioso e pensano che le religioni siano cose umane contenenti del bene e del male; altri ancora ritengono che ogni religione sia uguale alle altre; altri pensano che la religione sia comunque un bene; infine molti pensano che quella vera sia una sola”.

Circa la libertà, ha continuato il presule, “c’è chi molto opportunamente afferma che la nostra libertà umana abbia bisogno di essere liberata dalle sue malattie perché possa esprimersi nelle sue capacità più vere e più utili”.

In merito a questa problematica, ha aggiunto monsignor Gestori, “vi sono persone che sostengono l’impossibilità di arrivare alla verità delle cose, dall’epoca di Ponzio Pilato, ed anche da prima, fino all’attuale ‘pensiero debole’”.

“Altri ritengono invece che sia possibile conoscere almeno alcune verità di ordine umano e di carattere esistenziale – ha proseguito –. Penso che non sia facile raggiungere la verità delle cose, ma ritengo che sia un dovere di tutti impegnarsi a conoscere la verità di ciò che riguarda la nostra vita. Fa parte del dovere di essere persona”.

In sintesi, ha affermato il Vescovo di San Benedetto, “a fondamento della libertà da rispettare e della verità da ricercare sta la dignità della persona umana, la quale ha il diritto di agire liberamente come meglio pensa ed ha il dovere di perseguire la verità delle cose, perché questa è una esigenza della ragione”.

“La persona è un assoluto e non può essere costretta da niente e da nessuno, mentre la verità deve essere cercata e non può non essere accolta, pena la contraddizione”, ha commentato.

Secondo il presule “la libertà deve mirare alla verità per avere un significato e darsi una dignità propria, diversamente si ridurrebbe ad essere ‘una passione inutile’”, come diceva Jean-Paul Sartre. In questo senso la libertà umana ha bisogno di essere “liberata” dai suoi “limiti di insignificanza”.

Affrontando il fenomeno delle sette, il Vescovo ha sottolineato che esso “si combatte innanzitutto con la sana e matura formazione delle coscienze personali. Ma si pone anche il problema pubblico di una qualche normativa di prevenzione e di repressione”.

“Leggi speciali risulterebbero però pericolose – ha continuato Gestori – perché si correrebbe il rischio di ingerenza dello Stato in un campo non di sua competenza. Lo Stato, infatti, non può definire che cosa sia una setta e non può giudicare una dottrina religiosa”.

Il presule ha chiarito che “lo Stato deve interessarsi delle sette, ed in generale della religione, quando si tratta di ordine pubblico, ma non ha diritto di ingerenza negli affari interni di un gruppo religioso”.

Da questo punto di vista, ha osservato, il problema della regolamentazione delle sette rimane aperto e merita che la Chiesa ne segua attentamente l’evoluzione al fine di una collaborazione con lo Stato.

Tutto questo, ha rilevato il Vescovo, potrebbe servire anche ad “evitare che il problema oggettivo delle sette possa diventare l’occasione per ingerenze nella vita religiosa, o anche solo per contenere e ridurre al minimo la rilevanza pubblica del fattore religioso”.

“Potrebbe cioè rivelarsi una minaccia per la libertà religiosa e la professione della fede, di qualsiasi fede”, ha spiegato.

Per quanto riguarda l’atteggiamento della Chiesa nei confronti delle sette, monsignor Gestori ha detto che “occorre tenere presente l’insegnamento di Cristo, che solo ‘la verità vi farà liberi’”.

“Da qui la necessità di un continuo, forte ed adeguato impegno di annuncio e di evangelizzazione, per aiutare i non credenti ad allontanarsi da fedi errate e ad avvicinarsi alla vita cristiana, e per condurre i credenti a poter godere di quella libertà vera, che ci è stata donata dal Signore Gesù”, ha infine concluso.

Il Gris è un’associazione culturale e religiosa formata da cattolici e nata ufficialmente l’8 febbraio 1987. Le sue finalità sono promuovere la ricerca, lo studio e il discernimento, fornire informazione e consulenza sulle religioni e la fenomenologia a esse correlata.

Inoltre, cura la formazione e l’aggiornamento di educatori e operatori sulle tematiche di pertinenza  dell’associazione.  (Zenit, 6 giugno 2006)

 


 

Benedetto XVI spiega il Primato di Pietro secondo il Nuovo Testamento

Benedetto XVI ha mostrato questo mercoledì durante l’Udienza generale come Cristo nei Vangeli abbia affidato a Pietro un ruolo preminente tra gli apostoli che consiste nel garantire l’unità della Chiesa.

Rivolgendosi a circa 50.000 persone riunite in piazza San Pietro, il Pontefice ha dedicato il suo terzo intervento alla figura del pescatore di Galilea – dopo le catechesi del 15 e del 24 maggio –, presentando in questa occasione Pietro come “la roccia su cui Cristo ha fondato la Chiesa”.

“Preghiamo che il Primato di Pietro, affidato a povere persone umane, possa sempre essere esercitato in questo senso originario voluto dal Signore e possa così essere sempre più riconosciuto nel suo vero significato dai fratelli ancora non in piena comunione con noi”, ha detto il Papa concludendo il suo intervento.

La sua meditazione è diventata un ripasso delle pagine del Vangelo e in parte degli Atti degli Apostoli in cui si manifesta con “numerosi indizi” “la volontà di Cristo di attribuire a Pietro uno speciale rilievo all'interno del Collegio apostolico”.

Egli è, ad esempio, l’unico apostolo al quale Gesù assegna un nuovo nome, Cefa, che vuol dire “Pietra”, nome che finirà per sostituire quello originale, Simone.

Pietro è l’unico che viene chiamato varie volte per nome, mentre gli altri apostoli vengono menzionati in gruppo, e nei Vangeli viene sempre ricordato come il primo del gruppo.

E’ a Pietro per primo che Gesù “lava i piedi nell'ultima Cena ed è per lui soltanto che prega affinché non venga meno nella fede e possa confermare poi in essa gli altri discepoli”, ha ricordato il Santo Padre.

“Pietro stesso è, del resto, consapevole di questa sua posizione particolare – ha aggiunto –: è lui che spesso, a nome anche degli altri, parla chiedendo la spiegazione di una parabola difficile, o il senso esatto di un precetto o la promessa formale di una ricompensa”.

Nel capitolo 16 di Matteo (versetti 18 e 19), Gesù pronuncia “la dichiarazione solenne che definisce, una volta per tutte, il ruolo di Pietro nella Chiesa”, ha proseguito il Pontefice: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa... A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.

“Le tre metafore a cui Gesù ricorre sono in se stesse molto chiare: Pietro sarà il fondamento roccioso su cui poggerà l'edificio della Chiesa; egli avrà le chiavi del Regno dei cieli per aprire o chiudere a chi gli sembrerà giusto; infine, egli potrà legare o sciogliere nel senso che potrà stabilire o proibire ciò che riterrà necessario per la vita della Chiesa, che è e resta di Cristo”.

“E’ sempre Chiesa di Cristo e non di Pietro. E' così descritto con immagini di plastica evidenza quello che la riflessione successiva qualificherà con il termine di ‘primato di giurisdizione’”, ha sottolineato.

Questa posizione preminente che Gesù ha voluto dare a Pietro “si riscontra anche dopo la risurrezione”, ha detto il suo successore.

“Al cosiddetto Concilio di Gerusalemme Pietro svolge una funzione direttiva, e proprio per questo suo essere il testimone della fede autentica Paolo stesso riconoscerà in lui una certa qualità di ‘primo’”.

“Il fatto, poi, che diversi dei testi chiave riferiti a Pietro possano essere ricondotti al contesto dell'Ultima Cena, in cui Cristo conferisce a Pietro il ministero di confermare i fratelli, mostra come la Chiesa che nasce dal memoriale pasquale celebrato nell'Eucaristia abbia nel ministero affidato a Pietro uno dei suoi elementi costitutivi”, ha continuato a spiegare.

Questo contesto del Primato di Pietro nell’Ultima Cena spiega l’essenza del Primato, ha detto infine: “Pietro, per tutti i tempi, dev’essere il custode della comunione con Cristo; deve guidare alla comunione con Cristo; deve preoccuparsi che la rete non si rompa e possa così perdurare la comunione universale”.

“Solo insieme possiamo essere con Cristo, che è il Signore di tutti. Responsabilità di Pietro è di garantire così la comunione con Cristo con la carità di Cristo, guidando alla realizzazione di questa carità nella vita di ogni giorno”, ha concluso. (Zenit, 7 giugno 2006)

 


 

"L'eclissi di Dio dietro l'attacco alla famiglia"

La Santa Sede torna a difendere senza possibilità di equivoco la famiglia fondata sul matrimonio e conseguentemente a condannare Pacs, aborto, contraccezione, e ricerca su cellule embrionali.

Siamo di fronte ad una vera e propria «eclissi di Dio» la quale, originata anche dalle idee propagate dai vari «movimenti femministi» porta ad «profonda crisi della verità» che ispira leggi che tendono a riconoscere «coppie insolite» formate «da omosessuali che rivendicano gli stessi diritti riservati a marito e moglie».

Così, in sintesi, un documento di circa sessanta pagine intitolato “Famiglia e procreazione umana”, pubblicato ieri dal Pontificio consiglio per la Famiglia diretto dal cardinale Lopez Truijllo. Un documento durissimo ed esplicito, tramite il quale la Santa Sede è tornata a difendere senza possibilità di equivoco la famiglia fondata sul matrimonio e conseguentemente a condannare Pacs, aborto, contraccezione, e ricerca su cellule embrionali.

Il documento, firmato da uno dei porporati che maggiormente combatte senza lesinare energie e parole in difesa della vita, è uscito dopo un lavoro di stesura durato mesi e dopo che lo stesso Benedetto XVI - come accade per la maggior parte dei documenti pubblicati dai dicasteri vaticani - ne ha preso visione del contenuto. Un documento fortemente voluto dal Vaticano e reso noto “provvidenzialmente” a poche settimane dal viaggio del Pontefice nella zapatariana Spagna (i primi di luglio, in occasione di un forum mondiale incentrato proprio sulla famiglia) ed anche a poche ore dalla proposta avanzata da Romano Prodi di istituire una commissione governativa sui temi legati alla bioetica. Proposta, quella di Prodi, venuta dopo le discussioni seguite all’annuncio da parte del ministro dell’Università e la Ricerca Mussi, del ritiro della firma dell’Italia da una carta etica europea contro i finanziamenti alla ricerca sulle cellule staminali. Un documento che, commissione per la bioetica a parte, è destinato a fare molto riflettere l’attuale compagine governativa nella quale alcuni ministri, Bindi e Turco in testa, alcune settimane fa erano usciti con parole poco gradite “oltretevere” in merito ai Pacs e alla pillola abortiva RU486.

Ma il documento risulta interessante anche rispetto a quanto sta accadendo negli Stati Uniti, dove Bush, in suo discorso alla radio dello scorso weekend, aveva chiesto un emendamento costituzionale che impedisse ai giudici “attivisti” di rendere vano il lavoro fatto dai corpi legislativi di Stato per vietare il matrimonio tra gay. Il matrimonio tra gay negli Usa è un argomento che ha creato molte divisioni nell’ultimo periodo, in particolare da quando nel 2003 un tribunale del Massachusetts ha emesso una sentenza che impedisce all’assemblea legislativa di Stato di vietarlo, sentenza che ha di fatto spalancato la strada l’anno seguente alle prime unioni tra persone dello stesso sesso in America.

Sei i punti principali sui quali il documento vaticano uscito ieri si sofferma.

Famiglia ed eclissi di Dio: «Mai come ora l’istituzione naturale del matrimonio e della famiglia è vittima di attacchi tanto violenti. È in atto un cambiamento nel modello di famiglia e di coniugalità», sottolinea il dicastero, e «guardando ai mezzi a cui si ricorre per evitare di avere figli, mezzi che includono non solo la contraccezione, ma anche l’aborto, appare chiara l’eclissi a ogni riferimento a Dio nella visione predominante sulla procreazione responsabile». E, inoltre, soltanto una famiglia formata da un uomo e una donna, «costituisce l’ambiente adeguato perché venga alla vita un nuovo essere umano, cioé un essere dotato di dignità e chiamato ad essere amato». Da questo segue che la procreazione «deve sempre avere luogo all’interno della famiglia».

Coppie insolite. Non ha dubbi, il cardinale Lopez Truijllo, e lo dice esplicitamente: siamo di fronte ad una «apologia della famiglia monoparentale, ricostituita, omosessuale, lesbica». «Coppie formate da omosessuali rivendicano gli stessi diritti riservati a marito e moglie, reclamano persino il diritto di adozione. Donne che vivono una unione lesbica rivendicano gli stessi diritti analoghi, esigendo leggi che diano loro accesso alla fecondazione eterologa o all’impianto embrionale». «Inoltre - scrive il porporato - si sostiene che la facilità offerta dalla legge di formare queste coppie insolite, deve andare di pari passo con la facilità di divorziare o ripudiare».

Aborto: un «delitto abominevole». «Oggi - il documento si rifà qui all’enciclica all’Evangelium Vitae del 1995 di Papa Wojtyla - si pretende di banalizzare in qualche modo l’aborto con il pretesto che l’autorità non deve penalizzare questo delitto abominevole». E ancora: «Essere su questa linea significa ridurre o negare che il delitto, per il fatto stesso di esserlo, richiede una pena. Non è concepibile che un delitto resti impunito». «Nessuna circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla legge di Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa e proclamata dalla Chiesa».

La vita non è questione di tecnica. «Come confermano alcune pratiche funeste oggi legalizzate in alcuni paesi, se l’uomo si arroga il potere di fabbricare l’uomo, allora si arroga anche il potere di distruggerlo». E quindi «la trasmissione della vita diventa una questione di tecnica e di tecnici. A volte, questi ultimi sognano perfino di fabbricare la vita di ineccepibile qualità».

No ai contraccettivi. Il documento vaticano esclude «ogni mezzo contraccettivo» e chiede che sia rispettata «l’unione tra l’elemento unitivo e quello procreativo in ogni atto coniugale», ritenendo legittima la sola «continenza periodica» cioè «l’uso del matrimonio solo nei periodi non fertili».

Femminismo. Ha esacerbato le relazioni tra i sessi e accentuato il carattere polemico della relazione tra maschi e femmine, denuncia il Vaticano, attribuendo ai movimenti femministi la colpa di aver rafforzato la visione «puramente individualistica dell’uomo e della donna», incitando al «superamento della famiglia». «L’unione carnale, di carattere individualista, diventa essa stessa occasione di disputa o di guerra, nella misura in cui uno dei partner non si considera soddisfatto sul piano del piacere, o su quello dell’utilità». In tal senso è possibile vedere «che una concezione puramente individualista dell’uomo e della donna, opponendosi alla famiglia, è incompatibile con un’autentica solidarietà intergenerazionale». (Paolo Luigi Rodari, Il Tempo,  7 giugno 2006).

 


 

E perché no il matrimonio con le scimmie ?

Lettera aperta al ministro “Rosy nel pugno” sulle devastazioni che stanno preparando...

Cara Rosy, vorrei segnalarti una notizia: in India, il 31 maggio scorso, una ragazza di 30 anni, Bimbala Bas, ha sposato un cobra. Magari il fatto riempirà di entusiasmo il tuo schieramento politico (che si professa “multiculturalista”, dunque aperto a tutti i costumi non occidentali). Di certo tu dovrai considerarlo nella tua attività di ministro mandato a dare “riconoscimento pubblico” ai nuovi tipi di “famiglia”.

E’ successo in un villaggio di Atala, nello stato indiano di Orissa. I sacerdoti della sua setta vegetariana e animalista hanno celebrato il rito, con la solita festa tradizionale del paese, fra il rettile, che vive presso un formicaio e la sposa, vestita di seta come vuole la tradizione, che ha assicurato di comunicare in modo speciale col suo novello sposo e che ora è andata a vivere in una capanna vicino al formicaio del “coniuge”. La madre della ragazza, Dyuti Bhoi, ha dichiarato: “sono felice”. E’ proprio il caso di dire “parenti serpenti”… I compaesani sono stati altrettanto contenti perché ritengono che il fatto sia di buon auspicio (il cobra nel mondo induista è un simbolo del dio Shiva). Non è un evento così speciale. Qualche mese fa un’altra ragazza indiana si è sposata con un cane.

In tempi di multiculturalismo, con tante migliaia di immigrati che vengono a vivere in Italia e soprattutto adesso con le frontiere spalancate dal centrosinistra, sarà un bel problema per te, caro ministro, rispondere di no al riconoscimento da parte dello Stato anche di questo tipo di “famiglia” qualora queste coppie dovessero emigrare qua. O essere emulate da altri emigrati già nella penisola. Infatti, una volta affermato che lo Stato italiano deve riconoscere qualunque convivenza che unisca due esseri, in base a quale ragionamento si potrà negare a chi ha questi gusti tale riconoscimento? Sarebbe oltretutto una discriminazione di tipo religioso. E può l’Italia della Sinistra multiculturale negare alle minoranze di vivere secondo i propri costumi? Si dirà che in questo caso trattasi di uomo e animale e che tutt’altra cosa è la convivenza fra due persone. Certo, per me infatti sarebbe offensivo e assurdo metterli sullo stesso piano. Ma mi chiedo se è assurdo anche per la Sinistra che, per esempio, intende proibire gli esperimenti di laboratorio sui topi e permetterli sugli embrioni umani. E’ assurdo anche per la sinistra che in Spagna intende riconoscere i “diritti dell’uomo” anche alle scimmie? Se si afferma – come fanno i promotori dei Pacs, anche in Italia – che l’istituto “famiglia” deve essere definito soggettivamente e che ognuno, vivendo con chi vuole, ha il diritto di ottenere il riconoscimento statale e i privilegi relativi, come si può negare a chi sposa un cobra o un cane o un gatto il “diritto” di farlo con il riconoscimento dello Stato? Lo si vuole discriminare? E perché mai?

Oltretutto – ripeto – nella Spagna di Zapatero è ormai operativo il progetto dei socialisti di riconoscimento dei “diritti dell’uomo” anche per le scimmie. Una volta che le scimmie avranno ottenuto tale parificazione all’uomo, come e perché si potrà negare loro il diritto di “sposare” degli esseri umani? Zapatero non è lontano, è il sol dell’avvenire della sinistra italica. E’ l’ideale a cui guardano la Rosa nel pugno e – come si è letto sul Corriere della sera – diversi ministri e ministre di questo governo. In realtà i Pacs (che potrebbero comprendere pure il “modello King Kong”) in Italia trovano un muro invalicabile: la Costituzione italiana. Il testo della Carta è chiaro nell’escludere i Pacs, cioè il riconoscimento giuridico di tutte le forme di convivenza che non siano il matrimonio fra due esseri umani, uno di sesso maschile e l’altro di sesso femminile. All’articolo 29 infatti afferma che “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Parlando di matrimonio è certo e indiscutibile che i costituenti, nel 1946, intendessero parlare dell’unico matrimonio esistente (allora come ora), cioè l’unione di un uomo e una donna contratta davanti allo Stato. Ma siccome c’è qualche Azzeccagarbugli della Sinistra secondo cui questa formulazione potrebbe essere intesa in senso lato (per esempio anche includente coppie gay), va sottolineato che al successivo articolo 30 si spiega nel dettaglio che per coniugi la Costituzione intende i “genitori” che hanno “dovere e diritto” di “mantenere, istruire ed educare i figli”.

Ciò significa che una persona può organizzare come crede la sua vita privata, può vivere con chi vuole e come vuole, ma il riconoscimento dello Stato va solo a quell’unione che la nostra civiltà ha chiamato famiglia e che ha la prerogativa della procreazione e dell’educazione dei figli ovvero che si assume certi obblighi e costi per il bene di tutta la società. E’ questa utilità sociale che viene riconosciuta dallo Stato il quale fa corrispondere certi diritti all’assunzione di certi doveri. La Sinistra pretende di smantellare questo articolo della Costituzione senza passare attraverso le procedure previste dalla Costituzione stessa. Il colpo di mano è rappresentato appunto dai Pacs (anche se, cara Rosy, li camuffate con altre dizioni). Nessuno naturalmente si oppone alla rimozione di eventuali problemi che sorgono per certe forme di convivenza ed è stato dimostrato che tutti i problemi si risolvono anche con adeguate riforme (nell’ambito del diritto privato), ma quella che la Sinistra sta combattendo è solo una battaglia ideologica, che non c’entra niente con le persone concrete (le quali infatti hanno disertato tutti i registri delle unioni civili istituite presso i comuni).

E’ una battaglia ideologica per smantellare questo caposaldo della civiltà occidentale: la famiglia (si badi bene, non la famiglia cristiana, ma la famiglia in sé, istituzione laica, già riconosciuta, per dire, nella Roma antica, patria del diritto, la famiglia che garantisce la sopravvivenza di una società). Tale battaglia ideologica viene combattuta cercando di parificare alla famiglia, nei fatti, nell’ambito del diritto pubblico, tutte le forme di convivenza e arrivare – per esempio – all’adozione di bambini anche da parte di coppie omosessuali. Su Avvenire tu, ministro Rosy, hai scritto che bisogna prendere atto che ci sono “tante e diverse famiglie”: questo è il punto. Hai detto ovviamente una sciocchezza, perché invece nella Costituzione si riconosce il profilo giuridico di una sola “famiglia”, non di “tante e diverse famiglie”. Ma così hai dato la sensazione di voler obbedire alla Sinistra che intende andare proprio verso lo smatellamento (illegale) dell’articolo 29 della Costituzione e al furtivo riconoscimento, da parte dello Stato, di “tante e diverse famiglie”. Spero che non ti sfugga l’incostituzionalità dell’idea. E che ti renda conto dell’enormità devastante di questa svolta, di cui tu saresti un semplice strumento (si è davvero disposti a tutto per una poltrona ?).

Tu dirai che sono ricorso a casi estremi – come la storia del matrimonio col cobra o col cane - per impressionare, mentre la realtà è diversa. Potrei risponderti che da sempre la cultura radicale usa i “casi estremi” (pensa alla vicenda dell’aborto). E potrei aggiungere che ormai la corsa nichilista è vertiginosa e i casi estremi diventano ben presto la norma (solo qualche anno fa anche la sinistra italiana giudicava folle la trasformazione del bambino concepito in cavia da esperimento e invece oggi eccoli lì). Tuttavia posso mostrarti un altro esempio, del tutto concreto, normale, che già riguarda la nostra società e che mette egualmente con le spalle al muro il vostro progetto nichilista.

In Italia, come in Europa, vivono ormai decine di milioni di musulmani. Nell’Islam, com’è noto, è permessa la poligamia, direttamente dal Corano. Fino a quattro mogli (mentre è proibito alle donne avere più mariti). Per quale ragione – se farete riconoscere dallo Stato tante forme di famiglia, compresa quella gay – non dovrebbe essere legalizzata anche la poligamia? Tu dirai che è una istituzione umiliante e degradante per le donne. Ma è solo la tua opinione (e anche la mia). Se ci sono (come ci sono) donne islamiche favorevoli, con quali ragioni impedirlo loro dopo che avete teorizzato che è famiglia ciò che soggettivamente l’individuo ritiene tale?

Per i vostri principi multiculturali sarebbe una grave discriminazione. E quand’anche vi rifiuterete sarà la forza stessa dell’immigrazione islamica ad imporvelo. Il colonnello Gheddafi ha dichiarato ad Al Jazira il 2 maggio: “Vedo segni che preannunciano la vittoria di Allah sull’Europa senza ricorso a spade o fucili… Abbiamo in Europa 50 milioni di musulmani e la trasformeranno in un continente islamico fra pochi decenni”.

Come vedi l’Eurabia non è un’invenzione della Fallaci. Alberto Ronchey sul Corriere della sera si è mostrato scioccato da queste parole. Giustamente. Ma se non controlliamo l’immigrazione e non blindiamo la Costituzione italiana, per esempio sulla famiglia e i diritti delle donne (e anche la Costituzione europea, d’impronta multiculturale), la poligamia – potete starne certi – arriverà. E voi, cara Rosy, porterete la responsabilità storica della distruzione della nostra civiltà. Ti rendi conto della gravità di ciò che – con spensierata incoscienza – state perpetrando ? E’ meglio dare ascolto all’Italia di buon senso. E alla Chiesa che già molte volte ha salvato la nostra civiltà dalle invasioni degli unni, dei vandali e da quelle dei musulmani.

(Antonio Socci in http://www.antoniosocci.it/Socci/index.cfm)

 


 

La Teledipendenza

In questa scheda si affronta la tematica della dipendenza dalla televisione, nella modalità fruita ancora dalla maggioranza della gente, cioè dalla televisione usata in modo tradizionale, in riferimento al rapporto tra strumento e utente.

La TV del futuro ci offrirà la possibilità, quindi, di interagire con il mezzo e ci consegnerà la vera o presunta libertà di scegliere non solo i programmi, ma i contenuti. Potremo così diventare "spettautori". In altre parole la televisione sarà costruita dai suoi stessi spettatori e i mezzi più sofisticati saranno a disposizione di tutti.

Già osserviamo il fenomeno dell'uso dei videofonini e dei tv-fonini che esprimono la logica del vedere e comunicare in ogni momento, in ogni luogo, comunque e dovunque: tutto e subito.

Questo cambiamento ci  impegna a non demonizzare e a non esaltare a priori alcuna proposta, ma ad "attrezzarci", nel senso di: documentarci, affinare il senso critico, saper discernere, nelle nuove proposte mediatiche, ciò che va accolto come possibilità di crescita e ciò che, invece, va respinto perché non aiuta l'umanità a diventare pienamente se stessa, essere propositivi sulle modalità e sui contenuti.

Teleabuso e telefissazione

La teledipendenza è il frutto di un consumo eccessivo di televisione, cioè la visione regolare di una quantità esagerata di televisione. Questo fenomeno viene anche chiamato teleabuso.

Ma esiste anche un altro tipo di abuso legato a questo mezzo di comunicazione: la fissazione anomala o telefissazione. Essa sta ad indicare l'abitudine a guardare la televisione in atteggiamento solitario, silenzioso, fermo, in stanze semibuie, ignorando la presenza di altre persone.

La passione eccessiva per la televisione interessa bambini, adolescenti, ragazzi e adulti. Sono noti i  capricci dei bambini per vedere la TV e l'accondiscendenza degli adulti che, per quietarli, ne permettono l'uso.

Secondo alcuni studi dell'Unesco, la popolazione in età scolare di molti paesi rimane davanti alla televisione per un numero di ore che corrispondono quasi totolmente alla durata dell'intera giornata scolastica.

«La media di visione della TV nel mondo industrializzato è di tre ore al giorno, la metà circa del proprio tempo libero. Per cui un anziano di 75 anni avrà consumato almeno 9 anni di fronte al piccolo schermo. Da recenti sondaggi emerge che 2 su 5 tra gli adulti e 7 su 10 tra i teenagers dichiarano di considerarsi teledipendenti» (Kubey R. et al.: "Television addiction is no mere metaphor", Scientific American, February 2002).

Il teleabuso conduce ad una progressiva perdita di senso critico, iniziativa, creatività e immette, man mano, in una realtà di profonda apatia, alternata da punte di violenza improvvisa.

L'effetto della telefissazione, invece, è una specie di intossicazione televisiva che è causa di uno stato mentale alternantesi tra l'ebbrezza e il vuoto mentale.

Comunque, anche se non è telemania, si è ugualmente dipendenti dal mezzo televisivo quando:

·         si impiega una parte non indifferente del proprio tempo a guardare la TV;

·         non si tralascia di guardarla oltre il tempo programmato;

·         ci si propone di ridurre i tempi di visione, ma non ci si riesce;

·         il tempo dedicato alla TV non lascia spazio ai rapporti interpersonali, familiari, sociali e di lavoro;

·         nell'impossibilità di guardare la TV, si possono notare sintomi di astinenza.

Le radici della teledipendenza

La teledipendenza, come altre forme moderne di dipendenza, si sviluppa dall'incontro tra fattori psico-sociali e alcuni fattori comportamentali.

In cosa consistono i fattori psico-sociali? È l'insieme delle trasformazioni delle funzioni sociali assunte dalla televisione: da mezzo di comunicazione di informazione e intrattenimento nel tempo libero è diventata strumento educativo dei bambini e modello per gli adulti, tanto da rappresentare una vera e propria compagnia virtuale preferita, in parte o in tutto alla compagnia reale.

Sebbene non tutti gli studiosi di scienze della comunicazione siano d'accordo su questo, è evidente  che, in modo particolare le persone anziane, spesso sole, le persone con insicurezze relazionali o che, per motivi particolari, riducono i contatti con il mondo esterno e i bambini, i ragazzi e giovani sostituiscono alle naturali e giuste compagnie di amici e conoscenti quella dello strumento umanizzato.

Il dilagare della catturazione da parte della televisione è indice del fatto che la famiglia, la scuola e le agenzie di socializzazione sono in gran parte entrate in crisi e hanno accolto con superficialità o con troppa disponibilità le potenzialità di questo strumento che, «rappresentando la realtà in modo completo, sembra possa sostituirla, aiutando a trovare i pezzi che mancano per rispondere continuamente al bisogno di costruire e ri-costruire l'identità»

Inoltre, rispetto alla burocratizzazione e complessità dell' attuale organizzazione sociale, la dimensione virtuale diventa un ambito immediato e diretto in cui rifugiarsi  alla ricerca di nuovi modi che consentano di stare al passo con i tempi.

Queste scelte hanno trasformato le abitudini delle persone, facendo leva su alcuni fattori comportamentali che sono terreno fertile per la dipendenza.

Quali sono i fattori comportamentali che hanno un peso determinante nella teledipendenza?In termini tecnici vengono definiti, come già si diceva all'inizio della scheda, teleabuso e telefissazione.

A proposito del teleabuso, cioè all'uso smoderato del mezzo televisivo, è bene notare che, essendo appunto entrato nelle abitudini quotidiane "il guardare" la televisione, risulta difficile tracciare la linea di demarcazione chiara tra l'utilizzo corretto della stessa e il suo abuso, causa quest'ultimo di predisposizione alla dipendenza.

Va anche detto che si incontrano difficoltà nell'individuare i comportamenti di una vera e propria teledipendenza perché, chi vi è soggetto in prima persona, è portato inizialmente a non ammettere il problema.

Bisogna poi aggiungere che la teledipendenza non è un fenomeno tutto-o-niente, che c'è o non c'è ma, come per tanti altri spazi del nostro io, esistono manifestazioni intermedie, legate alle tipicità della personalità degli individui.

Due sono i rischi, da non sottovalutare, legati alla teledipendenza: la predisposizione ad altre attuali dipendenze (es. dallo shopping, dal sesso) e la vulnerabilità alle notizie catastrofiche, con conseguente coinvolgimento nelle psicosi collettive.

Per quanto riguarda invece la telefissazione, il problema consiste nel fatto che l'utente rimane quasi ipnotizzato dai programmi televisivi. Il linguaggio televisivo è fatto di immagini, suoni, sensazioni che possono catturare tutti i nostri sensi. In soggetti particolarmente predisposti  e in un ambiente in penombra e avvolto dal silenzio che induce al dormiveglia, l'effetto è quello di una confusione mentale e, quindi, di una diminuita attività razionale.

Un altro comportamento sbagliato, per le analoghe ragioni suddette, è quello della cosiddetta fissazione anomala, cioè l'abitudine di guardare la televisione mentre si svolgono attività intellettuali, sovrimpegnando la parte del cervello deputata alla logica e molto utile a filtrare i messaggi ricevuti dalla TV.

Le prospettive pastorali

Come per ogni altro tipo di dipendenza, anche per questa, la comunità cristiana non può non scegliere di vigilare sugli atteggiamenti, sulle scelte, sui comportamenti dei ragazzi, dei giovani, degli adulti e degli anziani che partecipano alla vita della parrocchia o, comunque, la incrociano.

Una seconda azione non delegabile e valida per ogni intervento educativo è quella del prevenire, attraverso un costante ascolto delle persone, un'attenzione alla loro vita, ai loro problemi, un accompagnamento umano e spirituale, soprattutto nei passaggi difficili che ciascuno attraversa.

È evidente a tutti che la diffusione della televisione, tra gli altri strumenti di comunicazione di massa, ha man mano trasformato le abitudini di molte persone.

Dapprima in possesso di pochi e poi, gradualmente, come mezzo fruibile da tutti, la televisione ha, inizialmente, occupato il tempo libero e poi il suo uso è andato via via degenerando in abuso, occupando intere giornate dei fruitori e lasciando loro poco spazio per un obiettivo atteggiamento critico nei confronti dei contenuti ricevuti.

Il piccolo schermo ha condizionato spesso, e tuttora condiziona, le modalità di organizzazione sociale, le tecniche di trasmissione e comunicazione, l'influenza di simboli e visioni socio-politiche.

Poiché, comunque, nulla è irreversibile se non si sceglie che così debba essere, anche la teledipendenza può essere un fenomeno temporaneo, o il risultato di abitudini sbagliate, o di un modo per compensare alcuni bisogni personali.

Quali attenzioni avere allora da parte della comunità cristiana? Cosa suggerire? Quali scelte proporre?

Ritorna il problema dell'uso del tempo ma, ancor prima, della prospettiva della vita, dell'educazione della ragione e dei sentimenti, della formazione della persona.

Più concretamente:

1) educare i genitori a non limitarsi a denunciare genericamente i pericoli della TV e a delegare ad altri il potere di intervenire (affidare la tutela dei minori solo ai codici di autoregolamentazione televisiva o pubblicitaria), ma ad assumersi direttamente responsabilità in prima persona in ordine alla scelta della visione dei programmi da parte dei figli. Ricorrendo, senza nessun timore, alle autorità competenti, per far eliminare tutto ciò che va eliminato. Sarebbe necessario coinvolgere altri genitori e gli insegnanti  in questa importante operazione pedagogica.

2) Ancora: aiutarli a dedicare tempo all'ascolto dei figli, a stare con loro, a leggere e a insegnare a gustare la lettura, a giocare con i bambini e a motivarli al gioco, a conoscere i loro amici, acconsentire e condividere la socializzazione con i/le compagni/e.

3) I ragazzi hanno bisogno di avere spazi e tempi per immaginare, per creare, per fantasticare, per lavorare liberamente con il proprio corpo, senza lasciarsi divorare la mente dall'immagine televisiva.

È noto che oggi entrambi i genitori lavorano; conosciamo le reali difficoltà legate alla gestione delle giornate, ma questo non può giustificare la mancanza di tempo per ciò che è fondamentale e di cui tutti abbiamo bisogno: la relazione interpersonale, importante per la crescita umana ad ogni età della vita e, nel caso di genitori-figli, decisiva per gli uni e per gli altri.

Tale relazione viene, comunque, sminuita e decurtata dal tempo dedicato alla "contemplazione" della televisione, anche nella migliore delle ipotesi di una visione e interpretazione della stessa, condivisa tra genitori e figli.

formare gli educatori e i genitori, coinvolgendo, dove è possibile, anche gli insegnanti, per metterli in grado di intercettare le forme di disagio, causate dalla visione di programmi violenti, e che esplodono in forme diverse di aggressività in famiglia, in oratorio, a scuola…

educare gli adulti, i giovani e i ragazzi al senso critico ed esercitarlo nei confronti della proposta televisiva, confrontando le notizie televisive con quelle provenienti da altre fonti, mantenendo un atteggiamento logico e una visione globale dei fenomeni, non assecondando la pura logica commerciale.

aiutare ad orientare a correggere le abitudini di vita attraverso scelte significative: spegnere la TV per dedicarsi a letture intelligenti, all'ascolto della musica, alle relazioni familiari ed amicali, a spazi di preghiera per alimentare, alla luce della Parola di Dio, la nostra esistenza di spessore evangelico e per verificare se il nostro cuore e la nostra intelligenza cercano di non perdere di vista il vero "tesoro" e, ancor prima, si lasciano plasmare dagli interessi di Dio.

riflettere sulla pace, proporre gesti di pace, aiutare le persone a  tradurre nella concretezza delle scelte personali, familiari, sociali, il programma di vita delle Beatitudini evangeliche ed essere, come comunità cristiana, segno visibile di pace. Questo è un modo per non lasciarsi suggestionare dai programmi televisivi, in particolare quelli che inducono comportamenti violenti e tentazioni consumistiche.

offrire spunti di documentazione circa l'insieme dei messaggi mediatici, talora ambigui e indecifrabili di questo nostro tempo. Questo può avvenire attraverso il supporto delle sale della comunità o di una o più persone   della parrocchia, professionisti o comunque vicini alla materia, presenti nel  Consiglio pastorale della stessa, che siano in grado di accogliere i suggerimenti e le proposte della Chiesa in ordine alla complessità mediatica e ritradurle nella comunità parrocchiale.

Qualche proposta per la lettura…

Popper K., Condry J., "Cattiva maestra televisione", Reset, Milano1994

D'Amato M., "Bambini e Tv", Il Saggiatore, Milano 1997

Alonso-Fernandez F., "Le altre droghe", Edizione Universitarie Romane, Roma 1999

Gamberoni G., "Ipnosi", Demetra, Firenze 2002

La Barbera D., "Dipendenze tecnologiche e abusi mediatici: psicopatologia e psicodinamica", in "Psichiatria e mass media", CIC, Roma 2002

Pulcini E., "Click TV. Come Internet e il Digitale cambieranno la Televisione", Franco Angeli 2006

Landi P., "Volevo dirti che è lei che guarda te", Bompiani 2006

 

 

 


 

 

DOMENICA 04 GIUGNO 2006

 

Diritti alle coppie di fatto. Lo sconcertante “sì” della Bindi provoca reazioni opposte.

Quando i principi cattolici non vanno d’accordo con le scelte politiche, (visto che il Magistero della Chiesa è stato estremamente chiaro in proposito), onorevoli “cattolici” cercano di arrampicarsi sui vetri per giustificare le loro posizioni non allineate: ovviamente supportati da coloro che considerano la Chiesa un nemico da combattere e distruggere o quantomeno da imbavagliare. Così Marini: “estendere i Pacs è giusto”. L'Udc invece: “così si disgrega la famiglia”. La Bonino: “Una Bindi coraggiosa”. Il ministro Pollastrini: “presto avremo la legge”. Contrario compatto lo schieramento di centro destra.

«Piace molto Rosy Bindi ministro alla sinistra radicale e laica. Le sue prime parole da responsabile della Famiglia al Corriere della Sera conquistano gli animi di quanti nella maggioranza vedono con grande favore il riconoscimento giuridico delle unioni di fatto e un cambiamento della legge sulla fecondazione assistita. Così arrivano l'abbraccio di Emma Bonino (“brava e coraggiosa”), i complimenti di Daniele Capezzone (“positivo passo in avanti”), l'entusiasmo di Barbara Pollastrini, ministro diessino per le Pari Opportunità, che dice di voler proporre entro sei mesi “oltre alle quote rosa, un progetto di legge sulle unioni di fatto”, l'incoraggiamento di Franco Grillini [già Arcigay], (“bene quel riferimento ai diritti pubblicistici”), la difesa di Marco Rizzo (“da destra solo attacchi strumentali”), la soddisfazione di Vladimir Luxuria [transessuale] e Titti De Simone [arcilesbica] (“per la prima volta il riconoscimento pubblico delle unioni civili non sembra più uno scoglio insormontabile”).

Soprattutto sono piaciute le parole “riconoscimento pubblico” delle coppie di fatto, mandate forse a dire anche al suo leader Rutelli, che invece preferirebbe regolarne solo i rapporti privati. “Ne discuteremo — dice Bindi —. Dovremo evitare uno scontro ideologico”. Bene, brava, bis, applaudono nel centrosinistra che sta più a sinistra ma non s'irrigidiscono neppure dentro l'area cattolica. Nel centrodestra invece la levata di scudi è unanime e fa dividere i cattolici, pronti al dialogo quelli al governo, decisi al rifiuto gli altri nell'opposizione. Così i primi ribadiscono la priorità assoluta della famiglia nel governo Prodi, “quella prevista dalla Costituzione” ma riconoscono anche la necessità, come le parole del presidente del Senato Franco Marini, dell'“estensione dei diritti civili alle forme diverse della convivenza”. Il diessino cattolico Giorgio Tonini trova “equilibrata” Rosy Bindi, “in linea con il programma dell'Unione, che non prevede i Pacs ma un riconoscimento giuridico anche verso terzi”.

Il vicepresidente della Camera Pierluigi Castagnetti, Margherita, fa persino un appello: “Spero che non passeremo anche questa legislatura a litigare tra cattolici dei due poli sul tema della famiglia”, e chiede di discutere pacatamente evitando gli slogan. Ma l'appello resta inascoltato. Dal centrodestra, più che critiche, bordate. Il segretario dell'Udc Lorenzo Cesa replica che “nel programma confuso e contraddittorio della Bindi non c'è nulla di cattolico, ma emerge il profilo di una famiglia che si avvia alla disgregazione”. Per Carlo Giovanardi (Udc) “ha trasformato il suo ministero in quello delle Famiglie, termine caro a chi vuol contestare la famiglia fondata sul matrimonio”. Francesco Giro, responsabile di Forza Italia per i rapporti con il mondo cattolico, promette: “Sui Pacs saremo cattivissimi”. Maurizio Gasparri (An) è caustico: “Il ministro non poteva partire in modo peggiore”. Solo l'Udeur, nella maggioranza, sembra non condividere le posizioni del ministro. Mauro Fabris ieri ha detto: “Nel programma da noi sottoscritto non ci sono le modifiche legislative proposte dal ministro Bindi”». (Mariolina Iossa, Corriere della sera, 22 maggio 2006)

 


 

Sulla pillola abortiva l’«Osservatore» attacca la Turco

«Sconcerto» in Vaticano per il «via libera» del ministro della Salute alla pillola abortiva. La Ru486 è «un’arma in più per uccidere la vita, un omicidio a cuor leggero».

L’«Osservatore Romano» punta l’indice contro Livia Turco, intenzionata a riprendere la sperimentazione della pillola abortiva. «È sconcertante la premura con la quale i neoministri corrono a dichiarare le loro intenzioni su materie particolarmente delicate - critica il quotidiano della Santa Sede - su tali materie, quantomeno, ci si sente di suggerire un poco di cautela». Se lunedì l’«Osservatore» non esitava a criticare il ministro della Famiglia Rosi Bindi per la sua apertura ai Pacs, stavolta il quotidiano d’Oltretevere attacca la responsabile della Sanità per il suo sì al farmaco che provoca l’aborto, considerato da Livia Turco, «una più sicura alternativa all’interruzione di gravidanza praticata attraverso l’intervento chirurgico». Parole che hanno allertato la Curia. «Nessuna novità scientifica è arrivata rispetto a questo che è diventato ormai un omicidio a cuor leggero.

Si tratta solo di dare alla donna la possibilità di scegliersi l’arma - ribadisce il giornale vaticano -. Semmai un’arma più veloce dà all’omicida la consolazione di non pensarci su più di tanto». A preoccupare le gerarchie ecclesiastiche è il ritorno ai toni delle campagna dello scorso anno pro-Ru486. Per il Vaticano, a minacciare la vita è l’uso di un farmaco che da abortivo si può facilmente trasformare per le sue caratteristiche in contraccettivo. «A poco serve assicurare che la sperimentazione avverrà nello spirito della legge 194 - nota l’Osservatore - ma su temi come questi, invece di esercitare subito la tanto agognata potestà politica, occorrerebbe verificare le diverse sensibilità dei governati».

A sostegno della Turco si schiera la Rosa nel pugno. «L’attacco dell’Osservatore ha un che di grave e di inaudito - protesta il leader radicale Daniele Capezzone - c’è qualcuno Oltretevere che vuole intimidire un ministro come si è già tentato con Rosi Bindi. Aiuteremo Livia Turco a tenere duro e ad andare avanti. E’ necessario che sia disponibile la Ru486 per evitare il trauma dell’aborto chirurgico». Dal centrodestra, però, piovono bordate.

L’Udc ha presentato un’interpellanza per garantire che la sperimentazione della pillola abortiva avvenga nello spirito della legge 194, in assenza di rischi per la salute della donna. «Condividiamo le preoccupazioni dell’Osservatore Romano - afferma il deputato Francesco Giro, responsabile di Forza Italia per i rapporti con il mondo cattolico - le esternazioni di Rosi Bindi sui Pacs e di Livia Turco sulla pillola abortiva non sono casuali ma annunciano un blitz del governo su tutte le questioni più controverse». Una strategia d’assalto, quindi, di «una coalizione fortemente eterogenea al suo interno, che per non naufragare ha bisogno di fare in fretta il lavoro sporco per poi procedere con tranquillità al controllo del potere: «La ragione di partito prevale su quella del buon senso e della buona politica». Il ginecologo Silvio Viale, promotore della sperimentazione della Ru486 all’ospedale Sant’Anna di Torino cade dalle nuvole. «Sconcerto del Vaticano per l’apertura di Livia Turco? - si chiede sorpreso - ma l’Organizzazione mondiale della sanità ha inserito la pillola abortiva nella lista dei farmaci essenziali... Dietro lo sconcerto delle gerarchie ecclesiastiche c’è il tentativo di metter sotto tutela lo Stato e il governo, i medici e le donne, al di là della presa di posizione del ministro». Semmai, secondo il professor Viale, la Turco dovrebbe quanto prima consentire la vendita libera, senza prescrizione, della pillola del giorno dopo e non ostacolare l’iter di registrazione della Ru486. «Finalmente si è fatta chiarezza tra le caratteristiche delle due pillole e ci si deve persuadere che non c’è nessun rischio della sperimentazione selvaggia della Ru486», precisa Viale. E i Verdi denunciano una criminalizzazione inaccettabile e gratuita: «L’aborto è un diritto sancito da una legge dello Stato e la pillola abortiva è un metodo per realizzarlo». Mentre in serata, a Ballarò, D’Alema sul tema spiega: «Non c’è nessuna priorità, c’è una sperimentazione in corso, il ministero non la fermerà». (Giacomo Galeazzi, La Stampa, 24 maggio 2006)

 


 

«Sbagliato cedere sulle coppie di fatto»

Il vescovo Luigi Negri, teologo dell’università Cattolica di Milano, attacca il ministro della Famiglia Rosy Bindi. Monsignor Negri, oltre che pastore e guida di una piccola ma importante diocesi, quella di San Marino Montefeltro, è docente di Storia della filosofia e introduzione alla teologia nella facoltà di Scienze dell'educazione della cattolica di Milano.

Il suo aperto dissenso (contrariamente a quanto denunciato da Cossiga circa un presunto “assordante silenzio” della Chiesa in proposito) si aggiunge a quanto ripetutamente affermato dal Papa e da Ruini per conto della Cei.

«Monsignor Negri, cosa dovrebbe dire la Chiesa a seguito delle parole della Bindi sui Pacs secondo le quali sarebbe opportuno non relegare nella “clandestinità giuridica”, le persone che affidano i propri progetti di vita a forme diverse di convivenza?

Mi preme rifarmi innanzitutto alle parole più volte pronunciate sia da Benedetto XVI che dal cardinal Ruini. Entrambi hanno ricordato quei valori innegabili che, come ho scritto anch’io in svariati messaggi inviati alla diocesi che mi è affidata, sono riconducibili a tre: vita, famiglia ed educazione. È quanto mai necessario difendere la vita dal concepimento fino al suo termine naturale, senza concedere nessun diritto alla manipolazione. È necessario difendere la famiglia che la natura ha voluto fosse eterosessuale, fondata sulla paternità e sulla maternità, aperta alla fecondazione. È necessario favorire la responsabilità civile e sociale dei genitori che insieme devono imparare ad educare i figli a essere parte attiva della società. Se inversamente si pensa che la società possa essere fondata anche su altri valori, e cioè che altri valori possano essere riconosciuti oltre quelli appena spiegati - ad esempio le coppie di fatto formate da persone anche di diverso sesso che stanno assieme per stabilità d'impegno o da persone dello stesso sesso che decidono di convivere -, allora purtroppo si decide di proporre un altro tipo di società che io non ritengo sia giusto favorire”.

È un po’ quello che lei sosteneva in un suo messaggio inviato alla diocesi il 10 maggio sulla necessità che venga promossa una cultura della vita?

La Chiesa professa l'assoluta positività della vita, dal suo primo esserci, pieno di un valore assoluto fino alla sua inevitabile e misteriosa conclusione: la vita della persona è di Dio, non è nella disponibilità di nessun altro. Cultura della vita significa anche centralità della persona e il riconoscimento del suo protagonismo culturale e morale; significa centralità della famiglia in cui ogni persona nasce e matura la propria personalità. Questa famiglia, che noi professiamo insieme cellula fondamentale della Chiesa e della società, è dotata di diritti inalienabili: dalla libertà culturale e religiosa, alla libertà della generazione, alla libertà di educazione, dell'aggregazione sociale, dell'intrapresa culturale, sociale ed economica. Sono questi i diritti che spero lo Stato promuova.

Le coppie di fatto non hanno diritto all'esistenza?

Non ho detto questo. Ognuno è libero di dire quello che vuole e di proporre le idee che ritiene più opportune per la propria esistenza. E di perseguirle. Ma io ritengo - ed è ciò che contesto a chi vorrebbe riconoscere giuridicamente i Pacs - che sia sbagliato che i diritti soggettivi delle persone diventino automaticamente diritti civili. Perché così facendo si crea un’altra società che io non credo sia opportuno creare. E la Chiesa fa bene a dire - e deve dirlo con voce sempre più forte - quale sia il modello di società che ha in mente.

Perché i vescovi pubblicamente parlano così poco di questi temi?

Questo non lo so. So che le parole del Papa e di Ruini sono sempre puntuali e precise. Forse anche tanti altri vescovi dicono la loro, ma magari vengono ripresi poco dai giornali.

L'Osservatore Romano ha criticato le parole del ministro della Salute Livia Turco la quale aveva aperto alla possibile promozione, nel rispetto della legge 194, della pillola abortiva RU486 come metodica alternativa all'aborto chirurgico. Cosa ne pensa?

Concedere alle donne la possibilità di utilizzare a piacimento la pillola abortiva RU486 è di una gravita assoluta.

Perché?

È stato dimostrato da studi qualificati come la pillola sia tutt’altro che positiva per le donne: è come porre nella vita delle donne che ne vogliono fare uso una bomba ad orologeria.

In che senso?

Nel senso che la pillola è risultata di fatto - nessuno, o meglio soltanto in pochi, ne parlano ma è così - una minaccia alla vita delle donne. Decine di donne sono decedute per emorragia negli Usa dopo averla presa. Si conoscono casi di donne che hanno preso la pillola magari all'ospedale e poi sull'autobus tornando a casa sono morte per emorragia. Se venisse introdotta la possibilità che chiunque possa prendere la pillola quando e come vuole, sarebbe un problema innanzitutto da un punto di vista dell'incolumità di quelle stesse persone che decidono di assumerla. La cosa più drammatica, comunque, è che si faccia passare la pillola RU486 come una medicina incontestabile scientificamente e addirittura neutrale.

La Chiesa cosa deve dire in questo caso?

Deve dire chiaramente che la pillola è una forma abortiva e se lo Stato la promuove compie un'azione scorretta innanzitutto dal punto di vista scientifico». (Paolo Luigi Rodari, Il Tempo, giovedì 25 maggio 2006)

 


 

Pacs e programmi sottoscritti: scripta manent o volant?

Un antico adagio latino diceva: Scripta manent, verba volant. È veramente così? Vediamo.

«Se di mezzo ci sono i Pacs, dipende. Per Luigi Bobba scripta manent, senza dubbio alcuno: “Devono rassegnarsi. Il programma dell’Unione dice un’altra cosa” (La Repubblica). Scripta volant, invece, per una Emma Bonino tutt’altro che rassegnata: “I Pacs non sono nel programma? Possiamo chiamarli Giuditta o Genoveffa. Ma hanno diritto di riconoscimento pubblicistico” (L'Unità). Scripta ri-manent per il capogruppo Udeur Mauro Fabris: “Nel programma dell’Unione da noi sottoscritto non ci sono le modifiche legislative proposte dal ministro Bindi”. Verba svolazzant sed etiam permaneant pure per Barbara Pollastrini: auspica “entro sei mesi un progetto di legge sulle unioni di fatto” (Corriere della Sera), che solo lei riesce a leggere nel programma (scritto) dell’Unione, là dove Giorgio Tonini legge, intuisce, decripta “un riconoscimento giuridico verso terzi” (Corriere della Sera).

Sulla Ru 486 la confusione assume analoghi contorni babelici. Finalmente altri scrivono quello che solo Avvenire scriveva: la pillola è tutt’altro che indolore, tutt’altro che innocua. È traumatica e insicura. E chi invita alla cautela non ha in odio le donne né intende farle soffrire, come molti hanno sibilato; semmai l’esatto contrario. “Altolà dei medici: la pillola abortiva è pericolosa. Il professor Baulieu, papà del farmaco, costretto ad ammettere che è troppo rischiosa” (Libero). Ignazio Marino, voce insospettabile, intervistato da Maria Antonietta Calabrò conferma: “Anche questo metodo provoca dolore, non va imposto” (Corriere della Sera, purtroppo di taglio bassissimo). Ben più evidente l’intervista di Sara Strippoli a Silvio Viale. Domanda: “La ricetta è ancora indispensabile?” Risposta: “Nel 2000 quella cautela era comprensibile, ma adesso è davvero tempo di permettere a tutte le donne di acquistare senza ricetta un farmaco che non è più nocivo di un’aspirina” (La Repubblica). Dall’intrepida intervistatrice nessuna replica, ci mancherebbe.

Lasciamola allora a Marino: “La Ru 486 è un metodo meno invasivo, ma non necessariamente meno doloroso, sia fisicamente che psicologicamente. L’aborto chirurgico avviene in anestesia, la Ru 486 induce un mini travaglio con forti contrazioni che durano per molte ore...” (Corriere della Sera). Eccetera. Tutte cose note ai nostri lettori. Non a Viale, noto aspirinologo. La cui preoccupazione in realtà sembra ideologica e politica: “Dietro lo sconcerto delle gerarchie ecclesiastiche c’è il tentativo di mettere sotto tutela lo Stato e il governo, i medici e le donne, al di là della presa di posizione del ministro” (La Stampa). Per i Verdi, scrive Giacomo Galeazzi, “l’aborto è un diritto sancito dalla legge e la pillola abortiva è un metodo per realizzarlo”. Come dire: il fine giustifica il mezzo. E questi sarebbero Verdi?» (Tommaso Gomez, Avvenire, 25 maggio 2006)

 


 

Il rapporto conflittuale tra la famiglia e la televisione

La Commissione Diocesana per la Famiglia e l’Ufficio Comunicazioni Sociali della Diocesi di Gela hanno organizzato il 30 aprile scorso, in occasione della XV Giornata Diocesana della Famiglia, un incontro – dibattito sul tema: “Famiglia e Televisione: una proposta educativa”.

Ad intervenire sull’argomento è stato il dottor Luca Borgomeo, Presidente Nazionale dell’AIART-Associazione Spettatori e Presidente del Consiglio Nazionale degli Utenti dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (CNU), che Zenit  ha intervistato.

Il tema è stato scelto in considerazione della presa di coscienza che la famiglia è chiamata ad assumere nei confronti di un mezzo, come la Tv, ormai invasivo dell’intimità domestica e del non delegabile ruolo educativo che per vocazione naturale la famiglia stessa deve svolgere.

Qual è il suo giudizio sui programmi trasmessi dalle grandi reti televisive?

Purtroppo la Tv italiana non è in buona salute. E la prognosi negativa riguarda sia la Tv pubblica, sia quella privata ormai sempre più simili. Entrambe sembrano permanentemente impegnate in una gara a chi “degrada” di più la programmazione. L’elenco dei mali è lunghissimo: mi limito ad indicare quello che ritengo il principale: la Tv, in generale, considera i telespettatori, più che cittadini, dei consumatori. Pertanto rincorrono l’audience per far crescere gli introiti pubblicitari. E se la Tv diventa, esclusivamente, una “macchina” per vendere prodotti e fare affari, è del tutto comprensibile che, giorno dopo giorno, degrada dissipando l’identità dei telespettatori, soprattutto dei minori e di quanti guardano la Tv senza un atteggiamento vigile, critico e responsabile.

Questo continuo processo di omologazione… in basso, che si svolge dietro il paravento di un finto duopolio e di un’ambigua concorrenza, ha finito per rendere più grave ed intollerabile il degrado della Tv italiana con quegli effetti negativi sull’identità culturale e morale delle persone, delle famiglie, dell’intera comunità, che sono sotto gli occhi di tutti.

Qual è secondo lei il modo per contrastare il degrado culturale che sembra dominare in Tv?

Per contrastare le cause principali del degrado culturale e dello stravolgimento di identità, operati dall’azione corruttrice di certa Tv, occorrono urgenti scelte radicali tra cui: Salvaguardare e difendere il servizio pubblico, spostare il potere di indirizzo e di controllo della Rai dal Governo al Parlamento e all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni e assicurare una reale partecipazione alla “gestione” del servizio pubblico da parte delle formazioni sociali, delle grandi istituzioni culturali del Paese, delle associazioni.

Sono queste le espressioni della società civile capaci di esprimere tutta la ricchezza del pluralismo sociale e culturale di un’intera comunità e di favorire in tal modo un reale salto di qualità di una Tv veramente al servizio della persona e della società italiana, una Tv capace di affermare valori di solidarietà, di promuovere il pluralismo, di far crescere una comunità fondata su un patto sociale, di consolidare la democrazia, di contrastare il disagio sociale, di favorire la concordia nazionale, di educare – specialmente i giovani – al vero, al bello, al giusto. (Zenit, 29 maggio 2006)

 


 

Benedetto XVI ai membri dei Movimenti ecclesiali: “Confido nella vostra pronta obbedienza”

Benedetto XVI ha manifestato il proprio riconoscimento ai Movimenti ecclesiali e alle nuove Comunità, ed ha chiesto loro obbedienza e comunione con il Papa ed i Vescovi.

Così ha detto il Pontefice nel messaggio letto questo mercoledì in apertura dei lavori del II Congresso mondiale che riunisce 300 rappresentanti di oltre 100 Movimenti, a Rocca di Papa, nei pressi di Roma, dal 31 maggio fino al 2 giugno prossimo.

Papa Benedetto XVI, che da molti anni segue con passione il fenomeno dei Movimenti e delle nuove Comunità, da quando intorno alla metà degli anni Sessanta prese i primi contatti con queste realtà ecclesiali sorte in seno alla Chiesa dopo il Concilio Vaticano II, ha incoraggiato i partecipanti al Congresso ad essere sempre delle “scuole di comunione”.

“Voi appartenete alla struttura viva della Chiesa – ha affermato –. Essa vi ringrazia per il vostro impegno missionario, per l’azione formativa che sviluppate in modo crescente sulle famiglie cristiane, per la promozione delle vocazioni al sacerdozio ministeriale e alla vita consacrata che sviluppate al vostro interno”.

“Vi ringrazia anche per la disponibilità che dimostrate ad accogliere le indicazioni operative non solo del Successore di Pietro, ma anche dei Vescovi delle diverse Chiese locali, che sono, insieme al Papa, custodi della verità e della carità nell’unità”, ha continuato.

“Confido nella vostra pronta obbedienza”, ha poi sottolineato.

“Al di là dell’affermazione del diritto alla propria esistenza, deve sempre prevalere, con indiscutibile priorità, l’edificazione del Corpo di Cristo in mezzo agli uomini. Ogni problema deve essere affrontato dai Movimenti con sentimenti di profonda comunione, in spirito di adesione ai legittimi Pastori”, ha poi ribadito.

“Vi sostenga la partecipazione alla preghiera della Chiesa, la cui liturgia è la più alta espressione della bellezza della gloria di Dio, e costituisce in qualche modo un affacciarsi del Cielo sulla terra”, ha quindi detto loro.

Incaricato di pronunciare il discorso introduttivo, il Presidente del Pontificio Consiglio dei Laici, monsignor Stanislaw Rylko, ha ricordato che “la persona del Successore di Pietro ci richiama già all’inizio di questo Congresso alla necessità di aprirci all’orizzonte della Chiesa universale”.

“Nel corso di queste giornate – ha aggiunto – il nostro sentire cum Ecclesia dovrà essere dunque particolarmente intenso e trovare espressioni concrete”.

“Nella stupenda manifestazione della multiforme varietà dei doni dello Spirito Santo alla Chiesa di oggi, in queste giornate noi faremo di nuovo l’esperienza della loro profonda unità nella comunione ecclesiale”, ha sottolineato.

Queste parole sembrano riecheggiare da vicino quanto affermato già da Giovanni Paolo II nel messaggio inviato ai partecipanti alla prima edizione di questo Congresso, svoltasi nel maggio del 1998. In quell’occasione il Papa polacco aveva detto: “La vostra stessa esistenza è un inno all’unità nella pluriformità voluta dallo Spirito e ad essa rende testimonianza. Infatti, nel mistero di comunione del Corpo di Cristo, l’unità non è mai piatta omogeneità, negazione della diversità, come la pluriformità non deve diventare mai particolarismo o dispersione”.

“Ecco perché ognuna delle vostre realtà merita di essere valorizzata per il peculiare contributo che apporta alla vita della Chiesa”, aveva aggiunto.

Nel suo messaggio, Giovanni Paolo II aveva quindi toccato il punto essenziale dell’identità ecclesiale dei Movimenti: “Più volte ho avuto modo di sottolineare come nella Chiesa non ci sia contrasto o contrapposizione tra la dimensione istituzionale e la dimensione carismatica, di cui i Movimenti sono un’espressione significativa”.

“Ambedue sono co-essenziali alla costituzione divina della Chiesa fondata da Gesù, perché concorrono insieme a rendere presente il mistero di Cristo e la sua opera salvifica nel mondo”, aveva scritto.

Nella stessa occasione l’allora Cardinale Joseph Ratzinger aveva presentato la sua visione teologica dei Movimenti ecclesiali e delle nuove Comunità in una conferenza pronunciata in apertura del Congresso mondiale.

L’allora Prefetto della Congelazione per la Dottrina della Fede aveva affermato che per impostare correttamente il discorso teologico sui Movimenti ecclesiali non bastava la dialettica fra istituzione e carisma, cristologia e pneumatologia, gerarchia e profezia, perché la Chiesa non è edificata dialetticamente, ma organicamente.

Il porporato aveva dichiarato di ravvisare la corretta collocazione teologica dei Movimenti in un approccio storico in grado di risalire lungo la loro “successione apostolica” e “apostolicità”.

“Il papato non ha creato i movimenti – aveva affermato il Cardinale Ratzinger –, ma è stato il loro essenziale sostegno [...], il loro pilastro ecclesiale. [...] Il Papa ha bisogno di questi servizi, e questi hanno bisogno di lui, e nella reciprocità delle due specie di missione si compie la sinfonia della vita ecclesiale”.  (Zenit, 31 maggio 2006)

 


 

Reazioni del mondo cattolico all’apertura del Ministro Mussi sull’utilizzo di staminali embrionali

Il 30 maggio a Bruxelles, il neo-ministro dell'Università e della Ricerca Scientifica, Fabio Mussi, ha ritirato l’adesione italiana a una “dichiarazione etica” in cui si sosteneva una pregiudiziale contraria al finanziamento, alla ricerca e all’utilizzo delle cellule staminali embrionali.

L’adesione dell’Italia alla dichiarazione, sottoscritta lo scorso 29 novembre anche da Germania, Austria, Polonia, Slovacchia e Malta, era decisiva per impedire il finanziamento europeo alla sperimentazione e alle tecniche per l’utilizzazione delle cellule staminali embrionali.

Contro l’iniziativa unilaterale del Ministro, non discussa precedentemente né in Parlamento né in ambito pubblico, parte del mondo cattolico ha reagito con sdegno e riprovazione.

“Avvenire”, il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, ha usato parole come “strappo”, “golpe” per descrivere il ritiro della firma dell'Italia dalla “dichiarazione etica”.

Il quotidiano dei Vescovi italiani ha dedicato all'avvenimento il titolo d'apertura della prima pagina “Staminali embrionali, lo strappo dell'Italia” ed ha spiegato che: “Il ministro italiano in sostanza ha sbloccato i finanziamenti europei alle ricerche che utilizzano e distruggono le cellule staminali embrionali”.

In un editoriale apparso su “Avvenire” a firma di Marina Corradi e intitolato “Golpe di Mussi contro la Carta etica europea”, la giornalista afferma: “Qui si va oltre un'esternazione sui pacs, o sull'adozione della pillola abortiva”.

“Qui si cancella da un giorno all'altro l'adesione a una dichiarazione europea, sia pure d'intenti, ma estremamente rilevante, e fedele, nella volontà espressa, a ciò che hanno manifestato i cittadini nel referendum sulla procreazione medicalmente assistita dell'anno scorso”, si legge poi.

“Nel breve arco di un mese, dispiace dirlo – prosegue l'editoriale – ci siamo adusi a questi colpi di vento, a questo incontenibile rigoglio dell’ istintività dei ministri, ansiosi di annunciare di persona l'avvento di una laicizzazione metodica dell'Italia”.

A queste voci di protesta si è unito anche il Forum delle Associazioni Familiari che, in un comunicato recapitato questo mercoledì a ZENIT, afferma: “Un ministro può legittimamente avere le sue idee, ma quando prende posizioni ufficiali specie in ambito internazionale, deve garantire la rappresentanza del proprio Paese”.

“Il Ministro Mussi, in sede Ue, ha smentito la volontà del popolo italiano”, si osserva.

Successivamente, il comunicato spiega che: “Gli italiani hanno espresso senza dubbio di sorta la propria volontà in materia. Meno di un italiano su cinque, nel referendum dello scorso anno, si è infatti pronunciato per la modifica della legge 40 sulla fecondazione artificiale. Ed uno dei punti più dibattuti era proprio quello riguardante le cellule staminali embrionali”.

“Il ministro Mussi ha invece agito in senso esattamente opposto, incurante delle indicazioni chiare ed evidenti ricevute, neppure un anno fa, anche da larga parte dei suoi elettori”, si commenta nel comunicato.

Il Forum delle Associazioni Familiari chiede quindi al governo nella sua collegialità “di esprimersi sulla scelta del Ministro Mussi: si tratta di una scelta condivisa o di una inopinata ed infelice iniziativa personale?”.

“Abbiamo almeno il diritto di sapere chi e perché calpesta la volontà popolare”, si esclama poi.

Sempre in merito alle dichiarazioni formulate a Bruxelles dal Ministro Mussi, l’Onorevole Carlo Casini, Eurodeputato e Presidente del Movimento per la Vita Italiano, ha dichiarato: “Ancora una volta si verifica la tragica contraddizione: coloro che invocano la solidarietà non esitano un attimo a collaborare nella eliminazione dei più deboli”.

“Quanti credono che il diritto alla vita è un valore non negoziabile ma votano per coloro che poi decidono contro la vita dovrebbero fare un serio esame di coscienza”, ha osservato Casini.

Dal canto suo, l’Associazione “Scienza e Vita” ha diffuso un comunicato in cui ribadisce il suo “no all’utilizzo delle cellule staminali da embrioni, in qualsiasi modo prodotti, anche se soprannumerari rispetto a pratiche di fecondazione assistita e in stato di abbandono”.

I Presidenti dell’Associazione, i professori Bruno Dallapiccola e Maria Luisa Di Pietro, hanno quindi precisato che “il prelievo delle staminali distrugge l’embrione. Inoltre non si vede per quale ragione si debba continuare il filone di ricerca sulle staminali embrionali, quando gli unici risultati finora attendibili sono venuti dall’utilizzo di quelle adulte o da sangue di cordone ombelicale. Si tratta di risultati terapeutici sperimentati ogni anno su decine di migliaia di casi”.

“La riduzione delle tutele etiche non è indubbiamente un fattore di civiltà e progresso”, hanno concluso.

Critiche a Mussi sono piovute anche da Giuseppe Barbaro, Vicepresidente della Fafce, la Federazione delle Associazioni Familiari Cattoliche Europee, che riunisce le associazioni di 12 Paesi della Comunità.

“Il Ministro Mussi – ha affermato il Vicepresidente della Fafce –, con la sua posizione in merito alla ricerca sulle cellule staminali embrionali ha infranto un delicato equilibrio che si era instaurato in ambito europeo spostando l’Italia dalla consolidata amicizia con Paesi come Germania, Austria e Polonia a quella più avventurosa col club zapaterista”.

“La perdita di questo equilibrio – ha continuato Barbaro – avrà ricadute imprevedibili anche su larga parte delle politiche sociali nazionali che sempre più nascono e sono condizionate dalle scelte comunitarie. E tutto questo per aprire un fronte di ricerca assolutamente non prioritario. E’ noto infatti che i dati scientifici danno la preferenza alle cellule staminali adulte o del cordone ombelicale, più promettenti negli interventi sulle malattie umane”.

“Come associazioni familiari europee – ha concluso il rappresentante della Fafce – ci chiediamo dunque perché impegnare ingenti risorse in linee di ricerca niente affatto promettenti e perché soprattutto mettere in discussione gli assetti nella Ue nel nome di una scelta di campo che punta unicamente ad indebolire il fronte di coloro che si battono per la tutela del diritto alla vita”. (Zenit, 31 maggio 2006)

 


 

L'Associazione “Scienza e Vita”: la scelta del Ministro Mussi, “gravemente lesiva della volontà popolare”

Pubblichiamo di seguito l’appello diffuso questo mercoledì dall’Associazione “Scienza e Vita” in risposta all’annuncio fatto dal Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica, Fabio Mussi, di ritirare il sostegno italiano alla proposta di una “dichiarazione etica” circa la ricerca sulle cellule staminali embrionali.

Signor Presidente, Signor Ministro,

L'Assemblea dell'Associazione “Scienza e Vita”, riunita oggi a Roma, ha esaminato la dichiarazione con cui ieri l'Italia, attraverso un suo Ministro, ha revocato la precedente decisione del 29/11/2005 che aveva determinato una "minoranza di blocco" riguardo al Progetto di impiegare denaro comunitario per l'uso distruttivo di embrioni umani nella ricerca scientifica. E' unanime parere di tutti i membri dell'Associazione “Scienza e Vita” che la dichiarazione ministeriale è stata gravemente lesiva della volontà popolare manifestata nella consultazione referendaria del giugno 2005 e comunque inopportuna. Chiediamo, pertanto, che tale dichiarazione venga con urgenza rimossa nelle forme e nei modi adeguati. Tale richiesta si fonda sulle ragioni scientifiche, etiche, giuridiche e politiche che sinteticamente riassumiamo:

1. Dal punto di vista scientifico non è certo il caso di dimostrare ancora una volta l'identità umana dell'embrione umano sin dalla fecondazione. Basti ricordare i ripetuti pareri del Comitato Nazionale di Bioetica italiano emanati il 22/6/1996 sullo statuto dell'embrione, il 11/4/2003 sull'uso di cellule staminali e embrionali, il 15/7/2005 sul cd "ootide"e il 18/11/2005 sulla adottabilità degli embrioni residui a seguito di procreazione artificiale. In coerenza con i documenti del CNB, l'articolo 1 della Legge 40/2005 riconosce al concepito il carattere di soggetto titolare di diritti, e più recentemente l'articolo 4 della Legge 23/2/2006 n.78 ha riconosciuto la presenza di un corpo umano fin dal concepimento. D'altronde le ricerche che utilizzano cellule staminali cosiddette "adulte" (comunque non tratte da embrioni generati artificialmente ed esistenti fuori dal corpo materno) hanno dato e stanno fornendo ancora risultati assai positivi per obiettivi terapeutici, mentre le ricerche su cellule di embrioni non impiantati non hanno portato alcun risultato nonostante l'ingente impegno di fondi. Pertanto è ingiustificato stornare danaro da una direzione molto promettente, e nella quale l’Italia è una protagonista a livello internazionale, verso strade che l'esperienza dimostra avere sbocchi quanto mai incerti.

2. La sperimentazione distruttiva sull'embrione umano è eticamente intollerabile perchè contrasta insuperabilmente con il rispetto della dignità umana. La Convenzione di Oviedo stabilisce che gli interessi della scienza e della società non debbono mai prevalere su quelli dell'essere umano. Ciò, invece, accade quando l'embrione è trasformato in materiale da esperimenti.

3. Dal punto di vista giuridico, va sottolineato che i Fondi Europei provengono anche da Stati Membri il cui ordinamento non consente la sperimentazione embrionale, giudicata lesiva di un diritto umano fondamentale. Perciò non è giusto il coinvolgimento nelle iniziative comunitarie che utilizzano vite umane.

4. In ogni caso una decisione così grave avrebbe meritato la preventiva valutazione del Consiglio dei Ministri. Sarebbe stato quanto mai opportuno anche un preliminare ed esauriente dibattito in Parlamento.

Concludiamo esprimendo la certezza, Signor Presidente e Signor Ministro, che sappiate tenere nella giusta considerazione le nostre osservazioni.

Con fiducia, porgiamo i nostri vivi saluti. I Presidenti:  Bruno Dallapiccola, Maria Luisa Di Pietro. (Zenit, 31 maggio 2006)

 

 

 


 

 

DOMENICA 28 APRILE 2006

 

 La riorganizzazione delle parrocchie, opportunità di “rinnovamento spirituale”

La riorganizzazione delle parrocchie allo studio in alcune diocesi a causa della mancanza di sacerdoti deve essere vista come un’opportunità di “rinnovamento spirituale”, sostiene Benedetto XVI.

Il Santo Padre lo ha spiegato ricevendo questo sabato nella loro quinquennale visita “ad limina Apostolorum” i Vescovi del Canada Atlantico, che, come riferito nei rapporti presentati dai presuli, stanno affrontando “il delicato compito della riorganizzazione delle parrocchie e anche delle Diocesi”.

“Ciò non si può realizzare mai in modo appropriato ricorrendo ai semplici modelli sociali di ristrutturazione”, perché “senza Cristo, non possiamo fare nulla”, ha osservato.

“La preghiera ci radica nella verità, ricordandoci incessantemente il primato di Cristo e, in unione con Lui, il primato della vita interiore e della santità”.

“Le parrocchie sono dunque, a giusto titolo, considerate prima di tutto case e scuole di comunione – ha aggiunto –. Di conseguenza, la riorganizzazione delle parrocchie è fondamentalmente un esercizio di rinnovamento spirituale”.

Ciò, ha spiegato, “esige una promozione pastorale della santità, affinché i fedeli si mantengano attenti alla volontà di Dio”.

Questo obiettivo si realizza attraverso “una pedagogia autentica della preghiera”, “un'introduzione alla vita dei Santi e alle molteplici forme di spiritualità che abbelliscono e stimolano la vita della Chiesa”, “una partecipazione regolare al Sacramento della Riconciliazione” e “una catechesi convincente sulla domenica come il giorno della fede”.

Il Papa si è detto certo che “una riscoperta di Gesù Cristo, Verbo fatto carne, nostro Salvatore, porterà a una riscoperta dell'identità personale, sociale e culturale dei fedeli”.

“Lungi dal confondere la diversità e la complementarità dei carismi e delle funzioni dei ministri ordinati e dei fedeli laici, un'identità cattolica rafforzata ravviverà la passione per l'evangelizzazione, che è propria della vocazione di ogni credente e della natura della Chiesa”, ha concluso. (Zenit, 22 maggio 2006 )

 


 

Le dichiarazioni su vita e famiglia di alcuni esponenti del Governo italiano preoccupano il Vaticano

Le dichiarazioni di due esponenti del nuovo Governo italiano su questioni delicate legate alla famiglia e alla vita nella sua fase iniziale hanno suscitato la preoccupazione de “L’Osservatore Romano”.

Famiglia e coppie di fatto

Nell’edizione italiana del 23 maggio del quotidiano della Santa Sede, appare un articolo dal titolo “Acrobazie dialettiche a danno della famiglia”, in cui si criticano le dichiarazioni del Ministro della Famiglia, Rosy Bindi, che aprirebbero le porte al riconoscimento “pubblico” delle “coppie di fatto”, incluse quelle omosessuali.

L’articolo inizia manifestando in primo luogo dissenso per il fatto che il Ministro inizi la sua missione affrontando questo argomento, con forti implicazioni ideologiche, anziché rispondere ai “tanti problemi che nel Paese ci sono da affrontare, e in special modo quelli riguardanti le molte difficoltà che le famiglie italiane devono affrontare quotidianamente”.

Il quotidiano vaticano fa inoltre “due considerazioni”.

In primo luogo, afferma, “è necessario, nel dibattito, distinguere fra coppie eterosessuali e omosessuali. E’ una distinzione importante perché la convivenza fra persone eterosessuali è già regolata nel diritto civile attraversa il matrimonio (per il quale, va evidentemente ricordato, c'è bisogno delle cosiddette ‘pubblicazioni’) e non si spiega perché lo Stato debba intervenire sulla sfera privata per dare tutela pubblica a chi invece si è già rifiutato di averla”.

“Ma la questione è anche un'altra”, continua: “l'impressione è che le convivenze eterosessuali siano usate semplicemente come ‘grimaldello’, perché più diffuse e maggiormente in grado di far convergere comprensione e benevolenza”.