TESTI ATTUALITÀ

ANNO 2007

 

 

25 dicembre 2007

 

Amare perché si radichi la speranza

Il senso del Natale e l'enciclica "Spe salvi": la riflessione del vescovo Rino Fisichella

«Giungere a conoscere Dio - il vero Dio - questo significa ricevere speranza». Questa semplice espressione di Benedetto XVI nella sua ultima enciclica può chiarificare non poco il senso del Natale. Siamo immersi in un contesto culturale che spesso tende a dimenticare; diventa quasi naturale, purtroppo, perdere la memoria degli eventi che segnano la storia e tutto, di conseguenza, cade nell'ovvietà. La scadenza del 25 dicembre, invece, ritorna con la sua implacabile forza per riportare alla mente il fatto che ha cambiato il mondo. Il ricordo della nascita di Gesù di Nazareth non può essere relegato a uno dei tanti avvenimenti che segnano il quieto trascorre degli anni; esso costituisce, al contrario, il perno intono a cui ruota la storia e la vita di ognuno di noi. Natale, infatti, riporta in primo piano la domanda a cui tutti, nessuno escluso, devono presto o tardi dare una risposta definitiva: il senso della vita. La gioia della nascita e il dolore della morte sono i due cardini su cui si sviluppa la vita di ogni uomo all'interno della quale nessuno può prevedere cosa succederà e con chi si incontrerà. Evitare la questione potrà rallegrare una serata e forse far passare spensieratamente un fine settimana, ma non consente di raggiungere la felicità desiderata.

È necessario affrontare la domanda e dare la risposta che può permettere a ognuno di vedere la propria vita con occhi diversi. Se si vuole, al fondo di tutto si pone il desiderio di una speranza che possa ricolmare di gioia e felicità la propria esistenza e quella delle persone amate; non solo. In alcuni momenti più drammatici viene quasi spontaneo sperare perché il mondo e le nazioni possano intraprendere la via della pace e permettere la convivenza tra i popoli senza più la paura della violenza. Questi non sono sentimenti passeggeri, ma frutto di un'esigenza che è iscritta nel cuore di ogni persona e chiede di diventare realtà. La speranza, come Benedetto XVI ci ha insegnato, è alla base di questa attesa e permette di condurre una vita in maniera diversa, trasformata, e con la certezza dell'amore di Dio. La nascita di Gesù in mezzo a noi non è frutto del caso, ma un progetto di amore con il quale il Padre intende rivelare il senso più profondo delle cose e permette di cogliere l'essenziale della vita.

Il cuore della nostra fede è dato dal mistero dell'incarnazione di Dio. Niente come questo fatto ci tocca in prima persona. Dopo la nascita di Gesù nella povertà di Betlemme non solo è superata ogni forma di solitudine, ma ognuno è chiamato a credere nella certezza di una vita diversa. «Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova», scrive il Papa nella “Spe salvi”, ed è proprio così. Se Dio si fa uomo per amore e per salvare l'umanità, riconducendola di nuovo nella vita di comunione con lui, allora si può avere la certezza che questo si realizzerà. La speranza cristiana si muove alla luce di questa parola che richiama a una promessa limpida e impegnativa: «Dove sono io là sarete anche voi». Ciò che Natale esprime è niente altro che la speranza di raggiungere un giorno il nostro Salvatore per stare sempre con lui. Certo, sarà necessario seguire la stella come i Magi per raggiungere Betlemme e da lì saremo chiamati alla più faticosa strada che sale fino al monte Calvario come per Maria e Giovanni. L'arco di tempo che abbraccia la nascita e la fine, tuttavia, è segnato dalla certezza della speranza che il Signore non delude perché è fedele.

Proprio davanti al presepio diventa attuale la bella pagina di un profondo pensatore come Peguy quando scriveva che è la speranza a trascinare con sé la fede e l’amore. Essa appare come la sorellina più piccola sempre nascosta perché si preferisce parlare delle due sorelle maggiori che occupano gran spazio nei nostri discorsi. Fede e amore, bisogna riconoscerlo, fanno la parte del leone; eppure, senza la speranza rimarrebbero come qualcosa di incompiuto. Offrendo il proprio Figlio all'umanità, Dio ha posto in essere la sorgente della speranza. Guardare al Natale con gli occhi carichi di fede e di amore non può che aprire il cuore alla speranza come una responsabilità di evangelizzazione che impegna ogni cristiano. In un periodo di crisi e di incertezza come il nostro, molti attendono proprio da noi una parola che ricolmi il cuore di vera speranza e non di ingenua utopia. D'altronde, la nostra missione è questa: amare perché in quanti incontriamo nella nostra vita sorga la fede e si radichi la speranza.

(Mons. Rino Fisichella, Roma Sette, 21 dicembre 2007)

 

 


 

Papa: la Chiesa è aperta al dialogo, ma non può rinunciare ad annunciare il Vangelo

La Chiesa è aperta al dialogo, ma non può rinunciare ad annunciare la Buona Novella al mondo, perché sa che, attraverso essa, si realizzano non solo la salvezza, ma anche la pace e la giustizia. E’ questa la chiave di lettura che Benedetto XVI ha dato oggi agli avvenimenti dell’anno che sta finendo: dai “perenni principi” della ecclesiologia cattolica ricordati nella Lettera che egli ha scritto ai cattolici cinesi – dove pure è ribadita la disponibilità verso le autorità civili - alle speranze di serena convivenza aperte dalla lettera indirizzatagli dei 138 studiosi mussulmani, dalle affermazioni in favore dei diritti dell’uomo a quelle per la tutela della natura, “messaggio del Creatore”.

E’ una riflessione sugli avvenimenti principali del 2007 il discorso che Benedetto XVI ha rivolto oggi alla Curia romana, nel tradizionale appuntamento per lo scambio degli auguri di Natale. Ed è prendendo spunto dal viaggio compiuto a maggio in Brasile che il Papa affronta il tema centrale dell’intero discorso, quello sulla evangelizzazione: “venendo a conoscere Cristo veniamo a conoscere Dio, e solo a partire da Dio comprendiamo l’uomo e il mondo, un mondo che altrimenti rimane una domanda senza senso”. La fede, allora, “comprende tutto; questa parola ora indica insieme l’essere con Cristo e l’essere con la sua giustizia. Riceviamo nella fede la giustizia di Cristo, la viviamo in prima persona e la trasmettiamo”.

“Il discepolo di Gesù Cristo – ha proseguito - deve essere anche missionario”, ma “è lecito ancora oggi “evangelizzare”? Non dovrebbero piuttosto tutte le religioni e concezioni del mondo convivere pacificamente e cercare di fare insieme il meglio per l’umanità, ciascuna nel proprio modo? Ebbene, è indiscutibile che dobbiamo tutti convivere e cooperare nella tolleranza e nel rispetto reciproci. La Chiesa cattolica si impegna per questo con grande energia”. Ma “questa volontà di dialogo e di collaborazione significa forse allo stesso tempo che non possiamo più trasmettere il messaggio di Gesù Cristo, non più proporre agli uomini e al mondo questa chiamata e la speranza che ne deriva? Chi ha riconosciuto una grande verità, chi ha trovato una grande gioia, deve trasmetterla, non può affatto tenerla per sé. Doni così grandi non sono mai destinati ad una persona sola”. E “per giungere al suo compimento, la storia ha bisogno dell’annuncio della Buona Novella a tutti i popoli, a tutti gli uomini”, perché “mediante l’incontro con Gesù Cristo e i suoi santi, mediante l’incontro con Dio, il bilancio dell’umanità viene rifornito di quelle forze del bene, senza le quali tutti i nostri programmi di ordine sociale non diventano realtà, ma – di fronte alla pressione strapotente di altri interessi contrari alla pace ed alla giustizia – rimangono solo teorie astratte”.

Ma l’affermazione del “dovere” dell’evangelizzazione, nelle parole del Papa, non elimina la scelta della Chiesa per il dialogo. Benedetto XVI oggi ne ha sottolineato in particolare due aspetti: la lettera dei 138 studiosi musulmani per quanto riguarda il rapporto tra fedi e quella che egli ha scritto ai cattolici cinesi a proposito di quello con le autorità civili. Di quest’ultima il Papa ha ricordato sia le affermazioni ecclesiologiche – ossia le questioni riguardanti la struttura della Chiesa e le nomine episcopali – sia l’apertura verso il governo. “Con questa Lettera – ha detto oggi - ho voluto manifestare sia il mio profondo affetto spirituale per tutti i cattolici in Cina sia una cordiale stima per il Popolo cinese. In essa ho richiamato i perenni principi della tradizione cattolica e del Concilio Vaticano II in campo ecclesiologico. Alla luce del ‘disegno originario’, che Cristo ha avuto della sua Chiesa, ho indicato alcuni orientamenti per affrontare e per risolvere, in spirito di comunione e di verità, le delicate e complesse problematiche della vita della Chiesa in Cina. Ho anche indicato la disponibilità della Santa Sede ad un sereno e costruttivo dialogo con le Autorità civili al fine di trovare una soluzione ai vari problemi, riguardanti la comunità cattolica. La Lettera è stata accolta con gioia e con gratitudine dai cattolici in Cina. Formulo l'auspicio che, con l'aiuto di Dio, essa possa produrre i frutti sperati”.

A proposito poi della lettera dei 138 leader religiosi musulmani, il Papa ha sostenuto che è stata scritta “per testimoniare il loro comune impegno nella promozione della pace nel mondo. Con gioia ho risposto esprimendo la mia convinta adesione a tali nobili intendimenti e sottolineando al tempo stesso l’urgenza di un concorde impegno per la tutela dei valori del rispetto reciproco, del dialogo e della collaborazione. Il riconoscimento condiviso dell’esistenza di un unico Dio, provvido Creatore e Giudice universale del comportamento di ciascuno, costituisce la premessa di un’azione comune in difesa dell’effettivo rispetto della dignità di ogni persona umana per l’edificazione di una società più giusta e solidale”.

Una solidarietà particolare, quella verso la natura, è stata poi dipinta da Benedetto XVI quando ha ricordato la visita alla Fazenda da Esperança, in Brasile, “in cui persone, cadute nella schiavitù della droga, ritrovano libertà e speranza. Arrivando lì, come prima cosa, - ha detto - ho percepito in modo nuovo la forza risanatrice della creazione di Dio. Montagne verdi circondano l’ampia vallata; indirizzano lo sguardo verso l’alto e, allo stesso tempo, danno un senso di protezione. Dal tabernacolo della chiesetta delle Carmelitane scaturisce una sorgente di acqua limpida che richiama la profezia di Ezechiele circa l’acqua che, scaturendo dal Tempio, disintossica la terra salata e fa crescere alberi che procurano la vita. Dobbiamo – ha proseguito - difendere la creazione non soltanto in vista delle nostre utilità, ma per se stessa – come messaggio del Creatore, come dono di bellezza, che è promessa e speranza. Sì, l’uomo ha bisogno della trascendenza. Solo Dio basta, ha detto Teresa d’Avila. Se Lui viene a mancare, allora l’uomo deve cercare di superare da sé i confini del mondo, di aprire davanti a sé lo spazio sconfinato per il quale è stato creato. Allora, la droga diventa per lui quasi una necessità. Ma ben presto scopre che questa è una sconfinatezza illusoria – una beffa, si potrebbe dire, che il diavolo fa all’uomo. Lì, nella Fazenda da Esperança, i confini del mondo vengono veramente superati, si apre lo sguardo verso Dio, verso l’ampiezza della nostra vita, e così avviene un risanamento”. Certo, in questo come negli altri aspetti della vita del mondo “non bisogna illudersi: i problemi che pone il secolarismo del nostro tempo e la pressione delle presunzioni ideologiche alle quali tende la coscienza secolaristica con la sua pretesa esclusiva alla razionalità definitiva, non sono piccoli. Noi lo sappiamo, e conosciamo la fatica della lotta che in questo tempo ci è imposta. Ma sappiamo anche che il Signore mantiene la sua promessa: ‘Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo’ (Mt 28,20)”.

(AsiaNews, 21 dicembre 2007)

 

 


 

L'informazione religiosa: come si banalizza una notizia

A fronte di una informazione che punta spesso alla spettacolarizzazione e banalizzazione del messaggio religioso, l'opinione pubblica è chiamata a “educarsi” per poter leggere in maniera consapevole e critica le notizie. Ad affermarlo è Fabrizio Assandri, autore di "Quando le parole sono rumore", un saggio che analizza in maniera tecnica la ricezione giornalistica del discorso di Benedetto XVI a Ratisbona attraverso un'indagine condotta su sette quotidiani scelti in rappresentanza della stampa italiana (Avvenire, La Stampa, Il Corriere della Sera, Il Secolo d'Italia, Il Giornale, Il Manifesto). Assandri mette in rilievo la tendenza dei media al sensazionalismo e alla semplificazione dell'informazione, attraverso omissioni che trascurano il cuore del messaggio da comunicare per dare risalto al valore conflitto o a contenuti più immediatamente espressivi.

Collaboratore del quotidiano Avvenire, Fabrizio Assandri scrive per il settimanale diocesano La Voce del Popolo e cura la rubrica “De Cupolone” per il mensile What's Up. Nel 2006 ha pubblicato, sempre presso la Secop edizioni, “Link@to a Dio”, una raccolta di lettere personali indirizzate a Giovanni Paolo II.

Quali sfide si trova ad affrontare la Chiesa di oggi nel relazionarsi con i media?

Assandri: Se i media sono davvero “il primo areopago dei tempi moderni”, come li definì Giovanni Paolo II nella Redemtoris Missio, la Chiesa non può esimersi dal parteciparvi come attore comunicativo compiuto.

Da un lato la Chiesa deve oggi fare i conti con le tendenze alla spettacolarizzazione e banalizzazione delle notizie operata dai media – pur con le eccezioni del caso. La domanda che ci si deve porre è questa: è meglio abbassare il messaggio evangelico a slogan da spot pubblicitario, rinunciando alla complessità, oppure correre il rischio di fraintendimenti e di alienarsi la comprensione di una fetta dell’opinione pubblica? È una domanda a cui è difficile dare risposte. E che però, a mio parere, ci è imposta sempre di più dalla realtà a cui assistiamo. Quasi ogni giorno le dichiarazioni delle gerarchie sui temi della vita e della famiglia ottengono titoloni sensazionalistici sui giornali; quel che manca in Italia è però una lettura critica (non in senso necessariamente negativo) e meno istituzionalizzata della notizia religiosa: da un lato i media spesso danno delle parole del Papa solo una lettura politica, mentre il senso profondo e religioso della notizia resta nascosto. Dall’altro il mondo del volontariato religioso e della fede quotidiana delle persone rimane nel sommerso.

Può farci degli esempi?

Assandri: Un primo esempio è il diverso modo di dare la notizia della beatificazione dei martiri spagnoli da parte della stampa italiana e di quella spagnola. I media spagnoli mettevano in luce la polemica sorta sull’interpretazione politica della cerimonia – legandola alle memorie del franchismo. Forse così ne hanno orientanto la lettura, facendo sembrare la cerimonia un atto solo politico. Però i media hanno avuto il merito di inserire la cronaca della cerimonia in un contesto, suscitando un dibattito pubblico in cui anche la Chiesa aveva voce in capitolo per esprimere le sue ragioni. In Italia, invece, il tg1 ha dato solo la notizia delle manifestazioni violente dei centri sociali contro la beatificazione, senza spiegare nulla della complessità del quadro in cui quelle manifestazioni erano inserite, negando così allo spettatore medio la comprensione dell’identità del fatto di cui stava dando la notizia. Ma questo tipo di giornalismo, che omette e non da strumenti di comprensione allo spettatore, è, a mio giudizio, controproducente per la Chiesa stessa, poichè essa rischia di trovarsi circondata da un consenso generale ma anche molto superficiale e passeggero. Il secondo esempio è invece la ricezione giornalistica del discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, che ho analizzato nel mio saggio, e che mette in luce come da un lato la spettacolarizzazione della notizia e dall’altro le letture politiche imposte dalla linea editoriale di ciascun giornale o televisione ne abbiano orientato o deformato la ricezione. L’estetica dell’apparenza – come afferma il giornalista Mimmo Candito – violenta infatti l’identità del messaggio, al punto che le forme della comunicazione rischiano di impedire la reale conoscenza di un fatto. Tra l’altro, questo non vale solo per un discorso apologetico: il discorso del Papa è stato ad esempio criticato dai teologi terzomondisti per l’enfasi data da Benedetto XVI al legame tra logos greco e fede cristiana. Però, concentrarsi, soprattutto a livello di titoli, solo su una citazione controversa, giocando sul fattore conflitto, semplificandola ed estremizzandola, ha fatto sì che sfuggisse l’identità più profonda del discorso del Papa e, di conseguenza, ha impoverito anche la voce delle possibili critiche.

Quale lezione possiamo trarre?

Assandri: Credo si possa dire che la ricezione data dai giornali al discorso del Papa a Ratisbona, seppure sia già passato più di un anno, è ancora paradigmatica del rapporto tra gli attori che compongono il triangolo dell’informazione religiosa. La Chiesa, da parte sua, non deve limitarsi ad accusare i media ma deve saper cogliere le sfide quotidiane che questi le pongono, mentre i mass media devono sempre più riflettere sulla loro importanza e responsabilità. Infine l’opinione pubblica può e deve essere educata (ed educarsi) sempre più ad attivare un processo di consapevolezza nel fruire l’informazione e a sviluppare una lettura plurale e critica delle notizie che riceve, decodificandole come delle possibili, ma non le sole, letture della realtà.

(Mirko Testa, Zenit, 18 dicembre 2007)

 

 


 

La crisi del matrimonio è anche crisi del celibato

José Pedro Manglano, saggista e sacerdote, afferma che “la storia ci insegna che nei periodi in cui è in crisi il matrimonio, lo è anche il celibato”. Di amore, celibato, matrimonio e libertà parla nel suo nuovo libro, “El amor y otras idioteces. Guía práctica para no perder a quien tú quieres” (“L'amore e altre idiozie. Guida pratica per non perdere chi ami”), appena pubblicato dall'editrice Planeta. In questa intervista, Manglano, i cui saggi trattano temi come il senso della vita, la felicità, la colpa o la libertà, parla dell'amore e del suo vero significato.

Un sacerdote che parla di amore e altre idiozie... è decisamente interessante.

Manglano: Trovo divertente che inizi da qui! Me lo chiedono tutti.

Scusi il topico, ma insisto: non è abituale.

Manglano: Effettivamente, si vede che è una cosa che richiama l'attenzione. Ma... perché è la prima domanda che le viene in mente? Forse quello che si sta chiedendo si potrebbe formulare in quest'altro modo: cosa può dire un celibe dell'amore? Come chi dà per scontato che chi opta per il celibato sia estraneo alla questione dell'amore. Mi sembra che questo fatto, apparentemente senza importanza, manifesti una situazione di fondo denunciata da Benedetto XVI ne “Il sale della terra”: la storia ci insegna che nei periodi in cui è in crisi il matrimonio, lo è anche il celibato.

Perché la crisi del matrimonio e quella del celibato sono collegate?

Manglano: Il celibato e il matrimonio, come proposti dalla Chiesa, sono le due forme sublimi per realizzare una vita innamorata. Ci sono altre forme di vita amorosa, sì, ma non altre forme sublimi.

Oggi viviamo una certa crisi del matrimonio, e anche una certa crisi del celibato. Non si capisce che il celibe è un amante e può conoscere l'amore. La sua vita, tuttavia, è esercizio amoroso all'Uomo Cristo e a tutti gli uomini e le donne, vicini o sconosciuti. Non è solo questo: il celibe cristiano ha un'esperienza del Dio che è Amore, e da lui riceve la saggezza. Si chieda altrimenti a San Giovanni della Croce, il cui cantico è un paradigma di qualsiasi rapporto amoroso.

Il suo libro, però, parla dell'amore dei fidanzati e degli sposi...

Manglano: Il libro tratta dell'amore di coppia, non del celibato, ma l'amore di coppia è amore, e la natura dell'amore, le sue tappe, le sue crisi e i suoi sentimenti... hanno molto in comune. Per evitare le astrazioni, parto in tutti i temi da racconti formidabili della letteratura contemporanea, per analizzare le idee soggiacenti alle varie idee sull'amore che usiamo nella nostra cultura.

Il matrimonio è un peso che ostacola il volo verso la felicità, come sostengono alcuni, o le ali per realizzare questo desiderio, come dice lei?

Manglano: Per chi intende il matrimonio come ufficializzazione di una relazione soggettiva per la quale io mi unisco a un altro, non c'è dubbio che sposarsi implicherà un peso. Il matrimonio, allora, limita le mie possibilità e non apporta nulla. Per chi però lo intende come la creazione di un vincolo che trasforma l'io, sposarsi presuppone un atto di libertà che costituisce un noi, un aiuto per realizzare il dono libero dell'io trasformato da questa unione.

Qual è allora il vero significato dell'amore?

Manglano: L'amore è opera della nostra libertà: non biologia, ma libertà. L'attrazione involontaria – “c'è chimica”, si dice – viene trasformata dalla libertà in unione volontaria. Amore significa unione libera originata da un'attrazione subita. Sì. L'amore è libertà, realizzazione della persona, superamento della solitudine.

Cristianamente amare è dare la vita per i nemici. E' una cosa realizzabile?

Manglano: Richiede una purificazione del cuore che non è facile. Cristo può chiedercelo perché lui ce lo concede. E' realizzabile solo per chi viene trasformato dall'azione dello Spirito. Questo atteggiamento ci viene dato e poi, solo in seguito, ci viene chiesto.

“Chi ti ama ti farà soffrire. Chi ti vuole male ti farà fluttuare”. L'amore è esigente per definizione?

Manglano: Forse la nostra cultura vede in modo semplicistico il matrimonio. Guarda al punto di partenza e a quello di arrivo, ma elimina facilmente dal suo campo visivo ogni passo che è necessario compiere per percorrere questo tragitto. Alcuni passi si compiono accompagnati da un'ombra piacevole, altri bagnati dal sudore, a volte ci sono le risate e altre volte gli affanni... Amare è realizzare un'unione formidabile che non è gratuita: si tratta del viaggio che porta dall'eros all'agape. L'amore però è esigente anche con l'altro. Non si tratta di far piangere per capriccio, ma perché lo esige la sua crescita. Non si tratta di creare occasioni difficili all'altro, ma di non evitare quelle che sorgono: affrontandole lo si aiuta. Se non gli piace stare con determinate persone, o se preferisce stare con me non rispettando il suo orario di lavoro, o se tende alla gelosia o alla possessività... sono situazioni in cui ha bisogno di me per essere capace di affrontarle; dargli la mia blanda compassione non lo rende migliore. Non vuole bene chi, anziché accompagnare l'altro mentre cammina, lo aiuta a vivere fluttuando sulla realtà, senza affrontare le cose.

Perché siamo passati dal credere nell'“amore eterno” alla pratica dell'“amore effimero”?

Manglano: A partire da Spinoza, la filosofia ha proposto un amore soggettivo: l'amore sarebbe una passione che risveglia la mia felicità in occasione della mia relazione con un'altra persona con cui c'è chimica, come diciamo in genere. L'amore verrebbe ad essere una sensazione che trovo in me. In questo caso, ciò che amo quando dico di amare non è niente di diverso da me stesso. Stando così le cose, l'amore durerà finché durerà questa sensazione: nel momento in cui questa scomparirà, o me la risveglierà un'altra persona, quel primo amore sarà morto, e così via. L'amore inteso in questo modo è necessariamente effimero. Altre filosofie, tuttavia, intendono l'amore come qualcosa di oggettivo: è il libero esercizio di amare un'altra persona, di unirmi a lei. Il “tu” non è un'occasione di sentirmi innamorato, ma il motivo per cui io esco da me per installarmi in un altro centro vitale che è la persona dell'amato. L'amore è referenziale: esco da me fino all'altro al quale mi dono. Allora sì che è possibile realizzare un amore eterno, che, d'altro canto, è quello che piacerebbe a tutti noi. Come ho sentito dire in più occasioni da coloro che hanno avuto varie esperienze matrimoniali, “l'ideale è che durasse per sempre, ma... non è facile: mi piacerebbe”. (Miriam Díez i Bosch, Zenit, 18 dicembre 2007 [Traduzione di Roberta Sciamplicotti])

 

 


 

Ora pagano per convincerci che gay è bello

Due milioni e mezzo di euro, quasi 5 miliardi di vecchie lire, da destinare a una campagna contro l’omofobia, per convincere chi «segue uno stile di vita religioso più ortodosso» della «normalità » dell’omosessualità. Li investirà dal 2008 al 2011 il governo olandese, che nei giorni scorsi ha annunciato il finanziamento. Dunque, chi segue uno stile di vita religiosamente «ortodosso» dovrà essere catechizzato e convinto che non c’è nulla di male o di riprovevole nel comportamento omosessuale.

Ronald Plasterk, dallo scorso febbraio ministro dell’Educazione, proveniente da una famiglia cattolica, presentando il progetto ha ammesso che gli omosessuali godono in Olanda degli stessi diritti di qualsiasi altro cittadino, ma ha spiegato che «dal punto di vista sociale l’accettazione dell’omosessualità non è così automatica soprattutto presso alcune minoranze etniche o presso persone che seguono stili di vita religiosamente ortodossi». Nel mirino del governo sono innanzitutto i giovani musulmani, nelle scuole, nelle palestre e nelle associazioni. Ma è evidente che anche qualche cattolico potrebbe rientrare nelle categorie «a rischio», come chiunque altro abbia nel suo subconscio qualche obiezione alle pubbliche manifestazioni di omosessualità. L’attivista gay Franc van Dalen, presidente nazionale dei gruppi gay olandesi (Federazione delle associazioni per l’integrazione dell’omosessualità in Olanda), ha ricordato che un recente sondaggio tra la popolazione del suo Paese ha dimostrato che il 48% dei cittadini rimane scioccato nel vedere due uomini che si baciano e che questa percentuale sale al 75 fra gli immigrati. L’Olanda è stato il primo Paese al mondo a istituire il matrimonio tra persone dello stesso sesso e a consentire a due partner gay di adottare un bambino. Il governo olandese, ha spiegato il ministro per l’Aiuto allo sviluppo olandese, Bert Koenders, «promuoverà al massimo l’uguaglianza dei diritti per i gay, e su ciò non si discute». Per questo sono state date istruzioni agli ambasciatori di aumentare le pressioni nei confronti di quelle nazioni che criminalizzano l’omosessualità.

Dalle dichiarazioni dei ministri olandesi, si comprende però chiaramente che l’obiettivo della campagna non sono i diritti dei gay, quanto il tentativo di convincere chi ha sull’omosessualità opinioni diverse – in base a credenze religiose – per «rieducarli». «Usare denaro pubblico per questo tipo di campagne – dichiara al Giornale Carlo Casini, parlamentare europeo, docente di diritti umani e di bioetica, presidente del Movimento per la vita italiano – mi sembra qualcosa che si avvicina al totalitarismo. Oggi si dibatte molto sulla possibilità che hanno i governi di influenzare gli stili di vita dei loro cittadini, ad esempio con campagne per una corretta alimentazione o contro il fumo. Io mi domando – continua Casini – se non vi sia da parte dei governi una responsabilità precisa nel promuovere campagne per il rispetto dei diritti umani, primo fra tutti quello alla vita, dal suo concepimento al suo fine naturale». «Nessuno vuole negare diritti agli omosessuali, che in quanto persone godono degli stessi diritti di tutti i cittadini. Ma i rapporti tra di loro, la loro compagnia, non è qualcosa che abbia un pubblico interesse. L’interesse pubblico, come sancito nella Dichiarazione dei diritti umani, è rappresentato dalla famiglia, nucleo fondamentale della società. I gay non possono pretendere che i loro privati legami affettivi diventino di pubblico interesse. Il caso olandese, va oltre. Oltre il Grande Fratello di orwelliana memoria: si pretende di colpire, di “rieducare” chi la pensa diversamente sull’omosessualità». (Andrea Tornielli, Il Giornale, 15 dicembre 2007)

 

 


 

Anche a Lourdes irrompe l'anticristo

È sorprendente ricevere una conferma tanto clamorosa e tempestiva da un'alta autorità come il cardinale Ivan Dias, Prefetto della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli e stretto collaboratore del Papa. Sabato scorso, su queste colonne, avevo segnalato un "dettaglio" allarmante contenuto nella recentissima enciclica pontificia "Spe salvi": la menzione dell'Anticristo, tramite una citazione di Immanuel Kant. È assai raro oggi, nel mondo cattolico, sentir parlare di questo terribile personaggio profetizzato nel Nuovo Testamento. Colpisce ancor più vederlo evocare, in relazione ai tempi presenti, in un documento solenne come un'enciclica e da un Papa così rigoroso, pacato e colto come Benedetto XVI. Nell'articolo di sabato avevo ricordato che già il 27 febbraio scorso, nel più stretto entourage papale, si era riflettuto con il Pontefice su quell'inquietante profezia, durante gli esercizi spirituali predicati dal cardinal Biffi che citò "Il racconto dell'Anticristo" di Vladimir Solovev. Infine avevo rammentato che lo stesso Ratzinger, da cardinale, in un memorabile discorso tenuto a New York e a Roma, aveva citato quelle pagine.

Parole clamorose

Ma le parole pronunciate dal cardinale Dias sempre sabato scorso, poi pubblicate dall'Osservatore romano (fatto significativo), sono le più clamorose. Il prelato stava facendo la sua omelia nel santuario di Lourdes «per inaugurare, come inviato del Papa, l'Anno celebrativo del 150° anniversario delle apparizioni». Si tratta delle apparizioni della Madonna a Bernadette Soubirous, che iniziarono l'11 febbraio 1858. Nella solenne circostanza l'inviato del Papa ha portato «il saluto molto cordiale di Sua Santità» e poi ha detto: «La Madonna è scesa dal Cielo come una madre molto preoccupata per i suoi figli... È apparsa alla Grotta di Massabielle che all'epoca era una palude dove pascolavano i maiali ed è precisamente là che ha voluto far sorgere un santuario, per indicare che la grazia e la misericordia di Dio superano la miserabile palude dei peccati umani. Nel luogo vicino alle apparizioni, la Vergine ha fatto sgorgare una sorgente di acqua abbondante e pura, che i pellegrini bevono e portano nel mondo intero significando il desiderio della nostra tenera Madre di far arrivare il suo amore e la salvezza di suo Figlio fino all'estremità della terra. Infine, da questa Grotta benedetta la Vergine Maria ha lanciato una chiamata pressante a tutti per pregare e fare penitenza e così ottenere la conversione dei poveri peccatori». Il cardinale ha inquadrato queste apparizioni nel «contesto della lotta permanente, e senza esclusione di colpi, tra le forze del bene e le forze del male». Una lotta che sembra arrivata, nella nostra generazione, all'epilogo finale, preparato dalla «lunga catena di apparizioni della Madonna» nella modernità, iniziate «nel 1830, a Rue du Bac, a Parigi, dove è stata annunciata l'entrata decisiva della Vergine Maria nel cuore delle ostilità tra lei e il demonio, come è descritto nei libri della Genesi e dell'Apocalisse». È un vero affresco di teologia della storia quello tracciato dal cardinale che richiama anche Fatima e - ritengo - Medjugorje: «Dopo le apparizioni di Lourdes, la Madonna non ha smesso di manifestare nel mondo intero le sue vive preoccupazioni materne per la sorte dell'umanità nelle sue diverse apparizioni. Dovunque, ha chiesto preghiere e penitenza per la conversione dei peccatori, perché prevedeva la rovina spirituale di certi Paesi, le sofferenze che il Santo Padre avrebbe subìto, l'indebolimento generale della fede cristiana, le difficoltà della Chiesa, la venuta dell'Anticristo e i suoi tentativi per sostituire Dio nella vita degli uomini: tentativi che, malgrado i loro successi splendenti, sono destinati tuttavia all'insuccesso». È una frase breve, ma folgorante questa del prelato: la Madonna è apparsa così frequentemente in questo tempo «perché prevedeva» una grande apostasia dalla fede, le persecuzioni alla Chiesa, la sofferenza del Papa e - testualmente - «la venuta dell'Anticristo». È una frase dirompente che si rifà, evidentemente, alle parole pronunciate dalla Vergine in qualcuna delle apparizioni citate. Così l'inviato del Papa, parlando del nostro tempo, evoca di nuovo e pubblicamente l'Anticristo a pochi giorni dall'uscita dell'enciclica. Nel Nuovo Testamento questa figura non si colloca necessariamente alla fine dei tempi. Gesù stesso preannuncia l'arrivo di «falsi cristi e falsi profeti» capaci di «indurre in errore, se possibile, anche gli eletti» e profetizza «una grande tribolazione», mai vista così terribile nella storia umana (Mt 24, 24). San Paolo spiega che si verificherà l'«apostasia» (2 Tes. 2, 3), ovvero l'abbandono di Dio e della Chiesa, quindi esploderà «la manifestazione dell'uomo iniquo», «il figlio della perdizione», colui che «nella potenza di Satana... si contrappone a Dio» fino a sedersi «nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio» (2 Tes. 2, 3-4).

Il dominio del male

È un dominio quasi totale del Male sulla terra che viene qui preconizzato. Non si sa come, quando e per quanto. Uno scenario di orrore e di malvagità agghiacciante. I teologi discutono se sia un preciso individuo che viene preannunciato o un sistema di potenze. Ma colpisce in queste settimane sentirlo evocare con tanta insistenza accorata dalla Santa Sede, evidentemente anche in base a "informazioni" (che Oltretevere si conoscono e si valutano) provenienti da "fonti" speciali, quali appunto i messaggi delle apparizioni mariane, di mistici e di rivelazioni private. Questi pronunciamenti pubblici mostrano con quanto allarme in Vaticano si guardi agli eventi mondiali. Del resto, drammatico è anche il messaggio pontificio per la Giornata della pace del 1° gennaio prossimo, dove si mette in guardia dalle devastazioni morali (delle famiglie e della vita) e materiali (per esempio con gli immensi rischi della corsa alle armi nucleari). Il quadro è cupissimo. Ma la Santa Sede non è un'entità politica e non valuta la situazione con uno sguardo solo terreno. Infatti vi è la certezza di poter contare su un aiuto "superiore". Il cardinale Dias nella clamorosa omelia di sabato spiegava: «Qui, a Lourdes, come dovunque nel mondo, la Vergine Maria sta tessendo un'immensa rete nei suoi figli e figlie spirituali per lanciare una forte offensiva contro le forze del Maligno nel mondo intero, per chiuderlo e preparare così la vittoria finale del suo divin Figlio, Gesù Cristo. La Vergine Maria oggi ci invita ancora una volta a fare parte della sua legione di combattimento contro le forze del male».

Il monito di Wojtyla

Il prelato ripete - se non fosse chiaro - che «la lotta tra Dio e il suo nemico è sempre rabbiosa, ancora più oggi che al tempo di Bernadette, 150 anni fa» e «questa battaglia fa delle innumerevoli vittime». Quindi rivela delle parole - forse inedite - pronunciate dal cardinale Karol Wojtyla il 9 novembre 1976, pochi mesi prima di essere eletto Papa: «Ci troviamo oggi di fronte al più grande combattimento che l'umanità abbia mai visto. Non penso che la comunità cristiana l'abbia compreso totalmente. Siamo oggi davanti alla lotta finale tra la Chiesa e le Anti-Chiesa, tra il Vangelo e gli Anti-Vangelo». Parole clamorose. Un'ulteriore conferma. Sembra evidente che il Vicario di Cristo e i suoi più stretti collaboratori conoscano qualcosa di più e desiderino preparare i cristiani a quella "lotta finale". I loro ripetuti appelli a rispondere alla chiamata della Madonna sono già sufficienti per riflettere seriamente su ciò che sta accadendo e che accadrà alla Chiesa e al mondo. Un futuro prossimo che noi non conosciamo, ma che, spiega Dias, sarà vittorioso grazie a Maria. Come lei stessa annunciò a Rue du Bac: «Il momento verrà, il pericolo sarà grande, tutto sembrerà perduto. Allora io sarò con voi». (Antonio Socci, Libero, 14 dicembre 2007

 

 


 

Il «vangelo di Giuda»: pieno di falsi

Ricordate il vangelo di Giuda? Quel testo copto che la (massonica) National Geographic Society ha preteso di aver scoperto, che ha diffuso con spese enormi ed enorme grancassa pubblicitaria, ripresa dai «grandi media» come la verità ultima e nascosta su Gesù? In questo testo, ci dicevano, Giuda appare nella sua vera luce: non è il traditore ma il vero salvatore, avendo compiuto la volontà di Cristo fino in fondo.

Adesso uno studioso serio, April D. DeConick, docente di Studi Biblici alla Rice University, ha esaminato a fondo il testo e ci ha scritto un volume per smentire la grancassa mediatica. «The Thirteenth Apostle: What the Gospel of Judas Really Says». Rivelando false traduzioni ed altri trucchi usati dai banditori della «nuova verità». Lo studioso ha scritto anche un fondo per il New York Times ((April DeConick, «Gospel's Truth», 1 dicembre 2007).

Eccolo: «Con molta pubblicità, l'anno scorso, il National Geographic ha annunciato che era stato trovato un testo perduto del terzo secolo, il Vangelo di Giuda Iscariota. Fatto impressionante: Giuda non aveva tradito Gesù. Anzi Gesù aveva chiesto a Giuda, il suo più fido e amato discepolo, di consegnarlo per farlo uccidere. Il premio per Giuda: l'ascensione al cielo e la sua esaltazione al disopra degli altri discepoli.

Una grande storia. Peccato che, dopo aver ri-tradotto la trascrizione del testo copto presentata dalla National Geographic Society, io ho trovato che il significato reale del testo è molto diverso».

«La traduzione del National Geographic sosteneva l'interpretazione provocatoria di Giuda come eroe; una lettura più attenta chiarisce che Giuda non solo non è un eroe, ma (per il testo) un demone. La traduzione della Società e dei suoi esperti si distacca in più punti dal senso e dai metodi comunemente accettati nel nostro campo di studi.

Per esempio, la trascrizione della National Society, nel punto in cui Giuda è chiamato un 'daimon', traduce la parola con 'spirito'. Di fatto, il termine universalmente accettato per 'spirito' è 'pneuma'; nella letteratura gnostica, 'daimon' è sempre usato nel senso di 'demonio'.

Altro punto: Giuda non è preservato 'per' la santa generazione, come dicono i traduttori del National Geographic, ma separato 'da' essa. Egli non riceve i misteri del regno perché 'è possibile per lui entrarci'.

Li riceve perché Gesù sostiene che egli non potrà entrare, e Gesù non vuole che Giuda lo tradisca per ignoranza: vuole che sia informato, in modo che il demonico Giuda soffra tutto quanto merita».

«Ma il più grosso errore che ho trovato è stato forse una alterazione del testo originale copto.

Secondo la tradizione del National Geographic, l'ascensione di Giuda alla santa generazione sarebbe stata maledetta. Invece è chiaro dalla trascrizione che gli esperti del National hanno alterato l'originale copto, eliminando una particella negativa dalla frase originale. Devo dire che la Società ha riconosciuto questo errore, ma veramente molto tardi per cambiare la sbagliata concezione del pubblico».

«Cosa dice dunque in realtà il vangelo di Giuda?

Dice che Giuda è un demonio specifico, chiamato 'il Tredicesimo'.

In certi testi gnostici, questo è il nome per il re dei demoni, una entità nota come 'laldabaoth' che vive nel tredicesimo piano sopra la terra. Giuda è l'alter ego umano di questo demone, il suo agente infiltrato nel mondo. Questi gnostici identificavano 'laldabaoth' con l'ebraico Yahweh, che accusavano d'essere una divinità gelosa e vendicativa, avversa al Dio supremo che Gesù era venuto sulla terra a rivelare.

Chi ha scritto il vangelo di Giuda era un aspro critico del cristianesimo dominante e dei suoi riti. Siccome Giuda è un demone che lavora per 'laldabaoth', così sostiene l'autore, quando Giuda sacrifica Gesù, lo sacrifica ai demoni, non al Dio supremo. Con ciò, vuol prendersi gioco della fede cristiana nel valore salvifico della morte di Gesù e dell'efficacia della Eucarestia».

«Com'è possibile che siano stati fatti errori così gravi [dal National Geographic]? Sono stati proprio errori, o qualcosa di consapevolmente deliberato?

Questa è la domanda che si pone, e non ho una risposta soddisfacente. D'accordo, la Società aveva un compito difficile, restaurare un vecchio vangelo che stava da secoli in una cassa ridotto in briciole. Era stato trafugato da una tomba egizia negli anni '70 e ha languito per decenni nel mercato antiquario clandestino, e ha persino passato del tempo nel freezer di qualcuno. Per cui è davvero incredibile che la Società ne abbia recuperato anche solo una parte, anzi è riuscita a ricomporlo all'85%.

Detto questo, il problema grosso è che la Società voleva un'esclusiva. Per questo ha voluto che i suoi traduttori esperti firmassero un impegno al segreto, e a non discutere il testo con altri competenti prima della pubblicazione. Il miglior lavoro scientifico si riesce a fare quando, di un nuovo manoscritto, vengono pubblicate foto di ogni pagina in grandezza naturale 'prima' di fornire una traduzione, in modo che i competenti del ramo, in tutto il mondo, possano scambiarsi le informazioni mentre lavorano indipendentemente sul testo».

«Un'altra difficoltà è che quando il National Geographic ha pubblicato la trascrizione, il fac-simile del manoscritto originale che ha reso pubblico era ridotto in dimensioni del 56%, ciò che lo rende inutilizzabile per un lavoro scientifico. Senza copie in grandezza naturale, siamo come il cieco che conduce altri ciechi. La situazione mi ricorda molto il blocco che tenne lontano gli studiosi dai Rotoli del Mar Morto decenni or sono. Quando i manoscritti sono accaparrati dai pochi, ne nascono errori e un 'monopolio dell'interpretazione' che è molto difficile rovesciare, anche quando l'interpretazione è dimostrata falsa».

«Per evitare questo tipo di situazioni la Society of Biblical Literature ha varato nel 1991 una risoluzione per cui, se l'accesso ad un manoscritto è riservato a pochi a causa delle condizioni del manoscritto stesso, allora è obbligatorio diffondere prima di tutto una copia fotografica di esso. E' una vergogna che il National Geographic, e il suo gruppo di esperti, non abbiano obbedito a questa molto sensata disposizione.

Mi domando perché tanti esperti del mestiere e tanti scrittori abbiano tratto ispirazione dalla versione del vangelo di Giuda fatta dal National Geographic. Magari ciò deriva da un comprensibile desiderio di cambiare la relazione tra ebrei e cristiani. Giuda è un personaggio spaventoso: per i cristiani, è colui che aveva avuto tutto il bene e ha tradito Dio per una manciata di monete. Per gli ebrei, egli è il personaggio la cui vicenda è stata usata dai cristiani per perseguitarli nei secoli. Sono d'accordo sul fatto che dobbiamo continuare verso la riconciliazione di questo antico scisma; ma fare di Giuda un eroe non mi pare la soluzione giusta».

Così termina DeConick, lo studioso di copto e di vangeli gnostici.

Possiamo fare una scommessa: benché la sua autorevole asserzione sia apparsa sull'autorevolissimo New York Times, essa non sarà ripresa da nessuno dei «grandi» media, specialmente non da quelli italioti.

(Maurizio Blondet, Effedieffe, 02/12/2007)

 

 


 

Una lettura manageriale della Regola? Con san Benedetto si fanno meglio affari eterni

Leggendo il titolo del libro - Kit Dollard, Anthony Marett-Crosby, Timothy Wright, Fare affari con san Benedetto, a cura di Paolo Del Debbio, Milano, Libri Scheiwiller, 2007 - mi aspettavo si parlasse di "affari soprannaturali" da fare grazie alla Regola di san Benedetto, mi aspettavo considerazioni sulla influenza del monachesimo benedettino sulla grandezza della nostra civiltà che ha radici cristiane. Non mi aspettavo un manuale "all'americana" di principi organizzativi e manageriali (soprattutto sulla gestione delle risorse umane) attinti dalla Regola benedettina. Nel retro copertina c'è scritto "La Regola sarà in grado di fornirci consigli saggi e utili per almeno altri millecinquecento anni, poiché riguarda le relazioni tra le persone e questo, in fondo, è esattamente ciò che gli affari e Benedetto hanno in comune".

Temo proprio di disilludere autori e lettori, ma non ci credo proprio. Perché ciò possa esser possibile sarebbe indispensabile che chi applica la Regola e fa affari avesse la stessa chiara visione di fini e mezzi e desse lo stesso senso alla Regola, cosa che negli affari proprio non è, e ve lo dice uno che non fa il teologo o il filosofo, bensì uno che lavora da più di vent'anni nella finanza e prima ha fatto per molti anni il consulente di strategia ed organizzazione, proprio con la maggior società internazionale americana (McKinsey).

Peraltro lo stesso Paolo Del Debbio nella sua introduzione (la parte migliore del libro) ne indirizza gli intenti e da un senso agli scritti successivi degli autori:  "La speranza è che (questo libro) incoraggi i cristiani a rendersi più visibili nel mondo del lavoro, (...) che possa spronare a ricercare nella vita lavorativa una maggior interazione tra lavoro e spirito, tra corpo e anima".

In realtà il libro è una pregevole e intelligente forzatura dell'interpretazione della Regola per spiegare principi manageriali. Non è la prima volta che intellettuali si cimentano a ricercare nella ricchezza della storia del cristianesimo principi pratici validi oggi, per esempio a spiegare Gesù come manager o i principi manageriali della Bibbia. Sarebbe certo originale e interessante capire se Gesù applicava principi organizzativi nel far lavorare gli apostoli, sarebbe stimolante analizzare la strategia a lungo termine implicita nel Discorso della Montagna. Sarebbe sorprendentemente simpatico concludere, leggendo la Genesi, che la capacità di un manager debba esser la "competenza" (per poter creare con successo un uomo) oppure che il principio manageriale di "delega" è stato stabilito da Dio creatore (sempre nella Genesi) quando crea l'uomo e lo pone nel giardino dell'Eden "perché lo coltivasse e custodisse".

Tutto ciò è simpaticamente americano. Quando lavoravo in McKinsey facevamo spesso questi esercizi intellettuali analizzando i fattori di successo strategici e organizzativi che avevano creato organizzazioni importanti nella storia, dall'impero romano ai gesuiti, fino ai monasteri benedettini (appunto), estrapolandone regole. Venivano fuori così le considerazioni sulle famose "sette S" delle regole del successo delle organizzazioni su cui spremevamo le meningi (stile, struttura, strategia, sistemi, staff, e così via).

Ma il lavoro benedettino è stato ben altra cosa. La sua organizzazione funzionava perché il lavoro era un mezzo subordinato ai fini ultimi, fini che erano comuni a tutti i monaci, perciò i mezzi (il lavoro organizzato) avevano successo e la pratica operosità nel lavoro, nello studio, nella ricerca tecnica, faceva sì che nei cosiddetti "secoli bui" i monasteri benedettini diventassero delle specie di Silicon Valley orientate a Dio a beneficio degli uomini. È vero che lì si posero le premesse dell'organizzazione, dello sviluppo della tecnologia, del benessere e persino dello stesso capitalismo, ma non solo. Nella Regola di san Benedetto troviamo la grandezza della santificazione del lavoro stesso imitando Cristo, che lavorò, dando una dignità soprannaturale al lavoro stesso che diventa perciò, in sé, valorizzabile e santificabile, valorizzando e santificando chi lavora e attraverso il lavoro, il prossimo.

Ma la Regola non è un manuale organizzativo, né può diventare uno strumento di riferimento se manca questo principio:  è il senso (soprannaturale) che si da al lavoro che può esaltare i principi organizzativi della Regola, altrimenti è buon senso attingibile in qualsiasi storia di organizzazione di successo (appunto l'impero romano, per esempio) ma applicabile solo a questa condizione.

La lezione magistrale traibile da questo libro è che anche i principi manageriali possono esser considerati cristiani nelle loro origini e il libro, anche se non è il suo scopo, aiuta a ricordarlo diventando così esegetico e concorrendo a esaltare la grandezza del cristianesimo e la ricchezza incommensurabile della fede cristiana che quando è operativa diventa esempio di cose ben fatte. (Ettore Gotti Tedeschi, ©L'Osservatore Romano, 22 dicembre 2007)

 

 


 

Teologia e scienza a confronto sul peccato originale.

Come conciliare l'affermazione della libertà individuale, tema caro a tutta la modernità e alla sensibilità contemporanea, con la presenza di un'ingombrante colpa e pena originarie che la condizionano pesantemente? Non è forse contraddittorio affermare la trasmissione di un'eredità che mina alla radice la possibilità della libertà finita di essere se stessa? E che dire di fronte all'assalto poderoso che la scienza moderna ha sferrato nei confronti dell'attendibilità di questo fondamentale snodo della rivelazione cristiana?

Nella consapevolezza di queste emergenze culturali e pastorali la Facoltà Teologica dell'Emilia Romagna a Bologna ha preso come tema del suo convegno annuale il peccato originale, osservato nel punto di convergenza tra teologia e scienza.

La prospettiva entro cui il convegno è stato pensato manifesta la preoccupazione di evitare da ambo i lati, scientifico e teologico, quel "suicidio del pensiero" costituito dalle letture di impianto fondamentalista, come è stato ricordato nelle riflessioni di Don Erio Castellucci, rettore della facoltà emiliana.

Nella sua relazione di apertura, il cardinale Georges Cottier ha lucidamente posto a tema due coordinate essenziali per l'inquadramento della riflessione teologico scientifica sul peccato originale. La prima richiama apofaticamente il limite contro cui inevitabilmente ci si imbatte ogni qual volta si cerchi di penetrare il mistero dell'origine del male e della sua trasmissione. Opportunamente è stato richiamato il Catechismo della Chiesa Cattolica lì dove nota che "la trasmissione del peccato originale è un mistero che non possiamo comprendere a pieno" (n. 404). La seconda si riferisce alla libertà umana, snodo decisivo da ripensare sia in sede filosofico teologica sia scientifica, perché il mistero indagato possa ricevere nuova luce.

Dall'ascolto e dall'interazione tra scienza e teologia - nel rispetto reciproco - possono nascere nuove e fruttuose piste di interpretazione del dato rivelato. L'operazione non è però semplice, come ha ricordato Valentino Maraldi dello studio teologico di Bressanone, analizzando alcune recenti proposte teologiche come quella del gesuita di Innsbruck Raymund Schwager.

In questo cammino di confronto resta ineludibile l'ascolto attento dei risultati cui è giunta sinora la scienza in relazione allo sviluppo della vita intelligente sul pianeta. È quanto è stato richiamato da monsignor Fiorenzo Facchini dell'Università di Bologna, che, rielaborando i dati scientifici alla luce delle acquisizioni della moderna esegesi, ha sottolineato come l'affermazione dell'universalità della colpa e della sua trasmissione siano indipendenti dalla derivazione della specie umana da un'unica coppia.

Il dato biblico è stato analizzato in modo particolare negli interventi del domenicano padre Bernardo Gianluca Boschi e di don Maurizio Marcheselli. Il primo, in particolare, ha messo in luce come nell'Antico e nel Nuovo Testamento sia costante la preoccupazione degli agiografi di evitare di ridurre la presenza scandalosa del male a una generica teoria del "male del mondo".

La rilettura del dato biblico ha generato anche un nuovo atteggiamento ermeneutico nei confronti dei grandi dottori che hanno dedicato molte delle loro energie alla delucidazione del mistero del peccato originale. È questo il caso di sant'Agostino preso in esame dal domenicano padre Guido Bendinelli o di san Tommaso d'Aquino riletto da don Alberto Strumia dell'Università di Bari e da padre Antonio Olmi dell'ordine dei predicatori. Strumia ha messo in luce, all'interno dell'impianto tommasiano, quelle aperture semantiche e concettuali che ne consentono una reinterpretazione compatibile con quelle visioni del mondo impensabili nella sua epoca. È questo il caso dell'avverbio originaliter, con cui viene indicata la modalità di trasmissione del peccato originale, che consente di superare l'ancoramento alla problematica teoria della generazione fatta propria da Tommaso.

Tale opera di ripensamento è particolarmente urgente in sede filosofica, come ha ricordato monsignor Lino Goriup. È dalla filosofia infatti che si può riattingere quell'armamentario concettuale su cui scienza e teologia possono trovare un comune terreno di dialogo. Particolarmente fecondo è, a suo giudizio, il ripensamento della categoria filosofica della "possibilità". Da qui può infatti partire una rinnovata elaborazione teoretica dell'"evento Gesù di Nazaret" inteso come "inizio" e "destino" della condizione umana e del suo mistero.

(Marco Tibaldi, ©L'Osservatore Romano,  22 dicembre 2007)

 

 


 

Un presepe anche nel Natale dei musulmani

Quest’anno ho deciso di rinnovare il Natale allestendo in casa mia, io unico musulmano laico della famiglia, un presepe e un albero più belli e più grandi per condividere con i miei cari la gioia e la meditazione sul mistero della Natività. Così come ho deciso di presenziare il 26 dicembre al «Presepe vivente dei bambini», allestito al Castello di Giulia Farnese a Carbognano, un comune di 2.070 anime in provincia di Viterbo, per testimoniare la mia partecipazione ai sentimenti di fratellanza e amore tra le persone di buona volontà che il Santo Natale ispira.

Ed è proprio perché la Vergine Maria e suo figlio Gesù, venerati anche dall’islam, incarnano il miracolo della vita, che il Natale dovrebbe diventare una festa comune per onorare lo stesso Dio ed elevare il valore della sacralità della vita a fondamento della nostra umanità. Uso il condizionale avendo in mente la schiera dei laicisti nostrani che vorrebbero trasformare l’Italia in un ennesimo laboratorio del multiculturalismo, eliminando i simboli religiosi e umani che s’ispirano al cristianesimo, relativizzando e uniformando le fedi, i valori, le culture e persino la realtà manifesta della nostra diversità. Ma penso anche ai quei musulmani che sono ideologicamente avversi alla condivisione con il cristianesimo e l’ebraismo dei valori assoluti, universali e trascendentali che rappresentano l’essenza della nostra umanità, perché immaginano di essere i detentori dell’unica e indiscutibile Verità a cui tutta l’umanità dovrebbe sottomettersi.

E pensare che mentre in Italia, Gran Bretagna e Canada c’è chi, perfino a livello di autorità politiche e giuridiche, ha assunto dei provvedimenti anti-natalizi per non «urtare la suscettibilità dei musulmani», in 25 Paesi a maggioranza musulmana il Natale cristiano (25 dicembre) o il Natale ortodosso (7 gennaio) è considerato festa nazionale. «Consiglio alle insegnanti italiane che hanno deciso di non allestire i presepi e di vietare agli studenti le canzoni di Natale, di andare a vedere come in Marocco le scuole rimangano chiuse e la gente sia partecipe della festività cristiana», dice Souad Sbai, presidente della Confederazione delle Associazioni della Comunità marocchina in Italia. «Anche per noi musulmani la figura di Gesù e quella di Maria sono importantissime e più volte ricordate dal Corano stesso.

Quindi non vedo perché i bimbi musulmani non possano cantarle. I nostri bambini in Italia hanno sempre festeggiato il Natale e tutte le festività. Condanniamo questa strumentalizzazione della presenza islamica in Italia e del nostro rapporto con la società che si registra in questi giorni da parte di chi vuole mettere i nostri figli in prima linea in una battaglia laicista che non ci riguarda e ci danneggia ». Ali Younis, medico anestesista dell’ospedale di Pescara, italiano di origine libanese, ha chiesto alla maestra della scuola elementare frequentata dalla sua figliola di illustrare ai bambini la verità del rapporto tra il Natale e l’islam: «Ho spiegato loro che Gesù è un profeta molto rispettato dall’islam e che Maria è la donna più venerata.

Chi dunque non crede nella nascita miracolosa di Gesù, non è musulmano». «A casa mia abbiamo allestito il presepe e l’albero di Natale», ci dice Ali che è sposato con un’italiana cattolica, «e a mezzanotte vado in chiesa ad accompagnare mia moglie e i miei figli per festeggiare insieme la nascita di un profeta dell’islam». Perfino Dacia Valent, portavoce della Iadl (Islamic Anti-Defamation League), ha invitato per il 25 dicembre «tutte le moschee d’Italia a festeggiare la nascita del Messia e così, nel contempo, consacrare il ruolo di Maria (Mariam) come la donna più importante del Corano». «Puntuale, come ogni anno, si ripresenta la polemica stupida e sterile sul Natale », si legge in un documento della Iadl; «Gesù è il Profeta amatissimoda Dio. Consentire ai detrattori della nostra religione di continuare nella mistificazione di una nostra presunta avversione alla figura di Gesù non solo è stupido, ma è addirittura suicida».

Come non dare ragione ad Avvenire quando scrive che «il sospetto, sempre più concreto, è che il cosiddetto rispetto delle religioni sia solo un pretesto per mascherare fini bassamente ideologici»? I nemici del presepe, dei canti natalizi o comunque della festa della nascita di Gesù, abbiano il coraggio di dire che sono nemici di questa civiltà occidentale e cristiana, sappiano che di fatto sono alleati degli integralisti e degli estremisti islamici,mala smettano di tirare in ballo i musulmani impegnati a condividere un’identità italiana e una comune civiltà dell’uomo. (Magdi Allam, Corriere della Sera, 18 dicembre 2006)

 

 

 


 

16 dicembre 2007

 

Ruini: il Papa porta a Cristo l’uomo di oggi

Il Gesù di Nazaret «non è soltanto un tentativo di mostrare l’identità del Cristo della fede con il Gesù della storia». Il libro di Joseph Ratzinger- Benedetto XVI, infatti, «è anche, e non meno, un grande approfondimento del significato teologico di Gesù, o più semplicemente del suo significato per la nostra fede, secondo due direttrici: quella della valorizzazione delle ricchezze spirituali della sua figura e del suo messaggio, alla luce del Nuovo Testamento letto insieme all’Antico e di tutta la grande tradizione cristiana, e quella dell’attualizzazione del messaggio di Gesù in rapporto alla presente situazione storica, con i suoi interrogativi e le sue istanze».

Così ieri il cardinale vicario di Roma, Camillo Ruini, ha proposto al clero della diocesi la propria riflessione su Gesù di Nazaret: realtà storica e potenza salvifica. Un approccio teologico al libro di Benedetto XVI. Parlando nell’aula Magna della Pontificia Università Lateranense, il cardinale ha sottolineato in particolare come Ratzinger valorizzi, nel percorso che propone alla scoperta di che cosa Gesù sia per noi, «le ricchezze spirituali della figura e del messaggio di Gesù e la loro attualizzazione in rapporto alla presente situazione storica».

«È bene cominciare – ha detto in proposito – dalla 'grande domanda' che ricorre più volte nel libro: che cosa Gesù ha portato veramente nel mondo, se non ha portato la pace, il benessere per tutti, un mondo migliore? La risposta è molto semplice: Dio, Gesù 'ha portato Dio', quel Dio che le genti avevano intravisto sotto molteplici ombre... In Gesù, attraverso la Chiesa famiglia dei suoi discepoli, questo Dio fa conoscere il suo volto ad ogni uomo, e proprio così ci indica la strada che come uomini dobbiamo prendere in questo mondo».

La seconda attualizzazione riguarda l’amore del prossimo. Un amore già radicato nell’Antico Testamento, certo, ma «con la parabola del buon samaritano egli ci mostra però che non si tratta di stabilire chi sia o non sia il mio prossimo: si tratta invece di me stesso, io devo diventare prossimo, così l’altro conta per me come me stesso». «L’attualità della parabola – ha osservato Ruini – è ovvia. Se l’applichiamo alle dimensioni della società globalizzata, le popolazioni derubate e saccheggiate dell’Africa – e non solo dell’Africa – ci riguardano da vicino e ci chiamano in causa da un duplice punto di vista: perché con la nostra vicenda storica, con il nostro stile di vita, abbiamo contribuito e tuttora contribuiamo a spogliarle e perché, invece di dare loro Dio, il Dio vicino a noi in Gesù Cristo, abbiamo portato loro il cinismo di un mondo senza Dio».

Una terza attualizzazione del messaggio di Gesù prende infine spunto dalla critica di quanti sostengono che nessun ordine sociale potrebbe essere fondato sul Discorso della montagna. Tuttavia «la mancanza di concreti ordinamenti sociali nell’annuncio di Gesù racchiude un processo che riguarda la storia universale, e che ha avuto luogo soltanto in ambito culturale cristiano: gli ordinamenti politici e sociali concreti vengono liberati dall’immediata sacralità – da una legislazione basata direttamente sul diritto divino – e affidati alla libertà dell’uomo che, attraverso Gesù, è radicata nella volontà del Padre e partendo da lui impara a discernere il giusto e il bene». «Questo fondamentale processo – ha spiegato il cardinale – è stato compreso in tutta la sua portata solo nell’età moderna, ma poi è stato subito interpretato unilateralmente e falsato. La libertà dell’uomo, infatti, è stata interamente sottratta allo sguardo di Dio e alla comunione con Gesù. La libertà per l’universalità, e quindi la giusta laicità dello Stato, si è trasformata in qualcosa di assolutamente profano, in 'laicismo', per il quale l’oblio di Dio e l’esclusivo orientamento verso il successo sembrano diventati elementi costitutivi. Ma così – ha concluso – la ragione dell’uomo perde il suo punto di riferimento, corre sempre il pericolo dell’offuscamento e della cecità». (Salvatore Mazza, Avvenire, 7 dicembre 2007)

 

 


 

Sant’Ambrogio: Discorso del Card. Tettamanzi alla città

Cara Milano, è il tempo del coraggio, della lungimiranza. Della speranza. «Il coraggio di rovesciare la scala delle priorità: la città tutta ne trarrà vantaggio». La lungimiranza dell’«uomo del cuore», che abbatte il sipario delle apparenze per riportare alla luce «la città degli invisibili» e farne il cuore dell’azione politica. La speranza – e qui si fa esplicito il riferimento alla Spe salvi di Benedetto XVI – che rompe l’abbraccio mortale dell’individualismo per alimentare l’impegno verso il bene comune.

«Una speranza per tutti!» scandisce il cardinale Dionigi Tettamanzi nel Discorso alla città pronunciato ieri sera nella Basilica di Sant’Ambrogio. E sono parole di analisi, denuncia, proposta, quelle che l’arcivescovo di Milano dona alla comunità civile e a quella cristiana nella vigilia della festa patronale. Parole di riflessione ma anche di preghiera – «primo essenziale luogo di apprendimento della speranza », rammenta Tettamanzi attingendo ancora alla recente enciclica – per aiutare una città immersa nell’insicurezza e nella precarietà, troppe volte forte con i deboli e debole con i forti, a ritrovare anima e forza per vivere secondo amore e giustizia.

Proprio così – L’uomo del cuore: anima e forza della città. Per una rinnovata responsabilità sociale – s’intitola il Discorso alla città, del quale Tettamanzi ha offerto ieri un’ampia sintesi. Nella prima parte vi si spiega che cosa intendere per uomo del cuore, spaziando da Ambrogio alla Gaudium et spes. L’uomo del cuore è «l’uomo interiore, libero e sapiente » che «ha occhi capaci di guardare oltre la materialità» ma nel contempo «sa guardare la storia e sa stare dentro la storia». Di lui la città ha bisogno «per superare la deriva dell’individualismo e dell’etica individualistica in atto nella società», perché «non c’è giustizia, non c’è amore fuori da una prospettiva che concorra al bene comune». Una prospettiva che interroga i credenti, «come ci è stato recentemente ricordato nella 45ª Settimana sociale dei cattolici italiani».

«La responsabilità sociale rischia di diventare una categoria perduta», denuncia Tettamanzi, mentre si affievolisce «il senso della legalità», come dimostrano numerose circostanze: «Non pagare le tasse, farsene un vanto, frodare nel commercio e nella produzione manifatturiera, guidare ubriachi o drogati, non rispettare gli elementari diritti dei lavoratori»... L’uomo del cuore è invece un uomo che rispetta la «sacralità degli obblighi sociali» con uno sguardo aperto al mondo, che pratica le «virtù morali e civili» vivendo «con gli altri e per gli altri». Per il cristiano, Gesù è «il modello sublime» ma anche «la sorgente personale, viva e inesauribile di ogni virtù».

Oggi è urgente «educare una coscienza limpida e forte della personale responsabilità sociale». Così sarà possibile prendersi cura di una città colma di ferite: «la solitudine spaventosa del nulla e della mancanza di futuro»; la fragilità delle amicizie e dell’amore; la mancanza della casa, di un lavoro dignitoso e meno precario; i debiti che assillano le famiglie; le povertà palesi e nascoste; la «clandestinità» del lavoro o della vita stessa di tanti immigrati, dei quali «riconoscere la dignità umana». Salari adeguati, politiche all’altezza; ma serve anche una «decisa reazione culturale» di fronte alle sirene del consumismo.

A tutti è chiesto di «impegnarsi perché si assicurino le condizioni favorevoli per vivere da cittadini responsabili». «Le istituzioni – aggiunge Tettamanzi – hanno il compito di garantire la legalità, di far rispettare le leggi. E insieme hanno anche il compito di creare le condizioni perché le leggi possano essere rispettate» e tanti uomini e donne «non siano risucchiati dall’illegalità». Di fronte al «problema della sicurezza personale – afferma inoltre – non bastano né i ripetuti proclami né alcune operazioni di forte impatto emotivo. È dove ci sono precarietà e miseria che si annidano i germi dell’illegalità e della violenza: bisogna operare per vincere la precarietà e la miseria». A questo punto Tettamanzi ringrazia quanti – nella Chiesa ma non solo – hanno sfidato «difficoltà e incomprensioni per creare nuove condizioni di convivenza e di legalità con i Rom»; chiede un’assunzione di responsabilità anche a imprenditori e operatori dei mass media. E poi apre due altri intensi capitoli: sul «senso della giustizia» e sul farsi prossimo, vitali in una città in cui le appartenenze si fanno labili e le identità evanescenti.

In un tempo in cui Milano «sta profondamente cambiando volto, in cui si stanno ricostruendo interi quartieri, in cui siamo protesi verso l’ambito riconoscimento dell’Expo 2015 – incalza Tettamanzi – avvertiamo tutti forte la responsabilità di interrogarci seriamente se la nuova città favorirà la nascita di un’umanità nuova, se i cittadini in essa si sentiranno a casa, se insieme la città ritroverà un’identità accogliente e aperta al nuovo e, nel contempo, rassicurante perché conserva ciò che di meglio c’è nel suo passato». Perciò serve «una politica alta». E la capacità di «ripartire da chi è più debole e insicuro», dalla «città degli invisibili, ciascuno dei quali è persona». Come ben sa ogni uomo del cuore. (Lorenzo Rosoli, Avvenire, 7 dicembre 2007)

 

 


 

Care teologhe cattoliche, attente al «gender»

Fra novembre e dicembre si sono svolti, presso l’Istituto superiore di Scienze religiose nella sede della Facoltà teologica dell’Italia centrale a Firenze, tre incontri dal titolo «Educare inGenere». L’iniziativa è partita dal Coordinamento delle teologhe italiane, che riunisce studiose e docenti e promuove gli «studi di genere» in ambito teologico, biblico, patristico e storico, in prospettiva ecumenica.

A proposito di questa iniziativa, certo meritevole di attenzione, pone tuttavia un problema – nel titolo e nel programma – l’utilizzo senza riserve critiche del termine «genere» da parte di organizzazioni culturali cattoliche. Sembra quasi che chi organizza questi incontri non sia consapevole che questo termine – ora molto in voga, diffusissimo e promosso anche a livello di istituzioni internazionali – rappresenti un concetto discusso e criticato proprio in ambito cattolico, ma non soltanto. Non si tratta, infatti, di un semplice anglicismo per indicare un’impostazione metodologica che tiene conto della differenza sessuale, ma di un termine carico di valore culturale e politico da usare con grande cautela. L’inventore del concetto di gender – da sostituire a quello di differenza sessuale – è stato John William Money, della Johns Hopkins University, che nel 1972 sostenne che la differenza sessuale non si fonda su una realtà biologica, ma è determinata solamente dal tipo di educazione ricevuto. La sua teoria – che poi si è rivelata scientificamente errata – è stata accolta con entusiasmo dal femminismo radicale. L’idea che i confini fra uomini e donne non siano naturali, ma costruiti da una cultura «patriarcale» sembrava offrire, infatti, la possibilità di creare l’uguaglianza fra donne e uomini attraverso una semplice decostruzione delle categorie culturali. L’idea di una umanità di uguali, la cui identità sessuale poteva venire scelta, e non determinata dalla natura, non è rimasta una ipotesi astratta ma – come scrive Judith Butler, la più importante teorica del gender – «darà vita a un’agenda politica per il futuro» che porterà «ai mutamenti nella struttura della parentela, ai dibattiti sul matrimonio gay, alle condizioni per l’adozione e l’accesso alla tecnologia riproduttiva». E lo si è visto alla Conferenza mondiale organizzata dall’Onu a Pechino e nelle decisioni in tema di politica familiare del governo spagnolo.

Introducendo questo concetto «neutro» si rischia però di distruggere un complesso sistema simbolico e culturale: non è solo questione di esaudire desideri o stabilire facili uguaglianze, ma di riconoscere e istituire le strutture fondanti dell’essere umano. E di stabilirle sulla falsità ideologica, smentita dalla natura. Cosa può succedere di una società in cui le persone non incontrano più la differenza sessuale, cioè non vivono più quell’esperienza che – scrive Sylviane Agacinski – «mette ciascuno di fronte a una finitezza che gli impedisce di prendersi, lui solo, per l’incarnazione dell’'uomo' e che lo obbliga a coesistere con l’altro»? (Lucetta Scaraffia, Avvenire, 12 dicembre 2007)

 

 


 

Vangelo di Giuda, smascherati gli errori di traduzione

Non cessa la discussione scientifica sul Vangelo gnostico di Giuda, pubblicato nell’aprile del 2006 per la National Geographic Society, e subito oggetto privilegiato della fantareligione, perennemente protesa – sulla scorta del successo di Dan Brown – a confezionare pastoni storicamente traballanti, per non dire ridicoli, e a presentarli con i crismi dell’autorevolezza, magari appigliandosi a elementi accessori serviti da oscuri pseudostudiosi in cerca di notorietà.

In questo clima da New Age da supermercato una simile sorte non poteva risparmiare Il Vangelo di Giuda, opera gnostica fortemente inficiata nelle proprie strutture esegetiche e nella propria creatività narrativa da teorie di filosofia neoellenistica, in cerca di un punto di incontro con una religione oramai ecumenica e dotata di un Canone già ben definito (siamo nel III secolo).

Finalmente, a più di un anno della pubblicazione di uno scritto tanto discusso, sul New York Times uno studio rigoroso di April DeConick, docente di Studi biblici alla Rice University – studio intitolato Il tredicesimo Apostolo: ciò che realmente dice il Vangelo di Giuda – smonta in modo convincente le tesi fondanti dell’editio princeps, troppo affrettatamente impugnate contro l’autorevolezza dei Vangeli canonici e in polemica con la Chiesa ufficiale; tesi subito sposate da chi invece ritiene il cristianesimo primitivo una nebulosa magmatica e indifferenziata di esegeti e padri della Chiesa per lo più in contrasto tra loro.

DeConick fa rilevare un’impressionante serie di svarioni nella traduzione e nell’interpretazione del testo in lingua copta, commessi (quanto scientemente?) nel corso di un lavoro «troppo veloce per ben ponderare le insidie di un’opera così complessa». Si fa rilevare come, a fronte dell’interpretazione da parte del National Geographic di Giuda come eroe, una lettura più attenta evidenzi che non solo l’Iscariota non è ritenuto un eroe, ma che è un daimon: «E la traduzione di daimon, secondo il pensiero della setta gnostica dei Cainiti, non può che essere demone e non spirito, solitamente espresso anche in copto con il termine greco pneuma», osserva DeConick. Inoltre il testo dice espressamente che «Giuda è separato dalla Santa Generazione» e non, come traducono gli esperti del National Geographic, «preservato per essa».

Poi, da Gesù Giuda riceve sì i Misteri del Cielo, ma non perché è per lui possibile entrarci, semplicemente perché il Messia vuole che l’apostolo-traditore sia informato e che, se decide di tradirlo, lo faccia scientemente: «In realtà questa affermazione sostiene in modo evidente il libero arbitrio, concetto-cardine del pensiero cristiano ortodosso», fa notare DeConick. E ancora: il National Geographic ha omesso una negazione, contenuta in una frase sull’ascensione di Giuda, che capovolge il senso originario: l’ascensione di Giuda alla Santa Generazione sarebbe stata maledetta. La casa editrice ha ammesso l’errore ma in ritardo e non con un’evidenza tale da far cambiare nell’opinione pubblica un concetto ormai radicato. (Aristide Malnati, Avvenire, 8 dicembre 2007)

 

 


 

Doninelli: «L’io non si attenua, ma si realizza nella sua pienezza»

La nuova lettera enciclica Spe salvi di Papa Benedetto XVI è così eloquente, così persuasiva e perciò avvincente, così bella di una bellezza che riluce dal suo interno, da dentro le parole e le frasi, ma che sta prima di tutte le parole, che il solo esercizio degno dovrebbe essere quello di leggerla e rileggerla.

C’è in essa – se posso permettermi – un gusto del vivere dove l’intelligenza e la forza argomentativa attingono a un’evidenza che ha già cominciato a mostrarsi nell’esperienza umana, qui e ora, e che attesta nella realtà quello che il genio di Platone riuscì a intuire, quando mise in bocca a Socrate morente (ma quella era solo letteratura) le famose parole: «Ricorda, Critone: dobbiamo un gallo a Esculapio ». Come si potrebbe, del resto, parlare della speranza se il suo contenuto non avesse già cominciato a manifestarsi?

Saremmo dei pazzi, o al più dei visionari.

La lettera del Papa contiene diversi giudizi e un’acuta analisi circa le trasformazioni che l’idea di speranza ha subìto, specialmente nell’epoca moderna. Che cos’è la speranza? Un amico sacerdote me l’ha riassunta così: la speranza è il sentimento che domina l’animo del centurione evangelico dal momento in cui ha lasciato Gesù (che gli aveva garantito la guarigione del servo malato) fino al momento in cui, entrato nel suo alloggio, non constata l’avvenuta guarigione. Mentre se ne andava solo per la strada, quel centurione era forse dubbioso? Diceva tra sé: «Chissà se sarà vero»? No. Noi lo vediamo camminare pieno di gioiosa fiducia, certo che Gesù ha compiuto ciò che aveva detto. Quel centurione aveva tutte le ragioni per credere che il miracolo era stato compiuto. E perché aveva queste ragioni? Perché incontrando Cristo aveva incontrato sé stesso fino in fondo, fino a quel fondo in cui 'io' non è più 'io', ma un 'tu', una compagnia. Ecco perché quel centurione, mentre se ne andava solo, in realtà sapeva di non essere solo. Sapeva che non sarebbe stato mai più solo. Ecco perché era fiducioso nella guarigione del servo: perché il primo miracolo, il più grande, Gesù l’aveva già fatto a lui.

Tutta la Spe salvi è piena di questa stessa fiducia, e la comunica a noi con semplicità e profondità. Benedetto XVI conosce molto bene la modernità, che ha ridotto l’idea di salvezza a qualcosa di individuale, ossia di intimistico, di privato. A qualcosa che non opera nella realtà. Ma noi ci salveremo insieme. In questa affermazione non c’è nessun comunitarismo, nessuna idea collettivista. C’è, invece, il senso del legame tra l’uomo e Dio. Ciò che l’uomo, nei secoli, ha rappresentato attraverso immagini, in realtà è un grido del cuore che non ha immagini.

È un balbettio, un 'gemito inesprimibile', con il quale noi esprimiamo il desiderio di vivere eternamente, ma non secondo l’immagine di vita eterna che possiamo costruirci da soli. È qualcos’altro, qualcosa di cui possiamo dire solo che è altro, altro da tutto. Questo altro, che è Dio stesso, si è fatto conoscere, è diventato un uomo registrato all’anagrafe, cresciuto a Nazareth e vissuto negli ultimi tre anni della sua vita tra Cafarnao e Gerusalemme. Lui ha reso più limpida la natura del nostro grido – che è, appunto, nostro, come nostro è il Padre: 'nostro' perché attiene alla verità ultima di ciascun uomo.

Individualismo e intimismo nascono da una spersonalizzazione di cui l’uomo è stato fatto oggetto nell’età moderna. Per capire il noi della speranza (con gli esempi enormi che la storia ci dà, dai martiri alle rinunce di tanti santi, come Francesco d’Assisi) non dobbiamo pensare a un’attenuazione dell’io, ma alla sua pienezza: è nella pienezza dell’io che si rivela più apertamente la sua dipendenza. Nell’idea di una salvezza comune non c’è, dunque, alcun comunitarismo: c’è la certezza semplice del centurione, che cammina, nella sera, in una terra straniera, ma felice perché sa di non essere mai più solo, e sa che questo è vero per tutti, per sempre. (Luca Doninelli, Avvenire, 8 dicembre 2007)

 

 


 

Il coraggio di Papa Benedetto, che ha smascherato il male

Quello che Ratzinger non perdona all'Onu e al club sovranazionale dei paladini della purezza e della scienza è il peccato contro lo Spirito, il più grave. Negare non solo la verità, ma la possibilità stessa che ce ne sia una…  Per questo ho scritto a voi.

Caro direttore, Vorrei parlare con te e i tuoi lettori di una persona che ci sta molto a cuore. Lo faccio su Tempi, perché so che qui mi capirete di più. Ho paura che provino presto a eliminarlo. Non penso soltanto moralmente, ma proprio fisicamente. Nessuno come lui aveva mai osato tanto. Non si è messo solo contro i cattivi, ma anche contro i capi dei "buoni". Quest'uomo si chiama Joseph Ratzinger. Non scrivo "il Papa" o "Benedetto XVI". Sia chiaro: lo riconosco per tale, dico grazie a Dio che ce lo ha dato e scaglierei fulmini e anatemi su quanti ce lo vogliono togliere. Però qui invito a vederlo spogliato dalla sua veste bianca, dalla sua autorità di pontefice e dalle solennità vaticane. Oggi egli è inerme, abbandonato da tutti, stanno contando tutte le sue ossa. Egli è davvero l'"alter Christus", il povero di cui parla il Vangelo e profetizzava Isaia, l'uomo post-moderno che è stato guarito dalla lebbra e torna festante da Gesù, come un mendicante contento, a ringraziarlo, e mette tutta la sua fede in Lui. Conosce Cristo, gli è amico, nulla si può desiderare di più, per questo rischia. Conosce l'umanità di Cristo, la sua pietà per il popolo, lo ha visto piangere per la donna di Nain e per la folla in riva al lago senza pastore, per Gerusalemme, per Lazzaro, e poi ridere ai bambini e a Zaccheo. Joseph Ratzinger si comporta come il pescatore di Galilea: il Papa è un uomo, non un simbolo, Pietro era un semplice uomo. Allo stesso modo che Dio non è un Concetto sopra le nubi ma un Uomo ferito nel cui costato un tale incredulo ha infilato la mano. Ratzinger vede la realtà avendo negli occhi lo stesso sguardo che ha sentito e sente amoroso su di sé. Egli ripete argomentando e pungendo due parole su Cristo incarnazione di Dio: amore e speranza. Dopo di che vede il nemico di questo amore, di questa speranza e lo indica e gli leva la maschera. Certo quel nemico lavora dentro ciascuno di noi, fa leva su quella debolezza dovuta al pec-ca-to-o-ri-gi-na-le (con voi di Tempi posso parlare senza troppi giri di parole). Coincide con l'apparenza della forza: è l'orgoglio, è la presunzione di salvarsi da soli. Lo si fa per non disperarsi, ma è la faccia proterva della disperazione: sono due sorelle la superbia e la disperazione. Queste due essenze mortifere hanno oggi un'incarnazione impensabile secondo la profezia di Solov'ev nell'Anticristo - nel potere più buono e dolce, rispettoso e umano che ci sia. Esso ha stabilito il suo trono su una specie di blocco di marmo alto un chilometro, un parallelepipedo immacolato i cui lati e le cui linee d'oro si chiamano "diritti dell'uomo". Pretende di salvare gli uomini eliminando Dio, posto fuori dalla ragione e perciò reso insignificante; allo stesso modo ama adornarsi del nome di Cristo, trastullandosi magari con il suo nome, ma pretende di isolarlo nelle sfere private o come sottosezione nazarena della Croce o Mezzaluna o Stella di Davide rossa, tanto è uguale, conta lei, conta l'Onu. L'Onu con tutta la schiera di massime associazioni sovrannazionali e sovrumane come Amnesty International e la congrega di difensori della purezza della terra e della scienza.

Così Joseph Ratzinger ha accusato l'Onu e gli organismi sovrastatali, dove ormai si concentra il massimo potere sulle coscienze, di peccato contro lo Spirito, il più grave e irredimibile. Negare non la verità, non solo essa, ma la possibilità stessa che ci sia, sostituendola con le tavole delle convenzioni universali e progressiste, è l'offesa più grande, priva Dio e gli uomini del dramma della libertà di rivelarsi e di accogliere o rifiutare la Rivelazione, perché essa - secondo questo Anticristo - semplicemente non può essere.

Nessuno mai è stato così grande e coraggioso come Ratzinger. Lui che non ha l'ampiezza dei gesti, la magnifica teatralità del suo amatissimo predecessore, ha osato andare più in là. Non se l'è presa con la mafia, non ha attaccato gli spacciatori di droga o i terroristi. Lo ha già fatto, non si dimentica di questi delitti e delle loro centrali infami, ovvio. Ma c'è un pericolo maggiore: il monopolio delle coscienze in nome delle Cause buone. Nei suoi interventi di fine novembre, e nella risposta tra l'irato e l'impacciato dell'Onu e di Amnesty, oltre che dei loro scherani italiani, ho visto il ripetersi del gesto di Davide che affronta Golia, ma stavolta Golia si è riattaccato la testa. Davide vinse, fu re. Adesso è più dura. In Ratzinger si è vista l'umiltà di Giovanni Battista davanti a Erode. Non poteva tacere la verità, non esiste che la si taccia. Non è possibile che in nome dell'equilibrio del potere la menzogna abbia la corona sulla testa. Erode tagliò allora la testa a Giovanni Battista, non si dice di nessuna parola di ribellione: lui doveva diminuire perché qualcun altro crescesse.

Non c'era nulla di tracotante nel Ratzinger di queste dichiarazioni. La sua voce è gentile, la logica candida e mite. Ma le sue parole, senza urla, entrano negli interstizi delle corazze di questa cultura assassina che ci domina. E la scardinano. Chi indossa questa armatura non sopporta, capisce che si squaglia. Allora reagisce. Il Papa ha riaffermato quello che sta dicendo da tempo. «La dittatura del relativismo» ha preso possesso di ogni stanza di comando, università, giornali, tivù, Stati, sopra-Stati. È l'idea per cui l'unica verità ammessa e assoluta è che non c'è verità. Nessuno ne deve avere l'ardire, neanche Cristo. Condizione perché chi si dice cristiano sia sopportato e non sia annoverato tra i fondamentalisti è che costui si limiti a proclamare verità private, buone per chi si vuole iscrivere al suo club. L'unica vera religione universale dev'essere quella dei Diritti umani. Sarebbe bello. Peccato siano però selezionati secondo l'ideologia e il comodo di chi ha elaborato la filosofia alternativa al Mistero cristiano. Anzi sua nemica giurata. Tanto da volerlo morto, azzerato.

Ratzinger non si è limitato a condannare il relativismo etico. Ha indicato i vertici dove si annida nascostamente. E lo ha criticato non in nome di un'altra etica, ma di una verità sperimentabile nella storia, umiliata e vilipesa, ma risorta. Il nome lo sapete. E non oso più ripeterlo. Non ne sono degno. Ma è Lui. Lui è fantastico, e questo Ratzinger è meraviglioso che sia Papa. E sia vestito di bianco, e non dica queste cose perché ricopre un ruolo, o perché sia ritenuto "autorità morale". Lo fa semplicemente perché è un uomo, è nato dove è nato, ha gli anni che ha: e crede, crede lietamente e senza paura. Anche se io ho paura per lui. E invito tutti a vigilare, a essere le sue scolte di Assisi, di Roma, di Milano, di Quarto Oggiaro, dovunque ci sia accesa la lampada rossa del Sacramento e un uomo si raduni con un altro in nome Suo.

Nei giorni scorsi ho incontrato il cardinale Giacomo Biffi. Era sereno come sempre. Mi ha spiegato che differenza c'era tra don Luigi Giussani e tutti gli altri che pur credevano e amavano le stesse cose nel seminario di Venegono (tra cui lui, Biffi medesimo). «Don Giussani non sopportava che gli altri uomini non conoscessero chi è davvero Gesù Cristo, verità della loro vita e della storia. Noi stavamo in seminario. Lui saliva su un treno e non poteva non parlarne ai ragazzi negli scompartimenti. Tornava e diceva: Cristo è sconosciuto, non possiamo star seduti. Ribolliva». Così ribolle oggi Ratzinger, con il suo sorriso candido. Ha aggiunto Biffi: «Mai, mai a mia memoria c'è stato un accanimento così protervo contro Cristo, la Chiesa e il Papa. Non bisogna avere paura. Cristo è un Avvenimento, nessuno può estirparlo. Ma questo attacco è tremendo».(Farina Renato, Tempi 49 del 06 dicembre 2007)

 

 


 

La «tendenza sessuale» entra nel ddl

Resta non risolto il nodo provocato dall’inserimento di un reato di opinione riferito alla tendenza sessuale all’interno del disegno di legge di conversione del decreto sulla sicurezza. La proposta partita dalla sinistra radicale è stata recepita nel maxiemendamento, su cui il governo ha imposto la fiducia, in una versione mutata, che non ha eliminato le obiezioni di Paola Binetti, che ha votato no al maxiemendamento. Ma ha poi espresso un sì al voto finale sul decreto. Anche gli altri Teodem sembravano in un primo momento conservare le loro perplessità sulla norma, ma poi hanno votato a favore del maxiemendamento. La Binetti ha spiegato il suo «no» all’emendamento con un voto di coscienza: perché si tratta di «una norma inaccettabile». Giulio Andreotti ha votato «no» all’emendamento, e si è astenuto sul voto finale.

L’ex presidente del Senato Marcello Pera ha parlato di una norma introdotta «solo ad uno scopo: condannare oggi l’omofobia per preparare la strada domani al matrimonio omosessuale». Un emendamento introdotto «dal governo alla maniera di un ladro notturno», ma «del tutto estraneo alla materia del decreto» e che «introduce nel nostro ordinamento istituti contrari alla Costituzione». La nuova versione non parla di gender o di orientamento sessuale ma, ciò che è molto simile, di «tendenza sessuale», punendone la discriminazione sulla base di un riferimento all’articolo 13 del trattato di Amsterdam. «Il governo – commenta il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione – tenta di creare una polizia delle idee ed una nuova inquisizione contro coloro che ritengono che l’omosessualità possa essere un disordine morale». Con il risultato di poter condannare fino a 3 anni qualunque parroco «che legga e commenti ciò che, per esempio, dice San Paolo sulla omosessualità». Peraltro con l’inserimento nel ddl di conversione del decreto sulla sicurezza di un testo senza alcuna omogeneità.

Il voto di fiducia, a detta dell’ex ministro, è «uno schiaffo e un ricatto a tanti parlamentari della maggioranza che in coscienza non si sentono di accettare quella visione dell’uomo». «È una norma in bianco – concorda il vicecapogruppo dell’Udc, Maurizio Eufemi – non ha la cornice costituzionale adeguata. In base al citato trattato è il Consiglio dei ministri della Ue che deve decidere e all’unanimità eventuali generici 'provvedimenti' contro la discriminazione, nella norma varata dal governo invece si istituiscono norme di carattere penale nazionale». «Una porcheria costituzionale», sintetizza il capogruppo Francesco D’Onofrio, intervenendo per dichiarazione di voto.

E per An, Alfredo Mantovano mette in chiaro che la 'tendenza sessuale' «non costituisce una qualità paragonabile alla razza, all’origine etnica, ecc». «Rispetto alla non discriminazione – ribadisce il senatore – diversamente da queste, la tendenza omosessuale è un disordine oggettivo». Vi sono ambiti, prosegue l’esponente del partito di Fini, «nei quali non è ingiusta discriminazione tener conto della tendenza sessuale: per esempio, nella collocazione di bambini per adozione o affido, nell’assunzione di insegnanti o allenatori di atletica, e nel servizio militare». (Pier Luigi Fornari, Avvenire 7 dicembre 2007)

 

 


 

Perché il Papa parla delle “più grandi crudeltà e violazioni della giustizia”…

L’enciclica del Papa sulla speranza e sulle malvagità dell’ateismo, è destinata sicuramente a fare rumore. Eppure, senza bisogno di un Papa, l’avrebbe potuta scrivere, almeno in alcune sue parti, qualsiasi storico onesto e scrupoloso. Perché il concetto di fondo, e cioè la nascita delle più grandi tragedie della storia dall’ateismo è un dato di fatto difficilmente smentibile. L’ateismo di cui parla il Papa, non è certo l’ateismo “tragico”, come lo avrebbe definito Augusto Del Noce, proprio ad esempio di tanti uomini dell’Ottocento, da Baudelaire a Verlaine, passando per Huysmans, Oscar Wilde, Giovanni Pascoli, Eugenio Montale, Ungaretti eccetera. Questo “ateismo”, ancora esistente, come è ovvio, è in realtà la ricerca di un senso, la volontà di “capire” e di penetrare nelle profondità della vita, senza riuscirci, o forse, meglio, senza riuscirci interamente. Nasce da domande fondamentali, impossibili da evadere, che potevano magari rimanere senza risposta, ma che non cessavano comunque di “torturare” il cuore, come dimostrano le crisi religiose di tutti questi personaggi, alcuni dei quali approdati poi a una fede forte e convinta.

Questi grandi autori che ho citato rappresentano la crisi delle certezze religiose di un tempo, ma non la sostituzione di esse con una ideologia, atea nell’apparenza, perché negatrice di Dio, ma religiosa nei modi e nelle manifestazioni. L’ateismo di cui parla il Papa e di cui lo storico dovrebbe analizzare i risultati, come ha fatto ad esempio recentemente Michael Burleigh nel suo “In nome di Dio” (Rizzoli), è l’ateismo assoluto che nega Dio e che cerca di organizzare il mondo senza di lui, costruendo, come possibile, già qui il paradiso sulla terra. E’ l’ateismo, per intenderci, del comunismo e del nazismo e di tutte le ideologie atee nate a partire dal Settecento, cioè dalla crisi della fede. L’ateismo, insomma, che assume connotati tali da diventare una vera e propria religione civile, secolare, con i suoi dogmi e la sua ortodossia, una religione di salvezza, terrena e non soprannaturale. Da questo sistema di pensiero nascono i più grandi dittatori della storia: Lenin, Stalin, Hitler, Mussolini, le cui radici sono tutte nell’ateismo socialista da lui rivendicato per moltissimi anni, Pol Pot, Mao, Ceausescu, Hoxha, Tito, Milosevic…

E’ innegabile: il Novecento, anzitutto, è il secolo dell’ateismo assoluto, ed è, non a caso, il secolo degli stermini di massa, delle guerre mondiali, e delle più grandi catastrofi umane della storia.
L’ateismo così come si viene a configurare tra Ottocento e Novecento è, a ben vedere, una forma di religiosità immanente, che ha generato uno a uno tutti gli ingredienti delle dittature totalitarie: il razzismo biologico (religione della razza), il nazionalismo (religione della patria), il social-darwinismo, l’eugenetica, e il social-comunismo. Prendete questi ingredienti – accomunati tutti dalla negazione più o meno esplicita di un Dio trascendente, dell’uomo come sua creatura, dotata di un’anima immortale, e del peccato originale come limite dell’uomo – mescolateli e avrete le ideologie di morte del secolo appena concluso. Tutte incredibilmente simili. Cambiano solamente i dosaggi: un po’ meno socialismo e un po’ più razzismo ed eugenetica nel nazionalsocialismo, analoghe dosi di nazionalismo e un po’ meno eugenetica, nel comunismo, ovunque la politica e lo stato al di sopra di tutto, al posto di Dio. Sempre, a fondamento, un’idea, la negazione della Caduta originaria e la mondanizzazione della Redenzione: l’uomo può fare senza Dio, per costruire un mondo razzialmente puro, economicamente giusto, eugeneticamente sano, socialmente equilibrato… un mondo perfetto, divino, utopico, paradisiaco.

Si vede bene, insomma, che di una fede si tratta: una fede tanto più intransigente e totalitaria quanto più concentrata sul qui e ora, e cioè esigente nell’immediato. Non c’è spazio per il perdono, dinanzi all’ingiustizia; né per la rassegnazione e la sopportazione, in quanto questi valori religiosi sottintendono una giustizia superiore, divina: il regno della giustizia è di questo mondo, e il potere si assume il compito di realizzarla, interamente. Così la gramigna non verrà separata dal buon grano, come nella parabola evangelica, alla fine dei tempi, come in ogni concezione di una giustizia trascendente, ma subito, appena possibile, dal dittatore di turno.

L’uomo, per fare un altro riferimento a un dogma religioso, non solo cattolico, non è macchiato dal peccato originale, che giustifica l’esistenza dell’imperfezione, dell’ingiustizia, e quindi anche della necessità della misericordia, sulla terra, ma è chiamato alla perfezione assoluta nell’aldiquà, e può raggiungerla, a patto che l’ideologia incaricata di farlo venga realizzata politicamente, economicamente, socialmente, a qualsiasi costo. Se il paradiso è a portata di mano, infatti, non là, ma qua, sarebbe delittuoso non realizzarlo. Se il compimento del desiderio dell’uomo di Bene e di Giustizia è attuabile solo e soltanto, in toto, in questa vita, è da pazzi non perseguirlo con ogni mezzo.

L’uomo, le masse ideologizzate e secolarizzate del Novecento chiedono dunque alla politica, al partito, allo stato, al dittatore, ciò che chiedevano, un tempo, a Dio, anzi di più: tutto, ma subito.

La creazione del mondo perfetto, dell’“uomo nuovo”, per le ideologie, dunque, urge, incalza, preme: necessita al più presto l’eliminazione, tramite ghigliottine, gulag, lager e polizie segrete, Ovra, Gestapo, Ceka e Kgb, di coloro che ostano, che impediscono, che non comprendono, che complottano, che conducono la “controrivoluzione”, che, secondo l’articolo 58 del Codice penale sovietico, riedizione della “legge dei sospetti” di Danton, sono solo sospettati di farlo…: in una parola di quanti meritano l’inferno, anch’esso, come il paradiso, trasferito paradossalmente nell’aldiquà. E’ per questo, per fare un esempio, che la guerra – o la violenza, che è lo stesso – sempre considerata un male, per quanto talora inevitabile (guerra di difesa), diviene un bene in se stessa: il vento che spazza lo stagno, di Hegel, la guerra che porrà fine alle guerre, per alcuni interventisti italiani della Prima guerra, “la sola igiene del mondo” per i futuristi, una esigenza di natura, per i socialdarwinisti, uno splendido cozzare di popoli, per i nazionalisti, la fine del passato oscuro e l’inizio di una nuova era, per tutti i rivoluzionari, da Mussolini a Mao.

Sempre per lo stesso motivo, ogni ideologia si afferma come un “mondo nuovo”, un “ordine nuovo”, un’era diversa, che data la sua origine non dall’evento salvifico della nascita di Cristo, ma, come avviene dalla Rivoluzione francese in poi, passando per il fascismo e il nazismo, dall’ascesa al potere, essa sì salvifica, dell’ideologia ateistica di turno. Al culmine del delirio, sotto l’ateissimo regime comunista di Pol Pot, causa di due milioni di morti su sette milioni di abitanti, in poco più di tre anni (1975- 1979), si arriverà a ordinare per legge non solo il rogo dei libri del passato, ma financo delle fotografie dei privati, affinché fosse cancellato anche il ricordo fotografico di come era il mondo prima dell’avvento del regime comunista dell’Angkar.
In questo senso, evidentemente, la religiosità ateistica, profondamente secolare, temporale, non ha nulla a che vedere con quella autentica, che non è essenzialmente azione ma contemplazione; non manipolazione ma rispetto; non insofferenza e distruzione dei limiti ma loro riconoscimento e accettazione; non trasformazione della società, tramite una alchimistica tecnica politica, ma tramite la conversione dei cuori; non tensione alla eliminazione del male e del peccato, in generale, ma soluzione di un particolare male storico, o individuale. Ma come la religiosità trascendente è totale, nel senso che orienta tutto l’uomo, la sua anima, le sue azioni, a Dio, rimettendo ogni cosa terrena al suo posto, dalla ricchezza, al potere, al dolore, dando a ognuna il suo peso, assolutamente relativo, così la religiosità immanente è tentativamente totalitaria: avendo negato a priori l’essenza dell’uomo, l’anima, e Dio, identifica tutto l’esistente in ciò che è materiale e terreno e quindi coerentemente ritiene come soluzione di tutto la sola politica, che tutto controlla: la politica totalitaria dei regimi totalitari. Ha scritto giustamente Eric Voegelin: “Tutti i movimenti gnostici (tra cui anche comunismo e nazismo, ndr) mirano a recidere i legami dell’essere con la sua origine, cioè con l’essere divino e trascendente, per proporre un ordine dell’essere immanente al mondo, la cui perfezione sarebbe a portata dell’azione umana. Si tratta di modificare la struttura del mondo (avvertita come inadeguata) in maniera così radicale che da quella modifica emerga un mondo nuovo, di piena soddisfazione… Il mondo tuttavia resta quale a noi è dato e non rientra nelle facoltà umane la possibilità di cambiarne la struttura” (“Il mito del mondo nuovo”).

Similmente Augusto del Noce affermava: “Per varie che possano essere le forme rivoluzionarie… il loro lato comune è la correlazione tra l’elevazione della politica a religione e la negazione del soprannaturale… alla liberazione religiosa si sostituisce la liberazione politica… il problema del male viene trasposto dal piano psicologico e teologico a quello politico e sociologico: i dogmi della Caduta e della Redenzione vengono trasferiti sul piano dell’esperienza storica” (“Il problema dell’ateismo”). Ma analizziamo brevemente il nazismo, che delle ideologie totalitarie può essere considerato, insieme al comunismo, il vertice e il compimento. Scomponiamo brevemente i fattori che lo hanno contraddistinto. Anzitutto il nazionalismo, responsabile anche dello scoppio della Prima guerra mondiale, che con i suoi dieci milioni di morti, venti milioni di feriti, mutilati e nevrotici, e sette milioni di prigionieri e dispersi, rappresenta la più grande tragedia della storia sino a quel momento, senza alcuna possibilità di confronto.

Ebbene il nazionalismo è un figlio della Rivoluzione francese, antitetico alla concezione cattolica, e cioè universale, che aveva caratterizzato l’Europa dell’Antico Regime. Nel Sacro Romano Impero, infatti, popoli diversi convivevano insieme, con lingue, storie e costumi differenti, in nome della comunità di ideali religiosi: cattolico a ogni popolo e ad ogni razza.

E’ a tutti noto che la Prima guerra mondiale nacque dalle frizioni tra i nazionalismi tedesco, inglese, serbo, russo, inglese…

Mi limiterò, per brevità, a qualche cenno al nazionalismo italiano, che fu interpretato da personaggi assolutamente nemici della chiesa, e di ogni religiosità, come Francesco Crispi, alla fine dell’Ottocento, e Benito Mussolini, anticlericale anarchico e socialista, ai primi del Novecento, e poi duce del fascismo, di quella concezione dello stato, cioè, per la quale “tutto è nello stato e nulla di umano e di spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello stato” (evidente parodia laica del “Credo”). Gli interventisti, contro cui Benedetto XV si battè in ogni modo, prima con la diplomazia e poi denunciando “l’inutile strage”, furono tutti uomini delle élites, avversi alla visione cattolica dominante nel paese: il già citato Mussolini, Gabriele D’Annunzio, il socialista nazionalisteggiante Cesare Battisti, i nazionalisti Giovanni Papini ed Enrico Corradini, i futuristi di Marinetti, che predicavano lo “svaticanamento” d’Italia… Molti di questi, esattamente come nel resto d’Europa, utilizzarono il socialdarwinismo materialista per sacralizzare la selezione naturale e la lotta per la vita come legge della storia. Scrive Hagen Schulze, nel suo “Aquile e leoni. Stato e nazione in Europa”: “Alla base di tale concezione c’era la legge della natura, secondo la quale la lotta era di tutti contro tutti, la pace una illusione dei deboli, nel migliore dei casi un momento di respiro nel conflitto perenne per l’esistenza; a sopravvivere sono destinati solo gli esseri moralmente e fisicamente superiori. Per tutti i raggruppamenti politici e sociali valeva l’assioma che l’umanità non aveva come scopo la pace; ciò era vero per il concetto marxista (cioè ateo, ndr) della lotta di classe, come per l’idea nazional-popolare di un eterno antagonismo tra popoli e per la nuova ideologia emergente del conflitto tra le razze… politica vuol dire guerra, e la guerra è necessaria per bruciare i mali dell’epoca… non si tratta di una visione estremistica, ma è quanto si ricava dalla lettura di giornali e periodici, sia seri che a larga diffusione, pubblicati nell’arco di tempo tra il 1880 e il 1914 e che offrono al moderno osservatore una fonte inesauribile di dati relativi alla struttura fondamentalmente darwinistico-sociale del nazionalismo popolare del tempo nell’area anglosassone, in Francia, in Germania o in Italia. Quando, durante la guerra contro i boeri il maresciallo britannico Roberts dichiarava che la lotta spietata tra le nazioni non era altro che una necessità biologica… ciò non era che un’eco di quanto scrivevano numerosi altri autori del tempo”, spesso biologi darwinisti prestati alla politica, come ha ben raccontato il celebre paleontologo evoluzionista Stephen Jay Gould nel suo “I pilastri del tempo”.

Per tornare in Italia, Giovanni Papini, prima che la vita lo portasse a convertirsi e a rinnegare il suo passato, sulla rivista nazionalista Lacerba, nel 1914 scriveva: “Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima delle anime per la ripulitura della terra… Siamo troppi. La guerra è una operazione maltusiana. C’è un troppo di qua e un troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla tavola”. Ed Enrico Corradini, interpretando la stessa concezione ateistica e socialdarwinista, sul Regno del 28 febbraio 1904, allo scoppio del conflitto russo giapponese, descriveva la guerra come “un grandioso e terribile fenomeno della natura, un cozzo di forze avverse primordiali ed eterne, irrefrenabili. E tali sono appunto le forze che conducono alle guerre le nazioni e le razze. Perciò dinanzi ad esse l’uomo civile è abolito e ritorna l’uomo sincero allo stato di natura”.

I frutti del nazionalismo, già condannato da diversi Papi, inutilmente, nelle loro encicliche, avrebbe dunque portato dapprima alla guerra e poi, nel dopoguerra, al fascismo, al nazismo e al “socialismo nazionalista” di Stalin, secondo la celebre definizione di Trotzkij.

L’altra componente del nazionalsocialismo fu il razzismo. Non è qui il luogo per ripercorrere una ideologia che è comunque basata, essenzialmente, sul materialismo biologico: “Sangue e suolo” era lo slogan dei nazisti, proprio a significare una prevalenza degli elementi naturali, materiali, fisici, sull’anima immortale (che veniva esplicitamente negata). Effettivamente il razzismo non era mai esistito nella storia dell’Europa cattolica, prima delle rivoluzioni culturali. Come ha ben raccontato Leo Poliakov nel suo “Il mito ariano” (Editori Riuniti), vi è una stretta correlazione tra il pensiero materialista e la genesi del razzismo; correlazione fondamentale tra negazione della comune figliolanza degli uomini, tutti creati da Dio, e l’idea che gli uomini siano invece originati da ceppi diversi, più o meno “nobili”, più o meno evoluti. Mentre lo scienziato cattolico Louis Pasteur, alla fine dell’Ottocento, rivendicava l’uguaglianza degli uomini di fronte a Dio, loro creatore, le ideologie atee sostenevano che la storia Adamo ed Eva, con le sue implicazioni logiche, e cioè la fratellanza universale in senso cattolico, era una evidente falsità, perché in realtà la scienza dimostrerebbe l’ineguaglianza delle razze in base alla misurazione dei crani, degli arti, e al tentativo di ridurre l’uomo alla sua fisicità.

Basti pensare a Voltaire, il famoso “apostolo della tolleranza”. Secondo costui l’idea cattolica secondo cui l’umanità deriva tutta da Adamo ed Eva, per cui siamo tutti “fratelli”, è una emerita sciocchezza assolutamente antiscientifica. Al monogenismo biblico, che esclude di per sé qualsiasi razzismo, sostituì il poligenismo, cioè l’idea “secondo cui i diversi gruppi umani discendevano da numerosi e differenti antenati” (Francesco Maria Feltri).

Il razzismo si nutrirà, anche dopo queste prime teorizzazioni, di una visione assolutamente atea, teoricamente o praticamente, della vita, una visione in cui non vi è alcuno spazio per un Dio creatore di tutti i popoli, ma solo per l’esistenza di popoli “superiori” e di popoli “inferiori”, di sangue, di luoghi, di colore della pelle, di predisposizioni naturali e genetiche e di ambienti operanti sull’uomo al di sopra della sua libertà. Lo storico Gianni Gentile, parlando dell’imperialismo, afferma: “La cultura scientifica di stampo positivistico (cioè ateo, ndr) nella seconda metà dell’Ottocento aveva elaborato una teoria delle razze, secondo la quale a ogni razza venivano attribuite diverse basi biologiche che determinavano i vari comportamenti, anche dal punto di vista morale e dei costumi. Questa impostazione pseudoscientifica consentiva di stabilire una gerarchia che poneva la razza bianca al di sopra delle altre razze”.

Strettamente connessa al razzismo, troviamo l’eugenetica, che altro non è che l’antico sogno, utopico, e cioè ateistico, di creare una umanità perfetta, assolutamente sana, senza macchia, che evidentemente non ha bisogno di un Dio salvatore e di una Redenzione. L’eugenetica è presente già nella Repubblica ideale, sostanzialmente comunista, di Platone, nella “Città del sole” di Tommaso Campanella, anch’essa organizzata secondo criteri comunisti; nel sogno di alcuni maghi del Cinquecento, che credevano di poter applicare la selezione adottata per i cavalli, anche all’uomo. Soprattutto, l’eugenetica moderna, riporta ancora al nome del sedicente scienziato, ateo, Francis Galton, che nel 1883 coniò la parola “eugenics”, spiegando al mondo che tramite matrimoni selettivi e sterilizzazioni forzate si sarebbe creato l’“uomo nuovo”, sano e felice.
Non tanti anni più tardi Adolf Hitler, nel “Mein Kampf”, dopo aver spiegato che “lo stato, la nazione, dovrà impedire ai malati o ai difettosi” di procreare, aggiungeva: “Basterebbe per seicento anni non permettere di procreare ai malati di corpo e di spirito per salvare l’umanità da una immane sfortuna e portarla a una condizione di sanità oggi pressoché incredibile”. Del resto Rudolf Hess era solito definire il nazismo una “biologia applicata”, mentre lo studioso Lifton ha definito il nazismo come una “biocrazia”: “Il progetto nazista si ispirava a una visione di controllo assoluto del processo evolutivo sul futuro umano biologico. Facendo ampio uso del termine darwiniano ‘selezione’ i nazisti cercarono di arrogarsi le funzioni della natura (selezione naturale) e di Dio nell’orchestrare le proprie selezioni, la loro versione della evoluzione umana”.

Infine, in questa breve analisi, non si possono trascurare le radici anche socialiste, sia del fascismo, sia del nazionalsocialismo, sia, evidentemente del comunismo. Il marxismo ateo, che influenzò tutti i tre i totalitarismi, con gradazioni diverse (ma non è questo il luogo per analizzare questo punto), rappresenta anch’esso, come ha giustamente scritto Karl Löwith, una “forma secolarizzata del pensiero biblico”: “La lotta finale dei due campi ostili della borghesia e del proletariato corrisponde alla fede cristiana in una lotta finale tra Cristo e l’Anticristo nell’ultima epoca della storia, il compito del proletariato corrisponde alla missione storica del popolo eletto, la funzione redentrice universale della classe più degradata è concepita sul modello religioso della Croce e della Resurrezione, la trasformazione ultima del regno della necessità nel regno della libertà corrisponde alla trasformazione della città terrena nella città di Dio”. Cosa abbia partorito la religione atea del marxismo, lo sappiamo tutti: dalla Russia, alla Cina, alla Cambogia, al Vietnam, ai paesi dell’America latina, si parla, almeno , di cento milioni di morti, secondo cifre, quelle del “Libro nero del comunismo” assolutamente prudenziali. Robert Conquest, nel suo “Il grande terrore”, accenna a venti milioni di vittime solo durante il periodo staliniano, guerra esclusa. Gino Rocca, nel suo “Stalin”, parla di cinque milioni di morti solo nelle grandi purghe staliniane tra il 1937 e il 1938; Aleksandr Solzenitsyn parla di sessantasei milioni di morti in Russia tra il 1917 e il 1959, nel suo “Arcipelago gulag”. Per nessuna epoca della storia, prima dell’affermarsi dell’ateismo assoluto, si possono solo lontanamente pensare le stragi e le malvagità create da nazismo e comunismo, e dalle loro appendici ideologiche (razzismo, eugenetica, socialdarwinismo). E’ una evidenza storica che nessuno può negare. (Francesco Agnoli, Il Foglio, 4 dicembre 2007

 

 


 

Adorabili, fragilissimi genitori del post '68

"Ma se pensiamo che il conflitto sia un inconveniente e che l'aggressività vada cancellata, ci sbagliamo di grosso. Ci inventiamo un mondo che non c'è e ci facciamo del male. Crediamo che il conflitto sia da reprimere, che la frustrazione sia da abolire: non ci rendiamo conto che invece non si può vivere insieme se non si è attrezzati a gestire le divergenze. Così non ci rendiamo conto che la vera emergenza è la fragilità dei genitori post '68».

A spostare l'attenzione da una moda – il bullismo – a un reale problema educativo è Daniele Novara, direttore del Centro psico-pedagogico per la pace e la gestione di conflitti di Piacenza.
«Ciò che oggi osserviamo – chiarisce Novara – è la mancanza di uno spirito educativo che aiuti i ragazzi ad assumere la fatica del conflitto e la frustrazione come elementi di crescita. Questo porta a delle sofferenze emotive molto forti in questa generazione di ragazzi. Parliamo di malattie educative: i bambini di oggi dormono un'ora in meno a notte, fanno la pipì a letto anche da grandi, hanno disturbi emotivi e dell'alimentazione, nonché disturbi della capacità di concentrarsi e di apprendere in maniera fluida e normale».

Tutti disturbi legati al fatto – prosegue Novara - «che i genitori invece di dare regole chiare insistono nel metodo della sgridata, dell'urlo. Cioè confondono la necessaria regola, che permette al bambino di avere la mappa con cui affrontare la realtà, con la punizione. Quando io domando ai genitori: quali sono le vostre regole?, loro mi rispondono: “Li sgridiamo spesso”. E invece no, questa è una punizione, perché umiliare il bambino con una sgridata o un urlo, a parte che dimostra l'impotenza del genitore, è un atto di sanzionamento».

Oggi i genitori non riescono a dare – tutt'e due assieme - regole chiare: «Invece di dire “torna presto”, bisogna dire esattamente l'orario del rientro; invece di dire “spegni la televisione perché l'hai guardata troppo”, bisogna dire quanto tempo si può stare davanti alla tivù e davanti a quali programmi; invece di dire “sei sempre davanti alla playstation”, bisogna dire quanto tempo è concesso per giocare. Altrimenti ci troviamo una generazione che passa quattro ore al giorno davanti a contesti tecnologici e non ci si può poi meravigliare del suo progressivo ottundimento».

Quella dei bambini e dei ragazzi d'oggi – conclude il pedagogista - non è una generazione violenta. E' una generazione che soffre perché ha alle spalle un retroterra educativo troppo fragile e deve farsi carico della fragilità dei genitori. Molti bambini non possono fare i bambini, perché ci si trova in un contesto in cui fare il bambino diventerebbe troppo destabilizzante per i genitori, che non sanno reggere le difficoltà, i conflitti e non fanno resistenza educativa.

«I genitori d'oggi – interviene la psicologa Paola Sartori, responsabile del Servizio Politiche cittadine Infanzia e Adolescenza del Comune di Venezia - hanno paura dell'odio dei figli. Temono di essere i genitori cattivi cui i figli non vorranno bene. Se il bambino chiede la caramella prima di cena, dopo un primo no, per evitare che s'arrabbi e pianga gli si dirà di sì, anche se si è convinti che non è giusto. Viene troppo spesso favorito l'abbassamento della tensione relazionale, perché si ha paura della contrapposizione».

L'educazione, insomma, è sempre più impostata sul consenso, e diventa così non educazione al conflitto. Lo conferma Paola Scalari, psicologa e psicoterapeuta: «I 30-40enni d'oggi, per sentirsi validi e valorizzati, hanno bisogno di sentirsi confermati. E in questo bisogno di conferma non riescono a sottoporsi a situazioni in cui vengono criticati. Provate a dire ad un genitore “guarda che hai sbagliato metodo”. Facilmente piangerà. I figli del '68 sono coloro su cui si è poco elaborato il concetto di frustrazione, e perciò sopportano male il dolore, e con i loro figli non sanno come fare opera di contenimento e regolazione».

Non che tutto vada male, anzi. I genitori d'oggi – le due psicologhe lo sottolineano – sono capaci di affetto, dialogo e disponibilità come mai era accaduto prima: «Il valore aggiunto dell'educazione meno repressiva d'oggi è per esempio il fatto che i ragazzi non hanno paura degli adulti. A fronte di questo grande evento positivo, per cui le due generazioni possono parlarsi, è però necessario che la funzione adulta sia più matura, sia perché i genitori non possono mettersi alla pari dei figli, sia perché gli adolescenti vogliono adulti competenti, capaci di ascolto ma anche di contenimento e di regolazione». (Giorgio Malavasi, Gente Veneta, n. 47/2007)

 

 


 

Alle radici della pace

Sotto il segno della speranza. In questa chiave aperta a una fiducia ottimista - ma non per questo ignara dei problemi - Benedetto XVI invita a leggere il messaggio che ha preparato per la giornata mondiale della pace e che si rivolge esplicitamente "agli uomini e alle donne di tutto il mondo".

Il suo titolo - "Famiglia umana, comunità di pace" - risuona con efficace semplicità e il suo contenuto va alle radici di quanto sognano appunto tante donne e tanti uomini del nostro tempo. Sì, perché alle radici della pace c'è la famiglia, che nasce dall'amore tra un uomo e una donna, "prima forma di comunione tra persone". E il modello della famiglia è quello che, secondo il vescovo di Roma, deve ispirare i rapporti "di solidarietà e di collaborazione" anche nell'unica "famiglia umana" a cui sono chiamati i popoli della terra.

Il parallelismo tra famiglia naturale e famiglia umana percorre tutto il testo papale. È infatti nella famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna che "si fa esperienza di alcune componenti fondamentali della pace":  giustizia e amore, ma anche l'autorità esercitata dai genitori, il servizio e l'aiuto a chi ne ha bisogno, fino all'accoglienza e al perdono. In una espressione, "il lessico familiare è un lessico di pace". Per questo non si deve mai perdere di vista "quella "grammatica" che ogni bimbo apprende dai gesti e dagli sguardi della mamma e del papà, prima ancora che dalle loro parole". Come a sottolineare l'importanza dei gesti concreti, dopo quella delle affermazioni di principio, anche nei rapporti internazionali.

L'argomentare di Benedetto XVI è pure in questo messaggio per la giornata mondiale della pace pacato e ragionevole, quindi comprensibile e condivisibile anche al di là dei confini del cattolicesimo, delle confessioni cristiane e addirittura dei diversi mondi religiosi. Lo dimostrano il richiamo insistito da parte del Papa alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) - a cui si arrivò nel 1948 e di cui si sta dunque per celebrare il sessantesimo anniversario - e soprattutto il riferimento alla legge naturale, "iscritta nel cuore dell'essere umano e a lui manifestata dalla ragione". Il riconoscimento dei diritti della famiglia in quanto "nucleo naturale e fondamentale della società" presente nella dichiarazione dell'Onu (come anche nella Carta dei diritti della famiglia pubblicata dalla Santa Sede nel 1983) ha una conseguenza logica evidente:  "La negazione o anche la restrizione dei diritti della famiglia, oscurando la verità sull'uomo, minaccia gli stessi fondamenti della pace". La famiglia, secondo Benedetto XVI, va dunque protetta con misure concrete perché è una risorsa di pace.

Così come con misure concrete bisogna proteggere la famiglia umana: a cominciare dalla sua casa, che è l'ambiente naturale. Senza divinizzare la natura, s'intende: considerando per esempio più importante dello stesso essere umano "la natura materiale o animale". Al contrario, senza dimenticare i poveri e procedendo con prudenza davvero scientifica, bisogna rafforzare una vera e propria "alleanza tra essere umano e ambiente". Non solo a parole, ma puntando a un utilizzo delle risorse energetiche che ridimensioni i folli livelli del consumo caratteristici delle società opulente. E altrettanto bisogna incidere sull'economia che deve mirare a un "bene comune" mondiale.

Criterio generale - ripete ancora una volta il Papa, con fiduciosa speranza, tanto ai credenti quanto ai non credenti - è "la norma morale basata sulla natura delle cose, che la ragione umana è capace di discernere". Benedetto XVI va al cuore del problema:  il fondamento morale naturale di questa "legge morale comune" è ciò che permette, "al di là delle differenze culturali", la comprensione tra esseri umani a proposito degli "aspetti più importanti del bene e del male". Anche se tutto questo è presente negli accordi internazionali in modo frammentario "e non sempre coerente". Lo sguardo del Papa non deriva da un ottimismo cieco di fronte a divisioni, conflitti e atti efferati, come l'ultimo spaventoso attentato che ha insanguinato Algeri. Prova di questo sguardo realistico agli ostacoli che impediscono la pace è la sua richiesta di accordi concreti per un'efficace smilitarizzazione e per lo smantellamento delle armi nucleari che distolgono enormi risorse indispensabili ai bisogni sempre più urgenti di tanti esseri umani. Che tutti fanno parte di un'unica famiglia.

(L’Osservatore Romano, 12 dicembre 2007)

 

 


 

Cosa significa la bellissima Enciclica di Benedetto XVI sulla speranza

Un testo da leggere e meditare… Una bomba. E’ la nuova enciclica di Benedetto XVI, “Spe salvi” dove non c’è neanche una citazione del Concilio (scelta di enorme significato), dove finalmente si torna a parlare dell’Inferno, del Paradiso e del Purgatorio (perfino dell’Anticristo, sia pure in una citazione di Kant), dove si chiamano gli orrori col loro nome (per esempio “comunismo”, parola che al Concilio fu proibito pronunciare e condannare), dove invece di ammiccare ai potenti di questo mondo si riporta la struggente testimonianza dei martiri cristiani, le vittime, dove si spazza via la retorica delle “religioni” affermando che uno solo è il Salvatore, dove si indica Maria come “stella di speranza” e dove si mostra che la fiducia cieca nel (solo) progresso e nella (sola) scienza porta al disastro e alla disperazione.

Benedetto XVI, del Concilio, non cita neanche la “Gaudium et spes”, che pure aveva nel titolo la parola “speranza”, ma spazza via proprio l’equivoco disastrosamente introdotto nel mondo cattolico da questa che fu la principale costituzione conciliare, “La Chiesa nel mondo contemporaneo”. Il Papa invita infatti, al n. 22, a “un’autocritica del cristianesimo moderno”. Specialmente sul concetto di “progresso”. Per dirla con Charles Péguy, “il cristianesimo non è la religione del progresso, ma della salvezza”. Non che il “progresso” sia cosa negativa, tutt’altro e moltissimo esso deve al cristianesimo come dimostrano anche libri recenti (penso a quelli di Rodney Stark, “La vittoria della Ragione” e di Thomas Woods, “Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale”). Il problema è l’ “ideologia del progresso”, la sua trasformazione in utopia.

Il guaio grave della “Gaudium et spes” e del Concilio fu quello di mutare la virtù teologale della “speranza” nella nozione mondanizzata di ”ottimismo”. Due cose radicalmente antitetiche, perché, come scriveva Ratzinger, da cardinale, nel libro “Guardare Cristo”: “lo scopo dell’ottimismo è l’utopia”, mentre la speranza è “un dono che ci è già stato dato e che attendiamo da colui che solo può davvero regalare: da quel Dio che ha già costruito la sua tenda nella storia con Gesù”.

Nella Chiesa del post-Concilio l’ “ottimismo” divenne un obbligo e un nuovo superdogma. Il peggior peccato diventò quello di “pessimismo”. A dare il là fu anche l’ “ingenuo” discorso di apertura del Concilio fatto da Giovanni XXIII, il quale, nel secolo del più grande macello di cristiani della storia, vedeva rosa e se la prendeva con i cosiddetti “profeti di sventura”: “Nelle attuali condizioni della società umana” disse “essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia… A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo”.

Roncalli fu ritenuto, dall’apologertica progressista, depositario di un vero “spirito profetico”, cosa che si negò – per esempio – alla Madonna di Fatima la quale invece, nel 1917, metteva in guardia da orribili sciagure, annunciando la gravità del momento e il pericolo mortale rappresentato dal comunismo in arrivo (dopo tre mesi) in Russia. Si verificò infatti un oceano di orrore e di sangue. Ma 40 anni dopo, nel 1962, allegramente – mentre il Vaticano assicurava Mosca che al Concilio non sarebbe stato condannato esplicitamente il comunismo e mentre si “condannavano” a mille vessazioni santi come padre Pio – Giovanni XXIII annunciò pubblicamente che la Chiesa del Concilio preferiva evitare “condanne” perché anche se “non mancano dottrine fallaci… ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli”.

E infatti di lì a poco si ebbe il massimo dell’espansione comunista nel mondo, non solo con regimi che andavano da Trieste alla Cina e poi Cuba e l’Indocina, ma con l’esplosione del ’68 nei Paesi occidentali che per decenni furono devastati dalle ideologie dell’odio. Pochi anni dopo la fine del Concilio Paolo VI tirava il tragico bilancio, per la Chiesa, del ”profetico” ottimismo roncalliano e conciliare: “Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza…L’apertura al mondo è diventata una vera e propria invasione del pensiero secolare nella Chiesa. Siamo stati forse troppo deboli e imprudenti”, “la Chiesa è in un difficile periodo di autodemolizione”, “da qualche parte il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio”.

Per questa leale ammissione, lo stesso Paolo VI fu isolato come “pessimista” dall’establishment clericale per il quale la religione dell’ottimismo “faceva dimenticare ogni decadenza e ogni distruzione” (oltre a far dimenticare l’enormità dei pericoli che gravano sull’umanità e dogmi quali il peccato originale e l’esistenza di Satana e dell’inferno). Ratzinger, nel libro citato, ha parole di fuoco contro questa sostituzione della “speranza” con l’ “ottimismo”. Dice che “questo ottimismo metodico veniva prodotto da coloro che desideravano la distruzione della vecchia Chiesa, con il mantello di copertura della riforma”, “il pubblico ottimismo era una specie di tranquillante… allo scopo di creare il clima adatto a disfare possibilmente in pace la Chiesa e acquisire così dominio su di essa”.

Ratzinger faceva anche un esempio personale. Quando esplose il caso del suo libro intervista con Vittorio Messori, “Rapporto sulla fede”, dove si illustrava a chiare note la situazione della Chiesa e del mondo, fu accusato di aver fatto “un libro pessimistico. Da qualche parte” scriveva il cardinale “si tentò perfino di vietarne la vendita, perché un’eresia di quest’ordine di grandezza semplicemente non poteva essere tollerata. I detentori del potere d’opinione misero il libro all’indice. La nuova inquisizione fece sentire la sua forza. Venne dimostrato ancora una volta che non esiste peccato peggiore contro lo spirito dell’epoca che il diventare rei di una mancanza di ottimismo”.

Oggi Benedetto XVI, con questa enciclica dal pensiero potente (che valorizza per esempio i “francofortesi”), finalmente mette in soffitta il burroso “ottimismo” roncalliano e conciliare, quell’ideologismo facilone e conformista che ha fatto inginocchiare la Chiesa davanti al mondo e l’ha consegnata a una delle più tremende crisi della sua storia. Così la critica implicita non va più solo al post concilio, alle “cattive interpretazioni” del Concilio, ma anche ad alcune impostazioni del Concilio. Del resto già un teologo del Concilio come fu Henri De Lubac (peraltro citato nell’enciclica) scriveva a proposito della Gaudium et spes: “si parla ancora di ‘concezione cristiana’, ma ben poco di fede cristiana.

Tutta una corrente, nel momento attuale, cerca di agganciare la Chiesa, per mezzo del Concilio, a una piccola mondanizzazione”. E persino Karl Rahner disse che lo “schema 13”, che sarebbe divenuto la Gaudium et spes, “riduceva la portata soprannaturale del cristianesimo”. Addirittura Rahner ! Ratzinger visse il Concilio: è l’autore del discorso con cui il cardinale Frings demolì il vecchio S. Uffizio che non pochi danni aveva fatto. E oggi il pontificato di Benedetto XVI si sta qualificando come la chiusura della stagione buia che, facendo tesoro delle cose buone del Concilio, ci ridona la bellezza bimillenaria della tradizione della Chiesa. Non a caso nell’enciclica non è citato il Concilio, ma ci sono S. Paolo e Gregorio Nazianzeno, S. Agostino e S. Ambrogio, S. Tommaso e S. Bernardo. Un’enciclica bella, bellissima. Anche poetica, che parla al cuore dell’uomo, alla sua solitudine e ai suoi desideri più profondi. E’ consigliabile leggerla e meditarla attentamente. (Antonio Socci, Libero, 1 dicembre 2007)

 

 


 

Confermato: il Concilio fu "svolta epocale". La scuola di Bologna annette il papa

Per quasi due anni, il memorabile discorso con il quale Benedetto XVI aveva criticato e respinto l'interpretazione del Concilio Vaticano II come "discontinuità e rottura" era rimasto senza risposta. Nessuno degli storici e teologi apparentemente presi di mira aveva replicato alle argomentazioni del papa.

Ma oggi la risposta è finalmente arrivata, in forma quasi ufficiale, con quattro saggi di quattro studiosi molto rappresentativi, pubblicati sull'ultimo numero di "Cristianesimo nella storia", la rivista dell'Istituto per le Scienze Religiose di Bologna.

L'Istituto bolognese, fondato da don Giuseppe Dossetti e dal professor Giuseppe Alberigo, è quello da cui è uscita la "Storia del Concilio Vaticano II" più letta al mondo, in cinque volumi completati nel 2001 ed editi in sette lingue. Una "Storia" che interpreta il Concilio più come "evento" che per i suoi documenti, più nello "spirito" che nella "lettera", più come "nuovo inizio" che in continuità con la Chiesa precedente.

Gli autori dei quattro articoli di replica al papa sono l'italiano Giuseppe Ruggieri, direttore di "Cristianesimo nella storia", l'americano Joseph A. Komonchak, il francese Christoph Theobald e il tedesco Peter Hünermann.

Quest'ultimo – oltre ad aver collaborato alla "Storia" bolognese – ha anche edito assieme a Bernd J. Hilberath un commentario in cinque volumi dei documenti conciliari, per ora solo in lingua tedesca: "Herders Theologischer Kommentar zum II Vatikanische Konzil", Freiburg-Basel-Wien", 2005-2006.

In questo commentario, come anche nel saggio su "Cristianesimo nella storia", Hünermann sostiene la somiglianza tra i documenti del Vaticano II e "i testi costituzionali elaborati dalle assemblee costituenti rappresentative".

Benedetto XVI, nel discorso del 22 dicembre 2005, aveva criticato così tale tesi: "In questo modo, il Concilio viene considerato come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore".

Hünermann in realtà aveva sostenuto – e ora lo ribadisce – che tra i testi conciliari e le costituzioni degli stati ci sono anche delle differenze, la prima delle quali è che l'autorità dei vescovi "costituenti" deriva da Cristo. Grazie a questo egli ritiene di sottrarsi alla critica del papa. E grazie a questo Komonchak chiude così la disputa:

"C'è qualcosa di curioso nel commento del papa, perché io non conosco nessuno che abbia assimilato il Concilio Vaticano II a un'assemblea costituente; e di certo ciò non è mai stato nella [nostra] mente".

Ma c'è di più. I quattro studiosi che intervengono su "Cristianesimo nella storia" non si limitano a sostenere che le critiche del papa non li toccano.

Essi portano Benedetto XVI dalla loro parte. Mettono anche lui tra i fautori della "discontinuità" della Chiesa prima e dopo il Vaticano II.

Komonchak conclude così il suo articolo: "Questa fu 'la svolta epocale' che Giuseppe Alberigo ha proposto come significato storico del Concilio Vaticano II. Lungi dall'essere ripudiata, pare a me che essa è stata affermata e confermata da papa Benedetto XVI".

I più arditi nel reclutare Joseph Ratzinger tra le loro file sono Komonchak e Ruggieri.

Komonchak liquida come prive di un reale bersaglio le critiche del papa ai teorici del Concilio come "rottura". E fa leva invece sui passaggi del discorso del 22 dicembre 2005 nei quali Benedetto XVI disse che dietro la "apparente discontinuità" di certe affermazioni conciliari – in particolare quella sulla libertà religiosa – vi fosse invece "piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi".

A giudizio di Komonchak, la discontinuità esemplificata dal papa non è affatto "apparente", ma reale. Su questa e altre questioni, lo stacco rispetto ai secoli precedenti è troppo evidente. Nella sostanza, quindi, anche il papa è concorde con chi vede nel Concilio Vaticano II il più grandioso cambiamento della Chiesa degli ultimi secoli.

Ruggieri è più sottile. Se il papa, nel discorso del 22 dicembre 2005, ha difeso la continuità del Concilio con la precedente tradizione del magistero cattolico, è perché dal punto di vista "tipico del teologo", che era il suo, "non poteva che sottoscrivere questa concezione".

Ma dal punto di vista storico, obietta Ruggieri, tutto cambia. La "novità" del Vaticano II è un fatto innegabile. E lo stesso Ratzinger vi contribuì, quando in Concilio era l'esperto di fiducia del cardinale tedesco Josef Frings. Secondo Ruggieri, fu il giovane Ratzinger a scrivere l'esplosivo discorso che Frings lesse in aula durante la prima sessione, discorso di piena rottura col magistero ecclesiastico degli ultimi due secoli. Dal che Ruggieri deduce: "Ciò che nella 'Storia' diretta da Alberigo si afferma sulla novità del Vaticano II è ben riassunto in questo intervento di Frings". Leggi: di Ratzinger.

Se dunque anche Benedetto XVI è arruolato tra i buoni, tra i cattivi chi resta?

Komonchak e Ruggieri fanno nomi e cognomi: gli irricuperabili sono l'arcivescovo Agostino Marchetto e il cardinale Camillo Ruini.

Il primo, un diplomatico della curia romana, è l'autore di numerose e puntigliose stroncature della "Storia" diretta da Alberigo, raccolte in un volume pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana nel 2005, alcuni mesi prima del discorso di Benedetto XVI sulle interpretazioni del Concilio.

Il secondo, vicario del papa per la diocesi di Roma, nel presentare al pubblico il volume di Marchetto, disse tra l'altro: "L’interpretazione del Concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a finire. È un’interpretazione oggi debolissima e senza appiglio reale nel corpo della Chiesa. È tempo che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità".

Così, almeno, riferì www.chiesa in un servizio del 22 giugno 2005. Ruggieri, sulla base di una registrazione elettronica, trascrive invece così le parole finali del cardinale: "Una diversa storia onestamente è ancora da scrivere. Abbiamo bisogno di un'altra grande storia in positivo del Concilio Vaticano II".

Ma anche assolto questo scrupolo filologico, Ruggieri mantiene contro Ruini il pollice verso: perché in lui, in Marchetto e in "quanti polemizzano contro la 'Storia' diretta da Alberigo oggettivamente si manifesta una paura della memoria dell'evento". Essi rifiutano la "Storia" non perché enumera le molte novità del Vaticano II – novità che sono capacissimi di "annegare" nel mare della continuità – ma proprio perché racconta il Concilio "come evento che ha aperto una nuova stagione della chiesa".

Il Concilio come evento. In molte pagine dell'ultimo numero di "Cristianesimo nella storia" ritorna questa tesi portante. Theobald dà evidenza a questa frase di Alberigo: "Il Concilio come tale, in quanto evento di comunione, di confronto e di scambio, è il messaggio fondamentale che costituisce il quadro e il nocciolo della sua recezione". Ruggieri scrive: "Il Concilio ha trasmesso se stesso. In questo senso la nuova 'dottrina della chiesa' non è frutto della Lumen Gentium e degli altri frammenti ecclesiologici presenti nei vari documenti conciliari, ma della celebrazione conciliare in quanto tale. [...] Il problema della recezione del Vaticano II è primariamente quello della sinodalità della chiesa tutta".

Ma questa visione non è proprio quella che Benedetto XVI aveva criticato sotto l'etichetta della "ermeneutica della discontinuità e della rottura"?

Ecco come la descrisse allora il papa: "L'ermeneutica della discontinuità [...] asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito".

Hanno un bel dire Komonchak, Ruggieri ed altri che queste cose non le hanno mai scritte così, pari pari. Perché anche la loro "Storia" è un evento che va oltre il testo, ha una recezione e produce un pensiero e una prassi.

Benedetto XVI ha semplicemente messo tutto ciò nero su bianco. Ha descritto e criticato lo "spirito" della scuola di Bologna. Il paradosso di "Cristianesimo nella storia" è che, per rispondergli, si attacca alla "lettera".

(Sandro Magister, www.chiesa, 11 dicembre 2007)

 

 

 


 

9 dicembre 2007

 

La nuova enciclica di Benedetto XVI “Spe salvi”

Mentre scorrevano sotto i miei occhi le parole scintillanti della nuova enciclica di Papa Benedetto XVI, Spe salvi, salvi nella e per la speranza, ripensavo con un brivido di emozione alla bella espressione con cui Gabriel Marcel, nel mezzo dell’ultimo terribile conflitto mondiale, disegnava la speranza: io spero in Te per noi. Formula icastica e felice. Il filosofo francese riusciva a tessere insieme il lato personale e civile della speranza. E, ancora, lo slancio del desiderio di felicità e l’anticipo della promessa di vita. Di vita eterna.

Scritta come d’un solo fiato, la riflessione del Pontefice colpisce diritto al cuore. Degli uomini d’oggi e dell’epoca presente. Prende le mosse dal desiderio di vita buona e felice, per mostrare come il presente possa essere vissuto solo nell’orizzonte della speranza, di un oltre e di un altro che riempie di senso l’ora attuale. E lo muove a una prassi di vita buona. La speranza non è un’informazione nuova, ma è trasformazione dell’esistenza, è promessa di redenzione che muta le condizioni di vita.

È la forza del futuro che cambia il presente. Anzi è la novità dell’avvento di Dio che suscita cose nuove nel tempo. Dalla piccola Bakhita che fa l’esperienza del passaggio dalla schiavitù alla libertà, alle preghiere del cardinale vietnamita Nguyen Van Thuan, che nei tredici anni di prigionia vede aprirsi una finestra di speranza. Fino ai martiri, ai monaci, a coloro che sperando hanno inventato forme di vita nuova, come Bernardo, Francesco, e la nube di testimoni della speranza.

Sorprende la scrittura del Pontefice che sa toccare le corde più profonde dell’esistenza quando spiega l’espressione «vita eterna» (n. 12), mentre poco più avanti stabilisce un confronto serrato e pacato tra la promessa della speranza cristiana e la fede nel progresso della modernità (nn. 16-21). Un testo vigoroso, che gioca su tutte le corde del pensiero e della lingua per ricavarne una musica nitida e convincente, lieve e persuasiva. Come dev’essere della parola della speranza e com’è nello stile di questo Papa. L’enciclica potrà apparire a taluni non facile in alcune sue parti, ma non potrà risultare a tutti incalzante nel porre la domanda decisiva: che cosa possiamo sperare? E che cosa non dobbiamo sperare!

Qui si accendono i fuochi dell’enciclica: la speranza della vita eterna è il motore dell’esistenza buona nel presente; la speranza personale non sta senza la sua dimensione sociale, anzi universale; la figura cristiana della speranza deve fornire alternativa convincente alla moderna fede nel progresso; i luoghi della speranza (la preghiera, l’agire e il soffrire dell’uomo, l’esercizio della perseveranza sotto il segno del Giudizio) sono il modo con cui la promessa entra nel grembo della storia.

Il gesto del Pontefice è audace. Porta al centro della scena temi personali e culturali che sono dileguati dalla riflessione civile e dalla coscienza comune. Con la forza di formule che spuntano nel testo con sorprendente facilità di espressione e felicità di linguaggio. Come questa: «Il fatto che questo futuro [di Dio] esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future» (n. 7). O, ancora: «Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti... Questa 'cosa' ignota è la vera 'speranza'... La parola 'vita eterna' cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta». Le statistiche dicono che gli italiani per una grande maggioranza credono ancora in Dio, ma subito si smarriscono quando vien loro chiesta ragione della loro fede nell’aldilà. La voce del Papa dà parola a questo desiderio di vita che alberga in ogni uomo.

L’aspetto più intrigante dell’enciclica sta nel confronto con la modernità, con la sua fede nel progresso e i suoi miti. Condotto con una lucidità salutare, fino alla contestazione del potere redentivo della tecnica. La terapia indicata è chiara: «Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore, allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo». Non senza riportare la coscienza cristiana alla sua responsabilità storica: «Bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici» (n. 22).

Si capisce la cura di Benedetto XVI per l’uomo e la sua libertà. «L’uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza» (n. 23). La Chiesa italiana a Verona ne ha tentato un concreto esercizio negli ambiti della vita umana. E ha imparato che bisogna custodire tutte le armoniche della speranza: io spero in Te per noi.

(Franco Giulio Brambilla , Avvenire, 1 dicembre 2007)

 

 


 

Francesco Botturi: La “Spe salvi” ci dice che la salvezza non viene dalla scienza

«Un testo molto intenso, molto bello, che tocca in profondità chi lo legge. Quasi uno svolgimento, assieme alla prima enciclica, del tema già sintetizzato dal Santo Padre nel Gesù con queste parole: l’uomo ha bisogno di verità e di amore, di una verità che lo ami». In altre parole, secondo il professor Francesco Botturi, ordinario di Filosofia morale all’Università cattolica, la Spe salvi è una nuova tappa, e tra le più toccanti, della coerente ricerca (della verità nella luce dell’amore, osiamo notare noi) di Benedetto XVI.

D. Professore – chiediamo – che altro si potrebbe aggiungere tentando una valutazione generale di questa enciclica?
R. Che il Papa si dirige dritto alla grande questione umana, ossia al desiderio di felicità che lo coinvolge, che lo fa anche soffrire, ma che è insopprimibile. Per questo l’uomo non può mai, di fatto, rinunciare a un’idea di felicità, benché sia consapevole della sua fragilità e della sua insufficienza: per dir meglio, egli è portatore di un desiderio più grande di quanto egli stesso riesca a realizzare. È questo il paradosso dell’uomo, che il cristiano, insieme alla fede, deve testimoniare.

D. Di testimoniare, si potrebbe aggiungere, nel tempo della post-modernità, dopo le lunghe stagioni della modernità...

R. ... che ha fallito, e il Papa lo ricorda con grande lucidità critica nei brani dedicati alla Rivoluzione francese e alla Rivoluzione comunista. Mi pare vada messo in risalto, per esempio, il passo che, dopo aver denunciato come «vero errore» marxiano il materialismo, conclude che l’uomo non è soltanto il prodotto di condizioni economiche e perciò non è possibile risanarlo dall’esterno creando condizioni economiche favorevoli. Altrettanto saliente è, da parte del Papa, la critica della fede nel progresso, cioè dell’ideologia del progresso. Una denuncia innervata dalla memoria degli esiti anche tragici ai quali, pure nel secolo scorso, può portare la fede nel progresso.

D. Si tratta, nel complesso, di un giudizio negativo sulla contemporaneità? E, più in generale, la riflessione sulla speranza è esercizio esclusivo del pensiero cristiano?

R. Non c’è alcun indugio compiaciuto sul negativo, semmai la critica conduce sempre, sino a trovare accenti commossi, al positivo, quasi che il Papa voesse far incontrare il desiderio di pienezza dell’uomo con la Pienezza, e insieme ricordarci che le cose grandi e buone non sono dell’individuo, ma dell’intera famiglia umana. Quanto al tema della speranza, esso è, per esempio, un tema forte kantiano («Che cosa posso sperare?» è una delle quattro domande fondamentali dell’uomo secondo Kant). La Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, ecc.) si pone il problema della necessità e della difficoltà insieme della speranza.

D. Insomma, anche la parte più laica della cultura contemporanea dovrebbe fare conti attenti, e privi di pregiudizio, con questa enciclica.

R. È quello che mi auguro, soprattutto là dove assistiamo ad una sorta di implosione del desiderio a seguito della crisi della modernità, che ha ormai compreso di dover rinunciare all’illusione di avere una presa totale sulla storia. C’è naturalmente chi non è d’accordo, chi mantiene vecchie posizioni o chi rinuncia consapevolmente alle «grandi» domande dell’uomo Ma questo non vuol dire che il Papa demonizzi la modernità e i suoi attardati seguaci: registra un fallimento e riapre una prospettiva.

D. L’enciclica contiene anche una critica al cristianesimo storico.

R. Infatti il Papa constata che il cristianesimo moderno si è spesso ridotto o rassegnato ad accettare un ruolo di religione privata, portatrice di un annuncio di salvezza individuale. Con ciò, aggiunge il Papa, si restringeva l’orizzonte della sua speranza, senza riconoscere adeguatamente la grandezza del proprio compito; compito di testimonianza della speranza per l’uomo intero e per tutti gli uomini.

D. Questa enciclica contiene molte frasi suggestive, memorabili. Lei quali citerebbe?

R. Vorrei sottrarmi a questo gioco. Ma, se mi costringe, direi: «Non è la scienza che dà speranza all’uomo. L’uomo viene redento dall’amore divino». (Elio Maraone, Avvenire, 1 dicembre 2007)

 

 


 

Quel desiderio di Itaca che svela la felicità vera: Nella «Spe salvi » risposte all’ansia di infinito

Nel paragrafo 30 della magnifica enciclica Spe salvi, firmata venerdì scorso, Benedetto XVI scrive che «l’uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze – più piccole o più grandi – diverse nei diversi periodi della sua vita. A volte può sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia bisogno di altre speranze». Questa soddisfazione, però, è solo temporanea, e ciò verso cui ci sospingeva la nostra speranza finisce per deluderci, più o meno cocentemente: «Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre».

Il Papa ci invita così a riflettere sul sentimento della delusione. L’uomo, in effetti, lo può sperimentare sotto due forme. C’è la delusione per uno scopo mancato: speravo di ottenere un buon lavoro e non l’ho avuto, speravo di avere una bella casa e non l’ho posseduta, di essere amato e non sono stato amato..., e perciò sono insoddisfatto. Ma c’è anche la delusione per uno scopo ottenuto, quella che proviamo perché il suo conseguimento non ci soddisfa come ci eravamo aspettati: speravo di ottenere un buon lavoro e l’ho ottenuto, speravo di avere una bella casa e l’ho posseduta, di essere amato e sono stato amato..., eppure, ogni volta, contrariamente alle mie speranze, pur avendo investito moltissime energie per cogliere questo obiettivo, non sono appagato.

Questo secondo tipo di delusione ci consente di comprendere che l’oggetto del desiderio umano non è rinvenibile in alcuna esperienza finita. Infatti quando raggiungiamo i nostri obiettivi non li apprezziamo più, e desideriamo altre cose.

In questi momenti sperimentiamo che ciò che volevamo veramente non l’abbiamo raggiunto.

Potremmo allora disperare, pensando che l’uomo non possa mai conseguire una soddisfazione definitiva e piena. Ma, al contrario, questa delusione va interpretata diversamente. Invece di farci disperare per l’insaziabilità dell’uomo, essa dev’essere vista come l’indizio che è un’altra la felicità conforme agli esseri umani, che è un’altra la speranza che non delude (Rm 5, 5).

Così, questa delusione mostra che siamo perennemente insoddisfatti non perché abbiamo conseguito questo o quel bene invece di un altro, bensì per via della natura finita di tutti questi beni, incapace di appagare il desiderio umano. Come ha detto Simone Weil «quaggiù ci sentiamo stranieri, sradicati, in esilio; come Ulisse, che si destava in un paese sconosciuto dove i marinai l’avevano trasportato durante il sonno e sentiva il desiderio d’Itaca straziargli l’anima».

Allora – prosegue il passo dell’enciclica – «si rende evidente che può bastargli [all’uomo] solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere».

Nel cuore dell’uomo alberga, insomma, un desiderio radicale che non è il desiderio di qualsivoglia bene finito bensì di un Bene Infinito. L’esperienza di delusione dello scopo conseguito ci fa così comprendere che la soddisfazione del nostro desiderio può darla solo la comunione definitiva e totale con Dio. Solo quella totale, non quella provvisoria e parziale che ci è data nel corso della vita.

Quale sia Itaca per noi ce lo indica Agostino (nel celeberrimo incipit delle Confessioni, che sicuramente il Papa aveva ben presente quando ha scritto questo paragrafo 30): «Ci hai fatti per te [o Dio], e il nostro cuore non trova pace finché non riposa in Te». (Giacomo Samek Lodovici, Avvenire, 4 dicembre 2007)

 

 


 

Il «grazie» di Bartolomeo I «Dal Papa un’enciclica che aiuta l’ecumenismo»

Il 30 novembre è appena passato. Ma il senso di cosa sia stata, quest’anno, la principale festività della Chiesa ortodossa, è destinato a restare nel tempo.

Perché si tratta di un senso «davvero molto particolare», per come si sono fusi insieme gli elementi di straordinarietà che l’hanno caratterizzata in una prospettiva marcatamente ecumenica. Con l’enciclica di Benedetto XVI a fare da sintesi, alla fine di tutto, per «aiutarci ad avere un approccio ottimistico al futuro, e in particolare al cammino verso l’unità dei cristiani».

La festa di Sant’Andrea 2007 è in archivio da poche ore quando incontriamo nella sede del Fanar Bartolomeo I, patriarca ecumenico di Costantinopoli. Il quale – un largo sorriso a illuminargli gli occhi – non nasconde i suoi sentimenti. Non ci riesce. Il dono della prima copia autografata della Spe salvi, che Papa Ratzinger gli ha fatto avere attraverso il cardinale Walter Kasper – presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani – ha un peso simbolico difficile da definire. Per il gesto in se stesso, e per quell’essere stata datata proprio al 30 novembre: «Non posso nascondere che questo fatto abbia per noi un significato molto importante – afferma il patriarca – perché fa riferimento al futuro, rispetto al quale noi non perdiamo mai la speranza, nonostante il passato che abbiamo ricevuto in eredità.

Adesso è tempo di guardare avanti con questa speranza, verso un futuro nel quale sarà possibile guarire le nostre divisioni, e superarle. Questa enciclica sicuramente ci aiuterà».

Per Bartolomeo I, quello che si è vissuto quest’anno, dodici mesi dopo la visita al Fanar di Benedetto XVI, è la conferma visibile di quanto espresso dalle parole sottoscritte nella Dichiarazione comune firmata in quell’occasione, perché «noi crediamo sempre che la coesistenza pacifica dei cristiani, in spirito di unità e di concordia, debba costituire la nostra fondamentale preoccupazione».

Conferma e, concretamente, passo ulteriore in quello spirito di «fratellanza, cooperazione e comunione» che deve guidare il progresso del cammino ecumenico.

Qualcosa che i fedeli ortodossi arrivati a Istanbul anche dall’estero, per la celebrazione del 30 novembre, hanno, in qualche modo, «toccato con mano», ritrovando dopo secoli, restituite alla loro venerazione, le reliquie di Sant’Andrea, che lo stesso patriarca ha riportato «a casa» da Amalfi. Per una Chiesa così strettamente legata alla sua storia e alle proprie tradizioni, dove la porta principale della sede patriarcale è sigillata in segno di lutto da quando, nel 1821, al suo architrave fu impiccato il patriarca Gregorio V, come ritorsione all’inizio della guerra d’indipendenza greca, è facile capire perché il ritorno delle reliquie «donate da Sua Santità il Papa è stato davvero una cosa particolare, molto importante – sottolinea Bartolomeo I –. Avere qui le reliquie di sant’Andrea, che è il fondatore del Patriarcato ecumenico, è un segno che rafforza l’amicizia e la fraternità».

Adesso, dunque, è tempo di guardare avanti. E in questo momento «guardare avanti» vuol dire innanzitutto fare riferimento al Documento sottoscritto a Ravenna dalla Commissione teologica mista cattolicoortodossa lo scorso ottobre, nel quale per la prima volta si riconosce l’esistenza di una Chiesa universale e il ruolo di primato che, in essa, spetta al vescovo di Roma. Certamente «si tratta di un primo passo – osserva Bartolomeo I – e il soggetto è molto difficile, abbiamo ancora tanto da lavorare in futuro».

Tuttavia, aggiunge subito, «l’avere delle basi in comune è fondamentale, ora noi possiamo nutrire anche una speranza in comune per il futuro».

Torna così, prepotente, il tema della speranza. E di nuovo il discorso scivola su come la seconda enciclica di Benedetto XVI davvero suoni anche «e soprattutto» sul piano ecumenico come un invito «ad avere sempre fiducia». Anche rispetto ai problemi che proprio a Ravenna – non sul merito del Documento, ma sull’autonomia della Chiesa apostolica estone, non riconosciuta dai russi – sono sorti tra le Chiese ortodosse, con l’uscita piuttosto clamorosa (e rumorosa), dalla Commissione, dei delegati del Patriarcato di Mosca. Il patriarca non minimizza la questione, né si nasconde dietro un dito. Perché i problemi «senza dubbio ci sono», ma «la speranza che dobbiamo nutrire» è «in particolare e in primo luogo verso di loro». «Quello che abbiamo sperimentato a Ravenna – sottolinea con forza Bartolomeo I – è proprio questo, un segno di speranza, perché siamo riusciti a lavorare insieme su alcune cose molto importanti», su un argomento che «in altri tempi» non sarebbe stato possibile affrontare. Per questo, allora, «sono fiducioso che quei problemi saranno superati». Si è, in effetti, «solo all’inizio» di un qualcosa «completamente nuovo», da costruire «per obbedire al comandamento del Signore, che ha voluto l’unità dei suoi figli, e che è stata spezzata». (Salvatore Mazza, Avvenire, 4 dicembre 2007)

 

 


 

La malintesa strada della modernità: L’enciclica e un articolo di Scalari.

Non vedevano l’ora di poter titolare così. Lo tenevano a denti stretti.

Ma ce l’avevano sulla punta della lingua, sulla punta della tastiera, della rotativa. E infine ieri hanno mollato. Hanno potuto finalmente scriverlo nella posizione che un titolo così merita: in cima all’editoriale fiume della domenica: “Il papa che rifiuta il mondo moderno”. L’estensore dell’articolo, Eugenio Scalfari, prima di disquisire sul testo dell’enciclica di Benedetto XVI “Spe salvi”, ci avvisa che il sospetto ce l’aveva da un po’. Lo si era notato, annuncia il giornalista-filosofo-teologo, questo Papa aveva dato qualche segno. E ora finalmente si può dire: è un antimoderno.

Ecco, finalmente la categoria bell’e fatta, lo stampo già pronto. L’articolista se lo aspettava, poiché a suo dire “il cammino di Benedetto XVI verso la pienezza del suo magistero era stato fin qui piuttosto incerto”. Non si capisce cosa intenda ma la frase fa effetto. E dopo una iniziale viva aspettazione (scrive proprio così, quasi con tocco curiale, invece di una più laica e normale aspettativa) il testo di Papa Ratzinger lo ha definitivamente deluso. E convinto che si poteva dare il via al titolo che per i lettori di Repubblica equivale ben più che a una scomunica. Chi è contro il mondo moderno è automaticamente contro tutto ciò che quel quotidiano ritiene di rappresentare.

E invece io che teologo non sono, francamente m’aspettavo dagli esponenti culturali della modernità molto di più. E ancora me lo aspetto, nonostante Repubblica. Scalfari fa quasi tenerezza quando ci rimane male perché il testo dell’Enciclica è rivolto esplcitamente “Ai vescovi, ai presbiteri, e ai diaconi e a tutti i fedeli laici”.

Voleva che fosse rivolta anche a lui. Come se un’enciclica fosse lo scritto di un grande opinionista. Non si rassegna al fatto che il Papa faccia un mestiere diverso dal suo, e rivolga un documento ex cathedra a coloro che son tenuti a considerare quel documento non un’opinione ma un magistero vincolante. Si sente escluso e assediato Scalfari, e allora si “rifugia” sul quotidiano secondo più venduto del Paese come se fosse un’ultima piccola trincea di difensori della modernità mentre intorno infuriano orde papaline che vogliono cancellare secoli di storia e di acquisizioni.

Ancora mi aspetto e ho visto altrove da parte di non credenti una maggiore curiosità. E non solo perché il terreno della speranza, come l’Enciclica mette in rilievo, è stato quello del maggior incontro tra cristiani e non, ma anche perché la categoria di modernità - come insegnano Leopardi e Nietszche tra gli altri - è una delle più ambigue e soggette, nella storia della cultura, a fraintendimenti e smentite. E a clamorosi rovesciamenti. In altre parole, è davvero sicuro il fondatore di Repubblica, che nella sua piccola povera trincea sta difendendo la “modernità”?

Non vede anche lui, come tutti noi, movimenti nella nostra epoca che mettono radicalmente in discussione quanto fino a ieri si presentava presuntuosamente con la patente di moderno?

Solo un esempio dalla cronaca di questi giorni, visto che mi rivolgo a un giornalista: è più moderno l’atteggiamento di coloro che in nome della ricerca scientifica senza ma e senza se sono disposti a sacrificare migliaia di embrioni, o il lavoro della dottoressa Eleonora Porcu che da scienziata (non da bigotta) ha dimostrato che ha ragione chi quel sacrificio condanna poiché sono altre le strade che permettono risultati scientifici e clinici? Ed è più moderno chi liquida il problema della speranza e di Dio in un articolo con poche espressioni acrobatiche e qualche ritrito luogo comune, o chi impegna cento pagine di una riflessione che non ha paura di guardare in faccia la realtà, i mutamenti storici, le inquietudini e le risorse dell’uomo?

(Davide Rondoni, Avvenire, 4 dicembre 2007)

 

 


 

Chi difende la modernità: con non poche sviste

Prima la definisce «terrorismo anticlericale», con la verve che gli è abituale, ma poi la derubrica a «giochetto», perché per lo storico Franco Cardini l’accusa di Eugenio Scalfari al Papa, quella di rifiutare la modernità in nome di una speranza «tautologica», perché fondata sulla fede, «è il solito giochetto che l’intellighenzia laicista mette in pratica ogniqualvolta che un pontefice si discosta dai sacri principi della modernità. Ricordiamo cosa fece con Giovanni Paolo II, che era un papa 'reazionario' prima di alzare la voce con gli Usa e diventare, solo allora e solo per quello, un eroe».

Cardini non è l’unico intellettuale cattolico a giudicare severamente l’editoriale con cui il fondatore di Repubblica, domenica mattina, ha liquidato l’enciclica Spe Salvi come un «rifiuto della modernità». Al centro dell’affondo, l’accusa al pontefice, tonante quanto generica, di «aver voltato le spalle al Concilio Vaticano II» con il rischio di «tornare alla Chiesa pacelliana e anche più indietro». Un’analisi nient’affatto unanime nella cultura laica, come dimostra l’opinione di Salvatore Natoli, che su Avvenire, sempre domenica, commentando il testo papale alla luce del pensiero cristiano, ha individuato elementi di comunanza tra credenti e non credenti proprio sul terreno della speranza. Anche per questo, l’impressione che l’analisi scalfariana sia sopra le righe è forte e diffusa. C’è chi - come Paola Ricci Sindoni, docente di filosofia morale all’Università di Messina parla addirittura di «analfabetismo religioso», e avverte che «la speranza di cui parla il Papa è incomprensibile per chi prescinde dalla comprensione di un universo retto dal mistero di Cristo, per chi si rifiuta di entrare in quell’universo linguistico e simbolico che sotto­pone a critica».

Secondo la studiosa, «Scalfari parla di ontologia e non capisce che l’orizzonte di comprensione è legato a un evento fondatore, il Cristo, che guarda alla storia attraverso la sua Chiesa». Questo 'evento fondatore', dal punto di vista cristiano, scardina la filosofia della storia illuministica alla luce di un’impostazione deduttiva che smonta l’accusa scalfariana, secondo cui l’enciclica sarebbe costruita intorno alla tautologia «speranza- fede-certezza». «Dall’evento fondatore deduco la storia della salvezza e leggo la realtà alla luce della fede - spiega la Ricci Sindoni - e Scalfari può non condividere questa 'logica' ma non può prescinderne se vuole criticarla. Il problema dell’ex direttore è che quando mi muovo all’interno della fede cristiana - ma sarebbe lo stesso se parlassimo dell’Islam - non posso applicare il linguaggio logico matematico, perché in quest’universo di comprensione la logica è simbolica e non per questo meno seria».

Se la critica di Scalfari alla teologia ratzingeriana per la Ricci Sindoni è infondata sotto il profilo ermeneutico, la sua appassionata difesa dell’illuminismo arriva in ritardo di qualche secolo: «l’Adorno, che era ebreo e non cristiano, ha messo in evidenza le repliche della storia alla perversione illuminista: la ragione non trova in se stessa una legge che neutralizzi quanto vi è di disumano nell’uomo, perché questa legge va cercata nella fede e questo Papa è uno dei massimi fautori di un rinnovato rapporto tra fede e ragione. Ma purtroppo, Scalfari ragiona come un illuminista del ’700...».

Un veteroilluminista ma fors’anche un intellettuale deluso, umanamente deluso, incalza Vittorio Possenti, ordinario di filosofia politica all’Università di Venezia. Il punto dolente, in questo caso, riguarda la relazione tra la speranza e le cose ultime, ovvero i novissimi - morte, inferno, giudizio e paradiso - che sono indubbiamente uno snodo decisivo per comprendere il testo di Benedetto XVI. Domenica, l’ex direttore di Repubblica ha definito «suggestivo» il «percorso» delle anime alla vita eterna, regolato dal duplice principio della giustizia e della misericordia di Dio, prospettando però il rischio di «travalicare nell’ideologia e da questa alla favola per bambini». Per Possenti, nel giornalista «il quale, significativamente, fa riferimento a una salvezza che 'l’anima amorosa di tutti ardentemente spera', si legge un’inquietudine circa il destino eterno di tutti, cui hanno dato un’efficace risposta Von Balthasar e Maritain. A proposito di quest’ultimo consiglierei a Scalfari di leggere Le cose del cielo (editore Massimo di Milano), perché forse vi troverebbe un lenimento alla sua delusione, nell’ambito di un’ipotesi teologica straordinaria, peraltro poco nota, che spiega come la giustizia di Dio non venga meno con la sua misericordia, cosa di cui lui mi pare che proprio non riesca a capacitarsi». Possenti ammette che l’enciclica presenta «accenti critici dedicati a Marx e al marxismo molto più cauti e - sono parole di Scalfari - più riguardosi di quelli riservati all’Illuminismo» ma precisa: «il Papa mantiene intatta la critica all’ateismo e all’antropologia marxista. Questo diverso 'atteggiamento' è semplicemente il riflesso del fatto che il marxismo, diversamente dall’illuminismo, ha individuato e denunciato un problema, quello della povertà sfruttata, che è ancora attuale». Lo stesso Possenti, d’altronde, contesta nel merito le deduzioni scalfariane circa la 'chiusura' della Chiesa ratzingeriana («il fatto che l’enciclica sia indirizzata a vescovi, presbiteri, diaconi e fedeli non è una stranezza, Scalfari controlli pure: tutte le encicliche hanno un destinatario...») e boccia come «non condivisibili» e «non dimostrate » le accuse di aver voltato le spalle al Concilio Vaticano II, che definisce «pregiudiziali» nell’editoriale di Repubblica. Lo studioso ricorda il contributo dato da Ratzinger al Concilio: «Già da cardinale e anche più recentemente, parlando al sacro collegio, Benedetto XVI ha dimostrato di muoversi in assoluta continuità con il Vaticano II. La sua ermeneutica è chiarissima: per il Papa il Concilio fu un rinnovamento nella continuità e non una sorta di rivoluzione ».

Su questo concetto torna Cardini, replicando così a Scalfari: «Il ventre che partorisce il pregiudizio anticlericale è sempre gravido, malauguratamente. Di fronte al richiamo all’eternità del messaggio evangelico e alla forza della tradizione o al ruolo della gerarchia, il mondo laicista reagisce, come al solito, chiamando in causa una lettura del Concilio che, oltre ad essere parziale e forzata, è ormai una sorta di appello mitico. Secondo i laicisti, il Vaticano II avrebbe 'svecchiato' la Chiesa facendola inginocchiare di fronte al mondo. Il Concilio non è mai stato questo. Analogamente, se per modernità si intende la relativizzazione di Dio, la Chiesa non l’ha mai accettata e simili interpretazioni si basano su pregiudizi e scarsa conoscenza della Chiesa e del Concilio». (Paolo Viana, Avvenire, 4 dicembre 2007)

 

 


 

Il Papa alle Ong cattoliche: promuovere la dottrina sociale della Chiesa

Il Papa, nel suo discorso, ha difeso la necessità di un ordine mondiale fondato non sulle ideologie e gli interessi di parte, ma sul riconoscimento della legge morale naturale. Infatti, ha rilevato, le discussioni sui grandi temi, a livello internazionale, sono spesso «segnate da una logica relativistica che considera il rifiuto della verità sull’uomo come la sola garanzia ad una coesistenza pacifica tra i popoli». Logica destinata a «negare la possibilità di un’etica basata sul riconoscimento della legge morale naturale». In questo modo abbiamo, nei fatti, «l’imposizione di una nozione di legge e politica che alla fine» fà sì che il consenso tra gli Stati sia «l’unica vera base delle norme internazionali». D’altronde, ha aggiunto, si tratta di un consenso «a volte condizionato da interessi di breve termine e manipolato da pressioni ideologiche». Secondo Benedetto XVI, «i frutti amari di questa logica relativistica sono tristemente evidenti: pensiamo al tentativo di considerare diritti umani le conseguenze di un certo stile di vita centrato su se stessi». E, ancora, «la mancanza di preoccupazione per i bisogni economici e sociali delle nazioni povere come anche il disprezzo per la legge umanitaria e una difesa selettiva dei diritti umani ».

Di qui l’appello alle Ong cattoliche a sviluppare la conoscenza della dottrina sociale della Chiesa e di promuoverla attraverso iniziative «animate da spirito di solidarietà e libertà». Il Papa ha anche sottolineato gli aspetti positivi della cooperazione tra i governi. Una cooperazione, che specie «dopo la tragica distruzione delle due guerre mondiali ha contribuito in modo significativo alla creazione di un ordine internazionale più giusto». I lavori del congresso, erano stati venerdì dal cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di stato e dal successivo intervento di monsignor Pietro Parolin, sottosegretario per i rapporti con gli stati. L’obiettivo è costituire una sorta di «task force » per supportare l’azione della Santa Sede sulla scena internazionale a difesa della dignità umana. (Fabrizio Mastrofini, Avvenire, 4 dicembre 2007)

 

 


 

L'ecumenismo del cardinale Kasper: prima di tutto, la verità

Dell'enciclica "Spe salvi" sulla speranza, resa pubblica l'ultimo giorno di novembre, Benedetto XVI aveva dato notizia otto giorni prima ai cardinali convocati a Roma da tutto il mondo, nella riunione che ha aperto il concistoro.

Per molti di loro l'annuncio fu una sorpresa.

Il tema al centro della discussione non era però quello dell'enciclica, ma lo stato attuale dei rapporti ecumenici tra la Chiesa cattolica e le altre confessioni cristiane.

La riunione dei cardinali col papa ha occupato l'intera giornata di venerdì 23 novembre. Benedetto XVI ha affidato l'incarico di introdurre la discussione al cardinale Walter Kasper, presidente del pontificio consiglio per l’unione dei cristiani.

Terminata la relazione di Kasper sono intervenuti 17 cardinali. L'incontro era a porte chiuse, ma la sala stampa della Santa Sede, in un succinto sommario, ha riferito che alcuni hanno indicato nell'attuazione della dottrina sociale della Chiesa e nella difesa della vita e della famiglia uno dei campi più promettenti per l'ecumenismo. Altri hanno proposto di proseguire la "purificazione della memoria". Altri ancora hanno chiesto maggiore attenzione nell'usare "forme di comunicazione attente a non ferire la sensibilità degli altri cristiani".

Quest'ultima richiesta era anche nella relazione di Kasper. A proposito delle “Cinque risposte” pubblicate lo scorso luglio dalla congregazione per la dottrina della fede, il cardinale aveva fatto notare che esse "hanno suscitato perplessità ed originato un certo malumore" in alcune confessioni cristiane, specie protestanti. E aveva aggiunto:

"Sarebbe auspicabile rivedere la forma, il linguaggio e la presentazione al pubblico di simili dichiarazioni".

Dopo la pausa di mezzogiorno, nel pomeriggio sono intervenuti altri 16 cardinali.

Alcuni hanno allargato l'attenzione ai rapporti con gli ebrei e con l'Islam. Si è parlato del "segno incoraggiante" rappresentato dalla lettera delle 138 personalità musulmane e dalla visita del re dell'Arabia Saudita al Santo Padre.

E a questo proposito, pochi giorni dopo è stata stata resa pubblica una lettera del cardinale segretario di stato Tarcisio Bertone al principe giordano Ghazi bin Muhammad bin Talal, con l'annuncio di una futura udienza del papa a lui e a un gruppo di firmatari della lettera dei 138, e di un'agenda di dialogo "su un effettivo rispetto della dignità di ogni persona umana, sulla conoscenza obiettiva della religione dell’altro, sulla condivisione dell’esperienza religiosa e, infine, sull'impegno comune alla promozione del rispetto e dell'accettazione reciproci tra i giovani".

Una breve risposta del cardinale Kasper su alcuni punti particolari e un intervento del papa hanno concluso la giornata.

La sala stampa della Santa Sede non ha messo in rete la relazione di Kasper, né essa è rintracciabile nel sito del Vaticano. L'ha però stampata "L'Osservatore Romano" del giorno dopo.

In ogni caso la sua lettura è di grande interesse. Perché descrive con chiarezza – da parte di chi ha autorità in materia – lo stato attuale dei rapporti ecumenici, nell'ordine:

– con le Chiese orientali precalcedoniane;

– con le Chiese ortodosse di tradizione bizantina, siriana e slava;

– con le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma protestante;

– con le Comunità "evangelical";

– con le Comunità carismatiche e pentecostali.

Kasper accompagna questa diagnosi con indicazioni su come proseguire fruttuosamente il cammino.

(Sandro Magister, www.chiesa, 4 dicembre 2007))

 

Ecco il suo intervento:

«Presentare informazioni e riflessioni sulla situazione ecumenica attuale nel tempo a disposizione, sarà possibile soltanto per grandi linee e in modo purtroppo non esaustivo. Tuttavia, spero che questa mia relazione possa mettere in luce l’agire della provvidenza divina, che conduce verso l’unità i cristiani separati per fare della loro testimonianza un segno sempre più chiaro davanti al mondo.

* I. Inizierò con una prima osservazione, che ritengo essenziale. Ciò che noi chiamiamo ecumenismo – da distinguere dal dialogo interreligioso – trova il suo fondamento nel testamento lasciatoci da Gesù stesso la vigilia della sua morte: “Ut unum sint” (Giovanni 17,21). Il Concilio Vaticano II ha definito la promozione dell’unità dei cristiani come uno dei sui principali intenti (Unitatis redintegratio 1) e come un impulso dello Spirito Santo (UR 1, 4). Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato che la ricerca ecumenica è una via irreversibile (Ut unum sint 3), e papa Benedetto XVI, fin dal primo giorno del suo pontificato, ha assunto come impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Egli è cosciente che per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo (omelia del 20 aprile 2005 tenuta davanti al collegio cardinalizio). L’ecumenismo non è pertanto una scelta opzionale, ma è un sacro obbligo.

Naturalmente, ecumenismo non è sinonimo né di umanesimo bonario, né di relativismo ecclesiologico. Esso poggia sulla ferma consapevolezza che la Chiesa cattolica ha di se stessa e sui principi cattolici, di cui parla il decreto sull’ecumenismo (UR 2-4). È un ecumenismo della verità e della carità; le due sono intimamente connesse e non possono sostituirsi a vicenda. Innanzitutto va rispettato il dialogo della verità. Le norme concrete sono esposte in modo vincolante nel “Direttorio ecumenico” del 1993.

Il risultato più significativo dell’ecumenismo negli ultimi decenni – ed anche il più gratificante – non sono i vari documenti, ma la ritrovata fraternità, il fatto che ci siamo riscoperti fratelli e sorelle in Cristo, che abbiamo imparato ad apprezzarci gli uni gli altri ed abbiamo intrapreso insieme il cammino verso la piena unità (cf. UUS 42). Su questo cammino, la cattedra di Pietro è diventata nel corso degli ultimi quarant’anni un punto di riferimento sempre più importante per tutte le Chiese e tutte le Comunità ecclesiali. Se all’entusiasmo iniziale è subentrato un atteggiamento di maggiore sobrietà, ciò dimostra che l’ecumenismo è diventato più maturo, più adulto. Esso è ormai una realtà quotidiana, percepita come una normalità nella vita della Chiesa. È con grande gratitudine che dobbiamo riconoscere in tale sviluppo l’agire dello Spirito che guida la Chiesa.

In maniera più specifica, possiamo distinguere tre campi nell’ecumenismo. Innanzitutto, vanno menzionate le relazioni con le antiche Chiese orientali e con le Chiese ortodosse del primo millennio, che noi riconosciamo come Chiese in quanto, a livello ecclesiologico, come noi hanno mantenuto la fede e la successione apostoliche. In secondo luogo, ricordiamo le relazioni con le Comunità ecclesiali nate direttamente o indirettamente – come le Chiese libere – dalla Riforma del XVI secolo; esse hanno sviluppato una propria ecclesiologia prendendo a fondamento la Sacra Scrittura. Infine, la storia recente del cristianesimo ha conosciuto una cosiddetta terza ondata, quella del movimento carismatico e del movimento pentecostale, sorti all’inizio del XX secolo e diffusisi nel frattempo in tutto il mondo con una crescita esponenziale. L’ecumenismo deve dunque far fronte ad una realtà variegata e differenziata, caratterizzata da fenomeni molto diversi a seconda dei contesti culturali e delle chiese locali.

* II. Cominciamo con le Chiese del primo millennio. Già nei primi dieci anni di dialogo con le Chiese orientali pre-calcedoniane, ovvero nel periodo tra il 1980 ed il 1990, abbiamo realizzato importanti risultati. Grazie al consenso raggiunto tra papa Paolo VI e papa Giovanni Paolo II con i patriarchi rispettivi è stato possibile superare le antiche controversie cristologiche sorte intorno al Concilio di Calcedonia (451) e, per quanto riguarda la Chiesa assira dell’oriente, intorno al Concilio di Efeso (381).

Nella sua seconda fase, il dialogo si è concentrato sull’ecclesiologia, ovvero sul concetto di comunione ecclesiale e sui suoi criteri. Il prossimo incontro è previsto a Damasco dal 27 gennaio al 2 febbraio 2008. In tale sede, sarà discussa per la prima volta la bozza di un documento su “Natura, costituzione e missione della Chiesa”. Grazie a questo dialogo, Chiese di antica tradizione e addirittura di tradizione apostolica, prendono di nuovo contatto con la Chiesa universale dopo aver vissuto ai suoi margini per 1500 anni. Che ciò accada solo lentamente, passo per passo, è del tutto normale date le circostanze, ovvero i lunghi secoli di separazione e le grandi differenze di cultura e di mentalità.

Il dialogo con le Chiese ortodosse di tradizione bizantina, siriana e slava è stato avviato ufficialmente nel 1980. Con tali Chiese abbiamo in comune i dogmi del primo millennio, l’Eucaristia e gli altri sacramenti, la venerazione di Maria madre di Dio e dei santi, la struttura episcopale della Chiesa. Consideriamo queste Chiese, insieme alle antiche Chiese orientali, come Chiese sorelle delle chiese locali cattoliche. Differenze esistevano già nel primo millennio, ma non erano percepite in quell’epoca come un fattore di divisione all’interno della Chiesa. La separazione vera e propria è avvenuta tramite un lungo processo di allontanamento e di alienazione, a causa di una mancanza di comprensione e di amore reciproci, come ha osservato il Concilio Vaticano II (UR 14). Quello che avviene oggi è dunque, necessariamente, un processo inverso di mutua riconciliazione.

I primi importanti passi sono stati compiuti già durante il Concilio. Va ricordato ad esempio l’incontro e lo scambio di corrispondenza tra papa Paolo VI ed il patriarca ecumenico Athenagoras, il famoso “Tomos agapis”, e la cancellazione dalla memoria della Chiesa delle scomuniche reciproche del 1054, nel penultimo giorno del Concilio. Su tali basi, è stato possibile riprendere alcune forme di comunione ecclesiale del primo millennio: lo scambio di visite, di messaggi e di missive tra il papa ed i patriarchi, tra cui soprattutto il patriarca ecumenico; la cordiale coesistenza e collaborazione in molte chiese locali; la concessione per uso liturgico di edifici di culto da parte della Chiesa cattolica a cristiani ortodossi che vivono da noi nella diaspora, in segno di ospitalità e di comunione. Durante l’Angelus pronunciato in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo del 2007, papa Benedetto XVI ha sottolineato che con queste Chiese siamo già in una comunione ecclesiale pressoché piena.

Nei primi dieci anni del dialogo, dal 1980 al 1990, è stato puntualizzato ed evidenziato ciò che abbiamo in comune a proposito dei sacramenti (soprattutto dell’Eucaristia) e del ministero episcopale e sacerdotale. Tuttavia, la svolta politica del 1989-90, invece di semplificare le nostre relazioni, le ha complicate. Nel ritorno alla vita pubblica delle Chiese cattoliche orientali, dopo anni di brutali persecuzioni e di eroica resistenza pagata anche al prezzo del sangue, è stata vista dalle Chiese ortodosse la minaccia di un nuovo “uniatismo”. Così, negli anni novanta, nonostante gli importanti chiarimenti apportati dall’incontro di Balamand (1993) a Baltimora (2000) il dialogo si è arenato. La situazione di crisi si è acuita soprattutto nelle relazioni con la Chiesa ortodossa russa dopo l’erezione canonica di quattro diocesi in Russia nel 2002.

Grazie a Dio, dopo molti sforzi condotti con pazienza, lo scorso anno è stato possibile riavviare il dialogo; nel 2006 si è tenuto un incontro a Belgrado e circa un mese fa ci siamo nuovamente riuniti a Ravenna. In tale occasione, è emerso un decisivo miglioramento a livello di atmosfera e di rapporti, nonostante la partenza della delegazione russa per motivi inter-ortodossi. È iniziata così una promettente terza fase di dialogo.

Il documento di Ravenna, intitolato “Conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa”, ha segnato una svolta importante. Per la prima volta, gli interlocutori ortodossi hanno riconosciuto un livello universale della Chiesa ed hanno ammesso che anche a questo livello esiste un protos, un primate, che può essere soltanto il vescovo di Roma secondo la taxis della Chiesa antica. Tutti i partecipanti sono consapevoli che questo è soltanto un primo passo e che il cammino verso la piena comunione ecclesiale sarà ancora lungo e difficile; tuttavia, con questo documento abbiamo posto una base per il dialogo futuro. Il tema che verrà affrontato nella prossima sessione plenaria sarà: “Il ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio”.

Per quanto riguarda più specificatamente il patriarcato di Mosca della Chiesa ortodossa russa, le relazioni negli ultimi anni si sono sensibilmente appianate. Possiamo dire che non c’è più gelo ma disgelo. Dal nostro punto di vista, un incontro tra il Santo Padre ed il patriarca di Mosca sarebbe utile. Il Patriarcato di Mosca non ha mai escluso tale incontro categoricamente, ma ritiene opportuno risolvere prima i problemi che esistono a suo parere in Russia e soprattutto in Ucraina. Va ricordato comunque che molti incontri hanno luogo anche ad altri livelli. Tra questi menzioniamo la recente visita del patriarca Alexij a Parigi, considerata da entrambe le parti un passo importante.

Riassumendo, possiamo affermare che saranno ancora necessarie una continua purificazione della memoria storica e molte preghiere affinché, sulla base comune del primo millennio, riusciamo a colmare la frattura tra oriente ed occidente ed a ripristinare la piena comunione ecclesiale. Nonostante le difficoltà che permangono, forte e legittima è la speranza che, con l’aiuto di Dio e grazie alla preghiera dei tanti fedeli, la Chiesa, dopo la divisione del secondo millennio, tornerà nel terzo a respirare con i suoi due polmoni.

* III. Passiamo adesso alle relazioni con le Comunità ecclesiali nate dalla Riforma. Segni incoraggianti si sono verificati anche in questo campo. Tutte le Comunità ecclesiali si sono dette interessate al dialogo e la Chiesa cattolica è in dialogo con quasi tutte le Comunità ecclesiali. Un certo consenso è stato raggiunto nell’ambito delle verità di fede, soprattutto per ciò che riguarda le questioni fondamentali della dottrina sulla giustificazione. In molti luoghi esiste una fruttuosa collaborazione nella sfera sociale e umanitaria. Si è diffuso progressivamente un atteggiamento di fiducia reciproca e di amicizia, caratterizzato da un profondo desiderio di unità, che rimane tale nonostante ci siano, di tanto in tanto, toni più duri ed aspre delusioni. Di fatto, l’intensa rete di relazioni sia personali che istituzionali sviluppatasi nel frattempo è in grado di resistere alle occasionali tensioni.

Non c’è nessun arresto, ma un profondo cambiamento della situazione ecumenica. È lo stesso cambiamento sperimentato dalla Chiesa e dal mondo in generale. Qui mi limiterò a citare soltanto alcuni aspetti di questa trasformazione.

1) Dopo essere pervenuti ad un consenso fondamentale sulla dottrina della giustificazione, ci troviamo ora a dover nuovamente discutere di temi controversi classici, tra cui soprattutto l’ecclesiologia ed i ministeri ecclesiali (cf. UUS 66). A tal proposito, le “Cinque risposte” rilasciate lo scorso luglio dalla congregazione per la dottrina della fede hanno suscitato perplessità ed originato un certo malumore. L’agitazione sollevatasi intorno a tale documento era perlopiù ingiustificata, poiché il testo non afferma niente di nuovo, ma ribadisce in modo riassuntivo la dottrina cattolica. Tuttavia, sarebbe auspicabile rivedere la forma, il linguaggio e la presentazione al pubblico di simili dichiarazioni.

2) Le differenti ecclesiologie portano necessariamente ad avere visioni differenti di ciò che è lo scopo dell’ecumenismo. Così è un problema il fatto che ci manchi un concetto comune di unità ecclesiale quale obiettivo da raggiungere. Tale problema è ancora più grave se consideriamo che la comunione ecclesiale è per noi cattolici il presupposto per una comunione eucaristica e che l’assenza di una comunione eucaristica comporta grandi difficoltà pastorali, soprattutto nel caso di coppie e famiglie miste.

3) Mentre da una parte ci sforziamo di superare le vecchie controversie, dall’altra emergono nuove divergenze nel campo etico. Ciò riguarda in particolare le questioni attinenti alla difesa della vita, al matrimonio, alla famiglia e alla sessualità umana. A causa di questi nuovi fossati che si vengono a scavare, la testimonianza comune pubblica è notevolmente indebolita se non addirittura impossibilitata. La crisi che si verifica all’interno delle rispettive Comunità è esemplificata chiaramente dalla situazione insorta nella Comunione anglicana, che non è un caso isolato.

4) La teologia protestante, segnata durante i primi anni del dialogo dalla “rinascita luterana” e dalla teologia della Parola di Dio di Karl Barth, è ora ritornata ai motivi della teologia liberale. Di conseguenza, costatiamo che, da parte protestante, quei fondamenti cristologici e trinitari che erano stati finora un presupposto comune vengono a volte diluiti. Ciò che ritenevamo essere il nostro patrimonio comune ha cominciato a sciogliersi qua e là come i ghiacciai nelle Alpi.

Ma ci sono anche forti controcorrenti sorte in reazione ai fenomeni sopra menzionati. Si riscontra in tutto il mondo una forte crescita di gruppi evangelicali, le cui posizioni coincidono perlopiù con le nostre nelle questioni dogmatiche fondamentali, soprattutto in campo etico, ma sono spesso molto divergenti per l’ecclesiologia, la teologia dei sacramenti, l’esegesi biblica e la comprensione della tradizione. Vi sono raggruppamenti di Chiesa alta che desiderano far valere nell’anglicanesimo e nel luteranesimo elementi della tradizione cattolica per ciò che riguarda la liturgia ed il ministero ecclesiale. A questi si aggiungono sempre più comunità monastiche che, vivendo spesso secondo la regola benedettina, si sentono vicine alla Chiesa cattolica. Inoltre, esistono comunità pietiste che, davanti alla crisi intorno alle questioni etiche, avvertono un certo disagio nelle Comunità ecclesiali protestanti; essi guardano con gratitudine alle chiare prese di posizione del Papa, che non molto tempo fa avevano apostrofato con toni meno benevoli.

Tutti questi gruppi, insieme alle comunità cattoliche di vita religiosa ed ai nuovi movimenti spirituali, hanno recentemente costituito “reti spirituali”, raggruppate spesso intorno a monasteri come Chevetogne, Bose e soprattutto Taizé ed anche in movimenti quali il movimento dei Focolari e Chemin neuf. In tal modo, possiamo dire che l’ecumenismo torna alle sue origini in piccoli gruppi di dialogo, di preghiera, di studio biblico. Recentemente questi gruppi hanno preso la parola anche pubblicamente, ad esempio nei grandi raduni dei movimenti a Stoccarda, nel 2004 e nel 2007. Emergono così, accanto ai dialoghi ufficiali diventati spesso più difficili, nuove forme di dialogo promettenti.

Questa panoramica generale ci mostra dunque che non esiste solamente un ravvicinamento ecumenico, ma che ci sono anche frammentazioni e forze centrifughe al lavoro. Se prendiamo in considerazione inoltre le numerose “Chiese” così dette indipendenti che continuano a sorgere soprattutto in Africa ed il proliferare di gruppuscoli spesso molto aggressivi, ci rendiamo conto che il paesaggio ecumenico è ora molto differenziato e confuso. Questo pluralismo non è altro che lo specchio della situazione pluralista della società così detta post-moderna, che spesso conduce ad un relativismo religioso.

Nel contesto attuale, particolarmente importanti sono pertanto incontri quali l’assemblea plenaria del Consiglio Ecumenico delle Chiese che ha avuto luogo il febbraio dello scorso anno a Porto Alegre (Brasile), il “Global Christian Forum” e l’“Assemblea ecumenica europea” tenutasi nel settembre del 2007 a Sibiu/Hermannstadt (Romania). Questi convegni vogliono riunire nel dialogo i vari gruppi divergenti e, per quanto possibile, tenere insieme il movimento ecumenico con le sue luci e le sue ombre e le sue nuove sfide in una situazione che è cambiata e sta tuttora cambiando rapidamente.

* IV. Parlare di pluralismo mi riconduce alla terza ondata della storia del cristianesimo, ovvero la diffusione dei gruppi carismatici e pentecostali, i quali, con circa 400 milioni di fedeli in tutto il mondo, sono al secondo posto tra le comunità cristiane in termini numerici e conoscono una crescita esponenziale. Privi di una struttura comune o di un organo centrale, essi sono tra loro molto diversi. Si considerano come il frutto di una nuova Pentecoste; di conseguenza, il Battesimo dello Spirito riveste per loro un ruolo fondamentale. Riferendosi a loro, papa Giovanni Paolo II aveva già fatto notare che questo fenomeno non deve essere considerato soltanto in modo negativo, poiché, al di là degli innegabili problemi, esso testimonia il desiderio di un’esperienza spirituale. Ciò non toglie che purtroppo molte di queste comunità sono nel frattempo diventate una religione che promette una felicità terrena.

Con i pentecostali classici è stato possibile intavolare un dialogo ufficiale. Con altri sussistono serie difficoltà a causa dei loro metodi missionari alquanto aggressivi. Il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, davanti a questa sfida, ha organizzato in vari continenti seminari per vescovi, teologi e laici attivi nell’ecumenismo: in America Latina (Sao Paolo e Buenos Aires), in Africa (Nairobi e Dakar), in Asia (Seoul e Manila). Il risultato di questi seminari traspare anche nel documento finale di Aparecida (2007) dell’assemblea generale dei vescovi latino-americani e caraibici. È innanzitutto necessario fare un esame di coscienza pastorale e chiederci in modo auto-critico: perché tanti cristiani lasciano la nostra Chiesa? Non dobbiamo cominciare col domandarci cosa è che non va nei pentecostali, ma quali sono le nostre carenze pastorali. Come possiamo reagire a questa nuova sfida con un rinnovamento liturgico, catechetico, pastorale e spirituale?

* V. Questa domanda ci conduce alla domanda conclusiva: in che modo proseguire il cammino ecumenico? Non è possibile dare un’unica risposta. La situazione è troppo diversa a seconda delle regioni geografiche, degli ambienti culturali, delle chiese locali. Sono le singole conferenze episcopali che dovranno assumersi le loro responsabilità.

In linea di principio dobbiamo partire dal comune patrimonio di fede e restare fedeli a ciò che con l’aiuto di Dio abbiamo già raggiunto ecumenicamente. Per quanto possibile dobbiamo dare una testimonianza comune di questa fede in un mondo sempre più secolarizzato. Ciò significa, nella situazione attuale, anche riscoprire e rafforzare i fondamenti di questa nostra fede. Di fatti, tutto vacilla e si svuota di senso se non abbiamo una fede salda e consapevole nel Dio vivente Trino e Unico, nella divinità di Cristo, nella forza salvifica della croce e della risurrezione. Per chi non sa più cosa è il peccato e cosa è il coinvolgimento nel peccato, la giustificazione del peccatore non ha nessuna rilevanza.

Soltanto poggiando sulla fede comune, è possibile dialogare su quelle che sono le nostre differenze. E ciò deve avvenire in modo chiaro ma non polemico. Non dobbiamo offendere la sensibilità degli altri o discreditarli; non dobbiamo puntare il dito su ciò che i nostri interlocutori ecumenici non sono e su ciò che essi non hanno. Piuttosto, dobbiamo dare testimonianza della ricchezza e della bellezza della nostra fede in modo positivo ed accogliente. Dagli altri ci aspettiamo lo stesso atteggiamento. Se questo accade, allora tra noi ed i nostri interlocutori potrà esserci, come dice l’enciclica “Ut unum sint” (1995), uno scambio non solo di idee ma di doni, che arricchiranno entrambi (UUS 28; 57). Tale ecumenismo di scambio non è un impoverimento, ma un arricchimento reciproco.

Nel dialogo fondato sullo scambio spirituale il dialogo teologico avrà anche nel futuro un ruolo essenziale. Però sarà fecondo solo se verrà sostenuto da un ecumenismo della preghiera, della conversione del cuore e della santificazione personale. L’ecumenismo spirituale è infatti l’anima stessa del movimento ecumenico (UR 8; UUS 21-27) e deve essere promosso da noi in prima linea. Senza una vera spiritualità di comunione, che permette di far spazio all’altro senza rinunciare alla propria identità, ogni nostro sforzo sfocerebbe in un arido e vuoto attivismo.

Se facciamo nostra la preghiera di Gesù pronunciata alla vigilia della sua morte, non dobbiamo perderci di coraggio e vacillare nella nostra fede. Come dice il Vangelo, dobbiamo essere fiduciosi che ciò che chiediamo nel nome di Cristo verrà esaudito (Giovanni 14,13). Quando, dove e come non saremo noi a deciderlo. Questo va lasciato a colui che è il Signore della Chiesa e che radunerà la sua Chiesa dai quattro venti. Noi dobbiamo accontentarci di fare del nostro meglio, riconoscendo con gratitudine i doni ricevuti, ovvero ciò che l’ecumenismo ha finora realizzato e guardare al futuro con speranza. Basta gettare con un minino di realismo uno sguardo ai “segni dei tempi” per comprendere che non c’è nessuna alternativa realistica all’ecumenismo, e soprattutto nessuna alternativa di fede». (Walter Kasper, l’Osservatore Romano, 24 novembre 2007)

 

 


 

La casta gay, i nuovi intoccabili

Alberto Ruggin, diplomato di Este, è gay, e fin qui è affar suo. Alberto Ruggin va a confessarlo in Tv, a Ciao Darwin, programma condotto su Canale 5 da Paolo Bonolis, che lo include col numero 23 nella squadra omosex schierata contro la squadra etero, e da lì in avanti diventa affare di 5 milioni di spettatori.

Alberto Ruggin è, o perlomeno ha dichiarato di essere, «capo dei chierichetti» (a 21 anni?) e solista del coro nella basilica di Santa Maria delle Grazie, non una chiesa qualsiasi, un santuario, e questo, se l’interessato permette, è anche e soprattutto affare del parroco, don Paolino Bettanin. Il quale ha deciso di reagire come meglio credeva: escludendo il giovanotto da entrambe le mansioni liturgiche. Così Ruggin è finito sui giornali, come forse sperava in cuor suo, e questo ancora una volta diventa anche affar nostro, di tutti noi che i giornali li facciamo e li leggiamo.

Ha agito bene o male il reverendo nel retrocederlo al rango di semplice fedele?

Giudicate voi dalle successive dichiarazioni del ventunenne: «Voglio che vengano autorizzate le unioni omosessuali e per questo mi impegnerò politicamente nel mio Comune».

Dal punto di vista dell’ortodossia, nulla si può rimproverare a don Paolino: non ha fatto altro che attenersi alle prescrizioni dettate dall’altro Paolo nella Prima lettera ai Corinzi: «Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio».

Nell’attesa del giudizio finale, si presume che le medesime categorie, tutte peraltro più o meno rappresentate nella Chiesa, debbano almeno essere dispensate dal provvedere alla gestione del regno sulla Terra, anche se le indicazioni del convertito di Tarso al riguardo non appaiono altrettanto esplicite.

Dal punto di vista dell’opportunità, il sacerdote ha commesso un errore inescusabile: è andato a infilarsi nel tritacarne mediatico.

Il che dimostra se non altro una grandissima ingenuità.

Avrebbe dovuto sapere che la piazza era già saldamente presidiata dal suo ex confratello don Sante Sguotti, già parroco di Monterosso, meno di 30 chilometri da Este [in questi giorni il suo libro di autodifesa economico- propagandistica campeggia sugli scaffali delle librerie!]. Troppa grazia, Sant’Antonio, per la sola diocesi di Padova, in appena tre mesi.

«Il parroco di Este ha superato in omofobia le posizioni più retrive della Chiesa cattolica», ha sentenziato Alessandro Zan, presidente dell’Arcigay veneto. Omofobia. Accusa tremenda.

Una parola gettonatissima, di questi tempi. Designa l’«avversione per l’omosessualità e gli omosessuali». L’Accademia della Crusca non la registra nemmeno. L’Ansa la usò per la prima volta (e una sola volta) nel 1984. Dall’inizio di quest’anno la medesima agenzia di stampa l’ha già ripetuta 385 volte. Sullo Zingarelli risulta inventata nel 1985. Penso di non essere distante dal vero nell’attribuire la paternità dello sdoganamento semantico all’onorevole Franco Grillini, presidente emerito dell’Arcigay e deputato diessino.

Ai tempi in cui il neologismo fu coniato, gli omosessuali non avevano diritto di cittadinanza non solo nelle sagrestie ma neppure nel Pci. Era il 1986 quando Giancarlo Pajetta, alla vista di una foto che ritraeva Grillini con un gruppo di dirigenti gay davanti al Bottegone, reagì con uno dei suoi lapidari niet: «Io qui i finocchi non ce li voglio».

Rimaneva pur sempre il partito che 37 anni prima, a Udine, aveva espulso l’omosessuale Pier Paolo Pasolini.

Il mio amico Claudio Sabelli Fioretti ha appena pubblicato un libro-intervista con Grillini. S’intitola: Gay. Molti modi per dire ti amo. Viene presentato così: «Volete sapere quanti calciatori in Italia sono gay? Volete leggere le polemiche fra Grillini e i cardinali omofobi? Volete sapere che cos’è il gaydar? Volete indovinare quale presidente della Repubblica era omosessuale?».

Quante morbose curiosità: non avevano detto d’essere come gli altri?

La pubblicità contempla un quinto interrogativo, assai sintomatico: «Volete capire perché più si è omofobi più si è omosessuali?». Suona minaccioso. Si può tradurre così: se ci critichi tanto, vuol dire che sei come noi. Curioso modo di procedere: viene rovesciato su chi osa dissentire da certi stili di vita il sospetto d’appartenere a una categoria che pretende legittimazione naturale e giuridica. Insomma, più sei omofobo più sei normale. O no?

Mi sfugge allora in che cosa consista la straordinarietà delle rivelazioni di Grillini raccolte da Sabelli Fioretti.

La strategia della potentissima lobby gay appare chiara: non parlate di noi, se non per dirne bene.

Questo sì che è razzismo.

Significa davvero considerarli diversi da tutti. E su chi non si allinea, come il sacerdote di Este, sia anatema.

Un cantore si può escludere dal coro parrocchiale se stona. Ma per uno scrupolo morale no.

Qui bisogna mettersi d’accordo. Prima si accusa la Chiesa di non vigilare a sufficienza affinché a chierici e preti attratti da persone del loro stesso sesso sia impedito di riversare le proprie pulsioni all’interno di seminari e parrocchie. Poi ci si lamenta se un prevosto di paese, avuta pubblica e assordante notifica che il «capo dei chierichetti» si dichiara gay, ricorre spicciativamente a un allontanamento a scopo cautelativo, per non ritrovarsi nell’imbarazzante situazione di doversi un giorno giustificare con qualche genitore, immagino.

Certo, la decisione appare poco caritatevole e anche ingiusta, non essendosi il giovane in cerca di facile notorietà macchiato di alcuna colpa.

Ma mettetevi nella tonaca del parroco: che altro doveva fare, pover’uomo? Sorvolare? Fingere di non aver visto? Tollerare lo scandalo? Converrà ricordare, di passata, che la lettera Homosexualitatis problema stilata nel 1986 dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale che oggi è papa col nome di Benedetto XVI, bolla l’inclinazione omosessuale «come oggettivamente disordinata», concetto peraltro ribadito nel Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo 2358.

Qualche tempo fa Vittorio Messori mi ha spiegato che la Chiesa, nella sua saggezza di «mater et magistra», in passato aveva sempre fatto in modo che le persone con tendenze omosessuali rimanessero pecorelle nel gregge e non fossero ammesse ai sacri uffici.

Ma poi, in ossequio al politically correct che negli Stati Uniti scambiava questa forma di prudenza per un’intollerabile discriminazione, ha dovuto spalancare le porte delle istituzioni religiose a chiunque.

In precedenza l’ostracismo si estendeva anche a coloro «che sostengono la cosiddetta cultura gay», come si legge in un memorandum della Congregazione per l’educazione cattolica, non a caso redatto in lingua inglese. Occhio alla data: il documento è del 1985.

Lo stesso anno in cui entra nel vocabolario il sostantivo «omofobia».

Se oggi molte diocesi americane sono screditate e in bancarotta, subissate da richieste di risarcimento presentate dalle vittime del clero gay, lo si deve esattamente a questo: alla paura della Chiesa di apparire omofoba.

Per cui, parafrasando la frase pronunciata da Madame Roland, vittima della rivoluzione francese, un attimo prima che la lama della ghigliottina le separasse la testa dal collo, viene da chiedersi: omofobia, quanti delitti si commettono in tuo nome?

Qualche settimana fa è accaduto in Inghilterra un fatto emblematico. I giornali britannici di qualità, dal Times al Telegraph, ma anche quelli popolari, come il Daily Mail, ne hanno riferito con ampiezza. Idem la Bbc. In Italia silenzio di tomba.

Due gay dichiarati, Ian Wathey e Craig Faunch, che vivevano more uxorio a Pontefract, nello Yorkshire occidentale, sono stati lasciati liberi di violentare per lungo tempo i ragazzini dati loro in affidamento.

Ebbene, durante il processo è emerso che gli assistenti sociali del Metropolitan district council della città di Wakefield non avevano mosso un dito per paura di essere marchiati come «homophobic».

La coppia era anzi considerata «da trofeo». L’orientamento sessuale degli «educatori» non è stato giudicato un motivo significativo «per pensare l’impensabile».

I due omosex, fra i primi a poter diventare genitori adottivi nel Regno Unito, hanno ottenuto la custodia di 18 ragazzi in soli 15 mesi.

La coppia ha abusato di bambini di appena 8 anni.

Quando una madre è andata a esporre i suoi dubbi, gli assistenti sociali, sempre per non apparire omofobi, si sono accontentati dei chiarimenti forniti da Wathey e Faunch e hanno spedito a casa loro persino un quattordicenne affetto da una grave forma di autismo, la sindrome di Asperger, che è stato «curato» con dosi massicce di pornografia gay. Michelle Elliott, direttrice di Kidscape, un’organizzazione contro gli abusi infantili, ha commentato: «Il buonsenso è uscito dalla finestra quando hanno permesso alla political correctness di prendere il sopravvento». In Italia sta uscendo dalla porta principale.

(Stefano Lorenzetto, il Giornale 30 novembre 2007

 

 


 

Il nuovo ateismo è a senso unico

Michel Onfray, in Francia, più che come filosofo è noto come ateo militante (anzi, «ateo di servizio», come lui stesso si definisce). Passa da una conferenza a un talk show, in una girandola di occasioni pubbliche in cui diffonde un’accattivante filosofia edonista e libertaria, così facilmente recepibile da essere accusato di dispensare le stesse ricette di felicità che si possono trovare su Cosmopolitan. In Italia una sua versione meno brillante potrebbe essere Pierluigi Odifreddi, definito da alcuni come un «matematico da festival».

Sono figure nuove, alfieri di una violenta propaganda antireligiosa. René Rémond, lo storico e politologo francese da poco scomparso, nel suo ultimo libro (Il nuovo anticristianesimo, intervista con Marc Leboucher, ed. Lindau, pagg. 125, euro 13) non sottovaluta il fenomeno, e ribatte alle accuse, analizzandole a una a una. La più rovente è riassunta con efficacia dal titolo di un’intervista rilasciata dal filosofo: «Il cattolicesimo ci rende la vita impossibile». La fede in Cristo, dice Onfray, esalta il sacrificio e la sofferenza, promettendo un inesistente compenso oltremondano; intanto impedisce all’uomo di perseguire il suo scopo più naturale, la felicità ora e qui. A questa colpa ne aggiunge subito un’altra, quella di ostacolare la scienza e persino l’uso libero della ragione, pretendendo di limitare la ricerca scientifica. Del resto l’inimicizia tra fede e scienza risale ai tempi di Newton e Galileo, e rivela l’anima nera, aggressiva e fomentatrice di odio, del cristianesimo come di qualunque altra religione. Chi si ritiene possessore della verità, difficilmente può rispettare l’esistenza di altre verità relative, che vede come minacciose. Le religioni, soprattutto quelle monoteiste, portano con sé il germe antico del fanatismo e dell’intolleranza: «Gli oltremondi - scrive Onfray nel suo Trattato di ateologia - mi sembrano subito contromondi inventati da uomini stanchi, sfiniti, essiccati dai ripetuti viaggi tra le dune o sulle piste pietrose arroventate. Il monoteismo nasce dalla sabbia». La laicità sarebbe quindi uno spazio assediato da visioni del mondo arcaiche, intrinsecamente antimoderne, e garantito nella sua genuina purezza solo dall’ateismo.

Rémond risponde punto per punto; contesta un modello di felicità concepito come puro appagamento dei desideri individuali, e confuta con pacata ragionevolezza le accuse rivolte ai cristiani. Perché va detto che la nuova polemica antireligiosa non colpisce tutti i monoteismi «nati dalla sabbia» con la stessa acredine: incrociandosi con le autocensure nei confronti dell’Islam, con l’imbarazzo storico nei confronti dell’ebraismo, e - soprattutto - con la politica, si concentra sulla Chiesa cattolica. In una recente intervista, il cardinale Camillo Ruini avanza una sua spiegazione: ai laicisti piace la Chiesa che perde, non quella che vince. Se la Chiesa è sotto tiro, insomma, è per via della sua ritrovata centralità e capacità di attrazione: «Meglio contestata che irrilevante», è la significativa sintesi dell’ex presidente della Cei.

Luca Volontè, in un libro appena uscito, Furore giacobino (Aliberti editore, pagg. 349, euro 18,50), offre un’esauriente panoramica degli attacchi sferrati contro il mondo cattolico sulla stampa italiana, negli ultimi due anni. Il conflitto si addensa soprattutto intorno ai temi eticamente sensibili - statuto dell’embrione, eutanasia, procreazione assistita, famiglia - ma assume quasi sempre toni aggressivi nei confronti della Chiesa e dei suoi membri più esposti. Il libro ha il merito di rendere evidente come il dibattito pubblico tra laici e cattolici si sia, negli ultimi tempi, irrigidito e ideologizzato. La grande stampa tende a deformare le posizioni della Chiesa, a selezionare solo ciò che può tornare utile alla polemica, ignorando il resto.

Nel mondo cosiddetto laico esiste una censura, pochissimo laica, che oscura non tanto (o non soltanto) le opinioni, quanto le informazioni. Bastano pochi esempi: nessuno, sul Corriere o La Repubblica, ha mai spiegato che la ricerca sulle cellule staminali ottenute dalla vivisezione degli embrioni ha fallito i propri scopi terapeutici, oppure che la pillola abortiva Ru486, che si vorrebbe introdurre in Italia, ha già prodotto 15 morti. Ma gli esempi sono infiniti, e basta scorrere le pagine di Volontè (che fra l’altro è capogruppo dell’Udc alla Camera) per rendersene conto. Al lettore resta da giudicare se si tratti di vero «furore giacobino», o se abbia ragione il cardinale Ruini, e la manipolazione delle notizie, come la violenza di alcune invettive, siano un indiretto tributo a una Chiesa non più perdente. (Eugenia Roccella, Il Giornale 22 novembre 2007 )

 

 


 

Laici, non anticlericali

«Perché mai i cittadini laici non dovrebbero poter ravvisare le proprie intuizioni, per quanto recondite o represse, nel contenuto potenziale di verità di un discorso religioso?». Dall’alto dei suoi 79 anni e di una carriera che ne ha fatto una figura ineludibile nel panorama della filosofia contemporanea, Jürgen Habermas ha preso carta e penna per rispondere a Paolo Flores d’Arcais.

Lo ha fatto su Die Zeit di giovedì – un intervento riportato ieri su Repubblica – dove una settimana prima Flores D’Arcais aveva pubblicato «Undici tesi contro Habermas», sul filo conduttore de «Le religioni sono potenti abbastanza, per cui è un errore se i filosofi le celebrano come risorse di significato per la democrazia». Riferimento alle note posizioni del pensatore tedesco, intrattenutosi sul tema del rapporto tra fede e laicità in diverse occasioni negli ultimi anni, la più celebre delle quali resta il dibattito con l’allora cardinale Ratzinger nel 2004.

Una risposta, quella di Habermas, che prende le distanze dal relativismo radicale di Flores e che trova il favore, a caldo, di Carlo Cardia, docente di diritto ecclesiastico e filosofia del diritto all’Università di Roma Tre, oltre che uno dei massimi esperti italiani nei rapporti tra Stato e Chiesa: «Habermas dimostra di opporsi a qualsiasi atteggiamento non solo censorio, ma autocensorio della società, perché dice che questa non può privarsi di contenuti etici da qualunque parte essi provengano, quindi anche da comunità di ispirazione religiosa. Del resto, di amputare la democrazia da questi contributi nessuno l’ha mai pensato, intendo nessun classico della democrazia, da Locke a Rousseau a Montesquieu…». Eppure richieste di questo tipo sono incessanti proprio da coloro che dicono di rifarsi a questi filosofi. «Si tratta, in realtà, di un’istanza maturata negli ultimi due decenni, quando il conflitto si è determinato sulla visione etica.

Il concentrarsi sulla 'religione' o 'religiosità' è un po’ strumentale: quello che si intende dire è, spesso, semplicemente questo: che non ci può essere una visione etica da cui scaturisce una visione anche normativa, ossia che la legge non può avere un fondamento etico. Il che è paradossale: se andiamo a leggere i lavori parlamentari che precedono un testo normativo – da destra a sinistra – chiunque può trovare una messe di riferimenti all’etica, per il semplice motivo che tutti in realtà hanno una qualche concezione etica di riferimento».

Quindi si tende a spostare il dibattito sulla religione, perché è un bersaglio più facile? «La religione in questo tipo di polemiche viene intesa come una cosa astratta, come se uno si mettesse a citare la Scrittura per dedurne un articolo di legge: ma la religione è una concezione della vita da cui scaturisce una concezione dell’uomo, dell’etica».

Per Giuseppe Dalla Torre, giurista e rettore della Lumsa, «l’intervento di Habermas mette fuori gioco la pretesa di ricacciare nel privato la dimensione religiosa. E la distinzione che lui fa tra ambito pubblico, in cui si sviluppa un dibattito a cui contribuiscono realtà di ispirazione religiosa, e ambito statale, in cui le istanze di queste realtà devono essere tradotte in termini 'laici' e quindi condivisibili da tutti, ecco, questo dimostra una consonanza forte con il pensiero cattolico. Il Papa in più occasioni ha esortato i fedeli impegnati nelle istituzioni ad argomentare le proprie posizioni – pensiamo all’ambito della bioetica – in termini razionali, che possano offrire un ponte a coloro che hanno la buona volontà di dialogare.

Più scivoloso è semmai il passo in cui Habermas ricorda che 'le chiese travalicherebbero i limiti di una cultura politica liberale se adottassero per i propri fini politici la strategia di appellarsi direttamente alla coscienza religiosa'. Se rimaniamo nell’ambito della Chiesa cattolica, beh, questa non interviene per fini politici, per ottenere 'leggi cattoliche'.

Quando interviene lo fa per tutelare principi di morale naturale, cioè un bene comune a tutti».

Michele Lenoci, ordinario di Storia della filosofia contemporanea all’Università Cattolica di Milano, vede un’apertura di credito ulteriore nella posizione di Habermas: «Il lato forse più interessante di questo articolo non è il riconoscimento del fatto che le istanze religiose possono entrare in ambito istituzionale se 'tradotte', se 'razionalizzate' in termini che possono essere accettati anche dai non credenti. Quanto il fatto che, dice Habermas, bisogna lasciare esprimere pubblicamente le voci ispirate a posizioni di fede anche quando queste non sono ancora state tradotte in un linguaggio condiviso. Questo perché potrebbero esserlo in futuro, e comunque impedire a queste voci di esprimersi potrebbe privare il dibattito pubblico di contributi molto importanti, per tutti». Una tesi che sembra simpatetica con l’idea di tolleranza espressa sempre ieri su Repubblica dallo storico inglese Timothy Garton Ash, con la sua proposta di una «Carta dei principi per credenti e non credenti»... «Io prenderei le distanze da quanto Garton Ash sostiene riguardo alla società liberale, quando dice che in essa è fondamentale la libertà di espressione e in questa 'rientra necessariamente la libertà di offendere': in democrazia è legittimo dissentire, anche in modo aspro, ma ciò non equivale ad offendere. L’offesa non significa 'non condividere', ma irridere, non tenere conto della dignità altrui. E questo non è legittimo. Ma Garton Ash sostiene due tesi condivisibili, cioè che la posizione di chi difende la libertà 'della religione' va distinta da quella di chi vuole una libertà 'dalla religione'. Chi opta per la seconda 'libertà', propone un atteggiamento non liberale, ma in realtà dogmatico. Interessante è poi l’idea, soprattutto per quanto riguarda il dialogo con l’islam, di usare quello che in filosofia si chiama principio di carità: se un musulmano si esprime a favore della democrazie o di libertà civili, non andiamogli a dire 'ma ci sono testi dell’islam che smentiscono la tua posizione...'; prendiamo piuttosto atto della sua buona fede, e in seguito andiamo ad approfondire se ci sono aporie o contraddizioni che devono essere risolte. Insomma un principio di dialogo possibile. Anche se non certo facile». (Andrea Galli, Avvenire, 1 dicembre 2007)

 

 


 

A chi non piacciono le staminali riprogrammate??

È strano. La notizia delle due ricerche che in Giappone e in America hanno prodotto cellule staminali pluripotenti, molto simili a quelle embrionali, senza distruggere embrioni ma partendo invece da tessuti adulti, per il Times di ieri valeva l’apertura della prima pagina: «Cellule staminali, un passo avanti», titola a tutta pagina. E i giornali italiani cosa hanno fatto? Repubblica, un titolino schiacciato in basso in prima, per il resto chi vuole vada a pagina 23, se gliene resta il tempo dopo tre pagine fitte di cronaca sull’arresto del quarto uomo di Perugia, cui va anche il titolone di prima. Il Corriere ha scritto di staminali domenica, e basta, abbiamo già dato. La Stampa infila la notizia nell’inserto di Scienze, cioè a dire dove si mettono in genere le comete, e le migrazioni dei pinguini, temi interessantissimi ma senza immediata ricaduta sulla nostra quotidianità. L’Unità piazza la scoperta a pagina otto, in basso, in gergo giornalistico 'a piede', ma almeno la mette.

Per il compassato Times quello delle staminali è un «breakthrough», una conquista da prima pagina. Le Ips – Induced pluripotential cells – ottenute facendo regredire cellule adulte potrebbero un giorno essere riprogrammate per formare 200 tipi di tessuto diverso, senza i problemi derivanti dal rigetto, giacché proverrebbero dall’organismo dello stesso paziente. Senza clonare e distruggere embrioni. Una miniera di pezzi di ricambio, forse l’inizio della cura per malattie di cui non c’è, oggi, alcuna cura. Ma i giornali italiani non si scompongono. Pagina 23, o inserto scienze, assieme alle comete.

È strano, davvero. Certo, la tecnica giapponese è lontana dall’applicazione terapeutica, perché per fare regredire la cellula adulta si sono usati retrovirus cancerogeni. D’altra parte, anche le staminali embrionali 'autentiche' con la loro totipotenza ponevano forti rischi proliferativi, ciò che non ha impedito di investirci, di sperare e di titolare a ripetizione, senza avere ottenuto una sola applicazione terapeutica in 10 anni. Se uno come Ian Wilmut, già autorizzato dalla Hfea britannica a clonare embrioni umani per la sua ricerca, dice 'grazie, ma io cambio strada', una ragione deve averla. Forse ne ha più di una: la scarsa reperibilità degli ovociti femmili necessari a questa ricerca – solo in Romania le donne sono disposte a donare ovuli in cambio di un pezzo di pane – a fronte della facilità del reperimento di tessuti adulti. La speranza, grande, di avere un giorno tessuti naturalmente compatibili con quelli del malato. Di avere i 'pezzi' giusti per ogni paziente – senza toccare embrioni.

Dice bene il Times, una conquista. Ma gli stessi giornali che prima del referendum del 2005 ripetevano ossessivamente, e ignorando del tutto le obiezioni di autorevoli ricercatori, che per sconfiggere le malattie neurodegenerative occorreva usare gli embrioni, sulla svolta di oggi fanno understatement. Gli editorialisti che avvertivano severi che perdere la corsa dei brevetti sulle staminali embrionali avrebbe affossato la ricerca scientifica in Italia, ora non scrivono.

Come mai è più franco nel dichiarare il cambio di rotta uno scienziato come Wilmut? Proprio perché è uno scienziato, e, preso atto di una strada più promettente e facilmente praticabile, nel confronto con la realtà cambia idea. Chi è ideologico, invece, non guarda alla realtà: ha un suo schema cui deve restar fedele, anche se ciò che accade lo contraddice. (Hannah Arendt: «L’ideologia è ciò che non vede la realtà»).

Fra degli anni, forse, con le Ips derivate dalla ricerca giapponese e mirate sui nostri tessuti nervosi bucati dall’Alzheimer cureranno noi, o i nostri figli. Sotto la storia del quarto uomo del delitto di Perugia, sui giornali del 21 novembre 2007 c’era una grande notizia, però non quella giusta. Una notizia fuori linea. «Un piede, pagina otto», disse il caporedattore. (Marina Corradi, Avvenire 22 novembre 2007)

 

 


 

Legge 194, qualcuno confonde le idee

In queste settimane è scoppiata una strana guerra nel fronte anti-abortista, su cui vale la pena esprimere un giudizio chiaro viste le conseguenze concrete che essa comporta.

Tutto è cominciato con un’intervista alla nota ginecologa cattolica Patrizia Vergani da parte del settimanale Tempi. A domanda precisa (“Lei oggi cambierebbe la 194, la legge sull’aborto?”), la Vergani risponde: “No. Penso invece che dovrebbe essere rispettata e applicata di più, con tutta quella parte di sostegno a chi decide di non abortire”. Si sono sollevate immediatamente delle polemiche, in cui si è distinto il Comitato Verità e Vita, il cui presidente Mario Palmaro ha bollato come “gravissima” questa presa di posizione paventando l’abortismo strisciante che si è ormai insinuato anche tra cattolici al disopra di ogni sospetto. In soccorso della Vergani, ancora su Tempi, è scesa in campo Assuntina Morresi, membro del Comitato Nazionale di Bioetica e autrice di pubblicazioni anti-abortiste. La sua difesa d’ufficio ha provocato una reazione ancora più dura da parte del Comitato Verità e Vita, che in pratica l’ha accusata di essere diventata abortista.

Se quest’ultima affermazione è indubbiamente infondata, dettata certamente dalla foga polemica, ciononostante molte affermazioni della Morresi lasciano perplessi se non costernati.

Anzitutto si fa scudo delle parole del cardinale Camillo Ruini per affermare che lei e la Vergani sono in perfetta sintonia con l'ex presidente della CEI. Ruini avrebbe infatti affermato che “noi siamo certamente contro l’aborto ma non vogliamo modificare la legge”. Peccato che il 4 settembre scorso il cardinal Ruini abbia detto esattamente il contrario: “Modificare la 194 non solo è lecito ma è anche doveroso”, ha affermato intervenendo alla Summer School della Fondazione Magna Carta. All’inizio del discorso aveva detto che “per un credente sarebbe meglio che quella legge non ci fosse, però c’è…”. Come dire, è una legge inaccettabile ma bisogna prenderne atto, e infatti più avanti, dice: “Non ci sono le condizioni culturali per abrogarla”. Quello di Ruini, dunque non è un “non voglio”, piuttosto è un “vorrei, ma non posso”. Malgrado ciò afferma che 30 anni di progresso medico-scientifico spingono a un necessario adeguamento della legge, “per migliorarla, non certo per peggiorarla”. E questa modifica “non solo è lecita ma è anche doverosa”. Ruini parla anche dei “politici cattolici”, che peraltro “nessuno obbliga a essere tali”. Ma se tali si definiscono allora “dovrebbero essere disposti anche ad andare in minoranza per promuovere i valori per la Chiesa non negoziabili”.

Il giudizio mi pare sia così chiaro da non richiedere interpretazioni. Si può solo aggiungere che mentre per la Morresi 30 anni di cambiamenti significano la necessità di difendere la 194 dopo averla combattuta appunto 30 anni fa, per Ruini è proprio questo che rende necessario almeno una modifica della legge, lavorando al contempo per ricreare una cultura della vita (”le condizioni culturali”) che renda possibile abrogarla. Ciò va ben oltre il desiderio di applicarla meglio, che sembra essere l’orizzonte della Vergani e della Morresi (chi fosse interessato può andarsi a risentire le varie edizioni dei Tg nazionali del 4 settembre a questo indirizzo web).

Ma ci sono molte altre affermazioni nell’articolo della Morresi che sono decisamente discutibili, come la seguente: “Nel suo genere, la legge 194 è una buona legge, una delle migliori sull’aborto nel mondo”. La Morresi non intende ovviamente affermare che la legge è buona in sé ma che nel mondo quasi tutte le leggi sull’aborto sono più liberali. Questo può essere vero, ma allora è giusto dire che la 194 è “una delle più restrittive”. Non è solo una questione di termini: “restrittivo” è un giudizio “tecnico”, “buona” o “migliore” è un giudizio di valore che ha tutt’altro significato. Tanto per fare un esempio: si sentirebbe la Morresi di affermare che le leggi razziali di Mussolini erano “buone” rispetto a quelle di Hitler?

In ogni modo non è un caso che la 194 non sia stata applicata nelle sue parti “propositive” e che non siano neanche osservate tutte le limitazioni all’aborto che pure la legge prevede. La verità è che quelle parti propositive e quei limiti servivano soltanto a far digerire a un’opinione pubblica – a anche a molti cattolici – un diritto all’aborto che altrimenti non sarebbe mai passato. E’ una strategia ben collaudata, che si ripete in tutti i paesi del mondo con una cultura maggioritaria per la vita. E questo la Morresi, che in Italia è una delle poche ad aver studiato il movimento abortista internazionale, lo sa benissimo.

Quando poi la Morresi afferma che “una legge sull’aborto è necessaria: prima le donne che abortivano erano processate e andavano in galera” mentre uguale sorte non toccava ai “maschi che le mettevano incinte”, bisognerebbe almeno dire che una tale disparità – peraltro più teorica che pratica (sa dirci la Morresi quante donne che hanno abortito sono andate in prigione prima del 1978?) – ha radici culturali e non ci vuole certo una legge che consenta l’aborto per stabilire l’uguaglianza delle responsabilità tra uomo e donna. Anzi, da questo punto di vista la 194 ha peggiorato la situazione lasciando la donna ancora più sola davanti all’aborto, visto che l’impianto stesso della legge risente dell’ideologia femminista per cui “il corpo è mio e me lo gestisco io”. Si dovrebbe anche ricordare che uno dei punti su cui il fronte anti-abortista allora insisteva era proprio quello sull’inclusione del padre nella responsabilità di fronte al nascituro, cosa che i sostenitori della 194 hanno ostinatamente rifiutato proprio perché avrebbe snaturato la loro impronta culturale.

Infine, è utile soffermarsi su quella spaccatura esistente - dice la Morresi - nel fronte “abortista”. Essa definisce due schieramenti: gli abortisti e i “pro-choice”. Gli abortisti sarebbero in pratica quelli dell’aborto libero e facile, i “pro-choice” sarebbero invece una sorta di abortisti compassionevoli, cioè “sostengono la 194” ma anche “vorrebbero che le donne non abortissero più e per questo apprezzano il lavoro dei centri di aiuto alla vita”. Nulla da obiettare sulle diverse ragioni che percorrono il fronte abortista, ma come si fa a definire “pro-choice” il secondo schieramento che - si capisce – dovrebbe essere nostro alleato? La Morresi sa benissimo che “pro-choice” a livello internazionale e in ogni angolo del mondo sta ad indicare gli abortisti tout-court, quelli che non solo si oppongono al diritto alla vita ma oggi chiedono a gran voce che venga riconosciuto a livello internazionale l’aborto come diritto umano universale. “Pro-choice” significa “per la scelta”, ovvero per la libera scelta delle donne di abortire se lo vogliono, è il trionfo del soggettivismo e dell’individualismo. Perché allora creare confusione, suggerendo come oggettiva una definizione che sta solo nella testa di chi l’ha scritta?

La Morresi ha pienamente ragione nel dire che il nemico “non sono le donne che abortiscono”, ma “è l’aborto” e che dunque “chi vuole lavorare per diminuirne il più possibile il numero è mio alleato”, ma la confusione e travestire il male in bene non serve a nessuno. Francamente si fa fatica a sfuggire all’impressione che – come sostiene Verità e Vita - “la tattica si è mangiata la verità”. (Riccardo Cascioli, Il Timone, 5 Dicembre 2007)

 

 

 


 

2 dicembre 2007

 

Perché Benedetto XVI è così cauto con la lettera dei 138 musulmani

La lettera dei 138 musulmani indirizzata lo scorso mese a Benedetto XVI e ai capi delle altre Chiese cristiane ha avuto una spettacolare risposta collettiva in un messaggio pubblicato sul "New York Times" del 18 novembre, firmato da 300 studiosi.

Il messaggio è nato nella Divinity School della Yale University, in particolare per impulso del suo decano Harold W. Attridge, professore di esegesi del Nuovo Testamento.

I firmatari appartengono per la maggior parte a confessioni protestanti, di tendenza sia "evangelical" che "liberal", e tra essi c'è una celebrità come il teologo Harvey Cox. Ma nella lista dei 300 c'è anche un vescovo cattolico, Camillo Ballin, vicario apostolico nel Kuwait, comboniano. Sono cattolici l'islamologo John Esposito della Georgetown University e i teologi Donald Senior, passionista, e Thomas P. Rausch, gesuita, della Loyola Marymount University. E sono cattolici – sia pure ai margini dell'ortodossia – Paul Knitter, esponente della teologia del pluralismo religioso, ed Elizabeth Schüssler Fiorenza, docente a Harvard e teologa femminista.

Il messaggio si profonde in lodi della lettera dei 138. Ne fa propri i contenuti, ossia l'indicazione dell'amore di Dio e del prossimo come "parola comune" tra musulmani e cristiani, al centro sia del Corano che della Bibbia. E premette a tutto una richiesta di perdono "all'unico Dio di tutte le misericordie e alla comunità islamica di tutto il mondo".

Richiesta di perdono così motivata:

"Dal momento che Gesù dice: Togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello (Matteo 7, 5), noi vogliamo cominciare col riconoscere che nel passato (vedi le Crociate) e nel presente (vedi gli eccessi della guerra al terrore) molti cristiani sono stati colpevoli di peccato contro il nostro prossimo musulmano".

Diffondendo il messaggio, i suoi promotori hanno annunciato che ad esso seguiranno degli incontri con alcuni dei firmatari della lettera dei 138, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e nel Medio Oriente, incontri aperti anche ad ebrei.

A confronto con questo fervore di dialogo, Benedetto XVI e i dirigenti della Santa Sede appaiono più cauti e riservati.

Alla lettera dei 138 musulmani la Santa Sede ha risposto fin da subito con dichiarazioni di cortese accoglienza. Ma ha rimandato a tempi più lontani una risposta più approfondita.

Anche il primo commento alla lettera dei 138 finora emesso da un organismo collegato alla Santa Sede – il Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'islamistica – è stato tenuto in ombra, nonostante mettesse in evidenza gli elementi nuovi e positivi dell'iniziativa musulmana.

Non ne ha riferito neppure "L'Osservatore Romano". L'unico cenno alla lettera dei 138 finora apparso sul giornale della Santa Sede è stato all'interno di una nota che annunciava e commentava l'incontro del 6 novembre di re Abdallah d'Arabia Saudita con Benedetto XVI. "L'Osservatore" non ha dato notizia nemmeno dei commenti alla lettera dei 138 di due studiosi dell'islam molto stimati da papa Joseph Ratzinger, i gesuiti Samir Khalil Samir. egiziano, e Christian W. Troll, tedesco.

Ma è proprio dalla lettura di questi commenti – in particolare quello di Troll – che si capisce il perché della cautela della Chiesa di Roma.

Troll fa notare che la lettera dei 138 musulmani, col suo insistere sui comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo come "parola comune" sia del Corano che della Bibbia, sembra voler portare il dialogo sul solo terreno dottrinale e teologico.

Ma – obietta Troll – tra il Dio unico dei musulmani e il Dio trinitario dei cristiani, con il Figlio che si fa uomo, la differenza è abissale. Non può essere minimizzata, tanto meno negoziata. La vera "parola comune" va cercata altrove: "nell'applicare quei comandamenti alla concreta realtà delle società pluraliste, qui ed ora". Va cercata nella tutela dei diritti umani, della libertà religiosa, della parità tra uomo e donna, della distinzione tra i poteri religioso e politico. Su tutto questo la lettera dei 138 è elusiva o muta.

E lo è volutamente. Uno dei principali autori della lettera, il teologo libico Aref Ali Nayed, professore all'università di Cambridge, si è spiegato così in un'intervista a "Catholic News Service", l'agenzia della conferenza episcopale degli Stati Uniti: "Il dialogo etico-sociale è utile e se ne ha un grande bisogno. Ma un dialogo di questo tipo avviene già ogni giorno, attraverso istituzioni del tutto secolari come le Nazioni Unite e i suoi organismi. Se delle comunità fondate sulla rivelazione religiosa vogliono veramente dare un contributo all'umanità, il loro dialogo deve essere teologicamente e spiritualmente fondato. Molti teologi musulmani non sono affatto interessati a un dialogo puramente etico tra culture e civiltà".

Qual è invece il dialogo con l'islam voluto da Benedetto XVI?

Il papa l'ha spiegato nel modo più limpido in un passaggio del discorso prenatalizio alla curia romana del 22 dicembre 2006: "In un dialogo da intensificare con l'Islam dovremo tener presente il fatto che il mondo musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un compito molto simile a quello che ai cristiani fu imposto a partire dai tempi dell'illuminismo e che il Concilio Vaticano II, come frutto di una lunga ricerca faticosa, ha portato a soluzioni concrete per la Chiesa cattolica.

"Si tratta dell'atteggiamento che la comunità dei fedeli deve assumere di fronte alle convinzioni e alle esigenze affermatesi nell'illuminismo.

"Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l'uomo di suoi specifici criteri di misura.

"D'altra parte, è necessario accogliere le vere conquiste dell'illuminismo, i diritti dell'uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l'autenticità della religione.

"Come nella comunità cristiana c'è stata una lunga ricerca circa la giusta posizione della fede di fronte a quelle convinzioni – una ricerca che certamente non sarà mai conclusa definitivamente – così anche il mondo islamico con la propria tradizione sta davanti al grande compito di trovare a questo riguardo le soluzioni adatte.

"Il contenuto del dialogo tra cristiani e musulmani sarà in questo momento soprattutto quello di incontrarsi in questo impegno per trovare le soluzioni giuste. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s'impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà".

Di questa proposta lanciata al mondo musulmano da Benedetto XVI nel dicembre di un anno fa, nella lettera dei 138 non c'è traccia. Segno che la distanza tra le visioni dell'uno e degli altri è davvero forte.

La visione di Benedetto XVI è la stessa che altre autorità della Santa Sede manifestano ogni volta che si toccano questi temi. Ne è prova il messaggio rivolto ai musulmani lo scorso ottobre, in occasione della fine del Ramadan, dal pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, presieduto dal cardinale Jean-Louis Tauran: messaggio che ha anch'esso al suo centro "la libertà della fede e il suo esercizio", come compito di tutte le religioni, conforme al "piano del Creatore".

Ed è una visione che Ratzinger va argomentando da anni con grande coerenza, prima da cardinale e poi da papa.

La lezione di Ratisbona sulla doverosa "sinergia tra fede e ragione" ne è la fondazione più compiuta.

Ma, prima ancora, le premesse di come Benedetto XVI concepisce il dialogo con l'islam e le altre religioni vanno rintracciate nella discussione che egli ebbe nel gennaio del 2004, a Monaco di Baviera, con il filosofo laico Jürgen Habermas.

In quell'occasione, Ratzinger disse che un "diritto naturale" universalmente valido non è affatto riconosciuto oggi da tutte le culture e civiltà, divise tra loro e divise su questo anche al loro interno. Ma indicò la strada perché "le norme e i valori essenziali conosciuti o intuiti da tutti gli esseri umani" possano ricevere luce e "tenere unito il mondo". La strada è quella di un legame positivo tra ragione e fede, "chiamate alla reciproca purificazione" dalle patologie che espongono l'una e l'altra al dominio della violenza.

C'è un grande studioso che ha analizzato con particolare lucidità la visione di Benedetto XVI in rapporto all'islam: il giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, in un saggio apparso quest'anno in Germania e tradotto in Italia dalla rivista "Il Regno".

Böckenförde concorda in pieno col papa nel ritenere che l'islam ha oggi di fronte una sfida simile a quella posta ai cristiani dall'Illuminismo, in materia di libertà di religione.

La Chiesa cattolica rispose a quella sfida, nel Concilio Vaticano II, con la dichiarazione "Dignitatis Humanae" sulla libertà religiosa fondata sui diritti della persona.

Ma il mondo islamico – chiede Böckenförde – è pronto a fare un analogo cammino? È pronto a riconoscere la neutralità religiosa dello stato e quindi la pari libertà, nello stato, di tutte le religioni?

I musulmani che vivono "in diaspora", cioè come minoranze nei paesi dell'Europa e dell'Occidente, sembrano disposti a questo riconoscimento. Ne è prova una dichiarazione adottata nel 2001 dal comitato dei musulmani di Germania, che dice: "Il diritto islamico vincola i musulmani che vivono in diaspora ad attenersi all'ordinamento giuridico del luogo".

Ma dove i musulmani sono maggioranza e controllano lo Stato? Böckenförde è scettico. Ritiene che l'islam, in situazione di forza, rimane molto lontano dall'accettare la neutralità dello stato e quindi la piena libertà di tutte le religioni.

Böckenförde ne è così convinto che conclude il suo saggio esaminando una ipotesi di scuola: l'ipotesi che in un paese europeo gli immigrati musulmani siano vicini a diventare la maggioranza della popolazione.

In questo caso – sostiene il giurista tedesco – quel paese ha il dovere di chiudere le frontiere. Per ragioni di autodifesa. Perché uno stato secolare non può rinunciare a quel "diritto naturale" che è il suo fondamento: "un diritto indotto dall’appartenenza a un mondo culturale radicato su elementi della classicità, dell’ebraismo e del cristianesimo, ma ripensati entro un orizzonte illuminista".

In ogni caso non mancano, nel pensiero islamico d'oggi, posizioni "aperte a una razionalità tollerante", come le definì Ratzinger nel suo colloquio con Habermas del 2004.

A una di queste posizioni dà rilievo padre Maurice Borrmans, già preside del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'Islamistica, sull'ultimo numero di "Oasis", la rivista multilingue, anche in arabo e urdu, promossa dal patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola.

Borrmans cita uno studioso tunisino residente a Parigi, Abdelwahab Meddeb, che ha positivamente commentato le tesi di Benedetto XVI in un saggio dal titolo "Le Dieu purifié", all'interno di un libro a più voci pubblicato in Francia: "La conference de Ratisbonne: Enjeux et controverses".

Scrive tra l'altro Meddeb: "A Ratisbona il papa ha voluto incitare i musulmani a condurre un lavoro d'anamnesi perché depongano la violenza e ritornino all'articolazione del logos che i loro antenati avevano conosciuto, al fine di poterlo ampliare e approfondire".

E dopo aver ricordato tra gli "antenati" di un islam purificato dalla ragione il grande filosofo Averroè (1126-1198), così prosegue: "È verso questi territori che il musulmano deve far ritorno, per partecipare al grande logos, al suo ampliamento e al suo approfondimento nella via della purificazione che neutralizza la violenza e che instaura una serenità etica". Abdelwahab Meddeb non è tra i firmatari della lettera dei 138, e neppure della lettera dei 38 di un anno prima. (Sandro Magister, Focus, 26 novembre 2007)

 

 


 

La teologia di Martini disorienta i “semplici”

Non abbiamo nulla contro il Card. Martini, anzi siamo da sempre suoi ammiratori ed estimatori.

Ma abbiamo notato come in questi ultimi tempi, con una certa frequenza, si esprima pubblicamente su temi “difficili” con una terminologia che si presta ad interpretazioni polemiche da quella parte del cattolicesimo in netto dissenso con il Magistero della Chiesa.

Riteniamo pertanto più che giusto l’intervento di un organo di stampa cattolica a tutto tondo, destinato a rimettere un po’ d’ordine in questo starnazzare continuo di personaggi che approfittano di ogni occasione, il più delle volte offerta loro in buona fede, come in questo caso, per denigrare il papa, corretto e insindacabile interprete del pensiero cattolico.

Il caso: se in passato, nel riferire le prese di posizione del card. Carlo Maria Martini, il quotidiano “Avvenire” ha optato per il silenzio (ad esempio in occasione del Sinodo europeo dei vescovi del 1999, quando il card. Martini pose la questione della necessità di un confronto collegiale dei vescovi su alcuni temi nodali della Chiesa a quarant’anni dal Vaticano II) o per la sostanziale adulterazione dei contenuti (ad esempio in occasione del "Dialogo sulla vita" pubblicato dall’Espresso), questa volta il portavoce della Cei ha scelto la via della critica esplicita e frontale.

Venerdì 16 novembre il “Corriere della Sera” pubblica uno stralcio dell’articolo scritto dall’ex arcivescovo di Milano per il bimestrale “Kos”, rivista del San Raffaele di Milano diretta da don Verzè, ed intitolato «C’è una voce in ognuno di noi che ci spinge a dubitare di Dio». Nel suo intervento Martini scrive che bisogna «accettare di dire a riguardo di Dio alcune cose che possono apparire contraddittorie. Dio è Colui che ci cerca e insieme Colui che si fa cercare. È colui che si rivela e insieme colui che si nasconde. È colui per il quale valgono le parole del salmo “il tuo volto, Signore, io cerco”, e tante altre parole della Bibbia, come quelle della sposa del Cantico di Cantici: “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l'amato del mio cuore; l'ho cercato, ma non l'ho trovato”». Per questo motivo non può essere estranea all’esperienza della fede la condizione di «ateismo o meglio dell’ignoranza su Dio»: «C'è in noi un ateo potenziale che grida e sussurra ogni giorno le sue difficoltà a credere». «Su questo principio - racconta il cardinale riferendosi all’esperienza da lui stesso promossa a Milano nel 1987 - si fondava l'iniziativa della “Cattedra dei non credenti” che voleva di per sé “porre i non credenti in cattedra” e “ascoltare quanto essi hanno da dirci della loro non conoscenza di Dio». Ma Martini cita anche il teologo Hans Küng: «Che Dio esista, può essere ammesso, in definitiva, solo in base a una fiducia che affonda le sue radici nella realtà stessa», infatti – e qui torniamo alle parole del cardinale – «quando si parla di credere in Dio come fa il catechismo della Chiesa cattolica, si ammette espressamente che c'è nella conoscenza di Dio un qualche atto di fiducia e di abbandono. Noi sappiamo bene che non si può costringere nessuno ad avere fiducia. Io posso donare la mia fiducia a un altro, ma soltanto se questi mi sa infondere fiducia. E senza fiducia non si vive». «L'adesione a Dio comporta un'atmosfera generale di fiducia nella giustezza e nella verità della vita, e quindi nella giustezza e nella verità del suo fondamento».

Il 20/11, pochi giorni dopo, “Avvenire” pubblica un articolo intitolato «Le tenebre di Dio e la beatitudine dei semplici», firmato dal direttore di Communio  Elio Guerriero: «Nella tradizione occidentale - scrive Guerriero - questo accostamento a Dio silente e sofferto ha dei precedenti nella teologia negativa o apofàtica. I suoi maggiori sostenitori sono stati Maestro Eckart e Angelo Silesio. Il cardinal Martini, tuttavia, sembra andare un passo oltre in direzione di una crescente indistinzione tra fede e non fede». Nel pensiero dell’ex arcivescovo di Milano, Guerriero intravede infatti «un salto logico e un distacco dalla tradizione», perché la fede ricevuta in dono «diventa un impegno e una missione ai quali il credente non può rinunciare per se stesso ma anche per i lontani che, magari, saranno avvicinati a Dio dalla sua testimonianza e dalla sua sofferenza». Nel finale del suo articolo il direttore di Communio offre una larvata puntualizzazione all’ex arcivescovo di Milano, quando, riferendosi al ruolo di guida dei pastori di fronte ai "semplici" scrive: «Gesù affidò i poveri di spirito, i miti e i puri di cuore delle beatitudini agli apostoli e ai vescovi, con il compito di proteggerli perché possano restare fedeli nella loro confessione preziosa per i credenti e i non credenti».

(Rielaborazione notizia apparsa su “Adista” n. 83, del 28 novembre 2007)

 

 


 

Messa in latino: «Il criterio sia l’unità»

In riferimento a voci che si susseguono nei giornali in ordine all’attuazione del Motu proprio sulla liturgia «Summorum Pontificum», pubblichiamo il testo che il vescovo di Novara, monsignor Renato Corti, ha indirizzato ai suoi sacerdoti e che porta il significativo titolo «La concorde unità della celebrazione liturgica»: ci pare prezioso in ordine alla formulazione di un giudizio su vicende oggi all’interesse della stampa. (Vedi in News: Quando si cade nel ridicolo: lo sciopero della Messa).

«A proposito del recente “Motu proprio” mi sembra opportuno ricor­dare anzitutto quanto viene detto da Benedetto XVI nell’Esortazione apostolica Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007): «In relazione alla corretta ars celebrandi un compito imprescindibile spetta a coloro che hanno ricevuto il sacramento dell’ordine: vescovi, sacerdoti e diaconi, ciascuno secondo il proprio grado, devono considerare la celebrazione come loro principale dovere». A proposito del vescovo diocesano si afferma che egli «è la guida, il promotore e il custode di tutta la vita liturgica». Si aggiunge che «la comunione con il vescovo è la condizione perché ogni celebrazione sul territorio sia legittima». Perciò si conclude che «a lui spetta salvaguardare la concorde unità delle celebrazioni nella sua diocesi». Pertanto dovrà «fare in modo che i presbiteri, i diaconi e i fedeli comprendano sempre più il senso autentico dei riti e dei testi liturgici e così siano condotti ad un’attiva e fruttuosa celebrazione dell’Eucaristia» (n. 39). Ho già commentato questo testo del Papa nell’omelia della Messa crismale del Giovedì Santo. Sono in dovere di applicarlo nel modo più pieno possibile e di chiedere ai sacerdoti di offrire il proprio contributo alla «concorde unità della celebrazione» eucaristica in diocesi.

Con riferimento specifico al Motu proprio del 7 luglio scorso sono stati resi noti interventi ufficiali, da parte della nostra diocesi, con una mia lettera e una nota del provicario generale. Tali interventi, pubblicati sul settimanale diocesano in data 14 luglio e sulla Rivista diocesana novarese (settembre 2007), erano rivolti ai sacerdoti e a tutti i fedeli come orientamento autorevole circa l’attuazione del documento.

Onde favorire una conoscenza diretta del pensiero del Santo Padre, ricordo di nuovo alcuni passaggi del Motu proprio.
Si legge che «il Messale Romano promulgato da Paolo VI è l’espressione ordinaria della lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da san Pio V e nuovamente edito dal beato Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa lex orandi e deve essere tenuto in debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della lex orandi della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella lex credendi della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano. Perciò è lecito celebrare il sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal beato Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della liturgia della Chiesa» (art. 1). Il Papa aggiunge: «Nelle parrocchie, in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica, il parroco accolga volentieri le loro richieste per la celebrazione della santa Messa secondo il rito del Messale Romano edito nel 1962. Provveda a che il bene di questi fedeli si armonizzi con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del vescovo a norma del canone 392, evitando la discordia e favorendo l’unità di tutta la Chiesa». E ancora: «La celebrazione secondo il Messale del beato Giovanni XXIII può aver luogo nei giorni feriali; nelle domeniche e nelle festività si può avere anche una celebrazione del genere (una etiam celebratio huiusmodi fieri potest)» (Art. 5, § 1-2).

Nella lettera che accompagna il Motu proprio Benedetto XVI afferma che «ovviamente per vivere la piena comunione, anche i sacerdoti delle comunità aderenti all’uso antico non possono in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso». Come si vede, il Motu proprio può essere messo in atto «nelle parrocchie nelle quali esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica». Qualora esistano tali condizioni, nelle domeniche e nelle feste è obbligatorio celebrare le sante Messe in piena conformità al Messale di Paolo VI indicato come «forma ordinaria». Rimane possibile celebrare una santa Messa (una sola) nella «forma straordinaria», e cioè quella del Messale di Giovanni XXIII. Tale celebrazione, destinata al «coetus fidelium» che l’ha chiesta, non deve sostituire le Messe nella «forma ordinaria», destinate all’intera comunità parrocchiale. Da parte dei parroci va dunque garantita la «forma ordinaria» della celebrazione eucaristica, soprattutto nei giorni di festa e nelle domeniche.

Voglio concludere dando evidenza a due intenzioni che hanno condotto il Papa a scrivere il Motu proprio. La prima è che la riforma liturgica venga compresa e praticata in tutta la sua ricchezza. In tal modo «nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. La garanzia più sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale».

La seconda intenzione è che il Motu proprio favorisca «una riconciliazione interna nel seno della Chiesa». È evidente che questa speranza espressa dal Papa chiede, in particolare ai sacerdoti, di compiere dei passi che abbiano come logica profonda l’unità interna alla parrocchia stessa, nell’accoglienza di tutto il popolo di Dio loro affidato; e poi l’unità con il presbiterio e con la diocesi intera, e in particolare con il vescovo. Tenendo conto di questo suggerimento del Papa si eviteranno incertezze e sofferenze nelle nostre comunità. Si favorirà inoltre che, nel prossimo futuro, grande sia la premura nei confronti della celebrazione liturgica in tutte le nostre comunità, così da valorizzare le ricchezze che i santi riti contengono. Prego Dio perché questo spirito di unità venga chiaramente testimoniato. (Renato Corti, vescovo di Novara, Avvenire, 28 novembre 2007)

 

 


 

Falce e carrello. il potere delle coop rosse

«La Coop sei tu, chi può darti di più?». Chiunque, ma non la Coop. Nelle regioni rosse fare la spesa in un qualsiasi supermercato della catena controllata da Legacoop, il gigante economico agli ordini di Pci–Pds-Ds, costa fino al 15% in più, la qualità delle merci è peggiore e anche l’assortimento dei prodotti biologici – uno dei cavalli di battaglia del marchio Coop - è di gran lunga inferiore a quello di altre catene. E’ l’effetto del quasi monopolio che la Coop conquista ovunque può contare sulla complicità di amministratori locali e sindacalisti della Cgil proni agli ordini di scuderia ma anche causa della insipienza di un management che si è formato nelle sezioni del partito anziché alla scuola del mercato e della produzione.

Per chi vive in Emilia Romagna, Liguria, Toscana o Umbria senza prosciutto sugli occhi non è una novità. In queste regioni, dove vige da più di mezzo secolo un regime socialista, “non cade foglia che Pci (e successive varianti) non voglia”.

Gli altri, gli scampati, farebbero bene a leggere il libro di Bernardo Caprotti, Falce e carrello. Le mani sulla spesa degli italiani , pubblicato da Marsilio.

Chi è Caprotti? È il fondatore e il timoniere di Esselunga, l’imprenditore che per primo ha portato in Italia il supermarket facendo della sua azienda un caso di eccellenza nella grande distribuzione. Dopo anni di strenue battaglie, prima contro un sindacalismo arrabbiato, cinghia di trasmissione dell’ideologia del Pci nella società italiana, poi contro il gigante “rosso” della vendita al dettaglio ha deciso di portare i panni sporchi della Coop in piazza.

Siamo dunque di fronte alla rivalsa polemica e stizzita di uno sconfitto? Niente affatto. Falce e carrello è piuttosto la testimonianza, resa inoppugnabile da una inedita documentazione, di un imprenditore lombardo che chiedeva soltanto di fare il suo mestiere e si è invece scontrato con un concorrente sleale che per affermare ed estendere la propria supremazia sul mercato non esita a usare le Giunte di sinistra per lasciare scadere licenze, che poi prontamente si fa girare, pagare terreni sei volte il valore di mercato, usare il ritrovamento di reperti archeologici come grimaldello grazie alla complicità di assessori e soprintendenti. Terreni agricoli acquistati per due lire diventano in un batter d'occhio edificabili, fino a giungere – è cronaca dell'ultimo anno - alle pressioni di Romano Prodi su Caprotti perché l’azienda resti «in mani italiane». “Voci” pretestuosamente messe in giro da una stampa “amica” (Espresso, Corriere della Sera, l'Unità) avevano infatti dato per imminente la cessione di Esselunga. Naturalmente queste «mani» dovevano essere quelle della Coop.

Insomma un libro «di grande coraggio personale e civile», come si dice in certi ambienti “democratici” quando qualcuno denuncia pubblicamente la Mafia. In questo caso il potere è quello di Legacoop e Pds-Ds, che per consolidare ed estendere il proprio sistema di affari usa ovunque è possibile gli apparati di Regioni, Province e Comuni. Dopo le ultime elezioni – gli italiani provano un gusto tutto particolare nel darsi zappate sui piedi - ci sta provando anche con quelli dello Stato. Il caso Unipol e le “liberalizzazioni” di Bersani, sono solo un prologo.

Lettura assai istruttiva e interessante è anche la ricca appendice di Falce e carrello, dalla quale si apprende quale sia la reale entità dell’impero “rosso”, immenso serbatoio di capitali, clientele e voti. Un impero che Tangentopoli, guarda il caso, non ha neppure scalfito e che il terremoto del 1997 in Umbria ha consolidato.

Terminata la lettura viene alla mente l’ultima pagina de La fattoria degli animali, di Orwell, quando cavalli, mucche, oche si affacciano alla finestra della casa dove viveva l’antico, odiato, padrone: l’uomo. I maiali, artefici e ispiratori della gloriosa rivoluzione che doveva cancellare per sempre la schiavitù e lo sfruttamento, stavano trattando la pace con i proprietari delle fattorie vicine e l’avvio di vantaggiosi commerci, ma le povere creature, fuori la finestra, guardano ora gli uomini, ora i maiali ma per loro è diventato ormai impossibile distinguere chi sono gli uni e chi sono gli altri. (Pietro Licciardi, Rassegna Stampa, 26 novembre 2007)

 

 


 

Pro Iudaeis

Erik Peterson, analizzando il significato che perfidus e perfidia hanno nella letteratura patristica, dimostrava già nel 1936 che si riferiscono innanzitutto alla perdita della fede cristiana. Solo in epoca medievale la parola, nella preghiera del Venerdì Santo, acquistò il senso di un’indebita condanna morale del popolo dell’Antica Alleanza

Il timore che il motu proprio papale che consente l’uso del Messale di san Pio V reintroducesse l’espressione “perfidia iudaica” all’interno della preghiera intercessoria del Venerdì Santo, potendo con ciò favorire sentimenti antigiudaici e antisemiti, ha riportato recentemente l’attenzione su quella espressione.

Come ha scritto Sergio Luzzatto il 19 agosto scorso sul Corriere della Sera, quel timore è assolutamente infondato, «poiché Benedetto XVI ha liberalizzato l’impiego del Messale tridentino nella sua versione del 1962 dalla quale già erano state cancellate le formule sui perfidi giudei e sulla perfidia giudaica».

Ma la questione è restata viva, ritornando ad affacciarsi anche in dibattiti recentissimi, e forse non è inutile chiarire come quell’espressione, per l’interpretazione e l’azione che l’avvolgevano, fosse davvero indebita.

Per farlo ripercorriamo un articolo scritto nel lontano, ma per tanti versi attualissimo, 1936 da Erik Peterson: “Perfidia iudaica”. Un articolo che comparve sulla rivista dei Lazzaristi Ephemerides liturgicae che compie quest’anno il suo centoventesimo compleanno. Auguri!

Protestante di lontana origine svedese e appassionato cercatore del vero (gli sarà imputato come romanticismo dai correligionari vecchi e nuovi, volutamente dimentichi che era stato lo stesso percorso di Giustino e di Agostino), Peterson dopo aver peregrinato in varie università tedesche, nel 1930 era sbarcato a Roma e al cattolicesimo romano, anche grazie all’amicizia con una famiglia ebrea di Monaco di Baviera presso la quale aveva sostato e dalla quale aveva ricevuto sostegno.

Di Peterson, a partire dagli anni Ottanta, si è ricominciato a citare frequentemente Il monoteismo come teologia politica, una sua opera del 1935. Ultimo a farlo, Enzo Bianchi, il 14 ottobre scorso su La Stampa. E a buon diritto, visto che il bipolarismo teologia liberale/teologia politica, di cui Peterson aveva cercato di mostrare l’incongruenza rispetto alle origini e all’originalità del cristianesimo, sembra essere proposto anche oggi come alternativa obbligata. Ma molti altri suoi testi anche importanti, come Il libro degli angeli dello stesso 1935 (edito in italiano dopo la guerra sempre a cura dei Lazzaristi e giudicato un capolavoro da un patrologo del calibro di Jean Daniélou), non sono conosciuti se non dagli specialisti, anche perché non molti sono stati tradotti.

È il caso dell’articolo che prendiamo in esame, che non ci risulta sia mai stato tradotto dal tedesco. Da esso provengono tutte le nostre citazioni.

La prima parte dell’articolo, attraverso una verifica sulle traduzioni della liturgia del Venerdì Santo nelle lingue moderne, giunge a evidenziare che le espressioni perfidia iudaica e perfidi Iudaei negli anni Venti e Trenta del secolo scorso venivano ancora tradotte in modo indebito, cioè con riferimento a una specifica infedeltà o ostinazione del popolo eletto, fino a configurare un vero e proprio giudizio morale su di esso. Salvo la lodevole eccezione, scrive Peterson (p. 298), del «saggio cardinale di Milano» Ildefonso Schuster, che non a caso era stato ammonito pochi anni prima dal Sant’Uffizio per aver chiamato quella formula «una superstizione» (cfr. l’articolo di Hubert Wolf in Historische Zeitschrift del 2004: “Pro perfidis Iudaeis. Die ‘Amici Israel’ und ihr Antrag auf eine Reform der Karfreitagsfürbitte für die Iuden [1928]”). Peterson non poteva essere a conoscenza di ciò che si è ulteriormente saputo grazie a un altro dotto intervento a firma di monsignor Giuseppe M. Croce, pubblicato nel 2003 all’interno degli Atti del Congresso internazionale per il bicentenario della elezione di papa Pio VII, ovvero che diversi vescovi toscani, per un momento, già a inizio Ottocento, avevano omesso del tutto quella formula.

Peterson, analizzando il significato che l’aggettivo perfidus e il corrispondente sostantivo perfidia hanno nella letteratura patristica, dimostra che in origine non indicano altro se non lo smarrimento della fede tutto interno al campo cristiano. Già Cipriano nel De unitate intende con perfidia «l’incredulità che si diffonderà negli ultimi tempi e che non è soltanto incredulitas, in quanto opposta alla fides, ma, come scisma, è appunto perfidia, col che si giunge al concetto di apostasia» (p. 299). Perfidi in altre parole, per Cipriano, sono l’apostata e lo scismatico, «coloro che hanno lasciato la Chiesa e la sua fides» (p. 300). Ma anche i lapsi, in quanto, scrive Peterson citando sempre Cipriano (De lapsis 14), cadono non perché la loro fede sia stata combattuta, ma perché era già venuta meno prima del combattimento («non fide congressa cecidit, sed congressionem perfidia prevenit»). Attualissimo paradosso.

Ma, in ogni caso, anche al di là di questi esempi, perfidus negli scritti di Cipriano è sempre l’opposto di credens e di fidens.

Anche presso tutti i Padri che seguono (da Ilario di Poitiers a Girolamo, da Paolino di Milano a Lucifero di Cagliari, da Gaudenzio di Brescia a Isidoro, solo per citarne qualcuno) perfidia è usata principalmente in riferimento all’eresia. L’espressione «arriana perfidia», ad esempio, a indicare la mancanza di fede degli ariani, diventerà abituale. Ma l’applicazione non è limitata all’arianesimo: Beda il Venerabile nella Historia ecclesiastica 1, 10, ad esempio, può dire di Pelagio che «contro l’aiuto della grazia divina ha sparso il veleno della sua perfidia in lungo e in largo» («contra auxilium gratiae supernae venena suae perfidiae longe lateque dispersit»).

Peraltro, già nella letteratura pseudociprianea del III e IV secolo, «se non erro», scrive Peterson, «si parla per la prima volta della perfidia degli ebrei e dei perfidi Iudaei» (p. 303). Nel senso già visto di incredulitas e di incredulus, e non di una particolare ostinazione e infedeltà dei Giudei, successivamente verranno usati dunque perfidia e perfidus, da parte degli stessi Padri sopra citati e di molti altri, anche in riferimento ai Giudei; e finanche ai pagani.

Tutto questo mostra che con perfidia, in epoca patristica, originariamente non si designava altro che una perdita della fede qualificante eretici, scismatici e lapsi; e poi, per estensione, la mancanza di fede di giudei e pagani.

Peterson può affermare perciò che in origine quell’espressione non fu un’espressione protocollare per gli ebrei. «È vero che varie volte si parla della ingenita perfidia dei Giudei, ma questo vuol dire soltanto che già nell’Antica Alleanza essi caddero ripetutamente in preda all’incredulità; e non significa che il vincolo dell’alleanza sia stato spezzato, così da poter parlare di “perfidia” nel senso originario» (p. 308).

Ma perché dunque si è instaurata in prosieguo di tempo l’interpretazione erronea e offensiva che è giunta fino a noi?

Innanzitutto perché tale interpretazione fu confermata dalla rubrica che a partire dal secolo IX accompagnò quella preghiera: «Non si risponde “Amen” e non si dice “Preghiamo” né “Inginocchiamoci” o “Alzatevi”». Rubrica che «quasi obbligava a intendere quella preghiera per i Giudei come se la loro perfidia dovesse essere interpretata a livello morale e ripagata a livello liturgico con modalità drammatica» (p. 309).

Peraltro il Sacramentario gelasiano (che abbiamo in una scrittura del VII-VIII secolo), e dunque la liturgia romana, ancora non omette queste esortazioni del diacono. Senza di esse la preghiera per i Giudei era un’orazione come le altre, un’orazione in loro favore, pro Iudaeis potremmo dire parafrasando il titolo di un recentissimo lavoro di Valerio De Cesaris (Pro Iudaeis. Il filogiudaismo cattolico in Italia [1789-1938], Guerini e Associati, Milano 2006), e non una teatrale condanna.

L’assenza dell’“Amen” e delle esortazioni “Preghiamo”, “Inginocchiamoci”, “Alzatevi”, si comincia a riscontrare inizialmente solo in territorio franco. Peterson ipotizza che tali omissioni più che da antisemitismo politico vengano al seguito della novità liturgica nel frattempo là introdotta degli improperia: una sorta di rimproveri, provenienti dal mondo bizantino, posti in bocca al Signore nella liturgia del Venerdì Santo al momento dell’adorazione della croce. Neanche tale prassi, però, nonostante i legami così stretti stabilitisi coi Carolingi in quello stesso lasso di tempo, a Roma nel IX secolo risulta affermata. Al pari dell’aggiunta Filioque al Credo, si potrebbe commentare, a testimonianza di come Roma si attestasse sulla tradizione piuttosto che su una qualunque alleanza teologico-politica vecchia o nuova.

Anche sotto un altro profilo, d’altronde, secondo Peterson, queste innovazioni erano estranee alla tradizione romana: «Non si può negare che, dietro gli improperia e l’ampliamento della preghiera intercessoria per gli ebrei, stia quello spirito di pietà carico di eccitazione che certamente contrasta con la sobrietà della pietà romana» (p. 310).

Peterson rileva infine l’importanza che già a partire dal IX secolo ha avuto l’interpretazione allegorica, che poi ha generalmente accompagnato l’omissione della genuflessione nella preghiera di intercessione per i Giudei, «nella quale emerge lo stesso nuovo spirito liturgico che sta dietro anche agli improperia» (p. 311). Cita Amalario di Metz, che a questo proposito scriveva: «In tutte le orazioni ci genuflettiamo, per indicare attraverso questo comportamento del corpo l’umiltà dell’anima. Eccetto quando preghiamo pro perfidis Iudaeis. Infatti quelli piegando le ginocchia facevano in modo cattivo un atto di per sé buono, perché lo facevano fingendo. Noi evitiamo di genufletterci nell’orazione per i Giudei, per mostrare che dobbiamo rifuggire dagli atti di simulazione» (De ecclesiasticis officiis 1, 13).

In realtà, conclude Peterson, furono i soldati romani e non i Giudei, come alcuni autori medievali avevano già fatto notare, che si inchinarono per dileggio davanti al Signore. E questo non fa altro che dimostrare che tanto la prassi quanto l’interpretazione della speciale natura della preghiera pro perfidis Iudaeis non furono se non una invenzione. Niente a che vedere con la liturgia. (Lorenzo Cappelletti, 30Giorni, ottobre 2007)

 

 


 

Una società indistinta: Le elezioni europee in Romania

La Romania non è un Paese eccezionale. Nemmeno quando va a votare. Dovunque, nei Paesi europei, vecchi e nuovi, prima di essere una tecnica di formazione del parlamento e del governo, le elezioni sono una forma di conoscenza. Attraverso il voto, i cittadini compongono un'immagine sintetica della società di cui fanno parte, quadro che nessuna scienza sociale può sperare di realizzare attraverso i propri metodi accademici.

Il suffragio è un'occasione per capire quali siano i valori e i temi intorno a cui una società si organizza, i tratti dominanti e più significativi di un autoritratto politico a misura naturale. Il 25 novembre i rumeni hanno potuto capire meglio loro stessi ed hanno acquisito un più di conoscenza riguardo allo Stato che li sta governando anche nell'appartenenza all'Ue.

Come le elezioni nazionali tre anni fa, anche le elezioni europarlamentari sono state una testimonianza sulla natura e sulla consistenza dello Stato rumeno. A questo punto si può registrare una particolarità: lo Stato rumeno non sa ancora contare. Il ministero dell'Interno ha messo sulle liste elettorali 18.267.634 cittadini con diritto di voto mentre l'Ufficio nazionale di statistica ha sostenuto che il numero ufficiale degli elettori è di 17.396.549. La differenza fra le due cifre è uguale al risultato del secondo arrivato nelle elezioni, il Partito sociale democratico, al quale spetta il 22% dei voti. Anche se incapace di contare con precisione i suoi cittadini, lo Stato rumeno si è mostrato negli ultimi mesi estremamente preoccupato per gli emigranti rumeni in Italia, Spagna, Francia e Stati Uniti, che arrivano a circa 3 milioni.

Considerati una risorsa elettorale di primo livello, sono stati creati per costoro 200 di centri di votazione nei 5 continenti. Solo alcune migliaia di emigranti però si sono presentati a votare, segno che il loro legame politico con il Paese è quasi inesistente. Soltanto il 29% dei cittadini rumeni ha deciso di contribuire al ritratto politico collettivo nazionale ed europeo. Più del 50% di questi, se si crede agli studi sociologici intrapresi al momento del voto, sono portatori di un capitale sociale precario: uomini sopra i 50 anni con educazione esclusivamente elementare.

Il tipico elettore rumeno è quindi poco alfabetizzato. Le più dinamiche zone del Paese, Bucarest, Prahova, Timis, dove la disoccupazione è rara e la densità della popolazione attiva è massima, hanno prodotto le più basse percentuali di partecipazione al voto. La politica sembra essere, nella Romania europea, piuttosto una preoccupazione di coloro che non si sono imposti sul mercato. E coloro che si esprimono politicamente attraverso il voto non lo fanno per contestare il sistema politico. Il Partito dell'alleanza socialista affiliato alla famiglia della sinistra europea non ha ottenuto più dello 0,5% e nessuno dei due partiti che solitamente sono di destra non hanno superato il limite del 5%.

Il numero più alto dei voti (30%) è stato riportato dal partito del presidente Basescu, organizzazione senza alcuna ideologia e senza altra convinzione fuorché il successo negli affari e nelle funzioni pubbliche. Questo potrebbe dire che i rumeni che hanno ora votato lo abbiano fatto nella speranza di non aver più motivi per farlo di nuovo nel futuro. Le elezioni del 25 novembre non hanno offerto un'immagine di distinzione tra la destra e la sinistra, quanto piuttosto la visione di una società indistinta, il cui regime di coerenza è apolitico. Non c'è bisogno di evidenziare i riflessi di questa situazione sull'appartenenza all'Ue. (Daniel Barbu, Università di Bucarest – Romania, Sir, 28 novembre 2007)

 

 


 

Settimanali cattolici, la forza del territorio

Realtà radicate sul territorio, con solide basi e uno sguardo rivolto all’uomo. Sono i 168 settimanali diocesani aderenti alla Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici), che hanno preso parte, a Roma dal 22 al 24 novembre, alla 15a Assemblea nazionale elettiva della Federazione. “Giornali diocesani, testimoni di speranza” il tema dell’appuntamento, aperto giovedì pomeriggio dall’intervento del segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Betori, e dalla relazione del presidente uscente della Fisc, don Giorgio Zucchelli. Tra i presenti, il sottosegretario alla Presidenza del consiglio dei ministri con delega per l’editoria, Riccardo Levi, e il presidente dell’Uspi (Unione stampa periodica italiana), Francesco Saverio Vetere, che sono intervenuti su temi cruciali per le piccole testate, come le modifiche alla legislazione vigente in materia di contributi per le spedizioni postali e il disegno di legge sull’editoria. Sempre giovedì pomeriggio, all’interno di un concerto pianistico del maestro Sebastian Di Bin, è stato consegnato il “Premio Fallani”, in memoria di Giovanni Fallani, giornalista, fondatore e, per oltre 30 anni, segretario generale della Fisc, nonché direttore del Sir dalla nascita all’aprile 1997. Vincitrice del premio, Barbara Sartori del settimanale diocesano di Piacenza-Bobbio “Il nuovo giornale”, mentre una menzione speciale è andata a “La Stadera”, periodico della parrocchia del Ss.mo Crocifisso di Barletta. Venerdì, invece, i lavori della mattinata sono stati su “L’informazione ecclesiale nella stampa italiana”, con la presentazione di un’indagine condotta dal Centro di ricerca sui media e la comunicazione dell’Università Cattolica di Milano. Il direttore del Centro, Fausto Colombo, ha presentato la ricerca, concentrata sulla copertura, da parte di tre quotidiani italiani, del Family Day; in seguito, è intervenuto il direttore di “Avvenire”, Dino Boffo. Nel pomeriggio sono state avviate le operazioni per il rinnovo delle cariche associative. Gli eletti al Consiglio nazionale e al Comitato tecnico consultivo sono stati proclamati sabato mattina, prima che tutti i direttori e i delegati dei settimanali cattolici si trasferissero alla Città del Vaticano in occasione del Concistoro.

Il compito dei settimanali cattolici.

“Uno strumento privilegiato per radicare nel popolo la visione cristiana della vita”. Aprendo i lavori dell’Assemblea elettiva della Fisc, mons. Giuseppe Betori ha così definito il compito dei settimanali diocesani, invitando i cattolici a “dare forma culturale alla fede”, realizzando quel “progetto culturale” avviato dai vescovi italiani nel 1994. “Non esistono – ha sottolineato mons. Betori – areopaghi in cui il Vangelo non possa essere annunciato, piazze e case in cui non possa essere testimoniato, e diventare così principio di una nuova condivisione, di una nuova società”. “Oggi – ha aggiunto – il Vangelo deve poter essere proclamato anche in quell’ambiente mediatico che caratterizza la società odierna. Richiede quindi nuove competenze, nuove creatività e una conversione culturale della pastorale, per dare nuovo spessore di pensiero e linguaggio alla fede, apertura al confronto e al dialogo con tutte le componenti vive del Paese. È il compito di voi tutti che lavorate nel campo delle comunicazioni sociali”. Il segretario generale della Cei ha poi richiamato “la questione antropologica” come “la nuova questione sociale di oggi”, i cui esiti “determineranno in bene o in male il futuro dell’umanità”. Ai settimanali cattolici, dunque, spetta il compito “di essere, sempre più e particolarmente oggi, veicoli sistematici e continuativi di quell’antropologia cristiana che è anche profondamente umana”. Mentre mons. Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio per le comunicazioni sociali, ha richiamato il tema della prossima giornata delle comunicazioni sociali, “I media al bivio tra protagonismo e servizio. Cercare la verità per condividerla”, soffermandosi in particolare sulla seconda parte, chiesta “personalmente” dal Papa. “Per voi non è una novità”, ha affermato, rivolto ai presenti, ricordando che “in questo momento siamo tutti chiamati ancora di più a muoverci secondo questa linea”.

Il bilancio del triennio.

Un triennio (dal 2005 al 2007) “denso di attività, caratterizzato da numerose iniziative”, che “ha registrato un dinamismo notevole negli ambiti d’impegno in cui la Fisc è da sempre attiva: ecclesiale, socio-culturale e pubblico”. È il bilancio che il presidente uscente, don Giorgio Zucchelli, ha tracciato nella sua relazione. Tra le principali iniziative condotte dalla Federazione, il presidente ha ricordato l’approvazione del nuovo Statuto, avvenuta nell’assemblea straordinaria del 2006 (Roma, 23-25 novembre), i convegni di formazione, “che rientrano in una tradizione consolidata”, il pellegrinaggio in Palestina (27 aprile-4 maggio 2006), l’impegno a “sviluppare sinergie con i media d’ispirazione cristiana e, dall’inizio del 2007, con i giornali per gli italiani emigrati”. Tracciando un identikit dei settimanali aderenti alla Fisc, don Zucchelli li ha presentati come “giornali d’informazione legati alle Chiese locali”, che “trasmettono, mediante l’informazione, il patrimonio di un intero territorio”, rendendosi così “soggetti attivi di cittadinanza”. Proprio per queste caratteristiche, ha evidenziato, “è nata la proposta di avere un settimanale in ogni diocesi”. In questi anni, “abbiamo lavorato per avvicinarci a questo obiettivo”, e il risultato sta nella “nascita o iscrizione alla Fisc di ben 14 giornali”, anche se “dobbiamo purtroppo registrare alcune sofferenze, come la recente chiusura di 4 settimanali e alcune sospensioni”. Ricordando poi il ruolo della stampa diocesana nel promuovere “i valori non negoziabili che il magistero del Papa ci propone costantemente”, Zucchelli ha rilevato come si tratti di “una grande sfida per i nostri giornali nei confronti di un pensiero unico, minoritario e che, tuttavia, si vuole imporre tramite i grandi mezzi di comunicazione”. Una sfida, dunque, e una “grande missione” che i settimanali “svolgono ogni settimana pubblicando innumerevoli servizi ispirati ai valori evangelici”.

Media e informazione religiosa in Italia.

Leggere la copertura mediatica del Family Day come contributo a “una riflessione sullo stato dell’informazione e dei processi di costruzione dell’opinione pubblica in Italia, con particolare attenzione al modo in cui la stampa copre i temi dell’esperienza religiosa ed ecclesiale”, è stato l’obiettivo della ricerca presentata venerdì mattina da Fausto Colombo. Tre testate quotidiane sono state analizzate: “Avvenire”, il “Corriere della Sera” e “La Repubblica”. Se il quotidiano cattolico, riporta la ricerca, “ha rappresentato una voce informativa organica al movimento, e in quanto tale ha scelto di sviluppare una prospettiva d’osservazione interna ai fatti”, “Corriere” e “Repubblica” hanno invece maturato una posizione distaccata, “al di sopra dei giudizi e delle strategie di attribuzione valoriale proposte dalle diverse parti” per il primo, con uno sguardo “ironico” e “il compito di rappresentare la componente laica della società italiana, che si ritiene minacciata dalle ingerenze ecclesiastiche e scarsamente tutelata dai partiti e dalla politica in generale” nel secondo caso. Il direttore di “Avvenire”, Dino Boffo, ha sottolineato come la nostra informazione ecclesiale sia “colta, assidua e documentata, fatta da bravi vaticanisti”. Ma, soprattutto negli ultimi tempi, si leggono sulla stampa “laica” inchieste che dipingono “una Chiesa ricca e ingorda, sporcacciona, contraria ai progressi della scienza e collusa con il potere e la malavita”. Attacchi violenti, che, però, “non sono a firma dei vaticanisti, ma di giornalisti che abitualmente si occupano di altro. Secondo Boffo, dietro a questi comportamenti si cela un disegno ideologico e la “volontà di intaccare la stima di cui gode la Chiesa nel nostro Paese”, resa più acuta dopo l’impegno della Chiesa per l’astensione al referendum del 2005 sulla procreazione assistita. Da parte sua, Fausto Colombo, pur riconoscendo che “ci sono alcuni «complotti», ossia linee d’intervento strategiche”, ha dichiarato di rifiutare la “teoria del complotto, che parte dal presupposto che ogni attacco rientri in questa strategia”. Piuttosto, ha aggiunto, “molto spesso abbiamo una cattiva informazione perché i giornalisti fanno male il loro lavoro”. Il docente ha poi invitato a “usare le critiche che vengono mosse alla Chiesa per capire i punti di forza, piuttosto che le debolezze” e non sottovalutare “l’azione forte e robusta” che gli organi d’informazione cattolici possono condurre, come dimostrato in occasione delle recenti mobilitazioni per il referendum sulla legge 40 e il Family Day.

Quali prospettive?

Accrescere la “capacità di fare opinione” è l’obiettivo per i prossimo anni che attende i settimanali cattolici, ha affermato Zucchelli al termine dei lavori assembleari. Un impegno che richiede lo sviluppo, già avviato, di “nuove alleanze e nuove sinergie fra i media cattolici”. “Sia il card. Bagnasco, che abbiamo incontrato recentemente, sia mons. Betori, che giovedì ha aperto l’assemblea, ci hanno spinto a lavorare in questa direzione”. E dall’assise dei settimanali cattolici è emerso proprio che “più saremo uniti, più saremo forti”. “Uniti nell’impegno – ha concluso – e autonomi nelle scelte sul territorio”. (Vincenzo Corrado, Simona Mengascini, Francesco Rossi, Toscana Oggi, 27 novembre 2007)

 

 

 


 

25 novembre 2007

 

Matrimonio tesoro prezioso da custodire in ogni caso

Il Santo Padre Benedetto XVI ha ricevuto oggi i Presuli della Conferenza Episcopale del Kenya, al termine della Visita “ad Limina Apostolorum”.

“Sono i Vescovi che, in quanto ministri e segni di comunione in Cristo” - ha detto il Papa all'inizio del suo discorso - “sono preminentemente chiamati a rendere manifesta l'unità della sua Chiesa. (...) “Vi esorto - ha detto il Papa ai Presuli - a continuare la vostra fraterna cooperazione reciproca nello spirito di comunità dei discepoli di Cristo, uniti nel vostro amore per Lui e nel Vangelo che proclamate”.

“Nell'ambito di ogni Diocesi, il dinamismo e l'armonia del presbiterato offrono un chiaro segno della vitalità della Chiesa locale. (...) Come Vescovi, dobbiamo costantemente sforzarci di costruire un senso di comunità fra i sacerdoti (...). Dobbiamo essere loro vicini e incoraggiarli, in primo luogo, a rimanere fermamente radicati nella preghiera (...). Lasciate che si abbeverino profondamente alle fonti della Sacra Scrittura e alla quotidiana e riverente celebrazione della Santissima Eucaristia. (...) Lasciate che si dedichino con generosità alla preghiera della Liturgia delle Ore”.

“Un tema chiave di unità nella comunità è l'istituzione del matrimonio e della vita familiare” - ha detto ancora il Papa - “che i popoli dell'Africa tengono in speciale considerazione. (...) Questo tesoro prezioso deve essere custodito a tutti i costi. Troppo spesso, i mali che affliggono alcune parti della società africana, come la promiscuità, la poligamia e la diffusione delle malattie sessualmente trasmesse, possono essere direttamente connessi con le disordinate nozioni di matrimonio e vita familiare”.

“Per questa ragione” - ha aggiunto il Pontefice - “è importante assistere i genitori nell'insegnare ai loro figli come vivere una visione cristiana del matrimonio, concepito come una unione indissolubile fra un uomo e una donna, essenzialmente uguali nella loro umanità e aperti alla generazione di nuove vite”.

“Mentre questa concezione della vita familiare cristiana trova una profonda risonanza in Africa, è materia di grande preoccupazione che la cultura secolarizzata globale eserciti una crescente influenza sulle comunità locali quale risultato di campagne di agenzie che promuovono l'aborto”.

“Questa diretta distruzione di una vita umana innocente non può mai essere giustificata, per quanto difficili possano essere le circostanze che portano a decidere di compiere un passo tanto grave. Quando predicate il Vangelo della Vita, ricordate alle vostre popolazioni che il diritto alla vita di ogni essere umano innocente, nato o non nato, è assoluto e si applica a tutti gli individui senza eccezioni”.

“La comunità cattolica deve offrire sostegno a tutte quelle donne che possono trovare difficile accettare un figlio, soprattutto quando si trovino isolate dalla famiglia e dagli amici. Parimenti, la comunità deve essere aperta ad accogliere tutte quelle persone pentite di aver partecipato al grave peccato dell'aborto, e guidarle con carità pastorale ad accettare la grazia del perdono, la necessità del pentimento, e la gioia di entrare una volta ancora nella nuova vita di Cristo”.

Benedetto XVI ha ricordato successivamente che la Chiesa in Kenya è ben nota per “il grande contributo della sue istituzioni educative nella formazione dei giovani in principi etici solidi e nell'aprire la mente per impegnarsi in un dialogo pacifico e rispettoso con i membri di altri gruppi sociali o religiosi”.

“In un'epoca in cui la mentalità secolarizzata e relativista sempre di più asserisce se stessa mediante mezzi globali di comunicazione sociale, è essenziale continuare a promuovere la qualità e l'identità cattolica delle vostre scuole, università e seminari. Intraprendete i necessari passi per affermare e chiarificare il loro proprio status. (...) Ai nostri giorni c'è particolarmente bisogno di professionisti altamente qualificati e di persone di integrità nell'area della medicina, dove i progressi nella tecnologia continuano a sollevare seri interrogativi morali”. (VIS, 19 novembre 2007)

 

 


 

Fisichella: Rosmini fu sempre fedele alla Chiesa.

Intervista al vescovo e rettore della Lateranense Mons. Rino Fisichella che è stato «ponente» della causa di beatificazione del roveretano Antonio Rosmini. «Solo chi ama davvero il popolo di Dio può additarne le piaghe e prestarsi a curarle»

Confessa di essersi «emozionato», domenica a Novara, durante il rito di beatificazione. «Mentre si alzava il velo sul ritratto di Rosmini ho percepito un sorriso, del tutto indescrivibile, sul suo volto. Forse un sorriso di soddisfazione perché finalmente veniva riconosciuta la sua buona volontà di servire la Chiesa. Questa, non altro, è stata la sua vita». In tale cammino di «riconoscimento» del volto autentico dell’autore delle Cinque piaghe della santa Chiesa, il vescovo ausiliare di Roma, Rino Fisichella, ha avuto un ruolo importante: quello di «ponente». «Nella prassi della Congregazione delle cause dei santi – spiega il rettore della Lateranense – l’ultimo passaggio prima di arrivare al Papa è la riunione plenaria della Congregazione, dove vi sono quindici cardinali e vescovi che debbono votare sia le virtù sia – in un momento diverso – il miracolo. Ogni causa viene presentata da un relatore, il ponente ».

D. Quale profilo di santità identifica Rosmini in modo peculiare?

R. In primo luogo la sua vita posta interamente alla luce dell’obbedienza alla volontà di Dio. In secondo luogo: quando Rosmini riceve la vocazione al sacerdozio, dice: Dio mi aprì gli occhi su molte cose, e io conobbi che non vi era altra sapienza se non in Dio. Ciò è peculiare per capire non solo la santità ma anche la profondità del suo pensiero: egli riconosce che c’è un primato della grazia nella nostra vita, che tutta la saggezza umana alla fine deve sfociare nella sapienza di Dio.

D. In Rosmini il riferimento alla carità è centrale...

R. Una carità che declina su tre piani. Prima di tutto la carità spirituale: la vita teologale, quell’amore che deve plasmare l’intera esistenza del cristiano. Vi è poi la sua bella interpretazione della carità intellettuale: da un lato Rosmini volle promuovere l’intelligenza della rivelazione e della fede, all’interno della Chiesa – quindi sostenne la formazione del clero, la cui insufficiente educazione aveva additato fra le «piaghe» della Chiesa; dall’altro divenne lui stesso segno concreto di dialogo con la cultura del tempo – si pensi a nomi come Tommaseo e Manzoni. Vi è infine la carità temporale. Rosmini non ha fondato solo l’Istituto della Carità ma anche le Suore della Provvidenza, come a dire che la carità deve sapersi aprire a quella dimensione più profonda, originaria d’ogni amore, che è l’amore di Dio provvidente.

D. Lei era a Novara, domenica. Quali sentimenti ha vissuto?

R. Di grande emozione: mentre il velo scopriva il ritratto di Rosmini, mi pareva di vedere un sorriso. Di rivincita? Lui non era l’uomo delle rivincite. Ma la sua vita testimonia una santità che si esprime nella parresia, nel parlare chiaro e forte. Una santità attuale: in tempi di politically correct come i nostri, ci ricorda che l’amore si manifesta dicendo la verità. Certamente nella carità, come insegna san Paolo.

D. Rosmini: non solo intellettuale, ma prima di tutto sacerdote. Che cos’ha da dire ai preti di oggi?

R. A quanti sono ministri del mistero ricorda come debbano indagare sempre più in profondità il mistero del quale vivono, e farsi segno eloquente del mistero che va incontro a ogni persona.

D. E a quanti – laici in primis – sono impegnati nella vita sociale?

R. Ricorda di essere ministri della carità nel suo triplice ordine: cioè di vivere della carità spirituale e di praticare senza timori la carità intellettuale, senza limitarsi a essere dispensatori della carità temporale. Rosmini – ce lo rammenta Giovanni Paolo II nella Fides et ratio – è stato inoltre l’autore di un sistema filosofico di così altro profilo da saper affascinare anche il filosofo di oggi e chi non condivide la nostra fede. Il suo talento intellettuale si è prestato anche al servizio della politica.

D. Se Rosmini potesse tornare a chinarsi sulle ferite e le speranze della Chiesa, se potesse aggiornare la sua opera più celebre, quali nomi darebbe oggi alle «piaghe»?

R. Non voglio essere blasfemo, ma credo che oggi come al suo tempo – probabilmente – prenderebbe in considerazione la «piaga» dell’insufficiente educazione del clero. Alcune «piaghe » d’allora sono state superate, ma altre – grazie alla sua lucidità e profondità – saprebbe individuarle, e non so se gli basterebbe il numero di cinque... Attenzione, però: solo chi ama davvero la Chiesa, fino in fondo – come Rosmini – è in grado di scrivere pagine che dall’interno possano far comprendere i limiti degli uomini di Chiesa.

D. Dove e come visse, Rosmini, la sua «obbedienza alla volontà di Dio»?

R. Soprattutto nella fedeltà alla Chiesa. Anche di fronte alle prospettive di carriera ecclesiastica, volle rimanere fedele alla missione che Pio VIII gli aveva affidato di servire la Chiesa col suo lavoro intellettuale.

D. Qual è l’eredità più viva, preziosa, che le ha lasciato questo incarico di «ponente » nella causa di Rosmini?

R. Ringrazio il Signore e i superiori di avermi assegnato questa causa. Si è finalmente riconciliata la santità e l’intelligenza di un sacerdote con quel cammino di sviluppo dell’intelligenza che la Chiesa ha sempre avuto del mistero in cui crede. Rosmini inoltre mi ha fatto capire una cosa molto semplice: che la fede è la cosa più grande. Che tutto quel che facciamo, è solo per amore della Chiesa, per fedeltà alla chiamata del Signore. Soltanto lì stanno la gioia e la consolazione. (Lorenzo Rosoli, Avvenire, 20 novembre 2007)

 

 


  

Mons. Ranjith: il Papa lasciato solo dai più fedeli?

Il 14 settembre è entrato in vigore il Motu Proprio Summorum Pontificum promulgato da Papa Benedetto XVI; il 7 luglio 2007 e dedicato al rito di San Pio V rivisto nel 1962 da Papa Giovanni XXIII. Con il Motu Proprio (iniziativa promossa da parte ci chi ne ha le facoltà) torna la possibilità di celebrare col Messale tridentino senza dover necessariamente chiedere il permesso del Vescovo. Con il Concilio Vaticano II e in particolare con la riforma liturgica del 1970 promossa da Papa Paolo VI, l’antico Messale era stato sostituito dal nuovo e, anche se ufficialmente non era mai stato abolito, i fedeli per utilizzarlo dovevano avere espressamente il permesso del Vescovo. Un permesso sancito all’interno di un altro Motu Proprio: l’Ecclesia Dei adflicta firmato da Papa Giovanni Paolo II il 2 luglio 1988. Oggi, con il nuovo Motu Proprio, questo permesso non è più necessario e qualsiasi «gruppo stabile» di fedeli può liberamente chiedere al proprio parroco la possibilità di celebrare seguendo l’antico Messale. L’Agenzia Fides ha rivolto alcune domande a questo proposito a Sua Ecc. Monsignor Albert Malcolm Ranjith, Arcivescovo Segretario della Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti.
D. Eccellenza Reverendissima, qual è a suo avviso il significato profondo del Motu Proprio Summorum Pontificum?

R. Vedo in questa decisione non solo la sollecitudine del Santo Padre di aprire la strada del rientro nella piena comunione della Chiesa ai seguaci di Monsignor Lefebvre, ma anche un segno per tutta la Chiesa su alcuni principi teologico-disciplinari da salvaguardare per un suo profondo rinnovamento, tanto auspicato dal Concilio. Mi pare che ci sia un forte desiderio del Papa di correggere quelle tentazioni visibili in alcuni ambienti i quali vedono il Concilio come un momento di rottura con il passato e di un nuovo inizio. Basti ricordare il suo discorso alla Curia Romana il 22 Dicembre 2005. D’altronde neanche il Concilio pensò, di se stesso, in questi termini. Sia nelle sue scelte dottrinali che in quelle liturgiche come anche in quelle giuridiche-pastorali, il Concilio fu un altro momento di approfondimento e di aggiornamento della ricca eredità teologico-spirituale della Chiesa nella sua storia bimillenaria. Con il Motu Proprio il Papa vuole affermare chiaramente che ogni tentazione di disprezzo di queste venerate tradizioni è fuori posto. Il messaggio è chiaro: progresso, sì, ma non a scapito, o senza la storia. Anche la riforma liturgica deve essere fedele a tutto ciò che è successo dagli inizi ad oggi, senza esclusioni.

Dall’altro lato, non dobbiamo mai dimenticare che per la Chiesa Cattolica la Rivelazione Divina non è qualcosa proveniente solo dalla Sacra Scrittura, ma anche dalla Tradizione vivente della Chiesa. Tale fede ci distingue nettamente da altre manifestazioni della fede cristiana. La verità per noi è ciò che emerge, per così dire, da tutti e due questi poli, cioè Sacra Scrittura e Tradizione. Questa posizione per me è molto più ricca di altre vedute perché rispetta la libertà del Signore a guidarci verso una più adeguata comprensione della verità rivelata anche attraverso ciò che succederà nel futuro. Naturalmente, il processo di discernimento di ciò che emerge verrà attuato attraverso il Magistero della Chiesa. Ma ciò che dobbiamo cogliere è l’importanza attribuita alla Tradizione. La Costituzione Dogmatica Dei Verbum affermò questa verità chiaramente (DV 10).

Inoltre la Chiesa è una realtà che sorpassa i livelli di una pura invenzione umana. Essa è il Corpo mistico di Cristo, la Gerusalemme celeste e la stirpe eletta di Dio. Essa, perciò, supera le frontiere terrestri e ogni limitazione di tempo ed è una realtà che trascende di molto la sua manifestazione terrestre e gerarchica. Perciò in essa, ciò che è ricevuto, dovrà essere trasmesso fedelmente. Noi non siamo né inventori della verità, né i suoi padroni, ma solo coloro che la ricevono e hanno il compito di proteggerla e trasmetterla agli altri. Come diceva San Paolo parlando dell’Eucaristia: “io infatti ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso” (1Cor 11, 23). Il rispetto della Tradizione non è dunque una nostra scelta libera nella ricerca della verità, ma la sua base che deve essere accettata. Nella Chiesa la fedeltà alla Tradizione perciò, è un atteggiamento essenziale della Chiesa stessa. Il Motu Proprio, a mio parere, và inteso anche in questo senso. Esso è un possibile stimolo per una necessaria correzione di rotta. Infatti, in alcune scelte della riforma liturgica attuata dopo il Concilio, sono stati adottati degli orientamenti che hanno offuscato alcuni aspetti della liturgia, meglio riflettuta dalla precedente prassi, perché, da alcuni, il rinnovamento liturgico è stato inteso come qualcosa da realizzare ex novo. Però, sappiamo bene che tale non fu l’intenzione della Sacrosanctum Concilium, che rileva che “le nuove forme in qualche modo scaturiscano organicamente da quelle già esistenti” (SC 23).

D. Una caratteristica del Pontificato di Benedetto XVI sembra essere l’insistenza intorno a una corretta ermeneutica del Concilio Vaticano II. Secondo Lei il Motu Proprio “Summorum Pontificum” va in questa direzione? Se sì, in che senso?

R. Già da Cardinale nei suoi scritti il Papa aveva rigettato un certo spirito di esuberanza visibile in alcuni circoli teologici motivati da un cosiddetto “spirito del Concilio” che per lui fu in realtà un vero “anti spirito” o un “Konzils - Ungeist” (Rapporto sulla Fede, San Paolo, 2005, capitolo 2). Cito testualmente tale scritto in cui il Papa sottolinea: “bisogna decisamente opporsi a questo schematismo di un prima e di un dopo nella storia della Chiesa, del tutto ingiustificato dagli stessi documenti del Vaticano II che non fanno che riaffermare la continuità del cattolicesimo” (ibid p. 33).

Ora, un tale errore di interpretazione del Concilio e del cammino storico-teologico della Chiesa ha influito su tutti i settori ecclesiali, liturgia inclusa. Un certo atteggiamento, di facile rigetto degli sviluppi ecclesiologici e teologici, come anche di quelli liturgici dell’ultimo millennio da un lato e una ingenua idolizzazione di ciò che sarebbe stato la mens della Chiesa cosiddetta dei primi cristiani dall’altro, ha avuto un influsso di non poca rilevanza sulla riforma liturgico-teologica dell’era post conciliare.

Il rigetto categorico della Messa pre-conciliare, come un relitto di un’epoca ormai “superata”, fu il risultato di questa mentalità. Tanti hanno visto le cose in questo modo, per grazia di Dio, non tutti. La stessa Sacrosanctum Concilium, la Costituzione Conciliare sulla Liturgia, non offre alcuna giustificazione a tale atteggiamento. Sia nei principi generali che nelle norme proposte, il Documento è sobrio e fedele a ciò che significa la vita liturgica della Chiesa. Basti leggere il numero 23 di detto documento per essere convinti di tale spirito di sobrietà.

Alcune di queste riforme hanno abbandonato importanti elementi della Liturgia con le relative considerazioni teologiche: ora è necessario e importante recuperare questi elementi. Il Papa, considera il rito di San Pio V rivisto dal Beato Giovanni XXIII una via di recupero di quegli elementi offuscati dalla riforma, avrà certamente riflettuto tanto sulla sua scelta; sappiamo che ha consultato diversi settori della Chiesa su tale questione e, nonostante alcune posizioni contrarie, ha deciso di permettere la libera celebrazione di quel Rito. Tale mossa non è tanto, come dicono alcuni, un ritorno al passato, quanto il bisogno di riequilibrare in modo integro gli aspetti eterni, trascendenti e celesti con quelli terrestri e comunitari della liturgia. Essa aiuterà a stabilire eventualmente un equilibrio anche tra il senso del sacro e del mistero da un lato e quello dei gesti esterni e degli atteggiamenti e impegni socio-culturali derivanti dalla liturgia.

D. Quando era ancora Cardinale, Joseph Ratzinger insisteva molto sulla necessità di leggere il Concilio Vaticano II a partire dal suo primo documento e cioè la Sacrosanctum Concilium. Perché, secondo Lei, i Padri Conciliari hanno voluto dedicarsi innanzitutto alla liturgia?

R. Prima di tutto dietro tale scelta stava sicuramente la consapevolezza dell’importanza vitale della liturgia per la Chiesa. La liturgia, per così dire, è l’occhio del tifone, perché ciò che si celebra, è ciò che si crede e ciò che si vive: il famoso assioma Lex orandi, lex credendi. Perciò ogni vera riforma della Chiesa passa attraverso la liturgia. I Padri erano consci di tale importanza. D’altronde la riforma liturgica era un processo già in atto anche prima del Concilio a partire soprattutto dal Motu Proprio Tra le Sollecitudini di San Pio X e la Mediator Dei di Pio XII.

È San Pio X che attribuì alla liturgia l’espressione “prima sorgente” dell’autentico spirito cristiano. Forse già anche l’esistenza delle strutture e dell’esperienza di chi si impegnava per lo studio e l’introduzione di alcune riforme liturgiche, stimolava i Padri Conciliari a scegliere la liturgia come materia da considerare per prima nelle sedute del Concilio. Papa Paolo VI rifletteva la mens dei Padri Conciliari sulla questione quando disse: “noi vi ravvisiamo l’ossequio della scala dei valori e doveri: Dio al Primo posto; la preghiera prima nostra obbligazione; la liturgia prima fonte della vita divina a noi comunicata, prima scuola della nostra vita spirituale, primo dono che possiamo fare al popolo cristiano…” (Paolo VI, Discorso di chiusura del 2° periodo del Concilio, 4 dicembre 1963).

D. In molti hanno letto la pubblicazione del Motu Proprio “Summorum Pontificum” come una volontà del Pontefice di avvicinare la Chiesa agli scismatici lefebvriani. È così secondo Lei? Va anche in questo senso il Motu Proprio?

R. Si, ma non solo. Il Santo Padre spiegando le motivazioni della sua decisione, sia nel testo del Motu Proprio che nella lettera di presentazione scritta ai Vescovi, elenca anche altre ragioni importanti. Naturalmente avrà tenuto conto della richiesta sempre più crescente, fatta da diversi gruppi e soprattutto dalla Società di San Pio X e la Fraternità Sacerdotale di San Pietro come anche da Associazioni di Laici, per la liberalizzazione della Messa di San Pio V. Assicurare l’integrazione totale dei Lefebvriani era importante anche per il fatto che spesso, nel passato, sono stati commessi degli errori di giudizio causando inutili divisioni nella Chiesa, divisioni che ora sono diventate quasi insuperabili. Il Papa parla di questo possibile pericolo nella lettera di presentazione del Documento scritta ai Vescovi.

D. Quali sono a Suo avviso le problematiche più urgenti per la giusta celebrazione della Sacra liturgia? Quali le istanze su cui insistere maggiormente?

R. Credo che nella crescente richiesta per la liberalizzazione della Messa di San Pio V, il Papa abbia visto segni di un certo svuotamento spirituale causato dal modo con cui i momenti liturgici, sono finora celebrati nella Chiesa. Tale difficoltà scaturisce tanto da certi orientamenti della riforma liturgica post conciliare che tendevano a ridurre, o meglio ancora, a confondere aspetti essenziali della fede, quanto da atteggiamenti avventurosi e poco fedeli alla disciplina liturgica della stessa riforma; il che si constata ovunque.

Credo che una delle cause per l’abbandono di alcuni elementi importanti, del rito tridentino nella realizzazione della riforma post conciliare da parte di certi settori liturgici sia il risultato di un abbandono o d’una sottovalutazione di ciò che sarebbe successo nel secondo millennio della storia della liturgia. Alcuni liturgisti vedevano gli sviluppi di questo periodo piuttosto negativamente. Tale giudizio è erroneo perché quando si parla della tradizione vivente della Chiesa non si può scegliere qua e là ciò che concorda con le nostre idee pre concepite. La Tradizione, considerata in un senso generale anche negli ambiti della scienza, filosofia o teologia, è sempre qualcosa di vivente che continua a evolvere e progredire anche nei momenti alti e bassi della storia. Per la Chiesa la Tradizione vivente è una delle fonti della rivelazione divina ed è frutto di un processo di evoluzione continuo. Ciò è vero anche nella tradizione liturgica, con la “t” minuscola. Gli sviluppi della liturgia nel secondo millennio hanno il loro valore. La Sacrosanctum Concilium non parla di un nuovo Rito, o di un momento di rottura, ma di una riforma che emerga organicamente da ciò che già esiste. È per questo che il Papa dice: “nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso” (Lettera ai Vescovi, 7 luglio 2007). Idolatrare ciò che è successo nel primo Millennio a scapito di quello successivo è, dunque, un atteggiamento poco scientifico. I Padri Conciliari non hanno mostrato un tale atteggiamento.

D. Una seconda problematica sarebbe quella di una crisi di obbedienza verso il Santo Padre che si nota in alcuni ambienti. Se tale atteggiamento di autonomia è visibile fra alcuni ecclesiastici, anche nei ranghi più alti della Chiesa, non giova certamente alla nobile missione che Cristo ha affidato al suo Vicario.

R. Si sente che in alcune nazioni o diocesi sono state emanate dai Vescovi delle regole che praticamente annullano o deformano l’intenzione del Papa. Tale comportamento non è consono con la dignità e la nobiltà della vocazione di un pastore della Chiesa. Non dico che tutti siano così. La maggioranza dei Vescovi ed ecclesiastici hanno accettato, con il dovuto senso di riverenza e obbedienza, la volontà del Papa. Ciò è veramente lodevole. Purtroppo ci sono state delle voci di protesta da parte di certuni.

Allo stesso tempo non si può ignorare che tale decisione fui necessaria perché come dice il Papa la Santa Messa: “in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso veniva addirittura inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale porta spesso a deformazioni della liturgia al limite sopportabile”. “Parlo per esperienza”, continua il Papa “perché ho vissuto anche io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni e ho visto quanto profondamente siano state ferite dalle deformazioni arbitrarie della liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa” (Lettera ai Vescovi). Il risultato di tali abusi fu un crescente spirito di nostalgia per la Messa di San Pio V. Inoltre un senso di disinteresse generale a leggere e rispettare sia i documenti normativi della Santa Sede, nonché le stesse Istruzioni e Premesse dei libri liturgici peggiorò la situazione. La liturgia ancora non sembra figurare sufficientemente nella lista delle priorità per i Corsi di Formazione continua degli ecclesiastici.
Distinguiamo bene. La riforma post conciliare non è del tutto negativa; anzi ci sono molti aspetti positivi in ciò che fu realizzato. Ma ci sono anche dei cambiamenti introdotti abusivamente che continuano ad essere portati avanti nonostante i loro effetti nocivi sulla fede e sulla vita liturgica della Chiesa.

Parlo qui per esempio d’un cambiamento effettuato nella riforma, il quale non fu proposto né dai Padri Conciliari né dalla Sacrosanctum Concilium, cioè la comunione ricevuta sulla mano. Ciò ha contribuito in qualche modo ad un certo calo di fede nella Presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. Questa prassi, e l’abolizione delle balaustre dal presbiterio, degli inginocchiatoi dalle chiese e l’introduzione di pratiche che obbligano i fedeli a stare seduti o in piedi durante l’elevazione del Santissimo Sacramento riducono il genuino significato dell’Eucaristia e, il senso della profonda adorazione che la Chiesa deve rivolgere verso il Signore, l’Unigenito Figlio di Dio. Inoltre, la Chiesa, dimora di Dio viene in alcuni luoghi usata come un’aula per incontri fraterni, concerti o celebrazioni inter-religiose. In qualche chiesa il Santissimo Sacramento viene quasi nascosto e abbandonato in una Cappellina invisibile e poco decorata. Tutto questo oscura la fede così centrale della Chiesa, nella presenza reale di Cristo. Per noi cattolici la Chiesa è essenzialmente la dimora dell’eterno.

Un altro serio errore è quello di confondere i ruoli specifici del clero e dei laici sull’altare rendendo il presbiterio un luogo di disturbo, di troppo movimento e non certamente “il luogo” dove il cristiano riesce a cogliere il senso di stupore e splendore davanti alla presenza e all’azione salvifica del Signore. L’uso delle danze, degli strumenti musicali e di canti che ben poco hanno di liturgico, non sono per nulla consoni all’ambiente sacro della chiesa e della liturgia; aggiungo anche certe omelie di carattere politico-sociale spesso poco preparate. Tutto ciò snatura la celebrazione della S. Messa e ne fa una coreografia e una manifestazione di teatralità, ma non di fede.

Ci sono anche altri aspetti poco coerenti con la bellezza e lo stupore di ciò che si celebra sull’altare. Non tutto va male con il Novus Ordo, ma molte cose ancora devono essere messe in ordine evitando ulteriori danni alla vita della Chiesa. Credo che il nostro atteggiamento verso il Papa, le sue decisioni e l’espressione della sua sollecitudine per il bene della Chiesa deve essere solo quello che San Paolo raccomandò ai Corinzi - “ma tutto si faccia per edificazione” (1Cor 14, 26). (Agenzia Fides 16/11/2007)

 

 


 

Come dipingere un'omelia, col pennello di Luca evangelista e pittore

Domenica prossima, festa di Cristo Re, si conclude l'anno liturgico. E la domenica successiva, prima d'Avvento secondo il rito romano, avrà inizio il nuovo anno: il primo del ciclo triennale di letture dell'Antico e del Nuovo Testamento, con il posto d'onore al Vangelo di Matteo.

Tra i parroci è pratica diffusa preparare le omelie con l'ausilio di libri di commento alle letture della messa del giorno. Ve ne sono molti in commercio, di questi manuali. In antico, però, non era così. Gli evangeliari e gli epistolari che dal VI secolo in poi raccoglievano le letture della messa non avevano bisogno di un commento in più, a parte. Erano essi stessi illustrazione delle pagine delle Sacre Scritture, guida visiva alla loro comprensione.

Quei lezionari spiegavano le Scritture con immagini intercalate ai testi, ad esempio con le splendide miniature dei codici medievali. Erano le immagini a far da guida e commento, a un clero e a un popolo già abituati a veder raffigurati sulle pareti delle chiese gli eventi e i personaggi delle Sacre Scritture.

Ebbene, alla vigilia di questa prima domenica d'Avvento, è uscito in Italia un libro che ridà vita proprio a questa tradizione. È un commento al lezionario delle messe festive dell'anno A – perché poi seguiranno i volumi per l'anno B e l'anno C – fatto con le immagini della grande arte cristiana. Immagini più eloquenti di tante parole.

Ne è autore Timothy Verdon, storico dell'arte, sacerdote, professore alla Stanford University, direttore a Firenze dell'ufficio diocesano per la catechesi attraverso l'arte e autore di libri importanti sull'arte cristiana e sul ruolo dell'arte nella vita della Chiesa. L'idea di questo libro è venuta a Verdon dal sinodo dei vescovi del 2005 sull'eucaristia, al quale egli partecipò come esperto, chiamato da Benedetto XVI. Nell'esortazione postsinodale “Sacramentum caritatis”, papa Joseph Ratzinger dedicò un paragrafo, il 41, all'iconografia religiosa, la quale – scrisse – “deve essere orientata alla mistagogia sacramentale”, all'iniziazione al mistero cristiano attraverso la liturgia. Il libro è precisamente l'attuazione di questa consegna. Per ogni domenica e festa dell'anno liturgico Verdon sceglie un capolavoro dell'arte cristiana legato al Vangelo del giorno. È l'arte a guidare l'ingresso nel mistero proclamato e celebrato.

Per presentare il libro al pubblico, pochi giorni fa a Firenze, Verdon ha chiamato un sacerdote più che mai in sintonia con questo orientamento: Massimo Naro, teologo, rettore del seminario della diocesi di Caltanissetta e fratello minore di Cataldo Naro, vescovo di Monreale fino alla sua prematura morte, un anno fa.

La cattedrale di Monreale, in Sicilia, con l'interno interamente rivestito di mosaici del XII secolo, è un capolavoro assoluto dell'arte cristiana. Il Cristo Pantocratore sopra riprodotto ne domina l'abside. Ma l'arte cristiana vive nella liturgia e per la liturgia. E il suo linguaggio è il vedere, il contemplare. È quello che capì il teologo italo-tedesco Romano Guardini, grande maestro dell'attuale papa, visitando la cattedrale di Monreale nella settimana santa del 1929. Guardini raccontò quella sua visita. Osservando gli uomini e le donne che gremivano il duomo di Monreale e partecipavano alla liturgia pasquale, scrisse: “Tutti vivevano nello sguardo [nell'originale tedesco: Alle lebten im Blick], tutti erano protesi a contemplare”. Il vescovo Cataldo Naro riprodusse l'intera pagina di Guardini nella sua ultima lettera pastorale ai fedeli, per guidarli a contemplare ed amare la Chiesa. E suo fratello Massimo l'ha di nuovo citata nel presentare al pubblico il libro di Verdon. Proseguendo così: “Non solo si deve credere, confessare, professare, si deve anche 'guardare' la fede. Gesù è colui che ha 'visto e udito' il Padre suo. In lui c'è l'unione di parola e immagine, è Logos ed Eikon (cfr. Colossesi 1,15). Non è un caso che, sin dal IV-V secolo, si sia affermata nella Chiesa antica la leggenda secondo cui l’evangelista Luca fu anche pittore. A questa leggenda si ricollega l’anatema del secondo concilio di Nicea, secondo cui 'se qualcuno non ammette le narrazioni evangeliche fatte con stilo di pittore, sia scomunicato'. Dipingere il volto di Cristo, di Maria, dei santi è un altro modo di scrivere il Vangelo, e perciò di tramandarlo, di proclamarlo, di permetterne la lettura e, quindi, la meditazione e la conoscenza da parte dei fedeli. A Nicea, nel 787, il dogma incorpora la leggenda e le dà dignità dottrinale, include nel deposito della tradizione non solo la tradizione scritta e orale ma anche quella dipinta, non solo gli scritti dell'Antico e del Nuovo Testamento e i libri dei Padri della Chiesa ma anche le immagini che traducono in colori l’inchiostro degli scrittori sacri”.  Le opere d'arte scelte da Verdon per illustrare le letture della messa dell'anno A sono presenti in chiese e musei di tutto il mondo. Un buon numero si trovano in Italia e alcune di esse a Firenze, per cui un parroco fiorentino avrebbe buon gioco nell'uso di questo commentario. Ma l'importante è il metodo, che vale per tutti. Il libro di Verdon educa a una lettura “artistica” dei testi biblici della liturgia. Restituisce a sacerdoti e fedeli i frutti di una “predicazione per immagini” sviluppatasi nella Chiesa per un millennio e mezzo e oggi a rischio di deperire. Perché tra arte cristiana, teologia, liturgia, il nesso è inscindibile. Come la resurrezione e la croce sono al principio della composizione dei Vangeli e del Nuovo Testamento, e come la Pasqua è al principio dell'intero anno liturgico, così il Risorto e il Crocifisso sono al principio dell'arte cristiana. Massimo Naro, nel presentare il libro di Verdon, ha detto d'aver capito la “principialità della resurrezione per l'arte cristiana” proprio osservando i mosaici della cattedrale di Monreale di cui suo fratello fu vescovo. E l'ha spiegato così: “Me ne sono convinto da quando ho visto, al vertice dell’arco dirimpetto al grande catino absidale in cui campeggia il Cristo Pantocratore, la raffigurazione a mosaico del Mandylion, messo in simmetrica corrispondenza con il volto del Pantocratore, quasi a dire che lo splendido e glorioso Pantocratore è lo sviluppo di un 'negativo' del volto del Crocifisso. “Il Mandylion, secondo antiche leggende risalenti ai secc. VIII e IX, fu un telo su cui rimase impresso il volto di Gesù, insanguinato dalle percosse inflittegli durante la sua passione. “Secondo alcuni il Mandylion fu il fazzoletto che la Veronica gli passò sul viso lungo la strada del Calvario (cfr. Luca 23,27-28). “Secondo altri fu il sudario trovato da Pietro dentro il sepolcro ormai vuoto, al mattino di Pasqua (cfr. Giovanni 20,7). “In questo caso si sarebbe trattato di un’immagine di Gesù 'non fatta da mani d'uomo' ma per intervento divino: l’impronta sul sudario del volto del Crocifisso, che nella luce pasquale si rialza come il Risorto. “Quest’immagine di luce è dunque, secondo la leggenda del Mandylion, la vera icona di Cristo, l’archetipo di ogni immagine e di ogni produzione artistica cristiana.

“In questa prospettiva, è la luce della resurrezione che rende raffigurabile il Crocifisso del Golgota e, in Lui, Dio stesso. Solo alla luce della resurrezione Colui che era stato violentemente privato di ogni sembianza umana rimane per sempre come la vera e unica immagine di Dio. “È in questo senso che la resurrezione sta all’inizio dell’iconografia e dell’arte cristiane. Ogni produzione iconografica peculiarmente cristiana non può perciò prescindere dall’evento capitale che ha trasformato la creazione e ha redento la storia”. (Sandro Magister, www.chiesa, 20 novembre 2007)

 

 


 

Chiesa: unico baluardo alla disgregazione della famiglia

Nell'ultimo aggiornamento dell'Enciclopedia Italiana, alla voce “matrimonio”, Alessandra De Rose scrive: “Se appare lontana e forse, considerate le condizioni sociali e culturali, neanche opportuna l'introduzione di istituti “sconvolgenti” come il matrimonio tra gay, sembra invece più vicina la prospettiva del riconoscimento giuridico e della tutela per due persone che scelgono di condividere una parte importante della loro vita senza sposarsi”. Senza entrare nel merito delle questioni poste, vediamo qui ben esemplificata una concezione oggi corrente di famiglia: per molti, infatti, è un istituto in evoluzione, che è sempre cambiato, benché con ritmi molto lenti, e che oggi si sta muovendo rapidamente verso trasformazioni decisive in senso libertario. Trasformazioni che, se pure proposte con l'intento di allargare il concetto di famiglia per renderlo più “evoluto”, più adatto alla società moderna, di fatto conducono questa istituzione alla sua dissoluzione.
Se la famiglia non viene più riconosciuta dallo Stato come istituzione base che organizza la riproduzione della società ma solo come una delle tante possibilità di aggregazione fra esseri umani - o addirittura se si nega che la base necessaria a costituirla siano due esseri di sesso diverso, cioè due esseri che possono riprodursi - si comprende subito come diventi difficile credere a una sua continuità nel futuro. Si tratta, infatti di cambiamenti che toccano i pilastri stessi dell'istituzione familiare, che può, e deve, essere migliorata - come è avvenuto per esempio, in Italia, con la riforma del diritto di famiglia del 1975 - in senso democratico e ugualitario fra i membri, ma non toccata nella sua base costitutiva.

Per arrivare a proporre, e pensare realizzabili, i due cambiamenti indicati dalla voce dell'Enciclopedia Italiana è stata necessaria una profonda trasformazione culturale: cioè l'affermarsi di una concezione evoluzionista dei rapporti umani, anche di quelli che sembravano “immutabili” perché definiti dalla legge naturale, come era considerata la riproduzione e quindi la famiglia.

È necessario, quindi, fare un passo indietro nel tempo, per capire come e quando il paradigma darwiniano dell'evoluzione - nato, come ben si sa, per descrivere fenomeni scientifici - si sia esteso con successo alla vita sociale in generale e alla famiglia in particolare. Il concetto di evoluzione darwiniana, infatti, prevede una sorta di variazione continua, azionata da un motore cieco ma inesorabile: quello della selezione intesa come la sopravvivenza del più adatto. È ben noto come l'evoluzionismo abbia fornito un quadro concettuale e delle linee argomentative anche al di fuori del mondo naturale. Del resto, poiché in questo modo si ricollocava l'uomo all'interno della natura, negandogli un valore specifico e una diversità dal mondo animale, è ovvio che risultasse facile, se non addirittura opportuno, estendere dai fenomeni botanici e biologici ai meccanismi sociali l'ipotesi evoluzionista, che, considerata come una acquisizione scientifica indiscutibile, veniva a prendere aspetti di tipo dogmatico.

D'altra parte, se l'uomo non è qualitativamente diverso dagli animali, ma solo un animale più evoluto, cade anche l'idea che il suo comportamento sessuale e i suoi legami affettivi debbano essere sottoposti a leggi particolari. Soprattutto, cade l'idea che l'uomo abbia iscritta nel cuore una legge naturale, una concezione del bene e del male, superiore alle leggi positive, a cui deve obbedire. Diventa quindi una affermazione senza senso sostenere che debbano essere immutabili le leggi costitutive del matrimonio, quelle cioè relative al sesso degli sposi (diverso per permettere la fertilità) e alla cura dei figli, leggi che grazie a elementi del diritto romano avevano costruito il concetto cristiano di famiglia. In una concezione evoluzionistica del mondo, infatti, non ci sono più principi indiscutibili, ma solo forme di aggregazione che prevalgono perché più adatte.

Se l'uomo è un animale come gli altri, inoltre, il suo comportamento sessuale viene letto e studiato all'insegna di un appiattimento sulla natura chiuso a dimensioni etiche e spirituali. Il lungo lavoro della tradizione cristiana, che aveva trasformato il comportamento sessuale - inteso sia come castità che come vita sponsale - in un momento eticamente importante e in un nodo spirituale decisivo nel rapporto fra l'essere umano e Dio, viene cancellato in pochi decenni da medici sessuologi come Henry Havelock Ellis e, in Italia, Paolo Mantegazza, i quali considerano il sesso come un'attività naturale che solo il medico avrebbe il diritto di analizzare e regolare.

Naturalmente, un attacco alle regole di comportamento sessuale della morale cristiana diventa un attacco alla famiglia di matrice cristiana: la crisi della famiglia, a cominciare dalla fine dell'Ottocento, diventa quindi sia segno della secolarizzazione che avanza, sia essa stessa stimolo alla secolarizzazione. Molte sono le fonti che registrano come il distacco dalla confessione - primo passo per il distacco totale dalla pratica religiosa - avvenga proprio sui temi della morale sessuale, considerata superata e insostenibile dai cattolici stessi, come dimostrano del resto le aspre polemiche seguite alla promulgazione dell'Humanae vitae, nel luglio del 1968.

I nuovi sessuologi cominciano a sostenere il controllo delle nascite per fini eugenetici, per poi arrivare, quasi fatalmente, a proporre il “libero amore” e quindi la dissoluzione della famiglia. In una miscela che vede mescolarsi femminismo, positivismo ed evoluzionismo, all'inizio del Novecento compaiono le prime aperte dichiarazioni a favore di una “evoluzione” della famiglia che porti alla sua dissoluzione.

In Germania Helene Stocker (1869-1943) fondava nel 1904 un movimento di riforma sessuale con una serie di obiettivi: uguaglianza fra il marito, la moglie e i figli, maggiore facilità di divorzio e riconoscimento delle unioni di fatto, nonché diritti uguali per tutti i nati, a prescindere dall'origine; a questi si aggiungono una battaglia per la depenalizzazione dell'aborto e l'impegno per riconoscere alle donne la libertà di determinarsi autonomamente in materia sessuale. La Stocker, infatti, era fermamente convinta che il femminile non fosse naturalmente incline alla castità, e muovendosi in questa direzione divenne un'accesissima paladina del libero amore e di politiche a favore del controllo delle nascite. Nonostante queste posizioni l'avessero fatta entrare in conflitto con il più moderato movimento femminile tedesco, nel 1919, quando le donne ottennero il voto, la Stocker fu eletta fra le prime 34 parlamentari.

Molto simile il percorso della svedese Ellen Key (1849-1926), scrittrice e conferenziera di grande successo in tutta Europa negli anni che vanno dalla fine dell'Ottocento alla prima guerra mondiale. Femminista della prima ora, ed esperta di psicologia infantile, la Key sviluppò un'idea spiritualista dell'emancipazione femminile, che valorizza al massimo la maternità, scindendola però dall'obbligo del matrimonio. Il suo libro più famoso (e tradotto in tutte le lingue europee), L'amore e il matrimonio, uscì in Italia nel 1909 pubblicato dai fratelli Bocca. In questo libro, che conobbe grande fortuna anche in Italia, la Key esponeva la sua idea evoluzionista di morale sessuale, prevedendo la fine del matrimonio: la vita è una evoluzione continua, e “in conseguenza di ogni evoluzione muoiono certe verità che una volta erano ritenute vitali e se ne formano delle nuove”, per opera di una élite che sa cosa ci vuole “per la progressiva evoluzione della vita nell'individuo e nella razza”. Anche le donne dovrebbero quindi vedere riconosciuta la “libertà di scegliere entro certi limiti la forma della loro vita sessuale”.

La Key vede la libertà sessuale legata alla secolarizzazione, perché la considera impossibile “fintanto che l'uomo ha creduto al peccato originale” mentre “la teoria dell'evoluzione” ha dato all'uomo il coraggio di domandarsi se il peccato non consistesse piuttosto nel trionfo dello spirito sulla materia. Secondo la Key, fedele propagatrice dell'eugenetica, una nuova concezione morale “nasce dalla fede nella perfettibilità della razza umana”; anzi, “la forma della vita sessuale che favorirà meglio il progresso della razza, diventerà la legge della nuova morale”. In una visione chiaramente utopica degli effetti di questa nuova morale, la Key scrive che il matrimonio per obbligo e la prostituzione scompariranno un poco per volta, “perché essi non risponderanno più ai bisogni degli uomini dopo la vittoria dell'idea dell'unione perfetta”.

Bisogna quindi “trionfare del pregiudizio nutrito dal cristianesimo” con una nuova morale, “quella che si basa sulla bontà fondamentale della natura umana e sull'uguaglianza di tutti gli uomini”, perché sicuramente l'umanità sta per innalzarsi “alla superumanità”. La morale nuova si basa sull'idea che “la felicità dell'individuo sia la condizione essenziale per la felicità dell'umanità”, a patto però di sottoporsi ad un giudizio medico che assicuri che la coppia genererà un figlio sano, perché il dovere supremo è “non trasmettere ad altri le malattie gravi la cui eredità sia stata stabilita scientificamente”.

Il cristianesimo, secondo la Key, sarebbe responsabile anche di questa mancata selezione perché, “insistendo sul valore dell'individuo diminuì il sentimento dell'importanza della specie”, dal momento che, per ignoranza scientifica, “il solo legame che stabilisca fra l'uomo e i suoi antenati è il peccato originale”. Ma oggi, invece, grazie alla perdita di influenza della morale cristiana “il sentimento della razza, il rispetto per gli avi, l'orgoglio d'un sangue puro, con un senso nuovo riacquisteranno il loro potere decisivo sui sentimenti e sulle azioni”. Ma “fortunatamente - conclude la Key - la Chiesa ha perduto la battaglia nella sua lotta contro l'amore”, e rivendica quindi, come nelle sue numerose conferenze era solita fare, il diritto alla maternità senza matrimonio, ma non senza amore.

Si coglie immediatamente il sapore attuale delle frasi della femminista svedese, che sembrano anticipare quelle di molti nostri contemporanei: il suo successo, e i numerosi seguaci che ebbe in Italia, autori di libri simili, hanno gettato dei semi che hanno attecchito nella cultura occidentale. E questo anche perché i profondi cambiamenti economico-sociali che la rivoluzione industriale provocava nella società hanno trasformato completamente le condizioni di vita delle popolazioni dell'Europa occidentale. La mortalità - con la fine della moria per parto delle donne e dei neonati - subisce un crollo mai conosciuto nella storia, mentre la durata media della vita umana continua ad allungarsi. Questo ininterrotto incremento demografico non solo spinge alla diffusione degli anticoncezionali - ai quali la ricerca farmaceutica comincia a dedicare investimenti e attenzione - ma contribuisce a percepire la famiglia come un'entità in continuo mutamento.
Cambiano poi i rapporti fra le generazioni e quelli fra donne e uomini, cancellando secoli di rapporti familiari improntati sulla gerarchia, ma soprattutto, diffondendo la separazione fra sessualità e riproduzione, alterano quello che costituiva il nucleo forte del matrimonio, cioè la sua funzione riproduttiva. Con la rivoluzione romantica, del resto, il matrimonio si è trasformato da istituzione “pubblica”, funzionale alla continuità di un gruppo umano, in una speranza di realizzazione individuale, amorosa prima, e sessuale negli anni più recenti. Si è così cominciato a separare matrimonio da riproduzione, riproduzione da sessualità, e alla fine anche matrimonio da sessualità: si spiega così la recente idea che l'evoluzione della famiglia debba andare nel senso del riconoscimento delle coppie omosessuali.

La Chiesa, che non ha mai accettato la separazione fra sessualità e riproduzione, si presenta quindi come l'unico coerente baluardo alla disgregazione della famiglia, alla sua riduzione a un aggregato di rapporti senza norme, regolato solo dal desiderio dei singoli individui. Perché - e ormai lo sappiamo - non si è realizzato quello che scriveva Ellen Key nei primi anni del Novecento, cioè che la felicità dell'individuo è “la condizione essenziale per la felicità dell'umanità”. Prigionieri dei nostri desideri non sappiamo più distinguere fra cambiamenti positivi e cambiamenti distruttivi: a tal punto l'idea di una evoluzione che agisce come una forza cieca, a cui è inutile opporsi, deresponsabilizza tutti. (Lucetta Scaraffia, L'Osservatore Romano, 17 novembre 2007)

 

 


 

Tra internet e silenzio: Scarpe aggrappate al cielo

Con il tempo è cambiata la clausura. Ora il silenzio è rotto da internet. Prima c'era solo la campana che scandiva il tempo. Il muro di cinta sembrava invalicabile. Oggi l'informatica porta il mondo nella clausura. Chi naviga sulla rete trova centinaia di siti di monache che raccontano la propria vita, la propria vocazione, la propria attività. Che documentano l'esistenza di un ponte tra il monastero e la società di fuori. Ma non da oggi i monasteri vivono dentro il mondo. Le donne che vi abitano sono speciali. Non appartengono a nessuno e sono disponibili a stare vicine ad ogni bisogno.

Una volta rimasi molto colpito da alcune centinaia di suore che vidi tutte insieme. Non erano suore qualsiasi, erano le superiori generali dei loro istituti. Guardavo le loro scarpe:  non erano calzature ricercate, ma scarpe di ogni giorno, un po' sformate dal lungo uso. Ma poi incrociavi i loro occhi. Sguardi di donne felici, pacificate. Le scarpe e gli occhi in una suora sono tutto:  indicano per un verso il distacco dall'apparenza e dall'altro la loro forza nell'inseguire il sogno di incrociare dovunque qualcuno per il quale hanno scelto di restare nubili. Con occhi allenati a forare lo spazio e il tempo perché Dio abita oltre le apparenze.

Anche quando si parla di monache - ossia di quelle donne consacrate che vivono nella clausura di monasteri piccoli e grandi, in luoghi celebrati per storia e tradizione o in angoli sconosciuti e per niente turistici, aspri e monotoni, a volte perfino piantati dentro il clamore della città - mi tornano a mente le scarpe di quelle duecento suore. Insieme, suore e monache, hanno scelto di donarsi a Dio in contesti diversi. La clausura è difficile a capirsi per noi che contiamo le nostre ore tra lavoro e svago, molti rumori e suoni di ogni genere e pochi silenzi. Noi che siamo attratti molto dalla terra e vi siamo affezionati al punto che la morte ci inquieta e incupisce. Essa segna la cessazione del nostro gratificarci. Loro, claustrali senza carriera, attendono la morte come una porta che le introduce da Colui che hanno sempre atteso. Nel passato tante donne, emigrate specialmente, o di paesi a cultura agricola si sposavano con un uomo conosciuto per lettera e per fotografia. Si affidavano a quest'uomo quasi nulla sapendo di lui. Le monache si sono messe in corrispondenza con Dio, l'unico loro amato, e trasformano la loro vita in operosa attesa di poterlo incontrare faccia a faccia. Questo Dio tanto atteso è la ragione che le tiene legate alla terra, al mondo delle donne e degli uomini che vivono fuori del monastero.

Le monache hanno uno strano modo di vivere nel mondo senza essere del mondo. Attirano su di sé la critica di essere improduttive, di guardare le stelle, di non lavorare, di stare comode. Perfino di essere furbe. In realtà lavorano, ma sono quasi del tutto fuori mercato e stentano a vivere, come capita ai poveri e ancor più agli emarginati. Non ce la fanno se qualcuno non li aiuta. Si tratta poi di capire di quale furbizia si parla. Nel vangelo Gesù disse che Maria, la sorella  di  Marta,  aveva scelto la parte migliore perché si era seduta ad ascoltarlo. Le monache ascoltano Dio per capire la gente. La gente si pone domande sconvolgenti su Dio se incontra monache che vivono per Dio solo. Queste donne che giungono al portone di un monastero dove si chiudono, rinunciando a ogni genere di realizzazione mondana della propria vita, testimoniano che Dio non è lontano neppure dalla modernità e dalle società lacerate dei vari continenti. Per questo le monache sono donne interessanti. E per la Chiesa care e amate, anche se non sempre ricordate. E riescono a richiamare il primato di Dio anche a molti ecclesiastici che per vocazione dovrebbero non averne bisogno. E invece tutti si aggrappano alle preghiere di queste donne che vivono aggrappate al cielo.

C'è una sintonia tra Benedetto XVI e le donne della clausura monastica. Papa Ratzinger ha al primo punto della sua agenda l'impegno pastorale di riportare Dio al centro degli interessi dei cristiani e delle loro opere. Egli ricorda in continuazione la sua vicinanza spirituale alla regola benedettina che insieme al carmelo rappresenta molta parte dell'ispirazione alla base della vita claustrale. Il “niente anteporre a Cristo” è diventata la regola di vita e di azione di Benedetto XVI che la declina in mille modi della sua predicazione. L'essere che viene prima del fare è la prima preoccupazione del Papa per rivitalizzare la testimonianza cristiana. Papa Benedetto è convinto che molto si debba a queste donne oranti. E per questo ha rilanciato l'attenzione alla loro condizione in occasione della speciale giornata di preghiera e di aiuto ad esse dedicata il 21 novembre. Il monastero, “come oasi spirituale, indica al mondo di oggi - ha detto - la cosa più importante, anzi alla fine l'unica cosa decisiva: esiste un'ultima ragione per cui vale la pena di vivere, cioè Dio e il suo amore imperscrutabile”. Le donne claustrali hanno creduto a questo amore e risvegliano la voglia di uscire dal guscio solo materiale del vivere. Benedetto XVI a tutti propone di scoprirlo e di viverlo anche fuori del monastero, proprio grazie alla fiducia riposta in migliaia di donne che lo testimoniano avendo lasciato tutto quaggiù sperando nel Regno di Dio. (©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2007)

 

 


 

Gesù nel Giudaismo

Il rapporto dell’ebraismo con la figura di Gesù di Nazareth ha un significato assolutamente particolare. Essa sembra caratterizzata da un’insopprimibile drammaticità: se Gesù è — come credono i cristiani — il Messia annunciato dalle Scritture ebraiche e il figlio di Dio in senso proprio e unico come chiaramente affermato dalle Scritture cristiane, questo non può essere accolto dall’ebreo fedele alla tradizione dell’ebraismo — almeno a quella dominante negli ultimi duemila anni — che con un netto rifiuto. Se Gesù invece viene ricondotto nei termini di una figura particolarmente significativa, forse persino la più significativa, della storia di Israele, ma solo ed esclusivamente umana, allora è il cristiano ad opporre un altrettanto forte e non negoziabile rifiuto. Accettare un Cristo simile infatti vuol dire, puramente e semplicemente, sconfessare i Vangeli e tutto il Nuovo Testamento.

Una tale drammaticità non può e non deve essere oscurata, perché appartiene ai termini del problema. In fondo non è solo l’ebreo che davanti a Gesù si trova nelle condizioni di dover prendere posizione in termini chiari ed inequivocabili per il sì o per il no, ma la sua situazione è certamente esemplare. Questo è il dato oggettivo. Ciò non toglie che le posizioni soggettive concrete dell’ebraismo attorno al “caso” Gesù siano assai differenziate. I passi contenuti nel Talmud e nella letteratura ebraica antica che parlano di Gesù sono rari: gli studiosi hanno accertato che essi hanno preso un significato inequivocabilmente rivolto al cristianesimo solo nel Medio Evo. Per il giudaismo antico il cristianesimo era infatti solo un gruppo marginale, non tale da attirare troppo su di sé l’attenzione e quindi da meritare una trattazione specifica. Anche se il caso costituito da un passo famoso delle Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio (37-103 circa), il famoso Testimonium flavianum, meriterebbe una trattazione a sé. Il testo più famoso a riguardo, la leggendaria vita di Gesù Toledot Jeshu, è medioevale. I passi del Talmud hanno un significato generico che prende solo in epoca successiva un chiaro e intenzionale significato anticristiano con termini pesantemente blasfemi e denigratori, quando il cristianesimo si è ormai affermato ed è diventata da tempo a religione ufficiale dell’Impero e degli Stati occidentali.

Il Giudaismo moderno, per lo più, prende le distanze da questi testi o dalla loro interpretazione anticristiana. Gesù non e più visto come un bestemmiatore meritatamente giustiziato, ma ci si sforza di reintegrarlo nella storia giudaica e di reinterpretarlo in consonanza con la sua tradizione. Così, per esempio, diventa per Martin Buber (1878-1965) il «grande fratello» e per Shalom Ben Chorin (1913-1999) qualcuno che «non può essere circoscritto con nessuna delle usuali categorie di pensiero». Per gli ebrei che si raccolgono attorno al movimento giudeo-messianico (a partire da rabbi Joseph Rabinowitz nel 1882), Gesù non è certamente il Figlio di Dio dei cristiani, ma non è neppure solo un qualunque grande ebreo... Una posizione seria e rappresentativa rispetto alla figura di Gesù, caratterizzata da una straordinaria franchezza e lealtà, è quella offerta recentemente da Jacob Neusner, uno dei massimi studiosi contemporanei del giudaismo dei primi secoli. Nel suo Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù (del 1993, definito dall’allora card. Joseph Ratzinger «il saggio più importante per il dialogo ebraico-cristiano dell’ultimo decennio») afferma — immaginando di rivolgersi ad un discepolo contemporaneo di Gesù —: «Il tuo maestro e Dio? Comprendo, infatti, che solo Dio può esigere da me quello che sta chiedendo Gesù» (p. 70). «[...] alcuni vogliono tracciare una distinzione fra il “Gesù della storia” e il “Gesù della fede” oppure vogliono distinguere la fede di Gesù da quella di Paolo o ancora separare Gesù Cristo dalla Chiesa che rappresenta il suo corpo mistico. Alcuni cristiani sostengono che il Gesù storico, l’uomo che realmente visse ed insegnò, non avrebbe riconosciuto la fede che la Chiesa cristiana avrebbe formulato più tardi. Debbo chiedermi, tuttavia, perché non possiamo riconoscere nei detti di Matteo non solo il Gesù della storia, ma anche il Gesù della fede. La distinzione tra l’uno e l’altro, importante per alcuni settori del cristianesimo e per alcuni teologi ed apologisti tanto ebrei quanto cristiani, mi colpisce perché é poco fondata» (pp.71-72). «Il legame familiare che si instaura in Gesù tra maestro ed allievo costituisce soltanto il primo passo che non porta ad onorare il maestro come o più del genitore, ma, in ultima analisi, ad onorare il maestro come e più di Dio» (p. 71). Per questo, rivolgendosi questa volta a Gesù, gli dice: «Va’ in pace». Lekh be-shalom. Gli augurai ogni bene, ma me ne tornai a casa» (p. 160).

I toni ingiuriosi sono stati abbandonati da una parte e dall’altra e questa non è una cosa di poco conto, qualcosa di “puramente accidentale”. I cristiani attuali nella loro maggioranza — certamente i cattolici — non affermano più che «gli ebrei» nel loro insieme sono i responsabili della morte di Gesù. Gli ebrei nella loro maggioranza non affermano più che Gesù è stato giustamente condannato da un tribunale ebraico, si sforzano anzi di dimostrare che i racconti evangelici sbagliano nell’attribuire al Sinedrio la “colpa” delta condanna di Gesù, che sarebbe invece tutta dell’autorità romana. La questione di fondo però — «è costui veramente il Figlio d Dio?» — rimane in tutta la sua drammaticità, e tale è destinata a rimanere. (don Pietro Cantoni, Il Timone, n. 63/2007)

 

 

 


 

18 novembre 2007

 

“Repubblica” insiste tra bufale e svarioni. Turismo religioso: l'inchiesta sa di falso!

Ordunque, tutti alla «splendida Abbazia di Chiaravalle alle porte di Milano: costa 300 euro, ma è un cinque stelle a tutti gli effetti». Repubblica la addita come una delle lussuose strutture alberghiere della Chiesa che evadono l’Ici e fanno concorrenza sleale, insomma frodano l’Italia e gli italiani. Bene, andiamoci. L’Abbazia di Chiaravalle, nei pressi di San Giuliano, in effetti ha una foresteria, per i pellegrini che vogliano condividere qualche giornata con i monaci. Sette camerette con letto, lavandino e armadietto. Pensione completa: 30 euro al giorno, «ma se uno è in difficoltà – spiegano – può darci anche di meno». Trecento, trenta… uno zero e cinque stelle di troppo, e che saranno mai?

Camaldoli extralusso

È solo uno dei tanti sfondoni della quinta puntata della temeraria inchiesta sui «Soldi del vescovo».

Le inchieste sono cose serie, chi le fa è tenuto a controllare di persona. O no? Dopo la bufala di Chiaravalle, «lo stesso vale per le celebri Orsoline di Cortina e per il monastero di Camaldoli nell’aretino, mete di turismo intellettuale, culturale e politico d’alto bordo». Quella delle «celebri Orsoline» è in realtà una scuola: d’estate vengono messe a disposizione le stanze delle studentesse: 80 euro pensione completa in alta stagione, sconti per famiglie, bambini 50%. Per Camaldoli ci piacerebbe lasciare la risposta ai camaldolesi, agli studenti della Fuci ma soprattutto alla tanta gente normale, di bordo medio e perfino basso, ospitata nelle cellette, che spartane è dir poco.

Tutti i voli dell’Opera Romana Pellegrinaggi

L’avete capito, la quinta travolgente puntata è dedicata al turismo religioso, «un affare da 5 miliardi di euro» recita il titolo. Il primo bersaglio è l’Opera Roma pellegrinaggi (Orp) con i suoi voli «a basso costo», a cominciare dal Boeing 707-200 della Mistral. In realtà è un 737-300: solo un dettaglio, che però conferma l’approssimazione del giornale di Carlo De Benedetti. In realtà il partner principale dell’Orp è l’Alitalia, che però da sola non basta a garantire tutti i voli necessari. Così l’Orp ricorre anche ad AirOne, El Al (per Israele), Sirian Airline (Siria), Air Jordan (Giordania), Lot (Polonia) Aeroflot (Russia), Tap (Portogallo)… Repubblica scrive che tra i 148 pellegrini del volo Mistral dello scorso 27 agosto c’era l’ex direttore tecnico della Juventus: «La Chiesa si affida al testimonial Luciano Moggi». Moggi non era su quel volo, non è testimonial della Chiesa né ha legami di alcun genere con l’Orp. A Lourdes ci sarà andato come ogni altro pellegrino, senza rappresentare nessuno se non se stesso.

Repubblica scrive che al volo «ha elargito la sua benedizione il rettore della Lateranense». A parte il fatto che non ci sarebbe stato niente di male, il rettore non c’era.

Il turismo religioso paga le tasse

Il turismo religioso, leggiamo, è «quasi sempre esentasse». Non è vero. L’Orp è della Santa Sede. Ma quando opera in Italia è soggetto alle leggi italiane esattamente come qualsiasi tour operator di qualsiasi Stato estero. La quasi totalità delle strutture utilizzate sono normali alberghi, non strutture religiose, e tutti pagano le tasse. Il 2008, secondo Repubblica, sarà il «150° anniversario dell’apparizione di Fatima»: no, di Lourdes. Per quell’anno ci sarebbe «la previsione di arrivare a 150 mila» pellegrini italiani verso i santuari europei e la Terra Santa, contro i 50 mila attuali: «previsione» fatta da chi? Qual è la fonte? Se è una fantasia di Repubblica, non resta da augurarsi che si avveri…

Monasteri? Un tempo

Uno stillicidio di errori e mezze verità. Nel suo superficiale copia-incolla, viene citato il Sole 24 Ore, che parla di «un centinaio di alberghi entrati nel network Condé-Nast Relais & Chateaux o Leading Hotel of the world». Tralascia di precisare che la gran parte di essi sono ex monasteri, venduti a privati, con i quali la Chiesa non c’entra nulla. Si parla di un finanziamento statale di 10 milioni di euro per la Via Francigena, di cui però pressoché nulla va alla Chiesa. Si afferma che i 3.500 miliardi di lire versati alla Chiesa per il Giubileo sono serviti «in buona parte a riorganizzare la rete di accoglienza turistica». Falso: in buonissima parte sono serviti a ristrutturare chiese e abbazie e altri luoghi di culto; alle strutture di accoglienza è andata una parte minima.

Rispunta poi la questione di suore e religiosi che «lavorano gratis», consentendo di abbattere i costi e di fare concorrenza sleale. I religiosi impegnati a tempo pieno nel turismo sono pochi. Ma a Repubblica non viene in mente che sono a carico, per sempre e per ogni necessità, della loro congregazione, a cui "costano" assai più di quanto verrebbe a "costare" un normale contratto di lavoro.

Le bugie sul Bambin Gesù

Viene gettato fango anche sull’Ospedale Bambin Gesù di Roma, una struttura a servizio dei bambini che ci invidia tutto il mondo, il quale «riceve numerosi finanziamenti dallo Stato e della Regione Lazio», senza che essi possano «rivedere gli accordi perché ogni modifica deve essere trattata direttamente dal ministro degli esteri con il Vaticano». Falso: tra Bambin Gesù e Regione Lazio esiste una normale convenzione bilaterale, con precisi diritti e doveri, che viene rivista periodicamente. Doveri: il Bambin Gesù è un’organizzazione seria che elargisce prestazioni di altissima qualità di cui si avvalgono bambini di tutta Italia, e anche d’Europa.

Attacco al turismo sociale

Ce ne sarebbe dell’altro, da un fantascientifico Giovanni Paolo XXIII a una cartina geografica che mette Pompei in Calabria, San Giovanni Rotondo in Campania e Padova sotto Vicenza. Quanto ai 6 milioni di turisti in Terrasanta, magari; l’Istituto israeliano di statistica ne indica, nei primi otto mesi del 2007, 1.440.000. Nella sagra dell’approssimazione, Repubblica evita accuratamente di far notare che il turismo religioso arricchisce soprattutto regioni, province e comuni verso i quali è diretto. Circa il 60 per cento del turismo in Italia ha motivazioni cultural-religiose. Il turismo religioso non sfrutta l’Italia, semmai l’arricchisce. Ma sotto accusa sembra sia pure il turismo sociale, che garantisce il diritto e la libertà di viaggiare anche a chi non può permettersi le cinque stelle, e gode di agevolazioni proprio per le sue riconosciute finalità sociali. È il turismo del popolo. Sì, anche dei poveri. Che a quanto pare farebbe "concorrenza sleale" al turismo dei ricchi.

Repubblica e i suoi giornalisti, in più occasioni, anche di recente, continuano a ripetere di non aver ricevuto alcuna smentita. E questi articoli che cosa sono? Dalla bufala di Chiaravalle in giù, contate pure le smentite. Se vogliono una raccomandata, gli spediremo questo giornale con ricevuta di ritorno. (Umberto Folena, Avvenire, 11 novembre 2007)

 

 


 

Quando Ratzinger fece il punto con i suoi allievi

Che sia un caso? Ovviamente sì, ma a volte anche dalle coincidenze traspare un certo clima, un certo spirito dei tempi. Nelle librerie inglesi e americane è arrivato da pochi giorni There is a God: How the World’s Most Notorious Atheist Changed his Mind, («C’è un Dio: come il più famoso ateo del mondo ha cambiato parere», edizioni HarperOne) il libro scritto dal filosofo britannico Antony Flew, colui che fu negli anni ’60 e ’70 fra i più riveriti esponenti del materialismo ateo, e che spiega in questa opera la genesi e il significato della propria conversione al teismo, annunciata nel 2004. Una confessione la cui portata non fu probabilmente colta da tutti, in particolare da chi non aveva fatto esperienza in passato della tempra intellettuale di Flew. Diciamo che sarebbe un po’ come se Richard Dawkins fra una ventina d’anni riconoscesse la mano di un Creatore intelligente nell’evolversi della natura.

Questo accade nelle librerie d’Oltre Atlantico. In Italia arriva invece in questi giorni Creazione ed Evoluzione. Un convegno con Papa Benedetto XVI a Castel Gandolfo (Edizioni Dehoniane Bologna in collaborazione con la Libreria Editrice Vaticana, a cura di Stephan Otto Horn e Siegfried Wiedenhofer), già apparso in tedesco, che raccoglie gli Atti del consesso a porte chiuse tenutosi nella residenza estiva papale dal 1° al 3 settembre 2006. Si trattava dell’incontro annuale del «Ratzinger­Schülerkreis», il gruppo di ex dottorandi del professor Ratzinger alle università di Bonn, Münster, Tubinga e Regensburg, che dal 1978 si riunisce regolarmente con il proprio antico maestro. Un gruppo che raccoglie quelli che oggi sono diventati prelati, teologi, editori, abituati a dialogare con una certa discrezione, fuori dall’attenzione occhiuta della stampa. Mentre l’anno scorso si sono trovati al centro di un’attesa internazionale, con cronisti a far la ronda di fronte alle guardie svizzere, con amici dell’attuale Pontefice abituati a passeggiare in incognito per Roma, vedi il gesuita americano Joseph Fessio, braccati nella loro ora d’aria fra i Colli Albani, in cerca di qualche indiscrezione.

La curiosità era dovuta al dibattito innescato nel luglio 2005 da un ormai celebre articolo del cardinale Christoph Schönborn sul New York Times, in cui l’arcivescovo di Vienna invitava a ripensare la spiegazione darwiniana dell’evoluzione (articolo definito da Benedetto XVI come «provvidenziale»). Ma l’interesse andava, in quel settembre romano, soprattutto a cosa avrebbe detto lo stesso Papa riguardo all’intelligent design, alla selezione naturale, alla creazione, ecc. Bene, la risposta si può dire contenuta in questo volume stampato dalle Edb, che segue fedelmente lo svolgersi dei lavori nella tre giorni di Castel Gandolfo. Vi si trovano infatti gli interventi dei tre relatori ospiti: Peter Schuster, professore di chimica teorica all’Università di Vienna e presidente dell’Accademia austriaca delle scienze, su «Evoluzione e disegno»; Robert Spaemann, professore emerito di filosofia alla Ludwig-Maximilians­Universität di Monaco di Baviera, su «Discendenza e disegno intelligente»; il gesuita Paul Erbrich, professore emerito di filosofia naturale alla Hochschule für Philosophie di Monaco, su «Il problema della creazione e dell’evoluzione»; il cardinale Schönborn su «Fides, ratio, scientia»; quindi la discussione collettiva e le riflessioni di Benedetto XVI.

A tutto ciò bisogna aggiungere una postfazione di Siegfried Wiedenhofer, professore di teologia dogmatica alla Goethe-Universität di Francoforte, su «Fede nella creazione e teoria dell’evoluzione», ma anche la lunga prefazione a firma ancora una volta di Schönborn, in cui viene tracciata una sintesi tra le più efficaci del pensiero del Papa su evoluzione ed evoluzionismo. Ripescando per l’occasione testi poco noti, come la trascrizione di una trasmissione radiofonica che il teologo Ratzinger tenne nel 1968 sulla Sueddeutsche Rundfunk. (Andrea Galli, Avvenire, 13 novembre 2007)

 

 


 

Il Papa: «No alla violenza che manipola la religione»

No al terrorismo; no a chi abusa del nome di Dio manipolando la religione per attentare alla vita umana e alla libertà. Lo ha detto il Papa ricevendo ieri le lettere credenziali del nuovo ambasciatore indonesiano, Suprapto Martosetomo. Un’occasione per riconoscere e incoraggiare il ruolo cruciale dell’Indonesia nella lotta al terrorismo e nella promozione del dialogo interreligioso. L’Indonesia – ha sottolineato il Pontefice – è infatti uno Stato multireligioso e multietnico, e insieme il Paese con la maggior popolazione islamica al mondo – il 90% dei suoi oltre 200 milioni di abitanti.

Il terrorismo, «qualunque sia il pretesto, è un’offesa criminale che, per i suoi attentati alla vita umana e alla libertà, mina le reali fondamenta della società», soprattutto «quando il santo nome di Dio è invocato come giustificazione per tali atti», ha scandito Benedetto XVI. Ricordando come anche l’Indonesia sia minacciata «dal fenomeno del terrorismo internazionale», ha ribadito che «la Chiesa, ad ogni livello, in fedeltà all’insegnamento del suo Maestro, condanna inequivocabilmente la manipolazione della religione per fini politici, richiamando con urgenza l’applicazione della legge umanitaria internazionale in ogni suo aspetto per combattere il terrorismo». L’Indonesia, per la sua peculiare composizione religiosa e culturale, «gioca un ruolo importante e positivo nella promozione della cooperazione interreligiosa, al suo interno e nella comunità internazionale »: «Dialogo, rispetto per le convinzioni degli altri e collaborazione al servizio della pace sono i mezzi più sicuri per assicurare la concordia sociale».

Al proposito il Papa ha additato la crescente «collaborazione tra cristiani e musulmani in Indonesia, soprattutto per prevenire i conflitti etnici e religiosi nelle zone più turbolente». Nel grande arcipelago i cattolici sono «piccola minoranza» ma «desiderano partecipare pienamente alla vita della nazione», con l’opera educativa e sanitaria al servizio degli uomini d’ogni fede e condizione, e con la trasmissione dei «valori etici fondamentali per un autentico progresso civile e una convivenza pacifica». Mentre «il diritto al libero esercizio della loro religione in completa uguaglianza coi loro concittadini è garantita dalla Costituzione nazionale, la protezione di quei diritti umani fondamentali – ha aggiunto – chiede una vigilanza costante da parte di tutti».
Il Papa si è detto infine soddisfatto della recente adesione dell’Indonesia alla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e l’ha incoraggiata – quale membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu – nell’impegno globale per la pace e lo sviluppo. (Giorgio D’aquino, Avvenire, 13 novembre 2007)

 

 


 

I vescovi calabresi: «Mafiosi, convertitevi»

«Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo». Questo versetto dell’evangelista Luca è stato scelto come titolo della Nota preparata dalla Conferenza episcopale calabra per offrire al cuore dei calabresi una riflessione sul tema della mafia. Il testo, che sarà diffuso in tutte le parrocchie il 25 novembre, nella domenica dedicata a Cristo Re, evidenzia «l’urgenza di incoraggiare tutti ad operare per un’autentica rinascita morale, sociale ed economica». La Nota, con estrema chiarezza, illustra la forza pervasiva della ’ndrangheta, «una criminalità dai tratti violenti, nascosti e pervasivi» capace di «assoggettare risorse economiche, relazionali e sociali». A questa forza del male «opporremo la cultura della vita e della legalità» affermano i vescovi calabresi. La ’ndrangheta dimostra di possedere grande capacità nel tenere stretti i propri componenti e nel sapere occupare anche le istituzioni. Contro un tale potere «deve nascere e diffondersi un senso critico capace di discernere i valori e le autentiche esigenze evangeliche». I frequenti casi di corruzione devono spingere il credente «a sollecitare la politica al recupero del valore di servizio, ma ancor più ad esortare i cristiani a non disertare questo servizio», anche quando tutto ciò può significare «sacrificio e rischio per la propria vita». Un capitolo della Nota è dedicato alla priorità della conversione; è Gesù stesso ad indicare che la radice di tutti i mali è «la peccaminosità dell’uomo, la potenziale connivenza con la violenza che si annida nel cuore umano in ogni tempo». E ci invita «a cercare, anzitutto dentro di noi, i segni della complicità con il peccato».

Allora il punto di partenza è rappresentato dalla «conversione personale e comunitaria, grazie ad un cambio di mentalità nel cuore e nella vita di ogni uomo e donna, di ogni famiglia, gruppo e istituzione, che permetta di rimuovere le forme di collusione con l’ingiustizia e respingere l’ingannevole fascino del peccato».

Il monito è chiaro: il cristiano non può fare finta di nulla, non può lavarsi le mani. Deve vivere con coerenza la propria fede e testimoniare quotidianamente il diritto alla vita. «Dinanzi alla progressiva perdita dei valori di solidarietà – si legge nella Nota – facciamoci strumenti di lotta ai mercanti di morte, ovunque essi si annidino e qualunque panni indossino».

Va rinnovata l’attenzione agli ultimi ed agli emarginati, perseguendo una nuova cultura della vita «capace di prosciugare la linfa vitale delle organizzazioni mafiose».

I vescovi della Calabria a tal riguardo affermano: «dobbiamo dimostrarci capaci di costruire modelli culturali alternativi. Con la forza del Vangelo si deve agire per favorire una rottura con la cultura mafiosa». Occorre una rigenerazione delle coscienze a «cominciare dalle nostre comunità cristiane» ed occorre «individuare i passi da compiere per costruire una società più giusta e solidale». Un impegno che deve essere anche delle famiglie, della scuola, delle forze dell’ordine e della magistratura, dei giovani e degli imprenditori. «Le mafie, di cui la ’ndrangheta è oggi la faccia più visibile e pericolosa, costituiscono un nemico per il presente e l’avvenire della nostra Calabria – si legge nelle conclusioni – noi dobbiamo contrastarle, perché nemiche del Vangelo e della comunità umana. In nome del Vangelo, dobbiamo tracciare il cammino sicuro ai figli fedeli e recuperare i figli appartenenti alla mafia». (Giovanni Lucà, Avvenire, 13 novembre 2007)

 

 


 

Il nazionalsocialismo: la “rivoluzione” tedesca

1. Il nazionalsocialismo tedesco debutta agl’inizi del secolo XX e termina, almeno storicamente, in maniera repentina e tragica con il suicidio del suo Führer, Adolf Hitler, nell’“apocalisse tedesca” dell’aprile-maggio 1945. L’ideologia del nazionalsocialismo nasce nel “brodo di coltura” in cui ribolliscono i molteplici elementi dell’“ideologia europea”, come la chiamerà Norberto Bobbio. Confluiranno nel nazionalsocialismo-ideologia brandelli di idee riconducibili sostanzialmente a due matrici, una che potremmo chiamare “fredda” – fatta di neo-darwinismo sociale, di biologismo, di scientismo, di “superomismo” nietzscheano, di geopolitica haushoferiana, l’altra invece decisamente “calda” – in cui si agitano teorie pseudo-religiose magistiche, archeosofiste, teosofiste, mitologico-germaniche, “complottiste” (nella fattispecie quello giudaico-massonico).

Il nazionalsocialismo “movimento” nascerà invece all’indomani della sconfitta tedesca nel primo conflitto mondiale, inserendosi in quell’insieme di dottrine, di personalità e di gruppi che si è soliti definire con l’ossimoro “Rivoluzione conservatrice”, ponendosi come una delle vie di uscita dall’inquietudine maturata da molti giovani tedeschi nelle trincee e nella dura lotta anti-bolscevica dei “corpi franchi”. Sarà poi una delle più decise componenti del vasto movimento di reazione, assai diffuso a livello popolare, contro i trattati di Versailles del 1919, in seguito alla prima guerra mondiale.

La poliedricità ideologica del movimento nazionalsocialista riesce a conciliare a sé di volta in volta interessi diversi e discordanti fino a quando, nel 1933, Adolf Hitler, con ampio suffragio popolare, ascende alla carica di Cancelliere della Repubblica di Weimar e nell’arco di due anni si procura il potere assoluto sull’immenso e potente Stato germanico.

2. Si sbaglierebbe tuttavia chi considerasse il nazionalsocialismo solo come un fenomeno di reazione alla Rivoluzione bolscevica, accidentalmente coronato da successo.

In realtà, se lo si cala nello specifico contesto della cultura e della storia della Germania moderna, se si considera in particolare lo spessore dei residui di tradizione e di ancestralità presenti nell’immaginario dei tedeschi dell’epoca, il nazionalsocialismo rappresenta una forma di Rivoluzione, a detta di alcuni – per esempio lo storico svizzero del secolo scorso Gonzague de Reynold, che ne scrive nel 1939, alla vigilia della guerra –, l’unica forma di Rivoluzione concepibile per la Germania: si presenta cioè come la Rivoluzione “tedesca”, esattamente simmetrica alla Rivoluzione “francese” del 1789.

Il regime hitleriano – oltre alla sua lotta senza quartiere contro la minoranza ebraica – distruggerà le élites tedesche, facendole immolare “in massa” nel terribile conflitto mondiale, e livellerà – almeno tendenzialmente – la società tedesca, cercando di annegarne la stratificazione storicamente determinatasi all’interno dei concetti di comunità (Gemeinschaft) e di popolo (Volk), dove l’elemento discriminante è l’appartenenza etnica. E così creerà un gigantesco totalitarismo, secondo solo al totalitarismo sovietico.

3. Mi soffermo quindi solo su quello che il nazionalsocialismo riuscì a produrre.

La prima delle due “anime” cui ho accennato e che possiamo chiamare “retrospettiva”, perché è interessata al passato, produsse con le SS (Schutzstaffeln, reparti di difesa) un embrione di ordine “monastico” e neo-aristocratico, fondato sulla purezza del sangue e sulla fedeltà totale al Führer, che avrebbe dovuto dare forma definitiva al Reich – il terzo – millenario. Il simbolo solare induistico ed esoterico della “svastica” – la croce uncinata – fiammeggiò ovunque sulle bandiere, sulle divise, sulle insegne del Partito e dello Stato, sugli aerei e sui carri armati, sulle corazzate e sui sommergibili del Terzo Reich.

Sotto il secondo aspetto, quello “progressista”, già prima del conflitto emergono evidenti nel regime hitleriano i tratti di un colossale esperimento di “ingegneria sociale”, frutto dell’abbinamento di richiami ancestrali con la più moderna scienza e la pratica della più avanzata tecnologia, di cui allora la Germania è all’avanguardia mondiale. Se è vero che il Terzo Reich non fu l’unico Stato dell’epoca ad attuare politiche contrarie alla bioetica, lo fece tuttavia nella maniera più “pura” ed esemplare. La creazione dei campi di lavoro – i Lager – per gli avversari politici, modellandoli sui Gulag leniniani e staliniani; l’operazione “T4” di sterilizzazione e di liquidazione dei minorati fisici e intellettuali – nel quale incappò anche un piccolo cuginetto dell’attuale Pontefice –; il tentativo di creare sangue puro germanico attraverso “fabbriche” statali di “ariani puri”; la liberazione della società tedesca dall’elemento ebraico, prima attraverso l’espulsione, poi con la deportazione, infine, per mezzo dell’eliminazione fisica con metodi industriali; la crudele vicenda dei “medici di Hitler”, in prima linea nella lotta contro il cancro e contro il fumo, ma non alieni dall’uso di cavie umane per gli esperimenti più “avanzati”.

La stessa guerra 1939-1945 fu intrapresa e condotta secondo criteri imperialistici classici ma anche in obbedienza a criteri razzistico-biologici: il popolo tedesco, erede della Herrenrasse (la razza dei Signori), il cui sangue era il più puro, aveva come tale il diritto di dominare sugli altri popoli, in primis su quelli slavi dell’est europeo, della Russia e dei Balcani. Gli ebrei non venivano neppure considerati una razza, degna di una collocazione in una presunta gerarchia, come gli Untermeschen (i sotto-uomini) polacchi o cechi, da asservire e da sfruttare: erano ritenuti semplicemente dei “non-uomini”, alla stregua di parassiti molesti da eliminare con ogni mezzo.

4. Che valutazione dare di questa breve, radicale e drammatica esperienza che la Germania e il mondo fanno in un breve intervallo di anni?

Oggi un blocco ideologico-politico-militare come il Terzo Reich nazionalsocialista non esiste più da tempo. Il regime hitleriano va dunque letto ormai con le lenti della storia. Se ne può quindi studiare la nascita, narrare le vicende, tentare un bilancio sereno del – poco – bene e del – tanto – male di cui è stato fattore. Più attuale può essere qualche riflessione sulla “lezione” che il nazionalsocialismo può ancora impartire a noi uomini del terzo millennio.

Fra le tante considerazioni che si potrebbero fare me ne permetto solo due. Sul piano fattuale, preoccupa il veder riaffiorare nelle gravi deviazioni etiche che connotano le attuali democrazie sociali e multiculturaliste dell’Occidente – dalla rinascente eutanasia, alla sperimentazione embrionale, al darwinismo sociale, alla politica eugenetica – i medesimi Leitmotiv e le tendenze già propri del nazionalsocialismo tedesco fra le due guerre. Vien fatto di pensare che, se il mondo scatenò un conflitto mondiale per eliminare le aberrazioni nazionalsocialiste, dobbiamo noi oggi aver paura di prendere posizione contro le medesime aberrazioni che vediamo rinascere intorno a noi solo perché i due sinistri baffetti non si vedono più?

Infine, a conferma della provvidenzialità della storia, dobbiamo considerare che, se il totalitarismo nazionalsocialista è stato una straordinaria fabbrica di morti, in generale, è stato anche una delle più fiorenti fabbriche di martiri del XX secolo. Se di esso il male è stato la quintessenza, per diametrum questo male ha contribuito a produrre un tale capitale di meriti per cui val la pena di interrogarsi se non sia solo esso a trattenere l’ira di Dio verso l’apostasia del mondo attuale. (Oscar Sanguinetti, © il Timone, n. 59/2007)

 

 


 

Rutelli sveglia: ferma lo scempio di Dario Fo

Ministro Rutelli, come niente fosse, a Milano si continua a inchiodare Luigi Calabresi alla calunnia. Per favore, dica una parola. Le tocca. Anzi chieda conto a Dario Fo delle sue parole. Queste, che cito dalla Stampa di Torino di ieri: «Luigi Calabresi sapeva che lo avrebbero ucciso, gli avevano tolto anche la scorta. Lui stesso lo aveva preannunciato. Sono state le polizie segrete, organizzazioni parallele che volevano impedirgli di rendere noto tutto quello che sapeva». Non è tutto. Verso chi ha fatto un gesto di tardivo pentimento per aver firmato l'appello dell'Espresso che aveva il sapore di una condanna a morte, l'attore prova disprezzo: «Mi stupisco di questi ripensamenti. Bella dignità che hanno». Dove nascono queste demenzialità? Dal silenzio colpevole con cui si può uccidere tranquillamente Calabresi con i soldi dello Stato, tutti i giorni, alle nove della sera. Chieda di chiudere il teatro, o almeno tolga le sovvenzioni. Ci vuole un gesto. Uno piccolo, minimo, ma scandito. Chi pugnala la salma impugna la bandiera dell'arte, dello scandalo teatrale, e può permetterselo con i denari del suo ministero, quello dei Beni culturali. Faccia una ricerca e ci dica lei quanti euro ogni sera servono a oliare questa macchina dell'odio postumo, che poi sputa contante anche nelle tasche del primo calunniatore: Dario Fo. Al Teatro Leonardo di Milano, dal 31 ottobre è di scena "Morte accidentale di un anarchico", opera appunto del Nobel, datata 1970, produzione Teatridithalia. Sul sito internet lampeggiano anche i marchi del Comune e della Provincia di Milano oltre che della Regione Lombardia. I rispettivi assessori alla Cultura è possibile che mentre con la destra posano la corona sulla lapide, con l'altra mano finanzino i nuovi killer di un uomo innocente? Non riusciamo a crederci, eppure ci sono addirittura biglietti omaggio messi a disposizione dalle istituzioni. Quel 31 ottobre Libero mostrò come il Corriere della Sera si prestasse alla réclame: rendeva onore ai teatranti sostenendo che quello spettacolo «rinfresca la memoria». Quale memoria? Dario Fo non ha dubbi: il commissario Definestra detto anche Cavalcioni, insomma Calabresi, ha spinto con le sue mani l'anarchico Pinelli, dopo averlo colpito con mosse da karate. Lo spettacolo è una farsa giocata intorno a questa certezza verminosa. La lettura di questo testo (ripubblicato da Einaudi nel 2007) ne mostra anche la povertà letteraria. Ci sono trovate da guitto impalcate sulla miseria morale di chi taglia la pancia di un uomo mite, senza offrirgli alcuna possibilità di difesa. Perché tutti tacciono e tutti finanziano? Non dico a sinistra, ma anche a destra? Cos'è questa sorta di patto trasversale? Il libro del figlio di Calabresi, Mario, ha permesso di aprire un attimo il sipario sull'orrore di quel tempo. Lavora a Repubblica: pensavamo che almeno i suoi colleghi protestassero, facessero non dico un sit-in per chiedere il rispetto di una famiglia davvero torturata, ma almeno una letterina sulle pagine locali del loro giornale. Macché. Devono aver sistemato la pratica una volta per tutte con l'anticipazione di qualche pagina del libro di Mario. Ho chiesto si alzasse una voce tra gli 800 intellettuali che confezionarono e firmarono sull'Espresso il manifesto dove Calabresi veniva bollato, dieci mesi prima dei due proiettili, dall'in chiostro di una lettera che lo definiva «commissario torturatore». Un piccolo modo di mostrare una faccia un poco rossa di vergogna, un gesto minimo. In quella famosa lettera c'erano le stesse parole che guidarono i killer. Zero, niente. Nemmeno il capo della Polizia (Calabresi era il commissario Calabresi!) ha rilasciato una dichiarazione amara, il senatore Gerardo D'Ambrosio, che come pm certificò l'innocenza totale di Calabresi, trova sempre parole contro Berlusconi, ma contro questa vigliaccheria, zitto e Mosca. Ecco, dica lei una parola. Chieda a Dario Fo di ritirare la commedia, offra denaro a lui e alla compagnia per un altro spettacolo, magari in cui si esaltino Lenin e Diliberto, ma guai a chi tocca Calabresi. (Renato Farina, Libero, 9 novembre 2007)

 

 


 

L’Apocalisse? Vademecum della vita della Chiesa

Padre Ugo Vanni è un entusiasta: la voce bassa ma appassionata racconta un amore che va al di là dello studio. Nato in Argentina nel 1929 e rientrato in Italia appena tre anni dopo, entra giovanissimo tra i gesuiti che lo fanno specializzare in Lettere antiche per poi destinarlo agli studi biblici. Per il dottorato di ricerca, diretto da padre Albert Vanhoye, sceglie di accostarsi alla struttura letteraria minima dell’Apocalisse. «Quando cominciai, nel 1964», racconta, «sembrava di essere nel deserto. Come bibliografia c’era solo qualche articolo, commentari anche buoni, ma rari studi scientifici. Oggi la situazione è completamente rovesciata, i dottorandi che scelgono l’Apocalisse sono in imbarazzo a trovare un tema non ancora affrontato».

D. Che cosa l’attirò in questo libro?

R. «Anzitutto l’aspetto letterario. È scritto in un greco irregolare, anomalo, eppure è chiaro fin dalle prime pagine che appartiene a una persona colta e raffinata: fa una presa immediata sul lettore. E poi mi affascinò il suo mondo teologico particolarmente forte, capace di abbracciare la storia della salvezza per intero. Nel corso di trent’anni di lezioni al Biblico ho avuto modo di approfondirlo ed è diventata un po’ la passione della mia vita... un compagno esigente, a volte capriccioso, ma molto arricchente».

D. L’Apocalisse è entrata subito nel canone neotestamentario?

R. «Nella Chiesa occidentale sì, mentre ci sono state grosse difficoltà nella Chiesa orientale perché non era chiara la sua dipendenza apostolica. Nel III secolo san Dionigi di Alessandria, ad esempio, affermava con vivacità che la trovava incomprensibile e non credeva alla sua provenienza giovannea; però non la proibì perché aveva notato il suo impatto pastorale positivo sulla gente. Il punto di riferimento per una accoglienza piena dell’Apocalisse è il VII secolo, con Andrea di Cesarea. Purtroppo però, a causa di questo ritardo, non abbiamo un commento all’Apocalisse di san Giovanni Crisostomo...».

D. Quali sono state le principali tappe della sua interpretazione?

R. «Inizialmente c’è stata un’esegesi letterale, quella del così detto chiliasmo o millenarismo, che voleva ravvisare i tempi indicati nel capitolo 20, creando difficoltà, tensioni e nuocendo alla fama dell’Apocalisse. Con sant’Agostino comincia un’interpretazione più ampia, attenta al simbolo, più ecclesiale. Infine l’esegesi storico-critica dell’Ottocento ha cercato le "origini" del testo scomponendolo in un’infinità di fonti: un lavoro acuto, che resta di riferimento per avvicinarne la struttura letteraria, ma debole per quanto riguarda la lettura complessiva. Oggi si è tornati a una visione unitaria, che sottolinea la genialità con cui l’autore riprende e trasforma altre fonti».

D. L’Apocalisse trabocca d’immagini talmente suggestive che distrae dal suo nucleo. Qual è il basamento su cui poggia questa fitta chioma di simboli?

R. «A fondamento c’è una concezione relativamente semplice che sostiene un edificio complesso, ma non di una complessità confusa: è la complessità di un’opera d’arte. Per fare un esempio, anche le opere di Kandinskij o Guernica di Picasso lasciano sconcertati chi vi si accosta senza un’iniziazione, ma se una guida c’introduce nel mondo dell’artista, si resta stupefatti ed entusiasti. Lo stesso avviene per l’Apocalisse. La sua traccia di fondo è l’essere un libro liturgico, destinato cioè alla lettura liturgica (1,3) durante l’assemblea domenicale, come specifica 1,10. Il testo stesso segue la traiettoria di quella che era la celebrazione domenicale: una parte in cui si confessavano i peccati – come ci dicono Giustino e la Didaché –, una parte in cui si ascoltavano letture dell’Antico e Nuovo Testamento per illuminare la vita della comunità, e alla fine la celebrazione dell’eucaristia. Queste stesse parti sono ravvisabili nella struttura dell’Apocalisse. All’inizio (1-3) c’è una purificazione dell’assemblea a contatto diretto con Cristo risorto, infatti nelle lettere alle "sette" Chiese il Cristo parla in prima persona. Nella seconda parte (4-22,5) l’autore insegna alla Chiesa a interpretare le sue vicende, perché terminata la liturgia ognuno tornerà a contatto con la vita: allora l’autore, che ha ben presente la complessità della storia, presenta una molteplicità di "forme a priori" di lettura, cioè alcuni quadri simbolici che, applicati alle situazioni contingenti, le illuminano e fanno capire le implicazioni religiose – non generali! – valide per il presente della comunità. Nella conclusione (22,6-21) troviamo un suggestivo dialogo tra Gesù, l’angelo interprete, Giovanni, lo Spirito e l’assemblea. Nel cuore di questo dialogo si parla con insistenza del "dono dell’acqua della vita" (22,17) con riferimento alla sacramentalità della Chiesa: probabilmente era un invito del presidente ad accostarsi all’eucaristia».

D. Oggi che spazio occupa l’Apocalisse nell’anno liturgico?

R. «L’Apocalisse è tornata a mordere la realtà della vita della Chiesa. Una delle caratteristiche letterarie di questo libro sono le dossologie – quasi dei salmi, potremmo dire – che non troviamo mai negli antichi manuali greci di liturgia. Dopo il Concilio invece sono state riprese, anche se talvolta "accorpate" tra loro in modo poco felice. Inoltre si moltiplicano gli esercizi spirituali predicati sull’Apocalisse, e varie diocesi l’hanno scelta come libro guida da meditare nel corso dell’anno. Impensabile, negli anni Settanta».

D. Il Futuro è una categoria scomparsa dalla riflessione filosofica postmoderna. Come riconciliare una modernità appiattita sul presente con una visione vivificante dell’escatologia?

R. «In passato, nell’Apocalisse tutto era rimosso e proiettato sul futuro: una tendenza per lo più superata, perché se tutto è escatologico niente lo è davvero. Io personalmente porterei l’Apocalisse nel presente sulla linea dell’escatologia realizzata dal quarto Vangelo, cioè: l’assemblea liturgica è interessata a comprendere il proprio presente, però è un presente indirizzato, poggiato su un nastro di scorrimento. È il presente di tutta la storia della Chiesa in movimento verso un futuro che c’è. Qualcuno lo nega, ma secondo me non lo si può sostenere se si tiene presente la struttura letteraria del libro, che si sviluppa verso una convivenza reale, vertiginosa, fra Dio e il suo popolo. Proprio per questo la Chiesa è chiamata "la Fidanzata" durante l’avvicendarsi della storia della salvezza e "la Sposa" quando giunge – nella meraviglia della Gerusalemme nuova (21,1-22,5) – alla conclusione escatologica». (Paolo Pegoraro, Jesus, 11 novembre 2007)

 

 


 

Clonazione terapeutica e cibridi: Irresponsabilità scientifica prima ancora che morale

La creazione di embrioni interspecie uomo/animale è l'ultimo, estremo tentativo di trovare una via d'uscita a una linea di ricerca oramai entrata in un vicolo cieco: la clonazione mediante trasferimento nucleare - Somatic Cell Nuclear Transfer (Scnt) - ossia la procedura utilizzata per far nascere la pecora Dolly.

La nascita di Dolly, nel 1997, e la produzione della prima linea di cellule staminali embrionali umane l'anno successivo, sembrarono spalancare la strada a una nuova strategia terapeutica, che consisteva nel ricambio di cellule e tessuti irreparabilmente colpiti da malattie, senza dover ricorrere al trapianto di organi - non sempre possibile - ed evitando problemi di compatibilità e rigetto.

Le cellule staminali embrionali sono totipotenti, cioè in grado di dare origine a ogni tipo di tessuto (muscolare, cardiaco, osseo, neuronale, e così via). Potendo disporre di linee cellulari staminali embrionali con lo stesso patrimonio genetico di un individuo adulto, quindi, si sarebbe in grado di produrre e trapiantare tessuti di ogni tipo pienamente compatibili con l'organismo da riparare, sostituendo quelli danneggiati da patologie.

La tecnica di clonazione mediante Scnt sembrava rispondere proprio a questo scopo: a un gamete femminile, cioè un ovocita, viene tolto il nucleo, e sostituito con quello di una cellula somatica adulta di un individuo della stessa specie. L'ovocita così modificato e opportunamente stimolato comincerà a comportarsi come un ovocita fertilizzato, iniziando a svilupparsi fino a dare origine a un individuo completo, con il patrimonio genetico quasi interamente identico a quello del donatore della cellula somatica.

Una copia esatta del donatore della cellula somatica, insomma, ma non un suo clone perfetto: nell'ovocita enucleato, infatti, rimangono i mitocondri, corpuscoli responsabili del ciclo energetico cellulare, con un proprio Dna, appartenente invece a chi ha fornito l'ovocita.

La «corsa all'oro» dei ricercatori

Applicata agli animali, in questi dieci anni, la tecnica Scnt ha dimostrato un'efficacia bassissima, mai superiore al 2%: ad esempio lo scorso dicembre è stato considerato un grande successo l'aver ottenuto tre cuccioli di cane nati vivi da 167 embrioni clonati. La recente notizia della clonazione di embrioni di macaco mediante Scnt, lanciata dal quotidiano Independent, se verificata da pubblicazioni scientifiche come preannunciato, conferma la scarsa efficacia della tecnica: un centinaio di embrioni clonati trasferiti in circa cinquanta femmine di macaco non hanno prodotto nessuna gravidanza.

Applicata all'uomo, la Scnt è stata chiamata comunemente "clonazione terapeutica", per specificare che la clonazione non era finalizzata alla nascita di un essere umano (clonazione riproduttiva) ma alla produzione di linee cellulari staminali embrionali da utilizzare a scopo terapeutico. Quando, cioè, l'embrione clonato avesse raggiunto lo stadio di blastocisti, cioè nei primissimi giorni del suo sviluppo, si sarebbero estratte le sue cellule staminali per poterne ricavare linee cellulari da utilizzare in eventuali terapie. Ma questo tipo di procedimento uccide l'embrione.

La tecnica si è dimostrata un fallimento totale: se per gli animali l'efficacia della Scnt è scarsissima, per gli uomini è semplicemente nulla.

A tutt'oggi, nel mondo non esiste una sola cellula staminale embrionale umana ricavata dalla "clonazione terapeutica". In compenso, in questi anni abbiamo assistito a una vera e propria "corsa all'oro" fra ricercatori per chi fosse stato in grado di tagliare per primo il traguardo della clonazione umana. Il risultato più eclatante è stato quello del veterinario coreano Hwang Woo Suk, con la più grande frode scientifica di tutti i tempi:  dopo l'annuncio sulla prestigiosa rivista "Science" della realizzazione di ben undici linee staminali embrionali compatibili con alcuni malati affetti da diverse patologie (diabete, lesioni del midollo spinale, immunodeficienza). Nei mesi successivi si scoprì che i risultati erano stati falsificati, che non era avvenuta alcuna clonazione, e che fra gli ovociti utilizzati molti erano stati ottenuti dietro pressioni e pagamento da ricercatrici dello stesso gruppo di ricerca di Hwang.

Il fallimento della clonazione umana

Nella letteratura scientifica si discute sul perché del fallimento di questa tecnica, e molti sostengono che le difficoltà nascono dal fatto che, negli esseri umani, gli ovociti disponibili sono scarsi. Un maggiore numero di ovociti si possono ottenere facendo ricorso ai cicli di trattamento ormonale che si seguono per la procreazione medicalmente assistita: sono procedure pesanti, lunghe, invasive e pericolose, che alcune donne sono disposte ad affrontare per una gravidanza che non riescono a ottenere per vie naturali, ma che difficilmente seguirebbero per fornire materiale alla ricerca scientifica, specie se infruttuosa.

È oramai evidente che, anche dove sono tollerate o ammesse forme più o meno surrettizie di pagamento per la cessione dei propri ovociti alla ricerca, questi non saranno mai disponibili in quantità sufficiente.

Ecco quindi l'idea di sostituire nel Scnt gli ovociti umani con quelli animali, di solito coniglio o mucca, disponibili in quantità pressoché illimitata. Ovocita animale e cellula somatica umana: l'entità che si dovrebbe ottenere con la "clonazione terapeutica" è un embrione interspecie uomo/animale, precisamente un embrione ibrido citoplasmatico, (chiamato anche "cibrido"), il cui patrimonio genetico nucleare è umano, e quello mitocondriale è totalmente o parzialmente animale. Il nuovo organismo che si verrebbe a creare sarebbe quindi un'entità non esistente in natura, ottenuta superando la barriera fra specie umana e animale. Viene detto che questo embrione ibrido sarebbe "prevalentemente" umano, perché con il patrimonio genetico per il 99.9% umano (dovuto al Dna nucleare), e per lo 0.1% animale (per via del Dna mitocondriale).

Ma è noto che in genetica non si può parlare in termini percentuali: i geni non sono equivalenti fra loro, esistono gerarchie e priorità, di molti se ne ignora la funzionalità, e spesso anche il malfunzionamento di un unico gene può compromettere irreparabilmente lo sviluppo di un organismo. Trattare il patrimonio genetico in termini puramente numerici è del tutto improprio. Il dibattito pubblico che si è sviluppato relativamente a questo nuovo essere ha dimostrato finora l'incapacità a definirlo: umano, animale o cos'altro?

Ancora più dubbi e perplessità sorgono dal punto di vista scientifico, riguardo alla fattibilità dell'esperimento, e alla possibilità che una ricerca del genere dia risultati in qualche modo utilizzabili.

Finora, in letteratura esiste un'unica pubblicazione scientifica che prova come questa strada sia percorribile; nel 2003 sulla rivista "Cell Research" è stata pubblicata la descrizione del primo esperimento del genere, ad opera di scienziati cinesi: cellule di individui umani diversi furono fuse con ovociti di coniglio, fino a creare linee staminali embrionali. Ma, a tutt'oggi, nessun gruppo di ricerca è riuscito a riprodurre l'esperimento, neppure lo stesso gruppo autore della pubblicazione scientifica.

Non solo: il noto ricercatore di cellule staminali embrionali Robert Lanza, dell'Advanced Cell Technology, sul "New Scientist" del 15 settembre scorso ha dichiarato che il suo gruppo ha lavorato a lungo per produrre questo tipo di embrioni, ma inutilmente: arrivati allo stadio di 16 cellule, quello immediatamente precedente alla blastocisti, lo sviluppo si è sempre bloccato, probabilmente, secondo Lanza, per un'incompatibilità fra i patrimoni genetici appartenenti a specie diverse, che smetterebbero di "dialogare fra loro".

Del resto, non è chiaro per quale motivo una tecnica che non funziona mischiando Dna - nucleare e mitocondriale - di individui appartenenti alla stessa specie (come finora avvenuto con la "clonazione terapeutica") dovrebbe funzionare mischiando Dna di individui di specie differenti. Se ci si aspetta un miglioramento dell'efficacia solo per un aumentato numero di ovociti disponibili, allora qualcuno dovrebbe spiegare perché tale miglioramento non si è avuto finora nella clonazione animale, dove non ci sono impedimenti né di disponibilità di ovociti, né tantomeno etico-legislativi.

Dubbi e perplessità

Riguardo alla possibilità di utilizzare linee cellulari miste uomo/animale per lo studio di malattie degenerative, è necessario ricordare che molte di queste patologie vedono coinvolto anche il metabolismo mitocondriale, che in questo caso risulterebbe alterato.

Ci si chiede com'è possibile prendere a riferimento un modello cellulare ibrido uomo/animale, in cui la funzionalità mitocondriale non corrisponde a nessun modello vivente esistente, perché alterato in partenza rispetto sia a modelli animali che umani, e considerare questo modello valido per malattie umane che sono dovute a un'alterazione patologica di tali funzionalità.

E, più in generale, ci si chiede per quale motivo un eventuale sistema cellulare misto uomo/animale, di cui non si sa nulla, dovrebbe essere un modello più efficace di quelli animali, anche modificati con le tecniche la cui efficacia ha portato ad esempio al premio Nobel di Mario Capecchi e dei suoi colleghi.
C'è poi una questione sicurezza. Nel documento "Inter species embryos. A report by Academy of Medical Science", dell'Accademia Medica inglese, che si è dichiarata favorevole alla creazione di questo tipo di embrioni ibridi, si parla di uno scenario "altamente improbabile ma non impossibile": il salto della barriera interspecie potrebbe far passare retrovirus eventualmente contenuti negli ovociti animali all'essere umano.

D'altra parte, anche i sostenitori di questa linea di ricerca riconoscono che eventuali linee cellulari staminali miste di questo tipo non potrebbero essere utilizzate clinicamente, proprio per la contaminazione con materiale biologico di origine animale.

I dubbi e le perplessità su questo tipo di esperimento sono quindi molti, e consistenti, innanzitutto dal punto di vista della fattibilità della ricerca stessa e dei risultati che si possono ragionevolmente ottenere, e andrebbero chiariti ancora prima di affrontare lo spinosissimo problema bioetico della creazione di nuove entità ibride uomo/animale.

Onestà intellettuale vorrebbe infatti che, invece di tante promesse di cure e terapie futuribili, si spiegasse come effettivamente stanno le cose, senza vendere la pelle dell'orso prima di averlo clonato.

(Assuntina Morresi, ©L'Osservatore Romano, 14 Novembre 2007)

 

 


 

Un sinodo per radicare la parola di Dio nella quotidianità

Il sinodo sulla parola di Dio è già iniziato: non bisogna infatti aspettare il 5 ottobre 2008, quando il canto del Veni creator spiritus darà inizio ai lavori dell'assemblea presieduti dal Papa, perché in tutto il mondo la Chiesa è già "dentro" a questa grande esperienza di comunione e di confronto. E la conclusione del sinodo non avverrà il 26 ottobre, con la messa celebrata dal Papa: un sinodo non si chiude mai, non dura solo quattro settimane, perché i suoi frutti si vedono nella quotidianità della Chiesa, sia nel tempo della preparazione che in quello successivo dell'attuazione.

Lo afferma l'arcivescovo Nikola Eterovic, dall'11 febbraio 2004 segretario generale del Sinodo dei Vescovi, presentando le novità e le caratteristiche della prossima assemblea sinodale che avrà per tema: "La parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa". Ecco l'intervista concessa a "L'Osservatore Romano" per illustrare il tema che Benedetto XVI ha scelto dopo un'ampia consultazione ecclesiale. "È logico che dopo un sinodo sull'eucaristia ce ne sia uno sulla parola di Dio" dice subito monsignor Eterovic. E rivela un dato eloquente: oltre la metà dei padri sinodali dell'ultima assemblea erano alla loro prima partecipazione: "È il segno della giovinezza e della vitalità della Chiesa che si riflette anche nell'istituzione sinodale".

D. Quali saranno le novità del sinodo?

R. Dopo quarant'anni è stato aggiornato l'Ordinamento del Sinodo dei Vescovi. Ci sono novità nella metodologia di lavoro, pensate con l'esperienza accumulata in questi anni e in risposta alle indicazioni di Benedetto XVI. È emersa, innanzitutto, l'urgenza di recepire le norme promulgate nel 1983 con il Codice di Diritto Canonico e nel 1990 con il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali Cattoliche. Inoltre andavano accolti i dettati giuridici contenuti in altre norme complementari che venivano rispettati nella prassi sinodale, ma non erano inseriti nel Regolamento vero e proprio.

D. Una domanda più tecnica: può indicarci le norme aggiornate?

R. Riguardo al linguaggio si è cercato di adattare le denominazioni utilizzate nei due Codici:  così il Papa viene indicato sempre come Romano Pontefice. Altre novità riguardano una più precisa collocazione delle Chiese orientali cattoliche sui iuris: quelle che hanno più di 25 vescovi possono scegliere anche un secondo rappresentante alle assemblee. Se poi il capo di quella Chiesa fosse impedito, egli potrà designare un altro vescovo. Si è proceduto, inoltre, alla semplificazione della partecipazione dei capi dei Dicasteri della Santa Sede: sono membri di diritto tutti i prefetti delle Congregazioni e i presidenti dei Pontifici Consigli siano essi cardinali o arcivescovi. È stata anche fatta una norma per i consigli speciali delle assemblee speciali. È stato ripensato il compito del relatore generale e del segretario speciale. Sono state aggiornate le modalità dei lavori nei circoli minori. E poi è stata introdotta la discussione libera.

D. Che intende per discussione libera?

R. Nel corso dell'ultima assemblea è stata introdotta la prassi, risultata a tutti gradita, della discussione libera che si fa ogni giorno alla fine della congregazione generale, dalle 18 alle 19. È una novità voluta da Benedetto XVI. Si è rivelata molto utile perché rende più agile e vivace la discussione. Non dimentichiamo che Joseph Ratzinger è un appassionato ed esperto padre sinodale:  ha partecipato a ben 16 assemblee, di cui 15 da cardinale e, all'ultima, da Vescovo di Roma e, dunque, come presidente del Sinodo dei Vescovi.

D. Perché un sinodo sulla parola di Dio?

R. Il tema riflette l'attesa della Chiesa universale. Alla fine del sinodo precedente, nell'ottobre 2005, abbiamo chiesto ai partecipanti di indicare alcuni temi possibili per l'assemblea successiva. Già allora è emerso il tema della parola di Dio come prioritario. Poi, a nome del Papa, ho chiesto per iscritto ai capi delle Chiese orientali cattoliche sui iuris, ai presidenti della Conferenze episcopali, ai capi dei Dicasteri della curia romana, al presidente dell'Unione dei superiori generali, di proporre temi che sarebbe stato opportuno affrontare. Le risposte hanno indicato il tema della parola di Dio. Non è, quindi, un argomento che il Papa ha scelto per caso, ma è frutto di un'ampia consultazione ecclesiale.

D. Quali le motivazioni di questa scelta?

R. In tutta evidenza si è rivelata una necessità, a quarant'anni dalla Dei verbum (una delle quattro costituzioni dogmatiche conciliari), riprendere il tema della parola di Dio. Alla segreteria generale del sinodo stanno giungendo anche molti contributi di singoli fedeli laici che vivono profondamente il senso di questa grande esperienza comunitaria.

È noto, poi, che la parola di Dio è un tema che sta particolarmente a cuore a Benedetto XVI. Da giovane teologo, egli ha lavorato molto alla elaborazione della Dei verbum e in seguito ha seguito l'iter dell'applicazione del documento.

D. Il sinodo avrà un "patrono" particolare in san Paolo: si svolgerà infatti nell'anno paolino indetto dal Papa.

R. È una felice coincidenza. Con san Paolo anche noi siamo invitati a riscoprire e annunciare la parola di Dio. Dobbiamo fare in modo che i fedeli conoscano di più la sacra scrittura. Sarebbe opportuno riprendere anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, approfondire il rapporto tra scrittura, tradizione e magistero. Ci sono altri importanti documenti da prendere in considerazione: ad esempio la Pontificia Commissione Biblica ha pubblicato nel 1993 L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa e nel 2001 Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella Bibbia cristiana.

La sfida che ci troviamo davanti è quella di aiutare la gente ad accostarsi sempre di più alla parola di Dio: per molti il punto di contatto con la sacra scrittura è unicamente la liturgia domenicale. È positivo, ma ci vuole di più. Occorre pertanto aiutare i fedeli a leggere la scrittura, a respirarne la ricchezza ad esempio attraverso l'esperienza della lectio divina.

D. Il sinodo ha dunque uno scopo pastorale.

R. Approfondendo le ragioni dottrinali, si intende estendere e rafforzare la pratica di incontro con la parola come fonte di vita nei diversi ambiti dell'esperienza, proponendo ai cristiani e agli uomini di buona volontà vie giuste e agevoli per ascoltare Dio e parlare con Lui. I fedeli sapranno poi tradurre le indicazioni che ne derivano per la loro vita personale, familiare e sociale. Così la parola di Dio avrà un'incidenza sempre più evidente.

D. Quali sono le prossime tappe di avvicinamento all'assemblea?

R. I Lineamenta (il documento di preparazione che favorisce la riflessione in tutta la Chiesa) sono stati già presentati e diffusi. Ora stiamo analizzando le risposte che ci arrivano da tutto il mondo, in vista della redazione dell'Instrumentum laboris che è il vero e proprio documento di lavoro sinodale. Il materiale raccolto sarà presentato a fine gennaio al consiglio ordinario del sinodo. Sarà quella la sintesi di come oggi la parola di Dio viene vissuta nella vita della Chiesa, con gli aspetti positivi e le realtà da migliorare. Sarà una fotografia interessante che farà vedere le sensibilità e le esperienze delle Chiese particolari. (Giampaolo Mattei, ©L'Osservatore Romano, 14 Novembre 2007)

 

 


 

Bruno Forte: Il Battesimo, sacramento ecumenico

Il battesimo è il sacramento ecumenico per eccellenza, ha affermato monsignor Bruno Forte, Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto, nella sua Lettera pastorale per l’anno 2007-2008, intitolata “L’acqua della vita. Il battesimo e la bellezza di Dio”.

La Chiesa, ha ricordato, fin dall’inizio “ha seguito le orme del Maestro, proponendo a chi vuole incontrare Gesù un itinerario analogo a quello da Lui indicato ai discepoli del Battista”, il catecumenato.

“Per l’adulto che chiede il battesimo si tratta di un vero e proprio percorso di iniziazione cristiana, che unisce catechesi ed esperienza progressiva del dono di Dio. Per chi è stato battezzato da piccolo il cammino coincide con l’educazione alla fede”, ha spiegato.

Monsignor Forte ha quindi sottolineato i due significati fondamentali del battesimo: la liberazione dal male e “quell’incontro decisivo con Cristo, che ci consentirà di vivere l’intera esistenza come una storia d’amicizia con Lui nella comunione della Chiesa”.

L’annuncio del Vangelo, ha osservato, è la premessa necessaria al battesimo.

“In una società dove i più venivano battezzati, esso si dava quasi per scontato e l’importanza della preparazione al battesimo veniva piuttosto trascurata. Nella società complessa, multireligiosa e multiculturale, in cui viviamo, l’urgenza di far risuonare l’annuncio della fede e di chiamare alla conversione a Cristo si mostra in tutta la sua necessità”.

Nel caso del battesimo di un bambino, ha proseguito, questa urgenza riguarda anzitutto i genitori, la cui catechesi in preparazione al battesimo del figlio è “indispensabile”.

“La grazia del fonte battesimale si irradia così anzitutto su di voi, e mentre la vostra creatura è rigenerata dall’alto, vengono risvegliati o perfino accesi in voi il dono e la bellezza della fede”, ha affermato.

La celebrazione del battesimo, ha ricordato, inizia con un dialogo: “ai genitori si chiede che cosa domandano per il figlio che vogliono battezzare, agli adulti che cosa si aspettano per sé dal battesimo”.

“La risposta è eco della più profonda attesa del cuore umano: ‘la vita eterna’”.

“Chi riceve il battesimo non è più solo: il Dio che è amore lo custodirà sempre”.

Come ogni dono, ha continuato l’Arcivescovo Forte, anche quello della vita, offerto nel battesimo, richiede di essere accolto. Per questo motivo, “nella celebrazione del battesimo siamo chiamati a dire ‘no’ al peccato e alle seduzioni di Satana, cioè a una vita fondata sull’apparenza, sull’egoismo e sulla menzogna, che ci porta a separarci da Dio e dagli altri per affermare noi stessi, vivendo l’illusione di poter essere felici senza amare”.

“Al tempo stesso, siamo chiamati a dire ‘sì’ al Dio che è Amore, al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. È il ‘sì’ espresso dalla parola ‘credo’, con cui ci consegniamo totalmente a Dio”.

“A questa professione di fede il Dio vivente risponde facendoci entrare nell’alleanza d’amore con Lui: un’alleanza così fedele, che la nostra appartenenza a Lui e alla Chiesa non potrà mai essere perduta, quali che siano le nostre infedeltà o i nostri rifiuti”.

“Grazie al dono del battesimo abbiamo la certezza di appartenere per sempre a Dio e possiamo sperimentare la dolcezza di stare nelle mani di Colui che non ci tradirà mai”.

E’ proprio in questa relazione definitiva con Dio che consiste il “carattere” impresso dal battesimo, “il legame con Lui, che proprio grazie alla Sua fedeltà non potrà più essere cancellato e ci unirà per sempre alla Sua famiglia, la Chiesa”.

Per tale ragione, ha scritto, “esiste fra tutti i battezzati una comunione più forte delle loro diversità, che – pur realizzandosi in gradi diversi – è il fondamento dell’impegno ecumenico, teso a superare le divisioni storiche fra di loro”.

La “passione per l’unità che Cristo vuole”, ha constatato l’Arcivescovo, è quindi “inscritta nella stessa grazia battesimale”. (Zenit, 12 novembre 2007)

 

 


 

Benedetto XVI fa sentire i cattolici di nuovo Chiesa dopo anni di fede solitaria postconciliare

È una grande consolazione per un cattolico all'antica ascoltare il Papa che scandisce i testi dei santi Padri, mercoledì dopo mercoledì. Benedetto XVI torna a farci sentire una realtà che, dopo la grande tempesta postconciliare, avevamo interamente smarrito: la Chiesa che crede, unico corpo di cui siamo tutti membra. La nostra fede è la fede della Chiesa e vive non in modo solitario ma come un atto di questa grande realtà che va oltre lo spazio e il tempo e canta con una voce sola. Io credo che i cattolici nati dopo gli anni Sessanta non abbiano potuto conoscere il sentimento di vivere la fede della Chiesa come propria, che è la dimensione della vita eterna che diventa percepibile dal cristiano nel tempo: è questo respiro nella Chiesa che ci fa capire come esso possa continuare oltre la nostra morte corporale. Ed è perché manca questo respiro comune in cui l'"io" è un "noi" e il "noi" è un "io" che è così difficile oggi credere nella vita eterna.

Non so se fosse inevitabile scatenare la tempesta che negli anni Sessanta allontanò la Chiesa dall'esperienza dei credenti, disperdendo di conseguenza il sentimento della vita eterna. Quel sentimento non si è più ricostituito, e oggi la solitudine che grava sul mondo è data anche dalla tristezza dei cattolici che hanno perso, con il sentimento di essere Chiesa, la via che guida alla vita eterna. Ma quando sento i santi Padri scorrere come semi del rosario nei discorsi del Papa, avverto di nuovo il respiro perduto nella Chiesa come mio respiro e vivo la pace come se la grande tempesta non fosse mai accaduta. Questo è Benedetto XVI, e forse solo chi sa cosa ha perduto perché lo aveva conosciuto comprende veramente quel che accade oggi, e cioè il ritorno del tempo eterno nella liturgia cosmica che è la vita della Chiesa.

Ho veramente sofferto quando ho sentito chiamare la Chiesa popolo di Dio: capivo che stava avvenendo un radicale aggiornamento del linguaggio ecclesiale, che lo metteva in sintonia con il tempo ma gli faceva perdere il sentimento dell'eterno. "Chiesa universale del popolo di Dio", infatti, è un termine che ricorda l'Internazionale socialista. Ho stimato molto l'Internazionale (ho cantato con gioia il suo inno quando ero socialista), ma il suo non è il linguaggio che si addice alla Chiesa. Vedo che il tempo, comunque, discerne gli eventi, anche gli eventi conciliari, e così l'ombra del modello politico dell'Internazionale sul popolo di Dio sparisce dal magistero, dall'esperienza dei cristiani, dalla vita comune. Quello che era stato di fatto allontanato, lentamente comincia a ritornare. E forse con il passare del tempo ritornerà anche quell'esperienza della vita eterna che si ha nel sentire l'"io" e il "noi" ecclesiale come un unico respiro del corpo di Cristo.

Anche il Corriere della Sera si chiede come mai tanta gente vada da papa Ratzinger, anche oltre il carisma del grandissimo Giovanni Paolo II che ha reso possibile mantenere la continuità della Tradizione. Oggi, con Benedetto XVI, quella Tradizione noi non la pensiamo, cominciamo a viverla.

Come posso giustificare la mia fede da solo? Come posso credere che, in questo piccolo pianeta blu, si sia incarnato il figlio di Dio creatore di quell'immenso universo di cui ora apprendiamo le misure sperimentando il potere della nostra mente? Come possiamo credere a Gesù risorto quando i racconti della Resurrezione sono così brevi e rapidi e rappresentano solo esperienze fugaci, non la continuità della vita di Cristo che noi riceviamo? Da soli non siamo capaci. Possiamo credere solo se è la Chiesa a pronunciare in noi l'atto di fede. Ecco l'esperienza che è mancata ai nati dopo gli anni Sessanta. Si può professare la fede anche da soli, ma quello che era stato dato a noi delle generazioni precedenti era l'esperienza di non essere soli, l'essere Chiesa che vive l'eterno in noi. La fede non era allora un'attività del singolo e della sua volontà isolata, era un respiro che ci avvolgeva quietamente, che ci restituiva alla comunione profonda in cui vivevamo. Papa Benedetto è il segno che questa esperienza ci sarà restituita, anche se ancora non vedo ritornare comune quello che era comune. (Gianni Baget Bozzo, Tempi, 8 novembre 2007)

 

 


 

“I dubbi di Giovanni Paolo XXIII... “

Talvolta solamente refusi di stampa, qualche altra veri e propri indizi della solenne ignoranza che vige nel nostro paese in materia religiosa: Bibbia conosciuta per sentito dire, Vangeli poco letti, equivoci e luoghi comuni che trionfano.

L’ultimo scivolone (come abbiamo avuto modo già di parlarne) è finito sulle pagine di Repubblica nella giornata di sabato: la nuova puntata della ormai celebre e contestatissima “inchiesta” del quotidiano romano sui “soldi della Chiesa” – a firma di Curzio Maltese – ha affrontato il tema del turismo religioso, un business con innumerevoli mete di pellegrinaggio e “conventi a 5 stelle” che vale la bellezza di 5 miliardi di euro all’anno. Nella parte finale dell’articolo, proprio a proposito di antichi cammini riportati alla luce, si legge: “Visto il successo, l'Opera romana pellegrinaggi ha deciso di rilanciare anche altri pellegrinaggi: il Cammino di Sigerico, da Milano a Roma; la Via dell'Est, che da Venezia attraversa Romagna e Umbria; l'antico cammino del Sud da Roma a Otranto. L'ultimo con un passaggio d'obbligo al santuario di San Giovanni Rotondo, il cui boom turistico ha messo di gran lunga in secondo piano le recenti rivelazioni sui dubbi di Giovanni Paolo XXIII a proposito della santità di Padre Pio, i suoi rapporti con le fedeli e l'origine reale delle stimmate”.

Già, “i dubbi di Giovanni Paolo XXIII”. Refuso di stampa, naturalmente, mero errore materiale: impossibile credere che qualcuno confonda papa Roncalli con papa Wojtyla, o che semplicemente non si sappia che prima di arrivare ad un “ventitreesimo”, di Giovanni Paolo ne dovranno passare ancora venti, e – va da sé – sarà ben difficile che questo accada nel breve volgere di questo nostro passaggio terreno… Ma, errori di stampa a parte, questo fatto ci ricorda la cattiva abitudine, tipica del modo odierno di fare informazione, di trattare le “cose di Chiesa” senza quel supplemento di rigore e competenza che richiederebbe il districarsi nei complicati meandri ecclesiastici. Quando si parla di Chiesa, di cristianesimo, di religione, una marea di inesattezze e imprecisioni piombano sul lettore medio, che davvero non sa più di che stupirsi.

Quante volte sulle pagine dei giornali il "dogma dell'infallibilità pontificia" è stato attribuito al Concilio Vaticano II, o perfino al Concilio di Trento? E quante volte illustri opinionisti hanno fatto un solenne minestrone con Immacolata Concezione, concepimento verginale di Gesù e Assunzione della Vergine Maria?  Quante volte Pio IX è diventato Pio XII, quante volte Paolo VI ha "inaugurato" il Concilio Vaticano II e quante volte Giovanni XXIII lo ha chiuso? E’ successo che un illustre settimanale presentasse la Gaudium et Spes, costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo, datata 7 dicembre 1965, come una enciclica di Giovanni Paolo II, ed è successo che al papa polacco fossero attribuite coraggiose prese di posizione che non facevano in verità nient’altro che ribadire convincimenti fermi anche dei suoi predecessori.

Solo innocenti errori? Sono piccole papere? In parte si. Ma anche il segno evidente di una profonda verità: che di cattolicesimo e di fede, di ragione e di morale, di stato laico e di pensiero religioso si discute oggi con un pressappochismo da far paura. Tutti bravi, tutti esperti, tutti perfetti, salvo poi sentire che i sacramenti sono quattro e gli evangelisti sette, i comandamenti dodici e le tribù di Israele dieci, e che il papa è infallibile, naturalmente, sempre e comunque. Manco fosse Superman.

Ma del resto, non sono solo i cronisti a “peccare” di ignoranza, e il recente sondaggio pubblicato da Famiglia Cristiana la dice davvero lunga, in questo senso. In un contesto in cui la maggioranza degli italiani si dice "credente" (68%) ma solo il 17% si dichiara "praticante", i quattro Vangeli sono stati letti per intero dal 16% degli italiani, mentre il 69% non li ha mai neppure toccati, e comunque per quasi un italiano su tre (30%) i Vangeli sono "tutti uguali". Non ci si stupisca se poi, anche sui mezzi di comunicazione, va in onda la sagra dell'approssimazione. (Adolfo Rebecchini: www.korazym.org)

 

 


 

Un uomo senza Dio

Tre totalitarismi (e forse anche di più) in un secolo, per giunta «breve». Eugenio Corti ne sa qualcosa, avendone attraversati i drammi prima con l’esperienza della carne, poi con la penna dello scrittore. Severissimo col comunismo conosciuto «dal vivo» durante la campagna di Russia (basti leggere il capolavoro Il cavallo rosso), ma non meno col laicismo che si è infiltrato talvolta persino nella Chiesa, e col nazismo: contro il quale ha combattuto da «soldato del Re» insieme agli Alleati nell’ultima guerra. Una voce indomita e originale nel giudizio, insomma: «E tutti questi totalitarismi – esordisce lo scrittore, 85 anni, dalla sua casa in Brianza – sono legati da uno stesso filone di provenienza: quella linea che dalla visione teocentrica medievale approda all’antropocentrismo dell’età moderna. Una visione in cui Dio è escluso».

D. Vuol dire che mettere l’«uomo al centro» è il grande errore della modernità?

R. «No, l’antropocentrismo in sé e per sé non è un male. Solo che nella cultura europea si è sviluppato attraverso l’Illuminismo, il quale ha dato i suoi primi sanguinari prodotti nella Rivoluzione francese e poi è proseguito con i grandi maestri tedeschi dell’idealismo, da Hegel in poi. Finché non esiste contrapposizione tra l’uomo e Dio, si tratta di filosofie che si possono accettare. Ma vigilando sempre, perché gli sviluppi reali di certe ideologie sono stati orrendi».

D. Allude per esempio al comunismo? Quale ne è il peccato d’origine, secondo lei?

R. «La filosofia di partenza del comunismo è atea e anticristiana nel senso più pieno. Si tratta del tentativo di costruire una “città terrena”, per dirla con sant’Agostino, senza lasciare alcuno spazio a Dio; e questo è un progetto che, indipendentemente dalla buona volontà di chi lo promuove, porta inevitabilmente alla linea del Principe di questo mondo, cioè del demonio. Tali sono stati appunto gli effetti della società comunista».

D. Per il marxismo si parla spesso, però, di «radici cristiane deviate».

R. «Questa è la visione sbagliata dei molti cattolici che guardano con nostalgia agli esperimenti sovietici. È giusto dire che il comunismo è stato il rovesciamento del cristianesimo, perché non poteva realizzarsi se non attraverso il meccanismo dell’odio tra le classi. Che poi contenesse anche un ideale di riscatto delle classi minime è pure vero, ma di fatto tale promozione umana non si è verificata, nemmeno dal punto di vista economico: nelle società socialiste, infatti, i poveri sono diventati ancora più poveri. Basta guardare oggi il caso delle due Coree, dove il divario tra il tenore di vita di quella comunista e della Corea “libera” è di uno a 25».

D. Il nazismo: la Chiesa è stata accusata di non averlo condannato abbastanza, e comunque meno del «totalitarismo rosso». Lei come la vede?

R. «Si tratta di un’accusa falsa. L’ultimo Papa prima della seconda guerra mondiale, Pio XI, ha tenuto discorsi sia contro i nazisti sia contro i comunisti, mettendoli assolutamente sullo stesso piano. Ha detto persino che i nazisti dovevano essere considerati degli “anticristi” nel senso più vero del termine. Con l’arrivo della guerra, però, il successore Pio XII non ha potuto schierarsi troppo dichiaratamente contro il nazismo perché ciò avrebbe creato molti problemi ai cristiani sotto il dominio di Hitler; e i nazisti erano davvero luciferini. I comunisti hanno ammazzato molto più di loro, oltre 200 milioni di persone contro una ventina; ma solo perché hanno avuto assai più tempo per agire…».

D. Questo del paragone (nel peggio) tra «neri» e «rossi» è un discorso spesso avviato. Lei come lo affronta?

R. «Sono due realtà parallele; il nazismo è l’esatto capovolgimento del comunismo, è la costruzione di una società terrena senza nessuno spazio per Dio. Anche i nazisti avevano un perverso ideale, infatti: volevano costruire una società libera da tutte le tare delle precedenti, in cui gli “uomini superiori” avrebbero dominato la realtà attraverso la “volontà di potenza” predicata dal filosofo Nietszche. Li ho visti bene i tedeschi, sia quando ero loro a fianco come alleato in Russia sia quando li ho combattuti in Italia: l’idea di un uomo con attributi divini e destinato al rinnovamento della stirpe – non importa se ottenuto schiavizzando o macellando tutti i “sotto-uomini” – era entrata in modo tale nella loro testa che erano disposti a qualunque cosa».

D. E il fascismo, lo considera anch’esso uno dei «grandi totalitarismi» del Novecento?

R. «No, il fascismo lo metterei piuttosto tra i “piccoli totalitarismi”, insieme ai colonnelli dei regimi dittatoriali della Grecia o del Portogallo, per esempio. È un errore grave accomunare sotto lo stesso giudizio nazismo e fascismo, anche se Hitler considerava il Duce come il suo “maestro” e Mussolini – che era di una superficialità favolosa – si era illuso di poterlo governare con il mito dell’impero romano. L’ideologia fascista si riassume bene nel motto “me ne frego” e di per sé non perseguiva utopie di distruzione e ricostruzione planetaria».

D. E il secolarismo, invece? Siamo obiettivi: è difficile paragonarlo con gli altri due totalitarismi. È così tollerante con tutti, così «liberale»... E poi non ha fatto nessun morto.

R. «Anch’esso è comunque un prodotto dell’illuminismo. In teoria appare tollerante e accogliente, è vero, però al modo di Voltaire: che si diceva disposto a morire pur di permettere al suo avversario di esprimersi liberamente, mentre poi in realtà combatteva la sua battaglia anche con la menzogna. Certo, con Lenin chi era avverso all’ideologia veniva eliminato fisicamente; nel secolarismo, invece, quanti si oppongono al potere dominante ricevono al massimo la morte civile: si trovano sbarrate tutte le strade, gli tolgono la possibilità di esprimersi. Non c’è il macello dei gulag – e di questo ringraziamo il cielo – ma un altro tipo di persecuzione».

Lei ce lo vedrebbe il consumismo come un ulteriore «totalitarismo», per lo meno dal punto di vista spirituale?

R. «Anch’esso è un prodotto della filosofia materialista, che si afferma sempre più. Il materialismo di Marx e quello del liberalismo sfrenato sono parenti; non per nulla il comunismo si proponeva di liberare l’uomo dall’egoismo attraverso la disponibilità di un numero enorme di beni materiali: cosa che è stata realizzata appunto dal consumismo. L’idolatria del mercato determina un tale attaccamento alla nuova abbondanza da influenzare nelle coscienze anche la visione della realtà».

Qual è invece, secondo lei, il bilancio positivo del Novecento?

R. «L’aumento del benessere della gente comune, che ora permette di affrontare le miserie più estreme. Oggi esistono maggiori possibilità di andare incontro ai poveri e questo è uno dei vantaggi del nostro tempo, che potrebbe dare anche frutti spirituali. Io, del resto, non sono pessimista e nemmeno ottimista: non posso fare una scelta di merito tra i giovani di ieri e quelli di oggi, ad esempio. Vedo tra loro alcuni peggioramenti, come l’insicurezza che dimostrano, ma pure miglioramenti in certi campi: oggi i giovani sono senz’altro più caritatevoli che in passato». (Roberto Beretta, © il Timone, n. 59, 2007)

 

 

 


 

11 novembre 2007

 

Vita consacrata: l’Italia nuova terra di missione
Il «pluralismo religioso e culturale» della società italiana e le nuove esigenze dell’annuncio: è il tema della 47ª Assemblea generale dei Superiori maggiori. Ieri il via ai lavori con il messaggio del Papa inviato dal cardinale Bertone e la prolusione di don Alberto Lorenzelli, presidente della Cism

La prima voce che risuona, nella 47ª Assemblea generale dei Superiori maggiori di tutta Italia, è quella del Papa. Benedetto XVI, dice il telegramma di saluto inviato a nome del Pontefice dal cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, «auspica che l’importante incontro susciti rinnovato e coraggioso impegno di annuncio evangelico e testimonianza cristiana. E mentre assicura la sua preghiera, volentieri invia la propria benedizione apostolica». Il messaggio è letto in apertura dei lavori dal presidente della Cism (Conferenza italiana dei superiori maggiori), don Alberto Lorenzelli, alla presenza del nunzio apostolico in Italia, l’arcivescovo Giuseppe Bertello (alla sua prima partecipazione all’assemblea, dopo la nomina) e del vescovo di Ventimiglia-San Remo, Alberto Maria Careggio.
Non è un semplice saluto, quello del Papa. Il suo accenno all’impegno coraggioso di annuncio e di testimonianza ha infatti il merito di introdurre direttamente i quasi 150 superiori delle province italiane degli ordini maschili nel cuore dell’argomento che l’assemblea affronterà fino a venerdì: «Il pluralismo religioso e culturale della società in Italia». «Pur con i nostri limiti – fa notare, infatti, don Lorenzelli fin dall’inizio della sua prolusione – siamo consapevoli di una sfida che non vede impreparati i consacrati, grazie alla loro presenza ed esperienza nelle giovani Chiese e nella missio ad gentes ». L’intento dell’assise è dunque quello di «individuare delle linee comuni come contributo ad una pastorale organica che si faccia carico di una emergenza pastorale e sociale di tutto il territorio nazionale. In particolare avvertiamo il dovere di essere – come consacrati – uomini del dialogo ed educatori ad una mentalità e prassi di dialogo soprattutto tra le nuove generazioni».
Tema più attuale non poteva esserci per questa assemblea, che viene a collocarsi – anche se per una semplice coincidenza – dopo i fatti di cronaca dei giorni scorsi. Don Lorenzelli pone il proprio discorso innanzitutto nello scenario del Convegno ecclesiale di Verona e della Nota che i vescovi hanno scritto dopo quell’evento. «Mi pare di poter dire – afferma il salesiano – che le tre priorità della nota – primato di Dio, testimonianza evangelica e unità della persona nel dono di comunione – esprimano alcuni aspetti tipici che sono nel Dna della vita consacrata». Poi, sull’argomento specifico dell’assemblea aggiunge: «Il fenomeno dell’immigrazione ha posto il nostro Paese in una situazione di progressiva pluralizzazione culturale e religiosa». Perciò «la Chiesa e la vita consacrata sono messe di fronte ad una sfida inedita e all’apparenza paradossale: la missione esercitata per secoli dall’Europa verso l’esterno diventerà adesso necessaria, in una forma del tutto diversa, verso l’interno». In che modo? Il presidente della Cism ricorda come le comunità religiose «che raccolgono persone di diversa età, formazione ed etnia, possono diventare scuola di una spiritualità della comunione e della riconciliazione». Dunque, sottolinea don Lorenzelli, «i religiosi possono annunciare che l’altro non rappresenta un ostacolo, ma un momento di confronto e di ricchezza ». Inoltre essi possono «realizzare quella globalizzazione della solidarietà auspicata da tutti». È chiaro, afferma ancora il religioso, «che questo richiede delle comunità religiose che siano luogo di autentiche relazioni umane, in cui si ami con il cuore, si accolgano e si rispettino le differenze, non temendole come minacce, ma considerandole ricchezze offerte a tutti ».
In sostanza, come fa notare nel suo saluto madre Teresa Simionato, presidente dell’Usmi (l’organismo corrispondente della Cism per le religiose), «gli immigrati sono oggi per noi areopaghi della missione, vite che vanno accostate per evitare da entrambe la parti il pericolo del ghetto». Ci sarà tempo per approfondire l’argomento fino a venerdì. (Mimmo Muolo, Avvenire, 6 novembre 2007)

 

 


 

«Ecclesia mater», così a Roma fede e teologia si fanno cultura
«Volare alto e scendere in profondità. Un’antinomia possibile, per chi religioso o laico, desidera dilatare l’orizzonte della propria vita cristiana all’interno della vita dell’Ecclesia mater, quella Chiesa che è mater et magistra allo stesso tempo».
Lo ha affermato ieri pomeriggio il decano della Facoltà di teologia dell’Università Lateranense, monsignor Renzo Gerardi, durante l’inaugurazione ufficiale dell’anno accademico 2007-2008 dell’Istituto superiore di scienze religiose della diocesi di Roma.
Gerardi ha spiegato che l’Istituto, riconosciuto dal 1973 dalla Congregazione per l’educazione cattolica e dal 1985 dallo Stato italiano, si chiama proprio «Ecclesia mater» in virtù del suo inserimento nella Lateranense e quindi del legame particolare con quella Chiesa che è «capo e madre di tutte le Chiese».
All’incontro, che si è svolto nell’aula Pio XI dell’Università del Laterano oltre a Gerardi, hanno partecipato il preside dell’Istituto, monsignor Giuseppe Lorizio, il vice preside Pierluigi Sguazzardo, il rettore dell’Ateneo Lateranense, monsignor Rino Fisichella, e monsignor Manlio Asta, direttore dell’Ufficio scuola del Vicariato.

A quest’ultimo è spettato il compito di introdurre il momento inaugurale: «l’Ecclesia mater è un’attività della diocesi romana e soddisfa i bisogni formativi del vicariato». Il programma pastorale della nostra  diocesi – ha puntualizzato Asta – ha da sempre puntato sulla formazione di qualità e l’Istituto risponde a questa richiesta.
Esempio sono gli oltre 500 insegnanti di religione operativi nelle scuole del territorio diocesano che, negli anni, si sono formati all’Ecclesia Mater ».
La formazione teologica dei laici, che l’Istituto non manca di rinforzare e promuovere «costituisce l’unico senso di un’istituzione come la nostra – ha affermato il preside.
Per questo non può essere sporadica e improvvisata ma ha bisogno di sistematicità e di competenze».
Proprio all’interno di questa «mission» si inseriscono alcune delle iniziative che l’Ecclesia mater organizza: dai momenti di spiritualità proposti in Avvento e in Quaresima al seminario residenziale e la giornata di spiritualità, nate nell’ambito del Centro di teologia per laici. «Così l’istituto – ha aggiunto Lorizio – si propone di tenere aperto lo spazio del “pensiero meditante”, fuori dalla preoccupazione dei crediti e dei voti, dei titoli e delle equipollenze, perché pian piano e con l’aiuto dello Spirito Santo, la nostra scienza possa maturare in sapienza».
Quella sapienza non può prescindere dal vivere la fede con intelligenza. Su questo concetto si è espresso nella sua prolusione, intitolata «Per un’intelligenza della fede», monsignor Rino Fisichella che ha sottolineato «come la fede sia una delle forme conoscitive più alte e peculiari della persona che non può prescindere dall’amore come condizione necessaria per compiersi. Senza l’amore – ha concluso il vescovo – non si può raggiungere alcuna forma di conoscenza perché soltanto esso coinvolge la persona in un vortice di esperienza unico che raggiunge la piena verità». (Massimiliano Padula, Avvenire, 6 novembre 2007)

 

 


 

Tettamanzi ai sacerdoti: «Nell’obbedienza il prete vive la libertà di servire»

Un prete è prete «per la Chiesa» e «per tutti». La sua «obbedienza» è tanto più importante per «il calo numerico e l’invecchiamento del clero», quanto per le «nuove esigenze pastorali» di una Chiesa chiamata ad un servizio al Vangelo sempre più «credibile ed efficace». Solennità di San Carlo Borromeo a Milano: il cardinale Dionigi Tettamanzi ha dedicato la festa patronale al clero e al «futuro» della diocesi. Richiamandolo appunto ad una «carità pastorale obbediente» i suoi duemila preti diocesani e i religiosi. Obbedienza (è questa la preoccupazione principale del pastore ambrosiano) anche quando la richiesta del vescovo è quella «di cambiare la parrocchia in cui si svolge il ministero».
Nell’«obbedienza» alla Chiesa «nella sua totalità» non c’è solo un «ideale normativo», per Tettamanzi, ma la «bellezza » spirituale e tutta «la libertà » del «sì» al servizio. «Se è naturale e legittimo per un presbitero desiderare e chiedere una destinazione» non si può prescindere «dai concreti bisogni e dalle necessità del momento presente» di una delle diocesi più grandi del mondo, come quella milanese.
Già il cardinale Borromeo, cinque secoli fa, rivolgeva insegnamenti e riflessioni ai suoi sacerdoti. Cinquecento anni dopo, l’attuale arcivescovo sceglie proprio il giorno di San Carlo per un «discorso al clero», che fa pendant con il tradizionale «discorso alla città» in occasione di Sant’Ambrogio, altro padre spirituale ed insieme emblema civile della città. Proprio nelle solennità degli ultimi anni Tettamanzi ha lanciato al clero i messaggi relativi all’«alleanza diocesi-Seminario», nel 2006, o l’annuncio del voler «portare a compimento la riforma del rito ambrosiano», nel 2004. E altre volte ha richiamato i preti come nello stesso 2004, quando ad apertura dell’anno pastorale invitò a una «maggiore cura per la qualità delle celebrazioni» talvolta a rischio di «noia e sciatteria». Il nuovo appello di ieri costringe a guardare non solo alla realtà in termini numerici (i preti che diminuiscono) ma anche al modo del- la Chiesa di stare sul territorio. Uno «sguardo in avanti» da parte dell’arcivescovo che, insieme alla «famiglia», pone l’attenzione del suo episcopato sulla «missionarietà»: quello «slancio pastorale teso ad andare oltre la comunità dei fedeli e di quanti ci sono più vicino per raggiungere tutti, nessuno escluso». Uno sguardo «rivolto al futuro», ha chiosato Tettamanzi, per una Chiesa che vive un contesto sociale in continua evoluzione e che dunque non può fermarsi «a una prassi tradizionale ritenuta immutabile». Un appello alle parrocchie che non possono pensare «all’andare avanti come si è sempre fatto». Da san Carlo e dalla figura evangelica del buon pastore, Tettamanzi ha preso le mosse per un testo che nei prossimi giorni arriverà a tutti i sacerdoti di una diocesi «sostenuta da una solida tradizione di disponibilità», che ha tra i suoi sacerdoti beati tanti «esempi di obbedienza pronta e sincera» come Luigi Talamoni, Luigi Biraghi e Luigi Monza. Sacerdoti «disponibili» a cambiare, dunque, nonostante «le difficoltà legate all’età, al contesto familiare, alle proprie inclinazioni e sensibilità». Circostanze «parallele», in fondo, a quelle «di molti padri e madri di famiglia di oggi – per Tettamanzi –, costretti per esigenze di lavoro e di sopravvivenza a cambiamenti radicali di città, di abitazione, perfino di nazione, e questo con in più il carico di un’intera famiglia». Per i sacerdoti è quindi «un’occasione per condividere esperienze contemporanee, di “incarnazione” evangelica del nostro tempo». (Annalisa Guglielmino, Avvenire, 6 novembre 2007)

 

 


 

Cambia il modello parrocchia: si ristudia la presenza sul territorio: 750 preti in meno nel 2030

Sulle tabelle parlano i numeri: ci saranno 750 preti in meno a Milano da qui al 2030. Dall’altare parla un pastore che prima di tutto – prima dei numeri – punta «lo sguardo al futuro », affrontando oggi il problema «della destinazione» dei sacerdoti in modo «saggio e adeguato ». Voce paterna e piglio concreto, dall’altare maggiore del Duomo di Milano il cardinale Dionigi Tettamanzi ha chiesto ai suoi preti la «responsabilità non solo del presente, ma anche del futuro della nostra Chiesa». Una proiezione numerica compilata nella curia milanese calcola che dal 2007 al 2030 non solo i sacerdoti saranno 750 in meno. Soprattutto calcola che quelli sotto i 60 anni non arriveranno ad 800, dunque meno di uno a parrocchia (che sono oggi poco più di mille). Quelli tra i 25 e i 50, in genere più impiegati per la pastorale giovanile, se oggi sono 660 fra 23 anni saranno la metà (ed erano quasi mille all’inizio degli anni ’90). Da qui l’appello dell’arcivescovo da una parte alla «disponibilità» dei sacerdoti a nuove destinazioni. Dall’altra l’apertura alle «comunità pastorali ». Il progetto delle comunità che raccolgono più parrocchie insie­me, già oggi «non è una “ritirata” a causa dell’età anziana e della scarsità del clero», ha però preci­sato Tettamanzi. «È piuttosto un guardare avanti per un rinnovamento e un potenziamento delle istanze della missione della Chiesa oggi». Orizzonti aperti, è stato l’invito, perché le difficoltà si trasformino in «sfide». In «vere opportunità e stimoli al coraggio». In un piano di «messa in rete» delle risorse. In cui «si evitino doppioni» e in cui «la redistribuzione del clero non pesi solo su quello giovane», perché «anche i parroci sono chiamati a rivedere la loro collocazione ministeriale».
Numeri e tabelle, certamente, «dicono – per Tettamanzi – tutta la serietà del fenomeno e il suo prevedibile aggravarsi nei prossimi anni, nonostante sia ancora significativo l’apporto dei presbiteri appartenenti a istituti religiosi o a società di vita apostolica, che pure sono investiti dalle stesse problematiche». Tuttavia «solo considerando gli sviluppi dei tempi che ci aspettano, è possibile oggi affrontare il problema della destinazione dei preti in modo adeguato», cioè «provvedendo nel presente a un domani che risulti positivo, invece che problematico o difficile o faticoso, di fatto ingestibile, o persino fallimentare».
Ieri san Carlo alle prese con il dopo Concilio di Trento. Oggi una Chiesa che combatte contro un invecchiamento del clero che a Milano ha visto i preti anziani passare dall’8% del 1990 al 20% di oggi. L’orizzonte può essere solo, per l’arcivescovo, «il criterio ecclesiale» e la «corrispondente responsabilità insita nel sacramento dell’ordine». (Annalisa Guglielmino, Avvenire, 6 novembre 2007)

 

 


 

L’alleanza comunista contro la Chiesa
Nel dicembre 1949, durante le celebrazioni del settantesimo anniversario di Stalin, si radunarono a Mosca tutti i dirigenti dei paesi del blocco sovietico e del movimento comunista internazionale. Stalin ebbe incontri personali con i più importanti tra loro, e tra questi il 26 dicembre ricevette Togliatti.

Il verbale di questo incontro non si trova negli archivi di Mosca, perché esso si svolse in russo, e non richiedeva quindi la presenza di un traduttore, che ne avrebbe trascritto il verbale. Il contenuto dell’incontro ci è noto per la sintesi fattane da Togliatti, il cui testo si trova nelle carte di Togliatti, presso la fondazione dell’Istituto Gramsci. Il documento è stato ampiamente citato in un saggio del 1992 da Silvio Pons, che però in quel periodo non poteva essere certo dell’identità dell’interlocutore di Togliatti, indicato soltanto con la lettera S2. L’importanza del documento è data dal fatto che questo fu il primo incontro tra Togliatti e Stalin dopo quello avvenuto prima della partenza di Togliatti da Mosca nel marzo 1944. I due leader discussero sia la situazione interna italiana che quella internazionale. Anche se i contenuti del colloquio sono riportati da Togliatti in modo sommario, e nonostante l’andamento altalenante del discorso che passa più volte dalla situazione interna del Pci e dell’Italia a quella internazionale, sono chiari i temi dominanti.
Nel caso italiano, la conversazione verte sulla questione dei rapporti di forza all’interno del paese e sulle prospettive di una partecipazione comunista al governo e di un’eventuale presa del potere. Di fronte all’eterna alternativa tra un’azione insurrezionale e la crescita graduale del consenso popolare attraverso metodi legali, è Togliatti a porre la domanda cruciale: «Si può forzare?», per mostrare la sua disponibilità di fronte alla costante pressione dell’ala estremista del partito rappresentata da Secchia; ed è Stalin a indicare, invece, l’obiettivo di un «governo borghese con partecipazione comunista» come «primo passo», e aggiunge: «Un vero governo democratico si può avere solo con azione extraparlamentare - oggi non realizzabile». Entrambi sono concordi nella strategia di puntare sulla parola d’ordine di un «governo di unità nazionale», cioè di tornare alla situazione esistente prima dell’estromissione delle sinistre dal governo nel 1947. Secondo Stalin, la forza politica più pericolosa per i comunisti è la Chiesa cattolica, e per colpire questo temibile «avversario» suggerisce di «non attaccare» direttamente la religione, ma le sue organizzazioni.
Il tono ottimista dell’incontro si spiega con il cambiamento della «correlazione delle forze» a favore del blocco sovietico, avvenuto proprio nei mesi precedenti con l’acquisizione della bomba atomica da parte dell’Urss e la vittoria comunista in Cina. Il secondo documento rappresenta una parte del telegramma del ministro degli Esteri sovietico Andrei Vyshinsky all’ambasciatore sovietico in Italia Mikhail Kostylev che contiene la lettera del Politburo a Togliatti del 21 giugno 1952. Il Politburo, in seguito alla richiesta di Nenni di essere ricevuto da Stalin, chiede a Togliatti di chiarire le vere intenzioni del leader socialista. Da tempo Togliatti, con grande abilità, 'curava' i rapporti tra Mosca e il Psi: forniva dettagliate informazioni sulla situazione all’interno del Partito socialista, suggerendo come rafforzare la posizione di Nenni nella Direzione e consigliando come meglio sfruttare la nota 'vanità' del leader socialista. La decisione sovietica nel 1952 di insignire Nenni del premio Stalin fu discussa con Togliatti, ricevendo la sua piena approvazione.
Ogni autonoma mossa del leader socialista non concordata con Togliatti diventava nota a Mosca, provocando immediatamente sospetti. Così fu quando Nenni, nel marzo 1952, incontrò De Gasperi senza informare Togliatti sul contenuto dell’incontro. La successiva richiesta di Nenni di essere ricevuto da Stalin a Mosca dopo la cerimonia del conferimento del premio diede luogo alla decisione del Politburo di mandare, attraverso l’ambasciatore Kostylev, questa lettera a Togliatti per ricevere da lui chiarimenti su scopi e contenuti dell’incontro di Nenni con De Gasperi. Mosca indicò a Togliatti che qualsiasi apertura del Psi verso il governo sarebbe stata accettata da Mosca soltanto «a condizione che le basi americane sul territorio italiano vengano liquidate». Il Politburo chiedeva a Togliatti di assicurare che Nenni avrebbe condiviso questa impostazione e non l’avrebbe rinnegata nel corso delle trattative con De Gasperi. Solo dopo le rassicurazioni di Togliatti a Nenni venne concesso l’incontro con Stalin. Nenni fu così l’ultimo politico occidentale ad incontrare il dittatore sovietico al Cremlino e ad avere con lui un lungo colloquio.
Il resoconto stenografico del colloquio non è stato ancora rinvenuto negli archivi di Mosca, ma Nenni nei suoi Diari ne ricostruì il contenuto. La visita del luglio si svolse in un’atmosfera di grande cordialità e di unità di vedute. «Un segno tangibile dell’apprezzamento di Stalin fu la decisione del Politburo del 29 luglio 1952 di concedere al Psi nuovi finanziamenti in aggiunta a quelli già stanziati per il 1952».
La lettera dal vertice sovietico a Togliatti getta luce sul rapporto tra Stalin, Togliatti e Nenni, confermando, tra l’altro, la diffidenza che la leadership del Cremlino continuava a nutrire verso il leader del Psi, malgrado tante dimostrazioni della sua affidabilità nel mantenere l’unità d’azione con il Pci e nel seguire la linea della politica estera staliniana. (Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky, Avvenire, 31 ottobre 2007)

 

 


 

La prima visita della storia di un re dell’Arabia Saudita a un Papa

Per la prima volta nella storia, un re dell’Arabia Saudita ha fatto visita a un Vescovo di Roma. I protagonisti dell’udienza sono stati Papa Benedetto XVI e il re Abdallah bin Abdulaziz Al Saud.

L’incontro non aveva solo carattere politico, perché il re, di 84 anni, è custode delle due moschee sacre della Mecca e di Medina. Al termine dell’udienza privata, durata circa 30 minuti, il monarca ha incontrato il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, accompagnato dall’Arcivescovo Dominique Mamberti, Segretario per i Rapporti con gli Stati. Secondo quanto rivelato da una nota pubblicata successivamente dalla Sala Stampa della Santa Sede, “i colloqui si sono svolti in un clima di cordialità e hanno permesso di toccare temi che stanno a cuore agli interlocutori”.

“In particolare, si sono ribaditi l’impegno in favore del dialogo interculturale ed interreligioso, finalizzato alla pacifica e fruttuosa convivenza tra uomini e popoli, e il valore della collaborazione tra cristiani, musulmani ed ebrei per la promozione della pace, della giustizia e dei valori spirituali e morali, specialmente a sostegno della famiglia”.

“Nell’augurio di prosperità a tutti gli abitanti del Paese da parte delle Autorità vaticane, si è fatto menzione della presenza positiva e operosa dei cristiani”, prosegue il testo. “Non è mancato, infine, uno scambio di idee sul Medio Oriente e sulla necessità di trovare una giusta soluzione ai conflitti che travagliano la regione, in particolare quello israeliano-palestinese”, conclude la nota. L’Arabia Saudita e la Santa Sede non hanno relazioni diplomatiche.  Il monarca saudita conosceva già il Vaticano, perché era stato ricevuto da Giovanni Paolo II il 25 maggio 1999, quando era principe ereditario del re Fahd. Abdallah bin Abdulaziz Al Saud era accompagnato dal Ministro degli Esteri, il principe Saud Al Faisal, che era già stato ricevuto dal Papa il 6 settembre scorso. La visita del monarca si è svolta nel contesto di un viaggio diplomatico in Italia, Gran Bretagna, Germania e Turchia. Il quotidiano della Santa Sede, “L’Osservatore Romano”, pubblica sulla prima pagina della sua edizione in italiano del 5-6 novembre un articolo sulla visita intitolato “La necessità di un confronto sincero in un mondo dai confini sempre più aperti”.

Infine, il quotidiano ha riportato le parole pronunciate dal Cardinale Jean-louis Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, che circa le relazioni tra cristiani e musulmani ha detto: “La cosa importante è conoscersi, conoscersi, conoscersi. Ognuno di noi ha sempre qualcosa da imparare dall'altro”. (Zenit, 6 novembre 2007)

 

 


 

L’Arcivescovo Comastri: la povertà vocazionale è un problema sociale

La povertà vocazionale nei giovani è un problema che colpisce tutta la società e non solo il mondo clericale: lo ha affermato monsignor Angelo Comastri, Arciprete della Patriarcale Basilica Vaticana.

Così ha detto il futuro Cardinale in occasione della presentazione presso la sede della “Radio Vaticana” del Dizionario Biblico della Vocazione, curato dal Centro Internazionale Vocazionale Rogate, che si compone di 160 Voci scritte da 70 biblisti (tra cui 8 donne) e costituisce un utile sussidio biblico-teologico in grado di fornire una visione unitaria e integrata dell'azione pastorale per le vocazioni.
Nel suo discorso l'Arcivescovo Comastri ha rivelato di aver studiato molto da vicino il fenomeno dei giovani che tiravano i sassi dai cavalcavia in Italia, fino a pochi anni fa, leggendo anche gli atti processuali.
A questo proposito ha detto che “la povertà vocazionale non è un problema che riguarda soltanto noi, non è un problema clericale. È un problema che sta prima, perché è in crisi la vocazione alla vita. È un problema di tutta la società perché giovani così sono un dramma, un pericolo, una mina per tutti”.

“Senza vocazione non si può vivere. Perché la vita decade, non ha più senso, non ha più valore. Quando si è vuoti di Dio non c'è niente che ti riempie”, ha continuato. Successivamente, l'Arcivescovo ha ricordato un suo incontro avvenuto nel 2001, a Loreto, quando al termine di una processione in piazza, scendendo dal sagrato per andare incontro agli ammalati, rimase colpito nel vedere una culla. Subito si accorse che lì dentro vi era una giovane donna affetta da osteogenesi imperfetta, di nome Maria Respigo, scomparsa in seguito all'età di 39 anni e che è stata ospite presso l'Istituto don Gnocchi a Pavia. La storia della sua vita è stata una storia di abbandoni: abbandonata dal padre appena si accorse della sua deformità, rifiutata dai fratelli e dalle sorelle, ha perso la madre a soli tre anni. Eppure, ha raccontato in quella occasione al presule, “a un certo punto ho capito che non sono stata abbandonata da Dio e che anch'io ho una vocazione”.

Sotto il cuscino conservava trentatre fogli con sopra scritto: “Maria Respigo, felice di vivere”.

Il presule ha quindi citato a memoria alcuni passaggi di quel diario in cui la Respigo scriveva: “Io esisto per gridare a tutti coloro che hanno la salute che non possono tenerla stretta in mano, perché la salute è un dono e se non lo ridoneranno ad altri esso marcirà nelle loro mani”. “Io esisto per gridare a tutti quelli che si annoiano che le ore trascorse nella noia mancano a qualcuno e se non le regaleranno a qualcuno, quelle ore non li renderanno felici ma marciranno nelle loro mani”. “Io esisto per gridare a tutti coloro che la notte vanno da una discoteca all’altra, che quelle notti mancano a qualcuno ed esse non li renderanno felici finché non le regaleranno a coloro a cui appartengono”. “Padre, ma non è bella la mia vocazione?”, gli chiese poi la donna. Quando morì venne deposta in una culletta del presepio: “Felice di vivere, perché aveva una vocazione”, ha concluso l'Arcivescovo. (Zenit, 6 novembre 2007)

 

 


 

Accade in India: cristiani e musulmani felicemente alleati

Uniti per abbattere le discriminazioni di casta. Ma anche per difendersi dalle aggressioni di induisti fanatici. In Arabia Saudita e negli emirati del Golfo vivono oggi numerosi cristiani, in numero crescente, arrivati soprattutto dalle Filippine e dall'India. Ai disagi della loro condizione di lavoratori immigrati si sommano altre pesanti limitazioni di libertà, di tipo religioso. Sono i moderni "dhimmi", i sudditi non musulmani di un paese dominato dall'islam, privati dei fondamentali diritti.
L'Arabia non è un caso isolato. È frequente che le minoranze cristiane nel mondo siano conculcate nella loro libertà. Nei paesi musulmani ciò è praticamente la norma.
Ma vi sono anche dei casi d'altro tipo. Vi sono dei paesi in cui i cristiani e i musulmani si trovano entrambi sottoposti a limitazioni della libertà. E da ciò sono indotti non a scontrarsi ma a collaborare.
Uno di questi paesi è, ad esempio, la Birmania. Lì i cristiani, secondo le statistiche ufficiali, sono il 6 per cento della popolazione e i musulmani il 4 per cento. In realtà gli uni e gli altri sono il doppio, appartenenti per lo più a etnie minoritarie. La repressione del regime si abbatte su di essi più duramente che sui buddisti, che costituiscono la larga maggioranza della popolazione. Cristiani e musulmani si ritrovano quindi uniti nel sostenere, in questi mesi, la rivolta pacifica dei monaci buddisti contro i militari comunisti al potere.
L'esempio più eclatante di collaborazione tra cristiani e musulmani è però dato dall'India.

La società indiana è tuttora dominata da una gerarchia di caste, che penalizza coloro che sono ai gradini bassi della scala, i dalit o "intoccabili". La costituzione la vieta, ma nei fatti la discriminazione permane.
Le caste fanno parte della tradizione induista, la religione dominante dell'India. Chi non appartiene a questa religione non ricade, quindi, sotto il sistema castale.
Questo però vale solo in linea di principio. Il peso della tradizione è tale che anche dentro le comunità cristiane e musulmane dell'India la divisione in caste rimane in varia misura operante. Il cristianesimo è presente in India dall'età apostolica – l'apostolo Tommaso è lì venerato come il primo evangelizzatore – ma bisogna arrivare alla fine del XX secolo per trovare i primi vescovi dalit. Le Chiese indiane di ceppo più antico, quelle di rito siriaco della costa sudoccidentale, sono quasi esclusivamente composte da bramini e appartenenti alle altre caste superiori. Per ridurre la discriminazione di casta, fin dagli anni Cinquanta si è stabilito per legge di riservare ai dalit una parte dei posti di lavoro e delle ammissioni alle università. Tra gli impieghi federali la quota riservata è del 15 per cento. Se però dei dalit si convertono al cristianesimo o all'islam – e quindi in linea di principio fuoriescono dal sistema castale – essi perdono anche la protezione dei posti di lavoro ad essi riservati per legge. Si ritrovano più discriminati di prima. La conseguenza è che un buon numero dei dalit che abbracciano il cristianesimo o l'islam tengono celata la loro nuova appartenenza religiosa. Alle messe cattoliche o alle celebrazioni protestanti è facile vedere più donne e bambini che uomini. Questi continuano a mostrarsi in pubblico come induisti, per non perdere il posto di lavoro. Dei 24 milioni di cristiani dell'India, cattolici e non, si calcola che i dalit siano circa 10 milioni. Ma a questi andrebbero aggiunti i convertiti nascosti, stimati anch'essi nell'ordine di milioni.
Rispetto al miliardo e 100 milioni dell'intera popolazione dell'India i cristiani sono poca cosa. Ma la loro forza di pressione si moltiplica se congiunta a quella dei musulmani, molto più numerosi, attorno ai 150 milioni. Ed è quello che sta accadendo. Cristiani e musulmani premono assieme da anni perché il governo assicuri uguali protezioni di legge a tutti i dalit, a qualsiasi religione appartengano. Tra il 1996 e il 2004, quando il principale partito di governo era il Bharatiya Janata Party, difensore dell'induismo come religione nazionale, le pressioni di cristiani e musulmani non ottennero alcun risultato. Ma da quando al governo è tornato il più laico Partito del Congresso, le chance di successo sono aumentate. Al punto che il BJP s'è sentito in obbligo di prendere delle contromisure. Il 5 novembre ha indetto una grande marcia induista su New Delhi contro la parità dei diritti a cristiani e musulmani. La collaborazione tra cristiani e musulmani non si limita alle pressioni politiche. In alcune località abitate da dalit, i leader delle due religioni organizzano assieme dei pasti festivi nei quali tutti si servono dal medesimo piatto gigante di riso e verdura. Lo scopo è di far cadere le barriere tra gli "intoccabili" e le caste superiori. Cristiani e musulmani si sono aiutati, in questi ultimi anni, anche per difendersi da altri atti, più gravi, di persecuzione. Nel 2002, quando nello stato del Gujarat gruppi induisti estremisti scatenarono dei pogrom contro i musulmani, i cristiani soccorsero e ospitarono i musulmani in fuga. E anche per i cristiani è così. In India subiscono aggressioni, violenze, uccisioni per mano non di musulmani – come purtroppo avviene in altri paesi del mondo – ma di induisti fanatici.

In occasione della festa induista del Diwali, che quest'anno cade il 9 novembre, il pontificio consiglio per il dialogo interreligioso ha indirizzato agli induisti un messaggio, firmato dal suo presidente, il cardinale Jean-Louis Tauran. In esso si legge: "La credenza religiosa e la libertà vanno sempre di pari passo. Non ci può essere costrizione nella religione: nessuno può essere forzato a credere, né chiunque voglia credere può esserne impedito. Permettetemi di ripetere ancora l’insegnamento del Concilio Vaticano II, che è molto chiaro su questo punto: “Un elemento fondamentale della dottrina cattolica è che gli esseri umani sono tenuti a rispondere a Dio credendo volontariamente; nessuno, quindi, può essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà” (Dichiarazione sulla libertà religiosa, Dignitatis Humanae, n. 10). La Chiesa cattolica, come ha recentemente ricordato il papa Benedetto XVI agli ambasciatori dell’India e di altri paesi accreditati presso la Santa Sede, è stata fedele a questo insegnamento: “La pace si fonda sul rispetto per la libertà religiosa, che è un aspetto fondamentale e primordiale della libertà di coscienza degli individui e della libertà dei popoli”. (Sandro Magister, www.chiesa, 7 novembre 2007)

 

 

 

 


 

4 novembre 2007

 

Biffi: il Cardinale dalla lunga memoria.

E il cardinale in conclave citò il fumetto di Mafalda. Esce in questi giorni in libreria l’autobiografia del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, intitolata «Memorie e divagazioni di un italiano cardinale» (Cantagalli, pagg. 636, euro 23,90), un volume che si legge tutto d’un fiato e rappresenta un eccezionale spaccato della vita della società italiana e della Chiesa degli ultimi settant’anni. Tanti gli aneddoti e i retroscena raccontati da questo «italiano cardinale» che non ha mai nascosto il suo pensiero dietro fumosi giri di parole o stile «ecclesialese» e ha sempre detto pane al pane e vino al vino senza temere di apparire controcorrente o politicamente scorretto.
Uno degli episodi più curiosi del libro riguarda l’ultimo conclave, dell’aprile 2005, dal quale è uscito Papa (par di capire anche grazie al contributo di Biffi) il cardinale Ratzinger. In uno degli incontri che quotidianamente i porporati tenevano prima di rinchiudersi a votare, il 15 aprile, Biffi intervenne dicendo: «Vorrei esprimere al futuro Papa (che mi sta ascoltando) tutta la mia solidarietà, la mia simpatia, la mia comprensione, e anche un po’ della mia fraterna compassione. Ma vorrei suggerirgli anche di non preoccuparsi troppo di quello che qui ha sentito e non si spaventi troppo. Il Signore Gesù non gli chiederà di risolvere tutti i problemi del mondo. Gli chiederà di volergli bene con un amore straordinario... In una “striscia” e “fumetto” che ci veniva dall’Argentina, quella di Mafalda - continua Biffi - ho trovato diversi anni fa una frase che in questi giorni mi è venuta spesso alla mente: “Ho capito - diceva quella terribile e acuta ragazzina - il mondo è pieno di problemologi, ma scarseggiano i soluzionologi”».
Dirette e per nulla paludate sono anche le critiche che il cardinale rivolge al Concilio Vaticano II e a Giovanni XXIII. Al primo, Biffi rimprovera il silenzio sul comunismo. «Comunismo: il Concilio non ne parla. Se si percorre con attenzione l’accurato indice sistematico, fa impressione imbattersi in questo categorico asserto. Il comunismo è stato senza dubbio il fenomeno storico più imponente, più duraturo, più straripante del secolo ventesimo; e il Concilio, che pure aveva proposto una Costituzione sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, non ne parla. Il comunismo - continua il cardinale - a partire dal suo trionfo in Russia nel 1917, in mezzo secolo era già riuscito a provocare molte decine di milioni di morti, vittime del terrore di massa e della repressione più disumana; e il Concilio non ne parla. Il comunismo (ed era la prima volta nella storia delle insipienze umane) aveva praticamente imposto alle popolazioni assoggettate l’ateismo, come una specie di filosofia ufficiale e di paradossale “religione di stato”; e il Concilio, che pur si diffondeva sul caso degli atei, non ne parla. Negli stessi anni in cui si svolgeva l’assise ecumenica, le prigioni comuniste erano ancora luoghi di indicibili sofferenze e di umiliazioni inflitte a numerosi “testimoni della fede” (vescovi, presbiteri, laici convinti credenti in Cristo); e il Concilio non ne parla». «Altro che i supposti silenzi nei confronti delle criminose aberrazioni del nazismo - conclude - che persino alcuni cattolici (anche tra quelli attivi al Concilio) hanno poi rimproverato a Pio XII!».
Di Papa Giovanni, invece, Biffi critica alcune espressioni divenute poi il Leitmotiv del pontificato. Quella contro i «profeti di sventura». E in proposito il cardinale ricorda che in realtà a proclamare «l’imminenza di ore tranquille e rasserenate, nella Bibbia sono piuttosto i falsi profeti». Quanto alla necessità di guardare più a ciò che unisce invece che a ciò che divide, Biffi lo definisce un principio assennato per quanto concerne i problemi della quotidianità «ma guai se ce ne lasciamo ispirare nella testimonianza evangelica di fronte al mondo» perché «in virtù di questo principio, Cristo potrebbe diventare la prima e più illustre vittima del dialogo con le religioni non cristiane».
Non manca pure un accenno al dissenso che il cardinale ebbe con Giovanni Paolo II in merito al «mea culpa» per gli errori del passato promosso in occasione del Giubileo: «A mio avviso avrebbe scandalizzato i “piccoli”». «Il Papa - continua Biffi - testualmente allora disse: “Sì, questo è vero. Bisognerà pensarci su”. Purtroppo non ci ha pensato abbastanza».
Colpiscono infine nel libro anche le cose non dette: l’autore dedica pochissime righe al cardinale Carlo Maria Martini, del quale fu ausiliare per più anni, limitandosi a dire che con la fine dell’episcopato del suo predecessore, il cardinale Colombo, era finita «un’epoca tra le più luminose e feconde della nostra vicenda ecclesiale (milanese, ndr) per il calore e la certezza della fede».
(Andrea Tornelli, Il Giornale n. 253 del 26 ottobre 2007)

 

 


 

Il carisma del Papa, le paure del Corriere

Sulla prima pagina del Corriere della Sera di venerdì 26 ottobre 2007, Sergio Romano si chiede nell'editoriale ("Il carisma e le paure") il motivo della crescente popolarità di Benedetto XVI, tanto più evidente quando si consideri che è “molto meno esuberante e carismatico del suo predecessore”. Romano intanto inserisce il caso Benedetto XVI all’interno di un revival religioso mondiale, in cui trovano posto i monaci buddhisti della Birmania, la religiosità islamica, i funerali religiosi di Eltsin, la pressione politica degli evangelici americani. Quindi spiega che l’uomo moderno è attraversato da una serie di paure (economica per via della precarietà, ambientale per via delle catastrofi climatiche, etica per via delle nuove leggi morali e scoperte scientifiche sull’uomo) e le religioni danno a questo una risposta chiara e netta, senza dubbi. Benedetto XVI, uomo di dottrina, “cattedra di princìpi irrinunciabili e di solenni silenzi”, sarebbe quindi “l’uomo del momento”, un dispensatore di certezze per l’uomo smarrito e confuso. La conclusione di Romano è una lezione da imparare per il “suo” mondo, una sorta di chiamata alle armi: “E’ necessario che i laici, se vogliono difendere i loro valori, si preparino a farlo con altrettanto zelo e altrettanto rigore”.

Con Romano su una cosa possiamo concordare: l’uomo moderno, occidentale, è confuso e smarrito. Ma lo è proprio perché i laici – ma sarebbe meglio dire laicisti – hanno difeso i loro (dis)valori così bene da averli imposti a tutta la società occidentale. Tanto per citare le cose elencate da Romano: fecondazione artificiale, eutanasia, unioni di fatto e legami omosessuali, catastrofismo ambientalista. Il problema dei laici non sta dunque nel non saper difendere i propri valori, ma è proprio nei valori che propugnano. Quando si sceglie il relativismo come valore fondamentale, l’esito è inevitabilmente il nichilismo, il dubbio, lo scetticismo. E quindi confusione, tensione, violenza, distruzione.
Il Papa trova un crescente interesse tra la gente perché ha lanciato la grande sfida della ragione, nella consapevolezza che l’apertura della ragione porta a riconoscere la presenza del Mistero. La Chiesa non propone comode certezze per uomini impauriti, propone invece un viaggio affascinante in mare aperto per uomini coraggiosi, capaci di prendere sul serio la propria naturale, insopprimibile esigenza di pienezza e felicità. In questo sì che Benedetto XVI è l’uomo del momento: perché ha capito con chiarezza che il problema dell’uomo è nell’uso della ragione. E la sfida è stata lanciata sia all’Occidente nichilista sia a chi fa della religione un pretesto per annientare gli uomini, a cominciare dal fondamentalismo islamico.

Romano sbaglia quindi quando fa una minestra di tutte le religioni, parlando di revival globale. Confonde ciò che i telegiornali ci mostrano con la realtà mondiale. Non esiste un revival religioso globale di questi ultimi tempi: se guardiamo all’Europa, la situazione delle Chiese protestanti (quelle tanto acclamate dai nostri laici), quanto a frequenza e intensità è sconfortante; i funerali religiosi di Eltsin sono più un segnale politico che religioso (il comunismo ha per decenni impedito l’espressione pubblica della religione); l’influenza dei monaci birmani non è affatto in crescita, c’è sempre stata (e non solo in Birmania), solo che adesso se ne sono accorti i nostri tg (ma noi possiamo ricordare la Polonia di Solidarnosc e le Filippine della Rivoluzione del Rosario); i musulmani che in Europa rispettano il Ramadan ci sono sempre stati ed è discutibile che siano in crescita (la frequenza religiosa degli islamici in Europa è stimata attorno al 5%), solo che adesso fanno notizia.
Oltretutto mettere in relazione le proteste birmane con le paure tipiche della nostra società (precariato, ambientalismo) evidentemente non ha senso. E’ solo un modo per evitare la sfida che Benedetto XVI ha lanciato a ogni uomo, offrendo ai lettori – queste sì – comode certezze, come a dire: non preoccupatevi, è solo una moda, una debolezza di chi ha paura.

La vera paura è invece quella di Romano e di chi, come lui, evita di confrontarsi con la realtà, coprendola con un velo di illusioni. (Il Timone, 26-10-2007 )

 

 


 

Il giovane Ratzinger, "progressista" conciliante

Un onore delle armi ai pochi teologi che seppero resistere –miti e al contempo coriacei– allo Zeitgeist, lo spirito dei tempi sessantottini e che permisero così alla Tradizione cattolica di non perdere la continuità bimillenaria e di assestarsi su un nuovo equilibrio. È questa gratitudine che spiega l’intervista concessa da Benedetto XVI, e pubblicata ieri su questo giornale, perchè fosse usata come prefazione a “Il mondo della fede cattolica”, edizioni Vita e Pensiero, di Leo Scheffczyk, morto due anni fa e divenuto nei suoi ultimi anni cardinale, nominato da Giovanni Paolo II ma indicato dall’allora Prefetto dell’ex-Sant’Uffizio. Joseph Ratzinger ribadisce di dovere molto a questo prestigioso professore di teologia, che accolse con favore la svolta conciliare ma che – a differenza della maggioranza dei colleghi – seppe conservare il sensus fidei cattolico e non si lasciò travolgere negli “anni della follia“. Gli anni della eccitazione clericale durante e dopo il Vaticano II, voluto da papa Roncalli come aggiornamento pastorale della dottrina di sempre e trasformato – con suo amara sorpresa – in una sorta di “Stati generali“, nella Costituente di una utopica nuova Chiesa, strappata da un  passato condannato come una teoria di errori e di vergogne. Agli inizi, almeno, di quella svolta “rivoluzionaria“ contribuì anche il trentacinquenne, ma già cattedratico, professor Ratzinger che, perito teologico di Josef Frings, cardinale arcivescovo di Colonia, fu tra gli estensori dello storico documento con il quale l’assemblea respinse l’impostazione che Giovanni XXIII e il cardinal Ottaviani intendevano dare al Concilio.

Coloro che hanno creato l’improbabile santino di un Roncalli “progressista“ non ci informano che questi, in realtà, fu duramente osteggiato proprio dallo schieramento cosiddetto “progressista“ dei Padri e dei loro teologi. In lui si denunciava il garante supremo della cosiddetta “arcaica teologia romana“. In questo schieramento, il giovane Ratzinger brillava per intelligenza e cultura, accanto ai Kueng, agli Schillebeeckx , ai più anziani Chenu, Congar, Rahner e agli altri che, nel 1965, crearono a Nimega una “Fondazione Concilium“ che pubblicava, e pubblica, l’omonima rivista che legge il Vaticano II non come continuità ma come rottura, come “nuovo inizio“.

Fu proprio la consapevolezza che si voleva questa frattura che determinò il distacco di Ratzinger dal gruppo degli scalpitanti colleghi. Quando, nell’agosto del 1984, lavoravamo a Bressanone a un Rapporto sulla fede, approfittai della sua affabilità e trasparenza per ricordargli quella militanza con coloro che sarebbero divenuti avversari beffardi e implacabili proprio dell’ex-Sant’Uffizio che da tre anni dirigeva. La sua risposta fu netta: «Non sono cambiato io, sono cambiati loro». Aggiungendo : «Sin dalle prime riunioni di Concilium posi due cippi di frontiera. Primo: nessun settarismo o arroganza, come se noi, teologi aperti al nuovo, fossimo la vera Chiesa, una sorta di magistero alternativo. Secondo: confrontarsi con i documenti autentici del Vaticano II, non con quelli immaginari di un Vaticano III, con la lettera dei testi e non solo con un fantomatico “spirito del Concilio“. I confratelli, allora, accettarono questi limiti, ma in seguito presero altre strade. Da qui il mio distacco». Distacco che lo portò tra l’altro a lasciare la Tubinga dello star-system dei professori vezzeggiati dai media per la più tranquilla Ratisbona.

Gianni Valente, un giornalista specializzato, pubblicherà a breve un libro sul Ratzinger di quegli anni. L’indagine chiarisce una frase come quella che sta nella intervista-prefazione apposta da Benedetto XVI al libro postumo del cardinal Scheffczyk : «Io stesso ero, in quel contesto, quasi troppo timoroso rispetto a quanto avrei dovuto osare per andare, in modo diretto, “al punto“». Il “punto“ cioè, della contestazione radicale, spesso astiosa, al Magistero e alla Tradizione della Chiesa. Se il professore divenuto papa si accodava, con sollievo e gratitudine, a quel “rompighiaccio“ (parole sue) del collega Scheffczyk e non osava aprire lui stesso la contesa, era a causa di un temperamento mite, portato a conciliare più che a dividere, a una timidezza innata, al desiderio di non turbare con discussioni accese e magari risse la tranquillità degli studi. E’ questo che spiega anche la firma, assieme a quella di tutti colleghi della facoltà di teologia di Tubinga, a un documento in cui si chiedeva –nientemeno!– che l’episcopato, compreso quello del vescovo di Roma , dunque del pontefice stesso, fosse a tempo: otto anni e poi dimissioni, avanti un altro. Ai suoi allievi più fedeli, sorpresi, il professor Ratzinger spiegò di essersi rassegnato alla firma per evitare altre contrapposizioni: ma a quei giovani commissionò, e fece poi pubblicare, un articolo che contestava la tesi che egli stesso aveva sottoscritto.

In realtà è indubbia la continuità di fondo del pensiero di questo bavarese giunto -con sua sincera sorpresa- al vertice romano e che ha sempre praticato e insegnato non l’aut-aut del rivoluzionario (o dell’eretico), ma l’et-et del cattolico, che sa che l’accettazione del nuovo non significa il rinnegamento dell’antico, che è consapevole che l’albero ecclesiale non può essere strappato dalle radici. Indubbia, anche, la sua fedeltà al Concilio, ma a quello autentico, non a quello inventato. Nella patristica, che ben conosce ed ama, sembra prendere con convinzione la celebre definizione: Ecclesia ante et retro oculata est, la Chiesa guarda avanti e al contempo non dimentica né rinnega nulla di ciò che ha alle spalle. (Vittorio Messori © Corriere della Sera, 22 ottobre 2007)

 

 


 

Un neonato gay…

Da che mondo è mondo, cioè dai tempi di Adamo ed Eva, i sessi sono due: maschio e femmina. Fin troppo ovvio, direte voi, questo lo sanno anche gli atei. Eppure, c'è chi vorrebbe radicare nella testa di tutti noi una nuova interpretazione della realtà, che nega questo presupposto fondamentale della natura. La parola tanto cara alle associazioni omosessuali, nata apposta per confondere le idee, è "gender", termine che difficilmente si traduce in italiano con la parola "genere".
Gender è qualcos'altro, è la negazione stessa della natura. Da dato naturale, la differenza sessuale diventa concetto, categoria di pensiero. Non una cosa di cui prendere atto, ma su cui riflettere e discutere. E, nel caso, modificarla arbitrariamente. Se il sesso indica la differenza biologica (cromosomica, genetica, genitale), dunque immutabile nello spazio e costante nel tempo, il gender indica un insieme di caratteristiche, comportamenti, valori astratti rispetto al sesso. La conseguenza più cupa e pericolosa è che la differenza tra maschio e femmina non conta più nulla, anzi: non esiste proprio! Al contrario, esiste il corpo androgino asessuato, simbolo di onnipotenza, libertà sessuale, lontananza da Dio, autodeterminazione individuale senza restrizioni e limiti. Insomma, nascono veri e propri cyborg, pronti a essere tutto e il contrario di tutto. Tanto, c'è la scienza (che a volte sfocia in fantascienza) a cambiare gli organi che non ci piacciono, a toglierne alcuni di troppo per metterne altri di più graditi. Di più, proprio in base a queste premesse assurde si giustificherebbe la nascita di qualsiasi sessualità a seconda dell'appetito o dell'istinto sessuale da soddisfare a tutti i costi. Sulle orme di questa ideologia perversa si sta muovendo la Regione Toscana, con un manifesto che dovrebbe evitare le discriminazioni sessuali, mentre invece non è altro che un raccapricciante esempio di furore ideologico antisessuale: si vede un bambino, con il volto sfocato (almeno quello), che al polso ha il solito braccialetto di riconoscimento usato in ogni ospedale. Sopra, però, non c'è scritto il nome di battesimo, ma la parola "homosexual". Come dire: omosessuali si nasce, non si diventa, perché è una caratteristica innata.
Le strumentalizzazioni sui neonati per promuovere le pulsioni omosessuali più becere sono già inaccettabili per conto loro, ma lo sono ancor di più quando a questa vergogna concorrono le istituzioni pubbliche e un ministero compiacente come quello delle Pari opportunità, che patrocina simili campagne-choc e sperpera il denaro pubblico assecondando il gioco delle "solite" lobby. Dov'è finito il rispetto per i bambini?
Ben lungi - sia chiaro - dal voler sottintendere parallelismi o legami impropri tra violenze sui bambini e omosessualità, abbiamo ancora negli occhi il corpicino martoriato della neonata di Napoli morta per le sevizie subìte. Non possiamo tollerare che campagne istituzionali possano usare l'immagine di bambini che, a quell'età, dovrebbero solo stare tra le braccia della mamma e iniziare serenamente il proprio percorso di vita con la sessualità che la natura ha donato loro. Chi invece vorrebbe un pansessualismo senza limiti o un Paradiso terrestre abitato da "Adama ed Evo", si rassegni. (Luca Volontà, Libero, 24 ottobre 2007)

 

 


 

L’Islam ha conquistato anche i libri di scuola

Proponiamo una notizia ad Al-Jazeera. Mondadori, la più grande casa editrice italiana, nel suo settore scolastico dev’essere stata conquistata con una splendida azione di cavalleria araba da qualche emiro, ma forse c’erano anche dei cammelli. I libri di storia per i ragazzini si chiamano “Scambi tra civiltà”, autrice Vittoria Calvani. La quale scrive bene ed ha un’idea chiara di questi ultimi millenni: la parte del leone buono e generoso la fanno i musulmani. Maometto è l’eroe pieno di virtù.
E Gesù? Gesù ha il suo bel posto nel Corano, e si accontenti: è stato generosamente adottato dall’Islam insieme agli altri profeti biblici.
La proliferazione militare dell’Islam è «prodigiosa» e ha una motivazione: il fascino umano dei conquistatori. I non credenti (così sono qualificati cristiani ed ebrei) sotto il regime degli imam e dei sultani non hanno di che lamentarsi. Basta che paghino una tassa in più e la fanno franca, i fortunelli. Certo, ci sono dei problemi: l’islam ammette la schiavitù, ma chi non ha qualche difetto? E via così. Il cristianesimo? Niente. Un fenomeno in fondo minore.
Più da vicino. La reclame è: «libri per la scuola che si rinnova». Prima media, volume uno. Qualche dato banalmente numerico. La trattazione dell’Impero Romano e da pagina 62 fino a 85. Totale 23 pagine. Quelle dedicate all’Impero Islamico e alla “Civiltà araba” vanno da pagina 160 a pagina 197. Totale 37 pagine. Radici islamiche battono radici latine. Nessun capitolo intitolato alla “Civiltà cristiana” o al “Cristianesimo” o a “Gesù Cristo”.

Il capitolo di Gesù è su internet
Al di là della quantità. anche il giudizio pende da quella parte. Nei capitoli intitolati «Islam» e «Maometto» i paragrafi trascritti nell’indice sono di sperticata ammirazione. Ne citiamo alcuni, caratterizzati da leccapiedismo linguistico: «La religione accoglie i profeti della Bibbia e Gesù» (secondo me, stavano bene anche a casa loro); «I dissidenti si riuniscono nella casa di Cadigia e di Maometto» (i dissidenti, parola magica, che evoca mitezza e inermità, quando Maometto era notoriamente un predone); «L’arcangelo Gabriele consegna a Maometto il Corano» (non male come fatto storico accertato, neanche Tariq Ramadan osa sostenerlo, ma ai nostri figli Mondadori la passa come notizia sicura); «Maometto predica le virtù delle origini ma e costretto all’egira (esilio) (anche qui, lo cacciano perché buono). Un titolo dedicato magari alla
strage degli ebrei? Figuriamoci.
Cristo non è considerato? Certo che in questo oggettivo libro di storia si parla del Nazareno. Ecco il capitolo apposito: «Il Corano su Gesù e il Jihad». Procediamo svelti. Un altro capitolo: «Quale fu il segreto della prodigiosa espansione islamica?». Uno pensa: l’abilità nell’agitare la scimitarra, l’ organizzazione guerresca. La risposta è questa, e la citiamo ancora: «Umanità nella conquista». Ci invadono, sgozzano: e sono umani, grazie. Meno male che Carlo Martello non la pensava in questa maniera e neanche Isabella di Castiglia. Altro capitolo: «I non credenti devono solo pagare una tassa». In quel «solo» c’è un mondo di tolleranza e di bontà. Cosa sarà mai. Altri titoli: «La scolarizzazione, base del successo dell’Islam». Beh, qui diamo ragione alla professoressa Calvani. Se tutti i libri sono di questo tipo, la scuola e una garanzia di vittoria (per le moschee).
E il cattolicesimo? Nel libro non c’è. Se uno vuole sapere qualcosa sul cristianesimo nella storia, bisogna accedere a internet, «se interessa» e «extra-testo». Mica male come discriminazione. Come dire: un optional. Il motore è islamico, se volete le tendine cattoliche fate domanda.

Premio Mecca per la Geografia
Il libro di geografia che merita il premio Mecca è invece edito da Nuova Italia, «L’iper libro del mondo». Autore Giulio Mezzetti. Non si scappa. Uno deve studiare l’islam sia in storia sia in geografia. Mentre nei volumi dedicati all’Italia e all’Europa il cristianesimo è ignorato, in quello dedicato ai «Popoli della terra», cioè al resto del mondo, si dedicano sezioni del volume all’islam e al buddismo. Te lo sei sorbito in prima media. Eccolo che ritorna in terza media. Tre capitoli qui sono per Maometto, vero eroe universale, di storia, geografia, religione, di tutto e di più. Uno dice: parlando dell’America, almeno di quella latina, si suggerirà qualcosa sul cattolicesimo o sui Pentecostali. Niente. Persino i compiti delle vacanze ti addentano il polpaccio per ricordarti chi comanda. Vedi “Melazzurra” di Nicola e Nicco, edizione Petrini. E’ un quaderno per l’estate, e ha questo capitolo: “Arabi, crociati e monaci. Comincia con questo paragrafo: «Lode a Maometto». Non abbiamo scelto queste perle in una produzione sconfinata. I volumi sono adottati tutti in un’unica sezione, normalissima, in Brianza. Si chiama signora Patrizia la ricercatrice che ha rinvenuto questa dispar-condicio pro-islamica. Lavora ed è madre di due bambine che vanno a scuola in provincia di Lecco. Invece di chiedere alle figlie solo che voto hanno preso, se hanno fatto gli esercizi di matematica e sono state brave, ha guardato i libri di testo e quello dei compiti delle vacanze. E si e accorta che siamo morti, non insegniamo più niente che sia un senso della vita, qualcosa di solido su cui piantare il futuro. Va bene così? Forse sì. Non si protesta nemmeno più. Patrizia mi dice che la Lega sembrava interessata, si è fatta inviare il materiale di questa resa. per un’interrogazione parlamentare ma, dice la signora, non è accaduto niente. È come se avessimo consumato le forze. Invece Patrizia si ribella. Grazie. (Renato Farina, Libero, 2 ottobre 2007)

 

 


 

Betori: "Che delusione le suore nel Pd"

«Ci troviamo di fronte a una campagna di mistificazione che vuole presentare come un privilegio le condizioni per l’esercizio della missione della Chiesa». Dopo settimane di attacchi sulle esenzioni fiscali e sui «privilegi», il segretario della Conferenza episcopale italiana, Giuseppe Betori, ribatte alle critiche. E con il Giornale parla del fenomeno Grillo, delle primarie del Pd, del ruolo dei cattolici in politica in un Paese, l’Italia, dove la grande maggioranza dei cittadini, afferma, «ha fiducia nella Chiesa».
D. Esiste un distacco sempre maggiore tra il Paese reale e la «casta» dei politici. La Chiesa avverte questo distacco?
R. «Direi che la parola “casta” non riesce a fotografare adeguatamente una realtà che è più complessa. Ma esiste certamente una reazione verso atteggiamenti “di casta” che la politica ha assunto. Il punto non è però la condanna dei privilegi, quanto piuttosto la percezione sempre più radicale di una lontananza della politica dai problemi reali dei cittadini. Quando la gente è provocata sui problemi veri, su temi sensibili, risponde. Lo abbiamo visto nel caso del referendum sulla fecondazione assistita e nel caso del Family day».
D. Come giudica l’affluenza alle primarie del Pd?
R. «Dimostra che non c’è solo disaffezione: quando la possibilità di partecipare è reale, le persone partecipano. Non vorrei però esaltare oltre misura l’affluenza alle primarie. Esiste ancora l’apparato dell’ex Pci, poi Pds e ora Ds e se i militanti sono chiamati, rispondono come un tempo. Questa capacità di mobilitazione fa parte della tradizione di una certa parte politica. Mi sarei stupito di un risultato diverso».
D. Cosa ne pensa delle suore che sono andate a votare per le primarie?
R. «Sinceramente, non mi ha fatto piacere. A noi dicono che facciamo ingerenza ogni qual volta interveniamo, poi si esalta la partecipazione di religiosi a una consultazione che riguarda la vita interna di un partito. Noi non partecipiamo alla vita dei partiti e interveniamo soltanto quando sono messi in gioco alcuni grandi valori umani. Quanto al Pd, non prendiamo alcuna posizione: sarà giudicato sulla base dei fatti».
D. Come favorire una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita pubblica?
R. «È un problema culturale, stanno venendo meno i valori condivisi, manca l’idea di un bene comune. Nei prossimi giorni parleremo proprio di questo, durante la Settimana sociale. Come Chiesa siamo in ritardo nel diffondere la dottrina sociale e nel preparare i credenti a questa partecipazione, ma questa è la via».
D. Come giudica il fenomeno Grillo?
R. «Rappresenta il segnale di un malessere. Non mi sembra che la soluzione al problema del distacco dei cittadini dalla politica passi per queste strade senza un riscontro opportuno di partecipazione nelle strutture della nostra società. Il fenomeno non va sottovalutato ma neanche cavalcato».
D. In queste ultime settimane siete stati oggetto di critiche forti per le esenzioni fiscali. La Chiesa in Italia è privilegiata?
R. «Credo che ci troviamo di fronte a una campagna di mistificazione che vuole presentare come un privilegio le condizioni per l’esercizio della missione della Chiesa come di altri soggetti che operano nel sociale. Non credo che si tratti di una campagna preordinata, ma confesso che questo mi preoccupa ancor di più, perché sarebbe più comodo individuare pochi responsabili. In fondo, la Chiesa fa una grande elemosina, un’attività caritativa strutturata. Punirla, come punire gli altri soggetti che intervengono nel sociale, significa punire la società stessa. Non penso si possa mettere una tassa sull’elemosina! Esiste una cultura egemone che non rispetta la presenza sociale della Chiesa, non la tollera, non la vuole».
D. È vero o no che sono esenti dall’Ici anche gli immobili della Chiesa destinati a fini commerciali?
R. «Se per fini commerciali si intende fini di lucro, nessuno stabile a fini di lucro è esente dall’Ici. Sono esentati gli immobili usati per finalità sociali, quelli della Chiesa come quelli di altri soggetti, come i sindacati e le associazioni. Non abbiamo timore di dire che tutto ciò che non soggiace all’Ici e ha fini di lucro deve soggiacerci e nei Comuni ci sono uffici competenti per fare queste verifiche. Altra cosa sono le Caritas, che possono ricevere finanziamenti da parte dei Comuni per le mense e sono obbligate a rilasciare fatture commerciali: non è un’attività lucrosa e non fa concorrenza ai ristoranti».
D. La Chiesa italiana riceve un miliardo di euro con l’otto per mille...
R. «Si dimentica che è la conseguenza del passato incameramento da parte dello Stato dei beni degli ordini religiosi. Lo Stato si era impegnato a mantenere il clero con la “congrua”. L’otto per mille è per così dire una de-statalizzazione: non è più lo Stato a dare questo sostegno, sono i cittadini che liberamente scelgono. E il 90 per cento degli italiani ha fiducia nella Chiesa e sceglie di destinarle l’otto per mille. A proposito del rapporto Chiesa e soldi, sa quanto risparmia lo Stato grazie al servizio offerto dalle scuole paritarie cattoliche? Sei miliardi di euro».
D. Qual è oggi il compito dei cattolici in politica?
R. «Oggi è uguale a quello di ieri, il Vangelo è lo stesso, la dottrina sociale è il patrimonio di riferimento. Sono diverse le condizioni. Non c’è più una casa unica dei cattolici in politica, che ha servito il Paese in maniera straordinaria, ma verso la quale ora è inutile provare nostalgia o immaginare di ricostruirla. I cattolici sono impegnati in schieramenti diversi ma devono essere uniti sui riferimenti comuni e sui valori. Oggi molti temi al centro del dibattito politico riguardano l’inizio e la fine della vita umana, e toccano direttamente la dimensione della fede. Forse oggi è più difficile essere politici cattolici, c’è una responsabilità maggiore in rapporto ai valori fondamentali».
D. Il cattolico in politica spesso rivendica la propria autonomia dalle gerarchie.
R. «L’autonomia non può essere intesa come mancanza di comunione con i pastori. Essere autonomi non significa rifiutarsi di ascoltare l’insegnamento della Chiesa, ma agire con la propria responsabilità senza coinvolgere direttamente la Chiesa nell’agone politico. Autonomia non significa interpretare in modo solitario i valori della fede».
D. L’Italia può ancora dirsi un Paese «cattolico»?
R. «Credo che sia ancora cattolico. Non condivido l’idea di chi sostiene che oggi i cattolici sono minoranza e devono ragionare da minoranza. Finché la gente si dice cattolica, chi sono io per affermare il contrario?».
D. Ammetterà però che poi molti non seguono le regole morali della Chiesa...
R. «C’è sempre stato, purtroppo, il problema della divaricazione tra l’appartenenza alla Chiesa e alcuni comportamenti morali. Non credo però che in altre epoche la situazione fosse tanto migliore. Oggi, diversamente dal passato, c’è una cultura egemone che ha perso ogni riferimento alla fede e alla tradizione cristiana».
D. Da parte della Chiesa non c’è troppa insistenza sui temi della vita della famiglia, mentre altri, come la giustizia sociale o lo stesso annuncio evangelico, rischiano di passare in secondo piano?
R. «Vita e famiglia sono oggi un’emergenza sociale. C’è uno sradicamento dei principi stessi che sono alla base della nostra convivenza. Dunque non si possono sempre trattare tutti i temi allo stesso modo. C’è però anche un altro problema: quando la Chiesa parla di Gesù, della missionarietà delle parrocchie, fa meno notizia. Purtroppo questo ha fatto passare anche all’interno del mondo cattolico l’idea che noi parliamo soltanto di vita e famiglia. Mentre la nostra priorità è il primato di Dio».
D. La preoccupa il fenomeno della denatalità nel nostro Paese?
R. «Per molti anni siamo stati gli unici a parlarne, insieme all’allora presidente Ciampi. Ora ci si comincia ad accorgere del problema, ma non vediamo segni di risposta concreti. Non si tratta di un problema solo economico, aspetto che pure non va sottovalutato. C’è anche una crisi della speranza. Purtroppo l’uomo contemporaneo non si ama e in base a una certa filosofia evoluzionistica si considera come l’ultima specie di un’evoluzione casuale, senza senso. Dunque anche la vita è senza senso. Questo è l’humus dentro cui nidifica l’incapacità di trasmettere la vita». (Andrea Tornielli, Il Giornale n. 245 del 17 ottobre 2007)

 

 


 

I filosofi senza idee smontano la verità

«La più grande malattia filosofica del nostro tempo è costituita dal relativismo intellettuale e dal relativismo morale, il secondo dei quali trova, almeno in parte, nel primo il proprio fondamento. Per relativismo o, se si preferisce, scetticismo - intendo, in sostanza, la teoria secondo la quale la scelta fra teorie concorrenti è arbitraria; ed è arbitraria perché non esiste alcunché che si possa considerare come verità obiettiva; ovvero, anche se esiste, non c'è alcuna teoria che si possa considerare come vera o comunque (anche se non vera) più vicina alla verità di un'altra; ovvero, se ci troviamo di fronte a due o più teorie, non abbiamo alcun modo o mezzo di decidere se una di esse è migliore dell'altra»: queste considerazioni si trovano nel secondo volume dell'opera "La società aperta e i suoi nemici", pubblicata da Karl Raimund Popper nel 1945, e fa indubbiamente una certa impressione che a definire il relativismo "la più grande malattia filosofica del nostro tempo" non sia Benedetto XVI, bensì un laicissimo filosofo passato alla storia non certo per la sua assidua partecipazione a tridui di preghiera e processioni. Sembra pertanto fuori luogo la critica, tanto aspra quanto scontata, rivolta da Tomás Ibañez alla «virulenza e la costanza con cui Giovanni Paolo II e il cardinal Ratzinger hanno demonizzato il relativismo». Ibañez scrive queste parole nel Prologo del suo recente volume "Il libero pensiero" (Elèuthera, pp. 224, euro 20), il cui sottotitolo, "Elogio del relativismo", non lascia adito a dubbi circa la tesi di fondo che viene in esso sostenuta: nelle prime pagine egli informa i lettori che è stato proprio l'insegnamento papale in materia di relativismo a fugare ogni suo dubbio sull'opportunità di scendere in campo per difendere a spada tratta quello che per Popper è soltanto un grave morbus philosophicus. Padronissimo, ovviamente, Ibañez di prendersela con il magistero dei romani pontefici, ma sembra opportuno ricordare che la confutazione del relativismo è antica quanto la storia della filosofia e ha visto schierarsi dalla sua parte la stragrande maggioranza dei pensatori occidentali; e questo sino ai nostri giorni, con i vari Quine, Apel, Putnam, Chomsky (!) pronti a dimostrare l'insostenibilità del relativismo. A onor del vero, va detto che gli studiosi tendono a distinguere una forma di relativismo forte da una debole, e intorno a tale distinzione costruiscono disquisizioni di non poco conto. Questa distinzione non sembra interessare troppo a Ibañez, tutto preso, come appare, dalla sua missione di apostolo del relativismo che sente di dover scendere in campo «tanto più quando si vede che i campioni laici della retorica della verità, egemoni di questi tempi, sono in consonanza con le autorità della Chiesa e partecipi della stessa crociata contro la tentazione di prestare orecchio al relativismo». Dunque, secondo il professore spagnolo, si sarebbe saldata una sorta di pericolosa alleanza filosofica fra trono (leggi: atei devoti) e altare, in chiave antirelativista e perciò antilibertaria.

Di parere completamente diverso è Roberto de Mattei , professore dell'Università di Cassino e dell'Università Europea di Roma, che ha da poco mandato in libreria il volume "La dittatura del relativismo" (Solfanelli, pp. 128, euro 9), nel quale, come è facile comprendere sin dal titolo, viene manifestato un timore del tutto opposto a quello di Ibañez. Infatti, de Mattei ritiene che, in nome di princìpi relativistici e libertari, si stia affermando una vera e propria tirannia culturale, quella dello scetticismo, che fa dell'assenza della verità la propria bandiera e che conduce verso quel nichilismo che a giudizio di molti rappresenta l'autentica malattia mortale della cultura contemporanea; una malattia che fra le sue più terribili complicazioni annovera il totalitarismo: de Mattei è bravo a far vedere come l'assenza di verità e la negazione dell'esistenza di principi e di valori immutabili rappresentino il terreno ideale per far attecchire l'ideologia del più forte. De Mattei sviluppa argomentazioni rigorosamente razionali, ma non nasconde la convinzione che soltanto un assoluto religioso possa guarire l'uomo dai suoi mali e fondare una società veramente libera: «L'opposizione alla dittatura del relativismo - si legge nel libro - ha il suo passaggio necessario nella riscoperta della legge naturale e divina che ha costituito il fondamento della civiltà cristiana (...) Le radici cristiane della società (...) non sono solo storiche, ma prima di tutto costitutive, come costitutiva è per l'anima umana la vita soprannaturale della Grazia». (Maurizio Schoepflin, Libero, 17 ottobre 2007)

 

 


 

«Chiara e Francesco» la fiction Rai che non convince

Dopo aver visto in tv Chiara e Francesco, ne siamo più che mai convinti: proponiamo una moratoria di almeno dieci anni per le fiction dedicate ai santi. Anche Francesco d’Assisi è caduto vittima di questa alchimia mediatica, che trasforma il sale del Vangelo in zucchero ecumenico, il fuoco della vocazione in brodino caldo filantropico.
Lo sceneggiato della Lux Vide era cominciato benino con un’onesta rievocazione della vita del Poverello di Assisi. Fintantoché agli sceneggiatori non è saltato in mente di dedicare un terzo del tempo a loro disposizione alle Crociate. E qui è accaduto il fattaccio. Francesco va in Egitto per parlare con il Sultano, e chi trova a dar scandalo? Un cardinale guerrafondaio, armato fino ai denti, che pare appena uscito dalla marcia su Roma. Tutto vestito di nero, mascella volitiva, sguardo magnetico da «querciolo di Romagna», al prelato manca solo il balcone di Palazzo Venezia. Naturalmente spiega a Francesco che a lui la pace non interessa nulla, vuole vincere punto e basta. Come dire, è sempre «l’ora delle decisioni irrevocabili». E Francesco, invece di fare il bravo balilla, obietta che i Saraceni «credono nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe».
Ora, nessun uomo del Medioevo avrebbe mai potuto proferire un concetto del genere, perché un cristiano del Duecento non avrebbe mai detto che «i musulmani credono nel nostro stesso Dio»: e, a rigor di logica, non dovrebbe dirlo neanche oggi. In ogni caso, quando il vero Francesco andò dal Sultano, nel 1219, gli disse parole ben diverse: «I cristiani giustamente attaccano voi e la terra che avete occupato, perché bestemmiate il nome di Cristo e allontanate dal suo culto quelli che potete».
Nella fiction della Rai, invece, quando il Sultano rimprovera il Poverello perché i cristiani hanno mosso guerra, lui non sa far di meglio che chiedergli scusa. Di più: si mette a trattare una spartizione della Terra Santa, neanche fosse il precursore della Comunità di Sant’Egidio.
Risultato: lo spettatore meno avvertito ne ricava che cristiani e musulmani avrebbero potuto vivere tranquillamente in pace, nel pieno rispetto della convenzione di Ginevra, se non fosse stato per quei cattivoni dei crociati.
In queste fiction dei giorni nostri, i protagonisti sono letteralmente sradicati dalla mentalità del loro tempo e ragionano come un uomo del Terzo millennio, imbevuto di politically correct. Nella fiction della Lux Vide, accanto ai «buoni» Francesco e Chiara si muovono schiere di vescovi e cardinali cattivissimi. In questo modo, la santità diventa davvero un miracolo inspiegabile, perché non si riesce a capire come una specie di associazione a delinquere quale appare la Chiesa del passato riesca poi a produrre figure di eccelsa moralità come un Francesco o una Chiara d’Assisi.
È la fiction, bellezza. Questi lavori, anche quando sono prodotti da cattolici come i fratelli Bernabei della Lux, non hanno nessuna intenzione di descrivere chi veramente fu un certo santo del passato. Preferiscono confezionare un fantoccio imbottito dei buoni sentimenti, della mentalità e dei luoghi comuni del tempo presente. Ma così facendo, non si fa un buon servizio ai credenti. Né tanto meno ai laici che vorrebbero sinceramente capire più da vicino che cos’è un santo: anche loro, l’altra sera, avrebbero probabilmente voluto incontra e Chiara d’Assisi. Ma quelli veri erano altrove. (Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Il Giornale, 20 ottobre 2007)

 

 


 

Dopo il fondo di «Repubblica»: Democrazia, soprattutto

Al direttore di Repubblica, collega che stimo, non è piaciuto l’intervento del segretario di Stato vaticano. «Finiamola», aveva esortato il cardinal Tarcisio Bertone. «Come si permette di darci ordini?» è stato il tono della replica di Ezio Mauro. Motivo del contendere, l’estenuante inchiesta intitolata "I soldi del vescovo", giunta ormai alla quarta puntata. Con toni - si può dire? - da inquisizione laica, Repubblica mette all’indice i soldi della Chiesa, tutti, in particolar modo quelli che i cittadini, liberamente, decidono di affidarle, a partire dall’otto per mille, perché adempia alla propria missione.
Ieri Mauro è intervenuto addirittura in prima pagina: «Forse la Santa Sede ritiene di poter bloccare il libero lavoro di un giornale a suo piacimento?». Non pretendiamo di interpretare noi quel «finiamola», che tutto è tranne un imperativo minaccioso, e che peraltro abbiamo la sensazione sia condiviso da milioni di italiani, a cominciare dagli insegnanti di religione tirati in ballo mercoledì. Repubblica sa bene, poiché si è ben documentata, che 85 insegnanti su cento sono laici, in gran parte donne, padri e madri di famiglia spesso con più titoli di studio, professionisti che lavorano seriamente; e nessuno costringe gli studenti a partecipare alle loro lezioni. Eppure Repubblica definisce i loro stipendi «un altro miliardo di obolo di Stato a san Pietro». Questo è il tono dell’inchiesta: inquisitorio e un tantino offensivo.
Il fondo di Mauro si intitola "Democrazia e religione". Siamo convinti che la questione riguardi soprattutto la democrazia. In nome della democrazia, Tarcisio Bertone può esprimere un libero parere su tutto quel che cade sotto gli occhi del pastore; parere autorevole, essendo egli segretario di Stato vaticano; ma nessun diktat. Con quali truppe, o voti, o altri strumenti coercitivi potrebbe egli "imporre" qualcosa? Ma in nome di quale democrazia, e libertà, e laicità qualcuno potrebbe invece imporgli il silenzio?
Mauro afferma poi che sarà «ben lieto di correggere» eventuali errori, ma nessuno avrebbe richiesto rettifiche. Questo è falso. Ad ogni puntata noi, nel nostro piccolo, abbiamo replicato, indicando - dove c’erano - errori ed omissioni. Siamo infatti convinti che la democrazia viva, oltre che di conoscenza, di dialogo, in nome del quale ci aspettavamo - come in altre occasioni era successo - che Repubblica raccogliesse almeno in parte le nostre obiezioni, partecipandole ai suoi lettori. Invece niente. Nessun dialogo, solo un monologo, e abbastanza monocorde. L’elenco di errori, omissioni e verità parziali è lunghissimo, e tale resta purtroppo anche dopo l’intervento televisivo di Navarro Valls, ieri sera al Tg1. Ne ricordiamo qui solo uno, forse il più clamoroso. Nella seconda puntata si affermava che la Chiesa tiene nascosti i rendiconti dell’otto per mille, come pure gli investimenti pubblicitari. Sembra una barzelletta, ma la Cei pubblica da sempre il rendiconto, addirittura acquistando le pagine di alcuni quotidiani, tra cui proprio Repubblica. Il rendiconto è così poco segreto, caro Ezio, che lo pubblichi tu, e la tua azienda ci guadagna. Ma i tuoi lettori sono ancora oggi convinti del contrario, non avendo rettificato lo svarione. Gli investimenti pubblicitari, poi, si trovano nel sito www.8xmille.it, mai citato dall’inchiesta, e sono stati dichiarati in varie interviste.
Il direttore Mauro denuncia una stupefacente «servitù giornalistica dell’Italia verso la Santa Sede» e ammonisce: «La Chiesa non può sottrarsi». E quando mai la Chiesa si è sottratta? Se tuttavia mi pestano un dito, potrò almeno dire "ahi"? Circa poi la «servitù giornalistica», diciamo che pochi finora l’hanno rilevata. In particolare, dal referendum sulla fecondazione assistita in poi, davvero gli attacchi giornalistici non sono mai cessati.
Che dire? Continuate pure, colleghi. Noi continueremo a rispondervi, democraticamente, sperando che prima o poi la linea funzioni in entrambe le direzioni, nello spirito di quel dialogo, fondato sulla stima e sulla verità, che è uno dei pilastri della democrazia. Democrazia che ci sta a cuore, voi non sapete nemmeno quanto.

(Dino Boffo, Avvenire, 27 ottobre 2007)

 

 


 

Le radici del bullismo

Ciò che stupisce nei sempre più frequenti allarmi lanciati dai mass media e dalla cosiddetta società civile è proprio il loro candido stupore. Il quale è figlio diretto della peggiore malattia di questa epoca: l’incapacità di collegare tra loro causa ed effetto, fatti e conseguenze. Con un po’ di sarcasmo e tanta amarezza potremmo affermare che la famosa frase di Goya, utilizzata anni fa per un tema degli esami di maturità, è finalmente giunta a compimento: il sonno della ragione sta generando mostri. Prendiamo il caso delle violenze a scuola, e non solo lì: quello che ferisce, più ancora dei maltrattamenti o del bullismo, è l’assoluta mancanza di ordine morale e di rispetto. Come se tutto fosse lecito, tutto fosse inarrestabile.
Perché? Quale brutale cambiamento ha generato questi barbari, che popolano la nostra civiltà distruggendola dall’interno?
Alla radice c’è il disconoscimento, per ideologia, delle più semplici norme dell’antropologia; della comprensione cioè che l’uomo è costituito da quattro elementi di base: due di essi attengono alla sua parte materiale, sensibile, corporea, gli altri due alla sfera spirituale, non tanto nel senso di religiosa, quanto di non tangibile. Ed esiste un ordine che li dovrebbe governare. Già i filosofi antichi avevano parlato di tri- o tetra- partizione dell’anima, proprio partendo dall’analisi del comportamento umano. 

Dunque i ricettori materiali, potremmo dire usando un linguaggio moderno, le interfacce tra la realtà, che è concreta, e l’interiorità sono due: gli istinti e la sensibilità, termine questo complesso che cerca di descrivere il sentire interno della persona e che comprendere stati d’animo, sentimenti, emozioni, passioni. In due parole stiamo parlando di corpo e cuore. Tali fattori raccolgono le stimolazioni dal mondo esterno, le elaborano secondo la fisicità e le propongono alle facoltà superiori per essere giudicate ed indurre all’azione. Per definizione queste sensazioni sono forti e positive: per natura è così. Nominiamo alcuni istinti o alcune passioni/sentimenti: sono tutti vigorosi (istinto di sopravvivenza, di difesa, fame, freddo, rabbia, infatuazione, paura…) e servono a lanciare forti segnali all’intelletto e alla volontà perché svolgano il loro compito.
La mediazione di queste ultime funzioni è necessaria per giudicare con ragione e per agire: l’intelletto, formato dall’educazione e dall’esperienza, analizza e giudica per poi porgere l’oggetto del suo ragionamento alla volontà, la cui applicazione permette all’uomo di agire.
Così come l’intelletto deve essere plasmato con la conoscenza e la saggezza – la prima offre i dati grezzi, la seconda dà a loro profondità secondo verità – anche la volontà va allenata e forgiata: anche se ho una chiara percezione razionale della necessità di alzarmi ora per andare a lavorare o a scuola, la mia volontà può essere ancora addormentata ed non indurmi a farlo.
Dunque fino a quando la volontà non agisce, nulla accade. Ora che cosa intorpidisce la volontà? Sicuramente il non-uso, che finisce per atrofizzarla. Perché la volontà non si usa? Perché l’intelletto non la stimola o non trova sufficienti motivazioni per attivarla. Come può accadere tutto questo?
E se non è la volontà a indurmi ad agire che cosa mi muove? Ripensiamo a quanto detto: l’istinto e/o il sentimento mi colpiscono, ma non trovano né una mediazione razionale né l’azione della volontà, dato che sono sopite o annichilite. Dunque sono loro ad agire. Agisco per effetto e forza dell’istinto o dell’emotività. Come un animale, di fatto. Come un essere non-umano. Come chi è “incapace di intendere e di volere”, definizione legalistica che descrivere una persona che ha perso, momentaneamente o definitivamente, la capacità di essere responsabile dei propri atti.
Perché accade questo? Due le cause: innanzitutto la volontà di per sé sembra agire solo in senso negativo. Trattiene. Se l’istinto mi dice di continuare a mangiare la volontà di dice che due pizze possono essere sufficienti. Se mi sento di bere ancora, la volontà mi dice di smettere di buttare giù alcolici. Se avessi una gran voglia di prendere a sberle questo tipo, la volontà mi dice di controllarmi. Non è solo questo il compito della volontà, bene inteso, ma di sicuro rispetto alla fisicità della persona, la sua azione sembra andare in controtendenza, contropelo. L’altra ragione è che questo, secondo la mentalità corrente, significa essere condizionati. La libertà sarebbe azione pure irriflessa. Osserviamo come proprio i vocaboli utilizzati dai predicatori di questa libertà dimostrino che si tratta di una libertà irrazionale e disumana: secondo loro dovremmo essere spontanei, immediati, sensibili. Tre termini per negare la mediazione della ragione e favorire l’azione secondo ciò che sento e non ciò che ragiono e voglio. 
Che cosa ha a che fare tutto questo con il bullismo e la violenza? Tutto. Se la volontà non è allenata all’uso, se per definizione la si vuole sottomessa all’istinto, se per libertà si intende l’agire spontaneo, se infiniti messaggi stimolano proprio la sensibilità, come possiamo poi pretendere che resista un ambito in cui la volontà possa agire per calmierare la violenza? La società di oggi potrebbe essere definita pornografica: che cos’è infatti la pornografia? L’esaltazione della volgarità, specie di quella che ha a che fare con la sessualità, che se non è l’istinto più forte poco ci manca (vale la pena di dire che l’eccitazione, come ogni altro istinto, è in sé neutro. E’ l’uso che di ogni istinto si fa che determina se si è agito bene o si è agito male). La società è pornografica perché sembra costruita sull’esaltazione della sessualità: le pubblicità, l’abbigliamento, la musica, i giornali, i libri insomma tutto vive in uno stato di perenne eccitazione che produce fortissime stimolazioni ormonali. Non solo, ma a queste dosi massicce di istintualità si associa il messaggio, devastante, che tutto questo è bene, è buono, è bello. Quali le conseguenze? L’annichilimento della volontà dopo quello della ragione. La pornografia più perniciosa non è quella che gira su internet, ancorché la produzione di video amatoriali di ragazzine che si spogliano davanti alla webcam per mettersi in mostra sulla rete produca profonda amarezza, dato che questa – anche se in minima parte – mantiene l’etichetta di cosa turpe: quella più pericolosa è quella che gira per le città sotto forma di cartelloni pubblicitari, etichette di vestiti, pance scoperte, magliette aderenti e così via.
Ora, come si può realmente pensare che una persona, un adolescente, al quale è stato detto di fare ciò che vuole perché libero è bello, che viene di continuo pungolato a reagire positivamente alle proprie stimolazioni, che viene indotto a consumare sesso in svariate forme senza nessuna remora, si fermi davanti ad un professore che timidamente chiede silenzio? 
Marcello Veneziani fa saggiamente notare nel suo ultimo saggio Contro i barbari «Quando decade una civiltà? Quando le aspettative vengono trasferite nel privato, attengono esclusivamente all’individuo e al suo stare bene, a prescindere dal contesto». La nostra epoca sta implodendo in questo modo: esaltando il benessere personale privo di dimensione morale e rinunciando ad educare. La scuola e la famiglia non educano più: la prima si limita a fornire nozioni e ambienti di socializzazione, come se il gruppo potesse essere la soluzione a tutti i problemi. La seconda si sbriciola sotto i colpi dell’emotività e della soddisfazione personale. Della politica meglio non accennare neppure.
La violenza a scuola ha radici profonde, per combatterle non serve una Authority, bensì portarle alla luce per estirparle. Bisogna avere il coraggio di farlo. (Paolo Pugni © il Timone, n. 59/2007)
 

 

 


 

14 ottobre 2007

 

In Olanda inventano un'altra messa: una iniziativa dei domenicani

Nel ridare piena cittadinanza al rito antico della messa, con il motu proprio “Summorum Pontificum”, Benedetto XVI ha detto di voler reagire anche a quell'eccesso di "creatività" che nel rito nuovo "ha portato spesso a deformazioni della liturgia al limite del sopportabile".
Stando a quel che accade in alcune aree della Chiesa, questa creatività incide non solo sulla liturgia ma sugli stessi fondamenti della dottrina cattolica.
In Olanda, a Nimega, nella chiesa dei frati agostiniani, ogni domenica la messa è presieduta assieme da un protestante e da un cattolico, che a turno curano uno la liturgia della Parola e il sermone, l’altro la liturgia eucaristica. Il cattolico è quasi sempre un semplice laico, e spesso è una donna. Per la preghiera eucaristica, ai testi del messale si preferiscono i testi composti dall’ex gesuita Huub Oosterhuis. Il pane e il vino sono condivisi da tutti.
Nessun vescovo ha mai autorizzato questa forma di celebrazione. Ma padre Lambert van Gelder, uno degli agostiniani che la promuove, è sicuro d'essere nel giusto: "Nella Chiesa sono possibili diverse forme di partecipazione, noi siamo parte della comunità ecclesiale a tutti gli effetti. Non mi considero affatto scismatico".
Sempre in Olanda, i domenicani hanno fatto di più, con il consenso dei provinciali dell'ordine. Due settimane prima dell'entrata in vigore del motu proprio "Summorum Pontificum" hanno distribuito in tutte le 1300 parrocchie cattoliche un opuscolo di 38 pagine intitolato “Kerk en Ambt”, Chiesa e ministero, nel quale propongono di trasformare in regola generale ciò che in vari luoghi già si pratica spontaneamente.
La proposta dei padri domenicani è che, in mancanza di un prete, sia una persona scelta dalla comunità a presiedere la celebrazione della messa: “Non fa differenza che sia uomo o donna, omo o eterosessuale, sposato o celibe”. La persona prescelta e la comunità sono esortati a pronunciare insieme le parole dell'istituzione dell'eucaristia: “Pronunciare queste parole non è una prerogativa riservata al prete. Tali parole costituiscono la consapevole espressione di fede dell’intera comunità”.
L'opuscolo si apre con l'esplicita approvazione dei superiori della provincia olandese dell'ordine dei frati predicatori e dedica le prime pagine a una descrizione di ciò che accade di domenica nelle chiese d'Olanda.
Per la scarsità di preti, non in tutte le chiese si celebra la messa. Dal 2002 al 2004 il numero complessivo delle messe domenicali in Olanda è calato da 2200 a 1900. Viceversa, nello stesso periodo è aumentato da 550 a 630 il numero dei "servizi di Parola e comunione": cioè le liturgie sostitutive, senza il prete e quindi senza celebrazione sacramentale, nelle quali la comunione si fa con ostie consacrate in precedenza.
In alcune chiese la distinzione tra la messa e il rito sostitutivo è percepita con chiarezza dai fedeli. Ma in altre no, le due cose sono considerate di eguale valore, interscambiabili in tutto. Anzi, il fatto che sia un gruppo di fedeli a designare l'uomo o la donna che guida la liturgia sostitutiva consolida negli stessi fedeli l'idea che la loro scelta "dal basso" sia più importante dell'invio di un sacerdote da fuori e "dall'alto".
E lo stesso accade per la formulazione delle preghiere e per l'ordinamento del rito. Si preferisce dar libero campo alla creatività. Le parole della consacrazione, nella messa, sono spesso sostituite da "espressioni più facili da capire e più in sintonia con la moderna esperienza di fede". Nel rito sostitutivo, capita di frequente che alle ostie consacrate si aggiungano ostie non consacrate e si distribuiscano tutte assieme per la comunione.
In questi comportamenti i domenicani olandesi individuano tre aspettative diffuse:
– che siano scelti "dal basso" gli uomini e le donne ai quali affidare la presidenza della celebrazione eucaristica;
– che auspicabilmente "la scelta di queste persone sia seguita da una conferma, o benedizione, o ordinazione da parte dell'autorità della Chiesa";
– che le parole della consacrazione "siano pronunciate sia da coloro che presiedono l'eucaristia, sia dalla comunità di cui essi sono parte".
A giudizio dei domenicani olandesi, queste tre aspettative hanno pieno fondamento nel Concilio Vaticano II.
La mossa decisiva del Concilio, a loro giudizio, è stata quella di introdurre nella costituzione sulla Chiesa il capitolo sul "popolo di Dio" prima di quello su "l'organizzazione gerarchica costituita dall'alto al basso dal papa e dai vescovi".
Questo implica sostituire a una Chiesa "piramide" una Chiesa "corpo", con il laicato protagonista.
E questo implica anche una visione diversa dell'eucaristia.
L'idea che la messa sia un "sacrificio" – sostengono i domenicani olandesi – è anch'essa legata a un modello "verticale", gerarchico, nel quale solo il sacerdote può pronunciare validamente le parole della consacrazione. Un sacerdote maschio e celibe, come prescritto da "un'antiquata teoria della sessualità".
Dal modello della Chiesa "popolo di Dio" deriva invece una visione dell'eucaristia più libera e paritaria: come semplice "condivisione del pane e del vino tra fratelli e sorelle in mezzo a cui c'è Gesù", come "tavola aperta anche a gente di differenti tradizioni religiose".
L'opuscolo dei domenicani olandesi termina esortando le parrocchie a scegliere "dal basso" le persone alle quali far presiedere l'eucaristia. Se per motivi disciplinari il vescovo non confermasse tali persone – perché sposate, o perché donne – le parrocchie procedano ugualmente per la loro strada: "Sappiano che esse sono comunque abilitate a celebrare una reale e genuina eucaristia ogni volta che si riuniscono in preghiera e condividono il pane e il vino".
Gli autori dell'opuscolo sono i padri Harrie Salemans, parroco a Utrecht, Jan Nieuwenhuis, già direttore del centro ecumenico dei domenicani di Amsterdam, André Lascaris e Ad Willems, già professore di teologia all'università di Nimega.
Nella bibliografia da essi citata spicca un altro, più famoso teologo domenicano olandese, Edward Schillebeeckx, 93 anni, che negli anni Ottanta finì sotto l’esame della congregazione per la dottrina della fede per tesi vicine a quelle ora confluite nell’opuscolo.
La conferenza episcopale olandese si riserva di replicare ufficialmente. Ma ha già fatto sapere che la proposta dei domenicani appare “in conflitto con la dottrina della Chiesa cattolica”.
Da Roma, la curia generalizia dei frati predicatori ha reagito flebilmente. In un comunicato del 18 settembre – non pubblicato nel sito dell'ordine – ha definito l'opuscolo una "sorpresa" e ha preso le distanze dalla "soluzione" proposta. Ma ha detto di condividere "l'inquietudine" dei confratelli olandesi sulla scarsità di preti: "Può darsi che sentano che l'autorità della Chiesa non abbia trattato sufficientemente questa questione e, di conseguenza, spingano per un dialogo più aperto. [...] Crediamo che a questa inquietudine si debba rispondere con una riflessione teologica e pastorale prudente tra la Chiesa intera a l'ordine domenicano".
Dall'Olanda, i domenicani hanno annunciato una prossima ristampa dell'opuscolo, le cui prime 2500 copie sono andate presto esaurite. (Sandro Magister, www.chiesa, 3 ottobre 2007)

 

 

 


 

"La Civiltà Cattolica" ha un direttore in più. In Vaticano

Tra pochi giorni "L'Osservatore Romano" avrà un nuovo direttore. Ma anche a "La Civiltà Cattolica" c'è una novità. La novità è che la segreteria di stato vaticana, da quando suo titolare è il cardinale Tarcisio Bertone, ha ricominciato a occuparsi in modo molto diretto di ciò che si stampa su "La Civiltà Cattolica", dopo un periodo nel quale il controllo era stato solo di routine. "La Civiltà Cattolica" è infatti una rivista molto speciale, fin dalla sua fondazione nel 1850 per volontà di Pio IX.
È prodotta da un "collegio di scrittori", tutti gesuiti, che vivono a Roma in comunità. E ogni suo fascicolo, prima di essere stampato, passa per il controllo delle autorità vaticane, in ogni sua pagina.
Esce il primo e il terzo sabato di ogni mese. Quando le bozze di un nuovo fascicolo sono pronte, esse vengono recapitate in Vaticano in dodici copie: una per il papa, una per il segretario di stato e le altre per gli uffici di curia competenti nelle materie dei vari articoli.
Il lunedì che precede il primo e il terzo sabato del mese il direttore della "Civiltà Cattolica" si reca in segreteria di stato. E lì gli vengono dati tre gradi di indicazioni, relative alle bozze prese in esame.
Le indicazioni di grado A non si discutono. Sono ordini tassativi. Ad esempio: questo articolo va soppresso, a quest'altro va aggiunta questa conclusione, questo paragrafo va riformulato così. Le indicazioni di grado B sono discusse nel corso della stessa udienza, per concordare subito le modifiche. Le indicazioni di grado C sono lasciate al giudizio del direttore della rivista, che potrà anche decidere difformemente.
"La Civiltà Cattolica" non è quindi un organo ufficiale della Santa Sede. Ma ciò che essa pubblica si sa che "non è in contrasto con gli indirizzi della Santa Sede sui vari problemi". E questo basta per decretarne l'importanza e renderne obbligatoria la lettura, a chiunque voglia studiare gli orientamenti della Chiesa cattolica.
A metà del Novecento, durante il pontificato di Pio XII, il rapporto tra il papa e "La Civiltà Cattolica" era strettissimo. Pio XII rivedeva di persona le bozze degli articoli e dava lui stesso tutte le indicazioni al direttore dell'epoca, padre Giacomo Martegani. Con Giovanni XXIII, eletto papa nel 1958, le cose cambiarono. Nella prima udienza con l'allora direttore della "Civiltà Cattolica", padre Roberto Tucci – oggi cardinale –, il nuovo papa disse che non lui si sarebbe occupato della rivista, ma il segretario di stato, che all'epoca era il cardinale Domenico Tardini. E così avvenne. Da lì in avanti le udienze sulle bozze della rivista furono con Tardini e con i suoi immediati successori. Altro cambiamento con Paolo VI. Papa Giovanni Battista Montini leggeva di persona le bozze della rivista e faceva avere ai singoli autori i suoi apprezzamenti scritti. Ma la revisione degli articoli la lasciava al segretario di stato e in concreto ai suoi due principali collaboratori: i titolari degli affari interni e degli affari esteri della Chiesa, che per gran parte del pontificato furono Giovanni Benelli e Agostino Casaroli.
Nel 1974, ad esempio, un editoriale molto importante fu dapprima fatto riscrivere e poi bocciato. Si era, in Italia, alla vigilia di un referendum popolare pro o contro la legge sul divorzio, introdotta quattro anni prima. La linea ufficiale della Chiesa era per abrogare la legge. Ma nel mondo cattolico molti si battevano perché essa fosse mantenuta. A giudizio delle autorità vaticane quell'editoriale era troppo comprensivo con le ragioni dei cattolici dissidenti. All'epoca, il direttore della rivista era padre Bartolomeo Sorge.
Con papa Giovanni Paolo II e con Casaroli segretario di stato gli interlocutori del direttore della "Civiltà Cattolica" – nelle udienze di revisione delle bozze – continuarono a essere i titolari degli affari interni ed esteri della Chiesa, che dal 1979 al 1988 furono Eduardo Martínez Somalo e Achille Silvestrini.
Una volta, a padre Sorge capitò di ricevere dall'uno e dall'altro due indicazioni opposte a proposito dello stesso articolo. Silvestrini disse allora a Sorge: "Aspetti che andiamo di là a sentire cosa ci dice l'arcivescovo di Lima". Mentre aspettava, Sorge si chiedeva stupito perché mai interpellassero l'arcivescovo della capitale del Perù. Poco dopo i due tornarono da lui soddisfatti, con un testo che metteva tutti d'accordo. L'arcivescovo "di lima" era il cardinale Casaroli, la cui abilità diplomatica nel "limare" le parole era leggendaria... A partire dal 1991, con segretario di stato il cardinale Angelo Sodano, l'interesse dei vertici vaticani per "La Civiltà Cattolica" diminuisce. Né Giovanni Paolo II, né Sodano, né i titolari degli affari interni ed esteri della Chiesa si occupano più di rivedere le sue bozze. L'incarico è delegato a funzionari di grado inferiore: l'assessore per gli affari generali o, più spesso, il sottosegretario per i rapporti con gli stati. Di solito è quest'ultimo – oggi monsignor Pietro Parolin, prima di lui Celestino Migliore – a ricevere in udienza il direttore della rivista, che dal 1985 è padre GianPaolo Salvini. Dall'aprile del 2005 c'è però un nuovo papa, Benedetto XVI, e dal settembre del 2006 c'è un nuovo segretario di stato, il cardinale Bertone. E quest'ultimo è tornato a occuparsi attivamente, in prima persona, di ciò che si scrive su "La Civiltà Cattolica". Non solo legge le bozze degli articoli e in taluni casi li boccia o li modifica. Qualche volta arriva a ordinare di scrivere un articolo su un determinato argomento e a fornire la documentazione appropriata.
Negli ultimi mesi sono almeno due gli articoli che egli ha bloccato. Uno riguardava la situazione della Chiesa in Cina: Bertone ordinò di non stamparlo, perché non interferisse con la lettera che Benedetto XVI si apprestava a pubblicare sullo stesso argomento. Un altro riguardava il limbo, il "luogo" ultraterreno nel quale una certa tradizione colloca i bambini morti senza il battesimo. In questo caso Bertone bloccò l'articolo perchè sullo stesso tema stava per uscire un dettagliato documento della commissione teologica internazionale. In un altro caso Bertone ha fatto aggiungere alla conclusione di un editoriale una frase rafforzativa scritta di suo pugno. L'editoriale – cioè l'articolo di apertura, non firmato – riguardava il "Family Day", la manifestazione a favore della famiglia indetta a Roma il 12 maggio 2007 con grande concorso di popolo da numerose associazioni cattoliche italiane. Tra gli articoli recentemente fatti scrivere per impulso della segreteria di stato ce n'è uno sulla situazione dei cristiani in Iraq e in altri paesi musulmani.
Ma l'articolo più sorprendente – tra quelli commissionati dal cardinale Bertone – è uscito sul quaderno 3764 del 21 aprile 2007, con la firma del direttore della rivista, padre Salvini, e col titolo: "Preti che abbandonano, preti che ritornano".
I preti che "abbandonano" sono quelli che negli ultimi decenni hanno lasciato il ministero sacerdotale. Qui la novità dell'articolo non è nel fatto – approssimativamente noto a tutti – ma nelle cifre precise fornite dal Vaticano, per la prima volta rese pubbliche. I preti che "ritornano" sono invece quelli che, dopo aver lasciato il ministero, sono tornati a esercitarlo, in accordo con la gerarchia della Chiesa.
Di questo fenomeno si sapeva poco o nulla, prima di questo articolo costruito su dati inediti forniti dalla segreteria di stato a "La Civiltà Cattolica". (Sandro Magister, www.chiesa, 24 settembre 2007)

Un estratto di "Preti che abbandonano, preti che ritornano" è disponibile nella Sezione APPROFONDIMENTI.

 

 

 


 

Templari, la riabilitazione
Le calunnie sono dure a morire. Quello dei Templari era un Ordine religioso nato nel secondo decennio del XII secolo: originariamente una fraternitas di pellegrini che avevano preso forse parte a quello strano pellegrinaggio armato che si è soliti chiamare «la prima crociata» (1095-1099), che ricevette poi una regola in qualche modo ispirata all’Ordine cistercense, e nella stesura della quale ebbe quanto meno indirettamente mano lo stesso Bernardo di Clairvaux. Il tratto originale (anche se non esclusivo) di tale ordine, come di altri nati nel medesimo secolo, era che esso riuniva alcuni fratres
laici autorizzati a portare le armi per difendere i pellegrini e i nuovi principati cristiani nati in Terrasanta (e, poi, anche nella penisola iberica). Il termine canonico che qualificava tali ordini era non religio, bensì militia.
Esauritosi o comunque divenuto problematico il loro ruolo con la fine dell’esperimento dei principati nati dalla crociata, alla fine del Duecento, i Templari – che intanto avevano saputo sviluppare una loro florida attività in campo fondiario e bancario, ma attorno al quale giravano voci insistenti di tralignamento rispetto alla purezza originaria – furono alla fine coinvolti in un memorabile processo inquisitoriale per eresia, avviato in Francia e dietro al quale c’era la volontà del sovrano di quel paese, deciso a sbarazzarsi dell’ingombrante presenza dell’Ordine e a impadronirsi delle sue ricchezze.
L’opposizione del maestro Jacques di Molay a un prestito di quattrocentomila fiorini d’oro che il Tesoriere del Tempio di Parigi aveva concesso al re di Francia e il dissidio tra papa Bonifacio VIII e re Filippo IV di Francia – durante il quale le sedi dell’Ordine in terra di Francia avevano preso posizione a favore del sovrano, a differenza degli altri Templari – furono tra le cause prossime del processo intentato contro l’Ordine: che ebbe comunque la sua origine immediata dalle confessioni e dalle confidenze di un "pentito", tale Esquieu de Floyran priore templare di Montfaucon, che a partire dal 1305 cominciò a mettere in giro presunte rivelazioni su infiltrazioni ereticali nell’Ordine. Il papa e il re d’Aragona, messi a parte di quelle voci, non vi dettero importanza: ma il re di Francia, che doveva del denaro al Tempio e che era del resto ben deciso a ridurre la Chiesa di Francia sotto il suo controllo eliminando tutte quelle forze sospette di essere troppo strettamente fedeli al papa, aveva tutto l’interesse a lasciarsi convincere che davvero i templari – come recita la lettera regia indirizzata ai funzionari della corona il 14 settembre 1307, festa dell’Esaltazione della Croce – al momento dell’ammissione all’Ordine ve­nissero indotti a rinnegare il Cristo, a sputare sul segno della croce, a darsi ad esecrabili pratiche oscene. Non deve meravigliare che i Templari si facessero così docilmente incarcerare: essi non solo non potevano levare le armi contro dei correligionari perché la loro regola lo impediva, ma soprattutto quelli di loro che si trovavano in Europa erano quasi tutti anziani, o invalidi. Imprigionarli fu uno scherzo da poco.
Le accuse contro i Templari, elaborate nei primi mesi dopo le campagne d’arresto eseguite un po’ in tutta Europa – ma con vario grado di efficacia e con esiti diseguali – tra 1307 e 1308, si cristallizzarono in una serie di punti che si potrebbero così enumerare: rinnegavano il Cristo, profanavano il segno della croce, si davano all’adorazione di idoli descritti come di varia forma (come il misterioso Baphometh); erano colpevoli di varie credenze ereticali riguardo ai sacramenti; esercitavano pratiche oscene e omosessuali; si riunivano in conciliaboli segreti dei quali nessuno all’esterno doveva saper nulla.
La lista delle accuse ai Templari, per la verità, ha un marcato aspetto fasullo. Sia che gli avvocati del re di Francia s’inventassero di sanapianta gli addebiti da muovere ai fratres, ispirandosi magari a fenomenologia e a casistica dei processi inquisitoriali per eresia che allora cominciavano a diventare più frequenti, sia che essi raccogliessero ed elaborassero confessioni in qualche modo "autentiche", per estorte che fossero, resta il fatto che l’insieme delle pratiche attestate non ha alcuna coerenza e che ciascuna di esse, singolarmente prese, sembra rinviare a un contesto noto a livello più generico e popolare che non teologico o politico. Durante le cerimonie di ammissione al Tempio, è probabile si verificassero episodi di "nonnismo" anche molto pesanti e brutali, da cui potevano non esser assenti nemmeno atti irriverenti se non addirittura empi.
Il pontefice comprese bene la sostanza dei messaggi che il re di Francia gli inviava, che cioè il destino dell’Ordine era comunque segnato ed era bene accettare il male minore ed evitare scandali: e, com’è noto, sciolse d’autorità l’Ordine in modo ch’esso non fosse condannato, ma che neppure una sua esplicita e conclamata assoluzione compromettesse i rapporti tra regno di Francia e Santa Sede. La pergamena originale rintracciata nel settembre 2001 da una giovane studiosa, Barbara Frale, nell’Archivio Segreto Vaticano, ha mostrato come in seguito a un’inchiesta condotta nella fortezza di Chinon dov’erano rinchiusi i dignitari dell’Ordine del Tempio papa Clemente V concesse loro l’assoluzione, ben convinto del fatto ch’essi non erano affatto eretici.
Ma era tardi per arrestare la macchina messa in moto dal re di Francia e dai suoi giuristi.
Con lo scioglimento dell’Ordine nel 1312 , sancito dalla bolla "Vox in excelso", e il rogo nel 1314 come relapsi dell’ultimo maestro, Jacques de Molay, e del precettore di Normandia Geoffrey de Charney, che dopo aver ammesso la loro colpevolezza si erano di nuovo proclamati innocenti, cessa la vita istituzionale del Tempio. I beni del disciolto Ordine passarono a quello degli Ospitalieri di san Giovanni, secondo la bolla "Ad providam" del 2 maggio 1312.
Il corpus dei documenti processuali era già stato edito da Georges Lizerand, Le dossier de l’affaire des Templiers (Paris 1923). Di recente, gli studi di storici quali Alain Demurger e soprattutto di un gruppo di valorosi giovani ricercatori italiani (tra cui vanno ricordati almeno Simonetta Cerrini, Barbara Frale, Francesco Tommasi) , hanno ampliato le nostre conoscenze sino a consentire un rivoluzionario riesame generale del problema. Il processo si basò su false dicerie infamanti, ma la causa vera fu il rifiuto di un prestito al re di Francia. Furono infatti abili cavalieri, ma anche capaci amministratori. Ora nuovi studi fanno giustizia sulla vicenda.
(Franco Cardini, Avvenire, 4 ottobre 2007)
 

 

 


 

Giuseppe Moscati in tv così lontano dalla realtà

D’accordo, le vite dei santi fanno audience, tant’è che proprio mentre trasmettevano lo sceneggiato in due puntate su San Giuseppe Moscati compariva l’annuncio di Chiara e Francesco, ennesima fiction sul Poverello d’Assisi (una all’anno in media). Ma se le biografie agiografiche «tirano» e se, com’è ovvio, sono rivolte a un pubblico familiare (e soprattutto cattolico) da prima serata, che c’entra una scena di sesso, insistito e senza veli, nella prima puntata del Giuseppe Moscati? I santi sono il contrario del politicamente corretto e di certo non amano che si parli di loro nascondendosi dietro il dito della didascalia «liberamente ispirato a». Questa «avvertenza per lo spettatore» dovrebbe giustificare ogni volo pindarico, ma di fatto finisce col piegare il racconto alle regole più mediocri e banali del narrare per immagini. Così, si prende un santo, persona per definizione eccezionale, e lo si trasforma in un generico buonista da telefilm d’ambientazione sanitaria. Ciò accade perché si diffida della capacità di una vita di santo di essere di per sé spettacolare. Il vero Moscati (che, per inciso, portava gli occhiali e non assomigliava a Beppe Fiorello, bensì all’attore che fa la parte dell’amico-nemico) era uomo da comunione quotidiana, di cui nello sceneggiato non c’è traccia. In tutta la prima puntata lo si vede una sola volta in preghiera e, paradossalmente, davanti al «Cristo velato» della napoletana cappella Sansevero, una scultura massonica ed esoterica. Forse si pensa di vendere lo sceneggiato all’estero, dove nessuno conosce quella statua? Ma lo stesso può dirsi della figura di S. Giuseppe Moscati, e specialmente all’estero.
Il vero Moscati, che fu famoso per l’infallibilità delle sue diagnosi, abilità definita «miracolosa» anche dai suoi colleghi razionalisti e atei, usava consultarsi con Dio prima di pronunciarne una. Al contrario, darebbe alla fiction una profondità che potrebbe aspirare al capolavoro. Lo stesso ragionamento vale per l’espediente escogitato dai soggettisti per spiegare la scelta celibataria del Moscati: una banale delusione d’amore. Invece, nella storia vera, l’ormai illustre cattedratico e scienziato (fu tra gli anticipatori della biochimica) venne chiamato d’urgenza al capezzale di una donna di malaffare. Era uno scherzo di pessimo gusto che sapeva di poter contare sulla carità eroica del santo, il quale non badava al suo rango e nemmeno alla parcella quando c’era da assistere un malato. Quel giorno Giuseppe Moscati si infilò nella chiesa delle Sacramentine e, davanti all’immagine della Madonna del Buon Consiglio, fece voto perpetuo di castità. Ovviamente, si è pensato che la castità non sia «telegenica». E si è persa un’altra occasione per uscire dall’usuale piattezza delle trame. E dire che il cattolicissimo Moscati era un pugno nell’occhio per la classe medica del suo tempo, trasudante positivismo agnostico e scientista: conflitto che da solo bastava a riempire un film. Domanda: perché non affidano a un vero romanziere cattolico i soggetti filmici sui santi? (Rino Cammilleri, © il Giornale, 30 settembre 2007)

 

 

 


 

Il rabbino che demolì la leggenda nera di Pio XII

Lo storico ebreo David Dalin rende giustizia a un pontefice che si oppose sempre al nazismo.
Un suo articolo uscito anni addietro sul Weekly Standard (26 febbraio 2001) aveva suscitato un vespaio: un rabbino che chiede, pubblicamente e con abbondanza di argomentazioni, che Pio XII, "il Papa di Hitler" accusato di complicità nello sterminio degli ebrei o quantomeno di connivenza col nazismo, sia incluso fra i "giusti" è certo un evento che fa notizia. A firmare la clamorosa apertura era stato rabbi David Dalin, uno degli esponenti di spicco del conservatorismo ebraico, quella corrente del giudaismo che combina un fermo rispetto dei princìpi religiosi tradizionali con una leale apertura alla civiltà moderna e ai suoi metodi di critica storica. Non è certo uomo che si fa condizionare dai pregiudizi e dai luoghi comuni, rabbi Dalin, se è così libero da aver accettato la proposta di insegnare Storia e teorie politiche all’Ave Maria University di Naples, Florida, il cattolicissimo ateneo fondato dall’ex proprietario di Domino’s Pizza, Tom Monaghan, convertito dalla lettura di Clive Staples Lewis e banditore (nonché generoso finanziatore) di una specie di crociata personale per sottrarre la cultura della Chiesa americana allo strapotere dei liberal.
E sono proprio costoro, i cattolici non praticanti o del "dissenso", i bersagli polemici de La leggenda nera del Papa di Hitler, il libro, ora edito anche in Italia, in cui Dalin ha sviluppato le sue tesi anticonformiste. Nel saggio il rabbino accusa costoro di sfruttare la tragedia degli ebrei per i propri fini. «Pochissimi fra i molti libri recenti su Pio XII e l’Olocausto - scrive Dalin - riguardano veramente Pio XII e l’Olocausto. Gli attacchi in formato bestseller al papa e alla Chiesa cattolica sono in realtà una contesa interna al cattolicesimo sulla direzione della Chiesa di oggi. L’Olocausto è semplicemente la più grande clava di cui di-spongono i cattoliberal contro i cattolici tradizionali, nel loro tentativo di colpire il papa e quindi di distruggere i tradizionali insegnamenti cattolici, specialmente sulle questioni relative alla sessualità, inclusi l’aborto, la contraccezione, il celibato e il ruolo delle donne nella Chiesa. La polemica antipapale di ex seminaristi come Garry Wills e John Cornwell (autore de Il papa di Hitler), di ex preti come James Carroll, e di altri cattolici liberal non praticanti o arrabiati, sfrutta la tragedia del popolo ebraico durante l’Olocausto per promuovere la loro agenda politica, quella di costringere la Chiesa odierna a dei cambiamenti. Questo dirottamento dell’Olocausto dev’essere respinto. La verità su papa Pio XII dev’essere ripristinata. La guerra culturale liberal contro la tradizione - di cui la controversia su papa Pio XII è un microcosmo - dev’essere riconosciuta per ciò che è, un assalto all’istituzione della Chiesa cattolica e alla religione tradizionale. Questo è un cattivo uso dell’Olocausto a cui gli ebrei devono opporsi. L’Olocausto non può essere adoperato per scopi partigiani in un tale dibattito».
Nelle pagine che seguono, Dalin si dedica alacremente al compito, mettendo alla berlina le falsità, le parzialità, gli errori di metodo storico dei libri che accusano Pio XII. Sottolinea la complicità dei mezzi di comunicazione, sempre pronti a dare risonanza alle voci di accusa e a silenziare la difesa: perfino Cornwell, ricorda Dalin, in una intervista all’Economist del dicembre 2004 aveva preso le distanze dal proprio libro, ma la ritrattazione era caduta in un silenzio inversamente proporzionale al clamore di cui era stato circondato il libro. Passa quindi in rassegna le pubblicazioni più serie in materia, dal celebre (e guardacaso mai ristampato) Roma e gli ebrei. L’azione del Vaticano a favore delle vittime del Nazismo, pubblicato nel 1967 dal console israeliano a Milano Pinchas Lapide, che afferma che Pio XII «fu lo strumento di salvezza di almeno 700 mila, ma forse anche 860 mila, ebrei che dovevano morire per mano nazista», al recente, documentatissimo e in attesa di traduzione Hitler, the War and the Pope di Ronald J. Rychlak. Rabbi Dalin mostra come tutti gli storici seri siano concordi nel riconoscere l’avversione di papa Pacelli per il nazismo, la sua instancabile opera in difesa degli ebrei, il suo totale appoggio a decisi oppositori del regime come il vescovo Van Galen, la sofferta decisione di evitare un’accusa pubblica motivata dal timore, fondato, che essa avrebbe avuto come unica conseguenza un inasprimento delle persecuzioni. E non tralascia un ampio excursus storico, in cui mostra come «il papato ha una lunga tradizione filosemita, che risale almeno al pontificato di Gregorio Magno del sesto secolo».
Le SS islamiche alla guerra santa
Ma il capitolo forse più impressionante del libro di Dalin è quello dedicato al vero antisemitismo dei nostri tempi, quello musulmano, terribilmente impersonato dal gran muftì di Gerusalemme Haj Amin al Husseini. Erede di una tradizione antisemita che risale al massacro degli ebrei di Medina, compiuto da Maometto in persona, distintosi fin dagli anni Venti del Novecento negli eccidi dei primi coloni ebraici stanziati in Palestina, con l’avvento al potere di Hitler Husseini perseguì tenacemente una «alleanza con la Germania, contro l’ebraismo mondiale, per realizzare la Soluzione Finale del problema ebraico dovunque». Trasferitosi nel 1941 a Berlino, dove fu accreditato come leader riconosciuto di tutti gli arabi, «pubblicamente - e ripetutamente - invocò la distruzione dell’ebraismo europeo». Nel 1943, in Bosnia, partecipò al reclutamento di musulmani per una compagnia di SS, i famigerati "soldati Hangar" che sterminarono il 90 per cento degli ebrei di quel paese e bruciarono innumerevoli chiese e villaggi cristiani. Dopo la guerra, poi, Husseini riparò in Egitto, dove fece entrare segretamente un ex ufficiale di un commando nazista, affinché insegnasse gli elementi della guerriglia ai giovani che il muftì stava reclutando: il più brillante tra quei ragazzi si chiamava Yasser Arafat. «"Il più pericoloso chierico della storia contemporanea", per usare la frase di Cornwell - sintetizza Dalin - non fu Pio XII ma Haj Amin al Husseini, il cui fondamentalismo islamico è stato tanto pericoloso durante la Seconda guerra mondiale quanto lo è oggi. Il gran muftì fu il collaboratore par excellence dei nazisti: il "muftì di Hitler". Il "papa di Hitler" è un mito».  (Roberto Persico, © Editoriale «Tempi» n. 37 del 13 settembre 2007)

 

 

 


 

Assemblea di Sibiu: Nuvole sull’ecumenismo
Un dialogo faticoso e contrastato, un documento finale offuscato dal giallo sulla sua versione definitiva, uno stile di lavoro che sembra giunto al capolinea: la terza Assemblea ecumenica europea (Sibiu, 4-9 settembre 2007) dice che il cammino verso l’unità è ancora in salita, anche se segnali di speranza vengono dall’impegno comune nel sociale.

Due uomini e una donna, in abiti vescovili, armati di vanga e piccone, piantano un albero nella "Piata Mare", la Piazza Grande della città vecchia di Sibiu. La folla riempie gradualmente l’ampio spiazzo, rivoli separati provenienti dal duomo luterano, dalla chiesa evangelica riformata, dalla cattedrale ortodossa, da quella cattolica, e da tutti i luoghi dove ogni confessione ha celebrato la "sua" liturgia domenicale.

Anche stamattina la pioggia non è mancata, ma per l’appuntamento finale di questa terza Assemblea ecumenica europea il sole fa capolino. A salutare le croci dei greco-ortodossi e i foulard arcobaleni dei protestanti, a riscaldare talari e clergyman, sandali francescani e giacche a vento, bandane e k-way. A Margot Kässmann, della Chiesa evangelica di Germania, all’italiano Vincenzo Paglia e al metropolita Gennadios di Sassima, il Consiglio delle Conferenze episcopali di Europa (Ccee) e la Conferenza delle Chiese europee (Kek) affidano il compito di piantare l’alberello che simboleggia le speranze delle Chiese, i giovani, il futuro dell’ecumenismo. Dopo un poco, ritorna la pioggia.

Alla stessa ora, intorno alle 13, a meno di un chilometro, in sala stampa viene dettata quella che dovrebbe essere la versione definitiva del documento finale (che ai delegati non verrà mai consegnato). Sull’elaborazione del testo – che ripercorre i temi dell’assemblea e indirizza dieci raccomandazioni – esplode un vero e proprio giallo. Il giorno prima, infatti, durante l’assemblea plenaria era stato distribuito un testo in inglese al quale, durante la lettura, era stata aggiunta una frase su «la difesa della vita dal concepimento fino alla morte naturale» (emendamento richiesto in aula da un membro dell’Opus Dei di Francia). Un’aggiunta tardiva, fatta fuori dalla riunione della Commissione redazionale del messaggio e comunicata via telefono ai membri della stessa, non gradita ad alcune Chiese. Chiarimenti intercorsi tra i vertici Kek e Ccee avrebbero portato all’espressione meno determinata: «Difesa dall’inizio della vita...» comunicata ai giornalisti il 9 mattina, apparsa per poche ore sul sito della Kek e di nuovo scomparsa. Un malinteso? Una conclusione affrettata, dovuta alla stanchezza e a una maldestra organizzazione dei tempi? La cosa, che al momento non è ancora chiarita – tanto che, sul sito ufficiale dell’assemblea, "per motivi tecnici" il messaggio a due settimane dalla conclusione dell’evento ancora non compare – è però sintomatica dell’intero clima che si è respirato in Romania. Nuvoloso, rare schiarite, a volte freddo.

«La nostra assemblea è uno specchio fedele dell’attuale situazione ecumenica», dice Guido Dotti, monaco della comunità di Bose, che ha co-guidato uno dei nove forum assembleari. «Siamo in un’impasse, si è perso entusiasmo e passione a tutti i livelli. Si rischia di ridurre l’ecumenismo a una questione professionale, dove si misurano costi e benefici. Ed essendo il bilancio negativo, ci si scoraggia. Ma va ricordato che non siamo ecumenici per questioni di strategie o target, ma perché ce lo ha chiesto il Signore!».

Dieci anni sono passati dall’Assemblea di Graz e non sono stati poca cosa. Per il mondo, per l’Europa e anche per le Chiese. Le centinaia di gruppi di base che erano arrivati nella cittadina austriaca, dando voce al variegato popolo dell’ecumenismo, dagli ambientalisti alle associazioni di credenti omosessuali, mancano in questa Sibiu, capitale della cultura europea. L’agorà è ridotta a una paio di locali dove, per lo più, le Chiese nazionali presentano se stesse e qualche progetto di solidarietà. «Per motivi logistici era impossibile accogliere tanta gente esterna», spiega la Kässmann, «e così si è deciso di allargare le delegazioni, chiedendo alle Chiese di far confluire le esperienze di base tra i delegati. Ma non ha funzionato».

Di certo questa è l’assemblea con la maggior presenza di delegati, circa 2.500, raccolti per i lavori in assemblea plenaria sotto una grande tenda montata in piazza Unirii, al centro della cittadina medievale. Ritrovarsi per la prima volta in un Paese ortodosso, celebrare fianco a fianco greco-cattolici e latini, per esempio, con un centinaio di vescovi europei, è sicuramente uno dei segni positivi di questo appuntamento. E il fatto stesso che l’assemblea si sia fatta, in questo momento, è un successo, dicono in tanti.

Il popolo di Sibiu in questi anni si è preparato all’appuntamento con un "pellegrinaggio" ideale attraverso alcuni momenti di incontro nelle Chiese nazionali e due appuntamenti simbolici a Roma, nel 2006, e a Wittenberg, nel 2007. Cammino che ha registrato delle tappe importanti, come per esempio l’assemblea dei giovani "Osare la pace" a Milano, ma anche tanti scossoni, non ultimo quello dovuto alla pubblicazione del documento della Congregazione per la dottrina della fede, che, proprio a ridosso dell’assemblea, ha ritenuto opportuno richiamare le differenze che per i cattolici ancora sussistono tra le diverse comunità cristiane.

Dopo l’entusiasmo della prima assemblea, a Basilea, nel 1989, e le speranze di Graz, si arriva a Sibiu con un bagaglio meno friendly, più pensato e pesante ma più ricco, grazie anche a quella Charta Oecumenica, che le Chiese hanno firmato a Strasburgo nel 2001. Quel testo, che allora ad alcuni parve una mediazione al ribasso (come nel passaggio che in bozza prevedeva un «pregare insieme», poi ridimensionato a «pregare gli uni per gli altri»), oggi per chi crede nell’ecumenismo è una bandierina che segna una posizione da mantenere, tanto da venire riproposto in molti emendamenti al documento finale.

L’assemblea analizza il tema centrale – La luce di Cristo illumina tutti. Speranza di rinnovamento e unità in Europa – attraverso tre sotto-temi (Chiese, Europa, mondo), a loro volta divisi in altrettanti forum ispirati alla Charta: nove ambiti di lavoro – dalla pace alla giustizia, dalla testimonianza alla spiritualità, dall’Europa alle migrazioni – in cui i delegati fanno il punto su situazioni che spesso costituiscono il banco di prova dell’ecumenismo pratico nelle Chiese locali. Tra le relazioni iniziali, le introduzioni ai forum, gli indirizzi di saluto e le celebrazioni, alla fine il programma risulta eccessivamente serrato e il dibattito sacrificato. Come sottolineano un’ottantina di persone che si ritrovano in un forum alternativo, che però non presenta documenti da sottoporre in plenaria.

Di certo, la sensazione diffusa è che questa formula di assemblea chieda di lasciare spazio a qualcosa di diverso. Sibiu chiude un ciclo. E sulla realizzazione di un quarto appuntamento non tutti metterebbero la mano sul fuoco, perché su che cosa riservi il futuro, su quali possano essere le strade da percorrere, poche sono le certezze. A tutti appare chiaro che oggi «è finito il tempo delle coccole», come dice il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, «e non serve nascondere le ferite: bisogna tenerle scoperte e curarle, con l’aiuto di Dio».

La platea applaude. In realtà l’intervento di Kasper, all’insegna di un realismo ecumenico che poco spazio lascia al sogno, segna l’andamento dell’assemblea sin dal primo giorno: «Il vero nodo gordiano dell’ecumenismo è che non siamo concordi sulla comprensione della Chiesa e, per larga parte, neanche dell’Eucaristia». Fino a oggi, dice Kasper, «nel tentativo di giungere a un consenso si è dimostrato proficuo il metodo delle convergenze», come nel caso dell’accordo sulla dottrina della giustificazione, ma nel frattempo «questo metodo si è palesemente esaurito; in questo momento non andiamo più molto avanti su questo sentiero». Ciò che resta da fare è «testimoniare gli uni gli altri le nostre rispettive posizioni in modo onesto e coinvolgente, nella speranza che uno scambio di doni diventi possibile».

La posizione del cardinale lascia perplessi molti interlocutori delle altre Chiese: «Non vedo alternative a questo metodo. Così siamo alla fine della discussione», dice la Kässmann. «Le convergenze non sono su ciò che siamo oggi, ma sulla fede primitiva della Chiesa che tutti dovremmo riscoprire», aggiunge Richard Chartres, vescovo anglicano di Londra. «Sono scettico su questo guardarci per prendere l’uno dall’altro: l’unità la costruiamo quando guardiamo insieme nella stessa direzione come sfida comune», conclude il vescovo ecologista, che è giunto da Londra a Sibiu in treno. E il pastore Thomas Wipf, presidente della Comunità delle Chiese protestanti d’Europa, rilancia la palla: «Come protestanti europei chiediamo alla Chiesa cattolica di fare un dialogo teologico, che non rientra nelle competenze Ccee-Kek, proprio per affrontare quei nodi riproposti dal documento della Congregazione per la dottrina delle fede. Lanciamo ufficialmente questa proposta da Sibiu», ci dice Wipf, annunciando una lettera ufficiale che, dopo l’incontro di Bruxelles di fine settembre, le Chiese protestanti europee invieranno a Roma.

Il pastore Wipf, distintivo ugonotto all’occhiello, sposato con una pastora protestante, padre di due figli, alla domanda su come i protestanti siano arrivati all’assemblea non ha paura a fare un ragionamento più ampio: «Oggi essere protestanti non è facile, perché la persona ha una grande responsabilità. Non c’è una Chiesa che ti dice qual è la strada, ma ti offre solo una cornice che può aiutarti a trovare la prospettiva. In questo senso, abbiamo perso un po’ di cattolicità, ci siamo individualizzati anche come Chiese».

Il pastore mette il dito sulla ferita con cui il variegato mondo riformato si ritrova a vivere quest’assemblea: «Siamo tante Chiese ed è difficile capire cosa significa essere protestanti insieme. A volte per me è più facile capirmi con un cattolico liberale svizzero che con un riformato ucraino. Cerchiamo di essere più vicini all’uomo di oggi, alla società. E questo, per i cattolici e gli ortodossi, significa che ci facciamo trascinare dallo spirito dei tempi, che cadiamo nel relativismo morale. Può essere un rischio, ma lo sforzo è quello di essere sempre vicini alla vita vera delle persone».

L’attenzione all’unione di persone di uno stesso sesso, esemplifica Wipf, «per noi è una possibilità che Dio dà, biblicamente fondata. E non una concessione allo spirito dei tempi». Proprio su questo tema si gioca però una delle partite-chiave tra le Chiese: il rapporto con la modernità, il dialogo e la testimonianza delle Chiese nella società, diventano argomento di confronto serio e a volte lacerante, che percorre trasversalmente l’assemblea e rischia di spaccare la stessa Kek. «Una lotta per l’unica pubblica moralità e per i valori cristiani in Europa», dice infatti nella sua relazione il metropolita Kirill, ministro degli Esteri del patriarcato ortodosso di Mosca, «è l’ultima possibilità che hanno i cristiani per dare un’anima all’Europa».

Le Chiese ortodosse, che pure arrivano a Sibiu con le loro divisioni – soprattutto giurisdizionali, riguardo la competenza di alcune diocesi contese tra i vari patriarcati e "il controllo" sulle Chiese della diaspora – dimostrano sintonia nell’approccio teologico-pastorale alla modernità. «Kirill ha messo l’accento sull’unità dogmatica e morale della Chiesa», commenta il metropolita Serafim, che coordina gli ortodossi rumeni di Germania. «Da questo punto di vista cattolici e ortodossi sono uniti. Per questo anche Hilarion, vescovo di Vienna, ha proposto un’alleanza per parlare dei problemi della società e della morale. E sarebbe un bene, perché in certi ambienti protestanti la morale non è una cosa molto importante».

Un invito preciso, dunque, da parte del patriarcato di Mosca, «ad agire insieme e a sostenere progetti comuni» che, come conferma il segretario del Ccee, don Aldo Giordano, nell’intervista in queste pagine, ha già trovato l’assenso della parte cattolica. A breve, infatti, dovrebbe partire un progetto Ccee-Chiese ortodosse finalizzato a creare dei luoghi di confronto tra esponenti ed esperti delle diverse Chiese su argomenti di interesse comune. Un forum, su cui già Costantinopoli e Mosca sarebbero d’accordo, dal quale però verrebbero tagliati fuori i protestanti.

Se le prime due relazioni dell’assemblea, dunque, toccano senza sciogliere i nodi che oggi, almeno a livello di vertice, rischiano di strangolare le relazioni ecumeniche – le visioni di Chiesa e il rapporto con la modernità –, è dalla terza anima di Sibiu che vengono le maggiori ragioni di speranza. È sul campo dell’ecumenismo vissuto, quello che vede fianco a fianco i cristiani nell’impegno sociale, per le migrazioni e per l’ambiente, per la pace e lo sviluppo compatibile, che viene fuori quella testimonianza di unità su cui investono tante comunità a livello di base.

«Le migrazioni di cristiani all’interno dell’Europa», spiega Guido Dotti, «possono ridare slancio evangelico al movimento ecumenico. Se per esempio in Italia siamo capaci di raccogliere la sfida della presenza rumena, possiamo riscoprire cosa vuol dire vivere l’ecumenismo a livello di Chiesa locale». Ed è Andrea Riccardi, della Comunità di Sant’Egidio, movimento cattolico molto protagonista a Sibiu, a ricordare «la responsabilità di pace nel mondo che hanno i cristiani europei». Un invito alla pace che ritorna anche durante la "Veglia della luce" che nella Piazza Grande della città le Chiese celebrano il sabato sera. Mentre in contemporanea, alcuni componenti la delegazione italiana (la più numerosa, con 120 persone), si collegano con la parrocchia romana della Trasfigurazione, che segue i lavori e prega per l’assemblea.

«Forse per l’ecumenismo siamo a un incrocio», ci dice il vescovo greco-cattolico di Oradea, Virgil Bercea. «Adesso ci rendiamo conto dell’importanza della purificazione della memoria chiesta da Giovanni Paolo II. Anche noi qui in Romania dobbiamo assumere con serenità il passato e andare avanti nell’amicizia, riconoscendo i valori gli uni degli altri». Lo dice con altre parole frère Alois di Taizé: «Tutti i messaggi sono importanti, ma l’avvenire dell’ecumenismo è imparare che apparteniamo sempre di più gli uni agli altri».

È uno sguardo che va al di là, coglie un orizzonte più ampio, supera dispute teologiche e relazioni ingessate. E l’assemblea applaude alle parole del cardinale Tettamanzi che, il 6 settembre, durante l’omelia, dichiara: «Un’assemblea ecumenica lascia trasparire la luce dello Spirito che l’abita e la trasfigura. A radunarsi a Sibiu in questa nostra assemblea ecumenica è l’unica Chiesa del Signore». Ad ascoltarlo, tra i presenti, don Stefano, parroco della vicina cittadina di Bradu. Per lui, greco-cattolico, ecumenismo è anche condividere la chiave della chiesa con il parroco ortodosso. Liturgie alternate, oratorio comune. «Mentre gli altri litigano per la restituzione dei beni, noi abbiamo deciso di condividere la parrocchia. Per noi la testimonianza dell’unità comincia da qui».  (Vittoria Prisciandaro, Jesus, n. 10, ottobre 2007)

 

 

 


 

La Casta è altrove

A proposito dell’ennesimo attacco mediatico alla Chiesa, costruito sulla menzogna.

 “Fatto salvo che l’8x1000 non è una tassa - ha detto Giuseppe Dalla Torre -, sarebbe opportuno chiedersi, invece, quante risorse la Chiesa porta nelle casse dello Stato con le sue opere sociali, educative e assistenziali”.

“La Chiesa non è la casta.

La Chiesa è una realtà che vive nella società civile, è società civile, ed è in una collocazione diversa rispetto alla casta che fa riferimento a posizioni di potere nell’ambito della società politica. La casta si impone su una società civile, mentre la Chiesa è un’espressione della società civile, è parte del popolo, non un corpo separato”. Lo ha dichiarato il rettore della Lumsa, Giuseppe Dalla Torre, in risposta all’articolo del 28 settembre su la Repubblica dal titolo “Quanto ci costa la Chiesa”.
“Per quanto attiene al discorso dei costi - ha affermato il rettore - fatto salvo che l’8x1000 non è una tassa, sarebbe opportuno chiedersi, invece, quante risorse la Chiesa porta nelle casse dello Stato con le sue opere sociali, educative e assistenziali”. “Siamo di fronte ad una linea, non nuova di attacco alla Chiesa, non solo sul piano tributario e fiscale ma anche più generale”, ha aggiunto Dalla Torre, che ha sottolineato, invece come la Chiesa “sia radicata nel territorio dove, secondo il principio di sussidiarietà porta avanti quel che lo Stato dovrebbe, ma che non riesce a fare”.
Dalla Torre si è detto “meravigliato” che “questa sinistra che ha avuto l’alto merito di avere enunciato in costituzione il principio di sussidiarietà poi in pratica, almeno in alcune sue componenti, se la prende proprio con la società civile che dovrebbe essere il soggetto della sussidiarietà. Prendendosela con la Chiesa, infatti, se la prende con la società civile, con tutte quelle opere di ispirazione cattoliche che lavorano dal basso per la coesione sociale, per l’uguaglianza, per il rispetto dei diritti. Una visione statalista e non solo laicista che ha fatto il suo tempo". Di seguito una scheda sintetica sui “costi” della Chiesa italiana.
Gli “stipendi” dei sacerdoti. Un sacerdote di nuova nomina percepisce mensilmente uno “stipendio” di 852,93 euro. I presbiteri con trent’anni di “lavoro” 1.205,65 mentre un vescovo, ai limiti della pensione, percepisce una remunerazione di 1.308,57 euro. Tutto questo per dodici mensilità. I sacerdoti e i religiosi sostenuti nelle 226 diocesi italiane sono stati 38.495. Tra questi circa 600 sono stati impegnati nelle missioni italiane nei Paesi del terzo mondo.
8xmille. Nel 2007 i soldi stanziati dallo Stato italiano alla Chiesa Cattolica per l’8 X mille sono stati 991.278.000. Di questi 205.000.000 sono stati impiegati negli interventi caritativi: 90.000.000 alle diocesi, 85.000.000 al Terzo Mondo e 30.000.000 per esigenze di rilievo nazionale. Alle esigenze di culto e pastorale sono andati 432.570.000: 160.000.000 alle diocesi, 185.000.000 all’edilizia di culto e tutela dei beni culturali, 39.820.000 al Fondo per la catechesi e l’educazione cristiana, 8.500.000 ai Tribunali ecclesiastici regionali e 39.250.000 ad altre esigenze. Al sostentamento clero sono andati invece 353.708.000 pari al 35,7% dei soldi stanziati. Questi soldi derivano dalle scelte che i cittadini italiani fanno al momento in cui presentano al fisco la loro dichiarazione dei redditi annuale. Una cifra che varia di anno in anno e che non dà alcuna garanzia alla Chiesa cattolica, che ogni anno si sottopone al giudizio dei cittadini, che possono darle la firma o rifiutargliela. Alcune garanzie esistevano prima della firma del Concordato, nel 1984, quando i sacerdoti cattolici italiani, ricevevano dallo Stato il cosiddetto “assegno di congrua”, che veniva dato in sostituzione dei beni ecclesiastici incamerati dallo Stato nell’Ottocento.
Il modo come vengono destinati questi soldi viene deciso dall’Assemblea generale dei vescovi per alzata di mano. La quota per ogni diocesi viene distribuita per una parte in porzioni uguali a tutti, per un’altra in base alla popolazione.
I fondi per interventi caritativi e ICI.

La Chiesa italiana ha finanziato, dal 1990 al 2004, 6.275 interventi in tutto il mondo, per un totale di 719 milioni di euro, come si evince dalla pubblicazione “Dalle parole alle opere” pubblicato due anni fa dal Comitato per gli interventi caritativi del Terzo Mondo (con i fondi otto per mille). In circa quattrocento pagine si possono trovare nomi, indirizzi, tipo d’intervento e cifre al centesimo dei soldi investiti.
Per quanto riguarda, invece l’esenzione Ici - prevista dalla legge 504 del 1992 - essa riguarda tutti gli enti non commerciali. Tra questi gli enti ecclesiali, ma anche associazioni, fondazioni, comitati, onlus, organizzazioni di volontariato, organizzazioni non governative, associazioni sportive dilettantistiche, circoli culturali, sindacati, partiti politici (considerate associazioni), enti religiosi di tutte le confessioni e, in generale, tutto quello che viene definito come il mondo del non profit. (IncrociNews, n. 36, 6-12 ottobre 2007)

 

 

 


 

La forza dei monaci

File interminabili di monaci che camminano silenziosi e risoluti in mezzo a due ali di folla con le loro teste rasate e gli abiti cremisi e arancioni; monaci accovacciati inermi di fronte a militari in assetto antisommossa; bocche abituate al silenzio coperte da mascherine antilacrimogeni; monaci anziani e giovani feriti, uccisi, imprigionati, bastonati... Il mondo sembra scoprire tragicamente solo in queste ore un intero paese e, al cuore di esso, i suoi monaci. E, stupito, si chiede quale forza interiore li muova e faccia di loro una leva cui si affida per il proprio riscatto un popolo vessato da un regime dittatoriale. Persone che noi frettolosamente giudichiamo “fuori dal mondo”, distaccate dalle ambizioni e dalle preoccupazioni che abitano i loro contemporanei, si rivelano le più capaci di cogliere le radici di un disagio e di una insostenibilità della vita, quelle maggiormente in grado di dare voce – paradossalmente attraverso il silenzio – al grido soffocato dell’oppresso, di farsi carico della sofferenza e della dignità di un’intera nazione. Di loro ci accorgiamo solo in situazioni estreme, come ai tempi dei bonzi che si davano fuoco in Vietnam, della precedente rivolta in Birmania o della resistenza e dell’esilio dei lama tibetani, icona di un popolo martoriato; oppure li confiniamo in un fascinoso mondo poetico, come i protagonisti de l’Arpa birmana o del più recente Primavera, estate, autunno, inverno ... e ancora primavera. Eppure essi sanno cogliere con estrema concretezza ciò che ai più sfugge: la radice ultima delle cose.

Questo dipende indubbiamente da alcune caratteristiche proprie del buddhismo e dei suoi monaci: una via “monastica” nella sua essenza e struttura, al cui interno ogni giovane è invitato a trascorrere un tempo come monaco nel proprio percorso di formazione umana; una società dove la gente normale incontra ogni giorno sul proprio cammino i monaci che, in silenzio, nella fiducia e nell’abbandono alla generosità dell’altro, chiedono per strada una ciotola di riso, nutrimento per loro sì, ma soprattutto occasione per il donatore di perseguire la rettitudine della propria vita. Non a caso abbiamo visto in questi giorni immagini di monaci che tenevano ostentatamente rovesciata la propria ciotola, in segno di estrema protesta, come a dire: noi siamo disposti a privarci del cibo, ma priviamo nel contempo questa società ingiusta della via maestra per compiere un’azione meritoria.

Ma in questa epifania della capacità dei monaci birmani di catalizzare il sentire della gente comune ritroviamo soprattutto alcuni tratti comuni al monachesimo come fenomeno antropologico, prima ancora che come elemento interno a una determinata via religiosa. La vita monastica, infatti, è un fenomeno umano, quindi universale, che presenta gli stessi caratteri a tutte le latitudini, presente nella storia non solo delle varie religioni, ma anche di alcune correnti e scuole filosofiche. E’ una forma di vita che da sempre riguarda sia uomini che donne e che si caratterizza per il celibato e per una certa separazione dall’ambiente sociale e sovente anche religioso di appartenenza: elementi che da soli ne spiegano la natura di presenza sempre minoritaria. Quale elemento marginale, il monaco emerge da un’area esogena ma, facendo parte del sistema endogeno della religione e della società, rappresenta un agente esterno che lavora ed è efficace all’interno.

Il monachesimo non resta mai completamente esogeno, “altro” – pena il divenire settario ed ereticale – ma non è neanche mai interamente endogeno, come se fosse una forza che nasce e si sviluppa all’interno del sistema istituzionale. Questa duplice appartenenza del monaco fa sì che, come minoranza efficace, inoculi all’interno del sistema religioso e sociale una diastasi che è sempre e congiuntamente di edificazione e di contestazione. In qualche misura il monaco mantiene il contatto con la cultura dominante, ma esprime anche una protesta, e ricerca un urto con questa, ponendosi in contrasto con la “via media”.

“Compito peculiare del monaco – scriveva Merton, un monaco d’occidente così familiare al monachesimo buddhista – è tener viva nel mondo moderno l’esperienza contemplativa e mantenere aperta per l’uomo tecnologico dei nostri giorni la possibilità di recuperare l’integrità della sua interiorità più profonda”. Sì, il monachesimo è controcultura, cioè cultura altra, minoritaria ma, proprio per questo, capace di svolgere un ruolo determinante ed efficace nel lungo termine. Allora, non chiediamoci per chi e perché manifestano i monaci birmani: essi manifestano anche per noi, avvolti nella miope opulenza del nostro occidente malato di mancanza di senso. (Enzo Bianchi, La Stampa, 28 settembre 2007)

 

 

 


 

Lo scoop della trasmissione “Exit” (La7). Un processo sommario ai preti

L’accanimento sadico e perverso con cui i nemici della Chiesa di Cristo si impancano a paladini della moralità ecclesiastica è rivoltante. Rivoltante e ipocrita, perché rivela la doppiezza di chi rimprovera al Clero come colpe e vizi quegli stessi comportamenti dei quali pretende tolleranza se sono tenuti dai laici. È il caso di “Exit” (La7), che nella puntata dello scorso 1° Ottobre ha trattato il tema dei preti omosessuali: la parzialità dei conduttori e degli ospiti si è accompagnata a servizi abilmente manipolati e faziosi, nell’assenza di una controparte. E riprese dolosamente effettuate con la complicità di equivoci personaggi.

Oltre ad Amicone, già designato difensore d’ufficio e sincero nel suo ruolo fino al patetico, era stato invitato il ben noto Marco Politi – “vaticanista” di Repubblica tra molte virgolette – e si è data voce a personaggi sedicenti cattolici, che nel gioco delle parti hanno sostenuto la trita tesi secondo la quale la Chiesa romana opprimerebbe la libera espressione dell’amore colpevolizzando laici e chierici e portandoli a vivere nella clandestinità il loro legittimo desiderio di affettività. Un’affettività sui generis, che dimentica qualsiasi parvenza di relazione ancorché illecita, per immergersi nel fango della lussuria: chiamiamo le cose col loro nome.

Un omuncolo in abiti civili farneticava di sacerdozio alle donne e di accoglienza degli omosessuali, e si capiva ch’era un prete solo dalla didascalia in sovrimpressione. Il celibato ecclesiastico, presentato come un’anomalia tutta papista nel più vasto quadro delle denominazioni cristiane, si accompagnava a velenosi excursus sulla pedofilia del Clero, riproponendo con simulata compunzione le testimonianze di presunte vittime di abusi sessuali.

Eppure ci era parso di capire – nelle varie gogne mediatiche che vanno moltiplicandosi sulle reti pubbliche e private – che non si dovesse confondere pedofilia e omosessualità, e che la stessa lobby gay fosse pretestuosamente insorta scandalizzata, allorché attribuì a mons. Bagnasco un non dissimile parallelo, che peraltro egli si era ben guardato dal formulare. Certo è che in questa caccia censoria al sodomita in tonaca – si fa per dire, in tonaca – una voce e una presenza autorevole della Chiesa avrebbe forse potuto dare un’apparenza di credibilità e di contraddittorio a quello che invece si è dimostrato un processo sommario.

Lo scoop di “Exit”: ci sono sacerdoti che praticano abitualmente l’omosessualità anche nelle sue forme più squallide. Davvero una notizia da prima pagina, complimenti. E sempre uno scoop è l’aver rivelato che ci sono preti che frequentano le chat e i siti internet su cui si organizzano incontri clandestini, e chierici che nonostante le norme canoniche non esitano ad impartire l’assoluzione a chi vive in stato di peccato e non ha alcuna intenzione di emendarsi. Tutte novità inaudite: così inaudite che periodicamente – e parliamo di un trend ormai decennale – il miserevole ritratto dell’immoralità dei sacerdoti e dei religiosi viene rispolverato.

L’improntitudine dei moralizzatori dei vizi ecclesiastici mal si concilia con la loro servile attestazione di rispetto e sottomissione alle rivendicazioni della stirpe di Sodoma: quello ch’è giusto, bello, simpatico e addirittura da prendere a modello nelle pietose baracconate del Gay Pride – vero e proprio postribolo a cielo aperto – diventa poi riprovevole e scandaloso se è praticato dai preti. Vi possono essere circoli e club associati a movimenti gay, in cui la più rivoltante promiscuità è un diritto ed anzi un segno di modernità e di liberazione dagli orribili sensi di colpa della morale cattolica; vi possono essere luoghi reali e virtuali in cui l’anonimato legittima le oscenità più turpi e volgari, contando e lucrando proprio sulle frustrazioni e sul perbenismo ipocrita di questa società putrida e materialista; si può dire senza vergogna che il male è bene e che il vizio è virtù, in televisione, a teatro, nei libri, sui giornali, dalle cattedre, dai palchi dei concerti e financo dagli scranni del Parlamento; si dice e si ripete che la morale cattolica è innaturale, che è la causa di turbe psichiche e malattie psichiatriche, e che la libertà sessuale è un diritto fondamentale della persona. Ma se un sacerdote viene colto con le mani nella marmellata che gli si è subdolamente offerta, si grida allo scandalo, ci si straccia le vesti, si chiama in causa il Papa e il Vaticano, quasi ad invocare l’intervento del pur vituperato Sant’Uffizio.

Vergogna! La vostra ipocrisia non cerca – come sarebbe doveroso – la conversione del peccatore, ma usa surrettiziamente i suoi vizi per affossare e colpire la Chiesa di Cristo, vero e unico bersaglio di questi puritani a corrente alternata. Quando negli anni Settanta additavate al pubblico i concubinati del Clero, lo facevate per screditare la santità del Matrimonio, per instillare nelle masse sfiducia nella Chiesa ed aver mano libera nell’introdurre la legge sul divorzio. Quando parlate delle miserie contra naturam commesse da chierici, lo fate per sdoganare definitivamente l’omosessualità ed aprire la via alla legalizzazione delle convivenze gay. C’è da chiedersi se, quando gettate in pasto al popolo gli scandali sulla pedofilia dei sacerdoti, lo facciate perché volete preparare con lungimiranza la legalizzazione dei rapporti con i minori, o l’abbassamento dell’età del consenso.

La costante è la medesima: usate la Chiesa e la sua incontestata autorità morale, capovolgendone la missione, sfruttando l’eco delle miserie dei suoi membri per legittimare le vostre miserie, ben più radicate e diffuse e di cui voi siete gli stessi promotori ed artefici.  (Pietro Siffi, CADL, sabato 06 ottobre 2007)

 

 

 


 

7 ottobre 2007

 

La dotta ironia di Benedetto XVI sulle tasse

Anche nella contrarietà delle persone verso le tasse “si vede che alcuni corsi della storia non cambiano”. Lo ha affermato Benedetto XVI davanti a  circa 15 mila fedeli durante l'udienza generale del mercoledì. L’occasione è stata l’analisi da parte di Benedetto XVI della figura di san Giovanni Crisostomo, Padre della Chiesa vissuto nel terzo secolo, e in particolare di una serie di omelie pronunciate dal santo durante la cosiddetta rivolta delle statue. In quella circostanza la popolazione dell'Impero in Oriente cominciò a distruggere le statue dell'Imperatore contro l'imposizione delle tasse.

“Si vede che alcuni corsi della storia non cambiano...”, ha commentato papa Ratzinger con il consueto sorriso.

L’occasione è ghiotta per tornare brevemente sul tema che ha interessato il dibattito estivo sul dovere morale di pagare le tasse. Il tema è ampio e investe questioni complesse che meriterebbero uno studio più attento ed un’analisi più approfondita di quanto non sia consentito fare in un articolo di giornale. Ad ogni modo, le fonti non mancano e nelle poche righe che seguono vorrei evidenziare alcune ipotesi presenti in uno studio compiuto da un eminente storico americano, il prof. Leonard Liggio della George Madison University di Fairfax in Virginia. In un saggio pubblicato nel 2005 dall’editore Rubbettino (Dario Antiseri, Cattolici a difesa del mercato, a cura di F. Felice), Mercato e moneta nel pensiero ebraico e cristiano nell’era ellenistica e romana, Liggio mostra come molti degli scritti su etica ed economia riflettano il triste influsso della teologia della liberazione. Il punto è che, a parere di Liggio, “in gran parte, le teologie della liberazione ignorano la situazione storica ed assumono meramente i testi senza tentare di collocarli nel contesto nel quale essi furono scritti”. In particolare, i teologi della liberazione hanno indirizzato la loro attenzione principalmente sui testi dei Padri della Chiesa, riservando una particolare attenzione ai Padri del quarto secolo. Ad ogni modo, è a dir poco evidente che se se si leggono questi testi senza collocarli opportunamente nel giusto contesto storico – la società romana dei secoli precedenti – non è possibile neppure comprenderne l’autentico significato. Sappiamo che san Giovanni Crisostomo, san Basilio e molti altri padri dell’Oriente condividevano un retroterra culturale, religioso ed esistenziale di tipo monastico, provenendo da esperienze nelle quali avevano volontariamente rinunciato alla ricchezza, facendo voto di povertà e considerando quest’ultimo una speciale grazia di Dio. Con il tempo, alcuni di loro furono elevati a vescovi,  divenendo a tutti gli effetti portavoce della Chiesa, pur tuttavia conservando, inevitabilmente, una sensibilità ed una retorica fedeli al loro retroterra culturale.

Ad ogni modo, è sempre Liggio a farci notare che l’origine di alcune comunità monastiche, basti pensare alle prime comunità nella provincia egizia, nascono come grandi raggruppamenti popolati da persone che lasciavano le loro fattorie per dirigersi verso le paludi del delta del Nilo, al fine di fuggire dagli esattori. Scrive a tal proposito Liggio. “La società romana del secondo e del terzo secolo era diventata una società che essenzialmente faceva di tutto per raccogliere le tasse”. Sappiamo anche che la società romana era estremamente militarizzata e che l’esercito finiva per assorbire necessariamente ingenti somme di denaro pubblico. Per il mantenimento dei soldati, dunque, l’intera popolazione fu assoggettata ad una pesante tassazione (anche quelli erano percepiti come “diritti acquisiti” e spese intoccabili). Le cronache dell’epoca registrano che si giunse al punto che il governo dovette assegnare alla classe dirigente – le persone ricche della società – il compito di raccogliere ogni anno grandi somme di denaro e, qualora non l’avessero fatto, sarebbe scattata un’odiosa punizione: la somma mancante sarebbe stata presa direttamente dal loro patrimonio. Qualora non avessero posseduto un patrimonio sufficiente a pagare il debito (l’impegno) contratto con il governo, le loro proprietà sarebbe state comunque espropriate ed avrebbero smesso di essere uomini liberi, potendo essere venduti come schiavi. Così si è sviluppato un grande ed impietoso sistema  per il prelievo fiscale e, parafrasando l’odierna battuta di Benedetto XVI: “nulla di nuovo sotto il sole”, nel contempo, le popolazioni hanno cominciato ad attrezzarsi per evitare di subire passivamente una simile crudeltà.

Quindi, fa notare Liggio, contrariamente a quanto sostengono le numerose vulgate che provengono dai teorici della teologia della liberazione, quando i Padri della Chiesa criticano i ricchi per l’esazioni, non si riferiscono ai ricchi in quanto tali, ma esattamente a coloro tra di essi che erano costretti dal governo a diventare esattori delle imposte e, per sopravvivere senza diventare schiavi, dovevano essere certi che nessuno potesse sottrarsi al pagamento delle tasse; si trattava di una questione di vita o di morte – di libertà o di schiavitù: “E così è sorto un sistema nel quale tutta la società è costruita intorno alla riscossione e all’evasione fiscale”. È interessante, a questo punto, evidenziare come un gran numero di persone, per evitare gli odiati esattori, decisero di lasciare le loro fattorie e le città nelle quali vivevano per trasferirsi nelle campagne, in territori selvaggi e malsani, inaccessibili al controllo asfissiante ed occhiuto del fisco. Sicché, dal momento che molte di queste persone erano fervidamente religiose, furono proprio loro a dar vita ad alcune delle prime comunità monastiche; comunità libere di persone che fuggivano dalle vessazioni fiscali.

Scrive Saviano, padre della Chiesa del V secolo, ne Il governo del mondo:

“Quali città, quali comuni e quali villaggi esistono in cui non ci sono tanti tiranni quanti gli esattori delle imposte? È probabile che essi si glorino del nome di tiranni perché hanno la parvenza di essere ritenuti potenti e degni d’onore. Esisterà mai un luogo, come ho detto, dove le viscere delle vedove e degli orfani non vengano divorate dai potenti della città, e con loro quasi tutti i Santi? Nel frattempo i poveri vengono saccheggiati, le vedove gemono, gli orfani sono soggiogati, e molti di loro – e non sono di nascita oscura e hanno ricevuto un’educazione liberale – si affidano ai barbari per timore di morire per il dolore della persecuzione pubblica. Essi cercano tra i barbari la dignità dei romani, perché non possono sopportare l’indegnità barbara tra i romani.”

Era l’epoca delle grandi invasioni barbariche, in forza delle quali le tribù barbare penetrarono fino al cuore dell’impero romano. Fa notare Liggio: “Uno degli aspetti sorprendenti di ciò è che essi erano accolti come liberatori da gran parte dei cittadini romani dal momento che essi non imponevano strutture fiscali, la soffocazione del commercio e della ricchezza, che erano imposte dell’amministrazione romana”. E continua Saviano:

“Essi abbandonano le loro abitazioni per timore di essere torturati proprio nelle loro stesse case. Cercano asilo per timore di patire le pene della tortura. Il nemico è più indulgente con loro rispetto agli esattori delle imposte. Questo è dimostrato proprio dal fatto che fuggono verso il nemico per sottrarsi a tutta la forza dell’imposizione di tasse opprimenti.”

Come si può notare il tema è scottante per la sua attualità politica e ricco di implicazioni teoriche, sia nel campo dell’economia sia in quello della teologia. Ad ogni modo, credo che si possa onestamente riconoscere come il riferimento ironico di Benedetto XVI ad un Padre della Chiesa del terzo secolo abbia il merito di evidenziare una realtà storica con profonde ricadute sull’azione politica. Si tratta di una realtà che, a partire dal dato meramente economico, invero, interessa la dimensione esistenziale più intima degli esseri umani, delle loro famiglie, del loro lavoro e delle loro imprese, finendo per interpellare le ragioni del loro essere e sentirsi liberalmente – più o meno – parte attiva e solidale all’interno di un qualsiasi corpo sociale. È un tema la cui urgenza è sotto gli occhi di tutti. Di questo, mi auguro, al di là dell’ironia, voglia prendere atto chi ha responsabilità politica: a qualsiasi livello, che sia al governo o all’apposizione. È in gioco nient’altro che la libera e pacifica coesione sociale del Paese! (Flavio Felice, L’Occidentale, 20 Settembre 2007)

 

 

 


 

Il Grillo urlante

Cavalcare l’onda della “disperazione” di milioni di cittadini è cosa facile: ripetere sgangheratamente, come sta facendo Grillo, quello che la folla desidera sentirsi dire, oltretutto con un “colorito” linguaggio da trivio, è un viale tutto in discesa, sul quale peraltro il guitto genovese si è lanciato a folle velocità, auto-candidandosi difensore civico degli oppressi.

I suoi ragionamenti dell'ovvio, se non fosse per le continue e becere offese al buon gusto, sarebbero anche condivisibili, ma quello che non è in alcun modo condivisibile è quel puntiglioso voler coinvolgere a tutti i costi, in questo suo demenziale monologo, la Chiesa, la religione cristiana, e quella fede che da secoli è geloso patrimonio del popolo italiano. In particolare trovo molto vigliacco questo suo vomitare gratuite oscenità nei confronti del Papa, una persona umile, signorile e mansueta come poche, che per noi cattolici rappresenta Cristo.

Se il comico, in ambienti cabarettistici, ha gradualmente perso il senso della misura e del decoro, adottando epiteti irripetibili e volgari nei confronti di Dio e della Chiesa, volti a strappare consensi e risate altrimenti impossibili, in pubblico, di fronte a migliaia di persone (al mondo intero attraverso i media), dovrebbe quantomeno riappropriarsi di un minimo di buon senso e di rispetto. Ma tant'è: questi valori Grillo non li capisce, e continua imperterrito a irridere il papa, come ha fatto recentemente sul palco di Jesolo, dov’era in tournée: lo ha definito «un amministratore delegato tedesco che gestisce due milioni di lavoratori in nero», alludendo sarcasticamente a preti e suore, i quali tra l’altro - lo sa Grillo? - sono regolarmente stipendiati e pagano le tasse.

Del resto lui non fa mistero del suo anticlericalismo da avanspettacolo: il 12 maggio scorso, ad esempio, in occasione del Family Day tanto sponsorizzato dalla stampa cattolica, in controtendenza lui mandò on-line su Internet, in anteprima assoluta, il famigerato video della Bbc secondo cui i preti sono tutti, o quasi tutti, pedofili, e Ratzinger il loro protettore. E che dire del video intitolato (scusate la citazione) «Vaffanculo a Benedetto XVI», ancora presente in rete su Youtube?. Del suo "è meraviglioso" esclamato riportando il fatto di quei ragazzini che si divertivano a prendere a calci l'effige di Benedetto XVI?

Tutto ciò è veramente sconcertante: una lucidità folle, quella di Grillo, che lui ha messo a servizio dell'unico suo scopo: quello di riconquistare notorietà e ricchezza, calpestando qualunque simbolismo cattolico gli ricordi valori imprescindibili, non disdegnando di pianificare la sua escalation alle spalle di cittadini realmente in difficoltà, vessati da una situazione politico economica assurda.

Allora mi viene da dirgli: rinsavisci caro Grillo urlante..., ridimensionati: perché prima o poi qualcuno dei tanti che hanno creduto in te, potrebbe presentarti il conto,  chiedere le tue credenziali. E questa volta non si tratterebbe più di farsi firmare deleghe di rappresentanza dai piccoli azionisti in difficoltà e sul punto di perdere tutto, come è successo per l’affare Telecom, per il quale ti eri così tanto indaffarato a strombazzare un tuo intervento risolutore: ma ricordi? dopo la prima seduta, in cui ti sei distinto per mutismo e disinteresse, hai immediatamente disertato l'assemblea... lasciando cader nel nulla le attese fiduciose dei tuoi mandatari.

Questa volta, caro Grillo, il gioco è più pesante: qualcuno, aprendo gli occhi, potrebbe chiederti ragione di tante cose... di come, ad esempio, riesci a far combaciare il tuo attuale apparire da proletario squattrinato e nullatenente, con lo status symbol di cui fino a ieri andavi così fiero, pupillo della stampa salottiera e mondana. Ma chi sei veramente Grillo? un Vip caduto in disgrazia? Dissipatore di patrimoni con una esistenza non proprio oculata e trasparente? Tu stesso hai parlato di te: la condanna penale per omicidio colposo, l’auto di lusso Ferrari (che dici di aver venduto), lo splendido yacht (che dici di aver venduto) le ville di proprietà a Genova e in Toscana (“case” che dici di non aver venduto!): a questo punto, non ti sembra che questo tuo improvviso populismo, preoccupato a disquisire di "massimi sistemi", non miri piuttosto, terra terra, a colmare una tua altrettanto improvvisa défaillance economica?

Ma no: tu rassicuri tutti giurando che la ricchezza non ti interessa, che non intendi far politica… questa politica gestita da arricchiti disonesti: ma intanto ti prepari seriamente ad essa con le sottoscrizioni alle liste civiche, e cerchi astutamente il consenso delle folle…  garanzia di sicuro successo! Affermi anche di essere tra i primi trenta contribuenti italiani... perché tu le paghi le tasse! E allora, attento caro Grillo urlante: non seminare illusioni di facili e sbrigative soluzioni... perché se ciò che affermi corrisponde al vero, l'abissale divario patrimoniale esistente tra te e quei poveracci che ti vengono ad applaudire nelle piazze, prima o poi ti creerebbe dei problemi, finendo col posizionarti, nella loro gerarchia dei valori, alla pari proprio con quei politicanti rapaci e ingordi, con quei ricchi imprenditori miliardari senza scrupoli che parlano di carestia con la pancia e i portafogli pieni che tu, tanto sagacemente, metti alla berlina.

Giustamente però questi sono affari tuoi! e non mi devono interessare più di tanto, soprattutto in questa sede. Ma ciò che mi interessa veramente di dirti  e tu me lo devi consentire, è che la devi smettere una buona volta di fare il giullare buffone (non sei l'unico... un premio Nobel ti ha preceduto!), che non perde occasione di irridere sboccatamente idee, cose e persone che, intimamente legate alla sensibilità religiosa degli italiani, trascendono le tue possibilità di comprensione. Dove non arrivi con l'intelligenza, ti sia di guida l'educazione, il rispetto, il buon senso. Perché tienilo bene a mente, caro Grillo: non tutti gli italiani sono grulli! (Mario Labio)

 

 

 


 

Costi della Chiesa, svarioni e verità:

La Chiesa come la politica? Con un notevole sforzo, parecchie omissioni e un pizzico di demagogia, perché no? È l’operazione tentata ieri da Repubblica, ben tre pagine firmate da Curzio Maltese, coadiuvato da Carlo Pontesilli e Maurizio Turco. Alla fine delle quali, a forza di "all’incirca" e di "stime", di ipotesi e di proiezioni, si conclude che la Chiesa "costa" agli italiani più di quattro miliardi di euro all’anno, "una mezza finanziaria, un Ponte sullo Stretto o un Mose". Detta così, fa impressione. Malachiesa uguale a malapolitica, soldi a palate, agio e ricchezza. Chi però frequenta una parrocchia strabuzza gli occhi: dov’è tutta questa ricchezza? Nella parrocchia vicina, forse? No. Che si intaschino tutto i vescovi? La grande foto furba di pagina 31, con il dettaglio di una croce pettorale e un anello episcopale, e il titolo "I soldi del vescovo", potrebbero ammiccare in tal senso. Le remunerazioni di preti e vescovi le trovate in questa pagina. Cifre pubbliche, però omesse dalla Repubblica che pure riproduce le due tabelle sull’otto per mille, di fonte Cei. Perché? Sono stipendi non abbastanza alti per suscitare riprovazione, o così bassi da indurre un effetto contrario? Poiché la verità non è valida se non la si dice per intero, diamo un aiutino a Maltese e ai suoi collaboratori.
Quanti euro in carità?
"Su 5 euro incassati dal gettito Irpef - è in evidenza in un sommario - 1 va alla carità. Il resto tra culto e immobili". Non è corretto leggere l’impegno della Chiesa nel nostro Paese attraverso la schema rigido di un rendiconto amministrativo, impostato secondo le voci di spesa - che devono rispondere alle formulazioni di legge - ammesse con i fondi dell’otto per mille destinati alla Chiesa. L’attività concreta non è catalogabile solo secondo alcune voci, generiche e imprendibili. Per dire: il prete che ispira e anima un progetto di carità finisce sotto la voce "sostentamento del clero". I volontari della carità sono formati attraverso progetti pastorali. E mense, centri di ascolto e case d’accoglienza, immobili a servizio della carità, finiscono sotto la voce "culto e pastorale". La parrocchia stessa educa alla carità e compie in prima persona opere di carità: sotto quale voce la mettiamo? A proposito di preti, nel sistema ne sono inseriti circa 38 mila, di cui appena tremila in "quiescenza", vale a dire in pensione. Chi ha un parroco ottantenne, sa bene che in pensione un prete non ci va mai, e "molla" soltanto quando il fisico non gli regge proprio. Quanto "costa un prete"? Costa poco, rende tanto e non si ferma mai. E chi serve? Soltanto i battezzati, soltanto i praticanti? No, è a servizio di tutti.
6.275 interventi in 15 anni
Tanto improvviso interesse per le opere di carità della Chiesa italiana è sorprendente. Due anni fa il Comitato per gli interventi caritativi del Terzo Mondo (con i fondi otto per mille) pubblica "Dalle parole alle opere", un volume di 386 pagine con il resoconto dettagliato, con nomi, indirizzi, tipo d’intervento e cifre al centesimo, dei 6.275 interventi finanziati in tutto il mondo tra il 1990 e il 2004, per un totale di 719 milioni di euro. Grazie alla generosità degli italiani, si è passati dai 13 milioni di euro del 1990 ai 66 del 2003. Ebbene, di quel resoconto non parlò nessun giornale: disinteresse totale, allora. Oggi insinuazioni, genericismi. No, signori, è tutto documentato. Basta aprire il documento, che è già nelle vostre redazioni.
Otto per mille, ecco chi firma
L’otto per mille stesso è ancora, in larga parte, un oggetto sconosciuto. Gli italiani firmano in massa per la Chiesa cattolica? Occorre sminuire il risultato. Maltese ci prova: "Il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille" ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" (…) la Cei si accaparra quasi il 90 per cento del totale". Il 35 per cento, una minoranza dunque… Intanto, a partecipare con la firma sono 16 milioni di italiani: in assoluto, non pochi. Se poi consideriamo chi presenta il 730 o l’Unico, i firmatari sono il 61,3 per cento, una percentuale superiore a quella di molte consultazioni assimilabili a questa. Ad abbassare la percentuale sono i 13 milioni di italiani che non sono obbligati a presentare la dichiarazione, chi ad esempio ha il solo Cud. Costoro - nella grande maggioranza anziani, spesso soli - sono costretti a operazioni complicate e scoraggianti: qui infatti la percentuale di firme si riduce all’1 per cento. Sulla configurazione sociologica degli anziani tuttavia ci sono studi a non finire. Perché non fate, signori, anche qui una proiezione ponderata?
Una stima crescente
Magari tutti firmassero e firmare fosse per tutti agevole. Un’indagine del 2006 sul consenso degli italiani all’operato della Chiesa parla di un giudizio molto o abbastanza positivo da parte del 70 per cento della popolazione; nel 2001 era del 60. È un secondo indizio della stima di cui gode la Chiesa, per Maltese "non eletta dal popolo e non sottoposta a vincoli democratici". Non è esattamente così. L’otto per mille non dà alcuna garanzia alla Chiesa, che ogni anno si sottopone al giudizio (democratico) dei cittadini, che possono darle la firma o rifiutargliela. Le garanzie, se così vogliamo chiamarle, c’erano semmai prima del Concordato del 1984, quando ancora i preti privi di altri redditi ricevevano dallo Stato il cosiddetto "assegno di congrua", che veniva dato in sostituzione dei beni ecclesiastici incamerati dallo Stato nell’Ottocento. Garanzie a cui la Chiesa ha rinunciato, in accordo con lo Stato, rimettendosi alla volontà degli italiani. L’otto per mille è una forma di democrazia diretta applicata al sistema fiscale, che qualche nazione ha copiato e mezza Europa ci invidia.
Le quote? Decide l’Assemblea
E la parte di otto per mille che va alle singole diocesi? Il servizio di Maltese insinua che sia una forma di ricatto da parte della presidenza della Cei, per premiare i vescovi docili e punire gli indocili, che difatti non ci sono perché, secondo lui, tutti tacciono, tranne qualche emerito. Naturalmente le cose non stanno così. Non è assolutamente vero che due o tre decidono per tutti. La quota per le diocesi - decretata ogni anno dall’Assemblea generale dei vescovi per alzata di mano - viene distribuita per una parte in porzioni uguali a tutti, per un’altra quota in base alla popolazione. Dunque, criteri oggettivi. Certo, le diocesi devono rendere conto al centesimo di come hanno destinato la propria quota di otto per mille. Per legge. Ma anche gli altri contributi, come quelli per edificare i centri parrocchiali o restaurare i beni culturali, vengono distribuiti secondo precisi regolamenti,criteri e controlli oggettivi. Ma davvero Curzio Maltese pensa che i vescovi siano un’accozzaglia di gente sprovveduta che attendeva Repubblica per aprire gli occhi?
Ici, tutti gli esenti
Verrebbe voglia di lasciar perdere il capitolo Ici e Irap. I nostri lettori sono stanchi di leggere precisazioni ostinatamente ignorate dai soliti giornalisti. Per i dipendenti laici, diocesi ed enti ecclesiastici pagano l’Irap; non così se si tratta di sacerdoti che è difficile immaginare come meri impiegati. Tutti però, laici e preti, pagano Irpef e contributi. Quanto all’esenzione dall’Ici prevista dalla legge 504 del 1992, e che fino al 2004 non aveva suscitato nessun problema, essa riguarda tutti gli enti non commerciali, categoria nella quale rientrano certamente gli enti ecclesiastici ma che comprende anche: associazioni, fondazioni, comitati, onlus, organizzazioni di volontariato, organizzazioni non governative, associazioni sportive dilettantistiche, circoli culturali, sindacati, partiti politici (che sono associazioni), enti religiosi di tutte le confessioni e, in generale, tutto quello che viene definito come il mondo del non profit. Gli alberghi pagano, le case per ferie o le colonie no. A un albergo non basta la cappellina per non pagare, anzi dovrà pagare l’Ici anche sulla cappellina; e i Comuni hanno gli strumenti per accertare se qualche albergo, chiunque ne sia il proprietario, si "traveste" da casa d’accoglienza. Anche qui, niente trucchi.
I conti in tasca
"Fare i conti in tasca al Vaticano…" scrive Maltese. Ci risiamo. Confondere la Cei (vescovi cittadini italiani a servizio del Paese) con il Vaticano è errore da bocciatura all’esame da giornalista. Eppure ci tocca ancora leggere dell’"otto per mille al Vaticano". Citare "come fonte insospettabile" la Cei va benissimo, i problemi sorgono quando ti ritrovi citato a metà, e la metà omessa è regolarmente quella scomoda all’autore dell’inchiesta. Quanto alla presunta scarsa libertà all’interno della Chiesa, è curioso che Maltese e collaboratori riportino proprio le cifre rese note (non nascoste) dalla Cei, e citino due giornalisti cattolici. La prossima puntata, per dirla davvero tutta? Non "i soldi del vescovo", ma… "i debiti del vescovo". Aiuta, sfama (la pancia, ma soprattutto l’anima), educa, costruisci e ripara… Alla fine è difficile non finire in rosso. Il rosso di chi restituisce tutto quello che riceve dagli italiani, e oltre. (Umberto Folena, Avvenire, 29 settembre 2007)

 

 

 


 

«Il piccolo ateo»: l’ultimo opuscolo che insidia le nostre scuole

L’ateismo di Martorana, l’autore, è filosofia da bocciofila. «Quando nasciamo in ospedale, c’è sempre una perfida suora che ci preleva dalla culla e ci porta dal prete a battezzarci. Quando stiamo per morire, occorre stare molto attenti, altrimenti ci si ritrova un prete vicino che cerca di arruolarti fra i credenti. A un cristiano l’intelligenza, l’istruzione non servono, anzi gli risultano dannosissime. La religione cattolica rende gli uomini schiavi. E questo loro Dio, è un mattacchione che si annoiava a non far niente, e allora ha creato la vita e la morte, per perseguitarci sia da vivi che da morti. Il paradiso, il purgatorio, l’inferno? Ma dove lo troverebbe il tempo, il personale dell’aldilà per smistare le anime, con tutti quelli che muoiono in un giorno?». Antologia di argomenti tratti da "Il piccolo Ateo. Anticatechismo per i ragazzi", di Calogero Lillo Martorana, insegnante napoletano. Il libretto circola nelle scuole del Nord Italia. Stampato a grandi caratteri, facile di lettura, vorrebbe essere un abbecedario del giovane miscredente, da indirizzare sulla retta via dell’avversione a crocefissi e chiese.
A dire la verità, chi legge fatica, dopo qualche riga, a non ridere. Ce n’è di tutte, una più grossa dell’altra. Da dove si prendono le anime per i neonati? E chi le mette «dentro»? Come andranno, poi, le anime all’inferno? Su treni speciali? O in autobus? si domanda l’autore. Nel commovente tentativo di parlare un linguaggio accessibile ai bambini. I quali tuttavia, contrariamente a quanto pensano certi adulti, sono piccoli, ma non cretini. Al di là delle ipotesi amene, l’idea della suora che ti rapisce per battezzarti, o del prete in agguato al capezzale del morente, rivelano qualcosa di simile a ciò che i medici chiamano delirio di persecuzione: la fobia di una Chiesa piovra, una faccenda psichiatrica. Beh, ti dici, in questa Italia «cattolica e oscurantista» siamo liberi, anche di raccontare barzellette su una fede in cui pure in moltissimi si riconoscono. Se il signor Martorana sta preparando la versione in arabo del suo volume, per i fedeli islamici, ci permettiamo di consigliargli prudenza. E però l’ateismo non è questa filosofia da bocciofila. Il rifiuto di Dio può essere una posizione umana seria, talvolta drammatica. Meriterebbe di essere argomentato con ragioni che non siano battute da cabaret. Duemila anni di storia, da Paolo a Tommaso ad Agostino, duemila anni segnati da Dante, Raffaello, Michelangelo, meritano di più della dialettica del professor Martorana. Che ai fanciulli spiega, tra una battuta e l’altra, che «non c’è il bene sicuro e non c’è il male sicuro, tutto dipende da come pensiamo le cose». Sotto alla leggenda delle suore rapitrici, cenni elementari di relativismo; e la fede come consolazione per idioti. Niente di nuovo, e anzi tutto già molto visto – con una nota di più acida acrimonia oggi parecchio diffusa. Come di chi non si capacitasse che quel Dio dato trent’anni fa per morto, sia fastidiosamente ancora vivo. Ma a un certo punto il professore scrive: «È così semplice accettare che si muore e basta!». Che bisogno c’è di Dio, insomma? È così facile accettare la morte. E qui, pensiamo che anche i più volonterosi apprendisti atei si fermeranno a pensare. Semplice, accettare la morte? Anche un bambino, se ha già perso un nonno, un amico, perfino un cane, sa che è terribilmente difficile, rassegnarsi alla morte. Pensare a noi stessi come a un nulla sospeso nel nulla, contraddice la più radicale pretesa dei bambini, anche a tre anni: che l’amore di chi ti è accanto, sia per sempre. Di modo che questo libretto lo faremmo leggere ai nostri figli. È semplice, tu credi, rassegnarsi alla morte? chiederemmo. E a partire da questo, da quella domanda stampata addosso come un’impronta originaria cercheremmo di dare, della nostra speranza, la ragione.

(Marina Corradi, Avvenire, 21 settembre 2007)

 

 

 


 

La punizione è un diritto ...del figlio

Siamo riusciti a dire dei no. E a mantenere il divieto la prima volta. Poi nostro figlio ha insistito e abbiamo abbassato via via il livello di quel no. Alla fine non ce l'abbiamo fatta più, ci sentivamo in colpa... ». Eccolo che tende l'agguato, il senso di colpa, il peggior alleato della sfida educativa dei genitori. Fissata una regola, questa va rispettata. E se viene infranta? Deve scattare la punizione. «Ma i genitori hanno difficoltà a punire i figli, non sanno reggere l'urto quando la regola viene infranta. Applicando un castigo si sentono soprattutto in colpa», spiega don Nicola Giacopini, sacerdote salesiano, docente di Psicologia della Famiglia presso l'Isre, la Scuola di Formazione presso l'Istituto salesiano San Marco della Gazzera.
Invece, spiega don Giacopini, è importante che i genitori conoscano questa fondamentale verità: «E' più difficile per un genitore dire un no che per un figlio sentirselo dire. Mentre il genitore sarà divorato dal senso di colpa è molto probabile che il figlio dopo un po' se ne sia già dimenticato». Perché il problema sta più nei genitori che nei ragazzi; genitori che, dopo aver pronunciato un sacrosanto no, stanno lì ad arrovellarsi e a chiedersi: "chissà lui come mi vede ora". E invece, sapendo che quel no pesa meno di quanto si creda, risulterà più semplice punire un figlio che sgarra.
La punizione come diritto. Del figlio. Più semplice ancora se si considererà la punizione come un diritto del figlio. Proprio così: il figlio ha diritto di ricevere il giusto castigo per la malefatta combinata.
Questo perché, spiega don Giacopini, la punizione contiene in sé la riabilitazione: ho sbagliato, vengo punito, mi pento dell'errore e ricomincio da zero annullando quella macchia. «Si deve far capire che quel che si fa ha delle conseguenze. Ma al tempo stesso si deve trasmettere il messaggio al ragazzo che come ha fatto del male così può fare anche del bene: può riabilitarsi». Si tratta, spiega il salesiano, del diritto/dovere di restituzione. L'esempio raccontato da un genitore è calzante. Una mattina il figlio di 7 anni, piuttosto vivace, ne aveva combinate davvero di tutti i colori. Quel giorno la famiglia aveva programmato una gita allo zoo, una felicità per ogni bambino. Ma una volta arrivati là i genitori si accorsero che il bimbo non era del solito umore, non era per niente felice di essere là. Spiegò infatti ai due genitori stupefatti che, per quel che aveva combinato al mattino, si sarebbe aspettato qualcosa, una punizione. E' un caso limite, certo, ma esprime perfettamente il concetto del diritto alla riabilitazione: il bimbo aveva riconosciuto di aver sbagliato e contava nella punizione per riabilitarsi. Punizione che non necessariamente doveva essere la mancata gita allo zoo, bastava che gli venisse imposto di rimettere in ordine tutto quel che aveva spostato in quella mattinata così irrequieta. «La punizione andava data, era per lui un'occasione di crescita. In questo senso era un diritto».
Ritorno al rigore. Infine una considerazione per così dire storica. Prima degli anni '60-'70 nell'educazione dei figli il pendolo era tutto spostato sul polo della disciplina. Dopo, i "sessantottini" che avevano contestato le rigide regole impartite in famiglia hanno spostato il pendolo sul polo opposto, quello dell'accondiscendenza, della serie "va bene tutto, purché siamo d'accordo", in un rapporto paritario. «Oggi i genitori si stanno rendendo conto che c'è bisogno di porre dei limiti. Così - è l'opinione di don Giacopini - si può rimettere quel pendolo al centro». (GV-online, 27 settembre 2007)

 

 

 


 

Motu proprio: Betori rimette ordine in casa.

Nella conferenza stampa di chiusura del consiglio permanente della conferenza episcopale italiana, il segretario generale della CEI, Giuseppe Betori, ha sorprendentemente smentito che dei vescovi abbiano chiesto un regolamento applicativo – cioè più restrittivo – per l’Italia del motu proprio papale “Summorum pontificum” che ha liberalizzato la messa nel rito romano antico [vedi “approfondimenti” della scorsa settimana].

Betori ha ammesso che “ci sono state sensibilità diverse, cioè più attente all’una o all’altra dimensione pastorale dell’applicazione del testo, anche per far sì che non si ingenerino tensioni all’interno della comunità”. Ma ha tenuto a rimarcare che le conclusioni sono state di sostegno alla decisione di Benedetto XVI, come risulta da questo passaggio del comunicato finale:

“Quanto all’applicazione del motu proprio ‘Summorum pontificum’, relativo all’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, entrato in vigore il 14 settembre scorso, i vescovi hanno ribadito la piena e filiale adesione alle disposizioni del Santo Padre, apprezzando la sua sollecitudine per l’unità della Chiesa, valore che sussiste non solo nello spazio ma anche nel tempo e non ammette contrapposizioni o cesure tra le diverse fasi del suo sviluppo storico. Consapevoli del loro ruolo di promotori e custodi di tutta la vita liturgica nella Chiesa particolare loro affidata, si impegnano a seguirne con attenzione e accompagnarne l’applicazione, anche in vista del resoconto per la Santa Sede, che il papa stesso ha chiesto loro di preparare a tre anni dall’entrata in vigore del provvedimento”.

“Se qualche vescovo rifiuta l’applicazione del motu proprio, esce dalla linea della conferenza episcopale Italiana”, ha ammonito Betori.

Il segretario della CEI ha fatto cenno anche al caso della diocesi di Milano. Il motu proprio, ha detto, non riguarda il rito ambrosiano: “È una questione di autonomia del rito ambrosiano rispetto al rito romano. Lo stesso varrebbe per altri riti: greco-cattolico, caldeo, mozarabico”.

E in effetti, il “Summorum pontificum” parla solo di rito “romano”. In quei pochi territori della diocesi di Milano che seguono il rito romano, il motu proprio è entrato in vigore. Mentre per il resto vale, per ora, quanto affermato da monsignor Luigi Manganini, arciprete del Duomo e vicepresidente della commissione per il rito ambrosiano: “Per quanto riguarda le parrocchie di rito ambrosiano, che è un rito autonomo con un suo capo-rito nella persona dell’arcivescovo di Milano, non avendo riscontrato in questi anni particolari istanze, non riteniamo debbano rientrare nel motu proprio. A Milano c’è già dal 1988 una chiesa dove si celebra ogni domenica la liturgia [ambrosiana] antica, al Gentilino. E continuerà”.

È possibile però che in futuro Roma emetta una nota in proposito. Per estendere anche al rito ambrosiano – antico e nuovo – le disposizioni del motu proprio. (Sandro Magister, 26 settembre 2007)

 

 

 


 

A 6 anni dall'11 settembre. Il prof. Baggio: rifiutare la logica dello scontro di civiltà

Gli attentati terroristici alle Torri Gemelle sono percepiti dall'81 per cento degli americani come l'evento più importante della propria vita. E’ sufficiente questo dato, diffuso oggi dalla società demoscopica Zogby International, per comprendere con quali sentimenti il popolo americano commemora in queste ore il sesto anniversario degli attacchi dell’11 settembre 2001. Tuttavia, questa data con il suo carico di sofferenze, appartiene ormai a tutta l’umanità. Gli attentati a Madrid e Londra come in numerosi Paesi islamici moderati ricordano drammaticamente che nessuno può considerarsi immune dagli attacchi terroristici. Siamo dunque destinati a convivere con la paura del terrorismo? Alessandro Gisotti lo ha chiesto al prof. Antonio Maria Baggio, docente di etica politica alla Pontificia Università Gregoriana e profondo conoscitore della realtà americana:

R. – Ci siamo dentro da alcuni anni in questa situazione. Per la verità il terrorismo è un modo radicale, estremo e terribile nel quale sono emerse delle fratture e dei problemi che c’erano anche precedentemente. Certamente in nessun modo si può giustificare la scelta terrorista. Non c’è niente che può giustificare questo tipo di scelta. Certamente noi abbiamo una situazione mondiale con problemi grandemente irrisolti e, a volte, situazioni di reale ingiustizia e di povertà possono sembrare, ed è un errore ma può sembrare a qualcuno, che la soluzione possa essere avvicinata compiendo atti estremi.
D. – Con gli attentati dell’11 settembre, molti americani si sono chiesti per la prima volta: "Perché ci odiano?" Oggi sappiamo quanto l’antiamericanismo sia diffuso nel mondo. Si tratta di un fenomeno destinato a perdurare, secondo lei?
R. – Perdura finché perdurano le ideologie che sono portatrici di antiamericanismo. Mi spiego: l’antiamericanismo è stato un elemento del grande scontro che ci fu lungo il Novecento tra socialismo e capitalismo. Non possiamo pensare che, nonostante siano crollati i regimi socialisti, l’ideologia che li alimentava sia scomparsa. Le ideologie fanno parte delle mentalità e durano dunque a lungo: mutano, si camuffano, ma continuano ad avere dentro quel germe di odio per gli Stati Uniti, perché vengono identificati con tutto il male possibile che il capitalismo ha prodotto. Abbiamo, dall’altra parte, gli Stati Uniti che pensano a se stessi come ad una nazione eletta e molto spesso notiamo negli statunitensi una difficoltà ad autocriticarsi. Il ruolo che hanno nella situazione mondiale, per esempio, tende a far sì che si sottraggono ai giudizi e per cui essi espongono il fianco a delle critiche. Ma ricordiamoci sempre che la stessa esistenza degli Stati Uniti è qualcosa che tanti popoli del mondo hanno prodotto. Questo esperimento statunitense è stato fatto con il contributo di tanti popoli. Noi dobbiamo vedere anche la positività. Gli Stati Uniti sono stati e sono ancora la terra, dove noi scappando da dittature o semplicemente dalla fame abbiamo trovato la possibilità di ricominciare una esistenza.
D. – Nel discorso all’ambasciatore americano, il 13 settembre 2001, Giovanni Paolo II auspicò che questo atto disumano non fosse seguito da una spirale di violenza. Purtroppo non è stato così ed anche in quella occasione Papa Wojtyla fu profetico?
R. – Sì, è vero. Ricordiamo intanto che gli attentati di Washington e di New York hanno minato una certezza che esisteva fino ad allora: la certezza che lo Stato più forte del mondo non avrebbe mai potuto essere colpito al cuore da una forza superiore ed ha dimostrato che la forza, da sola, non è sufficiente per garantire la sicurezza, ma ci vogliono anche altre cose. Ecco perché è importante non soltanto il dispiegamento di una azione militare, che in certe situazione ci può anche essere, ma è importante creare condizioni di giustizia, di stima, di dialogo, perché la forza non basta. Purtroppo è stata seguita prevalentemente la strada della forza e questo in contraddizione diretta con la dottrina cattolica sulla pace e sulla guerra.
D. – Dopo l’11 settembre si è parlato molto di scontro di civiltà...

R. – Quando si parla di scontro fra civiltà si espone una teoria che razionalizza e cerca di far accettare una situazione di scontro fra religioni, fra culture, fra sistemi – diciamo – economici e culturali, che è stata creata. Non si tratta di una situazione naturale, che è stata prodotta – diciamo – dall’essenza delle religioni. Sono state, quindi, anche le scelte di questi anni che hanno scavato o hanno approfondito degli abissi tra i popoli che rendono più plausibile parlare di scontri fra civiltà. Quindi la dimensione della lotta va sempre messa insieme con un progetto di sviluppo e di dialogo di tutti i popoli. (Radio Vaticana News, 19 settembre 2007)

 

 

 


 

Pietà popolare e rinnovamento liturgico

Il rinnovamento liturgico ha influito sulla pietà popolare, e in particolare sul modo di sentire le forme di devozione mariana consegnateci dalla storia e care alla gente. La sfida è di saperle purificare e orientare verso la liturgia.

Il Direttorio su pietà popolare e liturgia compie cinque anni e, dopo un iniziale interesse, accompagnato da apprezzamenti e critiche, sembra oggi scomparso dall’orizzonte della riflessione pastorale. Questo significa che è stato accolto e "metabolizzato" dagli operatori pastorali e dai fedeli? Secondo la mia personale valutazione, sembrerebbe di no! Significa solamente che ognuno continua a fare quello che ha sempre fatto con la presunzione d’interpretare lo spirito della norma. Ed è proprio su questo che mi vorrei soffermare per una comune riflessione.

Il rinnovamento postconciliare, animato dall’idea di restituire al popolo di Dio l’azione liturgica mediante la partecipazione attiva, ha modificato anche il rapporto tra liturgia e devozioni popolari: l’aver ricentrato la preghiera cristiana sull’essenziale, ossia «il sacrificio [eucaristico] e i sacramenti attorno ai quali gravita tutta la vita liturgica» (Sacrosanctum concilium 6), ha avuto delle ripercussioni sulle forme di devozione accessorie. È facile capire che il recupero della portata indispensabile della liturgia per la vita cristiana ha messo in ombra ciò che è facoltativo (appunto le pratiche di devozione e i pii esercizi) e che per lungo tempo era stato inteso praticamente quale espressione rilevante della preghiera.

Di fatto la pietà popolare conosce oggi situazioni diverse e atteggiamenti opposti, come la critica esagerata o la difesa a oltranza. In certi Paesi, per situazioni politiche difficili o tradizioni invalse, la pietà popolare è ancora il modo più sentito di esprimere la fede da parte della gente; in altri Paesi è praticamente scomparsa o sono rimaste vive alcune forme legate a particolari giorni e luoghi; in altri, infine, stanno nascendo e sviluppandosi nuove modalità di pietà popolare. I pellegrinaggi e i santuari mariani, tuttavia, non conoscono crisi e insieme alla conservazione di pratiche tradizionali hanno incrementato la dimensione liturgico-sacramentale.

Evangelizzare la pietà popolare

La problematica in Italia è più o meno sentita a seconda delle regioni; le processioni e devozioni in occasione di feste patronali non hanno, infatti, mancato di richiamare il pronunciamento dei vescovi nelle regioni meridionali d’Italia, dove sono più vive le tradizioni ereditate da secoli.

Il criterio di orientamento fondamentale al riguardo resta il numero 13 della Sacrosanctum Concilium (pienamente accolto dal Direttorio su pietà popolare e liturgia del 2002) dedicato a forme di devozione non liturgiche, descritte come «pii esercizi» o «sacri esercizi». Il fatto che la liturgia sia «il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia» (cfr. SC 10) non esclude la preghiera privata (cf SC 11) né toglie spazio ai pii esercizi, purché siano conformi alle leggi e norme della Chiesa, soprattutto quando si compiono per disposizione della Sede apostolica; di speciale dignità godono anche i sacri esercizi delle Chiese particolari, che vengono celebrati per disposizione dei vescovi, secondo le consuetudini e i libri legittimamente approvati (cfr. SC 13).

I pii esercizi non hanno lo scopo di sostituirsi alle azioni liturgiche né di mescolarsi ad esse, essendo «la liturgia per natura sua di gran lunga superiore ai pii esercizi»: pertanto, continua Sacrosanctum concilium 13, «bisogna che tali esercizi siano regolati tenendo conto dei tempi liturgici e in modo da armonizzarsi con la liturgia; derivino in qualche modo da essa e ad essa introducano il popolo». Sono questi i principi conciliari, sobri ma preziosi, per valutare e orientare la pietà popolare nei confronti della Vergine, approfonditi nell’Esortazione apostolica Marialis cultus (2 febbraio 1974) e ripresi dalla Lettera della Congregazione per il culto divino Orientamenti e proposte per la celebrazione dell’anno mariano (3 aprile 1987).

L’armonizzazione con la liturgia non significa trasformare in espressioni liturgiche (peggio in ibridismi e sovrapposizioni) le manifestazioni della pietà popolare, che hanno uno stile e un andamento proprio, ma il necessario raccordo salvaguardando la differenza e complementarità degli ambiti e dei generi.

È indispensabile che contenuti e forme della pietà popolare siano modulati e rinnovati secondo le note (trinitaria, cristologica ed ecclesiale) e gli orientamenti (biblico, liturgico, ecumenico, antropologico) illustrati magistralmente da Paolo VI ai numeri 24-39 della Marialis cultus. La predicazione e la catechesi mariana sono un momento privilegiato per promuovere sia i valori indiscussi contenuti in svariate forme di pietà (religiosità) popolare, sia la loro evangelizzazione e purificazione.

La parola chiave: "rinnovare" alla luce del Vangelo e della liturgia

La tradizione di novene e tridui preparatori a feste, sorta in periodi in cui i fedeli attingevano scarsamente alla liturgia, ha sostenuto la vita spirituale di generazioni di fedeli. Nel tempo presente, tuttavia, tali pratiche sono ancora un’ottima occasione di catechesi e formazione, ma non devono concorrere con la liturgia, né mescolarsi ad essa. Ad esempio la novena dell’Immacolata non può soppiantare il tempo di Avvento.

In tale linea, anche le pratiche dei "mesi mariani" (che si sono sviluppate in Occidente indipendentemente dal ciclo liturgico) debbono sapientemente essere sintonizzate e rinnovate alla luce della liturgia. Ad esempio, il mese di maggio non può che armonizzarsi con il tempo pasquale col quale coincide, ponendo in risalto soprattutto la partecipazione di Maria al mistero pasquale-pentecostale di Cristo e della Chiesa.

Lo spirito che ha suscitato il rinnovamento della liturgia deve quindi guidare pure il rinnovamento dei pii esercizi e delle devozioni in onore di Maria, in modo che anche nella pietà popolare traspaia la corretta comprensione della presenza della Madre del Signore nella vita spirituale dei fedeli.

La miglior via per rinnovare le forme tradizionali è di impregnarle della parola del Vangelo e di ispirarle alla liturgia; al riguardo, non si può dimenticare che all’abbandono di pratiche tradizionali si è tuttavia accompagnata la fioritura di celebrazioni della parola di Dio su tema mariano.

Il recupero dell’ispirazione biblico-liturgica deve portare in qualche modo a rivedere i testi di preghiere e canti popolari rivolti alla Vergine; similmente le processioni, gli ex voto e i gesti di venerazione che caratterizzano momenti e feste in onore di Maria devono risultare espressioni di autentica preghiera che viene dal cuore e incide sulla vita, scevre da esteriorismi, spettacolarità, folclorismo e superstizione.

Superato l’oleografico e il devozionalismo, anche le immagini e gli oggetti destinati alla devozione privata o da esporre nelle case dovrebbero rispondere a quanto richiesto da Sacrosanctum concilium ai numeri 124-125 per l’ambito liturgico (rispetto della verità della fede, bellezza, qualità della fattura); non dovrebbe accadere che statue o quadri dettati da devozioni private (soggettive) di qualcuno siano di fatto poste (imposte) in chiesa alla venerazione di tutti.

A conclusione, valga quanto scriveva Giovanni Paolo II al n. 18 della Lettera apostolica Vicesimus Quintus Annus (4 dicembre 1988), a venticinque anni dalla Sacrosanctum Concilium, indicando anche il rapporto tra liturgia e pietà popolare come uno dei compiti per il futuro: «La pietà popolare non può essere né ignorata né trattata con indifferenza o disprezzo, perché è ricca di valori, e già di per sé esprime l’atteggiamento religioso di fronte a Dio. Ma essa ha bisogno di essere di continuo evangelizzata, affinché la fede, che esprime, divenga un atto sempre più maturo ed autentico.

«Tanto i pii esercizi del popolo cristiano, quanto altre forme di devozione, sono accolti e raccomandati purché non sostituiscano e non si mescolino alle celebrazioni liturgiche. Un’autentica pastorale liturgica saprà appoggiarsi sulle ricchezze della pietà popolare, purificarle e orientarle verso la liturgia come offerta dei popoli». (Giuseppe Daminelli, Madre di Dio, n. 10, ottobre 2007)

 

 

 


 

Il silenzioso genocidio femminile: l’aborto selettivo miete milioni di vittime l’anno

Aumentano in India i timori di una crisi demografica, dovuta ai lunghi anni di pratica del feticidio femminile che ha gravemente alterato la composizione della popolazione. Paradossalmente, uno degli ammonimenti più recenti è stato formulato da Ena Singh, rappresentante del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, uno degli organismi responsabili della diffusione dell’aborto.
Singh ha riferito all’agenzia stampa Reuters, in un rapporto pubblicato il 31 agosto, che la mancanza di donne potrebbe portare ad un aumento della violenza sessuale e della pedofilia. Secondo le Nazioni Unite, circa 2.000 feti femminili vengono abortiti illegalmente ogni giorno in India.
Una stima ancor più elevata, del numero delle femmine mancanti, era stata data in precedenza, quando è uscita in India la pubblicazione del rapporto UNICEF “La condizione dell’infanzia nel mondo 2007”. Secondo una notizia della Reuters del 12 dicembre 2006, i funzionari UNICEF affermano che in India si registrano ogni giorno 7.000 nascite femminili in meno rispetto alla media mondiale.
Secondo quanto riportato dalla Reuters il 31 agosto, un censimento del 2001 dimostra che in alcune regioni come il Punjab, Gujarat e Himachal risultano 800 femmine per ogni 1.000 maschi. Secondo la Singh, la situazione si sta aggravando, poiché la pratica degli aborti selettivi sulla base del sesso si sta diffondendo anche in altre regioni. Le statistiche mostrano che nel 2001 in India vi erano 927 femmine, di età tra 0 e 6 anni, per ogni 1.000 maschi della stessa età, rispetto alle 945 femmine del 1991.
Il Governo indiano, secondo la Reuters, ammette che circa 10 milioni di femmine sono state soppresse dai propri genitori, prima o subito dopo la nascita, nel corso degli ultimi 20 anni.
Qualche giorno prima, il 21 agosto, la Reuters ha riferito delle tecniche diagnostiche come l’ecografia e l’amniocentesi utilizzate per individuare il sesso degli embrioni e quindi per facilitare l’aborto dei feti femminili. L’uso di queste tecniche è illegale, ma ciò nonostante vengono ampiamente praticate.
La normativa che vieta il ricorso a queste analisi per determinare il sesso dei feti è in vigore sin dal 1996. Ma, ad oggi, dei circa 400 casi denunciati alle autorità, solo 2 sono risultati in altrettante condanne e al mero pagamento di un’ammenda, rispettivamente, di 300 rupie (5,3 euro) e di 4.000 rupie (71 euro).
Ritrovamenti di feti abortiti

Ulteriore prova della gravità del problema è data dal ritrovamento di più di 40 feti femminili abortiti in un campo nei pressi del paese di Nayagarh, nell’India orientale, come riportato dal quotidiano britannico Guardian il 28 luglio scorso. Secondo Santish Mishra, un funzionario della Sanità, si stima che questi feti erano stati abortiti a circa 5 mesi di vita.
L’articolo ha riferito anche che nel mese di giugno è stato arrestato un medico a Nuova Delhi, in seguito al ritrovamento di bambini abortiti nella fossa settica del suo studio. Un altro caso è emerso a febbraio, quando la polizia ha scoperto i resti di 15 neonati seppelliti nel giardino di un ospedale nello Stato centrale di Madhya Pradesh.
A febbraio sono stati ritrovati anche quasi 400 ossa di feti e neonati in una fossa nel retro di un ospedale della città di Bhopal, secondo l’Associated Press del 18 febbraio.
Come risposta a queste e altre notizie sul ritrovamento di feti abortiti, il Governo indiano ha annunciato di voler istituire orfanotrofi per accogliere le figlie femmine indesiderate, secondo l’Associated Press. L’agenzia ha poi citato una dichiarazione di Renuka Chowdhury, Ministro per le Donne e per l’Infanzia, secondo cui il Governo avrebbe in programma di istituire un centro in ogni distretto regionale.
Un affare redditizio
Il Wall Street Journal ha esaminato il problema in un articolo pubblicato in prima pagina il 21 aprile, secondo cui alcune società, tra le quali la General Electric, hanno venduto talmente tanti apparecchi ecografici che è possibile fare diagnosi ecografiche persino nei piccoli paesi che sono ancora privi di acqua potabile o di strade decenti. Il costo è di circa 8 dollari (5,6 euro) a ecografia, l’equivalente di una paga settimanale.
Secondo il Wall Street Journal, V. Raja, responsabile del settore sanitario della General Electric per l’Asia meridionale, avrebbe dichiarato che la società avverte che gli apparecchi non devono essere utilizzati per la determinazione del sesso degli embrioni. Ciò nonostante, secondo l’accusa di un ostetrico di Nuova Delhi, Puneet Bedi, come riportata dall’articolo, le società sfruttano la domanda di figli maschi per vendere apparecchiature ecografiche.
La General Electric vende circa 15 modelli diversi, il cui costo varia da 100.000 dollari (70.700 euro) per gli apparecchi più sofisticati a colori, a 7.500 dollari (5.300 euro) per quelli in bianco e nero. Essa ha anche stretto intese con le banche per aiutare i medici a finanziare l’acquisto di tali apparecchi.
Secondo i dati citati dall’articolo, relativi alle vendite annuali di apparecchi ecografici in India da parte di tutte le società, risulta che nel 2006 il giro d’affari ha raggiunto la cifra di 77 milioni di dollari (54,5 milioni di euro), con un aumento del 10% rispetto all’anno precedente. In India esistono più di 30.000 cliniche, registrate presso il Governo, che fanno diagnosi ecografiche.
Problemi anche in Cina
La Cina è un altro Paese in cui la proporzione tra i sessi è pesantemente squilibrata a causa dell’aborto selettivo di embrioni femminili. Il Governo ha annunciato di recente di voler proporre nuove norme per aumentare le pene nei confronti dei genitori e dei medici responsabili dell’uccisione di femmine, secondo la BBC del 25 agosto.
L’Associazione per la pianificazione familiare cinese ha ammesso che questo squilibrio ha raggiunto il punto in cui in una città vi sono 8 giovani maschi per ogni 5 ragazze, secondo la BBC. Tra i bambini con meno di 4 anni, nella città orientale di Lianyungang, vi sono 163,5 maschi per ogni 100 femmine. Nel resto della Cina, 99 città risultano avere almeno 125 maschi per ogni 100 femmine.
Il problema è stato rilevato da Robin Dunbar, docente di Psicologia evolutiva presso l’Università di Liverpool, in un articolo pubblicato l’8 settembre sul quotidiano Scotsman. Il professore ha affermato che secondo le stime attuali, in Cina vi sarebbero circa 18 milioni di uomini in eccesso rispetto alla popolazione femminile in età di matrimonio. E la tendenza è prevista in aumento, per raggiungere i 37 milioni nel 2020.
“I ragazzi senza le ragazze sono, per essere schietto, una minaccia”, ha affermato Dunbar, con riferimento alle problematiche sociali che ne derivano. I rischi vanno dalla violenza, allo stupro, alla criminalità.
La pratica degli aborti selettivi in base al sesso non si limita alla Cina e all’India. Qualche mese fa è stata resa nota la preoccupante notizia della commercializzazione, in Gran Bretagna, di un nuovo test di gravidanza che consente ai genitori di conoscere il sesso nel nascituro a partire dalla sesta settimana di gestazione.
Secondo un servizio del quotidiano British Telegraph del 5 maggio, i test - che si chiama “Pink or Blue” - si effettua utilizzando una goccia di sangue della madre. Secondo la società che lo vende, la DNA Worldwide, del gruppo americano Consumer Genetics, il test ha un’attendibilità del 98%.
Atteggiamento remissivo
“Con il nostro atteggiamento remissivo nei confronti degli aborti precoci, nel Regno Unito, riteniamo inevitabile che il numero degli aborti sia destinato ad aumentare”, ha dichiarato, al Telegraph, Julia Millington di Prolife Alliance.
In Gran Bretagna, secondo il quotidiano, il sesso del nascituro è determinato solitamente mediante ecografia morfologica alla ventesima settimana di gravidanza. Ma alcuni centri sanitari hanno smesso di comunicare ai genitori il sesso del bambino per timore che questi possano decidere di abortire, ha osservato l’articolo.
I milioni di morti dovuti alla pratica dell’aborto selettivo in base al sesso, e quelli stimati per il futuro, sono stati per lo più ignorati dalle organizzazioni di pianificazione familiare e dalle agenzie dell’ONU. L’UNICEF, in realtà, ha sollevato la questione, ma il suo rapporto su “La condizione dell’infanzia nel mondo 2007” ha ricevuto scarsa copertura informativa.
Inoltre, nelle sue 160 pagine sul tema del “divario di genere” di cui soffrono le donne e i bambini, lo stesso rapporto dell’UNICEF dedica solo 102 parole alla questione del feticidio e dell’infanticidio. Sorprende poi che anche in quel paragrafo il problema venga minimizzato e l’UNICEF arrivi ad affermare che “non esistono prove decisive” che confermino il ricorso a questa pratica illegale diagnostica di determinazione del sesso del feto. Ma la morte di milioni di bambine smentisce clamorosamente simili mistificazioni.

(Padre John Flynn , Zenit, 26 settembre 2007)

 

 

 

 


 

30 settembre 2007

 

Quei preti devoti all’esibizionismo

Sulla figura del prete si può partire per un ampio e alto volo di teologia per scoprire che cosa suggerisce la Scrittura sulla realtà del sacerdozio cattolico e poi per ordinare gli spunti raccolti in una sintesi che offra una visione teologica completa e profonda. Non sono queste le finalità di un articolo di giornale. Meglio prendere un dizionario biblico o teologico e spaccarsi la testa sugli spunti che la Bibbia offre e la Patristica raccoglie e la Scolastica ordina con la maggior logicità possibile.
Stiamo a ciò che vediamo attorno a noi oggi, nella vita usuale. Come si vede il prete? Come lo si desidererebbe?
Intanto, è da distinguere la pubblicistica popolare che dilaga sui giornali e sui settimanali circa il prete: anche la rappresentazione filmica, letteraria o umoristica: distinguere tutto ciò dalla realtà che si incontra senza trasfigurazioni e senza caricature. Molti notisti avvertono, di questi tempi, che raramente il sacerdote ha avuto tanta pubblicità. E non certo per invitare a intraprendere la via della consacrazione in seminario o oltre. L’immagine sacerdotale compare assai più spesso nelle vignette umoristiche, negli articoli di costume, nelle riflessioni un po’ svagate e un po’ irridenti che mostrano il ministro di Dio come una figura desueta, estranea agli schemi della moda corrente e dello stile di pensiero e di vita comuni. Si vada oltre: un certo vezzo di descrizione e di disegno del prete non si arresta nemmeno all’umorismo: passa a piè pari alla presa in giro più grossolana quand’anche non al disprezzo più volgare. L’umorismo è arte difficile: soprattutto quando lambisce temi sacrali come la talare, la predicazione e la celebrazione dei sacramenti.
Qualche segno di disprezzo o di oltraggio, però, questa insistenza dissacrante l’ha lasciata. Allora quello che doveva essere umorismo diviene sarcasmo e si traduce in un allontanamento da ciò che il prete è, fa e insegna. Non è raro che anche giovani pressoché analfabeti in fatto di cristianesimo si sentano in diritto di sdottorare su un «sentito dire cristiano» che di cristiano non ha assolutamente nulla. Il tema della libertà diviene qui prevalente e la norma morale avanza verso la ribalta della vita e appare come una prigione che disprezza l’uomo e lo mortifica. Poi le cose appariranno in modo diverso. Ma intanto occorre fare i conti con questa situazione.
Il tema va considerato anche «ex parte inferi» perché non si risolva in una celebrazione immotivata. Ciascuno conosce sacerdoti dotti, prudenti, capaci di ascolto e di comprensione, protesi a comunicare consolazione e a dare speranza. Così come conosco altri preti che, senza darsi l’aria di monaci un po’ goffi e malriusciti, riescono ad inserirsi nella società contemporanea e soprattutto nel mondo dei giovani: veste talare compresa. Molti nostri parroci raggiungono una tale semplicità da essere capaci di dialogare anche con le persone meno addottorate e tuttavia desiderose di certezze chiare capaci di scavare dei caratteri umani e cristiani sulla traccia del Vangelo.
Mettiamo che questa sia la norma. Ad attirare un’attenzione curiosa e quasi morbosa, però, sono altri sacerdoti: quelli che mettono ogni cura per camuffarsi da operai, da contadinotti, da sindacalisti, da sportivi, o da disinvolti contestatori del pensare e del vivere comune. Gesù Cristo sembra escluso dal loro linguaggio. Conoscono tutto sulle canzonette e sullo sport. Non esitano a sorpassare il limite delle barzellette spinte, pur di apparire come gli altri e più aggiornati degli altri nelle scemenze più deludenti. Non si vedono mai davanti al Signore a pregare con attenzione e con occhi e cuore fissi al tabernacolo. Non si lasciano irretire in discorsi su valori anche umani e non solo cristiani. Si mostrano conversatori disinibiti. Se proprio vogliono oltrepassare i limiti delle vacuità, i loro interessi si rivolgono ai margini dell’umanità normale: si dedicano, ma in maniera esibizionistica ai poveri, ai portatori di handicap, ai drogati e così via. Purché questi marginali abbiano la capacità di spogliare il prete della propria fisionomia e della propria missione.
Il giorno dopo i fatti, osservano subito il giornale per controllare l’eco che hanno avuto le loro bravate. I ragazzi non imparano quasi nulla da loro né circa il Vangelo né circa il catechismo: roba vecchia e ininfluente. A me uno dei fenomeni più traumatici è dato dal fatto che il tradimento di qualche prete rispetto ai suoi impegni sacri è visto quasi con approvazione e con compiacimento da persone che hanno salutato Dio da lontano. (Mons. Alessandro Maggiolini, Vescovo emerito di Como, Il Giornale, 28 agosto 2007)

 

 


 

A proposito di aborto e Amnesty International

Amnesty International nasce quasi mezzo secolo fa da un inglese cattolico, e si caratterizza fin dall’inizio per la sua difesa dei condannati a morte e dei prigionieri politici (non tutti, per la verità: solo quelli che non abbiano esercitato violenza). In poco tempo cresce fino a diventare la più grande associazione umanitaria al mondo, ottiene riconoscimenti prestigiosi come il premio Nobel per la pace – prestigioso prima che lo regalassero a terroristi e dittatori, beninteso! -, e soprattutto diventa un punto di riferimento importantissimo per quei diritti umani che, a quasi 60 anni dalla famosa Dichiarazione Universale, vengono apertamente negati dall’Islam e bellamente ignorati dal continente cinese, ma anche da noi sono sempre più evanescenti.
E’ per questo che sconcerta la notizia di questi giorni: Amnesty International – o meglio, il suo vertice internazionale - ha ufficialmente deciso di appoggiare in tutto il mondo la legalizzazione dell’aborto.
Certo, l’intenzione è apparentemente ottima: la difesa delle donne stuprate; e chi potrebbe opporsi? Anche in America tutto iniziò così: nel 1973 una ragazza si rivolse alla Corte Suprema statunitense per ottenere l’autorizzazione ad abortire, dichiarando di essere stata violentata da un branco; vinse la causa, e l’aborto venne legalizzato, prima negli USA (ma era già legale nell’URSS comunista e nella Germania nazista), e poi nel resto del mondo.
Peccato che fosse una balla, come ha ammesso recentemente la protagonista di quello show truffaldino. Peccato che, partendo da considerazioni facilmente condivisibili sull’onda dell’emozione - “come si fa a costringere una poveretta a partorire il figlio del suo violentatore?” - si è arrivati alla ‘libertà’ di uccidere i propri figli prima che nascano: perché non le vogliamo femmine, come in Cina e in India; o perché non li vogliamo handicappati – e così finiamo per ammazzare anche i figli sani:        Peccato che l’aborto, secondo i dati ufficiali dell’OMS, uccida circa 50 milioni di persone ogni anno – un miliardo in vent’anni !!!
Ma ciò che veramente stupisce, non è tanto l’ingenuità (sarà vera ingenuità?) di chi si appella a casi pietosi e non si accorge che così spalanca la porta all’omicidio di massa e all’eugenetica fai-da-te. Piuttosto, a lasciare esterrefatti è la deriva ideale e morale sottostante, la teoria per cui chi ha subito violenza ha diritto di infliggere la morte, e non al suo persecutore, ma al proprio figlio! Ora questo teorema diabolico viene riproposto dall’associazione che ha fatto una bandiera dell’abolizione della pena di morte, anche quando i condannati si sono macchiati di colpe certe e di delitti spaventosi. Come si può (giustamente) difendere la vita di migliaia di colpevoli, e contemporaneamente condannare a morte decine di milioni di assoluti innocenti? Come ripetere il monito divino “nessuno tocchi Caino!”, se poi si propugna il massacro di Abele?
A meno di nascondersi dietro un dito, come i bambini, sostenendo che non di essere umano si tratta, o perlomeno non individuo, non persona; insomma, ci sono uomini di seria A e uomini di serie B. A parte l’insostenibilità sia scientifica sia filosofica di tale teoria, è evidente che per questa via si arriva in fretta a giustificare qualsiasi omicidio: se l’uomo non è uomo in sé, se il valore della vita umana non è assoluto ma dipende dalle contingenze (quasi sempre precarie e dolorose), l’esistenza stessa perde di significato.
Curiosamente, questa svalutazione radicale della vita umana impastata con un finto idealismo umanitario - che si manifesta nella decisione di AI, ma anche nella corsa all’eutanasia o nella sperimentazione sugli embrioni - si sposa con l’anelito animalista, anche qui fondato su emozioni empatiche - è giusto maltrattare cani e scimmie, così vicini all’uomo per certi versi ?-, ma anche qui con un’ideologia sottostante che mira esplicitamente all’annullamento della distinzione tra uomo e bestia:

E poi c’è la nuova religione relativista, cioè il diritto per ciascuno di dire qualunque scemenza, purché (ad esempio) la Chiesa non osi sostenere che due gay non sono una famiglia. E poi ci sono le femministe, che difendono a spada tratta i diritti delle donne, a patto che non siano musulmane. E poi ci sono i pacifisti, che tra poco marceranno di nuovo ad Assisi per l’Iraq, e non si sono mai accorti del genocidio in Darfur. E poi c’è “Rombo Rosso”, ovvero il suicidio ideale della Croce Rossa in nome di un chimerico rispetto assoluto per tutto e per tutti, che in realtà mette a nudo la nostra incapacità di affermare ideali veri in sé, e quindi assoluti e universali.
Allora, ancora più profonda dell’indignazione, emerge la spaventosa sensazione di un avvitamento mentale prima che morale, un offuscamento della stessa capacità di ragionare coerentemente. Forse ha ragione il Santo Padre, che ha accusato l’Europa di una “singolare forma di apostasia da se stessa, prima ancora che da Dio”. Forse aveva ragione la Vergine di Nazareth, quando cantò: “ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore”. Forse davvero è questo l’esito finale di una società che ha cancellato Dio dal proprio orizzonte, e vuole decidere orgogliosamente cos’è bene e cos’è male: una specie di follia collettiva, che mina dall’interno ciò che fu l’Occidente; come un cancro al cervello, che lascia intatto l’apparato muscolare e lo scheletro, ma progressivamente annienta la funzionalità e l’identità stessa dell’intero organismo. (Giona, 11 settembre 2007)

 

 


 

Nuove tendenze: il ritorno al confessionale
Nei due giorni dell'incontro tra Benedetto XVI e i giovani accorsi a Loreto in centinaia di migliaia dall'Italia e da molti paesi del mondo, è accaduto un fatto inatteso per intensità e dimensione: un accesso di massa alla confessione sacramentale.

Tra sabato 1 e domenica 2 settembre, nella grande spianata sotto la cittadina e il santuario della Madonna, 350 sacerdoti hanno confessato ininterrottamente dalle 2 del pomeriggio fino alle 7 del mattino, assediati da dodicimila giovani in attesa di perdono.

Ma anche prima della venuta del papa il rito della penitenza ha fatto parte per numerosi giovani della preparazione all'evento. I percorsi di pellegrinaggio che convergevano su Loreto comprendevano quasi tutti la tappa della confessione sacramentale. È stato così all'Abbazia di Fiastra, divenuta a momenti un immenso confessionale. È stato così al santuario di Canoscio, sui monti dell'Appennino. Ogni volta con decine e decine di preti impegnati contemporaneamente ad amministrare il sacramento.

Non si tratta di una novità assoluta. Anche nelle Giornate Mondiali della Gioventù tenute a Roma nel 2000 i giovani si confessarono in gran numero: centoventimila in tre giorni, nell'immenso stadio della Roma pagana, il Circo Massimo, trasformato in confessionale a cielo aperto.

Ma quella che allora parve una fiammata effimera si è poi rivelata una tendenza duratura. E in espansione, specie nei santuari e nei grandi raduni. Certo, in percentuale le quote di chi tra i giovani cattolici si confessa sono tuttora minime. A Loreto meno del 5 per cento dei presenti. Ma l'inversione di tendenza è in atto, rispetto alla quasi scomparsa, anni fa, della pratica del sacramento.
E poi, più che i numeri, parlano i segni. Il vedere che tanti giovani si confessano per loro libera scelta, dentro un evento religioso che è sotto l'osservazione di tutti, trasmette il messaggio che la confessione non è più un sacramento in disuso ma torna ad essere praticata ed amata.
Benedetto XVI risolutamente incoraggia questa ripresa della confessione, specie tra i giovani. È stata sua la scelta di dedicare un intero pomeriggio, il giovedì precedente la scorsa Settimana Santa, alla celebrazione del sacramento della penitenza in San Pietro, scendendo lui stesso nella basilica a guidare la celebrazione, a predicare e a confessare.
Confessione individuale, non collettiva. Perchè, in effetti, fu questa la prassi che si diffuse spontaneamente all'indomani del Concilio Vaticano II, soprattutto in Centroeuropa, nel Nordamerica, in America latina, in Australia: quella di impartire assoluzioni generali a interi gruppi di fedeli, dopo un loro "mea culpa" altrettanto collettivo.
Questo non è mai stato l'indirizzo di Roma. L'unica assoluzione collettiva autorizzata – anche dopo l'aggiornamento del rito nel 1974 – è in pericolo di morte, ad esempio per un battaglione in guerra, oppure in assenza drammatica di sacerdoti rispetto al numero dei penitenti presenti; sempre però con l'obbligo a chi ha beneficiato dell'assoluzione collettiva di presentarsi "quanto prima, massimo entro un anno" da un sacerdote, per confessargli individualmente i propri peccati gravi.
Nonostante ciò, la pratica dell'assoluzione collettiva è continuata in numerose diocesi del globo. L'intento dichiarato dei suoi promotori, anche vescovi, era di salvare il sacramento da un abbandono in massa. Ma il risultato fu proprio di accelerare tale abbandono.
Anche nei seminari e nelle facoltà teologiche la confessione collettiva ha avuto e ha i suoi fautori. Un teologo moralista che se ne è fatto paladino è Domiciano Fernandez, spagnolo, claretiano, in un libro stampato in Italia dall'editrice Queriniana, "Dio ama e perdona senza condizioni", con la prefazione partecipe del liturgista Rinaldo Falsini, francescano.
Il calo della pratica di questo sacramento è andato di pari passo, nei seminari, con l'abbandono di un insegnamento mirato alla preparazione pratica di buoni confessori. Da alcuni decenni i "casi di coscienza" hanno cessato di essere materia di studio.
Anche qui, però, vi sono oggi dei segnali di inversione di tendenza. Questa estate è uscito in Italia, edito da Ares, un libro di uno stimato teologo moralista, Lino Ciccone, consultore del pontificio consiglio per la famiglia, dal titolo: "L'inconfessabile e l'inconfessato. Casi e soluzioni di 30 problemi di coscienza".
Come il titolo fa intuire, nel libro sono elencati 30 "casi di coscienza", seguiti da altrettante linee di soluzione. I casi, molto calati nella vita reale, spaziano dall'aborto alla pratica omosessuale, dal divorzio alla corruzione finanziaria. Il volume è espressamente scritto per chi si prepara al sacerdozio, come "libro di esercizi" da affiancare ai testi di morale generale.
Ma vale anche per chi è già sacerdote e già confessa. E ha in animo di confessare di più e meglio.

(Sandro Magister, www.chiesa.it, 6 settembre 2007)

 

  


 

Eutanasia: i giochi delle tre carte

È destinato ad avere immediate ripercussioni in Italia il documento con cui la Congregazione per la Dottrina della Fede, in risposta a un quesito dei vescovi americani, ribadisce il no all’eutanasia anche per i malati «in stato vegetativo permanente». A questi sono comunque dovute «le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali». In Italia il dibattito è sul testamento biologico, il documento con cui ciascuno potrebbe chiedere che non gli siano prestate, in caso di malattia incurabile, cure non necessarie. Anche un certo numero di «cattolici adulti» si sono schierati a favore della proposta di legge del presidente della Commissione Sanità del Senato, Ignazio Marino.
La discussione che sta per iniziare in Parlamento non riguarda l’accanimento terapeutico. Come tutti - tranne una sparuta minoranza dell’Unione - si dicono contrari all’eutanasia «all’olandese» sotto forma di iniezione letale somministrata a chi non ha più voglia di vivere, così tutti sono contro l’accanimento terapeutico, le cure inutili, sproporzionate e invasive somministrate a chi non ha più nessuna speranza di sopravvivenza per puro virtuosismo medico. Contro l’accanimento terapeutico ci sono già codici deontologici e Ordini dei Medici che vigilano. Anche la Chiesa cattolica è d’accordo. Un testamento biologico in cui si dichiarasse semplicemente di rifiutare un futuro accanimento terapeutico sarebbe quindi superfluo. Perché allora - si perdoni il gioco di parole - la sinistra manifesta a sua volta un vero e proprio accanimento terapeutico nei suoi sforzi di far votare una legge sul testamento biologico?
Il problema è quello degli «stati vegetativi permanenti» come quelli di Terry Schiavo in America o della ragazza di Lecco di cui hanno parlato i giornali in Italia, da risolvere intervenendo sugli «aspetti tecnici legati all’idratazione e alla nutrizione artificiale». Detto in altri termini, quello che vuole la sinistra - con l’appoggio dei «cattolici adulti» - è che si possa sottoscrivere un testamento biologico dove si chieda in anticipo che, ove ci si venga in futuro a trovare in uno «stato vegetativo permanente», si ponga fine alla nostra vita facendo cessare l’idratazione e la nutrizione artificiale. È precisamente quello che è capitato alla povera Terry Schiavo, che per ordine di un giudice americano è stata privata dell’idratazione ed è morta letteralmente di sete, una bruttissima morte da qualunque punto la si guardi.
Marino e compagni assicurano di essere «contrarissimi all’eutanasia». Ma è un semplice gioco di parole. Perché si può discutere a lungo su quali cure mediche siano ragionevoli e quali siano accanimento terapeutico. Ma un punto è chiaro: l’alimentazione e l’idratazione non sono cure mediche. Il cibo e le bevande non sono medicine. Fermare l’alimentazione e l’idratazione e far morire il paziente di fame o di sete non è rinuncia a una terapia: è eutanasia. Lo è anche per i malati in «stato vegetativo permanente»: e qui per non sbagliare, la Santa Sede usa la stessa formula di Marino. Privare di cibo e bevande questi malati significa ucciderli. La Chiesa non potrà mai accettare queste forme di eutanasia, comunque la si chiami. I «cattolici adulti» nostrani abbiano il coraggio di dire che sono contro il Papa e il magistero, e la smettano con i giochi delle tre carte. (Massimo Introvigne, © il Giornale, 15 settembre 2007)

 

 


 

La morte non è uno show: se lo ricordino pure gli uomini di Chiesa

Da giorni i quotidiani e le tv sono pieni di articoli e servizi sulla morte di Luciano Pavarotti e su quella di Gigi Sabani. Tutti a discettare di tutto, ma nessuno parla del "fatto": la morte, questa "usanza" come diceva ironicamente Borges "che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare». Se ne evita pure il pensiero. Perché guardare in faccia la morte impone di interrogarsi sul senso della vita e sul destino, cioè su Dio. Mentre tutto il nostro mondo è stato costruito sulla dimenticanza e sulla distrazione. È stato congegnato precisamente per censurare e dimenticare quella domanda e Dio; cioè, alla fine, per dimenticare noi stessi: «Tutto cospira a tacere di noi/ un po' come si tace un'onta/ forse un po' come si tace una speranza ineffabile» (Rilke). Viviamo tutti come se non dovessimo mai morire, come se la spiacevole incombenza riguardasse solo gli altri. Come se non sapessimo che da un momento all'altro noi, proprio noi, potremmo essere chiamati a render conto della nostra esistenza davanti al trono dell'Altissimo che ce l'ha donata, che è l'unico Padrone e Signore della vita. Lo storico francese Pierre Chaunu tempo fa scrisse: «Ci è capitata una curiosa avventura: avevamo dimenticato che si deve morire. È ciò che gli storici concluderanno dopo aver esaminato l'insieme delle fonti scritte della nostra epoca. Un'indagine sui circa centomila libri di saggistica usciti negli ultimi vent'anni mostrerà che solo duecento (una percentuale, dunque, dello 0,2 per cento) affrontavano il problema della morte. Libri di medicina compresi».
UN NEMICO DA EVITARE
Tuttavia la morte, che se ne frega dei libri di saggistica, testardamente continua a farci visita con una certa frequenza. Quando irrompe fastidiosamente nelle nostre giornate parrebbe inevitabile parlarne, ma abbiamo studiato una serie di procedure e riti per evitare di guardarla in faccia. In genere si dribbla l'inquietante domanda, straparlando del deceduto. Se si tratta di un personaggio famoso è tutto sopra le righe, tracima in chiacchiericcio, in retorica o in pettegolezzo. Nessuno prega. E nessuno accenna una riflessione. Eppure è chiaro che cosa fragile ed effimera sia la vita: sic transit gloria mundi ... Anche per Pavarotti è stato così. Celebrazioni, fiumi di inchiostro, ore di televisione, dichiarazioni, discussioni, canonizzazioni. Ci si è messo pure il vescovo di Modena, che ha trasformato l'antica Cattedrale in camera ardente, come si fa per i papi o per i santi. E Romano Prodi è andato a fare l'orazione funebre. Tutti parlano. Nessuno sui giornali accenna una riflessione sul mistero della vita. Nessuno fa silenzio. Nessuno prega. Padre Remo Sartori, che ha dato l'estrema unzione a Pavarotti, ha raccontato ieri che negli ultimi mesi il maestro lo cercò: «Mi contattò a Pasqua. Sapeva di essere malato, e sentiva la necessità di un conforto spirituale». Così si è avvicinato di più a Dio: «In lui c'era una fede di fondo sulla quale non nutriva dubbi». Quando sorella morte si fa annunciare dalla malattia e dalla sofferenza all'inizio ci sentiamo ingiustamente bersagliati dalla sorte, ma alla fine per tanti si rivela una grazia, un tempo di misericordia. Don Giussani diceva: «Dio chiede una più particolare partecipazione alla Croce per la redenzione del male del mondo. Dio desidera la purificazione dei nostri peccati. E il digiuno e la disciplina che non pratichiamo volontariamente, il Signore misericordioso ce li fa vivere attraverso questi dolori e queste privazioni. Ma lo scopo più grande di tali avvenimenti è di richiamarci, soprattutto nei momenti di lotta vertiginosa, che Lui solo è il Vero, Lui solo è la speranza». A me è capitato, solo pochi mesi fa, di vivere la malattia e la morte di mio padre pregando proprio con la voce di Pavarotti (che è stato un dono di Dio per tutti). Mio padre era in ospedale, ormai in rianimazione. Stava morendo. E per qualche giorno, andando a trovarlo, ascoltavo in auto una struggente canzone di Eric Clapton che questo artista cantò proprio con Pavarotti al "Pavarotti and friends for war child". Era una preghiera alla Madonna. Accenno (traducendole) le parole di "Holy Mother", ma l'emozione dei suoni di Clapton e della voce di Pavarotti è indescrivibile. Le prime strofe cantate dalla voce malinconica di Clapton dicevano: «Madre Santa, dove sei?/ Stanotte sono a pezzi./ Ho visto le stelle cadere dal cielo./ Madre Santa, non posso trattenermi dal piangere/ Oh, stavolta ho bisogno del tuo aiuto./ Fai che finisca questa notte di solitudine./ Dimmi per favore per quale via andare/ per ritrovare me stesso di nuovo./ Madre Santa, ascolta la mia preghiera./ In qualche modo so che ci sei sempre./ Manda un po' di pace al mio cuore/ toglimi questa angoscia». Poi Clapton ripeteva «I can't wait», non posso più aspettare a lungo, non farti attendere ancora. Qui entrava la voce travolgente di Pavarotti: «Madre Santa ascolta il mio pianto/ io ho imprecato il tuo nome migliaia di volte/ ho sentito la rabbia attraversarmi l'anima/ ma ora ho bisogno della tua mano da poter afferrare./ Oh sento che la fine sta arrivando/ le mie gambe non correranno più a lungo./ Tu sai che in questa notte io preferirei essere tra le tue braccia». E il finale, dolcissimo: «Quando le mie mani non suoneranno più/ la mia voce ci sarà ancora, ma io svanirò./ Madre Santa, allora io sarò/ disteso, in salvo tra le tue braccia». Alla fine questo solo conta: di poter essere perdonati e abbracciati. Per questo la cosa più importante, secondo me, è morire in pace con Dio. Il resto è nulla. Siamo tutti ombre che passano in pochi istanti sul teatro del mondo. Come l'erba dei campi è la nostra vita: in un giorno dissecca. L'unica chiave per entrare nella vita vera, quella che dura per sempre, è affidarsi alla misericordia di Dio. E la Chiesa è la grande fontana della Misericordia. Tutti lo avvertiamo, per questo tanti (anche personalità note come laiche) alla fine si riavvicinano ai sacramenti.
MISERICORDIA PER TUTTI
La cosa più confortante per tutti noi è ascoltare quello che un giorno Gesù disse alla mistica polacca santa Faustina Kowalska (recentemente canonizzata). La citazione è lunga (mi scuserete), ma vale la pena: «Desidero che i miei Sacerdoti annunzino questa mia grande misericordia per le anime peccatrici. Il peccatore non tema di avvicinarsi a Me. Anche se l'anima fosse come un cadavere in piena putrefazione, se umanamente non ci fosse più rimedio, non è così davanti a Dio. Le fiamme della misericordia mi consumano, desidero effonderla sulle anime degli uomini. Io sono tutto amore e misericordia. Un'anima che ha fiducia in Me è felice, perché Io stesso mi prendo cura di lei. Nessun peccatore, fosse pure un abisso di abiezione, mai esaurirà la mia misericordia, poiché più vi si attinge più aumenta. Figlia mia, non cessare di annunziare la mia misericordia, facendo questo darai refrigerio al mio Cuore consumato da fiamme di compassione per i peccatori. Quanto dolorosamente mi ferisce la mancanza di fiducia nella mia bontà! Per punire ho tutta l'eternità, adesso invece prolungo il tempo della misericordia per loro. Anche se i suoi peccati fossero neri come la notte, rivolgendosi alla mia misericordia, il peccatore mi glorifica e onora la mia Passione. Nell'ora della sua morte Io lo difenderò come la stessa mia gloria. Quando un'anima esalta la mia bontà, Satana trema davanti ad essa e fugge fin nel profondo dell'inferno. Il mio cuore soffre perché anche le anime consacrate ignorano la mia Misericordia e mi trattano con diffidenza. Quanto mi feriscono! Se non credete alle Mie parole, credete almeno alle Mie piaghe!». (Antonio Socci, Libero, 9 settembre 2007)

 

 


 

Bagnasco e l’Italia spaesata… Il rigore della Cei e i cattolici «adulterati»

A volte, per comprendere meglio le situazioni, bisogna guardarle al contrario. È il caso della prolusione con cui monsignor Angelo Bagnasco ha aperto i lavori del Consiglio episcopale permanente sostenendo che i politici cattolici sono vincolati alla dottrina cattolica anche quando sono nell’esercizio delle loro funzioni e non solo quando conversano nel tinello di casa. È bastato questo per provocare il mugugno di coloro che hanno visto in tale passaggio l’ennesima entrata in tackle scivolato del successore di Ruini sui cattolici italiani in quota ai vari rami della sinistra. Questa è la lettura che va per la maggiore. Ma proviamo ora a guardare la situazione al contrario. Il presidente dei vescovi italiani ha detto ciò che qualsiasi assennato sacerdote di santa romana Chiesa direbbe: «In nessun ambito, neppure in politica, si possono tralasciare - per opportunismo o convenzione, o altri motivi - le esigenze etiche intrinseche alla fede». In tal modo, ha fatto solo ciò che la sua missione gli chiede: ha affermato che il politico cattolico deve rendere operativi e fecondi i suoi principi per il bene delle anime e, in ogni caso, per il bene comune. Dunque non è stato Bagnasco a entrare in tackle scivolato sulla politica. Il presidente della Cei, per continuare con il paragone calcistico, è stato fermo al centro della sua area ed è entrato pulito sul pallone. Sono i soliti politici con la coda cattolica di paglia che ora si tuffano per terra come dei pescioloni per invocare il sospirato rigore. Potrebbe toccare a chiunque, ma bisogna prendere atto che questa sorte tocca sempre ai cattolici di sinistra. Espediente da calciatore con il fiato corto. Per uscir di metafora, alzata di scarso ingegno del politico pescato con le mani nel sacco dei voti cattolici trafugati a sinistra. Insomma, questo politico cattolico, essendo così «adulto» da diventare adulterato, non conosce neanche la regola più elementare del gioco: se dici di essere cattolico e poi non ti sei comportato di conseguenza, o hai mentito prima o hai mentito dopo. In ogni caso, sempre mentitore rimani ed è inutile che ti butti a pesce in area di rigore. Una persona di buon senso, credente o non credente, non può rimproverare un vescovo che chiede alle pecore del suo gregge di non indossare il mantello da lupo. È una richiesta che risponde alla logica più elementare. Tanto che il vescovo non può tollerare che ciò sia fatto neanche a scopo strategico perché darebbe scandalo. Una bella tegola su quei cattolici che pensavano di aver trovato la quadratura del cerchio con il costituendo Partito democratico: quella palude in cui, sotto la cappa veltroniana, tutto è uguale al contrario di tutto. Alla Festa dell’Unità di Bologna si è persino tentato di dire che Guareschi, con l’invenzione di don Camillo e di Peppone, avrebbe preconizzato il Partito Democratico: c’erano pure i figuranti del prete e del sindaco di Mondo piccolo che giravano tra il pubblico con tanto di sorriso stampato in faccia. Ma erano figuranti. Perché il vero don Camillo, per il bene delle anime e il bene comune, avrebbe messo in pratica da par suo ciò che da sempre insegna la dottrina cattolica. E Peppone, che è un comunista serio, non si sarebbe nemmeno sognato di chiedere il rigore. (Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Il Giornale, 18 settembre 2007)

 

 


 

A scuola arriva il manuale del piccolo ateo
«Operazione grossolana e becera per aggredire la fede cristiana» dice monsignor Luigi Negri, Vescovo di San Marino e Montefeltro. Il titolo è inequivocabile: Il Piccolo Ateo. Il sottotitolo pure: «Anti Catechismo per giovani che non si vogliono farsi fregare». Lo ha messo nero su bianco Calogero Lillo Martorana, napoletano, professore nelle scuole superiori e «ateo razionalista». A dispetto di quel «giovani» che appare sulla copertina si tratta di un testo pensato e scritto per i bambini e i ragazzi delle medie. Per iniziarli all’ateismo sin dalla più tenera età, mettendo in ridicolo il cattolicesimo. «Lo abbiamo ricevuto dai nostri associati e circola in varie scuole del Nord Italia», segnala Barbara Sciarra, capo ufficio stampa del GRIS, il Gruppo cattolico di ricerca e informazione socio-religiosa.
In 52 pagine a caratteri molto grandi il docente ateo cerca di convertire gli alunni lanciando accuse grossolane. «Per “credere” non c’è bisogno né di avere un’istruzione né di avere una testa che pensa; anzi, per credere, l’intelligenza, la saggezza, la razionalità e l’istruzione (quindi la scuola) sono tutte cose dannosissime», scrive Martorana cercando di far passare per ebeti miliardi di credenti. Come «ottima prova» della non esistenza di Dio, l’autore propone, in venti righe, l’esistenza della sofferenza, mentre poco dopo spiega che è «la paura della morte a farci illudere che c'è Dio». «La fede - scrive ancora - è proprio una benda sugli occhi, non c’è altro modo per definirla! E non c’è proprio niente di eroico in essa, perché chi si illude così significa che non vuole ragionare, significa che non vuole capire». Qualche altra chicca tratta dal volumetto: «Ci vuole qualcuno per mettere le anime dentro tutti i neonati: e da dove le prendono? C’è una fabbrica? E secondo quali criteri le distribuiscono? E se a qualcuno capita l'anima di un altro?». Monologhi buoni per un canovaccio da cabaret, se letti da un adulto, che possono però essere subdolamente efficaci su un bambino.
Parlando dell’eucaristia, l’autore osserva: «Nella fantasia credulona dei cristiani, “comunione” significa entrare in contatto con Dio; attraverso l’ingoio dell’ostia, i cristiani credono che Dio entri in noi e in tal modo noi diventiamo “vaccinati” contro le tentazioni e sciocchezze simili... La prima comunione, come altre cose simili, serve solo al Vaticano per non perdere i fedeli per strada». In un altro capitolo, dal titolo inequivoco «Dio ci rende schiavi», il professore ateo scrive: «I cattolici cominciano molto presto le proprie violenze alla tua libertà, col battesimo, iscrivendoti per forza nei loro registri; e poi proseguono minacciando l’Inferno se non fai quello che vogliono loro, ricattandoti col “peccato” che ti costringe ad aver paura di tutto (specialmente del sesso), chiamando “buoni” i cristiani e “cattivi” gli altri, cercando in tutti i modi di renderti servo sciocco di un invisibile dio e di un papa arrogante e autoritario». Su molte grandi questioni, come il bene e il male, il docente catechizza così i suoi piccoli aspiranti: «Non c’è il male sicuro e non c’è il bene sicuro, tutto dipende da noi, da come noi pensiamo le cose, dall’epoca in cui nasciamo, dalla zona del mondo in cui viviamo, eccetera». Mentre questi sono i consigli sul sesso: «Coi genitori, coi preti e con gli adulti in genere, non potrai mai parlare di sesso!... I genitori che sembrano più “moderni” arrivano a dire che il sesso va fatto solo quando c’è l'amore; ma questo non significa proprio niente, il sesso e l’amore sono due cose distinte, meglio se stanno insieme, ma non è obbligatorio».
Il manualetto si conclude con una carrellata di paragrafetti che contengono una livorosa sintesi di duemila anni di storia e presentano i cristiani sempre come i «cattivi», adossando alla Chiesa cattolica (sic!) persino il genocidio del Ruanda. (Andrea Tornielli, Il Giornale, 20 settembre 2007)

 

  


 

Madre Teresa, “l’assenza di Dio” e la missione per chi vive nel buio senza amore

A 10 anni dalla morte della missionaria più famosa del mondo, il 4 settembre, sarà disponibile il primo libro del Centro Madre Teresa: il titolo (in inglese) è "Madre Teresa: vieni, sii la mia luce". Questo testo di valore storico rivela aspetti fino ad ora sconosciuti della vita interiore di Madre Teresa, grazie alla pubblicazione della corrispondenza fra la Beata ed i suoi direttori spirituali e superiori nel corso di circa 60 anni.

La sua chiamata a fondare una nuova congregazione per servire i più poveri fra i poveri l'ha identificata vicina a Gesù sulla croce ed al povero che ha sempre aiutato; ha vissuto anni di "oscurità" incessante, in cui si è sentita rifiutata da Dio ma determinata ad "amarlo così come non è mai stato amato prima". La sua fede ferma ed eroica, la sua fedeltà, il suo coraggio e la sua allegria anche attraverso questo doloroso e lungo percorso sottolineano l'incredibile grado di santità che ha raggiunto.

Vieni, sii la mia luce presenta l'ispirazione e "l'oscurità" di Madre Teresa nel contesto della mistica cattolico, come vissuto da san Giovanni della Croce o santa Teresa d'Avila. Il libro rivela come Madre Teresa possa essere messa a paragone con altri grandi mistici, vissuti prima di lei, come san Paolo della Croce e santa Giovanna di Chantal, entrambi immersi per più di 40 anni in una dolorosa apparente assenza di Dio. Anche san Giovanni Vianney, san Vincenzo de' Paoli e santa Teresa di Lisieux hanno vissuto esperienze simili.

Un altro lato dell'esperienza di Madre Teresa che emerge in questo libro è la sua totale identificazione con i più poveri fra i poveri, che ella serviva. La Madre era giunta a capire che "l'oscurità" era "il lato spirituale del suo lavoro". In questo modo, ella condivideva il loro senso di "essere non amati, non desiderati e non curati da nessuno", cosa che lei descriveva come "la più grande povertà del mondo di oggi".

Secondo alcuni, "l'oscurità" vissuta dalla Beata nel corso della sua vita è la prova che in realtà non avesse fede, fosse una sorta di benefattrice atea, ma anche una truffatrice. Il libro giustamente sottolinea invece la realtà, ovvero l'identificazione totale di Madre Teresa con le sofferenze di Cristo in croce.

La speranza, si legge nel comunicato stampa che presenta il testo, "è che questo libro possa essere una fonte di speranza e conforto, in special modo per coloro che stanno attraversando nella loro vita dei momenti oscuri; questo potrà ispirare in molti il desiderio di cercare la sua intercessione, e li guiderà a seguire l'eroico modo di vivere ed amare di Madre Teresa, innalzandosi al di sopra di sentimenti e percorsi, nella loro strada verso l'unione con Dio".

L'editore del libro, p. Brian Kolodiejchuk, è il postulatore della causa di canonizzazione della Beata Teresa di Calcutta, ed il direttore del Centro Madre Teresa. Il Centro è un'organizzazione senza scopo di lucro, creata e diretta dalle Missionarie della carità, estensione dell'ufficio di postulazione di Madre Teresa. Il suo scopo è quello di promuovere una devozione genuina a Madre Teresa ed una conoscenza della sua vita, del suo lavoro, della sua spiritualità e del suo messaggio tramite la preparazione e la pubblicazione dei suoi scritti autentici, distribuzione di materiali devozionali (libri, pamphlet, medagliette e santini) ed il mantenimento di un sito ufficiale (http://www.motherteresa.org/) . Il Centro è inoltre responsabile della salvaguardia delle sue parole e della sua immagine da ogni abuso ed uso scorretto. ((AsiaNews, 1 settembre 2007).

 

 


 

Nozze alla tedesca: divorzio automatico dopo sette anni

Indissolubilità del matrimonio, addio. Anziché per tutta la vita, ci si sposa soltanto per 7 anni e poi, se quel traguardo sarà stato raggiunto, si vedrà se sia il caso di prolungare il connubio coniugale per altri 7 anni convolando a nuove nozze. E così via, rinnovando di settennio in settennio il vincolo matrimoniale. È la proposta del matrimonio a tempo e irrompe sulla scena politica tedesca dalla parte più inaspettata. Ovvero dalle fila dell'Unione cristiano-sociale, dalla Csu, il partito gemello circoscritto territorialmente alla Baviera dell'Unione cristiano-democratica (Cdu) presieduta dalla cancelliera Angela Merkel. Proposta inaspettata e clamorosa perché la Csu è notoriamente il baluardo dei valori tradizionali della morale cattolica e nessuno poteva immaginarsi che il partito dei fedelissimi del bavarese Benedetto XVI potesse partorire una simile bizzarria. Ma, ancora una volta, non si era fatto i conti fino in fondo con le ambizioni di Gabriele Pauli, la cinquantenne bella e combattiva consigliera provinciale cristiano-sociale di Fürth, che, dopo avere di fatto detronizzato il potente Edmund Stoiber, adesso punta apertamente alla sua successione alla presidenza della Csu nel congresso in programma a fine mese.
Gusto della provocazione. La sua idea del matrimonio "light" nasce dall'esperienza di divorziata con prole, non risposata, protagonista di una vita spericolata anche fuori dalla politica. Per la sua passione della moto l'hanno soprannominata «la donna centauro». Per non dire di certe sue pose fotografiche piuttosto audaci. Insomma, la provocazione è la sua arma preferita. Sta di fatto che in Germania una coppia su due finisce per divorziare. Accorciando la durata del vincolo coniugale - questa la filosofia di Gabriele - verrebbero ridotte le conseguenze legali e burocratiche di un divorzio. Inoltre, la prospettiva di potersi svincolare legittimamente dal coniuge dopo appena 7 anni può spingere a scegliere le nozze anziché la semplice convivenza. Tutto da dimostrare; intanto però lei è di nuovo in prima pagina.

Nei mesi scorsi ha ottenuto la sua maggiore vittoria: ha costretto l'attuale gran capo della Csu, Edmond Stoiber, ad anticipare il suo ritiro dalla guida del partito e dello Stato. In una campagna senza sosta, Frau Pauli ha sostenuto che Stoiber avrebbe cercato informazioni riservate sui suoi amanti e sulle sue abitudini alcoliche, allo scopo di attaccare la sua reputazione. E ora che Stoiber, grande figura democristiana, ha deciso di dimettersi da ogni carica al congresso di fine settembre, Gabri la Rossa si è candidata a sostituirlo. Presentando il suo programma, ha lanciato l'idea del matrimonio a tempo.

La proposta è stata per lo più considerata una sciocchezza. Stoiber ha detto che «si tratta di un assoluto nonsenso che si commenta da sé» e che la signora dovrebbe andarsene dalla Csu. Il giornale Welt ha ricordato che l'idea è vecchia, copiata da un comico radiofonico. Il capo della Csu al parlamento di Berlino, Peter Ramsauer, ha confessato che gli fa l'effetto dello «sporco sotto le unghie». Gabri la Rossa, insomma, ha poche speranze di guidare la Csu. (Danilo Taino, Corriere della sera, 21 settembre 2007)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Home | Mi presento | La Parola | Monastica | News | Attualità | Approfondimenti | Archivio | Links