TESTI ATTUALITÀ ANNO 2007
1 Luglio 2007
I casi di Bologna e Venezia: uno sfregio a valori universali Le blasfemie di Bologna e di Venezia hanno alcune cose in comune. L'offesa, voluta e cercata, al cuore della fede cristiana. Alla passione e morte di Gesù Cristo, raffigurata in oscena e macabra danza dal coreografo Felix Ruckert. Alla Madre di Dio, umiliata e degradata in una mostra cittadina al di là di ogni concepibile volgarità. Oltre questo profilo ce n'è un altro. Nessuna delle due blasfemie è l'opera di un esaltato, il frutto di un momento di smarrimento, o di una disattenzione per quanto grave, perché entrambe sono state concepite, preparate, offerte al pubblico, con determinazione e piena consapevolezza di ciò che si stava facendo. Ed entrambe hanno ricevuto l'avallo di istituzioni e di organizzatori che pure dovrebbero fare da garanti per questo tipo di manifestazioni. Come si è potuto giungere a tanto, in un Paese come il nostro che vuole essere il punto di riferimento di un cristianesimo aperto e fondato sull'amore per il prossimo, che intende realizzare una società libera e solidale per le nuove generazioni, accogliente verso popolazioni che vengono da tutto il mondo? Questa domanda va posta perché è necessario comprendere fino a che punto può giungere il degrado di una società abbandonata a se stessa, e cosa si può fare per evitare altre offese a valori che sono al tempo stesso cristiani e universali. Ad essere colpito è in primo luogo quel sentimento comune che permette alle persone di vivere insieme, e che richiede il rispetto per le convinzioni più profonde degli altri. Quando viene meno questo sentimento la società si frantuma, ciascuno può irridere all'altro, può diventare strumento di offesa nei suoi confronti, senza accorgersi che in questo modo irride anche se stesso, si scopre privo di valori, diviene mezzo di disgregazione. Con il venir meno di questo sentimento naufragano tante altre cose, tra le più preziose per una comunità civile. Naufraga il rispetto per il sacro e per la fede religiosa, oggi quella cristiana domani le altre, tutto e tutti possono essere esposti al dileggio, all'offesa, ogni persona può essere colpita nella sua dignità più intima. È sconvolta qualsiasi concezione della laicità dello Stato, perché le idee e le proposte religiose, invece di essere rispettate e ascoltate, vengono umiliate, poste ai margini della vita collettiva, costrette a difendersi dalle più degradanti fantasie e farneticazioni. Naufragano, infine, altri apparenti capisaldi delle nostre società occidentali, quelli della tutela dei diritti umani, e del progetto educativo e di integrazione per le nuove generazioni e per le popolazioni dell'immigrazione. I diritti umani, che dovrebbero testimoniare una nostra presunta superiorità, si rivelano per essere soltanto un velo ipocrita; perché vengono calpestati e rinnegati, offendendo i sentimenti di milioni e milioni di persone (anche se fossero pochi sarebbe lo stesso), violando la libertà religiosa, la dignità umana. Il progetto educativo per le nuove generazioni si infrange prima ancora di essere impostato, perché ai giovani si dice che possono irridere ai propri compagni, alle loro convinzioni più intime, possono vilipendere come e quando vogliono, e anche loro possono essere oggetto di derisione senza potersi difendere. In una società multiculturale, infine, si annuncia a milioni di immigrati che la nostra proposta di integrazione è fondata sulla possibilità di deridere e calpestare la religione, e le credenze più intime che ciascuno coltiva nella propria coscienza. Bisogna dire una verità semplice. I cristiani e i cattolici sono oggi chiamati a difendere se stessi, la propria fede, la volontà di vivere liberi e rispettati in Italia e in Europa. In primo luogo rispondendo al vilipendio con la riparazione delle blasfemie compiute. Ma tutti devono sentirsi chiamati in causa da un degrado endemico, per il quale quando si parla di libertà per tutti si finisce per negare quella degli altri, quando si esaltano i diritti umani si pensa solo ai propri, quando si evocano valori comuni nei fatti si agisce come se questi non esistessero. Perché alla fine, e a pensarci bene, le blasfemie di Bologna e di Venezia sono il frutto guasto e più amaro di quel relativismo di cui alcuni non vogliono sentir parlare e che invece può divorare tutto e tutti, magari senza che ce ne accorgiamo. (Carlo Cardia, Avvenire, 21 giugno 2007)
Amnesty, la filantropia antiumana E ora cosa faranno tutti quegli oratori, quelle parrocchie, quei centri culturali venuti su a diritti umani, bandiere della pace, nessuno-tocchi-Caino e canzoncine di Cristicchi? Cosa faranno adesso che il coro delle voci profetiche di riferimento ha perso un pezzo da novanta come Amnesty International? Il cardinale Martino, presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, ha gettato un sasso nello stagno del cattolicesimo politicamente corretto invitando i cattolici di tutto il mondo a sospendere qualsiasi forma di sostegno e di finanziamento ad Amnesty. L’associazione, fondata nel 1961 da Peter Benenson, convertito al cattolicesimo, ha deciso di sostenere la diffusione dell’aborto procurato nel mondo, promuovendone la depenalizzazione in quei Paesi che ancora vietano questa pratica. Molti cattolici hanno storto il naso davanti alle dichiarazioni del cardinale. Da tempo in molte parrocchie, in non poche scuole cristiane e istituti religiosi, sui giornali di area si procede a una capillare azione di sostegno a favore di alcune organizzazioni filantropiche. Unicef, Wwf e Amnesty International sono le più gettonate, ma anche quelle segnate dallo stesso destino: tutte sono state censurate dalla Santa Sede per il sostegno a politiche demografiche disinvolte, fra cui anche il cosiddetto «aborto sicuro». Il giro di vite, già cominciato sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, prosegue nell’era di Benedetto XVI. Siamo di fronte a una svolta: la Chiesa prende le distanze da quel filantropismo antiumano che, magari, difende i pluriomicidi dalla sedia elettrica, ma vuole favorire l’eliminazione legale di innocenti, colpevoli solo di non essere ancora nati. Dopo anni passati a scendere in piazza a fianco di coloro che si battono affinché «nessuno tocchi Caino» nel mondo cattolico pare che cominci a mettersi meglio per il povero Abele. Eppure Amnesty fa tanto bene, si ostinano ancora a dire molti cattolici. Bene, allora si immagini un cittadino condannato a morte. E che sia giustiziato senza un regolare processo, senza un avvocato difensore, senza poter pronunciare parola a propria discolpa, senza l’ombra di una giuria chiamata a pronunciarsi. E che il capo di accusa non sia un reato, ma la condizione stessa in cui si trova: l’essere, per esempio, un dissidente politico, un ammalato, un handicappato, un indesiderato, un ingombrante fardello in un mondo dove anche occupare un posto è diventato un problema. Chi meglio di Amnesty International potrebbe denunciare l’orrore di un simile delitto di Stato? Chi meglio potrebbe ergersi a paladino di questo essere umano condannato a morte senza l’ombra di un regolare processo? Probabilmente nessuno, diranno ancora molti cattolici cresciuti con il paraocchi della correttezza politica. Amnesty International, come ha rilevato il cardinale Martino, ha deciso ufficialmente di abbandonare al loro destino gli involontari protagonisti di questa ingiustizia sommaria. Perché quel condannato di cui parlavamo presenta proprio le caratteristiche dell’unborn, dell’essere umano non ancora nato: non ha fatto nulla di male, non è colpevole se non di esistere, non è sottoposto a regolare processo, né è previsto che qualcuno lo difenda nel dibattimento. Insomma: il concepito d’uomo minacciato di aborto procurato sarebbe il destinatario perfetto delle preoccupazioni filantropiche di Amnesty, che preferisce stare dalla parte dei più forti quando in gioco c’è la vita di un essere umano innocente, ma invisibile. Non solo. Amnesty è nel novero delle organizzazioni pro-aborto che operano nel mondo e lo fa sulla base di motivazioni «classiche»: i casi di stupro o di «gravidanza forzata» (forced pregnancy), espressione coniata dalla stessa Amnesty, e il fatto che secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità ogni anno 68.000 donne abortiscano in situazioni sanitarie carenti. Argomenti seri, non c’è dubbio, ma non basta a giustificare l’uccisione di un innocente, che non ha alcuna colpa per il male che sua madre ha patito. Perché proprio di un innocente si tratta, nonostante le elucubrazioni filantropiche di Ammesty International: che, a forza di essere filantropiche, finiscono per partorire un pensiero antiumano. (Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Il Giornale, 21 giugno 2007)
Massoneria, attacco alla famiglia «Poiché quasi nessuno è disposto a servire tanto passivamente uomini scaltriti e astuti come coloro il cui animo è stato fiaccato e distrutto dal dominio delle passioni, sono state individuate nella setta dei Massoni persone che dichiarano e propongono di usare ogni accorgimento e artificio per soddisfare la moltitudine di sfrenata licenza; fatto ciò, esse l'avrebbero poi soggiogata al proprio potere arbitrario, e resa facilmente incline all'ascolto»: così scrive Leone XIII il 20 aprile 1884 nell'Humanum genus, l'enciclica che con più precisione filosofica analizza i presupposti, la natura e l'operato della massoneria (il paolino Rosario Esposito - che recentemente ha reso nota in pompa magna la sua affiliazione massonica - calcola che i pronunciamenti antimassonici del solo Leone XIII siano 2.032). La Chiesa cattolica condanna la massoneria moderna dal suo primo apparire: la Gran Loggia di Londra nasce il 24 giugno 1717 e Clemente XII emette la prima condanna ventuno anni dopo, il 28 aprile 1738 (enciclica In eminenti). I papi tentano di ostacolare il diffondersi di un'associazione i cui membri si riuniscono nel segreto, sono vincolati (pena la morte) a patti giurati di cui nessuno deve rivelare il contenuto, sono l'anima, a partire dalla Rivoluzione francese, di tutti gli sconvolgimenti che, nell'Ottocento, stravolgono la vita religiosa e civile delle nazioni dell'Europa e dell'America Latina. Condannando i cattolici liberali (che fanno proprie molte delle parole d'ordine della massoneria), Gregorio XVI così scrive nella Mirari vos (15 agosto 1832): «accesi dall'insana e sfrenata brama di una libertà senza ritegno, sono totalmente rivolti a manomettere, anzi a svellere qualunque diritto di Principato, onde poscia recare ai popoli, sotto colore di libertà, il più duro servaggio». La massoneria è certa di conoscere la strada che conduce l'umanità alla felicità e si ripromette di mettersi alla testa del progresso che ritiene di incarnare: il progresso che essa ha in mente prevede la fine della superstizione cattolica. Per conseguire questo obiettivo l'ordine ha bisogno dell'assenso della popolazione. Come ottenerlo? L'ostacolo principale ai disegni massonici è la fede cattolica capillarmente diffusa. Come convincere un individuo sposato, con figli, credente in Cristo, e cioè nella vita eterna e nell'amore di Dio, bene inserito nella comunità civile ed ecclesiale, come convincerlo che la sua vita diventa più bella e più felice nel mondo progettato dai massoni? Come convincerlo che i battesimi, i funerali, i matrimoni, i catechismi, le cresime, le agapi, i concistori, gli altari, i sinodi, i concili massonici, sono migliori di quelli cattolici, di cui ricalcano il nome? Si tratta di trasformare quella persona, quell'individuo ben inserito in un corpo sociale ed ecclesiale, in un individuo solo. È necessario far saltare l'istituzione che lega i singoli in un vincolo stretto, il matrimonio, "liberando" così le energie individuali. Bisogna smantellare tutta la rete di solidarietà sociale e professionale che si è sviluppata durante i secoli animati dalla cultura cristiana. Si tratta di fare il deserto intorno all'individuo ben sapendo che l'uomo, non potendo resistere alla disperazione della solitudine, avrebbe cercato una via d'uscita ed avrebbe imboccato quella che prontamente gli sarebbe stata offerta: la possibilità di entrare a far parte di una loggia. L'attacco alla famiglia (ed alla donna che ne costituisce l'anima) è iscritto nel DNA delle associazioni segrete. Solo "liberando" l'uomo dalla famiglia si può fare di lui ciò che si vuole. Che le cose stiano così lo provano non solo la dinamica della Rivoluzione francese e le politiche familiari centrate sul divorzio di tutte le amministrazioni massoniche a cominciare da quella napoleonica; che le cose stiano così lo provano anche i documenti della Carboneria rinvenuti dalla polizia pontificia e pubblicati dallo storico francese Jacques Crétineau-Joly (1803-1875) sotto il pontificato di Gregorio XVI. In un documento noto col nome di Istruzione permanente redatto nel 1819, l'Alta Vendita della Carboneria (la direzione strategica rivoluzionaria del tempo) indica l'obiettivo che l'ordine persegue ed i mezzi scelti per conseguirlo. La Carboneria vuole una "rigenerazione universale" inconciliabile con la sopravvivenza del cristianesimo: «Il nostro scopo finale è quello di Voltaire e della rivoluzione francese: cioè l'annichilamento completo del cattolicesimo e perfino dell'idea cristiana». Il documento fa leva sulla debolezza della natura umana che si ripromette di assecondare: «L'uomo ama le lunghe chiacchiere al caffé e assistere ozioso agli spettacoli. Intrattenetelo, lavoratelo con destrezza, fategli credere di essere importante; insegnategli poco a poco ad avere disgusto delle occupazioni quotidiane, e così, dopo averlo separato da moglie e figli e dopo avergli mostrato quanto è faticoso vivere adempiendo ai propri doveri, inculcategli il desiderio di una vita diversa». Crétineau-Joly pubblica anche la corrispondenza privata tra cugini (così si chiamano i membri delle vendite carbonare). Il carbonaro conosciuto con lo pseudonimo di Piccolo Tigre scrive: «L'essenziale è isolare l'uomo dalla famiglia, è fargliene perdere le abitudini. [...] Quando avrete insinuato in qualche animo il disgusto della famiglia e della religione (l'una va quasi sempre a seguito dell'altra) lasciate cadere qualche parola che provocherà il desiderio di essere affiliato alla Loggia più vicina. Questa vanità del cittadino o del borghese di infeudarsi alla Massoneria ha qualcosa di così banale e universale che sto sempre in ammirazione della stupidità umana. [...] Il fascino di ciò che è sconosciuto esercita sugli uomini una tale potenza, che ci si prepara tremando alle fantasmagoriche prove dell'iniziazione e dei banchetti fraterni. Diventare membri di una Loggia, sentirsi, senza moglie e figli, chiamati a conservare un segreto che nessuno vi svela mai, rappresenta, per alcune nature, una voluttà e un'ambizione». Isolare l'uomo dalla famiglia non basta: per distruggere la Chiesa bisogna distruggere la donna. I rivoluzionari sono convinti che non si avanzerà di molto su questo terreno fino a quando la donna rimarrà ancorata alla buona notizia cristiana; per staccarla dall'amore di Cristo bisogna corromperla. Il 9 agosto 1838 così scrive il settario noto con lo pseudonimo di Vindice: «Abbiamo deciso che non vogliamo più cristiani; evitiamo dunque di fare martiri: pubblicizziamo piuttosto il vizio presso il popolo». Vindice cita l'opinione di un cugino secondo cui «per abbattere il cattolicesimo bisogna cominciare dall'eliminazione delle donne». Il carbonaro commenta: «In un certo senso questa frase è vera; ma, visto che non possiamo sopprimere le donne, corrompiamole insieme alla chiesa. Corruptio optim i pessima». I papi sanno che la strategia settaria fa leva sulla perdita del senso morale. La "sfrenata licenza" di cui parla Leone XIII è caparbiamente pubblicizzata da quanti vogliono che uomo e donna dimentichino la propria somiglianza con Dio. Isolati dagli affetti più cari, ridotti come canne al vento, schiavi e non re delle passioni, gli uomini saranno sottoposti a quel "duro servaggio" di cui scrive Gregorio XVI. (Angela Pellicciari, Il Timone, n. 64, Giugno 2007)
I pericolosi connubi tra Unione europea ed estremismo islamico Sodalizi in funzione antiamericana e antiisraeliana minacciano il già fragile futuro dell’Europa. Connubi che hanno dato vita all’anti-mito di Eurabia, espressione resa nota da Oriana Fallaci e ripresa da Bat Ye’Or, scrittrice ebraica nata in Egitto e naturalizzata britannica, che giovedì sera ha presentato, presso la biblioteca del Senato della Repubblica, il proprio saggio “Europa o Eurabia”. Lo scenario della persecuzione dei cristiani nei Paesi a maggioranza islamica e la loro decadenza in Occidente è stato introdotto dal Vicepresidente del Cnr, lo storico Roberto De Mattei. “Cristiani e cattolici nei Paesi arabi e in Medio Oriente rappresentano una minoranza sempre più esigua – ha spiegato il professor De Mattei –. Ciò avviene non soltanto nel martoriato Iraq, (dove attualmente i cattolici sono 25mila) ma anche nella ‘laica’ e ‘pacifica’ Turchia che cent’anni fa contava due milioni di cristiani cattolici o ortodossi, scesi a 100mila al giorno d’oggi”. “A tale inquietante realtà – ha proseguito De Mattei – si aggiunge la progressiva islamizzazione dell’Europa, favorita dalla forte crescita demografica dei musulmani e condotta con un criterio simile a quello dell’egemonia gramsciana”. “Come devono agire cristiani e occidentali di fronte a tale sfida? Ci sentiamo dire che dobbiamo evitare scontri di civiltà e islamofobia: un po’ come era nello spirito della ‘distensione’ nei confronti del blocco sovietico nei primi anni Sessanta”, ha osservato lo storico. “Quella linea di ‘dialogo’ nei confronti del comunismo, però, non diede i frutti sperati. Sono stati, invece, l’approccio decisionista di Ronald Reagan e la nuova evangelizzazione di Papa Giovanni Paolo II a mettere finalmente al parola fine alla tragedia del socialismo reale”, ha continuato. “Oggi noi cristiani siamo fuorviati dal grosso equivoco di confondere l’evangelizzazione con l’azione diplomatica (spettante alla Santa Sede) – ha detto ancora il Presidente del Cnr –. Tutti i più importanti Papi sono stati abili nel conciliare i due aspetti e i cattolici laici devono fare altrettanto, curandosi di annunciare la verità”. “Non si tratta di evocare alcuna crociata – ha concluso De Mattei –. Le crociate del resto non furono un atto aggressivo ma difensivo: nessun cristiano, a quei tempi si sarebbe mai sognato di dire: ‘sottometteremo La Mecca!’. L’unico tipo di conquista auspicabile per i cristiani nel mondo arabo è la conversione dei musulmani. Se oggi un francescano partisse per l’Afghanistan con l’intenzione di convertire Bin Laden sarebbe preso per folle o esaltato. Eppure è proprio quello che San Francesco tentò di fare nel 1200 con il sultano d’Egitto”. Ha preso poi la parola Bat Ye’Or, per illustrare i contenuti del proprio libro a partire dall’islamizzazione del Nord Africa e del vicino Oriente. Un processo storico, quest’ultimo, ricco di sfaccettature ma con due parole chiave imprescindibili. “Le parole-chiave – ha spiegato Bat Ye’Or – sono jihad e dihmmitudine. La jihad, a differenza delle crociate che furono un evento circoscritto e contestuale ad un’epoca, è una vera e propria strategia teologica di lungo periodo, avente ad oggetto l’islamizzazione del mondo e degli ‘infedeli’. Le fonti della jihad stanno proprio nei testi sacri musulmani. Con la globalizzazione essa ha assunto dimensioni mondiali”. “La dhimmitudine (dall’aggettivo dhimmi) simboleggia altresì la sottomissione dei fedeli ad Allah e può avere tre conseguenze: la resistenza all’invasore islamico; la sottomissione e l’emarginazione con conseguenti discriminazioni; la completa e definitiva conversione all’Islam”. “A partire dagli anni ’70 – ha denunciato la scrittrice – complice la crisi petrolifera e il conflitto israelo-palestinese, l’Unione Europea ha iniziato la sua resa nei confronti della Lega Araba e della Jihad, alleandosi a Yasser Arafat, precursore del terrorismo palestinese”. “L’Europa si è dunque alleata al terrorismo arabo e palestinese in funzione anti-israeliana e anti-americana – ha proseguito Bat Ye’Or –. Le conseguenze di ciò sono anche a livello accademico con la progressiva palestinizzazione delle università che hanno iniziato ad inculcare il senso di colpa tra gli occidentali e un cinismo morale che porta a tacere la persecuzione dei cristiani in Medio Oriente e del genocidio in Sudan”. “Altra conseguenza è stato l’avanzare del multiculturalismo – ha detto ancora la studiosa – considerato lo strumento principe per garantire la pace nel Mediterraneo. Sistemi elitari sovragovernativi hanno assecondato il sodalizio franco-arabo, rinnegando il progetto originario della comunità europea”. “Tra gli obiettivi: accogliere indiscriminatamente milioni di immigrati dall’altra sponda del Mediterraneo, combattere l’islamofobia e purgare il cristianesimo delle sue radici giudaiche”. “Questo progetto – ha concluso Bat Ye’Or – porta acqua al mulino di chi si batte per l’unificazione della Umma mondiale saldando due sponde del Mediterraneo nel segno del panislamismo. L’Unione Europea ha quindi posto le condizioni per la ‘libanizzazione’ dell’Europa”. A commento dei contenuti del libro di Bat Ye’Or è intervenuto Marcello Pera, filosofo e Presidente del Senato dal 2001 al 2006. “È stato concluso un vero e proprio contratto tra Europa e Islam – ha esordito il senatore – che ha portato ad Eurabia, continente in balìa della paura, del silenzio, della dissimulazione e della diffamazione”. “I sintomi più evidenti – ha proseguito Pera – sono stati la crescita dell’antisemitismo, dell’antiamericanismo e l’adesione alla causa antipalestinese. È seguita la stesura di un trattato costituzionale europeo che, se fosse stato approvato, sarebbe stato la pietra tombale dell’Europa, oltre che un errore storico ed identitario”. “Abbiamo rinnegato le nostre radici cristiane – ha ribadito Pera – e, insieme ad esse, abbiamo iniziato a censurare i nostri simboli religiosi: dai crocifissi ai presepi, dai canti natalizi alle opere d’arte”. “Le violenze anticristiane in Medio Oriente, gli attentati alle ambasciate e ai consolati non sortiscono alcuna reazione. In compenso le vignette satiriche su Maometto sono state severamente condannate, mentre il papa è stato lasciato solo dopo il discorso di Ratisbona”. “Quanto al multiculturalismo – ha proseguito Pera – esso è l’altra faccia del relativismo e non porta alcun tipo di integrazione, né assimilazione: ha invece prodotto soltanto ghetti e, nei casi estremi, la richiesta dell’applicazione della sharia”. “Intanto il sodalizio euro-arabo prosegue con la sedimentazione di organismi (tutti a spese del cittadino!) come l’associazione parlamentare per la lega euro-araba, l’istituto euro-arabo, forum parlamentari e altri soggetti che ormai vivono di vita propria e sono completamente ideologizzati nella loro convinzione che la cultura islamica è più meritevole della nostra”, ha aggiunto Pera. Concludendo il suo intervento l’ex Presidente del Senato ha espresso un cauto ottimismo sulla scorta dei recenti cambiamenti culturali e geopolitici all’interno del vecchio continente. “La cultura sta cambiando: intellettuali come Jurgen Habermas, un tempo severissimi con gli Usa e negatori di qualsiasi fondamento prepolitico dello stato moderno, stanno rivalutando la tradizione cristiana”, ha osservato. “Sta cambiando il senso comune della gente e l’opinione pubblica – ha sottolineato Pera –. Cambiano anche gli equilibri in politica estera: se è vero che la gestione dell’Unione Europea è sempre stata un affare franco-tedesco, all’antimericanismo di Chirac e Schroeder, sta facendo seguito una politica più aperta agli Usa da parte di Sarkozy e Merkel”. Ed ha concluso: “Dovendo valutare dagli elementi fin qui elencati, dovremmo parlare di sintomi di un’inversione di tendenza. In tal senso anche il libro di Bat Ye’Or è un segno dei tempi”. (ZENIT.org, 21 giugno 2007)
Chiesa e media, le nuove frontiere di internet I siti cattolici in Internet sono sempre più numerosi (+14% nell'ultimo anno e mezzo). Cresce soprattutto la qualità della loro presenza in rete, frutto delle riflessioni condivise dalla Chiesa italiana in questi anni sugli aspetti culturali e pastorali di questa nuova forma di missione. Il 12 giugno la lista dei siti cattolici in Italia ( www.siticattolici.it), approdata in rete nel 1997, ha compiuto 10 anni. Dai 243 siti di allora molto cammino è stato compiuto: in 10 anni più di 13 mila realtà cattoliche italiane sono approdate in Internet e, di queste, 11.458 sono tuttora disponibili on line. «Internet è un modo per essere Chiesa nel terzo millennio», afferma Francesco Diani, ideatore della lista, oltre che vicepresidente dell'Associazione webcattolici, presieduta da mons. Franco Mazza. «Dopo un percorso in cui si è molto riflettuto di Chiesa in rete, si può verificare che l'impegno pastorale non è stato vano, ma ha infuso nuova linfa al mondo ecclesiale, ufficiale e di base». Diani, quali sono stati gli sviluppi dei siti dal punto di vista del contenuto? I contenuti sono migliorati dal punto di vista qualitativo. Abbiamo alcune realtà molto semplici come i blog che sono esplosi nell'ultimo anno, ma i siti istituzionali delle nostre realtà (diocesi, parrocchie, associazioni, ordini religiosi) hanno un approccio non più dilettantistico, ma studiato e ragionato, indice di una professionalizzazione. Questo è stato anche voluto nella Chiesa italiana dall'anno 2000, quando ci fu un primo convegno ad Assisi, su Chiesa e web, uno dei primi nella Chiesa cattolica universale che affrontava il problema dell'approccio di Internet e della sua opportunità per l'evangelizzazione. In seguito, sono venuti gli orientamenti della Chiesa italiana per il primo decennio del 2000, la scelta di istituire corsi di e-learning e di aiutare la crescita dell'Associazione webmaster cattolici: affiancare con un supporto non solo di idee, ma anche di contenuti ha fatto sì che si generasse una cultura dell'operatore pastorale che non s'improvvisa, ma sa inserirsi in un progetto e sa condurre verso degli obiettivi che sono stati pensati e condivisi. Quali sono i criteri utilizzati per selezionare i siti inseriti nella lista? Il sito per essere inserito nella lista dei siti cattolici deve avere alcuni requisiti: essere italiano ed essere cattolico. Per il secondo requisito ci atteniamo ai criteri di dottrina ecclesiale del Codice di diritto canonico. L'inserimento nella lista è consentito solo dopo il vaglio di un'apposita équipe di supporto dottrinale, che è di grande aiuto per i casi più complessi. Dell'équipe fanno parte un moralista, un liturgista, un biblista, un teologo dogmatico, un esperto di ecclesiologia, uno di storia della Chiesa e uno di comunicazione e il vicedirettore dell'Ufficio comunicazioni sociali della Cei, mons. Franco Mazza, che da sempre conosce la realtà di Internet ed è tra i principali promotori di questa forma di comunicazione. Tra i siti e gli altri media cattolici c'è un arricchimento? C'è sicuramente un'influenza positiva: si registra una sinergia tra radio, giornali, tv cattoliche (che adesso stanno avendo il maggior incremento di presenza su Internet, anche per le web tv) e siti. Gli uni supportano l'altro e viceversa: alcune delle informazioni che sono sui media tradizionali sono trasferite su Internet così come alcune discussioni passano da Internet all'interno dei media di riferimento, cartaceo, radio, tv. Questa forma di comunicazione attraverso i siti ha riflessi positivi anche per l'esperienza ecclesiale e associativa? E crea più comunità, oltre che maggiore conoscenza? Al di là di tutti i siti conosciuti e utilizzati che offrono servizi, ci sono alcune realtà che utilizzano Internet soprattutto per una presenza evangelizzatrice e di testimonianza. Ed è bello vedere come il senso di comunità viene espresso nei siti delle parrocchie, dove non c'è solo il webmaster o il sacerdote che aggiornano, ma si costituisce un'équipe che di solito è all'interno del consiglio pastorale, espressione quindi di una vita di comunione nella parrocchia. Ha un grande valore che questo traspaia dalle pagine di un sito. In 10 anni tanti passi avanti, per i prossimi 10 quali sono le aspettative? Tutta la tecnologia sta evolvendo, come dimostra il web2 (Google, Youtube, Wikipedia), cioè formule nelle quali sono gli stessi fruitori a fornire servizi e dati, basandosi su tecnologie innovative. Oltre all'aspetto tecnologico, si sta superando l'effetto commerciale di Internet dei primi anni 2000, per ritornare alla sua funzione originaria di rendere possibile l'informazione superando le barriere geografiche e temporali. Il fatto che Internet ritrovi le sue potenzialità è un'opportunità nuova anche per il mondo ecclesiale tutta da studiare, anche se non mancano le difficoltà: la Chiesa, però, ha dimostrato in questi primi 10 anni che può reggere benissimo tale stimolo, anzi di essere in prima linea per promuoverlo. (Daniela Donasi, Incrocinews, 22 giugno 2007)
Dante, Benigni e la «maturità» del Governo A che serve il Ministero della Pubblica Distruzione? L'errore di quest'anno nel titolo del tema sulla Divina Commedia, non è uno dei tanti che di solito infarciscono i test per la maturità, a riprova del naufragio della scuola. No. Questo è una flop politico come la Finanziaria o l'indulto. Il segnale infatti doveva essere l'esatto opposto. Volevano far capire che Dante era stato ormai sdoganato da Roberto Benigni diventando uno "de noantri" (di sinistra come la doccia e il caffè, mentre il thè e il bagno nella vasca restano "di destra"). Il genio di Veltroni - che già sdoganò a sinistra Alvaro Vitali ed Edwige Fenech - se fosse stato già al posto di Prodi avrebbe fatto un'operazione di successo. A ruota di Benigni, che ha "ripulito" l'Alighieri rendendolo potabile allo snobismo dell' "homo progressista", il quale detesta e disprezza tutto ciò che sa di cattolicesimo o parla "di santi e Madonne". Il Dante di Benigni è diventato, da 5 o 6 anni a questa parte, un geniale compagno progressista che permette di ridere di Berlusconi, di Ferrara e dei preti come la Guzzanti e la Dandini. Un'operazione eccezionale. Per trent'anni - dopo il Sessantotto - il sommo poeta è stato considerato un vecchio barbogio da prendere a calci. Il nuovo potere scolastico lo ha squalificato come un palloso reazionario. Faceva testo - per la cultura Sessantottina - la canzoncina di Venditti, "Compagno di scuola", che si chiedeva «se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito» e dichiarava «la Divina Commedia, sempre più commedia». La nostra provinciale intelligentsia non si era accorta nemmeno che nel frattempo - nel '68 parigino - un intellettuale (allora) maoista come Philippe Sollers, folgorato dal poema dantesco, ne tracciava su "Tel Quel" una mirabolante lettura strutturalista, facendone il capolavoro di tutti i tempi, l'Opera di tutte le opere, la lingua universale. Epurato dalla scuola Da noi il "reazionario" Dante veniva puntualmente sputacchiato ed epurato dai programmi ministeriali dove irrompeva e dilagava la mitica "attualità", fatta di Che Guevara, ecologia, problemi sociali e balle varie. Ho fatto il liceo e l'università dopo il Sessantotto, fra il 1974 e il 1983, e di Dante non c'era più traccia. Cancellato come capitava a certi poeti in disgrazia nell'Urss di Stalin. Due amici di Comunione e liberazione mi fecero scoprire e amare - insieme alla bellezza del cristianesimo - anche la Divina Commedia, 25 anni prima di Benigni, che a quel tempo cantava ancora "L'inno del corpo sciolto". Folgorato da Dante mi tuffai a leggere tutto, feci la tesina della maturità e poi la tesi di laurea sulla Divina Commedia nello sconcerto dei professori che mi ritennero un integralista provocatore. A rivelare Dante a noi giovani cercatori del senso della vita, in quegli anni bui, c'era quasi solo don Giussani, umanissimo maestro di Bellezza che ci struggeva i cuori aprendoci folgoranti panorami di poesia e di musica. Eravamo una piccola compagnia (presa a sputi dappertutto) che - con il bel gioco di parole di Davide Rondoni - si può definire il "Clan Destino". Poi, vent'anni dopo, arrivò Benigni. E di punto in bianco l' "homo de sinistra" e i media scoprirono Dante. Ed allora eccoli tutti emigrare in branchi, a migliaia, a riempire le piazze per ascoltare le declamazioni benignesche del poema sacro, a esprimere appassionato interesse, ad andare in sollucchero per la Commedia: 70 repliche in 27 città, 120 mila spettatori solo a Roma per il V canto dell'Inferno. «Da mesi fa il tutto esaurito, dovunque si sposti, ci sono già andati in 500 mila, la gente fa la fila al botteghino», scrive Siegmund Ginzberg su "Repubblica" a proposito del «fenomeno Benigni». Ed ecco la Rai che programma, sulla prima rete, per l'anno prossimo, una serie di letture dantesche di Benigni che si annunciano già un gran successo. È un'ottima idea, perché sottrae meritoriamente serate a "Porta a porta" e finalmente, nell'orrida tv dei reality e dei crimini familiari, fa irrompere la Bellezza. Si aprono però alcune domande. Prima: qualche rappresentante della cultura Sessantottarda ha fatto ammenda? Ha riconosciuto che intere generazioni di giovani sono state ingiustamente private di un tesoro così prezioso? E in tutta questa "Dantemania" si comprende davvero l'essenza cristiana della Commedia? E si riconosce, di conseguenza, l'insensatezza dell'attuale tentativo di sradicamento delle radici cattoliche della nostra cultura? O hanno sempre ragione loro e, dopo averlo epurato, oggi possono impunemente fingersi scopritori di Dante, continuando però a odiare e combattere il suo connotato cristiano? Seconda domanda: siamo sicuri che - al di là dello sdoganamento mediatico-politico della Commedia - se ne conoscano almeno le nozioni basilari? La gaffe del Ministero pare dimostrare il contrario: un'abissale ignoranza, perfino da parte degli addetti ai lavori, del Poema sacro, quello da cui è stata tratta la lingua italiana (caso unico, una lingua nazionale ricavata da un Poema letterario). Proporre Dante ai temi di maturità senza reinserirlo nei programmi è davvero una colossale presa in giro. Ieri Nadia Verdile, una professoressa, sul "Manifesto", ha addirittura invitato i ragazzi impegnati nella maturità «a chiedere alla magistratura di invalidare la stessa per palese difformità con le leggi dello Stato e per ingiustificato razzismo nei confronti degli studenti non liceali». Il ragionamento dell'insegnante è questo: «Le cantiche della Divina Commedia si studiano, anno per anno, solo nei licei! Maledizione, questi programmi sono legge dello Stato italiano». E siccome in tutti gli altri istituti superiori, tre quarti del totale, «non si insegna la lettura delle cantiche e dei canti della Divina Commedia», il tema di quest'anno della maturità rappresenta una palese ingiustizia. Si potrebbe obiettare che c'erano altri temi, «ma» replica l'insegnante «sarebbe razzismo e soprattutto negazione di un diritto, cioè quello di avere le stesse possibilità degli studenti liceali». A parte l'accusa di "razzismo", che mi pare qui non c'entri niente, resta un problema: se le nostre giovani generazioni sono tuttora derubate di questo eccezionale tesoro, il ministro Fioroni non ritiene che si debbano rivedere i programmi? Troppo cattolico Terza domanda: Benigni come lettore e interprete di Dante è attendibile? Vittorio Sermonti, che lo ha preceduto nelle letture pubbliche della Commedia, intervistato giovedì da "Magazine", ha punzecchiato il comico toscano: «Non mi dispiace come lo legge. Ma credo che il pubblico di Benigni esca dallo spettacolo uguale a quando ci è entrato e pensando che Dante sia attualissimo e un po' fessacchiotto. Io rivendico il diritto all'inattualità, non la faccio così facile». Sermonti ha ragione, ma dipende solo da Benigni o anche dal suo pubblico che non si lascia mettere in discussione? In un'altra intervista Sermonti afferma che una «lettura appassionante» di Dante nella scuola è possibile e auspicabile, perché «costringerebbe a pensare al Cristianesimo non in termini edulcorati o sentimentali, ma permetterebbe di comprendere lo "scandalo" di cui è portatore. E gli studenti troverebbero molte risposte alle loro domande di senso». Ma è per questo che Dante a scuola continua ad essere bandito. Perché tipico dell'intellettualità italiana è non volersi mai mettere in discussione sul cattolicesimo e non si può capire davvero la Commedia senza far esperienza dell'infelicità del peccato, della bellezza del perdono e della felicità che dà la grazia. Benigni in realtà è un testimone convincente e commovente perché il suo stupore di fronte a Cristo o alla bellissima Vergine Maria, è evidente. In questo senso il suo inizio di conversione attraverso Dante è lo spettacolo più bello e struggente. Ma non lo capisce nessuno. (Antonio Socci, LIBERO, 23 giugno 2007)
La sorte dei prematuri: il medico diventa giudice Il 21 giugno a Milano si è tenuto un convegno su «La nuova medicina: cura della persona o utopia dell’uomo perfetto?». L’interrogativo concerne la liceità morale di intervento per sopprimere vite umane nate o fatte nascere prematuramente rispetto al dettato della legge statuale: 1) evitare che i nati prematuri siano portatori di handicap che costituiscano problemi non certo irrilevanti per i genitori; 2) evitare che i nati prematuramente subiscano l’umiliazione di qualche difetto grave fisico o psicologico. Come è stranoto la legislazione italiana consente di intervenire in vista di un aborto fino alla ventiquattresima settimana dal concepimento. Chi abbia rivelato al legislatore il periodo prima del quale si può intervenire per uccidere un bambino, non è detto. La legge naturale - se ancora c’è - tace sul problema. La legge rivelata non entra in questioni di vita possibile e magari perfetta a partire da un certo punto dell’evoluzione del feto. Dunque si è di fronte a una decisione opinabile dove di mezzo c’è la vita niente meno che di una persona umana: un omicidio o no. La comunità scientifica italiana si è ormai resa conto che i bambini nati a 23 settimane dal concepimento hanno il 25 per cento di possibilità di sopravvivenza e di sviluppo. Persino per bimbi di 22 settimane (5-10 per cento) si presentano possibilità di successo di una vita riuscita. Dunque, come conciliare una legge statuale tutto sommato non apodittica e una prassi apodidditicamente operante? Basta una probabilità che toglie di mezzo fastidi uggiosi e magari angoscianti? In caso di dubbio circa un’uccisione o una possibilità di sviluppo di vita, è possibile scegliere senza interrogare le coscienze e misurarsi con la legge morale? La legge morale: non un articolo di codice giuridico discutibilissimo. Il ministro Livia Turco ha messo a tema una simile discussione, lasciando accuratamente da parte i problemi etici. È compito di un ministro dello Stato stabilire precetti morali a cui ogni coscienza umana deve sottomettersi per la liberazione dell’uomo? Ed è anche troppo scoperto il gioco della discussione per far emergere una soluzione quasi già preordinata, invece di puntare l’attenzione fondamentale che coincide con la vita umana. Un neonatologo, tra i più noti, ha affermato: «II primo fatto da sottolineare è che l’atto intenzionale di dare la morte al neonato prematuro è vietato nel diritto europeo ovunque; recenti studi mostrano come con il proseguire la rianimazione anche a settimane gestazionali basse, vediamo nei bambini ricoverati in terapia intensiva neonatale, il 67% sopravvive. La sopravvivenza e la morte cambiano molto a seconda dell’atteggiamento del medico». Sembra si tratti di problemi astratti, e invece sono in gioco valori come l’esistenza umana o no, la coerenza morale o no. (Alessandro Maggiolini, Il Giornale 25 giugno 2007)
Una cattolicità volutamente assente dalla sfera pubblica Franco Garelli è forse il sociologo della religione che ha offerto, nell’ultimo quarto di secolo, le letture del cattolicesimo italiano meno ipotecate da conformistiche prognosi di declino. In un suo saggio del 2006, "L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo", edito dal Mulino, egli ha scritto che nella svolta culturale impressa all'Italia da Giovanni Paolo II, da Benedetto XVI e dal cardinale Camillo Ruini hanno un posto centrale “il forte richiamo identitario e la scelta di far leva su quella parte della società che più avverte l’esigenza di riattualizzare nel tempo presente i valori della fede cristiana e i riferimenti etici che da essa derivano”. Questo slancio, che mobilita minoranze ed è destinato alla “più ampia società”, avrebbe già ottenuto almeno questo effetto: “L’attuale stagione della Chiesa e del cattolicesimo italiano è profondamente segnata dal richiamo all’identità cristiana e dall’impegno sui valori irrinunciabili”. Mi chiedo: quanto di ciò è applicabile alle comunità e alle culture cattoliche toscane? Quanto vi è, nella Toscana cattolica, di questa vitalità, di queste effervescenze? Rispondo: ben poco. Certamente vi sono dei valori nella Toscana cattolica: spiritualità, volontariati, duttilità pastorale. Ma sicuramente non “richiamo identitario”, che è passione solo di minoranze. Azzardo questa opinione sulla scorta di ricerche particolari e di una riflessione personale. E la giustifico con alcune tesi, da verificare. Una prima tesi. Nelle comunità toscane l’esistenza cattolica – fuori dalle cerchie familiari e parrocchiali o dai numerosi cenacoli spirituali e intellettuali nonché dalle visibilità circoscritte della messa domenicale e dell’attività assistenziale – è prevalentemente una paradossale visibilità dell’assenza. Tale prevalente assenza è assenza da ciò che si chiama sfera pubblica. Una dominante invisibilità cattolica non può essere surrogata dalle mille attività, pur importanti e generose, nel sociale e nei cosiddetti mondi vitali quotidiani. La sfera pubblica è altra cosa. La dimensione civile del “riattualizzare nel tempo presente i valori della fede cristiana e i riferimenti etici che da essa derivano” (Garelli) non si realizza nelle piccole cose. Una seconda tesi. Questa sindrome toscana di un’esistenza cattolica pubblicamente assente si traduce spesso in una presenza dei singoli nella sfera intellettuale o politica. Una presenza che è mimetica. Che significa? Si dà presenza mimetica se si agisce imitando e adottando l’abito e il ruolo di attori già sperimentati e graditi nella sfera pubblica. Così il cattolico è di volta in volta il tollerante mediatore, il pacifista, il narratore delle glorie fiorentine del Novecento, il critico dell’istituzione ecclesiastica, il difensore a oltranza della Costituzione, il dirigente politico dalla parte del cittadino, il prete dei diseredati (gli altri preti suscitano diffidenza), il volontario per ragioni strettamente umanitarie, il teologo che si presenta come intellettuale di sinistra, ecc. Presenza mimetica, si badi, più spesso per convinzione che per pratica nicodemitica, cioè rivolta a dissimulare la propria identità. Una terza tesi. Questa invisibilità effettiva fatta di presenza mimetica comporta l’obiettiva separatezza della fede del singolo e della comunità ecclesiale dalla sfera pubblica. Ma nello stesso tempo convive con la ricorrente invocazione ad abbattere gli “storici steccati” tra Chiesa e società civile. Se questa contraddizione è vissuta come pacifica è perché l'invisibilità cattolica toscana e i suoi popolari teoremi hanno un retroterra di teologia debole, che rende spontaneo il far coincidere la condizione del laico cristiano con la laicità dei moderni. Non mi stupisco. allora, quando vedo la progressiva riduzione dei contenuti di dottrina nella catechesi impartita nelle parrochie, o quando assisto alla manipolazione filantropica e solidaristica delle parole del dogma e della liturgia. Né mi stupisco della percentuale degli iscritti all'insegnamento della religione cattolica nelle scuole toscane, i valori percentuali più bassi a livello nazionale, a Firenze addirittura disastrosi. La partecipazione all’ora di religione è responsabilità cattolica pubblica. Ma per l’ethos toscano la presenza cattolica nella scuola è illegittima, comunque mal sopportata. E così anche molte famiglie cattoliche si conformano all’opinione corrente e scelgono quell’assenza pubblica che le rende socialmente accettabili. Nella stessa logica, come la Toscana esibisce i più elevati standard di esonero dall’insegnamento della religione (attorno al 17 per cento nell'ultimo anno scolastico, ma a Firenze con punte dell'80 per cento nelle medie superiori), così questa regione esibì nel 2005 le percentuali di votanti più alte in Italia (quasi il 40 per cento, contro il 25 della media nazionale) in occasione dei falliti referendum per la fecondazione eterologa e per l'utilizzo degli embrioni: quando l'indicazione dei vescovi italiani era di non votare. Un'indagine in una storica organizzazione del volontariato cattolico fiorentino, le Misericordie, accertò che un associato su tre si era recato alle urne. Così tutto appare più semplice: il laico senza fede positiva né cittadinanza religiosa non abita, forse, con bella naturalezza la sfera pubblica delle società moderne? Ma questo avviene perché egli l'ha realizzata a propria immagine. Il cristiano, cattolico in particolare, vi abita invece con insuperabile problematicità, poiché la “neutralità” della sfera pubblica agisce come la ben nota “bussola impazzita” e sfida la responsabilità che la "Città di Dio" ha sul fine ultimo della politica. La sfida avviene non su terreni declamatorii, ma su soglie critiche come la vita o la famiglia. Per affrontarle non vi sono modelli laici da imitare, ruoli "corretti" da rivestire. Il cristiano, sia esso prete o comune fedele, deve operare allo scoperto. Quanta percezione di questa criticità di ogni giorno e di questo dovere vi è nella Toscana cattolica? L'agire prevalente mi pare inconsapevole. E come può un debole sentimento cattolico, senza dottrina, confrontarsi con l’orizzonte delle istituzioni politiche? Il sociologo non è così sprovveduto da ricondurre tutto ciò alla “secolarizzazione”. Sappiamo di numerose minoranze, nel clero e nel laicato, che hanno una posizione critica verso questa Toscana cattolica. E vi si oppongono come possono, con l'organizzazione e lo studio, magari abbonando circoli e parrocchie a qualche periodico di battaglia antimoderna come "Il Timone" o "Radici Cristiane". E avviene che dove si cerca una visione più rigorosamente e realisticamente cristiana – se necessario conflittuale – dell’agire cattolico pubblico, lì si realizzi anche un più attento sapere della fede. (Pietro De Marco, "Toscana Oggi", 5 aprile 2007)
Benedetto XVI ai Docenti Universitari Europei Nella mattina di sabato 23 giugno, il Santo Padre Benedetto XVI ha ricevuto in udienza nell’Aula Paolo VI in Vaticano, i partecipanti all'Incontro Europeo dei Docenti Universitari sul tema “Un nuovo umanesimo per l’Europa. Il ruolo delle Università”, promosso dal Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) e organizzato dall’Ufficio per la pastorale universitaria del Vicariato di Roma, nel 50º anniversario del Trattato di Roma, che ha dato vita all'attuale Unione Europea. “Sebbene l'Europa stia vivendo attualmente una certa instabilità sociale e una certa diffidenza nei confronti dei valori tradizionali - ha detto il Santo Padre nel suo discorso -, la sua storia particolare e le sue solide istituzioni accademiche possono contribuire molto alla formazione di un futuro di speranza. La ‘questione dell'uomo’, che è il centro dei nostri dibattiti, è essenziale per una comprensione corretta delle attuali evoluzioni culturali. Inoltre, offre un fermo punto di partenza allo sforzo delle università di creare una nuova presenza culturale e un'attività al servizio di una Europa più unita”. Soffermandosi sull'anelito ad un nuovo umanesimo, il Papa ha ricordato che “storicamente, l'umanesimo si è sviluppato in Europa grazie all'interazione feconda fra le varie culture dei suoi popoli e la fede cristiana. Oggi l'Europa deve tutelare la sua antica tradizione e riappropriarsene, se desidera restare fedele alla sua vocazione di culla dell'umanità. L'attuale cambiamento culturale è spesso considerato una ‘sfida’ alla cultura universitaria e al cristianesimo stesso, piuttosto che un ‘orizzonte’ sullo sfondo del quale possono e devono essere trovate soluzioni creative”. Quindi il Santo Padre ha richiamato la necessità di “una riflessione profonda su un certo numero di questioni fondamentali”. In primo luogo Benedetto XVI ha citato la necessità di uno studio esauriente della crisi della modernità: “L'antropocentrismo che caratterizza la modernità non può mai essere alieno da un riconoscimento della verità piena sull'uomo, che include la sua vocazione trascendente”. Una seconda questione implica l'ampliamento della nostra idea di razionalità: “Il concetto di ragione deve essere ‘ampliato’ per essere in grado di esplorare e comprendere quegli aspetti della realtà che vanno oltre la dimensione meramente empirica. Ciò permetterà un approccio più fecondo e complementare al rapporto fra fede e ragione”. Una terza questione riguarda il contributo del cristianesimo all'umanesimo del futuro: “La questione dell'uomo, e quindi della modernità, sfida la Chiesa a escogitare modi efficaci di annuncio alla cultura contemporanea del ‘realismo’ della propria fede nell'opera salvifica di Cristo. Il cristianesimo non va relegato al mondo del mito o dell'emozione, ma deve essere rispettato per il suo anelito a fare luce sulla verità sull'uomo, a essere in grado di trasformare spiritualmente gli uomini e le donne, e quindi a permettere loro di realizzare la propria vocazione nel corso della Storia”. Il Papa ha evidenziato che “la società ha urgente bisogno del servizio alla sapienza che la comunità universitaria fornisce” e “i professori universitari, in particolare, sono chiamati a incarnare la virtù della carità intellettuale, riscoprendo la loro primordiale vocazione a formare le generazioni future non solo mediante l'insegnamento, ma anche attraverso la testimonianza profetica della propria vita. L'Università, da parte sua, non deve mai perdere di vista la sua chiamata particolare a essere una ‘universitas’ in cui le varie discipline, ognuna a sua modo, siano considerate parte di un unum più grande… Lo sforzo di riconciliare la spinta alla specializzazione con la necessità di tutelare l'unità del sapere può incoraggiare la crescita dell'unità europea e aiutare il continente a riscoprire la sua specifica ‘vocazione’ culturale nel mondo di oggi. Solo un'Europa consapevole della propria identità culturale può rendere un contributo specifico alle altre culture, pur rimanendo aperta al contributo di altri popoli.” Al termine del suo discorso, il Papa ha espresso l’auspicio che “le università divengano sempre più comunità impegnate nella ricerca instancabile della verità, ‘laboratori di cultura’ in cui i docenti e gli studenti siano uniti nell'esplorare questioni di particolare importanza per la società, utilizzando metodi interdisciplinari e contando sulla collaborazione dei teologi”. In particolare le nuove forme di collaborazione fra le varie comunità accademiche che nasceranno, permetteranno alle università cattoliche particolarmente numerose nel continente europeo, di rendere testimonianza della fecondità storica dell'incontro fra fede e ragione. “Cari amici - ha concluso il Santo Padre -, che le vostre deliberazioni di questi giorni siano feconde e contribuiscano a creare una rete attiva di operatori universitari impegnati a portare la luce del Vangelo alla cultura contemporanea”. (Agenzia Fides, 25 giugno 2007)
Perché Benedetto XVI vuole la messa in latino Benedetto XVI ha firmato il motu proprio, di prossima pubblicazione, che (a quanto è dato sapere) renderà più agevole l’uso corrente del missale romanum, detto di Pio V (1570). Il messale latino, che impropriamente si indica come “preconciliare”, era uscito dall’uso come mera conseguenza dell’adozione della liturgia nelle lingue moderne, ma, in quanto “espressione vivente della chiesa”, non era mai stato “superato” né avrebbe potuto esserlo; tantomeno “abolito”. L’iniziativa del Pontefice, della cui imminenza hanno dato notizia i quotidiani di domenica 17 giugno, appare rivolta contro la lettura ideologica e sostanzialmente “rivoluzionaria” del Concilio proposta da non isolate élite teologiche e pastoralistiche cattoliche, e lentamente penetrata anche nei laicati parrocchiali. A mio avviso la “legittimazione” rinnovata del missale romanum riconduce la vita cattolica alla sua essenziale natura di complexio oppositorum, di unità ordinata di polarità in tensione, indicando la storia cattolica precedente il Concilio Vaticano come vitale orizzonte dello “spirito” stesso del Concilio e della sua realizzazione – “realizzazione” che molti estremismi hanno vissuto invece come incommensurabile col passato. La nuova possibilità di una celebrazione non più “eccezionale” della Messa latina è decisione di governo che si radica nella lunga durata della riflessione del teologo Joseph Ratzinger. Essa funge da correttivo se non da pieno risarcimento di un’indebita frattura pratica (e, prima ancora, ideologica) consumata nel tardo Novecento cattolico “conciliare”. Frattura con la tradizione moderna della Chiesa e, quanto alla lingua, pressoché con l’intera tradizione. La frattura non era, peraltro, nella lettera della riforma liturgica; è avvenuta nella cancellazione di fatto dello spirito della liturgia precedente la riforma, quasi intendendo o lasciando intendere ch’essa fosse in sé inadeguata (il che è intrinsecamente assurdo). Vi è di più nella intentio di Papa Benedetto. Se guardiamo all’interno del dato liturgico-sacramentale la rinnovata legittimità di un’eucaristia (come si ripete manieristicamente oggi) celebrata secondo il Messale di Pio V e in lingua non corrente, sembra destinata a riequilibrare gli “eccessi” liturgici (rituali, linguistici, fino architettonici) e in particolare gli slittamenti frequenti verso una asacramentalità se non desacramentalizzazione delle celebrazioni attuali. Slittamenti che hanno una preoccupante rilevanza de fide. Sottolineo, per punti, i motivi di questa mia convinzione. a. La lingua non-ordinaria favorirà la percezione di una antiquitas del rito, di una originarietà su cui il presente non spadroneggia o prevarica, ma profondamente e necessariamente si impianta secondo continuità. Anche una esperienza non più “trasgressiva” del rito latino darà il senso del rapporto necessario fra tradizione e innovazione (o, meglio, adattazione) e della loro reciproca forza moderatrice. Lo sanno i credenti che hanno frequentato in questi decenni le liturgie monastiche in latino, ancora più che quelle “tradizionalistiche”. b. La forma e la disciplina rituale della Messa di Pio V avranno una obiettiva rilevanza per l’orizzonte di fede (secondo l’unità di lex orandi e lex credendi). Specialmente l’essere “rivolti al Signore” del celebrante e dell’assemblea (che oggi appare piuttosto rivolta al celebrante, e il celebrante ad essa) e la contemporanea riscoperta della eccentricità dell’altare rispetto agli astanti, costringerà a riflettere di nuovo su spazio e tempo sacro, sul loro senso e fondamento. Di nuovo ma non in maniera “nuova”, piuttosto nei termini della tradizione cattolica, latina e orientale. Né la comunità radunata, né i suoi sentimenti, la sua disposizione interna ed esteriore, né la sua socialità o compagnia sono, infatti, il perno e la condizione prima del sacrificium missae. Non è il behavior dell’assemblea che conta: tentazione pragmatistica e attivistica - una “liturgia attiva”! – di cui il sociopsicologismo di liturgisti e pastoralisti (e progettisti di edifici e spazi liturgici) sembra non essere consapevole. Al contrario l’azione della comunità orante è sotto la forma sacrificale e da lì trae le proprie disposizioni; l’agire è al servizio dei divina mysteria. Il divino sacer-dos sacrifica se stesso al Padre e il celebrante e l’assemblea sono tratti in questo abisso, nella sua direzione e senso. Nel canon missae non vi è altro che abbia tale rilevanza, non vi è altro principio ordinante. Simbolicamente tutto ciò risulta più chiaro nel traguardare verso il Signore oltre il celebrante e l’altare; più nel trascenderli, dunque, che nell’attuale colloquio frontale tra celebrante e popolo. Il rivolti al Signore si oppone anche alla tentazione di concepire l’altare come spectaculum al centro (o quasi) dell’assemblea . c. La significatività recuperata (ma antica nella storia della fede cristiana) di una liturgia “che ha al centro il Santissimo Sacramento che brilla di viva luce” (come si esprimeva Jungmann sulla liturgia postridentina) vorranno una catechesi e una predicazione della Presenza reale, del “Dio con noi” caro a Joseph Ratzinger teo-logo; insomma, si imporrà una nuova e antica attenzione ai sacramenti secondo un annuncio di Realtà, oltre il livello emozionale-affettivo e le depauperate paro-le d’ordine del “per amore”. Questa è, dunque, la speranza che sembra di cogliere dalla decisione di Benedetto: che l’evidenza di una essenziale stabilità della Tradizione, confermata anche dalla rinnovata “validità” ordinaria della lingua latina liturgica, venga incontro (sia medicina) al disorientamento delle comunità e delle generazioni cristiane variamente quanto poco consapevolmente investite dal radicalismo “conciliare”. La nuova legittimità della Messa latina sarà, infine, di fronte al popolo cristiano, una meritata sconfitta dell’arroganza e, specialmente, della superficialità teologica e religiosa di un esercito di “riformatori” talora improvvisati, spesso improvvidi. (Pietro De Marco, L’occidentale, 20 Giugno 2007)
24 GIUGNO 2007
Il monito del Papa: «Attacchi sistematici a matrimonio e famiglia» In Europa è in atto un'«insistente pressione» ideologica che vuole ridurre il cristianesimo solo in una «dimensione privata». Specie nei Paesi dell'ex blocco orientale, «il consumismo, l'edonismo, il laicismo, il relativismo» stanno riuscendo là dove il comunismo s'era dovuto arrendere, specialmente «con un attacco sistematico al matrimonio e alla famiglia». E per questo, allora, è indispensabile un autentico «programma apostolico», capace di salvaguardare il patrimonio spirituale di quei Paesi «nel segno dei Santi Cirillo e Metodio», evangelizzatori di quelle terre. Così ieri mattina Benedetto XVI s'è rivolto ai vescovi della Conferenza episcopale della Repubblica Slovacca, ricevuti nel Palazzo apostolico in Vaticano in occasione della loro quinquennale visita ad Limina Apostolorum. Dopo aver ricordato che il popolo slovacco «nel secolo scorso, ha dovuto patire pesanti sofferenze e persecuzioni da parte del regime totalitario comunista», Papa Ratzinger ha richiamato il motto - "Fedeli a Cristo, fedeli alla Chiesa" - dell'ultima delle tre visite in compiute in Slovacchia da Papa Wojtyla, nel 2003: «Questo motto - ha affermato - continua ad essere un autentico programma apostolico e missionario, non solo per la Chiesa in Slovacchia, ma per tutto il Popolo di Dio, sottoposto com'è, specialmente in Europa, a una insistente pressione ideologica che vorrebbe il cristianesimo ridotto alla mera dimensione privata». Qualcosa di ben evidente in Slovacchia, che «dal punto di vista religioso-culturale», dopo «essere uscita dal tunnel della persecuzione», sta entrando sempre più «nella dinamica tipica di altri Paesi europei di antica tradizione cristiana, fortemente segnati, in questa nostra epoca, da un vasto processo di secolarizzazione». Per Benedetto XVI, «la Slovacchia e la Polonia, che nell'Est dell'Europa sono i due Paesi portatori della più ricca eredità di tradizione cattolica, sono attualmente esposte al rischio di vedere tale patrimon io, che il regime comunista non è riuscito a distruggere, pesantemente intaccato dai fermenti caratteristici delle società occidentali: il consumismo, l'edonismo, il laicismo, il relativismo». Il Papa ha poi sottolineato l'impegno «nell'elaborazione del Piano per la pastorale e l'evangelizzazione della Chiesa cattolica in Slovacchia per gli anni 2007-2013», che accompagnerà il cammino religioso del Paese «in vista del 2013, anno in cui commemorerete il 1150° anniversario dell'inizio della missione dei Santi Cirillo e Metodio nelle vostre Terre». Tra i contenuti più significativi, ha citato la pastorale giovanile e la presenza di numerose scuole cattoliche, la pastorale familiare e il «fattore destabilizzante» dell'«attacco sistematico al matrimonio e alla famiglia condotto nell'ambito di una certa cultura e dei mass-media». Quanto alle vocazioni, ha ricordato come all'unico seminario esistente durante il comunismo «se ne sono aggiunti altri cinque in questi anni, e oggi quasi tutte le parrocchie sono provviste del loro pastore», ma ciò non vede distrarre dal «dare priorità a un'attenta pastorale vocazionale». (Salvatore Mazza, Avvenire, 16 giugno 2007)
Giuseppe Alberigo e la Chiesa nella storia Quando ho appreso la morte di Giuseppe Alberigo, storico della Chiesa di fama internazionale, mi sono ricordato quel che mi raccontò molti anni fa il cardinale Congar a proposito di questo studioso: «Mi ha colpito - mi disse - che potevamo passare un giorno a discutere con lui in un convegno, ma poi lo trovavo con la Bibbia la mattina presto in cappella». Infatti il professor Alberigo è stato, a suo modo, un uomo di fede che ha amato la Chiesa. La dimensione di fede di Pino, come lo chiamavano gli amici, seppure nascosta dal suo pudore, è stato il filo della sua esistenza. Così era toccato sempre e profondamente da una bella e partecipata liturgia, dalla predicazione della Parola di Dio, da una comunità credente. Questo va ricordato per non fermarsi all'erudito, allo studioso, all'uomo di tante battaglie. Pietro Parente, cardinale e teologo della scuola romana, rammentando il suo intervento al Concilio Vaticano II in favore della collegialità, mi disse molti anni fa: «Avevo letto il libro di Alberigo, Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale, ed aveva ragione storicamente». Parente non era una personalità che si trovava sulla stessa lunghezza d'onda di Alberigo. Eppure con quel libro, nel 1964, il giovane studioso (era nato nel 1926) si impose all'attenzione non solo del mondo degli storici, ma anche di quello della Chiesa e della teologia. Erano gli anni del Concilio, in cui Alberigo ha avuto un ruolo notevole nel quadro del lavoro dell'«officina bolognese», guidata da don Giuseppe Dossetti e in sintonia con il cardinale Lercaro, arcivescovo di Bologna. A quella stagione risalgono le sue relazioni con Congar, Chenu, ma anche con Joseph Ratzinger, con il migliore pensiero teologico europeo. E' una storia solo in parte indagata, ma che si radica nell'esperienza del Centro di documentazione, poi Istituto per le scienze religiose di Bologna, fondato nel 1953 da Giuseppe Dossetti. Questi, qualche anno dopo l'inizio, scriveva a Lercaro: «Il Centro è nato da una constatazione: quella cioè che le istituzioni culturali italiane non danno quasi nessun posto alla scienza religiosa…». Mai Alberigo ha nascosto come Giuseppe Dossetti rappresentasse una grande lezione per la sua vita prima che per le sue ricerche. Di lui scriveva assieme alla moglie: «la sua testimonianza ha sempre coniugato con tutte le sue forze creatività intellettuale, impegno interiore e dedizione personale in un contesto di fede cristiana intensamente professata». Questo era un ideale di vita, che egli condivideva con Angelina, la moglie, compagna di tante avventure ecclesiali e intellettuali con un senso di "militanza" che appare originale rispetto allo stile di tanti accademici. Alberigo era però una storico rigoroso, che aveva assorbito l'insegnamento storiografico di Delio Cantimori (di cui era stato assistente) e di Hubert Jedin. La sua attenzione si era concentrata sul governo della Chiesa e le sue istituzioni, sui Concili e la loro storia. La riforma della Chiesa e la ricerca dell'unità avevano attraversato come un'unica grande passione il suo lavoro di studioso. Credeva molto all'Ecclesia sempre reformanda e intendeva contribuirvi. Bisognava leggere e capire il cristianesimo nella storia: così fu intitolato il volume per i suoi settant'anni da amici e allievi, Cristianesimo nella storia; così è intitolata la rivista dell'Istituto che egli guidava. Storia e cristianesimo sono stati i poli dei suoi interessi di una vita: l'uno mai separato dall'altra. La grande lezione che egli traeva dai suoi studi storici era la scoperta della ricchezza delle dimensioni e dei volti della Chiesa nel passare dei secoli. A questo intendeva appassionare gli studiosi più giovani, che poi spesso hanno seguito loro percorsi propri, ma a partire dal suo insegnamento storiografico. La figura paradigmatica del sentire tra grande storia e riforma nel presente gli era apparsa proprio papa Giovanni, a cui ha dedicato tanto studi e la cui beatificazione auspicava fin dai tempi del Concilio. Così concludeva un libro dedicato a Giovanni XXIII, scritto con Angelina: «Lavorando su Giovanni si ha l'inebriante impressione di fare storia del futuro». Questa era un po' la sua convinzione: lavorando sulla storia si potevano preparare materiali per la storia del futuro. In questa prospettiva Giovanni XXIII e la storia del Vaticano II erano stati i due campi in cui, negli ultimi due decenni, aveva lavorato e guidato una serie di studiosi. Le sue interpretazioni sul Concilio hanno fatto molto discutere. Il che non aveva preoccupato lo studioso di Bologna, il quale anzi lamentava che nella Chiesa e nel mondo degli storici la quantità e la qualità del dibattito si fossero ridotte. Per lui il dibattito non era però quello dei talk show, ma quello severo degli studi e delle idee, alla cui forza credeva fermamente. Viveva infatti il suo essere storico come un originale magistero e, conscio di questo, ponderava i suoi giudizi sui lavori propri ed altrui, lasciando stupiti i più giovani, abituati ad un altro modo di concepire la vita universitaria e la ricerca. La cultura italiana non può dimenticare il grande contributo di Alberigo al risveglio dell'interesse per gli studi storici della Chiesa, del cristianesimo, della storia della teologia e in senso lato delle tematiche religiose. Si tratta di un settore quasi dimenticato nell'Università italiana, considerato solo buono per studiosi dell'antichità o un campo di carattere confessionale. Alberigo (che ha insegnato a Bologna dal 1968) è stata una delle personalità che, in tempi in cui gli studi religiosi erano trattati come una specie di archeologia, ha richiamato al loro valore per comprendere il presente e per una vera cultura umanistica ed è, in parte, riuscito a creare spazio a questa sensibilità. Lo studioso di Bologna ha inteso, però, offrire i suoi studi alla Chiesa. Non lo faceva per coinvolgere l'autorità del Papa o della Chiesa in l etture di cui portava la responsabilità personale. La presentazione dei lavori dell'Istituto da lui presieduto ai Papi (a partire da quella dei Conciliorum Oecumenicorum Decreta a Giovanni XXIII nel 1962 sino all'ultimo incontro con Benedetto XVI) esprime simbolicamente l'atteggiamento con cui Giuseppe Alberigo ha lavorato e vissuto: offrire la storia, la sua storiografia alla Chiesa. (Andrea Riccardi, Avvenire, 16 giugno 2007)
Roma: 3.700 iscritti per dare un volto al nuovo programma pastorale I giovani. L'educazione. L'incontro con Dio. Parole che risuonano negli interventi del Convegno ecclesiale diocesano, iniziato lunedì col discorso di Benedetto XVI e concluso giovedì sera con l'intervento del cardinale Camillo Ruini. Al centro, ancora una volta, le nuove generazioni e la sfida educativa: Gesù è il Signore. Educare alla fede, alla sequela, alla testimonianza era infatti il titolo scelto per l'appuntamento diocesano. Che tradizionalmente si svolge nel mese di giugno, ed è destinato a gettare i semi del Programma pastorale per l'anno successivo. Alla cui elaborazione contribuiscono tutti i partecipanti: nell'edizione 2007 dunque i 3.695 iscritti, età media 43,4 anni. Nella giornata di martedì i fedeli sono stati suddivisi in gruppi a seconda del settore territoriale di appartenenza, come indicato dal Consiglio dei prefetti. Seguendo il «Foglio di lavoro», hanno concentrato le proprie riflessioni su cinque ambiti. Innanzitutto: come raggiungere l'obiettivo della «pastorale integrata» creando sinergia tra parrocchie, associazioni, movimenti. Quindi, su quali aspetti puntare nella catechesi per far sì che la Chiesa sia percepita come «compagnia affidabile». Inoltre, come formare al meglio gli educatori; in che modo realizzare itinerari formativi; e su quali iniziative puntare per educare i giovani alla fede, alla sequela, alla testimonianza. Le sintesi dei lavori di ogni ambito sono state poi presentate da cinque rappresentanti all'assemblea, prima della conclusione del Convegno affidata al cardinale vicario. Spunto di riflessione, per i fedeli, anche l'intervento di lunedì di Franco Nembrini. Insegnante, rettore e co-fondatore di un centro scolastico nel bergamasco, presidente della Compagnia delle Opere educative, Nembrini è padre di quattro figli. L'educazione, spiega, «è l'offerta di una proposta di vita esistenzialmente significativa e convincente, che ha le sue radici nella esperienza lieta e certa del testimone». Racconta aneddoti, episodi vissuti come genitore e, prima ancora, come figlio. Più volte lo interrompono gli applausi. «Tutto il segreto dell'educazione - conclude Nembrini - mi pare sia questo: i tuoi figli ti guardano. Qualsiasi cosa facciano, in realtà con la coda dell'occhio ti guardano sempre, e che ti vedano lieto e forte davanti alla realtà è l'unico modo che hai di educarli. Lieto e forte non perché sei perfetto, ma perché sei tu il primo a chiedere e ad ottenere ogni giorno di essere perdonato». (Giulia Rocchi, Avvenire, 16 giugno 2007)
Ruini: «Venga alla luce il mondo dell'amore» Far venire alla luce sempre di più il «mondo della bontà, dell’amore, della dedizione, del lavoro e della fatica, del sacrificio quotidiano, delle relazioni e degli affetti normali, generosi e costruttivi, nell’educazione delle nuove generazioni come nel servizio ai poveri, nella proposta della cultura della vita». Un mondo che «esiste ed è diffuso». Grazie all’impegno di «coloro che si sforzano di seguire il Signore». Auspicio e insieme appello del cardinale Ruini - che ha anche proposto l’esempio del recente "Family Day" - ad una rivitalizzata espressione pubblica della fede, rivolto nella serata conclusiva del Convegno ecclesiale diocesano, giovedì 14, nella basilica di San Giovanni in Laterano, al termine di tre intense giornate di lavori aperte dalla relazione del Santo Padre. Proprio a questo discorso il cardinale ha fatto più volte riferimento, ringraziando ancora Benedetto XVI per il "dono" del suo libro su Gesù di Nazaret. «Dono» - ha annunciato il cardinale - che sarà al centro dell’attenzione della diocesi nel prossimo anno pastorale: nei temi degli incontri del clero, dei laici e delle religiose, nei « Dialoghi in Cattedrale», in incontri culturali. «Dono», ha detto ancora, che contribuirà a dar forza e significato alla forte affermazione del Convegno «Gesù è il Signore». «Verità fondante che implica e richiede l’adesione di vita a Cristo, l’amicizia personale con Lui». È su Cristo che bisogna «insistere a livello sia dei formatori sia di coloro che vengono formati», e non si tratta «solo di sapere e nemmeno soltanto di credere intellettualmente, ma di aderire a Cristo e di vivere di Lui». Premessa e insieme traguardo dell’educazione cristiana, impegno che deve avere sempre come orizzonte «il senso della grandezza della nostra vocazione». Affrontando più specificamente il tema delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, il cardinale Ruini ha avvertito «il sintomo di un insufficiente coinvolgimento esistenziale, il rischio di una secolarizzazione interna della comunità cristiana» in merito ai «segnali meno favorevoli» di cui parlava il Santo Padre. Segnali che, ha precisato, «non riguardano il Seminario Minore in crescita vocazionale e le Comunità Neocatecumenali molto feconde di vocazioni». Ma il quadro complessivo richiede «un impegno più organico per la pastorale, insieme giovanile e vocazionale, con un sacerdote dedicato a questo a tempo pieno». Rispetto all’«emergenza educativa» evocata da Benedetto XVI, il cardinale vicario ha condiviso l’urgenza della comunione e anche di una «pastorale integrata», per favorire il senso della Chiesa, su cui c’è «bisogno di crescere». Pur nelle difficoltà, tra i limiti e «peccati diffusi tra i figli della Chiesa anche nel campo dell’educazione delle nuove generazioni», il cardinale ha invitato a «non perdere di di vista il grandissimo bene» realizzato dai tanti che si impegnano in nome del Vangelo. E a concretizzare la vicinanza ai giovani nel segno della misericordia, «non nel senso di un facile buonismo, ma della gratuità e capacità di donazione». Il cardinale ha sottolineato ancora la caratteristica del rapporto educativo come «incontro di libertà», e la necessità di una testimonianza autorevole per avvicinare le nuove generazioni che oggi sono «incapaci di autentiche certezze interiori e quindi anche di scelte impegnative». Da qui l’urgenza di quella «pastorale dell’intelligenza» di cui il Papa già parlò l’anno scorso, allo scopo di «formare persone adulte e cristiani ben radicati». Il cardinale Ruini ha concluso nel segno della fiducia, ribadendo la soddisfazione per i frutti di quel «servizio alla diaconìa» che risulta così essenziale nell’attuale contesto sociale, in un clima veicolato dai mezzi di comunicazione. «Siamo consapevoli dell’attuale emergenza educativa - ha detto - ma non possiamo però assumere un atteggiamento rinunciatario o difensivo, al contrario siamo provocati a rendere più visibile quel grande "sì" che, come ha detto il Papa a Verona, Dio in Gesù cristo ha detto all’uomo e alla sua vita». Sapendo «di fare un servizio anche al nostro Paese». (Angelo Zema, RomaSette, 15 giugno 2007)
«Preti: nel mondo, testimoni dell’amore» Sa di essere portatore di una logica che oggi è sempre meno condivisa, quella dell'amore, l'unica in grado di «trascendere» il dominante pensiero «funzionalista». Ma sa anche di dover «coinvolgersi» nel mondo e nella società, lottando per i valori della persona e della famiglia, oltre che usando i linguaggi dell'era contemporanea, come tv e internet. È questo il ritratto del prete tracciato dalla lettera inviata dalla Congregazione per il clero in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la santificazione sacerdotale. Un documento firmato dal prefetto del dicastero vaticano, il cardinale Claudio Hummes, in occasione dell'appuntamento che si celebra oggi, solennità del Sacro Cuore di Gesù. Al centro il tema scelto per quest'anno: «Il sacerdote, nutrito della Parola di Dio, è testimone universale della carità di Cristo». Ricchi i passaggi della lettera intessuti dalle parole del magistero di Benedetto XVI e di Giovanni Paolo II. «Il sacerdote deve essere innanzitutto un "uomo di Dio" - ricorda Hummes citando le parole pronunciate da Ratzinger alla sessione inaugurale della V Conferenza generale dell'episcopato latinoamericano e dei Caraibi -, solo così sarà capace di condurre a Dio gli uomini ed essere rappresentante del suo amore». «Portare Dio agli uomini», infatti, è il compito primario di ogni sacerdote, chiamato a un radicale «teocentrismo», senza il quale si rischia di cadere «nell'eccesso dell'attivismo». «Cuore» del ministero ordinato, inoltre, è la celebrazione dei sacramenti, strumenti per conoscere Dio e immagini efficaci del suo vero volto. «Nell'Eucaristia facendoci ministri del Pane di vita eterna - scrive il porporato -, veniamo invitati a contemplare la bellezza del mistero dell'amore di Cristo e a riversare l'impeto del suo Cuore innamorato su tutti gli uomini». Il sacerdote, quindi, con la sua vita, testimonia un altro modo di pensare e agire. Ecco perché «è parte costitutiva della forma eucaristica dell'esistenza sacerdotale la tensione missionaria». Ogni prete, infatti, è chiamato a «farsi pane spezzato per la vita del mondo». Da qui si comprende l'invito a «non rimanere ai margini della lotta per la difesa della dignità della persona umana». E nella stessa ottica si coglie anche il senso del celibato: «dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa». Molti gli ambiti in cui i sacerdoti sono chiamati a rendere testimonianza della «carità di Cristo». Innanzitutto, ricorda Hummes, «la missione, il kerigma e la catechesi», che spesso si concretizzano nella ricerca «dei cattolici che si sono allontanati e di coloro che conoscono poco o niente Cristo». «In questo ambito - aggiunge la lettera - non sono sufficienti i luoghi tradizionali della catechesi ma è necessario aprirsi agli altri nuovi aeropaghi della cultura globale: oltre alla stampa, radio e televisione, si dovrà ricorrere maggiormente alla posta elettronica, ai siti internet, alle video-conferenze, e a tanti altri recenti sistemi, per comunicare efficacemente il kerigma ad un gran numero di persone». Strumenti «che la gente mostra di gradire», dice Hummes, ma che «abbiamo forse, talvolta, sottovalutato troppo», eppure anch'essi «se espressione di contenuti, non costituiscono formalismo ma forma atta a veicolare sostanza». Altro campo di testimonianza per i sacerdoti, poi, è la promozione delle istituzioni ecclesiali di beneficenza. Importante, inoltre, è «il sostegno della cultura della vita», per la quale c'è bisogno di uno «sviluppo integrale» degli uomini, con la promozione di «quei mezzi necessari a sopprimere le gravi disuguaglianze sociali e le enormi differenze nell'accesso ai beni». Parte dell'impegno nella «testimonianza della Verità, senza cedimenti, né irenismi», sarà anche «la formazione dei fedeli laici» e «il sostegno della famiglia». In quest'ultimo ambito «particolare importanza ha la necessità di sostenere il valore dell'unicità del matrimonio». Un compito arduo reso profetico da «dottrine politiche e correnti di p ensiero che continuano a fomentare una cultura che ignora o compromette la verità sul matrimonio e la famiglia». «Nella nostra pastorale fatta di parole e di Sacramento - conclude Hummes -, eviteremo gli scogli dell'attivismo, del fare per il fare, e supereremo gli attacchi di laicismo e secolarismo». (Matteo Liut, Avvenire, 15 giugno 2007)
Transgender: l’identità sconquassata Tra la fine di ottobre e i primi di novembre 2006 si è tenuta a Bologna la quarta edizione del Gender Bender Festival. Il titolo del festival organizzato da uno dei circoli gay più importanti d’Italia allude ad uno stato sessuale e identitario che va al di là del genere sessuale (gender = genere, bender = colui che piega); tra le proposte l’animalità, il travestitismo, la pornografia. Sono cose che possono far sorridere se non che la storia moderna ci ha abituati a constatare come, spesso, le affermazioni più estreme “gridate” da piccole minoranze diventano, nel giro di una generazione, proposte di legge per entrare quindi nell’ordinamento giuridico degli Stati e nel comune sentire della popolazione. E in effetti, se abbiamo la forza morale e la pazienza di guardare alcuni “salotti televisivi” dove si dispensano i luoghi comuni della classe intellettuale del Paese, ci renderemo canto che oggi il senso comune (famiglia fondata sub matrimonio fra un uomo e una donna, accettazione della propria identità personale sessuata) è considerato il pensiero di una minoranza. Certo, se dagli intellettuali passiamo alla gente comune il rapporto cambia, ma l’obiettivo delle minoranze e proprio il cambiamento del modo di percepire la realtà della gente comune. Quanti erano i comunisti nel 1848 quando venne pubblicato il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e quale era il loro peso politico? Eppure solo 23 anni dopo, nel 1871, tennero in scacco la capitale della Francia per settimane dando vita all’episodio della Comune di Parigi. Chi ha valutato il fatto che l’impero sovietico sorse da un pugno di uomini che conquistarono il potere in Russia nel 1917? Con un editoriale pubblicato sull’inserto domenicale di Avvenire dedicato alla diocesi di “Bologna Oggi”, la curia di Bologna ha avanzato alcune perplessità soprattutto in merito ai finanziamenti pubblici ricevuti dal Gender Bender Festival (3.000 euro dall’assessorato alla cultura della provincia di Bologna, 15.000 euro da parte del Comune, 10.000 euro dalla Regione e più di 30.000 euro dalle fondazioni Monte e Carisbo): «È lecito spendere soldi pubblici per finanziare spettacoli di pornostar mascherate da artisti? […] Tutti abbiamo ascoltato i lamenti del Comuni sui tagli della Finanziaria che potrebbero mettere in pericolo i servizi sociali primari. Mettere in scena la masturbazione o piccanti rapporti omosessuali e forse un servizio sociale primario?». Il sindaco di Bologna e finanziatore della manifestazione, Sergio Cofferati, ha risposto colui alle critiche parlando di «censura e intolleranza»; non si è fatta attendere la contro-replica della curia bolognese: «La Chiesa non censura nessuno ma non accetta neppure di essere censurata, perché non può abdicare al suo dovere-diritto di parlare per il bene e per la dignità della persona umana; e rientra nel dovere-diritto di ogni cittadino di esprimere il proprio parere su come si spende il denaro pubblico. Ciascuno giudichi da che parte sta la volontà di censurare». Come è evidente, quello della censura e dell’intolleranza è un argomento che non regge, ma facile e quasi obbligato quando si ha come antagonista la Chiesa; il vero problema è quello dei finanziamenti pubblici ad una manifestazione simile, che presuppone l’idea che il Gender Bender Festival contribuisca al bene comune. È proprio così? Il catalogo della manifestazione recita: «La leonessa che occhieggia dalla copertina della quarta edizione di Gender Bender ci invita a forzare la gabbia delle convenzioni per andare a caccia della personale forma di felicità che consiste nella piena realizzazione dei propri ruggenti desideri. Desiderio di libertà dagli stereotipi e dalla cattività imposta da quella Norma che tenta di domare e ammaestrare i generi e gli orientamenti sessuali. Se infatti non si è nati con la criniera, quale legge della Natura ci impone di non rimediare alla svista indossandone una?». Davvero rimediare alle “sviste” della natura, perseguire una «personale forma di felicità, che consiste nella piena realizzazione dei propri ruggenti desideri» corrisponde ad un obiettivo sociale e culturale che la società può proporre in maniera così attiva? Voler rimediare alle “sviste” della natura ha un nome: Rivoluzione. Si tratta della superba ribellione alla realtà inaugurata da Satana, portata tra gli uomini dai progenitori (“eritis sicut Deus” — sarete come Dio) realizzata dalla Rivoluzione Francese, Comunismo, dal Sessantotto. Tutti esperimenti, insomma, per lo meno fallimentari, se proprio non si vogliono chiamare malvagi e perversi: la promessa di felicità si è sempre dimostrata certezza di sofferenza. Per quanta riguarda invece la «piena realizzazione del propri ruggenti desideri», si è trasformata in una vera e propria “dittatura del desiderio”, ma anche in questo caso non c’è traccia della promessa felicità. Basti ricordare l’intervista all’onorevole Emma Bonino comparsa sulla rivista femminile Grazia il 17 marzo 2006. L’esponente radicale ha raccontato di aver provato sulla sua pelle tutti i «ruggenti desideri» la cui piena realizzazione non può essere vietata in un paese laico e moderno: aborto, fecondazione assistita, convivenza, l’andare dove porta il cuore. L’esito? «Piango moltissimo, da sola». Forse è questo che intendeva il Presidente del Consiglio Romano Prodi con quella frase usata durante uno del faccia a faccia elettorali del 2006: «organizzare un po’ di felicità per noi». Tuttavia, la realtà ci insegna che inseguendo i propri desideri non si raggiunge la felicità; la felicità si raggiunge piuttosto permettendo alla propria natura di svilupparsi a pieno, ossia di diventare ciò che siamo. Perché la nostra natura e la nostra identità non sono “sviste”, ma un meraviglioso progetto, nella realizzazione del quale sta la felicità. Se non si è nati con la criniera significa che non si è un leone; fingere di esserlo è soltanto un’illusione, non la felicità. Bibliografia Cos’è l’ideologia dl genere? Cosa significa questa parola, perché è stata introdotta, e da chi? A queste domande risponde l’attivista pro-family statunitense Dale O’Leary in un suo libro recentemente tradotto in Italia con il titolo Maschi o femmine? La guerra del genere, a cura di Dina Nerozzi (Rubbettino, 2006). L’autrice racconta la sua esperienza alle conferenze ONU del Cairo e di Pechino, durante le quali si è consumato il tentativo di imporre al mondo questa ideologia; e spiega quali siano le relazioni tra il “femminismo radicale” e questa nuova aberrazione del pensiero, che in modo silenzioso e strisciante sta già influenzando le nostre vite. Il testo magisteriale di riferimento è la Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 31 maggio 2004. (Roberto Marchesini, © il Timone, n. 60/2007)
Una manifestazione per i cristiani perseguitati in Oriente: il 4 luglio. Salviamo i cristiani del Medio Oriente. Stiamo assistendo in modo pavidamente e irresponsabilmente inaccettabile alla persecuzione e all'esodo massiccio di centinaia di migliaia di cristiani che sono i veri autoctoni della regione. Alla vigilia della conquista araba e islamica nel settimo secolo, i cristiani costituivano il 95% della popolazione della sponda meridionale e orientale del Mediterraneo. Oggi, con 12 milioni di fedeli, sono precipitati a meno del 6% e si prevede che nel 2020 si dimezzeranno ancora. Dalla prima guerra mondiale circa 10 milioni di cristiani sono stati costretti a emigrare. Una fuga simile alla cacciata degli ebrei sefarditi che, da un milione prima della nascita dello Stato di Israele, si sono assottigliati a 5 mila. Si tratta della prova più eloquente della tragedia umana e dell'imbarbarimento civile in cui è precipitato il mondo arabo-musulmano, in preda al fanatismo ideologico degli estremisti islamici e all'intolleranza religiosa delle dittature al potere. Il caso più grave è quello che colpisce i cristiani in Iraq. Da circa un milione e mezzo prima dell'inizio della guerra scatenata da Bush il 20 marzo 2003, si sono ridotti a circa 25 mila. Un «accorato appello» per la «preoccupante situazione in Iraq» e per le «critiche condizioni in cui si trovano le comunità cristiane», era stato lanciato dal papa Benedetto XVI nel corso del suo incontro con Bush sabato scorso. Proprio ieri, in una dichiarazione raccolta da Avvenire, il vescovo ausiliare di Bagdad, monsignor Shlemon Warduni, ha alzato il tiro denunciando che anche «i cristiani non stanno facendo nulla mentre qui si muore, si viene rapiti, costretti a convertirsi all'islam o a pagare per ottenere protezione, a cedere le proprie figlie a dei delinquenti per evitare ritorsioni o a fuggire lasciando tutto il lavoro di una vita. Dagli Usa e dall'Europa solo silenzio». Dal canto suo il nunzio apostolico in Iraq e Giordania fino al 2006, monsignor Fernando Filoni da poco nominato sostituto Segretario di Stato del Vaticano, in un'intervista a Tracce si era detto pessimista: «Fin quando durano la guerriglia e gli attentati c'è poco da fare. Solo la pace potrà riportare la speranza». Lo scorso maggio sul sito http://iraqichristians.ne/petitionir.php era stato lanciato un vibrante appello alla comunità internazionale per porre fine alla «più feroce campagna di assassinii, sequestri, esproprio di beni e case, cacciata e dispersione, liquidazione dei diritti religiosi e civili da parte di gruppi estremisti religiosi per il semplice fatto che non siamo musulmani». Insieme all'Iraq l'altra grande tragedia dei cristiani orientali è nei territori palestinesi. All'inizio dello scorso secolo i cristiani rappresentavano un quarto della popolazione araba; nel 1948 erano il 20%; con l'avvento al potere dell'Autorità nazionale palestinese di Yasser Arafat nel 1994 si registra la fuga di tre quarti dei cristiani, vittime di persecuzioni e del drastico calo del tenore di vita. Ed è così che i cristiani, perfino nelle città sante cristiane, sono diventati minoranza. A Betlemme erano l'85% della popolazione nel 1948, oggi sono solo il 12%. A Gerusalemme dal 53% della popolazione nel 1922, sono precipitati al 2%. Quanto al Sudan si tratta di un vero e proprio genocidio, con una sanguinosa guerra civile — scatenata dai regimi islamici di Khartum — che ha provocato l'eccidio di circa un milione e mezzo di cristiani e animisti, colpevoli di non sottomettersi alla sharia, la legge coranica. Così come fu genocidio il massacro di 1,5 milioni di cristiani armeni in Turchia, dove oggi non rimangono che circa 100 mila cristiani. Il Libano, che dal 1840 ha registrato quattro guerre intestine a sfondo confessionale, ha visto il numero dei cristiani crollare dal 55% della popolazione dall'indipendenza nel 1932, a circa il 27% odierni. Con il risultato che rispetto al milione e mezzo di cristiani residenti in Libano, ci sono circa 6 milioni di cristiani profughi dispersi nel mondo. La situazione è molto pesante anche in Egitto, dove i copti — che rappresentavano il 15-20 % della popolazione all'inizio dello scorso secolo, oggi sono soltanto circa il 6%. La repressione e le violenze contro i copti sono esplose nel decennio di Sadat quando, alleandosi con i Fratelli Musulmani, lasciò loro mano libera nel promuovere un nefasto processo di islamizzazione forzata della società. In Siria le comunità cristiane che rappresentavano circa un quarto della popolazione all'inizio dello scorso secolo, oggi sono calate a circa il 7%. Più in generale, in quasi tutti i paesi musulmani, dall' Algeria al Pakistan, dall'Indonesia alla Nigeria, dall'Arabia Saudita alla Somalia, i cristiani sono vittime di vessazioni e discriminazioni. E si tratta di una catastrofe per tutti: certamente per le vittime cristiane, ma anche per i musulmani che si ritrovano a essere sottomessi all'arbitrio di spietati carnefici e di tiranni che si fanno beffe della libertà religiosa. Ebbene non possiamo più continuare ad assistere inermi a queste barbarie. Ecco perché propongo di indire una manifestazione nazionale a difesa dei cristiani perseguitati in Medio Oriente e altrove nel mondo, da svolgersi a Roma e che potrebbe coincidere con il 30 giugno, la festa liturgica dei protomartiri romani. Una grande manifestazione per la vita, la dignità e la libertà dei cristiani e per il riscatto dell'insieme della nostra civiltà umana. (Magdi Allam, Corriere della Sera, 13 giugno 2007)
Il 4 luglio in piazza per i cristiani Si terrà il 4 luglio, alle 21 a piazza Santi Apostoli a Roma, la manifestazione lanciata dal vicedirettore del Corriere della Sera, Magdi Allam, contro la persecuzione dei cristiani in medio oriente. Finora hanno sottoscritto l’appello 150 deputati dell’opposizione, mentre dalla maggioranza si contano pochi nomi, fra cui quello di Gerardo Bianco. Di Comunione e liberazione hanno firmato Giancarlo Cesana, Giorgio Vittadini, Alberto Savorana e Luigi Amicone. Molte le firme dal mondo laico, fra cui il direttore del Foglio, Giuliano Ferrara. Ci sarà Dounia Ettaib, responsabile dell’Associazione donne marocchine in Italia. E molti esponenti della comunità ebraica italiana. “L’esodo massiccio dei cristiani ricorda quello degli ebrei sefarditi, che da un milione si sono ridotti a poche migliaia” spiega Allam. “Sarà una manifestazione per affermare la libertà religiosa. Il titolo (‘Manifestazione nazionale contro l’esodo e la persecuzione dei cristiani in medio oriente, per la liberta religiosa nel mondo’, ndr) vuole significare che soltanto il pieno riconoscimento della libertà religiosa potrà salvaguardare i diritti dei cristiani a risiedere nei loro paesi, in quanto veri autoctoni del medio oriente. Per difendere anche la libertà dei musulmani che rifiutano il fondamentalismo islamista”. (Il Foglio 15 giugno 2007)
È sempre accidentato il Cammino dei neocatecumenali È in arrivo l'approvazione vaticana dei nuovi statuti, ma non quella dei catechismi dei fondatori. E continuano i contrasti sui riti liturgici. Luci e ombre anche con la Chiesa greco melchita e con il patriarcato di Mosca. All'inizio della Quaresima di quest'anno, parlando con i preti della sua diocesi di Roma, Benedetto XVI disse a proposito del Cammino Neocatecumenale: "Ci si domanda se dopo cinque anni di esperimento si debbano confermare in modo definitivo gli statuti per il Cammino Neocatecumenale, o se ancora ci voglia un tempo di esperimento, o se si debbano forse un po' ritoccare alcuni elementi di questa struttura". Oggi risulta che il papa abbia sciolto questi suoi dubbi. Sabato 26 maggio ha ricevuto in udienza il fondatore del Cammino, Francisco "Kiko" Argüello, accompagnato dalla cofondatrice Carmen Hernández e dal sacerdote Mario Pezzi, e ha loro assicurato – stando a quanto dichiarato due giorni dopo da Kiko al quotidiano spagnolo "La Razón" – che è vicina l'approvazione definitiva degli statuti. Autorizzati dalla Santa Sede nel 2002 "ad experimentum" per un periodo di cinque anni, gli attuali statuti del Cammino scadono il prossimo 29 giugno. Sarà interessante vedere quali variazioni vi saranno nei nuovi statuti rispetto ai precedenti, sperimentali. Il Cammino Neocatecumenale, fondato in Spagna negli anni Sessanta, è uno dei movimenti cattolici più rigogliosi. Conta 20.000 comunità in 6.000 parrocchie di 900 diocesi di tutti i continenti, con 3.000 preti e 5.000 religiose. Ha una rete internazionale di 63 seminari “Redemptoris Mater”. Sempre stando a quanto riferito da Kiko a "La Razón", Benedetto XVI si è complimentato per l'attività missionaria che il Cammino compie in tutti i continenti e in particolare in Asia. Tuttavia, il Cammino è anche oggetto di riserve e di critiche, da parte della gerarchia della Chiesa. I testi che raccolgono le catechesi rivolte ai membri delle comunità neocatecumenali sono da molti anni sotto l'esame delle autorità vaticane, ma la loro approvazione definitiva sembra ancora lontana. Questi testi, in vari volumi sotto il titolo "Cammino Neocatecumenale. Orientamenti alle équipes dei catechisti", raccolgono la tradizione orale degli iniziatori del movimento e in particolare di Kiko e Carmen Hernández. Non sono pubblici e la congregazione vaticana per la dottrina della fede ha condizionato la sua approvazione a una serie numerosa di correzioni. Altre riserve sono sui modi con cui nel Cammino si celebrano le liturgie. Il 1 dicembre 2005 il cardinale Francis Arinze, prefetto della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, indirizzò ai capi del Cammino una lettera con sei richieste di correzione. La più importante correzione riguardava il modo con cui fare la comunione eucaristica: non seduti attorno a "una mensa addobbata al centro della chiesa", ma in piedi o in ginocchio e arrivando all'altare in processione, come prescritto dai libri liturgici per tutti i fedeli. Arinze diede tempo due anni per adeguarsi al modo corretto di fare la comunione. E il 12 gennaio 2006, in un'udienza a migliaia di neocatecumenali, Benedetto XVI insistette perché si ubbidisse. Ma ancora oggi in molte comunità neocatecumenali di tutto il mondo si continua a fare la comunione come prima, seduti. Una conferma di questa disobbedienza sono i frequenti richiami che i vescovi rivolgono alle comunità neocatecumenali presenti nelle loro diocesi. In Italia, l'ultimo richiamo di questo tipo è stato fatto dal vescovo di Avellino, Francesco Marino. Il documento ha la data del 26 marzo 2007 e porta allegata la lettera del cardinale Arinze del 1 dicembre 2005. Lo scorso 25 febbraio, in una lettera collettiva ai membri del Cammino, anche il patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, e gli altri vescovi cattolici di Terra Santa hanno rimproverato le comunità neocatecumenali di fare gruppo a sé, di celebrare la messa separate dalle parrocchie, di non osservare i riti liturgici, di estraniarsi dalla lingua e dalla cultura della gente del luogo. D'altra parte, i neocatecumenali hanno in Terra Santa una forte presenza, che i vescovi del luogo vorrebbero incanalare e valorizzare. Ne è prova la lettera che l'arcivescovo greco melchita cattolico di Akko, Haifa, Nazaret e tutta la Galilea, Elias Chakour, ha indirizzato il 30 marzo a padre Rino Rossi, direttore della "Domus Galilaeae", la costruzione sul Monte delle Beatitudini, inaugurata da Giovanni Paolo II nel 2000, che è il quartier generale dei neocatecumenali in Terra Santa. L'arcivescovo Chacour ha proposto al Cammino Neocatecumenale, già attivo "con eccellenti frutti" in diverse parrocchie della sua diocesi, di "unire un suo ramo alla nostra Chiesa e adottare il rito melchita cattolico". Ma la riuscita di questa unione è tutta da vedere. Nell'ottobre del 2006 Kiko, Carmen Hernández e don Mario Pezzi, recatisi a Mosca, fecero una proposta di segno inverso alla Chiesa ortodossa russa: proposero di insegnare ai sacerdoti ortodossi il sistema di evangelizzazione in uso nelle comunità neocatecumenali e in seguito di "abilitarne" alcuni di loro a fare altrettanto. Un dispaccio dell'agenzia Zenit del 22 ottobre diede per fatto "l'accordo" tra il Cammino e il patriarcato di Mosca. Ma non era così. Il patriarcato di Mosca temeva che i neocatecumenali volessero fare proselitismo tra i sacerdoti ortodossi e negò l'esistenza di qualsiasi accordo col Cammino, definito "un'organizzazione molto contraddittoria". A Kiko non restò che emettere un comunicato di scuse. (Sandro Magister, www.chiesa, 14 giugno 2007)
Papa Ratzinger rilancia lo spirito d'Assisi. Lo fa da quella piazza della Basilica Inferiore dove Giovanni Paolo II aveva invocato la pace insieme ai leader religiosi di tutto il mondo. «Tacciano le armi, cessino i conflitti che insanguinano la Terra!», è l'appello «pressante e accorato» di Benedetto XVI che riecheggia quello elevato dal suo predecessore nel gennaio del 2002: «Mai più guerra, mai più violenza, mai più terrorismo!». Ad Assisi domenica mattina ci è sembrato di percepire non solo una continuità spirituale ma una sorta di sovrapposizione fisica tra la figura di Benedetto XVI e quella di Giovanni Paolo II. Lo stesso grido di condanna, lo stesso sentimento d'angoscia per tutti coloro che piangono, soffrono e muoiono a causa delle guerre, la stessa drammatica supplica ad ascoltare le ragioni dell'altro. Perché, oggi più di ieri, tutto s'aggroviglia in una micidiale spirale di violenza e dall'Iraq alla Palestina, passando attraverso il Libano, la guerra civile rischia di dilagare in tutto il Medio Oriente. «Per mettere fine a tanto dolore e ridare vita e dignità a persone, istituzioni e popoli» ecco dunque l'urgente necessità di «un dialogo responsabile e sincero, sostenuto dal generoso sostegno della comunità internazionale». La Santa Sede non si stanca di riproporre quella «soluzione negoziata e regionale» di cui il Papa ha parlato ultimamente nel suo incontro con Bush e che sembra essere l'unica strada politicamente sensata dopo il fallimento delle strategie unilaterali e dei colpi di mano. Benedetto XVI ha voluto esplicitamente rilanciare «l'icona di Assisi come città del dialogo e della pace». Ma lo ha fatto in un'occasione tutta particolare, nell'ottavo centenario della conversione di San Francesco, proprio per sottolineare che senza quell'evento non potrebbe esistere lo Spirito di Assisi. Se vogliamo capire fino in fondo la grandiosità del Poverello non possiamo farlo in base al suo amore per la pace e per la natura. «Francesco è un ve ro maestro in queste cose ma lo è a partire da Cristo», nota il Papa che denuncia l'uso improprio dello Spirito di Assisi per diffondere ecologismi e pacifismi di vario tipo. Nello stile chiaro e diretto, tipico del pontificato ratzingeriano, ci viene detto che «Francesco subisce una sorta di mutilazione quando lo si tira in gioco come testimone di valori pur importanti ma dimenticando che il cuore della sua vita è la scelta di Cristo». In questo modo l'anelito alla pace trova il suo fondamento essenziale nella conversione. «Non una conversione per così dire sociale ma una vera esperienza religiosa». Per questo il messaggio di San Francesco risulta tanto attuale e sconvolgente: ci ricorda che per essere davvero «uomo per gli altri» bisogna essere «un uomo di Dio». C'è bisogno di una simile testimonianza soprattutto in Terra Santa, dove San Francesco si recò nel bel mezzo di un feroce scontro di civiltà per incontrare il sultano, il nemico per eccellenza del mondo cristiano, e invitare tutti alla fratellanza. Oggi negli stessi Luoghi Santi c'è purtroppo chi usa il nome di Dio come una clava, incitando all'odio ed alla violenza. La pace ha bisogno della conversione. Messaggio duro per i fanatici e gli integralisti che credono solo in se stessi. Ma è questo lo «Spirito di Assisi», rilanciato da Papa Ratzinger nel segno di San Francesco ed in continuità con l'intuizione profetica di Wojtyla. (Luigi Geninazzi, Avvenire, 19 giugno 2007)
Vaticano: La prostituzione, moderna forma di schiavitù Il Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti e gli Itineranti è tornato a denunciare questo martedì “lo sfruttamento sessuale e la prostituzione” come “atti di violenza che costituiscono un’offesa alla dignità umana e una grave violazione dei diritti fondamentali”. Nella presentazione degli “Orientamenti per la Pastorale della Strada”, affidata al Presidente del Dicastero, il Cardinale Renato Martino, e al suo Segretario, l’Arcivescovo Agostino Marchetto, quest'ultimo ha voluto approfondire, in particolar modo, una delle quattro parti del documento: la “Pastorale per la liberazione delle donne di strada”. Si tratta di donne che “vivono nella strada e della strada”, ma la prostituzione “trascina nella sua rete anche uomini e bambini”, ha sottolineato il presule, denunciando anche la “crescente domanda dei ‘consumatori’ di sesso”. Una risposta pastorale efficace a questo flagello passa per il fatto di “conoscere i fattori che spingono o attraggono le donne alla prostituzione, le strategie usate da intermediari e sfruttatori per sottometterle al proprio dominio, le piste di movimento dai Paesi d’origine a quelli di destinazione e le risorse istituzionali per affrontare il problema”, ha continuato monsignor Marchetto. Il presule ha lodato il fatto che la comunità internazionale e molte organizzazioni non governative stiano cercando, “sempre più energicamente”, di “proteggere le persone vittime del traffico di esseri umani”. Da parte sua, “la Chiesa ha la responsabilità pastorale di difendere e promuovere la dignità umana delle persone sfruttate a causa della prostituzione, e di perorare la loro liberazione fornendo, a questo scopo, un sostegno economico, educativo e formativo”, azioni che si realizzano già in vari ambiti, ha segnalato l’Arcivescovo Marchetto. Anche per rispondere a queste necessità pastorali “la Chiesa deve denunciare profeticamente le ingiustizie e le violenze” perpetrate contro le donne di strada, e combattere questo fenomeno, ha aggiunto. Perché tutto ciò sia fattibile – ha continuato il presule –, è necessaria “una rinnovata solidarietà nelle comunità cristiane e di programmi specifici di formazione per operatori pastorali”. “È necessario, inoltre, collaborare con i mezzi di comunicazione sociale per assicurare una corretta informazione su questo gravissimo problema”, ha avvertito il segretario del dicastero. Marchetto ha espresso anche il dovere della Chiesa di “chiedere l’applicazione di leggi che proteggano le donne dalla piaga della prostituzione e del traffico di esseri umani”, e la necessità di “suscitare una presa di coscienza generale e pubblica su questo grave problema”. “Vittima della prostituzione è un essere umano, che in molti casi 'grida' per ricevere aiuto, per essere liberato dalla sua schiavitù, poiché vendere il proprio corpo sulla strada non è, in genere, ciò che si sceglierebbe volontariamente di fare”, si legge negli Orientamenti. Per questo, una “azione ecclesiale di liberazione delle donne di strada” necessita di “un approccio pluridimensionale”, la cui strategia deve sempre porre al centro i diritti umani. Nella sua denuncia di questo flagello, il Cardinal Martino ha commentato di fronte ai media riuniti, tra i quali era presente anche ZENIT: “Se contassimo gli schiavi oggi, ci sorprenderemmo nel vedere che gli esseri umani che si trovano in situazioni di schiavitù sono più numerosi di quelli che realmente erano schiavi in base all’antico concetto della schiavitù felicemente abolita qualche secolo fa”. Ed è così perché “ci sono bambini trasformati in schiavi, donne rese schiave dalla prostituzione, o quelli che svolgono un lavoro forzato – operai che si trovano in condizioni di schiavitù, perché viene loro sequestrato il passaporto, vengono ridotti a vivere in condizioni disumane”, ha lamentato. Secondo il porporato, questi drammi devono essere considerati più seriamente. “Cosa deve fare un normale cittadino? Esigere dai politici che adottino misure concrete per la lotta a queste situazioni”, ha suggerito. (ZENIT.org, 19 giugno 2007)
Messa di riparazione dell'Arcivescovo di Bologna, dopo l'oltraggio alla Madonna Grazie alla mobilitazione della Chiesa e del popolo cattolico di Bologna, e grazie anche al ravvedimento delle istituzioni è rientrata una oltraggiosa e blasfema mostra organizzata da una associazione di omosessuali contro la figura della Vergine Maria. L’associazione omosessuale di Bologna, denominata “Carni scelte”, aveva organizzato per il 29 giugno (Festa dei Santi Pietro e Paolo) uno spettacolo dal titolo “la Madonna piange sperma”. L’evento era stato patrocinato dal Ministero dello Sport e delle Politiche Giovanili, dalla Regione, dal Comune e dal Quartiere San Vitale. Domenica 17 giugno, “Bologna sette”, l’inserto del quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, “Avvenire”, aveva pubblicato un editoriale dal titolo “Una bestemmia abominevole”, chiedendo se “anche questa volta qualcuno che invocherà la libertà di opinione o di espressione artistica per giustificare la volgarità abominevole della bestemmia, lo sfregio osceno al sentimento religioso dei credenti?”. L’editoriale parlava di “depravazione dell’intelligenza” citando la Lettera ai Romani 1,28 e seguito, e si domandava “se la coscienza civile possa tollerare che simili spettacoli abbiano il patrocinio di un'istituzione civica e possano godere del sostegno pubblico”. In seguito la mostra, definita dal Sindaco di Bologna, Sergio Cofferati, “un’inaccettabile volgarità che offende credenti e non credenti”, è stata cancellata e il patrocinio del Ministero dello Sport e delle Politiche Giovanili è stato revocato. Martedì 19 giugno, alle 18,30, presso il santuario della Madonna di San Luca, l’Arcivescovo di Bologna, il Cardinale Carlo Caffarra, ha quindi presieduto una Messa di riparazione, sottolineando nell'omelia il ruolo decisivo di Maria. “Miei cari fedeli – ha affermato l’Arcivescovo di Bologna –, ciò che stupisce e riempie di commozione, ciò che ha profondamente commosso ogni cuore umano, è che l’evento narrato dall’Apostolo è accaduto nel grembo di una donna” “Il luogo del 'mirabile scambio' è stato il corpo di Maria. È per questo che ella è chiamata Madre di Dio e lo è veramente; che ella è venerata come tempio vero del Signore, arca dell’alleanza, 'dimora di Colui che non ha confini'”. Il Cardinale Caffarra ha quindi ribadito: “Miei cari fedeli, siamo venuti questa sera al santuario mariano – al nostro santuario – non principalmente per commuoverci di fronte alla bellezza della nostra Madre celeste, ma piuttosto portando nel cuore il peso di un insulto grave e pubblico fattole in questa città”. “Siamo venuti per chiedere perdono – ha continuato il porporato – e per riparare una bestemmia che ha rivestito la particolare gravità dell’avvallo oggettivo [la responsabilità e le intenzioni le giudichi il Signore] anche di istituzioni pubbliche”. Secondo il Cardinale Caffarra, si è trattata di “un’ingiustizia commessa nei confronti della Madre di Dio, e quindi nei confronti di ogni credente, poiché la maternità di Maria si estende ad ogni discepolo del Signore: ogni insulto fatto alla Madre è fatto al figlio”. Per l’Arcivescovo di Bologna si è trattato anche di “un’ingiustizia commessa nei confronti della nostra città”. “Il nostro trovarci nel luogo più caro ai fedeli bolognesi in un’occasione tanto triste, risvegli in tutti ed in ciascuno quell’energia morale che nei momenti di maggior travaglio della sua storia ha fatto grande la nostra città”, ha poi concluso. (ZENIT.org, 19 giugno 2007)
Un segreto per i comunicatori: amare Cristo Intervista a padre Raniero Cantalamessa. Viviamo nell’era della comunicazione, ma ciò nonostante assistiamo a un aumento del grado di incomunicabilità tra le persone, afferma il predicatore della Casa pontificia. Padre Raniero Cantalamessa sostiene che il ricorso ai mezzi di comunicazione per evangelizzare può aiutare a risolvere gli aspetti negativi propri del nostro mondo della comunicazione. In questa intervista rilasciata a Zenit, il frate cappuccino parla dei problemi connessi con i media e del segreto per i cattolici impegnati nel mondo della comunicazione. Qual è la sua percezione dei mezzi di comunicazione di oggi? Padre Cantalamessa: La caratteristica dei nostri giorni e della nostra epoca, il suo più brillante successo, è l’informazione, la comunicazione di massa: stampa, cinema, televisione, Internet, telefonia mobile. I mezzi di comunicazione di massa sono i grandi protagonisti del momento. Chiunque può, in ogni momento del giorno o della notte, sapere cosa sta avvenendo nel mondo e mettersi in contatto con qualcun altro in qualsiasi punto del pianeta. Tutto questo è segno di un grande progresso e dobbiamo quindi essere grati a Dio per la tecnologia che lo ha reso possibile. Tuttavia, esistono alcuni aspetti negativi e alcuni gravi pericoli relativi al mondo della comunicazione di oggi. Cosa intende esattamente con questo? Padre Cantalamessa: I mezzi di comunicazione sono orientati al consumismo, nel senso che incoraggiano le persone a consumare e sono a loro volta consumati e fine a se stessi. I media operano su un piano esclusivamente orizzontale. Le persone scambiano tra loro le notizie e, poiché siamo esseri effimeri e transitori, anche le notizie sono egualmente effimere. Ciascuna di esse si sostituisce a quella che l’ha preceduta. Ma alla crescita delle comunicazioni si affianca una crescente esperienza di incomunicabilità. Le comunicazioni sono limiate ai suoni, ai rumori. I rumori ci assicurano di non essere soli; ma vi è una carenza di comunicazione di tipo verticale e creativa, una totale assenza degli altri. I mezzi di comunicazione diventano uno specchio che riflette l’immagine della miseria umana e l’eco del vuoto umano. In breve, i moderni mezzi di comunicazione producono tristezza. I media pongono un accento molto maggiore sul lato tragico e maligno del mondo, a discapito degli aspetti buoni e positivi. Quali altri rischi vede nei mezzi di comunicazione di massa? Padre Cantalamessa: I mezzi di comunicazione ci propongono costantemente immagini di ciò che noi potremmo essere ma che non siamo, di ciò che noi potremmo fare ma che non facciamo. Questo provoca una reazione di rassegnata frustrazione e di accettazione passiva del proprio destino, o al contrario un impellente volontà di emergere dall’anonimato e di imporre se stessi sugli altri. Un altro aspetto negativo dei mezzi di comunicazione, che emerge soprattutto nello spettacolo, è lo sfruttamento dell’immagine della donna, l’abuso che se ne fa del suo corpo e, in generale, l’immagine negativa del rapporto tra i due sessi. Ci può descrivere le caratteristiche di una comunicazione secondo la visione cristiana, in grado di controbilanciare i metodi e i contenuti dei mezzi di comunicazione attuali? Padre Cantalamessa: Io credo che il Vangelo ci possa aiutare a cambiare questa situazione. È la Buona Novella dell’amore di Dio per l’umanità. Dio ci conosce perfettamente, ma egli non usa questa conoscenza per giudicarci. Se ci corregge lo fa per amore. Posso dire, come francescano, che dobbiamo contribuire a diffondere la speranza e la gioia. Francesco è l’uomo della felicità perfetta, il cantore di Dio. Non una felicità illusoria, quindi, ma una felicità fondata sulla speranza. Dobbiamo insistere su questo fondo di fede, su una profonda unione con Cristo e, in particolare, con la croce di Cristo. Esiste quindi un segreto per una comunicazione cattolica? Padre Cantalamessa: Se vogliamo evangelizzare attraverso i mezzi di comunicazione di massa, il segreto è molto semplice: essere innamorati di Cristo. (ZENIT.org, 19 giugno 2007)
Il Papa ai giovani ad Assisi: Aprite le porte a Cristo, senza paura Benedetto XVI ha concluso il suo pellegrinaggio ad Assisi di questa domenica con un emozionante incontro con più di diecimila giovani riuniti nella piazza antistante la basilica di Santa Maria degli Angeli. Nonostante la lunghissima giornata, il Papa ha risposto alle domande dei giovani, lasciando in varie occasioni da parte i fogli e allungando l’incontro di più di mezz’ora. Uno dei ragazzi, Marco Giuliani, ha detto al Papa: “Abbiamo mille interrogativi, ma facciamo fatica a trovare risposte convincenti, e siamo tentati di pensare che la verità non esiste, che ognuno abbia la sua verità”. “Naturalmente ci piace essere allegri, ma anche noi sentiamo come il Papa che il puro divertimento non ci rende felici. Ci aiuti, Santo Padre, a capire e a fare nostra l’esperienza di Francesco”. Una ragazza, Ilaria Perticoni, ha riconosciuto: “Santo Padre, Francesco affascina, ma non è facile seguirlo, imitarlo”. Benedetto XVI ha risposto spiegando che “San Francesco parla a tutti, ma so che ha proprio per voi giovani un’attrazione speciale. Me lo conferma la vostra presenza così numerosa, come anche gli interrogativi che mi avete posto”. “La sua conversione avvenne quando era nel pieno della sua vitalità, delle sue esperienze, dei suoi sogni – ha aggiunto –. Aveva trascorso venticinque anni senza venire a capo del senso della vita. Pochi mesi prima di morire, ricorderà quel periodo come il tempo in cui era nei peccati”. “Purtroppo non mancano – ed anzi sono tanti, troppi! – i giovani che cercano paesaggi mentali tanto fatui quanto distruttivi nei paradisi artificiali della droga. Come negare che sono molti i ragazzi, e non ragazzi, tentati di seguire da vicino la vita del giovane Francesco, prima della sua conversione? Sotto quel modo di vivere c’era il desiderio di felicità che abita ogni cuore umano. Ma poteva quella vita dare la gioia vera? Francesco certo non la trovò”. “Voi stessi, cari giovani, potete fare questa verifica a partire dalla vostra esperienza. La verità è che le cose finite possono dare barlumi di gioia, ma solo l’Infinito può riempire il cuore”. Francesco, ha spiegato il Papa, “ha sentito nel suo cuore la voce di Cristo, e che cosa succede? Succede che capisce che deve mettersi al servizio dei fratelli, soprattutto dei più sofferenti”, “i lebbrosi”. “Toccato dalla grazia, egli aprì loro il suo cuore. E lo fece non solo attraverso un pietoso gesto di elemosina, sarebbe troppo poco, ma baciandoli e servendoli. Egli stesso confessa che quanto prima gli risultava amaro, divenne per lui ‘dolcezza di anima e di corpo’”. Lasciando da parte i fogli, il Pontefice ha spiegato ai giovani che la bussola della loro vita deve essere la verità, perché senza verità perde la sua base la pace. “All’insegna della preghiera è da vedere anche l’impegno di Francesco per la pace. Questo aspetto della sua vita è di grande attualità, in un mondo che di pace ha tanto bisogno e non riesce a trovarne la via”, ha affermato. “Francesco fu un uomo di pace e un operatore di pace. Lo mostrò anche nella mitezza con cui si pose, senza tuttavia mai tacere la sua fede, di fronte ad uomini di altre fedi, come dimostra il suo incontro con il Sultano”, ha sottolineato il Papa. “Se oggi il dialogo interreligioso, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, è diventato patrimonio comune e irrinunciabile della sensibilità cristiana, Francesco può aiutarci a dialogare autenticamente, senza cadere in un atteggiamento di indifferenza nei confronti della verità o nell’attenuazione del nostro annuncio cristiano”. “Il suo essere uomo di pace, di tolleranza, di dialogo, nasce sempre dall’esperienza di Dio-Amore”, ha osservato. “È tempo di giovani che, come Francesco, facciano sul serio e sappiano entrare in un rapporto personale con Gesù. È tempo di guardare alla storia di questo terzo millennio da poco iniziato come a una storia che ha più che mai bisogno di essere lievitata dal Vangelo”. Ricordando le famose parole di Giovanni Paolo II all’inizio del pontificato, ha affermato: “Aprite le porte a Cristo”. “Apritele come fece Francesco, senza paura, senza calcoli, senza misura. Siate, cari giovani, la mia gioia, come lo siete stati di Giovanni Paolo II”. Il Papa ha concluso dando appuntamento ai giovani alla Santa Casa di Loreto, ai primi di settembre, per l’Agorà dei giovani italiani. (ZENIT.org, 19 giugno 2007)
Il Papa ci scusi per un “Gay pride” senza dignità. Lettera aperta di Francesco Cossiga. Santo Padre, ho l'onore di conoscerla di persona e attraverso i suoi scritti da molti, molti anni. E so bene quali siano le Sue doti non solo d'intelligenza e di carità cristiana, ma di comprensione e di tolleranza. Quando prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede Lei ha promosso, nella piena riaffermazione della dottrina morale della Chiesa, comune anche alle altre grandi religioni monoteiste circa l'oggettivo e intrinseco grave disordine delle relazioni omosessuali, già definite dai catechismi cattolici come «peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio», ha promosso documenti dei Vescovi e della stessa Congregazione che prescrivono il dovere di ogni cristiano di rispettare la dignità delle persone omosessuali. Le scrivo questa lettera per chiederle scusa, oltre che a Lei come Vescovo di Roma, come a cittadino elettivo di questa città che La ospita da oltre venticinque anni. Le chiedo scusa per le offese che sono state recate alla Chiesa di Roma, ai suoi simboli e ai suoi principi, e direttamente alla Sua persona da parte dei partecipanti di una manifestazione priva di decoro e di dignità. Io le chiedo scusa come semplice cittadino di questa città e come cattolico, cattolico liberale che crede fermamente nella libertà e nella civile tolleranza, ma «cattolico infante» che, anche se un giorno ricoprì quasi occasionalmente alcune cariche rappresentative dello Stato, nessuna influenza ha né alcun ruolo riveste ormai più nella vita politica e istituzionale del nostro Paese, ma che come cittadino di uno Stato democratico ha il diritto di rammaricarsi per l'offuscamento nella vita italiana per quelli che sono stati i valori storici fondanti della nostra comunità nazionale, il riconoscimento del cui carattere fondamentale fece scrivere a un grande filosofo laico e liberale un saggio dal titolo: Perché non possiamo non dirci cristiani. Questa lettera aperta di scuse gliela avrebbe dovuta forse scrivere il Presidente del Consiglio dei ministri, cattolico e «cattolico adulto»: ma egli, e lo comprendo, non può perché ritiene che la politica e la religione debbano essere non solo distinte ma separate, e che ciò debba valere anche sul piano della buona educazione, perché il suo Governo ha dato il suo patronato a questa carnascialesca e volgare manifestazione e tre suoi ministri vi hanno partecipato insieme a leader di partiti della sua coalizione di governo, e infine perché coloro che vi hanno partecipato sono suoi elettori e suoi sostenitori. Credo vi abbia partecipato in nome della laicità anche un manipolo di «cattolici democratici». Questa lettera aperta di scuse gliela avrebbe dovuta scrivere il Sindaco di Roma, non cattolico, ma molto ossequioso verso la Chiesa e soprattutto verso i vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose che sono elettori nel Comune di Roma; ma non può perché anche suoi elettori e suoi sostenitori sono i partecipanti della sfilata dell'altro giorno. Ma anche se io non rappresento altri che me stesso, ed è assai poco - anche se penso che molti romani, cattolici o no, almeno in nome della buona educazione e dello spirito di ospitalità la pensino come me -, sono certo che vorrà accettare queste scuse da un tempo suo affezionatissimo amico (il teologo anche se cardinale era una cosa, per me «cattolico infante» il Papa è un'altra cosa!) e Suo devoto fedele. (Il Giornale n. 23 del 18 giugno 2007)
Pagliacciate anticristiane. Alla Biennale di Venezia un Gesù masochista Povera Chiesa! Non bastava Santoro con il suo video sui preti pedofili. Adesso ci si mette pure la Biennale-danza che con il beneplacito e il generoso contributo dello Stato si accinge a oltraggiare pesantemente e trivialmente non solo e non tanto la Chiesa bensì anche e soprattutto i sentimenti del popolo cristiano. Abbiamo sempre pensato che Gesù abbia sofferto sulla Croce? Nemmeno per sogno: se l’è goduta un mondo. Anzi, per i suoi gusti perversi (questo il succo di uno dei numeri coreutici più attesi del programma) i chiodi erano troppo sottili, la corona di spine troppo larga e le frustate troppo leggere. Campo San Polo: il campo più grande di Venezia, un luogo in cui i bambini possono giocare a palla e correre in bicicletta sotto il vigile sguardo delle loro mamme. In questi giorni e per tutta l’estate ad altezza dei loro occhi innocenti, innumerevoli copie del poster della Biennale-danza mostrano un uomo e una donna nudi, lui con la testa rovesciata all’indietro, lei che sta con la lingua fuori lunga un metro per... non vogliamo sapere. Ma non è finita qui: i manifesti della mostra di Richard Hamilton della Biennale arte che tappezzano la città mostrano una donna completamente nuda, capelli biondissimi e peli pubici vistosamente e provocatoriamente neri tanto da far sospettare sapienti mèches sul grano riccioluto – e l’immagine certo non fa pensare a un angelo di Piero della Francesca. Qualcuno nella notte, nella zona della Basilica dei Frari, ha cercato di strappare i manifesti più insolenti: quelli incollati sul muro della casa del parroco. Ma a chi dobbiamo l’immagine di un Gesù masochista, incerto tra dominio e sottomissione? Al celebre coreografo tedesco Felix Ruckert, allievo di Pina Bausch, che porta a Venezia due spettacoli: Ring (basato sull’idea, ormai vecchia come il cucco, di coinvolgere in una sola ammucchiata ballerini e spettatori) e Messiah Game in cui, prendendo come spunto il Nuovo Testamento, dopo aver rovesciato il senso della Tentazione e dell’Ultima cena (dando ovviamente ragione al diavolo e a Giuda) e aver letto la Crocifissione in chiave autolesionistica, tutto procede verso il banalissimo epilogo di una Resurrezione che sfocia in un’orgia collettiva. Chiamato a dirigere per la terza volta la Biennale-danza, il brasiliano Ismael Ivo, che si vuole perturbante e sovversivo mentre appartiene all’armento ormai sterminato dei similartisti col pallino della trasgressione autorizzata e finanziata dai pubblici poteri, si era distinto nei due anni precedenti con due rassegna intitolate la prima “Body Attack” (“Corpo all’attacco”) e la seconda “Under Skin” (“Sotto la pelle”). Quest’anno la trilogia si conclude con una rassegna che fin dal titolo – “Body&Eros” – promette, conforme all’idea candidamente enunciata nell’orripilante programma, di inoltrarsi “tra le spire del desiderio nella complessità dell’esperienza estetica”. Per illustrare il senso di questo profondo concetto, ecco inoltre annunciata una sfilza di convegni, seminari, tavole rotonde e workshop che si protrarranno per tutto il mese di giugno con i soliti noti – da Vittorio Sgarbi a Barbara Alberti passando attraverso una bella manciata di filosofi e teologi – a sermoneggiare, per l’appunto, su corpo ed eros. Mancano solo lo psichiatra Paolo Crepet e l’avvocato Taormina per fare un bel Porta a Porta. (Margherita Smeraldi, © il Velino, 6 Giugno 2007 )
Biennale: i cattolici contro l'ultima cena in versione orgiastica Blasfemo e anticristiano. Né più né meno. Lo denuncia, con una sottoscrizione di firme che ha già superato le diverse migliaia, la Catholic Anti-Defamation League (www.cadl.it), associazione di «cattolici militanti» che si propone, via web, di opporsi con tutti i mezzi leciti e possibili a ogni episodio di vilipendio della religione e, insieme, di intolleranza verso i cattolici. E lo dice, sentito dal Riformista, anche il cardinale Ersilio Tonini: «Provo orrore e resto stupefatto». Quale l’oggetto del pubblico scandalo? Si tratta dello spettacolo Messiah Game del coreografo tedesco Felix Ruckert che, a meno di ripensamenti dell’ultima ora, verrà messo in scena il 27 e 28 giugno alla Biennale di Venezia nell’ambito della programmazione “Biennale danza” che quest’anno è dedicata al tema “Body & Eros”. Uno spettacolo, quello di Ruckert, in cui si propone una versione masochistica e orgiastica della passione di Gesù Cristo, dall’ultima cena fino alla crocifissione letta in chiave autolesionistica e pornografica. Sul sito web di Ruckert (www. felixruckert.de) si possono vedere in anteprima alcune immagini dello spettacolo: corpi nudi e seminudi mimano amplessi davanti a una tavola bianca. La crocifissione di Gesù è un rituale sadomaso dove qualcuno maltratta e frusta qualcun altro in un gioco di solitudine, alienazione, abbandono. Mentre, tanto per entrare nel dettaglio, l’ultima cena è un continuo andirivieni di uomini e donne che partecipano a una grande orgia. Per rappresentare la tentazione, viene mostrata una danza di ballerini nudi. «Sono stupefatto - continua Tonini - ma non preoccupato. Lo spettacolo credo sia talmente grottesco che, da solo, per il sol fatto di essere messo in scena, provocherà sdegno nel cuore di molte persone. Tra queste, non soltanto i cattolici e i cristiani, ma anche tanti atei che sanno usare la testa e non ragionano in modo preconcetto. Del resto, la trovata della Biennale è l’ultima di una lunga serie di spettacoli indecenti che altro non fanno che scuotere le coscienze della gente comune che è molto meno stupida di quanto si pensi. Che si tratta di un’aberrazione, insomma, credo possa essere sotto gli occhi di tutti». Più duro Pietro Siffi, presidente e fondatore, insieme a Simone Ortolani, della Cadl: «Immaginiamo cosa sarebbe successo se la stessa cosa l’avessero fatta contro l’Islam o la religione ebraica. Sarebbe successo di tutto. Beninteso, ogni atto offensivo verso Islam ed ebrei è da noi condannato e, anzi, ci auguriamo che nessuno si permetta di offendere questi nostri fratelli, ma è ora che anche i cattolici alzino la testa e rispondano nei modi più opportuni laddove venga offesa la loro sensibilità. Insomma, adesso basta. È il momento di reagire. Come? Innanzitutto intendiamo querelare la Biennale per vilipendio di religione. Poi chiediamo alle istituzioni pubbliche di stigmatizzare senza esitazione questo spettacolo blasfemo, ritirando ogni forma di sostegno, patrocinio e finanziamento alla “Biennale danza”. In terzo luogo, chiediamo a tutti gli avvocati del Veneto che lo desiderano di aiutarci perché, come cattolici, vogliamo costituirci parte civile in una causa contro la Biennale e Ruckert in quanto hanno voluto bestemmiare il nome di Dio. È un’offesa gravissima e non può scivolare via senza che nessuno dica niente». E ancora: «Abbiamo già raccolto diverse adesioni e ci auguriamo che anche esponenti delle gerarchie ecclesiastiche e, insieme, la curia di Venezia, si mobilitino e non restino in silenzio di fronte a un fatto così grave». Per il momento, però, a parte le dichiarazioni del cardinale Tonini, il Vaticano preferisce stare alla finestra e non dare spago a polemiche. Stessa linea seguita, per ora, dalla curia di Venezia e dal patriarca Angelo Scola. Non si vuole, infatti, dare troppa pubblicità a uno spettacolo che non si ritiene opportuno ne abbia. «Intanto - spiega Siffi - siamo contenti di come il popolo dei cattolici ha reagito. Il nostro sito è sommerso di mail di protesta e siamo convinti che la Biennale non potrà far finta di niente». Felix Ruckert non è nuovo a provocazioni del genere. Non per niente sono stati rispettivamente i media tedeschi Sueddeutsche Zeitung, Die Welt e Tagesspiegel a descriverlo come «sovversivo», «irritante» e «offensivo». Aggettivi che, probabilmente, si potrebbero in qualche modo riferire anche al festival annuale berlinese fondato dallo stesso Ruckert e dedicato - come poteva essere altrimenti? - alla sessualità creativa. Oltre il Tevere, dunque, nessuna reazione ufficiale a Messiah Game. Per il momento, sono altri gli spettacoli che interessano i porporati. Tra questi, il più edificante Dio: pace o dominio, in onda questa sera su Rai Uno in seconda serata al posto di Porta a Porta. Un programma di Luca De Mata, direttore dell’agenzia vaticana “Fides” il quale, in cinque puntate, è il meglio di ogni religione che cerca di mostrare, rispettandone - lui sì - le diverse sensibilità. «È Dio il carnefice dell’uomo o l’uomo del creato? - si è chiesto De Mata - Dio è Amore o fonte di odio, sofferenza, contraddizione?». Sono alcuni degli interrogativi a cui De Mata prova a rispondere in un lungo viaggio durato tre anni in giro per il mondo: tre anni per documentare la convivenza tra le religioni e le culture dei popoli attraverso situazioni, ambienti, opinioni e realtà irraggiungibili, sconosciute o a volte manipolate le une contro le altre, spesso a loro insaputa. Per la prima volta sono state raccolte 88 testimonianze delle maggiori tradizioni religiose: Cristiana, Musulmana, Induista, Animista, Buddista, Taoista, Jiani, Bahay. Testimonianze, dunque, più “morbide” ed edificanti della rappresentazione di Felix Ruckert. (Paolo Rodari , © il Riformista, 12 Giugno 2007)
L’Ultima cena «sadomaso» finisce in Parlamento Sul debutto di Messiah Game, previsto il 27 e il 28 giugno all’Arsenale di Venezia, ora pende una interrogazione parlamentare. Quella dell’onorevole Udc Luca Volontè presentata ieri al Ministro per i Beni e le attività culturali con la richiesta che «la messa in scena di uno spettacolo blasfemo, anticristiano e offensivo per milioni di credenti non possa ancora ricevere sostegno, finanziamenti e alti patrocini da parte dello Stato». Non si placano le polemiche di alcuni ambienti cattolici nei confronti del balletto nato e scritto in Germaniache la Biennale di Venezia ha inserito nel calendario dei suoi eventi. E che la Fondazionenonintende annullare per nessun motivo «considerando la libera volontà di chi intende assistere a questo spettacolo già programmato e annunciato». Dal Cda della Biennale quel che arriva è unsecco noalle richieste di una cancellazione dal momento che «una simile decisione, mai verificatasi nella lunga storia di questa istituzione, minerebbe alle radici il principio di autonomia e di libertà d’espressione sia della Fondazione la Biennale, sia del Direttore artistico. Ogni giudizio di tipo etico, morale o religioso è pertanto lasciato alla coscienza del pubblico». Ma sulla rivisitazione sadomaso della Passione di Cristo firmata dal coreografo Felix Ruckert la bufera è destinata a non placarsi e i suoi detrattori promettono battaglia: «Per l’ennesima volta gli organizzatori della Biennale dimostrano di non avere rispetto dei sentimenti dei cittadini cattolici — rincara Volontè —. Prendo atto della loro volontà di mettere in scena ugualmente lo spettacolo ma non escludo che possa essere intrapresa una battaglia giudiziaria». Sulla stessa linea anche Pietro Siffi, presidente dell’Associazione contro la diffamazione cattolica: «Chiunque sia il responsabiledi questo atto, istituzioni incluse, dovrà tenere conto delle iniziative legali che l’associazione prenderà». L’affondo dell’onorevole Volontè chiamain causa, ancor prima dello stesso autore, chi ha inserito il balletto nella programmazione della Biennale Danza: «Non doveva proprio essere scritto nel calendario — precisa Volontè —. Chi l’ha fatto ha trovato il modo di offendere la religione cattolica odi creare volutamenteunvespaio di polemiche. È evidente che se lo spettacolo non verrà ritirato, emergerà la sua reale intenzione, cioè quella di recare offesa». Dura anche la presa di posizione nei confronti dell’opera nella quale «non c’è nulla di artistico —afferma —bensì l’offesa cercata nei confronti dei cristiani e della figura di Gesù Cristo cosìcomedi tutte le religioni monoteistiche». Il fatto, secondo Volontè, si configurerebbe come l’ennesimo segnale di un atteggiamento prolungato di sberleffo nei confronti del Cristianesimo e dei suoi valori: «La decisione della Biennalenon fa che confermare i nostri peggiori sospetti, cioè che lo spettacolo sia stato introdotto proprio per la sua particolare blasfemia verso il Cattolicesimo; non è altro che l’ennesimo atto di una serie di comportamenti che negli ultimi 15 giorni, dalle minacce al vescovo Bagnasco alla proiezione in tv di un documento del tutto falso come il video sui preti pedofili, non fa che dare la possibilità ad alcuni di offendere liberamente il sentimento cristiano». Di «attacco coordinato » parla invece Pietro Siffi secondo il quale «è tempodi porre dei paletti all’arbitrio e alle offese di sedicenti artisti, andati ben oltre il limite della satira edella provocazione ». Volontè giudica blasfemo non solo sul piano religioso ma anche inaccettabile su quello civile lo spettacolo di Felix Ruckert: «Quando vennero diffuse le vignette ironiche su Maometto, il mondo laico si sollevò chiedendo rispetto per i sentimenti della religione islamica; oggi accade altrettanto nei confronti del Cristianesimo. Laicità nonsignifica essere autorizzati ad offendere l’altro, questo infatti è il contrario del principio di tolleranza». (Paola Vescovi, © Corriere del Veneto, 13 Giugno 2007) Messiah Game, Bertolini (FI), Rutelli lo blocchi Contro “Messiah Game” scende in campo con un’interrogazione anche Isabella Bertolini, vice presidente dei deputati di Forza Italia. «Rutelli deve intervenire per impedire lo svolgimento di una manifestazione oscena e provocatoria. La campagna di odio e di offesa contro la religione cattolica va immediatamente bloccata» sottolinea in una nota l’onorevole Bertolini. “Messiah Game”, rivisitazione in versione sadomaso della passione di Cristo del coreografo tedesco Felix Ruckert, nel cartellone della Biennale Danza il 27 giugno, a Venezia, si aggiunge alla «blasfemia della mostra “La Madonna piange sperma” di Bologna, patrocinata da Cofferati e Melandri» dice il vice presidente dei deputati di Forza Italia e aggiunge: «come sempre queste cose avvengono in città a guida rossa e con il beneplacito ed il contributo del Governo di centro-sinistra. Il clima intorno alla Chiesa cattolica nel nostro Paese è divenuto ormai irrespirabile». «Intendo presentare - conclude la Bertolini - un’immediata interrogazione parlamentare per appurare e sottolineare le evidenti responsabilità politiche di un Governo che pur di affermare un modello sociale alternativo non esita a finanziare manifestazioni offensive per milioni di credenti italiani. Questa situazione intollerabile va fermata in qualche modo». (ANSA - Venezia, 20 Giugno 2007)
La Lega Cattolica Antidiffamazione risponde a "Repubblica" Il 14 Giugno è stato pubblicato su Repubblica a pag. 57 un articolo di Anna Bandettini dal titolo “Biennale sotto tiro per il balletto ispirato al Vangelo”, che per comodità vi riportiamo qui di seguito: «Biennale sotto tiro per il balletto ispirato al Vangelo Nel clima nervoso di questi ultimi tempi salta fuori la neonata Lega Cattolica Antidiffamazione che reclama una censura, peraltro preventiva. Lo fa con un appello alla Biennale di Venezia di cancellare, prima ancora che vada in scena, Messiah Game, il balletto del tedesco Felix Ruckert dedicato a cinque capitoli del Nuovo Testamento, dal programma del festival internazionale di danza che si apre oggi (con le energetiche e, peraltro spesso nude, danzatrice giapponesi Batik), dove è atteso per il 27 e 28 giugno. L'accusa: essere blasfemo e anticristiano, un «gravissimo attentato contro i milioni di cattolici italiani e contro la divina Persona del Santissimo Salvatore», come c'è scritto nel comunicato della Lega. Sulla stessa scia, ieri, il senatore Udc Luca Volontè ha rivolto un'interrogazione parlamentare al ministro Rutelli minacciando perfino, dicono le agenzie di stampa, battaglie giudiziarie. Pronta è arrivata la risposta della Biennale che non cancellerà la rappresentazione. «Una simile decisione minerebbe il principio di autonomia e di libertà d'espressione», dice il comunicato del consiglio di amministrazione presIeduto da Davide Croff. Messiah Game, regolarmente visto e applaudito in Germania e Francia, finora mai arrivato in Italia, rilegge alcuni passi del Nuovo Testamento. In scena non ci sono immagini religiose, ma un balletto conturbante dove Battesimo, Tentazione, l'ultima Cena, la Crocifissione, la Resurrezione vengono interpretati alla luce di tematiche come dominio e sottomissione, devozione e possesso, con un evidente rinvio estetico a pratiche sadomasochiste, come ha dichiarato a Repubblica Felix Ruckert. «L'arte deve esercitare la sua libertà — è il commento sull'intera vicenda di Ismael Ivo, il coreografo brasiliano direttore artistico del festival di danza — alle censure preventive preferisco la libera funzione del giudizio personale. Di opere blasfeme è pienala storia dell'arte e della letteratura, Pasolini, Bacon, L'ultima tentazione di Cristo di Scorsese fino al Codice da Vinci». Resta l'interrogativo su chi è questa Lega Cattolica Anti-diffamazione, che grazie all'iconoclasta Ruckert si sta sfacendo pubblicità sui mass media. Per ora si sa che è nata a Ferrara sei mesi fa, che è presieduta da Pietro Siffi e che nel suo sito internet ha una finestra tenebrosamente intitolata "boicottaggio" con i programmi tv, i libri, cinema e spettacoli da mettere all'indice. (Anna Bandettini, © la Repubblica, 14 Giugno 2007, pag. 57)». La Lega Cattolica Antidiffamazione ritiene opportune in proposito alcune precisazioni. Che “Messiah Game” sia stato “regolarmente visto e applaudito in Germania e Francia” è inesatto: visto di sicuro, applaudito forse meno, e certamente anche fortemente contestato non solo dai Cattolici, ma anche da altre comunità cristiane, al pari di quanto sta avvenendo in Italia. Risulta inoltre che lo spettacolo sia stato vietato e censurato almeno in un’occasione. D’altra parte, in questo caso non si può parlare di “censura preventiva”, visto che lo spettacolo è stato prodotto più di un anno fa ed è ampiamente documentato nella sua provocatoria valenza anticattolica sullo stesso sito del coreografo. Anna Bandettini cerca di edulcorare il più possibile la descrizione di “Messiah Game”. Parla di “rilettura di alcuni passi del Nuovo Testamento” e non dice che vi si presenta l’Ultima Cena in versione orgiastica, la preghiera nel Getsemani con ballerini nudi a tentare Cristo, la Passione e Crocifissione in chiave perversa e masochistica. Scrive di un “rinvio estetico a pratiche sadomasochistiche”, dimenticando di precisare che i Cattolici non sono seguaci di un maniaco pervertito masochista: essi adorano quel Dio che si è fatto uomo per salvare l’umanità e redimerla tramite la propria morte sulla Croce. Aggiunge: “Di opere blasfeme è piena la storia dell’arte e della letteratura”: bel motivo di vanto, che dimostra semmai come certi sedicenti artisti si credano al di sopra della legge e dei più elementari principi di civile convivenza, cui sottostanno i normali cittadini. Questi “artisti” si nascondono dietro l’alibi della libertà di opinione per oltraggiare impunemente Gesù Cristo: l’arte dovrebbe essere scuola di rispetto e di condivisione dei valori comuni, non arma di aggressione e di violenza ideologica. Quando il prossimo anno un altro sedicente “artista” proporrà l’allestimento di una messa nera con sacrifici umani, si potrà ancora obbiettare qualcosa, o dovremo tacere davanti al dogma dell’insindacabilità dell’espressione artistica? Dovremo tacere per non far pubblicità ulteriore allo spettacolo, o denunciarlo e sentirci dire che cerchiamo notorietà? L’articolo prosegue: “Resta l’interrogativo su chi è (sic) questa Lega Cattolica Antidiffamazione”. Al di là dell’incerta prosa, la giornalista avrebbe potuto agevolmente trovare risposta al suo interrogativo anche solo leggendo la presentazione della nostra associazione pubblicata sul sito www.cadl.it; avrebbe visto che la Catholic Anti-Defamation League - Lega Cattolica Antidiffamazione è un’associazione costituita nel rispetto della legge, dell’art. 18 della Costituzione e dei principi democratici. Essa promuove la difesa dei diritti civili dei Cattolici e si impegna contro la loro discriminazione, esattamente come fa – con ampio sostegno internazionale a livello istituzionale e politico – la Anti Defamation League ebraica. È nata su ispirazione di Vittorio Messori, e conta nel proprio Comitato scientifico eminenti personalità della cultura ed intellettuali cattolici di riconosciuto prestigio. Che poi sia nata da sei mesi non pare motivo sufficiente per screditarla. Quanto al fatto che l’associazione “grazie all’iconoclasta Ruckert si sta facendo pubblicità sui mass media”, sarebbe stato sufficiente scorrere la nostra copiosa rassegna stampa per vedere che sono mesi che in Italia e all’estero di parla della Catholic Anti-Defamation League. La Bandettini avrebbe anche visto che quella finestra “oscuramente intitolata boicottaggio” si limita ad esercitare un diritto legittimo universalmente riconosciuto: c’è chi lo fa per scopi ambientalistici, chi per ragioni etiche, chi per rispondere ad istanze antiglobalizzazione. Non si vede cosa impedisca ai Cattolici di non acquistare prodotti o finanziare iniziative in contrasto con la Religione. O si può boicottare la CocaCola ma non chi offende Dio? (Cfr. www.cadl.it)
Politica? No: semplicemente alcune amare considerazioni…. Di norma lasciamo volutamente fuori da questo sito esternazioni puramente politiche, a meno che non implichino problematiche religiose e di coscienza. Ma l’Italia è anche dei cattolici: mi sia concessa pertanto questa unica eccezione, nel riportare, più che i termini di una sterile polemica, il grido angosciato di un giornalista cattolico che assiste, a suo giudizio peraltro totalmente condivisibile, allo sfascio di questo nostro bellissimo paese. Il centrodestra che vorrei. E che non c’è Certo, qualunque cosa è meglio di questo centrosinistra al potere. Ma se ci saranno elezioni non so se andrò al seggio. La rabbia monta nel Paese contro questi e contro quelli e se non è possibile fare lo sciopero fiscale, presto si passerà allo sciopero elettorale. Non si può sempre votare tappandosi il naso, costretti a mandare in Parlamento gente (perlopiù) di scarso valore, troppa (abbiamo il maggior numero di parlamentari in Occidente) e designata dai partiti stessi (ché a noi è stato sottratto pure il diritto di scegliere chi vogliamo). Facce mai viste e che mai vedremo (ma chi rappresentano?). Gente che spesso non sa neanche quando fu scoperta l'America, ma si porta a casa 12.800 euro netti al mese con una quantità assurda di privilegi (pure il ristorante a 7,50 euro quando la mensa dello spazzino veneziano costa 8,50 euro). Una corporazione, quella politica, che fra l'altro si è assicurata anche per il futuro con pensioni privilegiate (una è toccata pure - per fare un esempio - a Toni Negri per aver partecipato a 9 sedute parlamentari). E i nostri deputati europei prendono addirittura stipendi superiori: incassano il doppio dei loro colleghi tedeschi e inglesi e il quadruplo degli spagnoli. Pantalone (cioè noi) paga, tace e subisce. Per quanto ancora? Quando salterà il tappo? Sogno un centrodestra che non partecipi con la Sinistra ai tanti incredibili sprechi di cui parla il libro "La casta" di Stella e Rizzo: un Quirinale che costa quattro volte Buckingham Palace, un mare di auto blu (115 solo per Palazzo Chigi e migliaia nei vari enti locali), una quantità di aerei di Stato (13 solo quelli della Presidenza del Consiglio) e via sperperando allegramente alle nostre spalle di tartassati, trattati come sudditi da lorsignori e dalla pubblica amministrazione. Sogno un centrodestra che non punisca i cittadini come la sinistra con mille vessazioni burocratiche e fiscali (sapete che pure se si schitarrano due canzonette al matrimonio di un amico si devono pagare i diritti alla Siae e riempire i moduli?), un centrodestra che solidarizzi con noi cittadini (controllati dallo Stato e vessati dall'antistato della criminalità), invece di farlo - come in questi giorni - con Massimo D'Alema per le intercettazioni, dando la sensazione avvilente che destra e sinistra siano un "Unipolo", una stessa casta solidale (D'Alema infatti, dai microfoni del Tg5, era grato al centrodestra per le "parole molto misurate"). Dall'indulto all'euro Sogno un centrodestra che non voti con la sinistra quell'impresentabile indulto del luglio 2006 (legge n. 241) che ha mandato liberi per le strade 26mila detenuti (anche per omicidio, rapina e lesione personale) quando ne avevano annunciati 12mila. Li hanno rilasciati senza un vero accertamento della pericolosità sociale, abbandonando i cittadini alla loro mercé e provocando un vertiginoso aumento di rapine e furti, come dicono le statistiche dell'Indagine conoscitiva sulla sicurezza presentata dal capo della Polizia De Gennaro (furti +5,7 per cento, rapine +15,2 per cento, rapine in banca nei 5 mesi dopo l'indulto +30,5 per cento). Tanto che i detenuti nelle carceri sono tornati subito a crescere passando da 39mila a 42mila. Sogno un centrodestra che avversi le leggi punitive contro Mediaset, ma che riconosca pure che esiste un enorme conflitto di interessi. Sogno un centrodestra che dopo essere insorto inviperito per la minacciata legge su Mediaset non se ne freghi dei cittadini, come ha fatto per gli effetti devastanti dell'introduzione dell'euro che ha dimezzato gli stipendi e raddoppiato i prezzi. Terremotando la vita di milioni di famiglie a reddito fisso. Sogno un centrodestra che le tasse le abbassi veramente e drasticamente e non dirottandole sugli enti locali o solo a parole perché questo livello di tassazione al 50,7 per cento, da primato mondiale, è pazzesco e soffocante. Da strozzini, da rivolta fiscale. Chi paga poco e chi troppo Sogno un centrodestra che però dica pure agli italiani che evadere le tasse è una porcata vergognosa non un'autodifesa, perché l'unica autodifesa legittima è il voto. Sogno un centrodestra che lanci una "questione morale" per i 270 miliardi di euro l'anno di evasione (oltre 500 mila miliardi delle vecchie lire) e dica che fa schifo un Paese come il nostro dove solo lo 0,8 per cento degli italiani dichiara più di 100mila euro di reddito. Cosicché il centrosinistra aggrava il salasso sui disgraziati a reddito fisso che già pagano. Del resto un governo come questo, che riesce al tempo stesso ad esasperare la tassazione (rimangiandosi gli impegni pre-elettorali), a disporre di un colossale aumento di entrate fiscali e ad aumentare pure il debito (come ha scritto ieri Feltri), è una accozzaglia di incompetenti e irresponsabili da cacciare subito. Sogno un centrodestra che dica a imprenditori, commercianti, professionisti e lavoratori autonomi, che già si sono indebitamente arricchiti con gli aumenti dell'ingresso dell'euro, che è vergognoso aggiungere pure l'evasione, anche se le tasse sulle imprese sono ormai oltre il limite. Sogno politici di centrodestra che s'immedesimano con la vita delle persone comuni, per esempio facendo una visita in farmacia dove ormai i prezzi sono arrivati all'osceno: dal normale collirio antiallergico (15 euro), agli integratori (ferro o calcio) 20-30 euro a scatola, dagli antibiotici specifici (5 pasticche) 30 euro, fino a certe pomate per le ferite che arrivano 150 euro. Infine gli esami del sangue che - in base alle diverse voci - possono costare anche 80 euro. Non ho fatto esempi a caso, ma tratti dall'esperienza di un amico, impiegato, tre figli e moglie a carico, stipendio di 1.500 euro mensili su cui grava pure un mutuo. Una brutta serie di malattie di una figlia (senza esenzioni dalle spese mediche), che l'ha fatta soffrire per mesi, ha comportato un salasso per la famiglia di circa 1.800 euro al mese, fino a imporre l'alternativa atroce fra contrarre debiti in banca per curare la bimba, fare la fame o rinunciare a certe cure. E questa - se i signori politici non lo sanno - è la quotidianità di una normale famiglia italiana di oggi. Una famiglia del ceto medio. Si rendono conto, quelli del Palazzo, come vive la gente? La card per transessuali da 150mila euro Dopodiché scopriamo (sono cronache di questi giorni) che la Regione Toscana, mentre non ci sono soldi per le carrozzine ai disabili, ha istituito una "card" per transessuali destinandovi 150mila euro del fondo sociale europeo (dicono che è per aiutarli a trovare lavoro: e le donne? E i giovani? E i cinquantenni disoccupati?). Scopriamo che la Regione Veneto, dove sono appena state aumentate pensioni e liquidazioni dei consiglieri, ha pure una "indennità funerale" (in caso di decesso del politico) di 7.500 euro (come minimo). Infine la Regione Puglia ha in cantiere addirittura un raddoppio del consiglio regionale. Sono cronache italiane o marziane? Immaginate un paese normale Sogno un centrodestra che, a difesa dei cittadini, sappia tener testa alle potenti lobby, penso a quelle farmaceutiche (se guardo i prezzi), ma anche a quelle bancarie, a quelle ideologiche e a quelle petrolifere visto che la benzina aumenta sempre e non diminuisce mai neanche quando il petrolio va giù (e penso alle lobby che si oppongono all'energia nucleare, unica possibilità di salvezza sia per i nostri conti sia per l'ambiente). Sogno un centrodestra (ma anche un centrosinistra) che abbia addirittura una politica culturale seria, che magari ricordi l'espressione "identità nazionale" con cui Sarkozy ha vinto le presidenziali francesi. Ho scritto molte volte la parola "sogno". Ma in fin dei conti quello che ho prospettato sarebbe la normalità: un centrodestra come ce ne sono in Europa. Qui da noi sembra un sogno. E allora a chi lo dico, io, "Facci sognare"? (Antonio Socci, Libero, 16 giugno 2007)
17 GIUGNO 2007
Il fatto: «Io e mia moglie abbiamo deciso di arrivare casti al matrimonio. La Bibbia insegna che il vero amore si raggiunge solo con le nozze». Così Kakà, il giocatore del Milan molto vicino quest'anno al «pallone d'oro», ha confessato al settimanale «Vanity Fair» in edicola oggi. A 25 anni e dopo quasi due di matrimonio con Caroline Celico, Kakà ha dichiarato senza falsi pudori di essere giunto casto alle nozze, dopo tre anni di fidanzamento, per scelta libera e per fedeltà ai «forti valori» cristiani (è di confessione evangelica) in cui crede. Ed ha aggiunto: «I miei colleghi? Ogni tanto mi accorgo che mi guardano un po' perplessi e pensano che io sia strano. Però poi mi accettano e mi rispettano». Sulla sfida posta dalla castita prematrimoniale ecco il parere dell'avvocato Anna Bernardini De Pace e del teologo Domenico Sigalini. Già il fatto che Kakà, il più ammirato calciatore del momento, rilasci un'intervista sulla sua scelta di arrivare casto al matrimonio, è un po' fuori dall'ordinario. Ma che anche Anna Bernardini De Pace - il più noto avvocato matrimonialista d'Italia, immagine, se ce n'è una, di donna di successo, per di più esperta nelle contorsioni delle coppie di oggi - spenda parole per difendere il valore della castità, sembra fin troppo. Avvocato, ma sta diventando reazionaria? «No, sono e resto piuttosto un'anarchica. Ma se ho apprezzato le considerazioni di Kakà e perché penso che riguardino un problema serio. È molto più facile, oggi, fare un incontro fisico che un incontro spirituale, progettuale. E una situazione fisica positiva, se dietro non c'è dell'altro, può indurre a scelte imprudenti e tragiche per il proprio futuro. Con il rischio di incontrare presto, nella vita matrimoniale, il disgusto. Quello vero. Che nasce sempre dai comportamenti delle persone, non certo dal minore o maggiore benessere fisico. I problemi fisici, se non sono irrimediabili, si risolvono. Quando c'è un'intimità vera e di pensiero tra due persone, non è difficile affrontarli. Sono i problemi psicologici e comportamentali che non si risolvono mai, o quasi». Ma castità per lei cosa vuol dire? «La castità non può essere certo una violenza, qualcosa di imposto, ma dev'essere un impegno comune, un progetto, un modo di essere. Direi che è l'affermazione di determinati valori, che devono essere condivisi e che consentono alle persone di sperimentare e di rafforzare una cosa preziosissima, che è la volontà». In che senso? «Ci pensi: cosa vale di più nella vita di ognuno della volontà? Oggi, negli anni 2000, c'è una crisi profondissima di volontà: le persone non sono più capaci di affidarsi alle proprie forze, di mettersi davvero in gioco, ma si affidano al destino, alle raccomandazioni o alle speranze da "gratta e vinci". La castità e un mettere alla pro va le proprie capacità e le proprie forze». Sarà conscia dell'irrisione che suscitano considerazioni come le sue... «Lo so, perché oggi il valore prevalente è quello del sesso, e non può che essere deriso colui che al sesso si sottrae. Però in tutto questo c'è una grande incomprensione del valore e anche del sapore della castità. Per esempio di come la fedeltà di una coppia sia non solo una scelta eroica, ma anche altamente erotica». Uno psicologo da rivista femminile le direbbe semmai che è il tradimento a ravvivare ciò che è morto. «Invece è molto più elettrizzante il rapporto se tu dici no alle occasioni che ti capitano per confermare quel rapporto. Negarsi agli altri, alle tentazioni, è un grande modo per sperimentare, toccare con mano il valore e anche l'erotismo che una coppia porta in sé. Abituarsi a dire di no è qualcosa di fecondo». Ok, abbiamo visto che non è reazionaria. Ma di finire un po' sulle posizioni cattoliche non la inquieta? «Non sono per niente clericale, baciapile o cose del genere. Ho studiato dalle suore e ho litigato con tutte su questi discorsi, nelle mie battaglie femministe. Ma non mi sono fermata a certe posizioni, che allora avevano un senso, oggi meno. Penso poi che certe proposte della morale cattolica sapessero allora come oggi di muffa e di vecchio per il modo in cui venivano e vengono comunicate. Se invece uno ha la capacità di guardare dentro a certe cose, magari grazie all'esperienza personale e professionale, ecco che si possono illuminare di luce nuova valori che prima erano considerati senza senso». Il teologo: Facciamo ancora questa proposta, aiuta i giovani a puntare più in alto «I ragazzi cercano esperienze intense ma pure poetiche, per sognare. Però nessuno li educa a desiderare cose grandi, assolute» «Ben venga l’esempio di un grande calciatore. Perché penso che la proposta della castità vada fatta con maggiore decisione, senza troppi timori reverenziali ». Monsignor Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina, già assistente generale dell’Azione Cattolica e una vita spesa a contatto con i giovani, guarda con simpatia alle uscite della superstar del calcio brasiliano. Entrando un po’ nello specifico. «Ovviamente bisogna chiarire bene cos’è la castità, cioè che non è un semplice fuggire da qualcosa di bello o piacevole, non è una privazione fine a se stessa, per il gusto di mortificarsi, ma è preparare il cuore a una vita di dono. Una preparazione che tocca per forza anche la corporeità». Per tanti genitori o educatori, un discorso «alto» sulla sessualità con adolescenti o giovanissimi sembra una battaglia persa in partenza. «È difficile, certo. Oggi praticamente tutto – cultura, senso comune, mass media – portano nella direzione opposta, ma sbaglia chi pensa che certi discorsi siano destinati a non passare. Glielo dico per esperienza. Proprio oggi che fare esperienze sessuali a una certa età è diventato facilissimo, senza grandi traumi, paradossalmente cresce anche il numero di giovani disillusi, che si chiedono "beh, tutto qui?", che percepiscono presto l’inganno. E cercano una risposta più profonda, cosa che non trovano in pressoché nessuna agenzia educativa. Perché nessuno ha il coraggio di andare contro il cattivo senso comune». Quindi affrontare i risolini di compatimento o il disprezzo, nel parlare di castità, può dare ancora dei frutti. «Sicuramente. Anche perché – pure questo va ricordato e sottolineato – un ragazzo o una ragazza di oggi non sono alla ricerca di pura "fattualità". Cercano anche e soprattutto cose grandi, alte, assolute. Esperienze emotivamente intense, ma anche poetiche, che facciano sognare... E come, dico spesso a tanti giovani, la castità è proprio quella via che impedisce ai sogni di Dio di diventare degli incubi. Se vuole un riferimento un po’ prosaico, mi rifaccio spesso anche al libro Jack Frusciante è uscito dal gruppo, che non è certo dalla parte della castità, ma in cui si legge della scommessa bellissima di due protagonisti: dobbiamo far vedere a tutti che ci vogliamo bene senza andare a letto assieme». Tra luoghi comuni e fraintendimenti, cosa rende più difficile parlare in un certo modo di sessualità, e farsi intendere, ovviamente? «Penso la convinzione che amore ed erotismo siano due cose diverse, disgiunte, che si possono vivere in modo del tutto indipendente. Una banalità che cela una profonda mistificazione». Quale, invece, un vantaggio immediato, in una scelta di continenza rispetto al «carpe diem»? «La capacità di distinguere due realtà opposte ma che nei rapporti, negli incontri si incrociano e si confondono spesso: amore ed egoismo. La castità aiuta anche a vagliare le vere intenzioni di una persona, aiuta una coppia a scoprire ciò che di strumentale o superficiale c’è nel loro stare insieme. Aiuta ad evitare ad entrambi amare sorprese». (Andrea Galli, Avvenire, 7 giugno 2007)
Se l'ideologia prevale sulla tutela dei diritti In politica, in genere, le sconfitte si pagano. Un leader che conduca il suo partito verso una strada senza uscita, o che sia punito dagli elettori, deve saper correggere la rotta, se non vuole essere accantonato. Non si tratta di una forma di vendetta tribale, ma di normale verifica democratica: fino a prova contraria, il consenso in democrazia è un obiettivo essenziale, su cui bisogna calibrare le scelte politiche. Per la diessina Barbara Pollastrini la regola, però, sembra non valere. Grande fautrice del referendum sulla procreazione assistita, ha dovuto digerire uno dei risultati più deludenti mai ottenuti in una consultazione popolare, un misero 25,9% di votanti. Un vero schiaffo da parte dell’elettorato. L’analisi di chi aveva voluto andare al voto era dunque sbagliata, frutto di una lontananza dal Paese reale. Ma sull’errore si è deciso benevolmente di sorvolare, e la Pollastrini, diventata ministro delle Pari opportunità, si è dedicata al disegno di legge sui Dico. La proposta ha provocato all’interno della maggioranza immediati smottamenti, che hanno rischiato di trasformarsi in una vera e propria frana. Il governo ha poi preso le distanze dal provvedimento, che è stato abbandonato alla sua autonoma sorte parlamentare; nel documento programmatico su cui il presidente del Consiglio ha chiesto un rinnovato impegno al suo schieramento, i famosi 12 punti, non c’è traccia dei Dico. Il danno però era stato fatto, e le associazioni del laicato cattolico, sconcertate da una scala di priorità in cui si è voluto anteporre il riconoscimento pubblico delle unioni di fatto a qualunque politica familiare, hanno indetto la manifestazione del 12 maggio. Parlare ancora del successo del Family Day è ridondante: tutti hanno potuto constatare, riflettere e tirare le conclusioni. Non si è trattato soltanto di numeri (benché anche quelli non siano trascurabili), quanto della comparsa sulla scena di un popolo che non è abituato a scendere in piazza, ma che oggi è disposto a fa rlo per difendere il patrimonio secolare dell’esperienza umana, e la non negoziabilità di alcuni fondamentali principi. La politica dovrà necessariamente tenere conto di questo nuovo soggetto, come deve tenere conto della diffidenza dei cattolici e di quell’ampia parte di mondo laico che non giudica i Dico come la più luminosa punta di civiltà a cui si possa arrivare. Queste riflessioni, però, non sembrano aver lambito il ministro Pollastrini, che imperterrita dichiara di non voler deflettere dal punto più delicato e controverso del suo progetto di legge: il riconoscimento pubblico delle unioni di fatto. I diritti personali dei conviventi, su cui si è imperniata tutta la campagna, improvvisamente non contano: contratti d’affitto, decisioni sul compagno malato, questioni economiche e successorie, non hanno più alcun interesse. Ma come, non era urgente fornire una risposta ai problemi concreti di chi convive? L’obiettivo non era la tutela dei diritti delle persone? E non è sempre meglio arrivare a una soluzione condivisa? Evidentemente no: è più importante non cedere sull’impostazione ideologica, anche se questo vuol dire incrinare la compattezza già pericolante del proprio schieramento, riaccendere la polemica con il mondo cattolico, e soprattutto rischiare una probabile sconfitta. Ma tanto, le sconfitte non le paga direttamente il ministro: le paga il suo partito, o il governo di cui fa parte, e soprattutto le paga il Paese. (Eugenia Roccella, Avvenire, 7 giugno 2007)
Odifreddi non molla la presa sui preti pedofili Sinceramente ne abbiamo abbastanza del tormentone Odifreddi e ci deprime l’idea di contribuire anche solo minimamente a dilatare l’eco delle sue "idee" in materia di fede, cristianesimo, religione e problemi derivati. Ma l’illustre matematico rivela un’incontenibile voglia di protagonismo anche in campi in cui i suoi titoli sono claudicanti, e visto che oltre allo spazio ottiene anche evidenza, non possiamo lasciar correre, per amore della verità. Siamo così costretti ad alcune notazioni sull’intervento con cui il matematico, in prima pagina ieri della Stampa, cerca di recuperare la figura non proprio brillante rimediata durante la puntata di "Annozero" della settimana scorsa. La prima osservazione è sul numero dei sacerdoti coinvolti in episodi di pedofilia. Odifreddi riferisce cifre Usa, con più di 4mila sacerdoti denunciati su un numero complessivo di circa 110mila: 4%, cioè. Forse sarebbe stato il caso di riconoscere che i dati sono stati elaborati dalla stessa Conferenza episcopale Usa e che i denunciati si riferiscono a un arco temporale di mezzo secolo. Non si tiene peraltro conto del fatto che un conto sono le denunce, tutt’altra cosa le condanne. E qui gli stessi dati attestano che i religiosi e i sacerdoti cattolici condannati per abusi sessuali su bambini negli Stati Uniti e in Canada sono stati in tutto 105. Ci sono procedimenti ancora in corso, quindi i colpevoli saranno plausibilmente un numero superiore, ma non raggiungeranno certo i 4.000. Forse sarebbe bastato al sagace polemista dare una scorsa alla stessa Stampa del 1° giugno, dove - seppur confinata a pagina 35 - era ospitata un’interessante analisi di Filippo Di Giacomo che segnalava: «fonti non confessionali stabiliscono allo 0,3 per cento del clero la percentuale di infamia che si riferisce alla Chiesa Cattolica. Una percentuale del tutto simile a quella che colpisce i ministri di culto di altre confessioni religiose i quali forse perché non cattolici e perché operanti in terre anglosassoni , finiscono in tribunale ma vengono ignorati dai giornali». 0,3%, quindi, 3 sacerdoti ogni mille; sempre 3 di troppo - soffrendo per queste mele marce che ci sono state e forse ahinoi ci saranno - ma tutt’altra dimensione, ben più plausibile per chi abbia un minimo di dimestichezza con la comunità cristiana e le persone che la compongono (anche se La Stampa nel titolo moltiplicava per dieci la percentuale reale, affermando proditoriamente - e senza successive rettifiche - che la pedofilia è «una macchia che coinvolge il 3% del clero»). L’altro riferimento fuorviante è l’insistenza sull’istruzione «Crimen sollicitationis», il testo del 1962 - peraltro oggi non più in vigore - a cui si fa risalire il presunto ordine del Vaticano di coprire le nefandezze pedofile dei preti. Si trascura allegramente che il documento - spedito alle diocesi con indicazione di riservatezza, ma affatto segreto al punto che poco tempo dopo è stato addirittura pubblicato a stampa - non nasceva per occuparsi della pedofilia ma dei sacerdoti che abusavano del sacramento della confessione per ottenere prestazioni sessuali dalle penitenti. La prova sta nel fatto che a questo tema sono dedicati i primi 69 paragrafi del testo, mentre dal 70 al 74 si afferma l’applicabilità della stessa normativa al "crimen pessimus", cioè alla relazione sessuale di un sacerdote "con una persona dello stesso sesso", e solo nel paragrafo 73 anche ai casi ("quod Deus avertat", "che Dio ce ne scampi") in cui un sacerdote dovesse avere relazioni con minori prepuberi ("cum impuberibus"). È manifesto che il problema pedofilia non era affatto all’ordine del giorno nel 1962 e l’istruzione infatti gli dedica esattamente mezza riga. Impossibile poi non rilevare come Odifreddi non colga che il richiamo alla segretezza valeva essenzialmente per il procedimento: come ogni processo, anche quello canonico ha dei passi che devono essere segreti proprio per permettere l’accertamento della verità e per tutelare la parte più debole. Ma il dato più indisponente dell’intervento di Odifreddi è la pervicacia nell’aggressione a Benedetto XVI, al quale invece si deve un’assoluta e documentata determinazione ad estirpare questo male dalla Chiesa. A riprova di ciò valgano le parole del Papa che, rivolgendosi ai vescovi irlandesi lo scorso mese di ottobre, indicò la necessità di: «stabilire la verità di ciò che è accaduto in passato, prendere tutte le misure atte ad evitare che si ripeta in futuro, assicurare che i principi di giustizia vengano pienamente rispettati e, soprattutto, guarire le vittime e tutti coloro che sono colpiti da questi crimini abnormi». (Piero Chinellato, © Avvenire, 6 giugno 2007)
Il matematico che sbaglia i numeri Piergiorgio Odifreddi, docente universitario di matematica ed esponente di punta dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, si è arrabbiato perché numerosi quotidiani lo hanno dato per sconfitto ai punti da monsignor Rino Fisichella nella trasmissione «Annozero» dedicata al controverso tema dei casi di pedofilia fra i sacerdoti, benché potesse contare su un arbitro - Michele Santoro - non precisamente imparziale. Come molti allenatori di calcio sconfitti, cerca di rigiocare la partita sui giornali, con lunghi articoli dove scende in campo da solo e si convince di aver vinto. Odifreddi, diventato autore di successo con un libro dove si chiede pensosamente se i cristiani siano cretini o i cretini siano cristiani, si rivela, come già in quella trasmissione televisiva, del tutto refrattario al diritto canonico. Continua a confondere processo canonico e diritto civile, e segretezza del processo e segretezza del delitto. I documenti vaticani di cui si è discusso da Santoro impongono che il processo canonico si svolga a porte chiuse (del processo civile non parlano affatto), e che i vescovi non ne divulghino atti e procedure: ma la sentenza è pubblica e il delitto non è tenuto affatto segreto. La stessa istruzione del 1962 Crimen sollicitationis (oggi peraltro non più in vigore) con cui se la prende Odifreddi minaccia di scomunica non chi denunci un abuso sessuale ma al contrario chi - vittima o testimone - avendone conoscenza non lo denunci. Chi sostiene tesi diverse forse non riesce a capire il latino in cui sono scritti i documenti. Ma non è tutta colpa di Odifreddi: l’avere studiato matematica non prepara a comprendere materie giuridiche dotate di un alto grado di tecnicità. Odifreddi, però, ha perso la partita televisiva proprio sul suo terreno, quello dei numeri. Parliamoci chiaro: anche un solo prete pedofilo è uno di troppo, e va punito senza se e senza ma. Tuttavia, tutti quelli che citano statistiche - da Santoro a Odifreddi - usano quelle del maggiore studio americano sul tema, condotto nel 2006 dal John Jay College della City University of New York, la più prestigiosa istituzione accademica americana nel campo della criminologia. Ma non tutti le hanno capite. Lo studio del John Jay College parla di quattromila sacerdoti accusati negli ultimi cinquant’anni di rapporti sessuali con minorenni. Accusati non vuol dire condannati: le condanne sono state 105, in qualche caso per transazioni prima del processo ma in molti altri perché i sacerdoti erano innocenti. E i rapporti sessuali con minorenni non equivalgono alla pedofilia, definita dalle leggi e dalla medicina con riferimento ai rapporti con minori prepuberi: se un sacerdote di trent’anni scappa con una minorenne di diciassette tradisce certo il suo sacerdozio, ma non è un pedofilo. I veri e propri pedofili accusati sono stati ottocento, i condannati una quarantina. Troppi: e i vescovi che non hanno vigilato infatti sono stati rimossi, soprattutto da quando di queste vicende ha cominciato a occuparsi con grande severità il cardinale Ratzinger. Colpire con rigore estremo i pochi pedofili travestiti da preti è obbligatorio. Falsificare le cifre è invece un inganno, così come insistere, alla Odifreddi, sul fatto che un tribunale americano su istanza della parte civile ha cercato di incriminare il Papa. In America dare corso a queste istanze è un atto dovuto, e un altro tribunale ha cercato d’incriminare (non è uno scherzo) perfino «Satana e i suoi diavoli». Come per il Papa, ci sono stati problemi di notifica. (Massimo Introvigne, © il Giornale, 6 giugno 2007)
Ma quei 100mila in corteo non sono notizia I quattro sciamannati che contestano Bush da giorni hanno l'onore delle prime pagine e delle aperture dei tiggì. Ma le 100mila persone che giovedì sera, a Roma con il Papa, hanno partecipato alla processione del Corpus Domini fra le basiliche del Laterano e di Santa Maria Maggiore, non hanno meritato neanche una riga di attenzione da nessuno. È la dittatura del relativismo. Interessano i cattolici che ad Assisi fanno le marce della pace con Bertinotti, ma non le folle cattoliche che pregando portano per le vie di Roma l'Eucaristia. Cosa volete che sia la notizia di Dio che si fa carne e poi pane... Tutti siamo indotti a pensare che un Casarini che si agita in Trastevere sia più importante. Certo, tutto passa. Sono passati pure Lenin e Stalin, figuriamoci Casarini... Ma noi intellettuali invece pensiamo che siano i vari Casarini, i Silvestri e i Lapo Elkann e le veline, meteore che attraversano le nostre effimere cronache, a far notizia e non piuttosto il Signore della storia, la Bellezza fatta carne, che è fra noi da duemila anni e che ha promesso di restare per sempre. Siamo accecati o banali? Anche se - nelle nostre disperate solitudini laiche - pensassimo che 100mila romani in processione siano solo folklore oppure - come scrive Odifreddi - ritenessimo che i cristiani siano dei «cretini», è pur sempre un fenomeno sociale clamoroso. Perché non interrogarsi? Il Figlio di Dio che diventa pane Oltretutto a quel mistero che è l'Eucaristia sono state dedicate le nostre cattedrali e i più grandiosi capolavori della nostra arte. Fra i «cretini» devoti a quel mistero troviamo Mozart, Caravaggio, Dante, Raffaello che hanno espresso tutta la loro commozione per il Dio che si fa pane quotidiano. Folle di martiri hanno dato la vita per lui e i più grandi santi sono stati innamorati di Gesù «pane di vita»: da Francesco d'Assisi a Caterina da Siena, da Tommaso d'Aquino a Madre Teresa, da padre Pio a santa Chiara che con l'ostensorio fermò addirittura i saraceni. A far intuire che immane mistero si nasconda in quel pezzo di pane ci sono decine di miracoli eucaristici. Cito due dei più famosi. Quello di Lanciano e quello di Siena. A Lanciano, attorno al 750, un monaco stava celebrando la messa, ma da tempo era assalito dai dubbi: possibile che quella piccola ostia bianca diventi realmente fra le mani del sacerdote il vero corpo di Cristo? Mentre pregava Dio che lo liberasse da questo assillo, vide letteralmente il pane trasformarsi in carne. Atterrito e confuso scoppiò in lacrime. Il clamore fu enorme e quell'ostia di carne è tuttora conservata nella chiesa di San Francesco. Nel 1971 furono fatti esami di laboratorio. Il professor Odoardo Linoli il 4 marzo rese noti i risultati: si tratta di tessuto di cuore umano e sangue umano (emogruppo AB). Inoltre, «nel liquido di eluizione dell'antico sangue si riconoscono tutti i componenti del siero di sangue fresco (tracciato elettroforetico) e tutti gli accertamenti fatti sulla carne e sul sangue non hanno mai portato al riconoscimento di materiali estranei, destinati alla conservazione». Si è scoperto che la carne è parte del ventricolo sinistro di un cuore umano. Il professor Linoli dichiara che l'ipotesi di un falso (cioè di un cuore prelevato da un cadavere) non è convincente per il tipo di tessuto e per come tale tessuto è stato prelevato («le prime dissezioni anatomiche sull'uomo si ebbero posteriormente al 1300»). Inoltre - studiando la retrazione concentrica del tessuto stesso e come si tentò nell'VIII secolo di fissarlo - il professore ha concluso che questo frammento di cuore, quando il monaco se lo trovò fra le mani, «fosse allo stato vivente». Un altro caso a Siena. Il 14 agosto 1730 alcuni ladri, nella basilica di San Francesco, ru- bano la pisside d'argento piena di particole consacrate. Il sacrilegio sconvolge la città. Il giorno 17 le ostie sono ritrovate dentro una cassetta delle elemosine del santuario di S. Maria in Provenzano. Per farla breve, da allora - sono passati 277 anni - si conservano prodigiosamente incorrotte, sebbene il materiale di cui sono fatte sia quanto mai effimero. Analisi scientifiche hanno attestato che sono «intatte e senza sfrangiature». Conclusione del professor Grimaldi: «Le Sante Particole di Siena sono in perfetto stato di conservazione contro ogni legge fisica e chimica e nonostante le condizioni del tutto sfavorevoli in cui si sono venute a trovare. Un fenomeno eccezionale e straordinario». Molti altri sono i miracoli eucaristici riconosciuti dalla Chiesa. Poi ci sono gli episodi non ancora riconosciuti come miracoli, anche perché molto recenti, come quello clamoroso accaduto, il 7 novembre 1999, a Lourdes, nella basilica inferiore. Celebra- va l'arcivescovo di Lione e con lui il cardinal Lustiger, arcivescovo di Parigi, con molti vescovi d'Oltralpe. La messa era trasmessa in diretta dalla televisione francese Antenne 2 e dunque quello che accadde è tutto documentato (si può vedere su Internet). Al momento dell'epiclesi, cioè quando i sacerdoti stendono le mani invocando lo Spirito Santo perché il pane e il vino diventino il Corpo e il Sangue di Cristo, si vede chiaramente che la grande ostia bianca si solleva, oscilla e resta sospesa nell'aria per molti minuti, a qualche centimetro dalla patena, fino alla fine del canone. Il movimento con cui si solleva è impressionante. Alcuni esperti hanno analizzato la ripresa escludendo ogni manipolazione tecnica. Un altro fatto inspiegabile pare sia accaduto alla coreana Julia Youn Hong-Son. Il 31 ottobre 1995 partecipa alla messa che Giovanni Paolo II celebrava nella sua cappella privata. Riceve da lui la comunione e qui accade un fatto sconvolgente: sulla sua lingua quell'ostia diventa di carne. C'è un filmato che mostra quando il Papa, finita la messa, giunge davanti a Julia: lei si inginocchia e mostra al Santo Padre il prodigio. Si nota lo sguardo stupito del Papa che carezza la guancia di Julia e traccia una croce sulla sua fronte (il filmato è stato mostrato per la prima volta da Piero Vigorelli, a "Miracoli", su Rete 4, il 18 maggio 2001). Certo su questo episodio come su quello di Lourdes dovrà pronunciarsi la Chiesa. Ma i miracoli eucaristici già accertati parlano chiaro: alla fame di significato, di bellezza, di amore di ogni uomo, Cristo risponde facendosi pane, per sostenerci, trasformarci in Lui e divinizzare perfino il nostro corpo che si disfà e decade ogni giorno: se ci nutriamo di Lui è destinato a diventare un corpo glorioso come quello di Gesù dopo la resurrezione, non sottoposto più ai limiti dello spazio e del tempo, eternamente giovane. Una presenza reale che spazza le ombre Ecco perché i centomila romani sono stati mossi dal desiderio di incontrare - ha detto il Papa - «Gesù che passa per le strade». Il cardinal Siri, 40 anni fa, in una circostanza analoga alla visita romana di Bush, ebbe a dire: «In questo mondo c'è Kennedy, c'è Kruscev, ci sono tutti gli altri, che nel giro di pochissimi anni non vi saranno più. Vi prego di ricordarvi che in questo mondo c'è Gesù Cristo (con questo è detto tutto!) e che Gesù Cristo è il Figlio di Dio fatto uomo, cioè Egli è l'infinito e il più umano di tutti, l'unico veramente umano perché in un modo non ripetibile dagli altri, è andato in croce per tutti gli uomini.... Questi uomini che se arriva in una città un divo o una diva dello schermo, parlano per qualche tempo solo di quello, ombre effimere, assolutamente effimere e inconsistenti come tutte le ombre! Costoro che non si ricordano che Nostro Signore e Salvatore, quello che è andato in croce per loro, rimane lì nel Tabernacolo, Dio e Uomo, non con la presenza spirituale, ma con la presenza reale...». Presenza che riempie ogni solitudine, vince il dolore e la morte e ama ciascuno chiamandolo per nome. (Antonio Socci, Libero, 9 giugno 2007)
«Il diritto alla vita limite insuperabile» Il primo diritto è quello di vivere. Tutti gli altri, seppure fondamentali, inalienabili e costituzionali, vengono dopo, e da quello dipendono. È questo, in sostanza, il pensiero forte del gip Renato Laviola, che spiega così l'ordine di imputazione coatta per Mario Riccio, l'anestesista che a dicembre staccò il respiratore a Piergiorgio Welby. Il diritto alla vita - scrive il magistrato nelle motivazioni del provvedimento con cui ha respinto per la seconda volta la richiesta di archiviazione del pm Gustavo De Marinis - «nella sua sacralità, inviolabilità ed indisponibilità» costituisce un «limite per tutti gli altri diritti posti a tutela della dignità umana». Dunque, di fronte al diritto alla vita, passa in secondo piano anche quello sancito dall'articolo 32 della Costituzione, secondo cui «nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario». Ovvero il diritto di morire. Manca - è vero - in tal senso una specifica affermazione nella Carta Costituzionale, ma è ovvio e logico che la vita sia il «presupposto» necessario per ogni altra situazione. Tutti i diritti previsti dalla Carta, dunque, sono ugualmente veri e validi, nessuno è "meno vero", ma tutti si fermano laddove inizia il primo: «Non esiste un rapporto di gerarchia o di incompatibilità tra principi costituzionali», nota infatti il magistrato, ma occorre «armonizzare tutto il sistema, alla base del quale di pone la dignità umana». Lo stesso giudice non manca poi di notare quanto il caso specifico di Welby sia particolare, soprattutto per il fatto che era lo stesso paziente, malato di una gravissima forma di distrofia muscolare, a voler staccare il respiratore che lo teneva in vita, e proprio per questo ribadisce «la necessità di una disciplina normativa che preveda delle regole e fissi il momento in cui la condotta del medico rientri nel divieto di accanimento terapeutico». Perché altrimenti, in assenza di tali norme, non resta che attenersi al principio per cui a nessuna norma può essere r iconosciuta «un'estensione tale da superare il limite insuperabile del diritto alla vita». Passaggio, questo, non apprezzato dal bioeticista Francesco D'Agostino, che rivolge il suo ammonimento all'intera classe medica: «Non amo i magistrati che lamentano lacune del diritto positivo. Sono convinto che se i medici prendessero consapevolezza della deontologia sarebbero i primi a dire che non c'è bisogno di una legge. La legge è chiesta perché è in crisi profonda la medicina ippocratica e la deontologia medica». Sulla decisione del gip ha influito non poco il comportamento di Riccio, che non era affatto il medico curante di Welby e che quindi viaggiò appositamente da Cremona a Roma per interrompere la ventilazione al malato. Non si trattò dunque di una mera omissione di cure, ma di eutanasia passiva. Inoltre Welby - nota il giudice - non era un malato terminale: «Era costretto all'immobilità totale e senza possibilità di guarigione ma aveva una non breve aspettativa di vita». «Un'ordinanza illogica e contraddittoria», reagisce Giuseppe Rossodivita, legale del dottor Riccio: «Da una parte il gip riconosce nel nostro ordinamento il diritto di rifiutare le terapie - dice l'avvocato -, poi però afferma che nel caso specifico, viste le modalità concrete dell'intervento di Riccio, sarebbe stato superato il limite invalicabile del diritto alla vita. Ma questo limite o è invalicabile sempre o non lo è mai». Diverse e molteplici le reazioni nel mondo politico. «Incomprensibile l'affermazione per cui il diritto alla vita nella sua sacralità, inviolabilità e indisponibilità costituisce un limite per tutti gli altri», secondo Salvatore Binadonna (Prc). «Decisione ineccepibile», invece, per Riccardo Pedrizzi (An): «In Italia l'eutanasia, sia essa attiva, passiva o omissiva, è sempre illegale». (Lucia Bellaspiga, Avvenire, 10 giugno 2007)
«Cristiani d’Oriente, custodi della prima luce del Risorto» Ha portato "in dono" la nomina del nuovo prefetto, monsignor Leonardo Sandri. Ha ringraziato le Chiese orientali «per la fedeltà pagata con il sangue». Ha rivolto un nuovo appello per la libertà religiosa delle comunità ecclesiali in tutte le parti del mondo. E ha detto di voler idealmente continuare «il pellegrinaggio al cuore dell'Oriente» dei suoi predecessori, anche al fine di camminare sulla via dell'unità con le Chiese ortodosse. Sono questi, in sintesi, gli elementi più importanti della visita che ieri mattina, subito dopo essersi congedato dal presidente americano George W. Bush, Benedetto XVI ha compiuto nella sede della Congregazione per le Chiese Orientali, che si trova in via della Conciliazione, a due passi da piazza San Pietro. Accolto al suo arrivo dal prefetto uscente della Congregazione, il cardinale Ignace Moussa I Daoud (al quale il Papa ha poi manifestato tutta la sua «gratitudine per il lavoro svolto con generosa dedizione in un compito tanto delicato») e dal segretario, monsignor Antonio Maria Vegliò, il Pontefice si è poi recato per una breve visita alla cappella del Santissimo Salvatore. Successivamente ha salutato i rettori dei Pontifici Collegi e Istituti Orientali di Roma e monsignor Cipriano Calderón Polo, preposto del Palazzo che ospita la Congregazione. Infine ha raggiunto la Sala di rappresentanza, dove ha tenuto il suo discorso. «Questa visita - ha sottolineato - mi pone sulle orme dei miei venerati predecessori, Giovanni Paolo II e il beato Giovanni XXIII, che vennero personalmente a incontrare i superiori e gli officiali del dicastero. Con essa intendo inoltre simbolicamente continuare il pellegrinaggio al cuore dell'Oriente che Papa Giovanni Paolo II ha proposto nella lettera apostolica Orientale lumen». «La venerabile e antica tradizione delle Chiese orientali - ha aggiunto, infatti, il Pontefice - è parte integrante del patrimonio indiviso della Chiesa di Cristo». Per questo, Benedetto XVI, dopo aver ricorda to che la nascita della Congregazione fu voluta 90 anni fa da Benedetto XV «per fugare il timore che gli orientali non fossero tenuti nella dovuta considerazione dai Romani Pontefici», ha voluto esprimere la sua gratitudine verso le Chiese al cui servizio il dicastero vaticano è posto. «Oggi - ha detto - il Papa ringrazia nuovamente gli orientali per la fedeltà pagata col sangue, di cui restano pagine mirabili lungo i secoli fino al martirologio contemporaneo». Notazione questa che ha fornito al Pontefice l'occasione per un appello «a tutti i responsabili perché ovunque, dall'Oriente all'Occidente, le Chiese possano professare la fede cristiana in piena libertà» e affinché ai cristiani «sia concesso ovunque di vivere nella tranquillità personale e sociale» senza pregiudizio «per i loro diritti di credenti e di cittadini». Infine Papa Ratzinger ha assicurato le Chiese orientali «di volere rimanere al loro fianco». E ha riaffermato «la profonda considerazione» verso di loro per il «singolare ruolo di testimoni viventi delle origini». Inoltre, poiché «senza un costante rapporto con la tradizione delle origini non c'è futuro per la Chiesa di Cristo» e poiché «sono in particolare le Chiese orientali a custodire l'eco del primo annuncio evangelico; le più antiche memorie dei segni compiuti dal Signore; i primi riflessi della luce pasquale e il riverbero del fuoco mai spento della Pentecoste» Benedetto XVI ha rivolto un pensiero anche agli ortodossi. «Anch'io, come i miei predecessori, - ha sottolineato - guardo con stima ed affetto alle Chiese dell'Ortodossia: "un legame particolarmente stretto già ci unisce. Abbiamo in comune quasi tutto e abbiamo in comune soprattutto l'anelito sincero all'unità". L'auspicio che sale dal profondo del cuore è che questo anelito possa presto trovare la sua realizzazione». (Mimmo Muolo, Avvenire, 10 giugno 2007)
Controstampa del 10 giugno 2007 Famiglia, delicato luogo dell'umano «Violenza formato famiglia» (Manifesto, 31/5); «Donne, quando l'inferno è in casa» e «Quell'oscura violenza che nasce nelle famiglie» (Unità, 31/5 e 4/6); «Quando la famiglia uccide le donne» (Panorama, 7/6); «Del mangiar bambini» (Umberto Eco, Panorama, 14/6). L'elenco dei titoli sulla violenza in famiglia è incompleto, ma il suo senso è scoperto. La Discussione, per esempio, ha parlato esplicitamente (2/6) di «vendetta contro il Family Day». E su Tempi (7/6), Claudio Risè ha osservato che «la famiglia si indebolisce perché oggi viene attaccata e svalutata ed è più esposta a processi degenerativi [...] Il modello culturale e politico non può contemporaneamente negare la funzione della famiglia, i valori sui quali è fondata, e pretendere che funzioni e non si ammali [...] La famiglia è un luogo sempre esposto a tensioni anche drammatiche, semplicemente perché è il luogo fisico, relazionale e psicologico dove avvengono gli eventi fondamentali della vita umana [...] Non è un Dico, dove quando qualcuno non se la sente di affrontare quello che sta accadendo se ne va». La Nazione riferiva (30/5) che Follonica ha istituito il «Registro delle unioni di fatto», alle quali sarà «assicurato l'accesso a benefici e opportunità amministrative alle medesime condizioni riconosciute dall'ordinamento alle coppie sposate». Il Registro, però, «per comprensibili ragioni di privacy, non potrà essere consultato dal pubblico». Che gli iscritti si vergognino? Vizi segreti e pubbliche virtù. La cultura debole Secondo Stefano Rodotà «non ci sono "veri" diritti individuali», come dicono i cattolici nel dibattito sulle coppie di fatto, ma «diritti riconosciuti dalla Costituzione e basta» (Repubblica, 8/6). Molti, però, trasformano i desideri in diritti: per esempio gli omosessuali con il matrimonio. Rodotà, che insegna diritto alla Sapienza di Roma, suppongo che lo sappia. Dunque, chi vuole «riscrivere la tavola dei valori costituzionali» non sono i vescovi ma altri: gli intellettuali e i politici suoi amici che, come lui scrive pensando però ai cattolici, «sono il segno di una cultura debole dalla quale discende una politica inadeguata». Eccone un caso concreto: non vedere al di là dell'embrione del nuovo Partito democratico e temerne un aborto spontaneo o una morte perinatale da attribuire (scrive Paola Gaiotti De Biase, Unità, 8/6) «al disegno già in atto» della «indisponibilità di un'area cattolica finora schierata nel centrosinistra e che ha promosso e partecipato al Family Day». L'adesione dei "cattolici democratici" al Pd è diventata obbligatoria? La gaya "laicità" «Il Gay Pride in piazza San Giovanni: è un dovere per i laici portare quella piazza dalla parte della civiltà», «Parità, dignità, laicità verso il Gay Pride», «16 giugno giorno decisivo per l'Italia libera e laica» (Liberazione, 13, 30/5 e 3/6). «Ultimo appello» del presidente nazionale Arcigay: «Sveglia, Italia laica: a Roma il 16 giugno per riprenderci la sinistra» (Manifesto, 15/5). «La sinistra laica chiede l'adesione Ds al Gay pride», «Pride 2007, una grande risposta del popolo laico» (Unità, 15/5 e 6/6). Ma…la "laicità" è diventata gay? (Piergiorgio Liverani, Avvenire, 10 giugno 2007)
Fondi ai trans, il triste reality di Casa Prodi C’era una volta il socialismo reale. Già, c’era una volta: perché oggi, anche nelle regioni comuniste doc, bisogna accontentarsi del socialismo relativista. Tanto che la rossissima Regione Toscana ha destinato 150mila euro del Fondo sociale europeo alla creazione di carte di credito riservate a transessuali e transgender in cerca di lavoro. Roba da far drizzare tutti i peli della barba del povero Carlo Marx. Benvenuti nel cosiddetto «Paese normale» che i post comunisti e i post cattolici dell’Unione promettevano da tempo. Dopo rapida gestazione ecco qua uno dei tanti figli in provetta prodotti dal matrimonio fra marxisti senza marxismo e cattolici senza cattolicesimo, per i quali il concetto di normalità dipende dalla moda. Questo, rapidamente, il fatto: l’Unione europea stanzia da alcuni anni dei fondi per promuovere lo svolgimento di corsi professionali per i nostri ragazzi. Corsi che, quando sono ben progettati e ben realizzati, insegnano davvero un mestiere e introducono nel mondo del lavoro i giovani. Così la rossissima Regione Toscana ha pensato di inventarsi con quei fondi una carta prepagata di 2.500 euro procapite da spendere in due anni, utilizzabile solo per frequentare corsi di formazione. Bene, diranno molti. Però, c’è un però: la carta è riservata a coloro che esibiscano un certificato del servizio sanitario con la diagnosi di «disturbo di identità di genere». «La somma è modesta, l’idea è grande» commenta trionfalmente un comunicato dell’ufficio stampa della rossissima Regione Toscana, che aggiunge per la precisione: «Non è però il primo esperimento che si tenta in Toscana in questo settore. Nel centro per l’impiego di Pistoia si era già iniziato ad utilizzare la carta per permettere ai trans di studiare ed aggiornarsi per poi trovare un canale d’ingresso in un’azienda, un ufficio, un ospedale, un luogo in cui costruire un futuro e dei rapporti umani e professionali senza sentirsi emarginati, strani, diversi, osservati». Se qualcuno pensa di essere finito su Scherzi a parte si svegli. Questo è un episodio, e nemmeno l’ultimo purtroppo, di «Casa Prodi», il reality show più triste e veritiero della Seconda Repubblica. L’idea brillante, questa volta, è venuta all’assessore al Lavoro, il democratico di sinistra Gianfranco Simoncini, che spiega come il sussidio sia «diretto alle fasce deboli del mercato e non c’è dubbio che quella dei trans lo sia. Vogliamo dare a queste persone una concreta opportunità di fare una vita normale, evitando che l’isolamento le spinga a prostituirsi per riuscire a guadagnare dei soldi. Dobbiamo toglierle dal marciapiede». E i cattolici che pure fanno parte di quella maggioranza di governo? Non pervenuti. Tace il vicepresidente Federico Gelli, già presidente provinciale delle Acli. Ma tace pure il sito della diocesi di Firenze, che non dà la notizia né la commenta in alcun modo. E pure quello del settimanale cattolico Toscana Oggi. Questo è il «Paese normale» che l’esercito della salvezza progressista vuole confezionare per il nostro futuro, trasformando i famosi «diritti civili» in veri e propri servizi garantiti e pagati dallo Stato. Ci vogliono traghettare in un territorio dell’assurdo che è al di là del bene e del male, ben oltre il confronto atavico fra destra e sinistra. Perché non ci vuole la tessera di un partito particolare, o una fede religiosa specifica, per certificare l’insensatezza, per non dir di peggio, di un provvedimento così sgangherato. È dunque questo il tragicomico epilogo di quello che una volta fu il glorioso partito dei proletari: i deboli mica sono gli handicappati, o le mamme con tre figli, o gli anziani. Abbandonata la prole al suo destino, lo Stato sociale si rivolge a nuove categorie meritevoli della mano compassionevole dell’autorità. E tutto questo scialo di denaro pubblico, perché? Per strizzare l’occhio alla «diversità» e assumere come modello culturale la nuova ideologia del «genere», secondo la quale «maschile» e «femminile» non sono più dei dati oggettivi, che la biologia ci mette davanti senza possibilità di equivoco. «Maschio» e «femmina» sarebbero solo delle «categorie culturali», che devono essere superate dalla libera determinazione del singolo. Dai post-comunisti siamo approdati ai trans-comunisti. E adesso chi va a spiegarlo ai compagni in qualche Casa del popolo un po’ fuori mano? Ma questa iniziativa del centrosinistra toscano un merito in fondo ce l’ha: dimostra che il confronto politico dei prossimi anni passa lungo la linea delle scelte di valore. Il centrodestra ha vinto nelle competizioni locali perché è visto dalla gente comune, giustamente, come interprete della sana, banalissima, normalità. E tanto più si imporrà quanto più si confermerà alternativo al socialismo relativista di questa sinistra nichilista. C’è un elettorato normalmente borghese - tanto disprezzato dalle élite culturali «de sinistra» e dai cattolici adulti - che su certi valori non tollera tradimenti. Non ama le amministrazioni che buttano via 290 milioni delle vecchie lire per destinarli alla «categoria socialmente debole dei trans». (Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, © Il Giornale, 09 giugno 2007)
La Bibbia aveva ragione. E anche il papa Don Silvio Barbaglia, docente di scienze bibliche al seminario vescovile di Novara, contesta punto per punto che gli “errori” individuati nel libro di Benedetto XVI “Gesù di Nazaret” da Marco Damilano, nell’articolo che riportiamo integralmente più sotto, siano veri errori. Degli otto “errori” contestati, scrive, “se ne salva al massimo uno”: quello di p. 79 dove si afferma erroneamente sul piano filologico che “malkut”, sostantivo femminile ebraico che significa “regno, regalità, signoria”, è una “radice”. Più che Damilano, però, don Barbaglia contesta Piero Stefani, noto biblista ed ebraista. È stato infatti Stefani a elencare per primo gli “errori” poi riportati tali e quali dal Damilano ne “L’espresso”. L’ha fatto sul numero del 15 aprile 2007 della rivista cattolica progressista “Il Regno”, in una nota in calce a un suo commento al libro del papa. Ecco il testo integrale della nota di Piero Stefani: “Vanno inoltre segnalate, a motivo di un lavoro non esemplare dei due curatori dell’edizione italiana, Ingrid Stampa ed Elio Guerriero, varie imprecisioni, specie di carattere documentario e filologico, le quali tuttavia non comportano problemi interpretativi: confusione tra il monte Oreb e il monte Moria (o, in alternativa, tra Abramo ed Elia) a p. 51; sospetta non coincidenza tra Oreb e Sinai (p. 356); mancata distinzione tra il greco classico e quello della koinè a proposito della parola doxa (p. 62); la parola ebraica malkut presentata come una radice (p. 79); scelta di rendere più volte equivalenti le parole Dio e Signore (cf. per esempio «la regalità di Dio [YHWH]», p. 80 o «servo di Dio» per «servo del Signore», p. 381; si veda anche il caso particolarmente significativo di p. 368); uso di anacronismi come quello secondo cui Gesù entrò a Gerusalemme la «domenica delle palme» (p. 213; 272; 315; 335); scambio di un vocativo per un nominativo (p. 348, a proposito della parola epistàta); luoghi comuni, «un’asina - la cavalcatura dei poveri» (p. 105); confusione tra giudeo-cristiani e giudaizzanti (pp. 126, 145); sbaglio di genere per la parola sukkot presa come un maschile, p. 362; ecc.”. Ed ecco il testo di Damilano: «Cristo, quanti errori… Sbaglia il monte di Abramo. Anticipa di secoli la domenica delle Palme. E poi: citazioni imprecise, parole mal tradotte. Ecco gli sbagli di papa Ratzinger nel suo libro su Gesù. Abramo fu chiamato a sacrificare il figlio Isacco sul monte Oreb? Macché, era il monte Moria. Gesù entrò a Gerusalemme il giorno della domenica delle Palme? Impossibile: ai tempi di Gesù la festività non esisteva, non esisteva neppure la domenica, in verità. Chissà cosa avrebbe fatto un docente di teologia con un allievo che nella sua tesi di laurea fosse incappato in simili errori. E chissà come li avrebbe giudicati, ai tempi in cui insegnava a Münster, Tubinga e Ratisbona, il professor Joseph Ratzinger. Ma in questo caso impugnare la matita rossa e blu è più complicato. Perché l'autore del testo in questione non è uno studentello alle prime armi, ma il teologo tedesco famoso in tutto il mondo, la cui opera si compone di "seicento articoli e un centinaio di libri tradotti in tutte le lingue", come vanta la quarta di copertina del suo ultimo volume. Proprio lui: Ratzinger, papa Benedetto XVI. Il suo libro “Gesù di Nazareth”, edito da Rizzoli, in poco più di un mese ha raggiunto la tiratura di un milione e mezzo di copie (con edizioni in Italia, Germania, Slovenia, Grecia, Polonia, Stati Uniti e Gran Bretagna e con traduzioni in corso in 30 lingue). Un successo enorme di pubblico, accompagnato dall'applauso dei fan: "Ha l'aria di avere in pugno la storia più interessante in circolazione della storia del mondo", si è commosso Giuliano Ferrara. Gli specialisti, gli esperti di Scrittura, però, non condividono tanto entusiasmo. E forse pensava a loro, il collega Ratzinger, quando ha scritto l'introduzione: "Questo libro non è magisteriale. Perciò ognuno è libero di contraddirmi. Chiedo solo alle lettrici e ai lettori quell'anticipo di simpatia senza il quale non c'è alcuna comprensione". Quasi un invito alla clemenza, con l'ansia dell'intellettuale che teme il giudizio dei critici su ciò che gli è più caro: l'opera del suo ingegno. Altro che simpatia. Dagli esegeti arrivano stroncature impietose. Segnalazioni di errori che “L'espresso” ha raccolto con l'assicurazione dell'anonimato. Sviste, confusioni sintattiche, anacronismi, luoghi comuni. E qualche autentico strafalcione. A pagina 51, per esempio, Ratzinger parla del racconto rabbinico secondo cui "Abramo, sulla strada per il monte Oreb dove avrebbe dovuto sacrificare il figlio, non prese né cibo né bevanda per quaranta giorni e quaranta notti". Ma qui il papa fa confusione tra due episodi biblici: nel capitolo 22 del libro della Genesi il monte indicato per il sacrificio di Isacco è il Moria. E Abramo arriva nel luogo dell'olocausto il terzo giorno. Mentre, in effetti, c'è un altro personaggio fondamentale che digiuna per quaranta giorni camminando verso il monte Oreb: ma è il profeta Elia, come racconta il capitolo 19 del libro dei Re. Scambiare Abramo con Elia è da "non possumus". Ma a pagina 356, il papa tedesco scivola sull'Oreb, per la seconda volta. Parlando dei "monti della rivelazione" ne indica tre: il Sinai, l'Oreb e il Moria. Ma il Sinai e l'Oreb nel linguaggio della Bibbia sono la stessa cosa, simboleggiano il monte dove Dio parla al suo popolo. C'è poi l'equivoco per cui Ratzinger scrive che Gesù entrò a Gerusalemme durante la festa della domenica delle Palme: il papa lo ripete quattro volte, a pagina 213, 272, 315, 335. Ma si tratta di un evidente anacronismo: la domenica delle Palme, come è ovvio, all'epoca era una festività inesistente. La benedizione dei ramoscelli d'ulivo che ricorda quel giorno fu istituita molti secoli dopo. A voler essere pignoli, poi, e solo Dio e Ratzinger sanno quanto possono esserlo certi teologi, si scova di tutto. Scambi di genere: a pagina 362 la parola ebraica sukkot (capanne) viene utilizzata al maschile, e invece è femminile. Scambi di declinazione: l'epistàta di cui si legge a pagina 348, che in greco significa presidente, capo, maestro, è un vocativo, il nominativo è epistàtes. Luoghi comuni: l'asina "cavalcatura dei poveri", di cui si parla a pagina 105, sa un po' di fiaba bavarese. Si può aggiungere che 'malkut' è una parola ebraica, e non una radice come afferma il papa a pagina 79. E ancora: a pagina 62 Benedetto XVI traduce il termine 'doxa' in gloria, ma nel greco classico in realtà la parola significa opinione, solo nel Nuovo testamento, nei Vangeli, assume un nuovo significato.» Replica don Barbaglia: «Lo svarione più eclatante sarebbe a p. 51, dove il papa avrebbe confuso il monte di Abramo, il monte Moria, con il monte di Mosè, l’Oreb. Il testo del papa dice: “Il ricordo può estendersi poi al racconto rabbinico secondo cui Abramo, sulla strada per il monte Oreb dove avrebbe dovuto sacrificare il figlio, non prese né cibo né bevanda per quaranta giorni e quaranta notti, nutrendosi dello sguardo e delle parole dell’angelo che lo accompagnava” (pp. 51-52). Damilano si mostra allibito per la confusione papale tra l’episodio di Genesi 22, il sacrificio di Isacco, e la storia di Elia che cammina per quaranta giorni verso il monte di Dio, l’Oreb in 1 Re 19. Che Abramo possa essere salito sull’Oreb in effetti pare cosa strana a tutti, ma non alla tradizione che ha redatto il testo originariamente ebraico dell’Apocalisse di Abramo, verso la fine del I sec. d.C., giunta a noi dalla testimonianza dell’antica Chiesa slava. Si tratta di un racconto midrashico che fonde insieme l’alleanza di Gen 15, il racconto del sacrificio di Genesi 22, il ciclo di Mosè al Sinai e il ciclo di Elia all’Oreb. L’angelo del Signore accompagna per il sacrificio Abramo fin sul monte Oreb lungo il cammino di quaranta giorni senza cibo e bevande (cfr. cap. 12). Quindi Abramo, secondo questa tradizione ebraica, va veramente sull’Oreb! A p. 356, secondo Damilano, “il papa tedesco scivola sull’Oreb, per la seconda volta”. Infatti, papa Ratzinger, in riferimento ad una sorta di teologia sui monti nella Bibbia, afferma: “Sullo sfondo si stagliano però anche il Sinai, l’Oreb, il Moria – i monti della rivelazione dell’Antico Testamento, che sono tutti al tempo stesso monti della passione e monti della rivelazione e, dal canto loro, rimandano anche al monte del tempio su cui la rivelazione diventa liturgia”. Damilano ricorda a chi fosse ignorante in materia che, nella Bibbia, Sinai e Oreb sono lo stesso monte della rivelazione che ha due nomi diversi per diverse tradizioni, mentre il papa penserebbe che siano due monti diversi! Ma se si legge con attenzione il testo del papa egli non sta dicendo che con il Moria questi sono tre monti in tutto, in senso assoluto, ma che sono “i monti” che tengono insieme, da un punto di vista teologico, il significato della passione e della rivelazione e che rimandano anche al monte del tempio. L’Oreb è per Mosè solo il monte della rivelazione del nome (Esodo 3,12ss.) mentre sarà il Sinai a divenire per Mosè il monte della rivelazione e della passione (il dono della Legge e il peccato del popolo e la fatica dell’alleanza). Per Elia sarà l’Oreb il monte della passione e della rivelazione. Per Abramo sarà il Moria il suo monte della passione e della rivelazione. Ma la tradizione biblica in 2 Corinti 3,1 identificherà il monte del tempio (di solito il Sion) con il monte Moria, quello del sacrificio di Abramo. Nel tempio, inoltre, si legge ogni sabato la Torah di Mosè che è stata data sull’Oreb/Sinai, e per questo, nella liturgia, si ricollegano tutti e tre i monti (anche se erano fisicamente due) nelle figure di Abramo, Mosè ed Elia. L’approccio simbolico e teologico alle Scritture richiede una conoscenza profonda del testo che papa Ratzinger mostra di avere. Alle pp. 213, 272, 315, 335 del libro, Damilano segnala che il testo del papa per ben quattro volte usa l’espressione “domenica delle Palme” quando dovrebbe essere risaputo che questa festa fu istituita dal cristianesimo parecchi secoli dopo. In tutti i testi richiamati il papa fa sempre riferimento al vangelo di Giovanni e, in specie al cap. 12. Solo il quarto evangelista ci permette di definire quel giorno in cui Gesù entrò in Gerusalemme mentre la folla con “rami di palme” gli veniva incontro gridando: “Osanna…”. Infatti, in Giovanni 12,1 si dice: “Sei giorni prima della Pasqua”. Ora poiché la Pasqua per Giovanni è collocata tra il venerdì sera e il sabato, l’indicazione cronologica di “sei giorni prima” cade tra la sera del sabato e la domenica, momento in cui è contestualizzata la cena a Betania in casa di Marta, Maria e Lazzaro. In Giovanni 12,12, introducendo la scena delle Palme si dice: “Il giorno dopo”, ovvero quella domenica! Quindi era davvero domenica. Al tempo di Gesù i giorni della settimana erano denominati tutti in relazione al sabato: primo giorno dopo il sabato (domenica), secondo giorno dopo il sabato (lunedì)… fino al venerdì che era chiamato invece “parasceve” del sabato, ovvero preparazione. Il papa per farsi capire anche da un lettore non ebreo, stando al testo di Giovanni, chiama quel giorno “domenica” e la determina per l’episodio noto con il segno delle palme. Il fatto poi che non vi sia la maiuscola in “domenica delle Palme” mostra con chiarezza la volontà di segnalare non la solennità liturgica del cristianesimo, bensì l’evento decisivo di carattere messianico simbolizzato anche dalle “Palme” stesse. Scambi di genere: a p. 362 si dice che la parola ebraica “sukkot” (capanne) è femminile e invece il papa la tratta come un maschile. A ben vedere il papa sta citando Daniélou che a sua volta cita Riesenfeld. Quindi occorrerebbe risalire alle fonti per vedere dove stia l’errore: nella versione italiana o nella citazione di Daniélou o nella citazione di Riesenfeld. Scambi di declinazione: a p. 348 papa Ratzinger riporta il vocativo “epistàta” (maestro, insegnante, rabbino) invece del nominativo “epistàtes”. Se si va a controllare il testo si vede con chiarezza che il papa voleva citare esattamente il vocativo e lo fa usando virgolette e corsivo diversamente dai casi in cui vuole citare il nominativo, solo con virgolette. Il perché di questa eccezione è dato dal fatto che il termine ricorre nel Nuovo Testamento soltanto nel Vangelo di Luca e in tutto 7 volte e sempre al vocativo! Per sottolineare questo aspetto particolare, papa Ratzinger l’ha posto tra virgolette in corsivo. Il termine “Kyrios” (Signore) che Ratzinger richiama appena oltre è al nominativo (quindi senza virgolette) e ricorre 717 volte nel testo neotestamentario e di queste solo 124 al caso vocativo. Luoghi comuni: a p. 105 ci sarebbe un’espressione da “fiaba bavarese” perché, commentando la citazione profetica di Zaccaria 9,9ss. il papa afferma: “Questa sua natura, che lo oppone ai grandi re del mondo, si manifesta nel fatto che egli giunge cavalcando un’asina – la cavalcatura dei poveri, immagine contrastante con i carri da guerra che egli esclude”. L’espressione “cavalcatura dei poveri” appare quindi “bavarese” per Damilano. Ma basta conoscere la letteratura esegetica al riguardo per verificare quanto il papa abbia fatto una scelta interpretativa molto attestata, che coglie il contrasto, nell’immagine, con la logica della potenza e della guerra. Cosa ci sia di “bavarese” in tutto questo proprio non si capisce. A p. 62 del libro il termine “doxa” è tradotto con “gloria” che invece nel greco classico significa “opinione”. Vediamo cosa dice papa Benedetto XVI: “Questa gloria è, come indica il significato della parola greca dóxa, splendore che si dissolve”. Se si va a consultare gli studi di settore ci si rende conto che accanto ai significati di “opinione, stima, fama”, il termine dóxa, secondo gli studi di A. Deissmann e soprattutto di J. Schneider, può significare nel greco classico anche: “luce, splendore”. Il papa mostra evidentemente di conoscere più di altri questo significato. Tuttavia il papa non è infallibile: nel suo ultimo libro c’è un sicuro errorino. Ok. Ecco dove il papa può essere colto in castagna. Alla pagina 410 egli qualifica come “gesuita” l’esegeta americano John P. Meier, autore del poderoso studio in tre volumi “Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico”, edito in Italia dalla Queriniana. In realtà Meier, che è docente all’università di Notre Dame, non appartiene alla Compagnia di Gesù, ma è un semplice prete incardinato nell’arcidiocesi di New York. Il primo a far notare a Benedetto XVI lo sbaglio, con humour, è stato un collega di Meier, Robert P. Imbelli, professore di teologia al Boston College e anche lui prete di New York. (Sandro Magister, Settimo Cielo, 9 giugno 2007)
Esegesi: non è detta l'ultima Parola «La ricerca ha fatto progressi, ha inventato nuovi sistemi, ma la Sacra Scrittura resta un messaggio divino» «Vogliamo sapere chi era Gesù? Le indagini condotte con metodo storico critico non danno risposte esaurienti». Non ha dubbi il cardinal Albert Vanhoye, uno fra i biblisti più illustri ed autorevoli: «È un metodo utile, in tempi come i nostri, perché la scienza storica ha fatto molti progressi, ha inventato nuovi sistemi, quindi l'esegesi si deve adattare a tali nuovi livelli. Ma...». «Ma - aggiunge lo studioso -, come fa ben capire il Papa, questo è soltanto un approccio secondario con la Bibbia. Che è e resta un messaggio divino: di fede, di speranza e di amore. Discutere sui dettagli della storicità è utile. Difficilmente, però, si arriva a conclusioni precise, salde…». Dove si arriva, invece? «Soltanto a congetture. Ma, nelle condizioni attuali della scienza, si tratta di una prospettiva abituale». Vanhoye, già rettore del Pontificio Istituto Biblico e già segretario della Pontificia Commissione Biblica, definito «un grande esegeta» da Benedetto XVI, è salito domenica ad Illegio, sulle montagne della Carnia friulana, per riflettere su «La santità dei redenti e il cantico nuovo nell'Apocalisse», nell'ambito della mostra internazionale dedicata - appunto - all'Apocalisse. Un appuntamento che sta muovendo migliaia di fedeli, ma anche di ricercatori, spinti a riscoprire quanto di meglio offrono le interpretazioni dell'Apocalisse. Ed è appunto sulla lettura più opportuna dei testi sacri che, prima del convegno, il cardinale si sofferma con gli organizzatori. Gli si chiede del libro di Ratzinger Gesù di Nazaret, ovviamente, e dei rilievi anche critici che ha ricevuto. La conversazione si appunta sul metodo storico critico nell'esegesi. E Vanhoye non perde occasione di precisare: «Le conclusioni di questo tipo di ricerca non possono essere degli assoluti, da sole non sono in grado di ricostruire tutta la verità contenuta nella Sacra Scrittura e che era intenzione degli autori trasmettere; ci vuole l'integrazione con altri tipi d'approccio». Ricor da, il cardinale, quando Ratzinger volò negli Usa - allora era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede - per una conferenza durante la quale prese le distanze da alcuni fondatori del metodo storico, osservando che determinati presupposti «ideologici» compromettevano la correttezza della ricerca stessa. Vanhoye va con la memoria anche ai lavori della Commissione pontificia sull'interpretazione della Sacra Scrittura nella vita della Chiesa: «Ratzinger non intervenne direttamente sulla valutazione del metodo storico, ma nella prefazione del documento conclusivo ribadì chiaramente che su questa materia il dibattito non poteva ritenersi affatto completato. Qualche riserva, insomma, ce l'aveva. Il che non significa fissare limiti alla libertà di ricerca». Il biblista riconosce infatti che l'indagine storica può dare «risultati buoni ed accettabili». Ma - raccomanda - è uno strumento che va utilizzato con molto acume. E Gesù di Nazaret? Sono in molti, ad Illegio, a chiedere giudizi, negli intervalli tra la visita alla mostra, il convegno sul canto dell'Apocalisse (in una cornice musicale offerta dalle corali della valle), i solenni vespri nella tipica melodia illegiana, la processione del Corpus Domini fra le strette strade del paese cosparse di petali di rosa. «Il libro - risponde infine il porporato - dimostra che il cardinale Ratzinger seguiva le opere degli esegeti, manifestava pertanto una profonda conoscenza delle questioni in campo. E, nel contempo, esprime una posizione precisa contro un'esegesi troppo strettamente scientifica». Anzi - riprende Vanhoye - «un'esegesi scientificamente arida. E proprio per questo il Santo Padre non vuole che il metodo storico-critico sia riconosciuto come quello esclusivamente valido. Si tratta di un metodo necessario in tempi come i nostri, ma bisogna completarlo con una modalità diversa di accogliere il messaggio della Bibbia». Anche gli illegiani sanno che il loro ospite è molto stimato da Benedetto X VI. E cercano di strappare altri particolari sul libro. «Il Papa ha espresso l'intenzione di completare la sua opera, dove non si parla - per esempio - né dei Vangeli dell'infanzia, né della Passione. Si tratta evidentemente di una prima parte, che è importante ma ha necessità di un compimento». Gli appunti critici arrivati da alcune parti le sembrano fondati? «No, questo è un lavoro serio - risponde senza esitazione il biblista -, è la ricerca di un uomo di grande fede, che conosce i metodi scientifici, ma che non vuole esserne schiavo. Va veramente a contatto col Signore, attraverso la Parola di Dio». E l'approccio «popolare» della Bibbia (siamo in una piccola comunità - 380 abitanti - dove lo studio del testo sacro costituisce un collante non solo religioso, ma anche sociale, grazie alle mostre religiose di respiro europeo si ripetono ormai da mezza dozzina d'anni, con un solido contorno d'iniziative culturali) quali indicazioni riceve dal metodo usato da Ratzinger? «Ribadisco, non dev'essere un approccio aridamente scientifico. Il Papa ci dà un esempio corretto di come leggere ed interpretare i testi sacri. Ci dice, appunto, che bisogna leggere la Bibbia con fede, e non soltanto con preoccupazioni di storicità. La Parola di Dio non ha bisogno di essere minuziosamente dettagliata. Bisogna, insomma, andare al suo cuore più profondo, che è un messaggio religioso essenziale. La Bibbia non è un libro di storia, non è nemmeno un libro di filosofia, ma una testimonianza di fede. E, quindi, una guida per la fede». Ma il libro del papa è per specialisti? Il cardinale riprende fiato: «Gesù di Nazaret presuppone, ovviamente, lettori con un minimo di cultura religiosa. Ma è evidente il beneficio che deriva dalla sua lettura. Come ha detto anche il cardinale Martini, è un libro scientificamente serio e, allo stesso tempo, una grande testimonianza di fede». (Francesco Dal Mas, Avvenire, 12 giugno 2007)
«Adorazione eucaristica, l’ascolto oltre il rumore» Davanti a oltre 50 mila fedeli raccoltisi in piazza San Pietro - domenica, nella solennità del Corpus Domini - il Papa ha guidato l'Angelus dalla finestra del suo studio nel Palazzo apostolico vaticano. Dopo la preghiera mariana Benedetto XVI ha rinnovato l'appello per la liberazione dei sequestrati di tutto il mondo. Prima dell'Angelus, invece, ha offerto ai fedeli una meditazione sull'Eucaristia. Cari fratelli e sorelle!, L'odierna solennità del Corpus Domini, che in Vaticano e in diverse nazioni è stata già celebrata giovedì scorso, ci invita a contemplare il sommo Mistero della nostra fede: la Santissima Eucaristia, reale presenza del Signore Gesù Cristo nel Sacramento dell'altare. Ogni volta che il sacerdote rinnova il Sacrificio eucaristico, nella preghiera di consacrazione ripete: «Questo è il mio corpo... questo è il mio sangue». Lo dice prestando la voce, le mani e il cuore a Cristo, che ha voluto restare con noi ed essere il cuore pulsante della Chiesa. Ma anche dopo la celebrazione dei divini misteri il Signore Gesù resta vivo nel tabernacolo; per questo a Lui viene resa lode specialmente con l'adorazione eucaristica, come ho voluto ricordare nella recente Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis (cfr nn. 66-69). Anzi, esiste un legame intrinseco tra la celebrazione e l'adorazione. La Santa Messa infatti è in se stessa il più grande atto di adorazione della Chiesa: «Nessuno mangia questa carne - scrive sant'Agostino - se prima non l'ha adorata» (Enarr. in Ps. 98,9: CCL XXXIX, 1385). L'adorazione al di fuori della Santa Messa prolunga e intensifica quanto è avvenuto nella celebrazione liturgica, e rende possibile un'accoglienza vera e profonda di Cristo. Quest'oggi poi, nelle comunità cristiane di tutte le parti del mondo, si svolge la processione eucaristica, singolare forma di adorazione pubblica dell'Eucaristia, arricchita da belle e tradizionali manifestazioni di devozione popolare. Vorrei cogliere l'opportunità che mi offre la solennità odierna per raccomandare vivamente ai pastori e a tutti i fedeli la pratica dell'adorazione eucaristica. Esprimo il mio apprezzamento agli Istituti di vita consacrata, come pure alle associazioni e confraternite che vi si dedicano in modo speciale: esse offrono a tutti un richiamo alla centralità di Cristo nella nostra vita personale ed ecclesiale. Mi rallegro poi nel constatare che molti giovani stanno scoprendo la bellezza dell'adorazione, sia personale che comunitaria. Invito i sacerdoti a incoraggiare in questo i gruppi giovanili, ma anche a seguirli affinché le forme dell'adorazione comunitaria siano sempre appropriate e dignitose, con adeguati tempi di silenzio e di ascolto della Parola di Dio. Nella vita di oggi, spesso rumorosa e dispersiva, è più che mai importante recuperare la capacità di silenzio interiore e di raccoglimento: l'adorazione eucaristica permette di farlo non solo intorno all'«io», bensì in compagnia di quel «Tu» pieno d'amore che è Gesù Cristo, «il Dio a noi vicino». La Vergine Maria, Donna eucaristica, ci introduca nel segreto della vera adorazione. Il suo cuore, umile e semplice, era sempre raccolto intorno al mistero di Gesù, nel quale adorava la presenza di Dio e del suo Amore redentore. Per sua intercessione, cresca in tutta la Chiesa la fede nel Mistero eucaristico, la gioia di partecipare alla Santa Messa, specialmente domenicale, e lo slancio per testimoniare l'immensa carità di Cristo. (Avvenire, 12 giugno 2007)
L’ultima idea della sinistra: la lettura laica della Bibbia Poveri intellettuali. Non sanno che l’Antico Testamento è stato tradotto alcuni secoli prima di Cristo (in una edizione detta dei «Settanta») e che la Bibbia è il libro più diffuso almeno nella cultura occidentale. Così almeno si inferisce da una intervista di questi giorni fatta a uomini che dovrebbero essere di primissimo piano: Cacciari, Magris, Umberto Eco, Gianni Vattimo, e litania continuante. Adesso costoro con altri adepti propongono una iniziativa esplosiva: che la Bibbia non sia riservata né alla Chiesa, né al catechismo, ma sia portata nella scuola, come testo letterario laico: al modo - si ponga - della Iliade, dell’Odissea, dell’Eneide, della Divina Commedia. Forse anche del Decamerone. Diecimila firme sono state consegnate, ora si aspetta la risposta del ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni. Che, pare giustamente, tentenna. Non ci si spaventi. Non si tratta di usare un testo sacro per analizzare e comprendere la tradizione del mondo antico, per conoscere e anche criticare miti invalsi. A differenza della mentalità cattolica, la presidentessa di «Biblia», Agnese Cini, sostiene che in una grande parte della Cei esiste perplessità. Monsignor Giuseppe Betori teme l’interpretazione laica di un testo religioso. Egli pensa che questa iniziativa possa minare l’ora di religione cattolica; invece, Agnese Cini dichiara che questo studio non esclude la religione, perché è un momento culturale sul testo biblico che interessa tutti, credenti e non. «La Bibbia è stata scritta da laici (anche Paolo? Anche Pietro? Anche Gesù?) per i laici. È la storia di un popolo alla ricerca di un’etica per la vita». La presidentessa di «Biblia» - asserisce la cronaca giornalistica - è agguerritissima. Forte di adesioni alla sua iniziativa di teologi, musicisti, insegnanti universitari, politici. Monsignor Luigi Sartori e Gianfranco Ravasi si trovano d’accordo con Agnese Cini. Senza chiarire il metodo di accostamento e di lettura che non un capriccio, ma la Bibbia stessa domanda di essere letta. Sarebbe singolare studiare i vari libri dell’Antico e del Nuovo Testamento come si legge Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. È umoristico leggere la Bibbia per trovare la soluzione che accetta o rifiuta il darwinismo. Oggi queste ingenuità sono da lasciare alle nonne che non si sono aggiornate nemmeno sul catechismo di Pio X. E così pure si dica che la Bibbia non obbliga a credere che Dio abbia creato il mondo in sette giorni, escludendo anche l’anno bisestile. La sinistra sostiene questa «bellissima proposta» che non deve essere vista in una logica riduttiva di contrapposizione tra cultura laica e cultura confessionale. Ciò non significa che la Bibbia, dal punto di vista storico e letterario, sia uno degli scritti che maggiormente hanno contribuito alla formazione della nostra identità culturale. Un intellettuale di mezza tacca che non ha letto e studiato e magari pianto sul libro di Giobbe si annoveri quasi tra gli analfabeti. Ma sarebbe ridicolo leggere il “Miserere” come un pezzo di opera buffa. (Mons. Alessandro Maggiolini, Il Giornale, 11 giugno 2007)
10 GIUGNO 2007
DOSSIER SU SANTORO E I PRETI PEDOFILI: una rassegna stampa del “dopo”
1. Fisichella e Colm O'Gorman: serenità e livore. Considerazioni a caldo. A trasmissione conclusa, quando finalmente i titoli di coda hanno sfumato la tanto strombazzata trasmissione di Michele Santoro, la domanda che mi sorge spontanea è: cui quidque profuit? Ora che lo “scoop” anticlericale dell’anno si è consumato, mi domando: a chi e a che cosa è servita e servirà questa rassegna impietosa di bestialità, questa esibizione del morboso, questa pervicace ossessione di voler a tutti i costi criminalizzare Chiesa e preti? (perché questo era lo scopo principale della trasmissione, checché se ne dica!) A cosa è servito dare in pasto al pubblico mediatico una serie di “confessioni” piccanti, ricche di particolari intimi e personalissimi? Erano forse indispensabili per una maggiore “scientificità” del servizio, oppure sapientemente pilotati per essere dati in pasto allo squallido “voyeurismo” degli amanti del genere, con il preciso scopo ipocrita di innescare biasimo e condanna per i preti, tutti i preti, e nel contempo sfondare i picchi dell’“audience”? Non era un procedimento penale, non era un interrogatorio giudiziario, non era un tribunale inquisitorio, doveva essere semplicemente una trasmissione-documentario con lo scopo di dimostrare che sì, le vittime dei preti pedofili c’erano realmente state, che il fenomeno esisteva e che quindi andava e va comunque condannato; ma l’indugiare sulle tecniche particolari di approccio e di consumazione del crimine, quasi con maniacale compiacimento, come è stato fatto, questo no: questo non risponde a nessuna esigenza di verità, se non appunto a quella di fare “spettacolo” scandalistico sulla miseria umana, solleticando i palati più grossi e la loro morbosa curiosità. Questa è l’impressione: e il taglio stesso della puntata riconduce ad essa: compresi i ripetuti “inviti” del conduttore a mandare a letto i bambini, le reiterate dichiarazioni di voler posticipare la visione del materiale più scottante (lo “scoop” della Bbc) in un’ora più “adulta”, onde evitare all’indomani gli attacchi di “certa” critica; abili “trovate” che suonavano piuttosto come un accattivante invito a non cambiar canale. E poi… non tutti i bambini a nanna, per carità! La decisione ultima spettava ai genitori, gli unici in grado di giudicare la “maturità” dei propri figli, perché, anche se esplicitamente crudo, pur sempre di un “programma altamente istruttivo” (allucinante!) si trattava! Santoro, per esempio, dichiarava disinvoltamente che sua figlia sarebbe rimasta tranquillamente sveglia per “istruirsi”: di quale istruzione, poi, abbia potuto far tesoro una bimba, assistendo a tanto gratuito squallore, non riesco ancora a capirlo… ma tant’è… io sono un “oscurantista” chiesaiolo! Ma torniamo a noi: serenità e livore, titolavo. Certo, due sentimenti nettamente contrastanti: serenità e compostezza nel viso e nelle argomentazioni di mons. Rino Fisichella; livore, rabbia e stizza mal celata, negli interventi, a volte striduli e irosi anche attraverso l’interprete, dell’autore del servizio della Bbc, Colm O'Gorman, vittima egli stesso di violenza sessuale in Irlanda. Mi vien da pensare che forse proprio in ciò si trovi la spiegazione recondita e psicanalitica del suo intransigente “rancore” contro le autorità ecclesiastiche, i vescovi, il Vaticano, il Papa, la Chiesa tutta, peraltro malcelato da uno stereotipato sorriso a labbra serrate. Certo, bisogna dare atto che i casi da lui presentati , anche se privi di un contro-riscontro storico super partes, si rifanno sicuramente ad una verità sostanziale, e non ho motivi preconcetti per pensare il contrario: si tratta infatti di azioni e sopraffazioni esecrabili, soprattutto perché perpetrate a danno di minori innocenti e indifesi da personaggi che, pur psichicamente “tarati”, svolgevano comunque una loro missione “pastorale”, ed erano pertanto considerati dalle loro vittime al di sopra di ogni sospetto e meritevoli della massima fiducia. Ma attenzione: il fenomeno, in tutta la sua gravità, è pur sempre un fenomeno circoscritto, che riguarda un certo numero di preti deviati, mentre il filmato mette in discussione e sotto processo tutti i sacerdoti cattolici, coinvolgendo e criminalizzando, a vario titolo, non ultimo il favoreggiamento, l’intera chiesa e il Papa in primis! È questo il punto nodale della trasmissione: un messaggio scorretto, inammissibile e inaccettabile: per il resto… “nihil novi sub sole”. Figure simili, in tutto il loro squallore, sono sempre esistite; esistevano già ai tempi di Cristo, tanto da fargli esclamare “Chiunque scandalizza uno di questi piccoli che credono, sarebbe meglio per lui che gli passassero al collo una macina d’asino e lo buttassero in mare” (Mc 9,42). Quindi sdegno, condanna, nessun compromesso! Ma non voglio divagare sull’ovvio. Quel che più mi interessa qui è testimoniare la compostezza e prontezza intellettuale dimostrata da mons. Fisichella: con grande tatto e signorilità ma con altrettanta franchezza e fermezza egli ha saputo ridimensionare e rintuzzare via via i veri e propri attacchi alla Chiesa e al Papa, più espliciti e diretti da parte di Colm O'Gorman, più velati e diplomatici da parte dei vari Travaglio, Oddifreddi & co (Santoro, a onor del vero, al di là di qualche sua usuale e inopportuna frecciatina, ha saputo tutto sommato contenersi; del resto aveva già caricato a sufficienza la “molla” dell’irlandese, e il suo scopo l’aveva già raggiunto… il resto per lui era solo un corollario; forse addirittura non aveva capito neppure tutta e bene la quaestio, come lasciava intuire la sua aria imbambolata più del solito). Fisichella al contrario ha dominato la scena: riportando con determinazione i termini del contendere entro i binari della ragionevolezza, della chiarezza e della verità; riaffermando la sua più che ferma condanna di certi “preti delinquenti” (così li ha definiti); esprimendo alle vittime e alle loro famiglie i suoi sentimenti di tristezza, di comprensione e di partecipazione al loro dolore. Non espressioni di routine, le sue, ma sentimenti di autentica e profonda commozione, rilevabili del resto, in tutta la loro drammatica sincerità, dall’espressione del suo viso e del suo sguardo, sui quali le telecamere indugiavano impietosamente con lunghi primi piani, proprio nei momenti di maggior pathos e tragicità. In concreto, che trasmissione ha partorito il buon Santoro? Un’ampia carrellata di falsi e indegni preti, innalzati a paradigma di una Chiesa altrettanto falsa e indegna; ma un paradigma che, pur infarcito da shockanti flash back, non è in ogni caso riuscito neppure per un istante a scalfire la nobiltà e la bellezza della Chiesa cattolica: e questo lo si intuiva anche dal viso di Fisichella, nel cui sguardo brillava appunto la fierezza e l’orgoglio di appartenere a “questa” Chiesa, fatta sì di peccatori, ma soprattutto di degni pastori: un numero incalcolabile di pastori buoni, di sacerdoti, ministri, religiosi e laici, consacrati e non, che ogni giorno vivono esclusivamente per fare il bene e assistere milioni di bambini e adulti, come risposta fedele, pronta e generosa alla chiamata di un Dio che è Bontà, Carità e Amore autentico. Di questo debbo dire dunque grazie a Mons. Rino Fisichella: per avere dato a tutti noi una ulteriore lezione di vita e di magistero, inducendoci a sollevare lo sguardo e l’attenzione dalle degradanti esperienze di umana miseria, alla contrapposta nobiltà di una vita spesa per il bene dei propri fratelli: con buona pace di quanti si erano illusi che un filmato anticlericale di pochi minuti, artatamente realizzato e montato, sarebbe stato in grado se non proprio di distruggere, quantomeno di screditare, la preziosa e viva realtà che è la Chiesa cattolica, da oltre duemila anni sinonimo della presenza dello Spirito di Dio in noi e con noi. (Mario Labio, 1 giugno 2007)
2. «Gravemente ingiusto» il filmato Bbc. Lombardi: preso di mira il card. Ratzinger Una cosa è portare alla luce problemi scottanti tramite denunce di tipo giornalistico. Un'altra storia è se tali indagini diventano «non veritiere, così da essere strumentalizzate per distruggere invece che per costruire». Padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa Vaticana, giudica il filmato inglese Sex crimes and the Vatican non solo «parziale», ma «gravemente ingiusto» nei confronti di Benedetto XVI. Ieri - il giorno dopo la messa in onda dell'inchiesta, preceduta da veementi polemiche, durante la trasmissione Annozero - il responsabile dei rapporti con i media della santa Sede è intervenuto sulla vicenda con un commento affidato ai microfoni della Radio Vaticana, di cui è direttore generale. Innanzitutto il gesuita ha indirizzato la sua critica al reportage realizzato da Colm O'Gorman, presente anche lui alla trasmissione di giovedì su Raidue e da bambino vittima di abusi da parte di un sacerdote, come altri testimoni che hanno raccontato le loro vicissitudini ad Annozero. «Animato da una sensibilità ferita, - ha sottolineato padre Lombardi - il documentario tratta fatti drammatici in un quadro di prospettiva evidentemente parziale, e diventa gravemente ingiusto quando appunta le sue critiche sulle motivazioni di documenti ecclesiali di cui viene svisata la natura e la finalità, e quando prende di mira la figura del cardinale Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI». È questo il punto nodale della riflessione. Infatti, spiega poco dopo Lombardi, «le denunce possono certamente spingere ad affrontare e risolvere problemi sottovalutati o nascosti. Allo stesso tempo non devono diventare non veritiere, così da essere strumentalizzate per distruggere invece che per costruire». L'atteggiamento della Chiesa, al contrario, è improntato proprio a costruire. Per il gesuita le argomentazioni contrapposte alle tesi del documentario e della trasmissione dai due ecclesiastici ospiti - il vescovo Rino Fisichella e il sacerdote Fortunato Di Noto - hanno dimostrato che nella comunità cristiana «c'è la forte volontà di guardare in faccia i problemi con obiettività e di affrontarli con lealtà». Non solo, «c'è chi si impegna con competenza e dedizione sul fronte della lotta alla pedofilia conoscendone assai meglio la natura e le dimensioni di quanto non risulti da prospettive condizionate dalle tesi antiecclesiali». La presenza di don Di Noto davanti alle telecamere ne era la dimostrazione vivente. Insomma, riprende lo stretto collaboratore di Papa Ratzinger, la Chiesa non si trincera al di fuori della storia e non nasconde ciò che di ingiusto avviene al suo interno. Anzi, «ha dovuto imparare a sue spese le conseguenze dei gravi errori di alcuni suoi membri ed è diventata assai più capace di reagire e di prevenire». Allora, l'invito che padre Lombardi formula è improntato alla collaborazione, e non allo scontro tra società e Chiesa, per risolvere davvero il dramma dei bimbi abusati. «È giusto - conclude - che anche la società nel suo insieme si renda conto che nel campo della difesa dei minori e della lotta alla pedofilia ha un lungo cammino da compiere. La esperienza della comunità ecclesiale, che conta nella sua lunga storia incalcolabili meriti di impegno per la gioventù, dovrà essere un elemento importante per collaborare costruttivamente in questa direzione». (Gianni Santamaria, Avvenire, 2 giugno 2007)
3. Santoro usa i preti pedofili per attaccare il Papa Il pubblico ministero chiede: «Come saluterebbe una ragazzina che sta approcciando? Supponiamo che si chiami Sally». E la faccia floscia di Padre Oliver O’Grady, già parroco in quel di Ferns, Irlanda, mima dallo schermo: «Ciao, Sally. Come stai? Vieni, fatti abbracciare. Sei bella, lo sai... mi piaci molto». Speaker: «Questo è un prete cattolico. La Chiesa sapeva che era pedofilo». Comincia così la «rigorosa» inchiesta della Bbc. Di sfuggita, molto di sfuggita, si accenna, dopo, molto dopo, che O’Grady non è più sacerdote, evidentemente ridotto allo stato laicale dalla Chiesa, ha scontato 7 anni di carcere. Il filmato per mesi ha fatto il giro delle redazioni italiane. Tutto è partito da un avvocato di Huston, Texas, Daniel J. Shea, difensore di alcune vittime dei presunti stupri, che negli Usa ha tentato il colpaccio cercando di tirare dentro il Papa. Ma non ci è riuscito. A marzo lo scoop doveva sbarcare sull’Espresso, che però ha cestinato. Poi è stato offerto anche al sottoscritto. Ho letto le carte. Non ne ho fatto niente, perché l’inchiesta mi è sembrata una «bufala». Timbrata dalla Bbc, ma pur sempre una «bufala». Sono 38 minuti a senso unico. Quattro i casi denunciati. Oltre all’ex padre Oliver O’Grady, quello di padre Fortune, suo successore a Ferns - e questo villaggio irlandese deve essere stato una specie di sodomia cattolica -, che però si è ucciso. Seguono quello di padre Tadeu Ignacio, Brasile, a dimostrazione di ciò che accade «nel Paese cattolico più grande del mondo con 125 milioni di fedeli»; condannato a 15 anni di carcere. E di padre Joseph Henn, riparato dall’Arizona nella casa generalizia dei Salvatoriani qui a Roma, dove però, si dice a un certo punto dell’inchiesta, era «agli arresti domiciliari» e che poi ha fatto perdere le tracce. Non c’è mai un contraddittorio, non viene mai dato spazio alla difesa degli accusati o alla voce della Chiesa. Soprattutto l’«inchiesta» non fa luce sul dilemma che accompagna di solito questi casi: perché le denunce arrivano dopo tanti anni? Il teste principale, che fa da io narrante, Colm O’Gorman, era una delle vittime di Padre Fortune (morto). «La prima volta avevo 14 anni» dice e, davanti alla palazzina degli orrori, aggiunge con voce incrinata: «Sto guardando la stanza in cui accadde, 40 anni fa...». Quindi ora ha 54 anni. A questo punto il giornalista investigativo non gli fa la domanda facile facile: «Scusi, mister Gorman, perché ha aspettato tanto?». Risarcimenti? E veniamo al pezzo forte. La prima circolare, Crimen Sollicitationis, del ’62, quando Ratzinger era un giovane teologo, avrebbe imposto ai vescovi il silenzio. È in latino ma basta poco per capire che richiama il principio secondo cui i sacerdoti sono sottoposti innanzitutto (e non in via esclusiva) al diritto canonico. Insomma la Santa Sede si comporta da Stato sovrano: bella scoperta. Idem per la nuova circolare del 18 aprile 2001 scritta da Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e il suo vice Tarcisio Bertone, attuale segretario di Stato. Obbliga «gli ordinari e i prelati» a segnalare i delitti gravi (tra i quali ci sono senz’altro gli abusi sessuali e la pedofilia), di cui vengono a conoscenza, alla Congregazione che sancisce e infligge le sanzioni (dal divieto di amministrare i sacramenti alla riduzione allo stato laicale). Naturalmente tutto questo non esime dalle sue responsabilità la Chiesa. Nei pochi e circoscritti casi reali di abusi il più delle volte si limita a trasferire il responsabile da una parrocchia all’altra.Ma quello che non è accettabile dell’inchiesta della Bbc è altro. Si parte da quattro casi per «dimostrare» che la Chiesa cattolica è un’organizzazione di pedofili. Il corollario del teorema non si sa se è più demenziale o infamante: l’attuale Papa ha coperto la melma; anzi, è diventato Papa perché in grado di ricattare gli altri cardinali. Tutto questo ha un nome: pregiudizio anticattolico. (Pierangelo Maurizio, «il Giornale», 31 maggio 2007)
4. Ad annozero, il video bbc: "sciacallaggio" Si prova ''profonda tristezza'' dinanzi ai casi di abusi sessuali commessi da sacerdoti - al centro del documentario della Bbc ''Sex, crimes and the Vatican'' - ma ''dire che la Chiesa finora ha vissuto solo di bugie e' una grossa menzogna'. Nello studio di 'Annozero', dove ieri sera Michele Santoro, dopo settimane di polemiche, ha mandato in onda la discussa video-inchiesta sui preti pedofili, e' monsignor Rino Fisichella, rettore dell'Università Lateranense e cappellano di Montecitorio, a difendere le posizioni della Chiesa e a respingere le accuse rivolte al cardinale Ratzinger, dipinto nel documentario come colui che impose il silenzio sui casi di pedofilia nel clero. Su questi aspetti lo scontro e' in particolare con Colm O'Gorman, gia' vittima di abusi in Irlanda e autore dell'inchiesta Bbc, andata in onda in Gran Bretagna nel 2006 e negli ultimi tempi rilanciata sul web prima della controversa acquisizione della Rai per Annozero. Il video insiste sulla ''copertura'' data dalle gerarchie a sacerdoti colpevoli di crimini sessuali, sulla presunta omerta', e in particolare sul documento 'Crimen sollicitationis' del 1962 - di cui Ratzinger viene definito ''garante'' per 20 anni quand'era alla Congregazione per la dottrina della fede - che disponeva di avocare a Roma ogni procedimento per i casi di pedofilia.''Davanti al filmato - commenta Fisichella al termine della messa in onda - ho un profondo senso di tristezza, perche' qui ci sono delle vittime innocenti e queste vittime devono esser rispettate, da tutti. Insieme a loro ci sono i genitori, che vivono un dramma estremamente forte. Tutto si puo' dire tranne che la Chiesa non sente una vicinanza profonda e non condivide il dolore di queste persone''. ''Quando c'e' sofferenza - aggiunge - non puo' esserci omertà alcuna, non puo' esserci ignavia, né alcunché faccia pensare a un nascondimento dei fatti. Chi sa denunci tutto''. Per Fisichella, coloro che hanno commesso questi abusi ''non avrebbero mai dovuto diventare preti'', e tra le loro vittime ''c'e' anche la Chiesa, perché hanno gettato discredito sugli altri preti che fanno tutto il possibile per dimostrare la correttezza della loro vocazione. Un danno incalcolabile''. Secondo Fisichella, pero', il video ''non e' ricostruzione giornalistica, non c'e' contraddittorio, nessuno interviene a difendersi dalle accuse''. E ''dire che il cardinale Ratzinger, il Vaticano, o la congregazione non hanno fatto nulla e' profondamente falso''. Il presule, che della Congregazione fa parte, spiega che ''la Dottrina della fede ha giudicato di fronte a queste cose. E l'istruzione con cui la Chiesa di Roma ha avocato a se' i procedimenti, dimostra piuttosto la olonta' di intervenire col supremo grado di giudizio, essendo i crimini di pedofilia i piu' gravi che si possano fare nella Chiesa''. Quasi a riprova di questo, sullo sfondo scorre il famoso anatema di Ratzinger nella Via Crucis del 2005: ''quanta sporcizia nella Chiesa, specialmente tra chi esercita il sacerdozio!''. L'autore dell'inchiesta pero' incalza, dice che, anche se i vescovi Usa hanno creato associazioni a difesa delle vittime, e' perche' la Chiesa ''e' stata costretta a cambiare atteggiamento. Non e' stata una scelta, ha dovuto farlo''. Lo scambio di battute prende toni concitati, finche' Fisichella non taglia corto: ''che sia obbligata o no, non e' vero che la Chiesa non sta facendo niente. Dire che finora ha vissuto solo di bugie e' una menzogna, non degna di lei''. La trasmissione, partita con una lettera di Marco Travaglio a Montanelli per dire che sul video ''anziche' la Cei la censura l'hanno chiesta i politici'', si sofferma a lungo sulla vicenda di don Lelio Cantini, l'ex sacerdote della parrocchia fiorentina 'Regina della Pace', accusato di abusi sessuali e plagio su giovani fedeli.''Noi stasera parliamo di casi singoli, lungi da noi voler offendere i sacerdoti, dire che i preti sono pedofili'', avverte Santoro, che aggiunge: ''io ho molti amici sacerdoti''. ''Anch'io'', gli fa subito eco Fisichella, che per tutta la trasmissione ripete che il ''segreto'' imposto dal Vaticano sui casi di pedofilia e' solo un segreto ''processuale, lo stesso silenzio - sottolinea - che si chiede in un'inchiesta della magistratura''. Per don Fortunato Di Noto, prete impegnato contro le violenze sessuali sui minori, comunque ''il problema della pedofilia e' ben piu' serio di un problema ideologico. Secondo l'Onu ogni anno 158 milioni di bambini sono vittime di abusi sessuali. E le lobby pedofile proliferano, fanno persino giornate dell'orgoglio pedofilo''. (Ansa, 1 giugno 2007)
5. Annozero su sacerdoti e pedofilia: le pagelle della trasmissione. Michele Santoro. Voto: 5. Inizia in tono minore un dibattito che a lungo non riesce a far decollare. Ossessionato dal fantasma di Giuliano Ferrara, che cita quattro volte, dimostra che in una settimana di lavoro non è riuscito a imparare a non confondere “segreto del processo” e “segreto del delitto”, “processo canonico” e “processo civile”. Lo staff non lo aiuta: traducendo, parla dell’ex-sacerdote Oliver O’Grady come di un “imputato in una causa civile”. Non è così, stava collaborando con gli avvocati che cercavano di spillare risarcimenti miliardari alla Chiesa: ma chi ha mai visto “imputati” in un processo civile? Per provare che Panorama della BBC è un programma serio (davvero lo è ancora?) chiede referenze a un collaboratore che gli cita il vaticanista “inglese” John Allen, che in realtà è americano e quando ha visto il documentario ha parlato della “prestigiosa serie televisiva Panorama” (forse con riferimento alle glorie passate) solo per rilevare che la specifica puntata “Sex Crimes and the Vatican” presenta una “preoccupante disinvoltura quando si tratta dei fatti”. Si fa confondere da don Di Noto e pasticcia sulle statistiche. Dopo una vita da giustizialista, vorrebbe mettere in discussione perfino l’esistenza della prescrizione. Giacobino. Monsignor Rino Fisichella. Voto: 8. È un vescovo, e forse per questo Santoro lo lascia parlare. Non perde la calma, ma non si fa neppure mettere i piedi in testa. Spiega con chiarezza il significato canonico dei documenti e l’azione di Joseph Ratzinger, da cardinale prima e da Papa poi, per reprimere la piaga della pedofilia (altro che tolleranza). Santoro e la Borromeo non lo capiscono, i telespettatori probabilmente sì. Efficace. Colm O’Gorman. Voto: 4. A differenza di monsignor Fisichella, non mantiene la calma, anzi interpreta alla perfezione la macchietta dell’irlandese rissoso appena uscito dal pub. Si contraddice ripetutamente (prima sostiene che la Chiesa non ha agenzie che si occupino dei bambini vittime di episodi di pedofilia che coinvolgono preti, poi ammette che esistono ma sostiene che non funzionano abbastanza bene). Urla e sbraita (una specialità della casa della trasmissione Panorama della BBC). Involontariamente rende un grande servizio ai telespettatori: nessuno potrà più pensare che una “inchiesta” realizzata da un simile energumeno sia pacata e obiettiva. Esagitato. Don Fortunato Di Noto. Voto: 7. Ha l’intelligenza di lasciare le questioni tecniche sul documentario a monsignor Fisichella. Quando Santoro la butta sui casi umani (“tutto vero”, come direbbe la Gazzetta dello Sport, ma l’errore è generalizzare, dimenticando che i casi umani ci sono anche fra chi è stato vittima di abusi nelle scuole coraniche o negli asili laici), fa valere la sua esperienza di persona che lotta contro i pedofili a colpi di fatti e non di documentari. Solido. Beatrice Borromeo. Voto: 5. Poche battute e poche idee, ma confuse. Come da copione e da preview di Annozero diffusa via Internet afferma di avere letto le obiezioni di chi non voleva che si proiettasse il documentario ma ne ha capito poco o nulla, dal momento che continua a chiedere dove siano le falsità del documentario dopo oltre un’ora che se ne parla. Giuliva. Marco Travaglio. Voto: 4. Apre il programma con una prevedibile tirata su Montanelli e Berlusconi. Il laicismo un po’ frusto alla Piazza Navona non riesce a farlo entrare nel tema della puntata. Scontato. Piergiorgio Odifreddi. Voto: 5. Un punto in più per avere limitato gli interventi su un tema di cui, come si è bene inteso, non sa nulla. Quando parla, però, lo fa a vanvera, cominciando a citare a vanvera documenti mal tradotti, facendo insorgere in monsignor Fisichella il dubbio che non sappia il latino. Non basta avere venduto molte copie di un libro che paragona i cristiani ai cretini per essere, come vorrebbe Santoro, “un grande intellettuale”. Inconsistente. Bruno Vespa. Voto: 9. Spiazza completamente Santoro e gli ruba la scena allestendo per la stessa serata una trasmissione dove addirittura il cardinale segretario di Stato per la prima volta fa vedere le buste che contengono il terzo segreto di Fatima, e dove si mostra che cos’è l’informazione religiosa seria. Santoro non se l’aspettava, ma mai sottovalutare i vecchi democristiani. Volpone. Joseph Goebbels. Voto: 0 per le idee, 9 per le tecniche di propaganda. Dal 1933 al 1937 scatena la maggiore campagna di propaganda contro la Chiesa cattolica sul tema dei “preti pedofili”, denunciandole oltre settemila (ma siccome anche sotto il nazismo c’era il famoso giudice a Berlino, otterrà solo 170 condanne, molte per abusi commessi da ex-preti dopo avere lasciato la Chiesa o per episodi di omosessualità, allora puniti dalle leggi, non collegati alla pedofilia; e alcune certamente di innocenti che finiranno a Dachau). I cinegiornali nazisti mostrano bambini flagellati - come oggi si sa, non da preti ma dai produttori dei cinegiornali -, gemiti e catene come in un film di Murnau. E, alla fine, mostrano Pio XI, colpevole di avere condannato il nazismo, accusando il Papa di proteggere i preti pedofili. Come si vede, nulla di nuovo sotto il sole. Ma i documentari di Goebbels avevano una loro sinistra e malefica efficacia cui non può aspirare un qualunque O’Gorman: che non è un nazista, ma solo un documentarista di serie B. Pericoloso: ma la Chiesa è sopravvissuta a Goebbels, sopravvivrà anche ad Annozero. (Massimo Introvigne, Cesnur, 1 giugno 2007)
6. Il documentario sui preti pedofili: tante bugie sul caso O'Grady Chi ha visto su Internet o in televisione il documentario Sex Crimes and the Vatican tratto dal programma Panorama della BBC rimarrà senz’altro colpito dalla sinistra figura dell’ex prete Oliver O’Grady. Il documentario si apre o si chiude con l’ex sacerdote irlandese, che ha vissuto negli Stati Uniti dal 1971 al 2000, ripreso mentre descrive in termini piuttosto espliciti come adescava le sue vittime e quali tipi di ragazzini gli piacevano. Queste riprese sono un pugno nello stomaco: ma sono, a loro modo, anch’esse una bugia. Non si tratta infatti di uno scoop della BBC ma di sequenze tratte dal film del 2006 Deliver Us from Evil (“Liberaci dal male”) della regista Amy Berg. Un film tecnicamente ben fatto, che ha ricevuto perfino una nomination per l’Oscar, ma dove il ruolo di O’Grady ha sollevato molte perplessità fra i sociologi e i criminologi che studiano i casi di pedofilia di cui sono stati protagonisti sacerdoti. Infatti la collaborazione di O’Grady con Amy Berg non è stata gratuita. È la conseguenza di un accordo con gli avvocati delle sue vittime che – dopo che O’Grady era stato condannato nel 1993 a quattordici anni di reclusione – hanno citato per danni in sede civile la diocesi americana di Stockton, ottenendo trenta milioni di dollari ridotti poi a sette in secondo grado. Gli avvocati che attaccano le diocesi per responsabilità oggettiva di solito lavorano secondo il principio della contingency, il che significa che una buona parte delle somme finisce nelle loro tasche, secondo accordi che per di più sono tenuti nascosti alla stampa. O’Grady si è prestato alle video-interviste degli avvocati – e di Amy Berg – e in cambio essi non si sono opposti al suo rilascio dal carcere dopo sette anni, accompagnato dall’espulsione dagli Stati Uniti verso la natia Irlanda, dove oggi il pedofilo è un uomo libero. Molti hanno criticato la Berg per avere collaborato con un individuo i cui crimini sono francamente ripugnanti, e le cui blande espressioni di pentimento non appaiono sincere. Ma per chi vede il documentario della BBC l’importante è capire che le dichiarazioni di O’Grady s’inquadrano in un accordo con avvocati che avevano bisogno soprattutto di sentirsi dire che il sacerdote pedofilo era stato protetto dalla Chiesa, cui speravano di spillare qualche milione di dollari. Uno sguardo ai documenti del processo civile di secondo grado – dove i danni sono stati ridotti a meno di un terzo – mostra che O’Grady non la racconta del tutto giusta. Egli afferma – con evidente gioia degli avvocati – che il vescovo di Stockton (e oggi cardinale di Los Angeles) Roger Mahoney sapeva che era un pedofilo e, nonostante questo, lo aveva mantenuto nel ministero sacerdotale. La causa racconta un’altra storia. Mahoney diventa vescovo di Stockton nel 1980. Tra il 1980 e il 1984 deve occuparsi di tre casi di preti accusati di abusi sessuali su minori. Fa qualche cosa che stupirà i fan del documentario della BBC: non solo indaga, ma segnala i sacerdoti alla polizia. In due casi la polizia conferma che, dietro al fumo, c’è del fuoco: e i sacerdoti sono sospesi a divinis, cioè esclusi dal ministero sacerdotale. Nel terzo caso, quello di O’Grady, la polizia nel 1984 archivia il caso e dichiara il sacerdote innocente. Mahoney si limita a trasferirlo, dopo che due diversi psicologi che lo hanno esaminato per conto della diocesi hanno dichiarato che non costituisce un pericolo. Tutti sbagliano: non solo perché già nel 1976 O’Grady aveva “toccato in modo improprio una ragazzina” (tutto si era risolto con una lettera di scuse e, contrariamente a quanto dice l’ex prete, gli avvocati non hanno potuto provare che il vescovo lo sapesse) ma perché si trattava di un soggetto pericoloso, che finirà arrestato e condannato. Errori? Certo. Complotti? È un po’ difficile sostenerlo, dal momento che il vescovo e poi cardinale Mahoney – uno dei “cattivi” del documentario – di fronte a tre preti accusati di abusi nella diocesi ne sospende due dal sacerdozio ma non il terzo, fidandosi in tutti e tre i casi delle indagini della polizia e del parere degli psicologi. Mahoney avrebbe potuto fare di più? Certamente oggi, dopo anni di ricerca scientifica sul tema, la Chiesa spesso agisce in modo più radicale (e lo fa seguendo le direttive del cardinale Ratzinger prima e di Benedetto XVI poi) di quanto non facesse nel 1984. Ma prendere per oro colato le bugie di un delinquente non è mai buon giornalismo. (Massimo Introvigne, Cesnur, 1 giugno 2007)
La Chiesa non ha paura della verità. Non può e non deve averne. Anche quando la verità parla di ferite e di dolore. Anche quando può apparire scomoda. Anche quando parla di infidi individui che circuiscono bambini e ragazzi avendo circuito un'istituzione, la Chiesa, della cui credibilità hanno approfittato. La puntata di Annozero di giovedì scorso questo ha - a modo suo: discutibilissimo e ingiusto - tentato di mettere a fuoco, queste ferite e queste astuzie. Ha mostrato Mariangela, Marco e altri adulti a cui, un tempo, preti indegni hanno rubato l'innocenza, marchiandoli per sempre, perché da certe ferite non si guarisce mai del tutto e con certe cicatrici sei condannato a convivere. Sono storie che provocano dolore e indignazione perché per le vittime non ci sarà mai risarcimento adeguato; la solidarietà di oggi, per quanto sincera, può apparire poca cosa; e tutti ci domandiamo: che cosa potevamo fare e non abbiamo fatto? Diremo anche noi, sulla scia del bravissimo monsignor Fisichella, che costoro mai avrebbero dovuto diventare preti. Che andavano fermati prima, seppure questi - temiamo - pedofili sarebbero stati comunque. Ma almeno non avrebbero abusato di un ministero altissimo, né avrebbero trascinato la Chiesa nei loro impensabili gorghi. Ovvio che non dovrebbe succedere, eppure nella logica fatale dei numeri qualcuno di indegno (e malato) finisce per scappare. Solo l'ipocrisia può far dimenticare che questo è un obbrobrio trasversalmente presente nella società. Ci consola che i criteri di selezione e di verifica delle vocazioni al sacerdozio sono oggi molto più attenti e severi di ieri, e non per caso. Il merito va soprattutto ai provvedimenti voluti dal cardinale Ratzinger: proprio lui, tirato in campo più volte dal filmato della Bbc che Santoro ha pervicacemente voluto acquistare, ma che si è rivelato indegno di un dibattito serio. E poiché la verità non va temuta, bisognerà pur dire che quel film, trasmesso nel corso di Annozero, è particola rmente abile. Non è un'inchiesta né un reportage, è il racconto di un giornalista e politico irlandese che da piccolo fu violentato, e che risente della durezza ma anche dell'unilateralità della sua storia. Racconta alcune vicende personali dolorose, denuncia errori di valutazione e omissioni di alcuni vescovi, ma se ne serve per un obiettivo subdolo: gettare discredito sulla Chiesa cattolica intera. Basta pensare al montaggio, con le immagini di Ratzinger e di cardinali insistentemente associate alle tristi vicende di abuso. Come sottolineava ieri padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, «le denunce possono certamente spingere ad affrontare e risolvere problemi sottovalutati o nascosti. Allo stesso tempo non devono diventare non veritiere, così da essere strumentalizzate per distruggere invece che per costruire. La Chiesa cattolica ha dovuto imparare a sue spese le conseguenze dei gravi errori di alcuni suoi membri ed è diventata assai più capace di reagire e di prevenire». Proprio perché nessuno deve aver paura della verità, sarà bene riprendere al più presto altre verità scomodissime a cui giovedì sera don Fortunato Di Noto ha potuto appena accennare: i 158 milioni di bambini vittime di abuso, bambini che diventano merce perché evidentemente ci sono clienti che pagano, un esercito di clienti, loro sì "protetti" da un inaccettabile clima di omertà. La verità di una pedofilia che è «lobby culturale che impunemente può esprimersi attraverso migliaia di siti che rivendicano la naturalezza dei rapporti coi bambini». E ancora il turismo sessuale, che pare non susciti indignazione sociale, forse perché si svolge lontano da noi, forse perché comunque è una forma di commercio con i suoi ricavi. Sono tutti fenomeni ributtanti, che non riguardano pochi individui esecrabili in fondo non difficili da colpire, ma tantissima gente che, trovandosi in folta compagnia e in assenza di una decisa condanna sociale, tende a giustificare la propria aberr azione. Fenomeni sui quali siamo in attesa che Santoro & co. conducano le loro incalzanti inchieste e dicano senza reticenze tutta la verità. (Umberto Folena, Avvenire, 2 giugno 2007)
8. Se la macchia del sospetto lambisse tutti i preti «Annozero» l'altra sera era un processo. C'era l'accusa, sostenuta dall'autore dell'inchiesta della Bbc e da Santoro, cui i panni dell'inquisitore sono cari. C'era, per decenza dell'informazione, la difesa. E c'erano gli imputati. Che erano - fatale il combinato disposto: mezzo televisivo e malizia giornalistica - i preti. Non solo i preti colpevoli di pedofilia, ma i preti tout court. L'intento di quella trasmissione lanciata sugli italiani alle nove di sera era di insinuare il dubbio che, in fondo, è rischioso fidarsi dei preti. Nonostante l'insistere retorico sui casi singoli, è una categoria a trovarsi sospettata. A noi che ascoltavamo, tuttavia, sono venuti in mente i preti che abbiamo conosciuto in questi anni, in Italia o nei posti più lontani del mondo. Vorremmo spendere una parola su di loro. Sul parroco di uno sperduto paese delle montagne piemontesi, da dove tutti se ne erano andati, e solo quel sacerdote ottantenne era restato a dir messa per i pochi rimasti, vecchi come lui. Con però nello sguardo una pace singolare, quando diceva: «Sa, se Dio mi chiamasse domattina, io sono pronto, vado via contento». E in quel villaggio svuotato, il vecchio in pace trasformava l'abbandono in un'attesa. Oppure ci viene in mente il giovane sacerdote brianzolo, che nei giorni della strage di Erba rifletteva sulla sua gente: sui figli a dodici anni già spesso inclini all'arroganza, sugli adulti ansiosi di dirsi gente a posto, del tutto estranea alla violenza scoppiata all'improvviso in una cittadina di lavoratori. In quella Brianza indignata, un uomo guardava con passione e pietà la sua gente, ed era un prete. Ci vengono in mente, anche, alcuni ragazzi da poco ordinati e partiti in missione: per Taiwan, nel desiderio di parlare di Cristo all'altro capo del mondo, o per Budapest, a ritrovare la memoria di un Dio cancellato. Ci viene in mente il prete italiano in contrato a Banda Aceh, sfinito, e grigio della polvere di chi da giorni scava nelle macerie e benedice i morti, «cristiani e musulmani, ci penserà il Padreterno», diceva con il suo benigno accento romagnolo. E, ancora, il vecchio comboniano tornato a casa a morire, dopo cinquant'anni in Africa. Che dal suo letto di malato terminale ci raccontò di quel giorno che i guerriglieri lo rapinarono nella savana, e scontenti dei quattro soldi del bottino gli puntarono contro i fucili. E lui, così mingherlino, d'improvviso se ne venne fuori a dire, fiero: «Ammazzatemi pure, ma io ho vissuto più di tutti voi». Al che la soldataglia, credendolo un povero matto, lo lasciò tornare al suo villaggio, a curare i morti di fame nel nome di Cristo - a vivere, in realtà, «più di tutti». E poi, ancora, quel Fratel Ettore che a Milano, nei sotterranei della Stazione Centrale, aveva messo su un rifugio per disgraziati, clandestini, curdi in fuga verso incerti destini. A tutti dava un letto, e da mangiare, e non faceva domande. Sui muri di quella corte dei miracoli, un crocefisso, e nient'altro. Questi sono i preti che abbiamo conosciuto. Non sono nostri amici, sono i preti. Che alcuni tra loro, tra i tanti, siano capaci del peggiore dei mali, non ci meraviglia. Anche i preti sono uomini, e gli uomini sono capaci del male. Ma guardando il democratico processo di Santoro abbiamo - chissà perché - sentito il bisogno di evocare la gran massa di questi preti. Di cui si sa il nome solo se li ammazzano. Quanti sono, e quanto erano assenti dal democratico processo di Santoro - guru di quelli che si sentono Giusti. (Marina Corradi, Avvenire, 2 giugno2007)
9. Che fatica capire nel salotto di Annozero «La verità non può che fare bene alla Chiesa», diceva grosso modo, a un certo punto della trasmissione, un giovane giornalista presente in sala. Giusto. Ovvio. Solo che la «verità», nella puntata di giovedì sera di Annozero – RaiDue, titolo «Non commettere atti impuri» e come tema la pedofilia nella Chiesa – è sembrata l’ospite più citata, riverita e blandita, ma anche l’unica a essere tenuta cortesemente fuori dallo studio. Forse per evitare che disturbasse un quadro espositivo preparato, secondo un Michele Santoro più vellutato del solito, in una settimana di intenso lavoro. E a tener fuori dagli studi di Saxa Rubra la Somma Invitata non è stata certo la testimonianza toccante e sconcertante degli ex-parrocchiani di don Lelio Cantini a Firenze, vittime di un uomo indegno che, riconosceva monsignor Rino Fisichella, «non sarebbe mai dovuto diventare prete». Né è stata, appunto, la testimonianza dello stesso Fisichella e di don Fortunato di Noto – entrambi sul banco virtuale degli imputati – i quali, come ha detto ieri padre Federico Lombardi, portavoce della Sala stampa vaticana, hanno dimostrato che «nella Chiesa c’è la forte volontà di guardare in faccia i problemi con obiettività e di affrontarli con lealtà», e che «c’è chi si impegna con competenza e dedizione sul fronte della lotta alla pedofilia conoscendone assai meglio la natura e le dimensioni di quanto non risulti da prospettive condizionate dalle tesi antiecclesiali». A tenere sull’uscio madame Vérité non è stato neppure, ci pare, l’intervento del giovane delle Acli, che ha ricordato un particolare che sarebbe altrimenti passato quasi inosservato, pur in due ore di conversazione: e cioè che questa spasmodica, improvvisa passione per il destino delle vittime di abusi sessuali compiuti da religiosi o sacerdoti, passione esplosa pochi giorni dopo il successo del Family Day, suona – come dire – leggermente pretestuosa; e che per fare un buon servizio all’informazione, anche su un tema scelto con dubbio tempismo, non basta buttare sul piatto fatti o numeri scelti ad arte. Conta anche come li si racconta. A tenere a distanza Madame V., e soprattutto fuori dai teleschermi di milioni di italiani, è stato anzitutto il documentario della Bbc «Sex Crimes and the Vatican», che la lieve limatura operata da Santoro non ha attenuato nella carica calunniosa verso Joseph Ratzinger. A partire da un momento simbolico: le immagini di Benedetto XVI al balcone della Basilica di San Pietro dopo l’annuncio della sua elezione a Pontefice, inserite tra le accuse di copertura di crimini pedofili rivolte alle massime autorità della Chiesa. Un video, quello della Bbc – per citare ancora il commento di padre Lombardi –, «animato da una sensibilità ferita», che «tratta fatti drammatici in un quadro di prospettiva evidentemente parziale, e diventa gravemente ingiusto quando appunta le sue critiche sulle motivazioni di documenti ecclesiali di cui viene svisata la natura e la finalità, e quando prende di mira la figura del cardinale Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI». Madame V. è stata fatta aspettare fuori dal salotto di Annozero, un piede dentro e uno fuori, anche dall’opportuno cambio di discorso, quando don Fortunato di Noto ha proposto di leggere i casi di abusi nella Chiesa alla luce di quello che è il reale, allarmante fenomeno della pedofilia – sul cui sfondo il problema "quantitativo" del coinvolgimento di sacerdoti e simili scomparirerebbe – e soprattutto alla luce delle sue radici culturali: una pista che porterebbe ben lontano dall’ambito ecclesiale, diciamo pure ai suoi antipodi, e assai vicino ad altri ambienti, di cui forse è poco conveniente parlare. O dai quali è solo più difficile avere un ritorno immediato di share e di "immagine". Anche l’enfasi, pur doverosa, anzi sacrosanta, sul caso di Firenze, accompagnata però dal silenzio su un caso freschissimo come quello di don Marco Dessì – il missionario condannato nei giorni scorsi a 12 anni di carcere per abusi sessuali perpetrati in Nicaragua, e per il cui arresto le autorità ecclesiastiche hanno ricevuto il riconoscimento pubblico di Marco Scarpati, l’avvocato difensore delle vittime – ha finito per assumere un sapore strumentale che non meritava. Ora che dire, spento il teleschermo e archiviata una puntata santoriana migliore del solito nel tono del dibattito, ma non dissimile ad altre quanto a parzialità e forzature nel trattare vicende ecclesiali? E pensando ai peccati, alle colpe anche immonde di cui cui si sono macchiati uomini di Chiesa, al dolore che hanno causato? Forse solo che tornano alla mente le parole che affidò anni fa a Vittorio Messori un grande intellettuale ateo come Leo Moulin, per mezzo secolo docente di storia e di sociologia all’Università di Bruxelles. «Il capolavoro della propaganda anticristiana è l’essere riusciti a creare nei cristiani, nei cattolici soprattutto, una cattiva coscienza; a instillargli l’imbarazzo, quando non la vergogna, per la loro storia... da tutti vi siete lasciati presentare il conto, spesso truccato, senza quasi discutere. Non c’è problema o errore o sofferenza della storia che non vi siano stati addebitati. Invece io, agnostico ma storico che cerca di essere oggettivo, vi dico che dovete reagire, in nome della verità. Spesso, infatti, non è vero. E se talvolta del vero c’è, è anche vero che, in un bilancio di venti secoli di cristianesimo, le luci prevalgono di gran lunga sulle ombre. Ma poi: perché non chiedere a vostra volta il conto a chi lo presenta a voi? Sono forse stati migliori i risultati di ciò che è venuto dopo? Da quali pulpiti ascoltate, contriti, certe prediche?». Già, da quali pulpiti. (Andrea Galli, Avvenire, 2 giugno 2007)
10. Quante «gaffe» in quel documentario Il documentario della Bbc è tendenzioso nell’impianto, falso in diversi punti, volto a offrire al telespettatore un quadro volutamente distorto del problema. In particolare: – Presenta quattro storie estreme di sacerdoti accusati di abusi su minori, enfatizzandole, se possibile, con il racconto di dettagli disgustosi. Il che punta a suscitare il maggior sdegno possibile e contemporaneamente a far passare i quattro casi come esemplificativi del problema delle molestie sessuali su minori da parte di membri del clero. Il che è, da una parte, esagerato e, dall’altra, fuorviante. – Nulla dice - neppure un accenno - sul problema della false accuse a sacerdoti e religiosi: è noto infatti che non si tratta di un fenomeno marginale, con l’inclusione di vicende sconvolgenti sulle quali altrove - vedi in Irlanda il caso di Nora Wall - si sta iniziando ad aprire gli occhi, anche per il clima di isteria ingeneratosi ai danni della Chiesa. – Nulla dice inoltre del problema, ampiamente dibattuto in Usa e non solo, delle "recovered memories", ossia dei ricordi fatti affiorare nelle presunte vittime, in sedute psicoterapeutiche 20 o 30 anni dopo l’"accaduto", riguardo ad abusi subiti nell’infanzia e poi "rimossi". Si tratta di fonti di accusa ormai screditate dalla gran parte degli esperti, ma che hanno dato il via, tra gli anni ’80 e ’90, a numerosissime cause penali. Per quale obiettivo, è facile intuire. – Nulla dice, appunto, delle enormi speculazioni economiche condotte in Paesi come gli Usa sul grave problema degli abusi sessuali. Facendo leva infatti sul sentimento di esecrabilità che per fortuna circonda questi delitti, in realtà si procede con l’attribuzione di episodi non documentabili a esponenti della Chiesa, individuata come ottima "mucca da mungere". Ovvero del boom di cause civili di risarcimento intentate contro una o l’altra diocesi, per fatti risalenti a 20, 30 o 40 anni prima, dove nel frattempo l’accusato è spesso addirittura deceduto. – Lascia intendere che l’istruzione Crimen Sollicitationis (1962) avesse come oggetto la pedofilia, mentre trattava degli abusi collegati al sacramento della confessione, allorquando il sacerdote confessore approfitta della propria situazione per intessere relazioni sessuali con le o i penitenti. Un solo paragrafo cita il caso della pedofilia. – Attribuisce alla stessa istruzione l’obiettivo di coprire gli abusi di sacerdoti su minori, imponendo su questi abusi una rivoltante coltre di segretezza, tale per cui chi rompe il segreto avrebbe comminata la pena della scomunica immediata. È vero invece l’opposto: il paragrafo 16 impone alla vittima degli abusi di «denunciarli entro un mese»; il paragrafo 17 estende l’obbligo di denuncia a qualunque fedele cattolico che abbia «notizia certa» degli abusi; il paragrafo 18 precisa che chi non ottempera all’obbligo di denuncia «incorre nella scomunica», da cui non può essere assolto fino a quando non abbia rivelato quello che sa o abbia seriamente promesso di farlo. Dunque non è scomunicato chi denuncia gli abusi ma, al contrario, chi non li denuncia. L’istruzione disponeva che i relativi processi si svolgessero a porte chiuse, a tutela della riservatezza delle vittime. – Presenta come un documento segreto la lettera De delictis gravioribus, firmata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger in qualità di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede il 18 maggio 2001, quando la lettera fu subito pubblicata negli Acta Apostolicae Sedis e figura da allora sul sito Internet del Vaticano. – Lascia intendere al telespettatore che quando la Chiesa afferma che i processi relativi a certi delicta graviora, tra cui alcuni di natura sessuale, sono riservati alla giurisdizione della Congregazione per la Dottrina della Fede, intende con questo dare istruzione ai vescovi di sottrarli alla giurisdizione dello Stato e tenerli nascosti. De delictis gravioribus e Sacramentorum sanctitatis tutela (la lettera apostolica firmata da Giovanni Paolo II e di cui la Delictis gravioribus costituisce il regolamento di esecuzione) in realtà si occupano di fissare la competenza ecclesiastica su questa materia non ad un ufficio qualunque ma alla più importante Congregazione, quella per la Dottrina della fede, la quale agisce in questi casi in «in qualità di tribunale apostolico». In sostanza, questi documenti non si occupano affatto – né potrebbero, vista la loro natura – delle denunce e dei provvedimenti dei tribunali civili degli Stati. Quando i due documenti scrivono che «questi delitti sono riservati alla competenza esclusiva della Congregazione per la Dottrina della Fede» la parola «esclusiva» significa «che esclude la competenza di altri tribunali ecclesiastici» e non - come vuole far credere il documentario - che esclude la competenza dei tribunali degli Stati. Le due lettere dichiarano fin dall’inizio la portata e l’ambito proprio, che è quello di regolare questioni di competenza interna all’ordinamento giuridico canonico. L’ordinamento giuridico degli Stati semplicemente qui non viene evocato, perché è scontato che agisca secondo i propri canoni, sui quali nulla può e nulla potrebbe l’autorità ecclesiastica. – La De delictis gravioribus, come già la Crimen sollicitationis, in nulla nega il principio secondo cui – fatto salvo il segreto della confessione – chi nella Chiesa venga a conoscenza di un reato giustamente punito dalle leggi dello Stato ha il dovere di denunciarlo alle autorità competenti. Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica le autorità civili hanno diritto alla «leale collaborazione dei cittadini» (n. 2238): «la frode e altri sotterfugi mediante i quali alcuni si sottraggono alle imposizioni della legge e alle prescrizioni del dovere sociale, vanno condannati con fermezza, perché incompatibili con le esigenze della giustizia» (n. 1916). – In generale, il documentario insinua a più riprese, specie nelle immagini ripetute e incombenti, una volontà e responsabilità di Joseph Ratzinger e del «Vaticano» nel coprire gli abusi dei sacerdoti, quando i pronunciamenti e i documenti su questa materia, a firma di Giovanni Paolo II prima e di Benedetto XVI poi, provano esattamente il contrario. (Andrea Galli, Avvenire, 2 giugno 2007)
Come si spiega il rancore della sinistra contro la chiesa ? Se Joseph Ratzinger potesse intervenire come semplice intellettuale (lo faceva in passato) consiglierebbe a tutti, ma specialmente alla Sinistra (politici, intellettuali, opinionisti) di leggere gli attacchi contro la Chiesa fatti da Adolf Hitler e dagli altri caporioni del nazionalsocialismo: Goebbels, Himmler, Rosenberg. Vedremo perché la Sinistra (ma non solo) dovrebbe riflettere su personaggi e ideologie ad essa antitetiche e da essa giustamente detestati (come da tutti noi). Prima chiediamoci: perché oggi la Sinistra italiana è così risentita e dura con la Chiesa? Forse la Chiesa ha la “colpa” di essere sopravvissuta al comunismo, nonostante le immani persecuzioni che ha subìto. Ma ci sono anche motivi di cronaca. La recente “vittoria” dei cattolici italiani nel referendum sulla legge 40 ha scatenato una reazione pesante che è arrivata a mettere in discussione pure il diritto di parola dei vescovi, ritenuto “ingerenza” e minaccia allo Stato laico. La legge sui Dico rappresenta una controffensiva simbolica: è un manifesto ideologico che intende riaffermare l’ideologia laicista degli anni Settanta. Il naufragio dei Dico dopo il Family Day sembra aver scatenato nuove reazioni. Oggi c’è un accanimento polemico contro la Chiesa e il Papa stupefacente. E anche del tutto contraddittorio con il progetto di “Partito democratico” coltivato dai Ds. E’ grottesco volersi unire ai cattolici attaccando al contempo la Chiesa e perfino i valori della legge naturale che sono il terreno di incontro fra cattolici e laici. Con il voto di domenica, come ha dichiarato Castagnetti, molti cattolici hanno abbandonato il centrosinistra proprio per questa linea anticlericale. Ma nessuno riflette. Non c’è un solo intellettuale a Sinistra che s’interroghi seriamente su ciò che la Chiesa dice e sul pericolo rappresentato dalla “dittatura del relativismo”. Lo fece però Norberto Bobbio 25 anni fa, quando si discuteva di legalizzazione dell’aborto. Ammonì: «Mi stupisco che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere». È sicura la Sinistra di voler lasciare ai cattolici (e al centrodestra) il monopolio dei temi morali? L’esortazione del presidente Napolitano ad «ascoltare la Chiesa» mi pare un invito a cambiare direzione, ad ancorare la democrazia a valori forti. Ma sembra che invece la Sinistra voglia abbracciare l’ideologia del vietato vietare, dell’individualismo libertario che però non ha nulla a che fare col liberalismo. Proprio un teorico del liberalismo come Tocqueville ha infatti spiegato che i sistemi democratici hanno bisogno vitale dell’ancoraggio ai valori morali per evitare la dissoluzione, mentre sono le tirannie a poterne fare a meno perché lì la coesione è imposta coercitivamente dal potere stesso. Infatti storicamente le forze e le ideologie totalitarie finiscono sempre col perseguitare la Chiesa. Non solo le dittature comuniste. Consideriamo la Germania degli anni Trenta e gli argomenti che allora furono usati contro la Chiesa. L'attacco di Pio XI Il 14 marzo 1937 papa Pio XI emanò l’enciclica “Mi brennender Sorge”, in lingua tedesca per denunciare gli errori e l’orrore della Germania nazista, in particolare il concetto di “razza” su cui si fondava il nuovo regime. Il papa – in nome del “diritto naturale” – arriva ad affermare che la coscienza non deve sentirsi vincolata da leggi ingiuste: «quelle leggi umane che sono in contrasto insolubile con il diritto naturale, sono affette da vizio originale, non sanabile né con le costrizioni né con lo spiegamento di forza esterna». La reazione dei nazisti fu furibonda. Il “Volkischer Beobachter” sparò a zero su “il Dio giudeo e il suo vicario a Roma”. Andrea Tornielli, nel suo recente libro su Pio XII, scrive che «un’altra replica dei nazisti è la ripresa dei procedimenti penali contro il clero cattolico sulle violazioni delle leggi riguardanti la valuta e su crimini di natura sessuale». E il 1° maggio scende direttamente in campo Hitler contro l’ “ingerenza” politica della Chiesa: «Noi non possiamo sopportare che quest’autorità, che è l’autorità del popolo tedesco, venga attaccata da chicchessia. Questo vale per tutte le chiese. Fintanto che esse si occupano dei loro problemi religiosi» tuona il despota «lo Stato non si occupa di loro. Ma quando esse tentano… di attribuirsi dei diritti che competono esclusivamente allo Stato, noi le reprimeremo entro i confini dell’attività spirituale di cura d’anime che loro spetta. E non è neppure giusto» inveiva Hitler «che da tale parte si elevi la critica contro la morale di uno Stato, proprio quando esse avrebbero motivi più che sufficienti di occuparsi della propria moralità». In effetti il 28 maggio anche il ministro della propaganda Goebbels sparò a zero sulla Chiesa denunciando «i delitti contro natura (che) sono ormai praticati in massa nei conventi» e la «generale decadenza morale” del clero che avveniva – a suo dire - “in una misura così spaventevole e scandalosa quale quasi mai si era verificata nell’intera storia della cultura dell’umanità». Goebbels annunciò che la Chiesa cattolica in Germania sarebbe scomparsa «nel fango e nella vergogna». In effetti oggi sappiamo che dopo la “liquidazione” degli ebrei l’intento di Hitler era liquidare la Chiesa (e il massacro dei preti, a migliaia, era già cominciato). Il nazismo si oppone in toto al cristianesimo tornando agli dèi pagani del sangue e della razza e distruggendo la figura di Gesù: Rosenberg nel “Mito del XX secolo” ne fa un ariano, denuncia l’origine truffaldina della Chiesa fondata, dice lui, su personaggi di «razze inferiori» (come «il rabbino» Paolo) e attacca il papa come «uno stregone». Conclude: «la peste giudeo-cristiana deve perire». Ma il nazismo intende demolire anche ogni riferimento alla legge naturale e ai valori morali della tradizione ebraico-cristiana legati al rispetto della vita e dei diritti degli esseri umani. Non a caso – prima della shoa, che è l’abisso della disumanità – viene realizzato un piano di eutanasia di massa per eliminare «i tedeschi imperfetti» (soppressi circa 70 mila malati, fra cui un cugino di Ratzinger) e viene legalizzato l’aborto (è il primo paese dopo l’Urss a farlo). Figuriamoci poi cosa potevano farsene i nazisti del valore naturale della famiglia. Himmler definiva la monogamia una «immorale prescrizione della Chiesa romana». Ammirava invece Maometto che «promise a ogni guerriero caduto in battaglia, ma che avesse valorosamente combattuto, due belle mogli in premio. Questo vuole sentirsi dire il soldato!». Senza coscienza Il colpo definitivo, secondo Ratzinger, fu il tentativo del nazismo di cancellare addirittura la coscienza, che è l’essenza stessa dell’uomo. Ratzinger cita spesso il libro di Rauschning, “Colloqui con Hitler”, dove si riportano queste parole del tiranno: «Io libero l’uomo dalle sporche e umilianti autoafflizioni di una chimera chiamata coscienza morale». Non a caso Göring dichiarava: «io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza si chiama Adolf Hitler». Parole che Ratzinger considera rivelatrici, perché «la distruzione della coscienza è il vero presupposto di una soggezione e di una signoria totalitaria”. Ratzinger parla del “nazionalsocialismo come rivoluzione del nichilismo». Oggi il nazismo è morto, grazie al cielo, ma il veleno nichilista no. «La minaccia del totalitarismo è una questione della nostra ora storica», scriveva il cardinale. Che alla vigilia della sua elezione al papato, metterà in guardia tutti dalla «dittatura del relativismo». Tutto questo non merita una riflessione? C’è una Sinistra disposta a meditare serenamente le parole del Papa anziché caricarlo a testa bassa? (Antonio Socci, «Libero», 31 maggio 2007)
Pio XII e Giovanni XXIII: il Papa “cattivo” e quello “buono” La realtà storica non andrebbe mai distorta attraverso le lenti dell’ideologia. Un esempio eclatante di questo malcostume, che spesso trasforma studiosi e storici in propagandisti, è la polemica sull’atteggiamento di Pio XII durante la Shoah. Negli ultimi mesi, in particolare, nuove presunte rivelazioni sono servite per gettare nuove accuse contro Papa Pacelli e per sottolineare la diversità dell’atteggiamento tenuto, invece, da Angelo Roncalli (il futuro Giovanni XXIII, oggi beato) all’epoca in cui era delegato apostolico ad Istanbul. Ancora una volta, insomma, si è cercato di presentare l’uno «buono» e l’altro «cattivo». L’occasione per questa nuova offensiva mediatica, che ha già fatto il giro del mondo, è stata offerta da una studiosa israeliana, Dina Porat, la quale ha avuto modo di consultare i diari inediti — scritti in ebraico — del segretario dell’Agenzia giudaica per la Palestina Charles Barlas, il quale risiedeva a Istanbul negli anni della persecuzione e vide di frequente il delegato apostolico Roncalli. Nei diari si parla di un dossier sui campi di sterminio, i «protocolli di Auschwitz». Barlas lo recapitò a Roncalli. Si parla inoltre delle presunte critiche che lo stesso delegato apostolico avrebbe rivolto ai suoi superiori romani per il loro atteggiamento troppo tiepido verso i perseguitati. Insomma, il futuro Giovanni XXIII avrebbe espresso riserve su Pio XII.
Sul Corriere della Sera del 25 novembre 2006, il professor Atberto Melloni così sintetizza i fatti: «I protocolli raggiungono Istanbul dalla Svizzera il 23 giugno 1944, assieme a una relazione sul tragico destino degli ebrei ungheresi. L’indomani stesso Barlas ne porta copia a Roncalli: li traduce, glieli porge, ne annota la reazione (“li ha letti fra le lacrime”), e percepisce un’inedita espressione di disappunto. Roncalli promette di farli avere “al suo capo a Roma”, annota Barlas, ma è chiaro che è a disagio per i suoi superiori “il cui potere e la cui influenza è grande”, ma che “si trattengono dall’agire”... Però il 25 giugno Pio XII manda un telegramma pubblico al dittatore ungherese Horty, scongiurandolo di fermare “le sofferenze di tanti esseri umani”». Dunque, stando a queste poche citazioni dei diari di Barlas, Roncalli avrebbe criticato il Papa. Ma grazie a quei documenti, prontamente inviati a Roma, lo stesso Pio XII, appena ventiquattr’ore dopo, sarebbe intervenuto in favore degli ebrei ungheresi con un pubblico appello, proprio come Barlas invocava. Chiediamoci perô se davvero le cose stanno così. Una risposta ci arriva da un documento medito, una delle annotazioni dell’accuratissima agenda di Roncalli. Una prima sorpresa è rappresentata dalla data: il prelato incontra infatti Barlas il 27 giugno, non il 24, come scritto da Melloni. Un dato importante: attesta infatti che da Roma Pio XII intervenne in favore degli ebrei ungheresi con il suo pubblico appello prima e non dopo la segnalazione fatta dall’esponente ebraico al delegato apostolico. Ancor più significativo è l’appunto che Roncalli annota nella sua agenda quel 27 giugno: «Nel pomeriggio ricevetti Barlas venuto per un S.o.s. da lanciare alla S. Sede per la salvezza degli ebrei di Ungheria. Poi ricevetti le due ebree sorelle Bivas... Mi resta in tal modo pochissimo tempo per le mie occupazioni intorno a ciò che più occorre: conti, rapporti, etc. Telegrafai al S. Padre esibendo la villa per le vacanze del colleghi e tingraziandolo del discorso a Propaganda». Questo il testo che racconta dell’incontro. Nei suoi diari Barlas parla di un Roncalli commosso fino alle lacrime e critico con i suoi superiori. Attenzione: il fatto che nell’agenda del futuro Papa non vi sia alcun cenno alla commozione non ci autorizza in alcun modo a dubitare che essa vi sia stata. Bisogna però onestamente riferire che dalle note di Roncalli, invece, sembra emergere che il delegato apostolico ritenesse di aver dedicato perfino troppo tempo a quegli incontri. Non vi è inoltre alcuna espressione di «disappunto» nei confronti di Papa Pacelli. Il delegato scrive di aver telegrafato quella sera stessa a Pio XII, ma non parla di dossier o di rapporti sulle persecuzioni ebraiche. Un’altra interessante citazione è di qualche giorno dopo, ed è stata resa nota da Marco Roncalli nel suo documentatissimo volume Giovanni XXIII. Una vita nella storia (Mondadori). Ecco che cosa annota il futuro Papa nell’agenda l’11 luglio, dopo un nuovo incontro con l’esponente ebraico: «Fra le udienze d’oggi il sigr. Barlas e sigr. Eliezer Caplan del Comitato per gli Ebrei venuto di nuovo a ringraziare per l’opera del S. Padre, dei suoi rappresentanti e mia a favore degli ebrei. Io però mi domando praticamente quest’opera soccorrevole a che cosa ha servito. Perlomeno dimostra che la carità di Cristo non si smentisce per mutare del secoli. Ma la jattura del popolo ebraico è fatale. Ed essa finirà per travolgere anche il governo nazista oppressore. Degenere o no Israele è pur sempre il popolo di Dio. Che mistero! Il sangue di Gesù continua a cadere sopra di esso. Ma guai a chi lo tocca...». Questo annota dunque Roncalli: ringraziamenti al Papa e ai suoi rappresentanti. Non critiche, neanche velate. Bisogna dunque concludere che la versione di Barlas (o meglio di ciò che del diaro di Barlas ci è stato riferito) non corrisponde affatto a Roncalli andava annotando nella sua agenda. Non emerge insomma alcuna opposizione tra Roncalli e Pio XII. «Ho studiato ogni riga delle agende, ho letto tutte le carte — ha dichiarato Marco Roncalli, — e non ho mai trovato il seppur minimo accenno di critica verso Pacelli». Si ritrova, invece, un’assoluta sintonia di pensiero. Roncalli condivideva, ad esempio, la contrarietà vaticana alla nascita di uno Stato ebraico in Palestina. C’è un testo noto da tempo, sul quale certi studiosi mantengono un imbarazzato «silenzio». Si tratta della nota che Roncalli invia il 4 settembre 1943 alla Segreteria di Stato, nella quale esprime tutte le sue perplessità nel favorire l’emigrazione ebraica in Palestina nell’epoca della Shoah: «Confesso — scrive il futuro Giovanni XXIII — che questo convogliare, proprio la Santa Sede, gli ebrei verso la Palestina, quasi alla ricostruzione del regno ebraico... mi suscita qualche incertezza nello spirito... Non mi pare di buon gusto che proprio l’esercizio semplice ed elevato della carità della Santa Sede possa offrire l’occasione o la parvenza a che si riconosca in esso una tal cooperazione, almeno iniziale e indiretta, alla realizzazione del sogno messianico...». Roncalli nutre dunque gli stessi dubbi dei suoi superiori circa l’opportunità di far emigrare un gran numero di ebrei in Palestina. Sara proprio Pio XII, attraverso i suoi collaboratori della Segreteria di Stato, ad autorizzare le azioni di Roncalli e di altri diplomatici vaticani in favore degli israeliti, nonostante i dubbi esistenti, perché la salvezza delle vite umane veniva prima del problemi di politica internazionale. Nessuna contrapposizione tra Roncalli e Pacelli, dunque. Il console onorario d’Israele a Milano, Pinchas Lapide, scriverà su Le Monde del 13 dicembre 1963: «Quando a Venezia fui ricevuto da Roncalli e gli espressi la riconoscenza del mio Paese per la sua azione a favore degli ebrei al momento in cui era in Turchia, egli mi interruppe ripetutamente per ricordarmi che ogni volta aveva agito per ordine di Pio XII». (Andrea Tornielli, «il Timone» n. 61, marzo 2007) Bibliografia Marco Roncalli, Giovanni XXIII, una vita nella storia, Mondadori, 2006, Andrea Tornielli - Napolitano, Pacelli, Roncalli e i battesimi della Shoah, Piemme, 2005. Andrea Tornielli, Pio XII, il Papa degli Ebrei, Piemme, 2001.
La Cannabis non è una droga leggera e può anche uccidere La notizia di uno studente quindicenne che è morto nel corridoio di una scuola del Milanese, dopo aver fumato uno spinello, ha suscitato enorme scalpore, anche per il dilagante fenomeno dell'uso delle “droghe leggere” nelle scuole. Per non parlare dei video presenti in Internet e che ritraggono molto spesso scene in cui uno studente passa lo spinello ad un compagno durante la lezione (www.scuolazoo.com), o nel peggiore dei casi – come in un filmato diffuso su “YouTube” – un professore che "rolla" uno spinello in classe. Intervistata da Zenit sui pericoli connessi all’uso delle cosiddette droghe leggere, la dottoressa Maria Cristina Del Poggetto, Specialista in psichiatria e in psicoterapia sistemico-relazionale, ha affermato che “a prescindere dai singoli casi, su cui non è corretto fare valutazioni senza avere in mano tutti gli elementi, le recenti notizie di cronaca possono essere l’occasione per fornire messaggi quanto più corretti possibile”. “Oggi sappiamo – ha spiegato la dottoressa Del Poggetto – che la cannabis funziona da 'gateway drug', cioè da apripista per il consumo di altre droghe. Lo ha chiarito uno studio elegantemente disegnato su gemelli olandesi, dove, essendo la cannabis legale, non vi è sovrapposizione fra il circuito di distribuzione della cannabis e quello delle altre droghe e quindi l’effetto di facilitazione del consumo di marijuana verso altre droghe non è solo il risultato della proposta dei pusher”. “Sappiamo inoltre – ha continuato la psichiatra – che il consumo di cannabis si associa ad un incremento del rischio d’incorrere in un incidente automobilistico mortale. Sono state condotte varie indagini in diversi Paesi europei e nord-americani che hanno confermato questi risultati. È altresì acclarato che l’uso di cannabis, particolarmente quando assunta in età giovanile, facilita lo sviluppo di un disturbo schizofrenico”. Circa il ruolo dell’uso di cannabis nell’insorgenza, nella persistenza e nell’aggravamento dei sintomi depressivi, la psichiatra ha rilevato che “desta allarme uno studio pubblicato nell’ottobre 2004 su Archives General Psychiatry condotto su gemelli discordanti per uso di cannabis; i risultati di questa ricerca hanno evidenziato che nei consumatori di tale sostanza il rischio di pensieri e di tentativi di suicidio era quasi triplo”. A tal proposito proprio questo mese è stato pubblicato uno studio neo-zelandese che ha mostrato come gli adolescenti consumatori abituali di cannabis avessero ridotti livelli di attenzione e apprendimento. Secondo la Del Poggetto è evidente che “non esiste un solo rapporto scientifico che abbia dimostrato che la cannabis a scopo ricreazionale faccia bene”. La specialista in psicoterapia ha voluto sottolineare come “i dati che, come specialisti abbiamo a disposizione, mostrano l’importanza del contesto, laddove la disgregazione familiare e le amicizie favorevoli all’uso di marijuana sono fattori favorenti il successivo avvio all’assunzione di questo genere di droga”. “In tale prospettiva – ha continuato – sono rimasta davvero allibita dalle parole di un collega, ascoltate casualmente per radio, che non stigmatizzava l’uso di cannabis come frutto e germe di un comportamento problematico, ma asseriva piuttosto che ai giovani si dovesse insegnare il 'dove, quando e perché' assumere la cannabis, come se ci fosse un dove e un quando in cui stordirsi faccia bene”. La specialista in psichiatria ha poi affermato che “saremmo davvero al paradosso più avvilente, se proprio i medici preposti ad aiutare queste persone, spesso molto giovani, abdicassero dal cercare di comprendere le ragioni che hanno spinto un adolescente ad assumere sostanze nocive per aiutarli a superare le difficoltà, e proponessero invece anche dei perché a sostegno della bontà di una tale scelta”. Per la Del Poggetto, “siamo sempre più in presenza di un disease mongering applicato all’intera esistenza umana, che confeziona la sostanza chimica adatta ad ogni situazione della vita, un’anticipazione emulativa farmacologica del futuro matrix cibernetico”. Per rispondere a quanti continuano a presentare l’uso della cannabis come innocuo, la dottoressa ha quindi precisato che “la classe medica sta incrementando progressivamente la consapevolezza dei danni arrecati dal consumo di cannabis; non è un caso che il Collegio Pediatrico Americano, consapevole di tali effetti nocivi, abbia pubblicato un articolo dal titolo oltremodo indicativo: Uso della marijuana: la legalizzazione non è una buona idea”. Per quanto riguarda invece la condotta da seguire in famiglia, la dottoressa ha spiegato che “quello che purtroppo notiamo spesso in terapia familiare è il risultato di una condotta educativa adottata dai genitori, per lo più in maniera inconsapevole, caratterizzata dalla prospettiva amicale”. “Tale impostazione – ha osservato –, pur racchiudendo anche alcuni elementi positivi, finisce molto spesso per chiedere livelli di assunzione di responsabilità e maturità a cui i figli non sono preparati”. In conclusione la Del Poggetto ha affermato: “È comune osservare giovani che non hanno ricevuto mappe etiche in grado di dare un orientamento, anzi, spesso subiscono in maniera martellante le coordinate morali offerte da un sistema mediatico che non aiuta la ragione a svilupparsi, ma la pone solamente in un’anarchica ed inconcludente fibrillazione”. “Non si tratta di rivestire un ruolo autoritario, ma di recuperare una dimensione di autorevolezza. Se certi miti non saranno abbandonati, avremo la responsabilità d’intere generazioni bruciate”, ha poi avvertito. (Zenit, 30 maggio 2007)
La Conferenza di Aparecida termina convocando la grande missione continentale La V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e del Caribe si è conclusa questo giovedì convocando una grande missione continentale che vuole “abbracciare” gli abitanti di tutto il continente “per trasmettere l’amore di Dio e il nostro”. “Sarà una nuova Pentecoste che ci spingerà ad andare, in modo speciale, alla ricerca dei cattolici allontanati e di quanti conoscono poco o niente di Gesù Cristo”, segnala il “Messaggio Finale” reso noto nella sessione di chiusura. Il testo è stato letto dal Cardinale Julio Terrazas Sandoval CSSR, Arcivescovo di Santa Cruz (Bolivia). La grande missione continentale avrà come agenti le diocesi e gli episcopati e i suoi dettagli saranno analizzati nella riunione delle presidenze episcopali del Consiglio Episcopale Latinoamericano (CELAM) che si svolgerà nel mese di luglio a L’Avana (Cuba). “Con fermezza e decisione, continueremo a esercitare il nostro compito profetico discernendo dove sia il cammino della verità e della vita; levando la nostra voce negli spazi sociali dei nostri popoli e delle nostre città e, soprattutto, a favore degli esclusi dalla società”, affermano i Vescovi partecipanti alla Conferenza Generale. Dopo aver ribadito la loro opzione preferenziale ed evangelica per i poveri, i Vescovi si impegnano a difendere i più deboli, soprattutto i bambini, i malati, gli handicappati, i giovani in situazioni di rischio, gli anziani, i carcerati e i migranti. Allo stesso modo, rivolgono una parola speciale ai popoli indigeni e convocano tutte le forze vive della società ad “aver cura della nostra casa comune, la terra, minacciata di distruzione”. “Vogliamo favorire uno sviluppo umano e sostenibile basato sulla giusta distribuzione delle ricchezze e la comunione dei beni tra tutti i popoli”, aggiunge il messaggio, promuovendo condizioni di vita degne (alimentazione, istruzione, abitazione e lavoro) per tutti. Invita anche a combattere i mali che danneggiano o distruggono la vita, come l’aborto, le guerre, il sequestro, la violenza armata, la corruzione, il terrorismo, lo sfruttamento sessuale e il narcotraffico; a difendere la verità e a vegliare sull’inviolabile e sacro diritto alla vita e la dignità della persona umana, dal concepimento alla morte naturale. Al termine di questa Conferenza, inaugurata da Benedetto XVI il 13 maggio, i pastori annunciano di aver “assunto la sfida di lavorare per dare nuovo impulso e vigore alla nostra missione in America Latina e nel Caribe”. Di fronte alle sfide che pone questa nuova epoca, la Conferenza ha rinnovato la sua fede, proclamando che Gesù è la via “che ci permette di scoprire la verità e di raggiungere la piena realizzazione della nostra vita” e che “la nostra gioia più grande è essere suoi discepoli”. “L’appello a essere discepoli missionari richiede un’opzione chiara per Gesù e il suo Vangelo, coerenza tra fede e vita, incarnazione dei valori del Regno, inserimento nella comunità ed essere segno di contraddizione in un mondo che promuove il consumismo e sfigura i valori che danno dignità all’essere umano. In un mondo che si chiude al Dio dell’amore, siamo una comunità d’amore, non del mondo ma nel mondo e per il mondo!”, aggiunge il Messaggio. I Vescovi si propongono di rafforzare la presenza e la vicinanza della Chiesa. “Siamo chiamati a essere Chiesa a braccia aperte, che sa accogliere e valorizzare ciascuno dei suoi membri (...). Invitiamo a dedicare più tempo a ogni persona, ad ascoltarla, a stare al suo fianco nei suoi avvenimenti importanti e ad aiutare a cercare con lei le risposte alle sue necessità. Facciamo sì che tutti, venendo valorizzati, possano sentirsi nella Chiesa come a casa propria”. Allo stesso modo, i Vescovi invitano a rendere visibili l’amore e la solidarietà fraterna e a promuovere il dialogo con i vari attori sociali e religiosi. “Vogliamo abbracciare tutto il continente per trasmettere l’amore di Dio e il nostro. Desideriamo che questo abbraccio raggiunga anche il mondo intero”, conclude il Messaggio, affidando a Nostra Signora Aparecida e a Nostra Signora di Guadalupe il nuovo impulso che sboccia a partire da oggi in tutta l’America Latina e nel Caribe, sotto il soffio della nuova Pentecoste per la nostra Chiesa. “Gesù invita tutti a partecipare alla sua missione. Nessuno resti a braccia conserte!”, esortano i Vescovi, sintetizzando la loro speranza nella frase finale del messaggio: “Che questo Continente della speranza sia anche il Continente dell’amore, della vita e della pace!”. (Zenit, 31 maggio 2007)
"Vi racconto mio marito Messori" Suo marito è l’unico italiano vivente citato da Benedetto XVI – di più: raccomandato alla lettura – a pagina 64 del Gesù di Nazaret da poco in libreria. Suo marito è l’unico giornalista al mondo ad aver intervistato due Pontefici: quello che sedeva sul soglio di Pietro, Karol Wojtyla, e quello che gli sarebbe succeduto, Joseph Ratzinger. Suo marito è l’unico scrittore al quale Time, il primo newsmagazine del pianeta (4 milioni di abbonati solo negli Stati Uniti) e anche il più antipapista, si sia sentito in obbligo di chiedere qualche settimana fa un ritratto del Vicario di Cristo per inserirlo fra i 100 uomini più influenti della Terra. Suo marito è Vittorio Messori e lei potrebbe accontentarsi d’essere soltanto sua moglie. Invece Rosanna Brichetti è una Messori al femminile, stessa fede granitica, stesso ardore apologetico, stessa capacità di scrittura, «però con tre lauree, giurisprudenza, teologia e sociologia, mica come me che ne ho una sola», ne decanta le qualità intellettuali con ironica ammirazione il consorte. Lei lo ripaga chiamandolo Mèssori, il cognome sdrucciolo che Ernesto Gagliano, capocronista di Stampa Sera, storpiò a bella posta a quel giovane praticante, con uno spostamento d’accento che avrebbe dovuto farlo sentire in soggezione. Certo non può, e nemmeno vuole, questa moglie premurosa e discreta competere con l’ingombrante longsellerista che si ritrova per casa, così viene chiamato in gergo chi continua a vendere i propri libri anche a distanza di anni. Ipotesi su Gesù, per dire, l’opera prima di Messori uscita nel 1976, un successo da oltre un milione e mezzo di copie, tradotto persino in arabo, cinese e coreano, viene tuttora richiesto ogni anno da 20.000 lettori. E così gli altri, da Scommessa sulla morte a Patì sotto Ponzio Pilato? fino a Ipotesi su Maria. A questa editoria della fede Rosanna Brichetti contribuisce adesso con Credere per vivere (Sugarco), il personalissimo catechismo di una donna passata dalle formule di San Pio X all’agnosticismo e infine tornata nella Chiesa. La moglie di Messori è del 1939. Ha due anni più del marito. «Ho visto tutto», dice, riferendosi agli inganni ma anche alle speranze del XX secolo. È cresciuta a Treviglio, dove il padre, un commerciante sceso da Ponte di Legno, sposato con una ragioniera, aveva aperto una segheria. I nonni materni avevano rilevato dal boemo Peck la celebre gastronomia di Milano. Ha avuto per compagno d’infanzia Ermanno Olmi, il regista dei cento chiodi conficcati nei libri e dello slogan «Le religioni non hanno mai salvato il mondo» che campeggia sulla locandina del suo ultimo film. Anni luce dai Messori. Sulla porta della loro abitazione, nel centro storico di Desenzano del Garda, ti accoglie subito il mistero: una formella del quadrato magico di Pompei salvatosi dall’eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo, formato da cinque parole di cinque lettere scolpite una sotto l’altra – sator, arepo, tenet, opera, rotas, cioè «il seminatore Arepo tiene con cura le ruote» – che si possono leggere in tutte le direzioni, ma che disposte a croce formano due «Pater noster», e quindi un quadrato tutto diverso, con inserite negli angoli le due «a» e le due «o» rimanenti, l’Alfa e l’Omega di cui narra l’ultimo capitolo dell’Apocalisse, Gesù, «il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine». Quando si decideranno a scrivere, stavolta a quattro mani, la storia della loro vita, sarà un altro best seller. Viene da una famiglia cattolica? «Sì, a differenza dei Messori, modenesi di Sassuolo, anticlericali per antica tradizione. Ho frequentato elementari, medie e liceo classico in istituti religiosi. Alla fine ne avevo fin sopra i capelli di preti e suore. Non mi avevano mai parlato di Gesù Cristo: solo di calze grigie, di gonne sotto il ginocchio e di camicette a maniche lunghe. Se volevo vivere, dovevo uscire da quell’ambiente. Così ho fatto un’immersione nel mondo. Per tre-quattro anni mi sono tenuta alla larga dai sacramenti». Succede. «È la difficoltà di tutti: Cristo ti apre il cuore, ma la morale cattolica ti spaventa, ti chiude in gabbia. E quando poi mi sono riavvicinata alla fede sull’onda degli entusiasmi postconciliari, ho rischiato di diventare una cosiddetta cristiana adulta. Niente di più facile per una ragazza specializzata in sociologia con una tesi sul femminismo, che aveva lavorato al Censis col professor Giuseppe De Rita e girato l’Italia a raccogliere pareri sulla legge Basaglia e la chiusura dei manicomi per conto dell’Istituto per gli studi sui servizi sociali. È stato Vittorio a farmi riscoprire la bellezza della tradizione». Quando vi siete conosciuti? «Ci trovammo entrambi a frequentare il corso triennale di teologia alla Pro civitate christiana di Assisi. Lui non sapeva nulla di religione, s’era convertito da poco, a 24 anni, per quella che definisce “un’evidenza del cuore” seguita alla lettura dei Vangeli. È stato la delusione dei suoi maestri. S’era laureato con una tesi sulla storia del Risorgimento, relatore Alessandro Galante Garrone, che l’avrebbe voluto come suo assistente, e due sottotesi discusse con Norberto Bobbio e Luigi Firpo. La trimurti del laicismo duro e puro. L’avevano allevato per farne l’autore di riferimento dell’Einaudi». Ha deluso anche la madre Emma. «Per me è stata una suocera nel senso tradizionale del termine. La tipica mangiapreti. Era allergica al clero, non a Gesù. Gli emiliani son fatti così: vivono i valori evangelici, ma guai se gli dici che sono valori cristiani. Lo stesso Vittorio tutto avrebbe voluto tranne che diventare cristiano. Andava a messa di nascosto per la vergogna. Quando la mamma lo scoprì, pretendeva di farlo visitare da un medico, pensava che fosse in preda a un esaurimento nervoso. Ma era una brava donna, è morta bene, sicuramente si trova in paradiso. Solo che aveva il carattere di suo figlio». Vale a dire? «Non facile. Ruvido, al primo impatto. Ma se lo lasci un attimo schiumare, è buonissimo, generoso. Ogni tanto cerca di fare il prepotente, ma non ci riesce. Mi dice sempre: “Sta’ tranquilla, quel Gesù Cristo in cui crediamo noi lo incontreremo”». Che cosa la colpì in lui? «La lucidità intellettuale». Come maturò la decisione di sposarvi? «È una storia lunga e sofferta, che non abbiamo mai raccontato. Nei tre anni passati ad Assisi legammo molto. C’era attrazione reciproca, ma avevamo due caratteri troppo forti. Per cui alla fine del corso ci separammo. Io andai a Roma, lui tornò a Torino. Non ci vedemmo per sette anni. Per lui la delusione fu così cocente che pensò di porvi rimedio sposando un’altra donna. Questo accadde nel 1972. Presto s’accorse d’aver agito in stato di costrizione psicologica, senza la necessaria libertà di consenso, e chiese la nullità del matrimonio». Che la Rota romana prontamente gli accordò. «Il contrario. Proprio perché era Messori, ci fu un eccesso di scrupolo del tribunale ecclesiastico, che non voleva essere sospettato di favoritismi. Per cui la sua istanza venne respinta nei tre gradi di giudizio. Nel frattempo eravamo tornati insieme. Ma vivevamo in case separate, come fratello e sorella. Vittorio avvisò di questa sua condizione sia Ratzinger che Wojtyla, prima di accingersi a intervistarli, e loro non ebbero alcunché da ridire, essendo ineccepibile dal punto di vista canonico e morale. Fino a che il futuro cardinale Mario Pompedda, che aveva svolto le funzioni di pubblico ministero nei processi ma in coscienza s’era convinto che il matrimonio fosse nullo, stese di suo pugno una supplica al Papa per la riapertura del caso. Fu il cardinale Ratzinger a consegnarla a Giovanni Paolo II. Ne seguirono altre due cause alla Rota romana». Neanche Carolina di Monaco... «Un martirio durato 22 anni. Con Vittorio che dovette sottoporsi all’umiliazione di almeno sei o sette perizie. Persino la moglie alla fine testimoniò che era d’accordo sulla nullità del loro matrimonio. Frattanto io avevo smesso di frequentarlo, per non dare scandalo. E pregavo: Signore, senti, se non vuoi che ci sposiamo, significa che va bene così, sia fatta la tua volontà. Amo la Chiesa più della mia stessa vita, Cristo e la missione di Vittorio sopravanzano di gran lunga il valore della mia persona. A 57 anni, quando ormai pensavo di ritirarmi in un eremo, giunse la sentenza di nullità. E nel 1996 mi portò all’altare». Ma lei perché era tornata alla fede? «Per un dolore. La prima tragedia della mia vita: una storia d’amore bruscamente interrotta. Cominciai a riflettere sul significato dell’esistenza. Un giorno mi ritrovai davanti alla Madonna delle Lacrime. È un santuario dove nel 1522 il generale Lautrec, che assediava Treviglio, lasciò la sua spada e il suo elmo ai piedi dell’altare dopo aver visto un affresco della Vergine che piangeva. Ma non ero in grado di pregare, mi sentivo svuotata. Ci tornai per un mese intero. Stavo lì per ore nella semioscurità a fissare l’ostia. Solo dopo ho capito che il silenzio è lo stato d’eccellenza per l’incontro con Dio». E come avvenne l’incontro? «Fu un’illuminazione: quella particola mi riguardava, Cristo era morto anche per me. Contavo per qualcuno. Magari non per il mio fidanzato, ma per Dio sì. Da quell’istante la mia vita è cambiata. La precisa sensazione che perfino i capelli del mio capo erano tutti contati dal Padre non mi ha mai più abbandonata, ha dato un senso ai miei giorni, mi ha fatto sorgere il desiderio di dirlo agli altri». Credere per vivere, lei scrive. Ma i più vivono senza credere. «O credono senza saperlo? Di atei convinti ne ho conosciuti ben pochi. Perché un conto è credere con la ragione che Dio esista e un altro conto è sentirsi in relazione con lui. Lo Spirito prega con gemiti inesprimibili, scrive San Paolo, anche in chi dice di non credere o non sa di credere». Lei e suo marito siete mariologi appassionati. Non le sembra strano che piangano sempre le Madonnine di gesso e mai la Pietà di Michelangelo? «E perché la Madonna di Fatima apparve a tre pastorelli e non a un vescovo o a un giornalista? A Roma ci sono migliaia di Madonne stupende, eppure nessun romano va a pregare davanti alla Pietà. L’oggetto di devozione più intensa è la Madonna del Divino Amore, un affresco scrostato del ’500, in una cappelletta diroccata nella campagna malarica. “Deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles”, canta Maria nel Magnificat, il Signore ha scacciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. Sono due, sostiene Benedetto XVI, i pioli apologetici: la bellezza delle anime e la bellezza delle cose. La santità e l’arte». Perché nel 1985 l’allora prefetto dell’ex Sant’Uffizio scelse proprio suo marito come intervistatore? «L’iniziativa partì da Vittorio. Si ritirarono d’estate nel seminario di Bressanone, dove il cardinale Ratzinger trascorreva le vacanze. E uscì questo libro, Rapporto sulla fede, per il quale Vittorio ricevette persino minacce di morte, orribili telefonate notturne fatte da apostoli del dialogo, tanto che fu costretto a rifugiarsi per qualche tempo in un convento dei barnabiti in Alta Brianza. Non gli perdonavano d’aver dato voce al Grande Restauratore che aveva firmato l’istruzione contro la “teologia della liberazione”, d’avergli consentito d’affermare che il marxismo era “la vergogna del nostro tempo”». Da allora è rimasto «Messori il reazionario». «A me vien da ridere quando gli danno dell’integralista. Essendosi convertito alla fine del Vaticano II, mio marito non può certo essere nostalgico della messa in latino, alla quale non ha mai partecipato. La Chiesa di Pio XII non l’ha proprio conosciuta. Lui combatte gli abusi che derivano da una lettura faziosa dei documenti conciliari». E la successiva intervista con Giovanni Paolo II come nacque? «Wojtyla aveva letto tutti i libri di Vittorio e aveva fatto tradurre Ipotesi su Gesù in polacco. Nel settembre 1993 lo invitò a pranzo a Castel Gandolfo e gli chiese se fosse disponibile a intervistarlo per Raiuno. C’era già un regista pronto, Pupi Avati, e il programma era opzionato da 102 reti tv del globo. Mio marito lo dissuase: “Santità, abbiamo bisogno di un Papa, di un maestro che ci guidi, non di un’opinionista televisivo. Questa non è la crisi della Chiesa. È la crisi della fede: non si crede più”». Che coraggio. «E infatti Wojtyla, che era un mistico ottimista, se ne ebbe a male. “Non sono d’accordo con lei!”, battè il pugno sul tavolo. Ma poi ci rifletté e l’intervista tv fu cancellata, nonostante Vittorio gli avesse spedito un fax tutto pasticciato con le domande. A Pasqua dell’anno dopo squillò il telefono. Era Joaquín Navarro-Valls, il portavoce del Papa, che chiedeva a Vittorio di raggiungerlo all’aeroporto di Verona. Mio marito andò e lo condusse qui a Desenzano, in una pizzeria. “Sa che cosa c’è in questa valigetta?”, gli chiese Navarro-Valls addentando una quattro stagioni. “Qui dentro c’è un manoscritto quale non s’è mai visto nella storia”. Ogni sera, per mesi, Wojtyla aveva tirato fuori dal cassetto il fax di Vittorio e risposto in polacco alle domande. Alla fine aveva chiuso il tutto in una cartellina bianca con le insegne papali, scrivendoci sopra di suo pugno “Varcare la soglia della speranza”». Il titolo del libro. «“Il Santo Padre mi ha detto di consegnarglielo e di riferirle che lei può farne ciò che vuole”, concluse Navarro-Valls. Vittorio ci lavorò due mesi, anche per mitigare qui e là il tono risentito delle risposte. Traspariva la sorpresa di Giovanni Paolo II per alcune domande. La più sfrontata era: “Ma crede davvero d’essere il Vicario di Cristo? E come fa a reggere questo peso?”». Molto diretto. «Voleva evitare i quesiti da vaticanista sul matrimonio dei preti o quelli politicamente corretti, tipo il Papa e i giovani, il Papa e la pace... Gli pose gli interrogativi che assillano l’uomo postmoderno: il Vangelo è solo un’accozzaglia di leggende orientali? Sa, Vittorio sostiene che molti teologi sarebbero lieti se in Israele venissero scoperte le ossa di Gesù». E perché mai? «Perché così avrebbero la conferma che non è risorto, come vanno insegnando da tempo. Ma almeno si convincerebbero che è realmente esistito». (Stefano Lorenzetto, © Il Giornale, 27 maggio 2007)
Cari genitori, figli del Sessantotto, avete fallito «Noi siamo procreati, ma non educati», scriveva Thomas Bernhard, iniziando uno dei capitoli – forse il più beffardo e nevrotico – del suo L’origine. Anche secondo Bueb oggigiorno «i giovani non vengono più allevati, ma si limitano a crescere» (p. 11). Ed in effetti come negare che ci troviamo da diversi decenni nella più profonda svalutazione dell’idea stessa di educazione? La questione, quindi, è di tutta attualità. Ma Bernhard Bueb la affronta, come spesso capita a coloro che aprono nuove vie, in modo del tutto inusuale, ponendo cioè il problema della disciplina, cioè di quello che efficacemente chiama «il figlio non amato della pedagogia» (p. 15). Eppure – e questa credo è la vera novità del libro in questione – non c’è alcuna possibile pratica pedagogica che non debba fare uso della disciplina. «Avere il coraggio di educare» – scrive Bueb – «significa prima di tutto avere il coraggio di esercitare la disciplina» (p. 15). Coraggio, appunto, di cui l’uomo contemporaneo (occidentale, si intende, perché nelle madrasse questo coraggio non manca per nulla…) pare del tutto privo. La pedagogia, in assenza del coraggio di esercitare la disciplina, si è del tutto adeguata al modello che Bueb chiama del «giardiniere», scivolando in una vera e propria forma di «non-educazione» (p. 14). Il pedagogo «giardiniere», infatti, considera errato disciplinare lo sviluppo dell’educando, preferendo confidare nella sua libertà. E proprio qui risiede l’errore: la grande fallacia pedagogica (che si fonda su una precisa concezione utopica e ottimista dell’essere umano) è quella di credere che «i giovani conseguono la libertà solo se gliela si concede precocemente» (p. 30). Così non è, e Bueb, rettore per molti anni del celebre collegio tedesco di Salem, lo sa perfettamente: «La libertà non è una condizione, bensì un frutto tardivo di un lungo processo di sviluppo e la si conquista passando attraverso innumerevoli stadi di dominio di se stessi» (p. 30). Questa particolare idea della libertà, che rimane il valore essenziale a cui l’educazione deve formare, è quanto di più sano e conservatore animi il libro di Bueb. La libertà ai suoi occhi non è un fatto, un mero stato in cui l’uomo si troverebbe ab origine, ma è una conquista da effettuare tramite la disciplina: «Può percorrere con successo la via della libertà solo chi è disposto a sottomettersi, a esercitare la rinuncia, a raggiungere gradualmente l’autodisciplina e a trovare se stesso» (p. 35). Questa parole rendono il libro di Bueb qualcosa di più di un semplice pamphlet creato per riempire la tasche di qualche autore o di qualche editore in cerca di quattrini, esso è la risposta all’esigenza profonda di educazione che si sente nel nostro tempo, cui viene data una soluzione classica, all’altezza della grande tradizione platonica e stoica, ma anche della più antica pedagogia degli ordini religiosi cattolici. Alla luce di questa tradizione – che ha alle spalle secoli e secoli di superiorità rispetto al caos normativo dell’educazione odierna – Bueb si fa beffe della pedagogia antiautoritaria, nata nel secondo dopoguerra: «Il concetto di educazione antiautoritaria risulta assurdo proprio perché un’educazione che prescinda dall’autorità non è educazione» (p. 53). Così sono i valori come «autorità» ed «obbedienza» (p. 49) che attendono di essere rivalutati, ammesso che si abbia il coraggio di riprendere ad educare. Quel che è certo è che vi sono gravi «conseguenze psicologiche della non-educazione», che non sono meno gravi di quelle provocate dall’eccesso di «educazione autoritaria» (p. 65). Secondo Bueb i giovani hanno «diritto alla disciplina» (p. 69), perché grazie ad essa si impara il senso del limite, del lavoro, della metodicità, dell’uso sensato del tempo. La diffusa angoscia che domina le giovani generazioni, travolte da un mortale disagio psicologico fatto di ansia e nonsenso, è quanto Bueb attribuisce alla mancanza di disciplina, di punizione, di ostacoli da affrontare, metabolizzare e superare: «I bambini devono potere crescere liberi dall’angoscia, ossia da quello stato d’animo opprimente che viene provocato da minacce indefinite, mentre la paura è sempre riferita a qualcosa di concreto: punizioni ben chiare, quantificabili e dettate dalla sollecitudine generano nei bambini paura, non angoscia» (p. 102). Quindi, per Bueb, anche la famigerata paura acquisisce un preciso compito pedagogico, così come le punizioni e il timore che esse generano. «Chi vuole educare in modo giusto», leggiamo nell’Elogio, «deve essere pronto a punire: chiunque farà tesoro di questa verità offrirà guida e sostegno alle nuove generazioni nel cammino verso la libertà» (p. 111). In conclusione si può chiaramente sostenere che l’Elogio della disciplina è uno di quei libri di cui avevamo bisogno, in un tempo in cui anche le più banali ovvietà pedagogiche sono state rovesciate (ennesimo esito della nichilistica «transvalutazione di tutti i valori»?) e si vive in un vero e proprio «stato d’emergenza del sistema educativo». Rimane da capire se i politici conservatori riusciranno a fare tesoro delle preziose indicazioni di Buer, tramutandole in movimento di opinione e progetto politico, oppure se continueranno a inseguire, come la solita e rozza retroguardia di mendicanti di idee, la cultura di sinistra. Per il momento non resta che leggere questo Elogio della disciplina, in cui nobili parole come “virtù”, “obbedienza”, “fatica” “sacrificio”, “rinuncia”, “dovere” non sono per niente lesinate, godendosi l’opera di un autentico spirito conservatore. (Andrea Bellantone, L’Occidentale, 20 aprile 2007)
3 GIUGNO 2007
“7 km da Gerusalemme”, un film da vedere Un viaggio interiore alla ricerca di noi stessi. Ma anche ponte ideale tra Oriente e Occidente. Organizzata dallo staff di “Diocesi in Rete”, Associazione laicale degli operatori pastorali della comunicazione, facente capo al Vicariato di Roma e al responsabile don Marco Fibbi, si è tenuta venerdì 25, presso la sala “Arcobaleno” di via F. Redi, la presentazione del film “7 km da Gerusalemme”, del regista Claudio Malaponti, interpretato da Luca Ward, Alessandro Haber, Alessandro Etrusco e Rosalinda Celentano, tratto dall’omonimo romanzo di Pino Farinotti (ed. San Paolo). Introdotto da don Marco e illustrato dal giovane regista, il film si rifà alla cena di Emmaus, così come descritta dal Vangelo di Luca, trasponendola però ai nostri giorni, grazie alla vicenda di Alessandro (Luca Ward), un pubblicitario 43enne in grave crisi esistenziale, che decide improvvisamente di intraprendere un viaggio a Gerusalemme. Ed è appunto nella solitudine della via di Emmaus, tra la sabbia e le dune pietrose di un arido deserto battuto dal vento, che Alessandro incontra un uomo che afferma di essere Gesù (Alessandro Etrusco). All’iniziale sgomento e scetticismo dello smaliziato protagonista, (egli pensa infatti che si tratti di un mimo, di un’artista di strada), fa seguito l’instaurarsi di un sempre più intenso legame tra i due, fatto di domande e risposte, di lunghi silenzi, che porteranno ad un profondo e radicale cambiamento nella vita di Alessandro. Il Nazareno lo prende come discepolo e, mentre scorrono i flashback della vita di Alessandro, si percepiscono, come in una parabola, l'evoluzione spirituale del pubblicitario, insieme con la vacuità e le patetiche illusioni del mondo contemporaneo. È stato scritto, che il film “manca di magia, malgrado alcuni spunti interessanti e le buone prestazioni degli attori” (cfr. Roberta Bottari, Il Messaggero, 4 maggio 2007). Un giudizio che non condivido, perché di magia il film ne trasmette tanta e a tutto campo: i paesaggi e le ambientazioni dei luoghi “santi”, gli sterminati silenzi desertici, il vento impetuoso portatore di affanni interiori, gli sguardi profondi, insistenti, taglienti: che annientano la realtà circostante, il mondo intero, e scendono impietosi, giù, fino in fondo, nelle pieghe più intime dell’animo; particolari sfuggenti al primo impatto, ma che ti lacerano l’anima e ti sconquassano le certezze di una vita dissipata alla ricerca dell’inutile transitorio. E, non ultimo, il messaggio catartico, profondo e irrinunciabile, che riesce a trasmettere all’alienante società contemporanea, società dell’odio, dell’esibizionismo, dell’intolleranza, dell’egoismo, dell’avidità e dell’arroganza. Il regista, Claudio Malaponti, ha saputo riproporre, con estrema semplicità e lirismo, un cammino risolutore per chiunque si trovi alle prese con i grandi interrogativi della vita di oggi; e lo ha fatto con una passione e una convinzione che inducono a pensare ad un “remake” autobiografico. La sua maturità professionale e la metamorfosi interiore, rispetto alla “Grande prugna” del 1999, nonché all’ambiente di Zelig, sono in ogni caso evidenti. Mettersi poi in discussione con un nuovo lavoro sulla persona di Gesù, su cui già si sono cimentati nomi prestigiosi dell’Olimpo cinematografico mondiale, e farlo oltretutto in tempi sospetti, in cui proporre apertamente un messaggio cristiano non sempre è “politically correct”, merita al giovane regista quantomeno la nostra ammirazione ed un particolare plauso di incoraggiamento. Il film è stato girato quasi interamente in Siria, in zone che fino ad oggi erano interdette alle troupes del nostro paese, come per esempio l’aeroporto. La sua uscita, prevista per il 6 aprile 2007 è stata bloccata a causa di un contenzioso con la multinazionale produttrice della “Coca-Cola” che ha chiesto di eliminare la sequenza in cui Gesù con Alessandro bevono la celebre bibita (forse per mancati riconoscimenti di royalties?). In seguito, comprendendo che la bibita viene usata come simbolo universale dell'era contemporanea, senza alcun intento offensivo o tornaconto economico, la Coca Cola ha consentito che si mantenesse il marchio all'interno della sequenza. Come se non bastasse, la pellicola ha dovuto percorrere un iter distributivo piuttosto singolare e ad ostacoli, dal momento che si è vista boicottata dagli stessi coproduttori (leggi RAI) che all’ultimo momento, nel palinsesto dei programmi per la Settimana Santa già pianificato, le ha preferito un altro lavoro più “accreditato” (Cento chiodi di Olmi) opera che, pur di un certa (anche se opinabile) autorevolezza, ha come valore aggiunto l’appartenenza dell’autore a quella corrente ideologica “catto-progressista”, in aperta posizione critica nei confronti di Chiesa e Vaticano, oggi molto in auge e gradita nella “camera dei bottoni” della nostra televisione nazionale. Il film è uscito anche nelle sale cinematografiche di tutta Italia ma, privo di un valido lancio pubblicitario (boicottaggio?), ha dovuto ripiegare su un risultato che quantunque buono, è in ogni caso ben lontano da quello che oggettivamente meriterebbe. Tuttavia un sassolino dalla scarpa gli autori se lo sono tolto al recente Festival di Cannes: inserito nella lista dei films in mercato, la pellicola è stata molto apprezzata dalla critica, e acquistata da più di cinquanta circuiti distributivi internazionali. Ma tant’è, ormai lo sappiamo, Cristo stesso lo ha detto: “nemo propheta in patria”; soprattutto chi cerca di seguire e propagandare il Suo messaggio. (Mario Labio, 27 maggio 2007)
“Crimen sollicitationis”: ipocrite, infami e prevenute le accuse contro la Chiesa. Attaccare la Chiesa è prassi comune e consolidata: accusare i suoi Ministri dà la garanzia dello scoop, specialmente quando si fa leva su argomenti morbosi legati al sesso. È quanto deve aver pensato Santoro con la sua trovata di trasmettere sulle reti nazionali il controverso filmato “Sex crimes and Vatican” della BBC sulla presunta secretazione vaticana dei casi di pedofilia da parte di sacerdoti. Una bomba ad orologeria, impossibile da disinnescare, fatta per esplodere comunque: se si trasmette il video, si apre uno scontro con la Chiesa; se non lo si trasmette, parte l’accusa di censura e di connivenza con la Santa Sede. In un caso e nell’altro Santoro e il suo programma “Annozero” potranno contare sull’eco suscitato dalla loro iniziativa. E poi si sa: il Papa e i Prelati non sono inclini allo scontro, non rispondono alla volgarità con la volgarità, non sanno aggredire verbalmente quando vengono provocati. «Provate a fare altrettanto con gli islamici: accusate gli imam, offendete Maometto, se avete il coraggio. Dovrete farvi assegnare una scorta, vivere blindati e prepararvi alla protesta di tutti i fedeli dell’Islam», commenta il Presidente della Catholic Anti-Defamation League, Pietro Siffi, che aggiunge: «Molti Cattolici sono invece abituati a subire passivamente le peggiori offese non solo contro la Chiesa, ma anche contro i Santi e contro Dio, in nome di un frainteso pacifismo buonista, privo di nerbo e di dignità. E questa rassegnazione ad essere derisi, emarginati e annientati non fa che aumentare il disprezzo nei loro confronti, perché lasciano pensare di non credere alla loro Religione». Va rilevato che negli ultimi anni – anche a seguito del moltiplicarsi degli attacchi contro la Chiesa – la Gerarchia ha dimostrato di saper alzare la voce per rivendicare il diritto ad esercitare la propria missione apostolica, senza accettare il bavaglio e la censura imposta dai suoi avversari. Se da una parte lo scontro è sempre civile, perché civili sono coloro che difendono gli insegnamenti di Cristo, dall’altra invece le aggressioni sono violente e volgari; gli argomenti sono falsi, o quantomeno capziosi e pretestuosi; gli interlocutori prevenuti; senza dire degli operatori dell’informazione, troppo spesso solo apparentemente neutrali e quasi sempre palesemente di parte. Ecco allora un Travaglio che gode a dare in pasto all’opinione pubblica elenchi di ecclesiastici indagati in reati di pedofilia – sotto pretesto della libertà di informazione e del diritto di cronaca – in un monologo senza contraddittorio ospitato poco tempo fa ad Annozero, davanti ad un Santoro soddisfatto di poter letteralmente sputtanare la Chiesa di Roma. «Écrasez l’infame», schiacciate l’infame: il grido satanico di Voltaire si coniuga in mille modi, confermando che i fanatici dell’illuminismo settario hanno abili eredi che predicano ipocritamente libertà, fraternità e uguaglianza, escludendone però il Cattolicesimo. «Nessuna libertà per i nemici della libertà»: era un altro motto caro ai rivoluzionari, in nome del quale hanno ghigliottinato migliaia di Cattolici – plebei, nobili, ecclesiastici – per il solo fatto di non voler rinnegare la propria Fede. Oggi si vuole sferrare un altro colpo alla Chiesa, trasmettendo un programma tendenzioso e falso, che si addentra in tecnicismi legali e canonici che difficilmente potranno essere spiegati imparzialmente agli ascoltatori. Avocare alla Santa Sede i processi canonici, lungi dal dimostrare l’impegno contro la piaga della pedofilia – da cui non sono immuni nemmeno i ministri di tutte le altre confessioni – sarebbe prova di omertà e di connivenza. Imporre il segreto d’ufficio, come in qualsiasi processo, è conferma della complicità dei superiori. Quello che importa è che venga recepito il messaggio di fondo: la Religione Cattolica è la sentina di tutti i vizi, di tutte le perversioni. E la tanto decantata presunzione d’innocenza degli imputati non conta più nulla, se l’accusato è un prete e con lui l’istituzione che egli rappresenta. Eppure nessuno accusa il Ministero dell’Istruzione se un maestro molesta un minore; né si processa il Ministero della Sanità se un pediatra abusa di un bambino. Con la Chiesa tutto è lecito, tutto è permesso. Si torna alla gogna, preparando processi di piazza tanto cari ai fautori del qualunquismo anticattolico. E questi improvvisati inquisitori laici senza scrupoli sono gli stessi che si stracciano le vesti ricordando l’epoca della caccia alle streghe e dei roghi: non per deplorarli, ma per avocarli a sé, condannando al rogo mediatico il Papa, il clero, tutti i Cattolici. (CADL onlus, 27 maggio 2007)
Mons. Betori: Il video della BBC sui preti pedofili è pieno di falsità Sta destando molto scalpore in Italia la decisione del Consiglio di Amministrazione della RAI (il servizio radiotelevisivo pubblico) di acquistare un filmato della BBC sulla pedofilia in cui si accusa la Santa Sede e il Pontefice Benedetto XVI, già Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, di aver coperto presunti abusi sessuali commessi da preti. L’acquisto del filmato, mandato in onda dalla televisione britannica il 1° ottobre del 2006 e il cui costo è stato stimato sui 20.000 Euro, è stato richiesto da Michele Santoro, conduttore del programma televisivo “Annozero”. In merito a tale faccenda si è pronunciato il 22 maggio, nel corso della conferenza stampa sulla 57° Assemblea Generale dei Vescovi Italiani in svolgimento a Roma, monsignor Giuseppe Betori, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana, il quale ha spiegato che il video della BBC è pieno di falsità. Monsignor Betori ha precisato che i Vescovi non chiedono “alcuna censura, ma se il documentario dovesse essere trasmesso in Italia vorremmo che ci fosse almeno una chiara presa di distanza da tutte le falsità che questo documentario sembra contenere”, perché è un “documentario che non risponde a verità”. In particolare il Segretario generale della CEI ha rilevato che il filmato “riporta errori grossolani”, accusando per esempio il Cardinale Joseph Ratzinger per l’emanazione da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede di un documento, il “Crimen Sollicitationis”, pubblicato nel 1962. Secondo Betori si tratta di un doppio errore, perché all’epoca “l’attuale Pontefice non guidava quel Dicastero vaticano e non era ancora nemmeno diventato Cardinale”. Joseph Ratzinger fu creato Cardinale da Papa Paolo VI nel Concistoro del 27 giugno 1977, mentre è stato nominato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede nel novembre del 1981. In merito alla notizia secondo la quale la diocesi di Agrigento avrebbe risarcito una vittima di abusi sessuali, il Segretario della CEI ha precisato che la notizia “non è esatta”, ed ha spiegato che in Italia, a differenza dagli Stati Uniti, “non è la diocesi che rimborsa la vittima, è il sacerdote che provvede e in casi del genere, in base alla legge, non riteniamo che ci sia un rapporto tale per cui noi siamo i garanti dei comportamenti personali dei sacerdoti”. In merito alle vittime monsignor Betori ha tenuto a manifestare la massima cura ed attenzione. “Non siamo distanti dalle vittime e dalle loro famiglie – ha affermato il presule –, siamo pronti a prestare la nostra collaborazione con le istituzioni pubbliche, quando si prendono provvedimenti civili o penali, con attenzione, delicatezza e discrezione per le persone coinvolte”, perché ha continuato Betori “a volte le persone finite sotto accusa si rivelano essere innocenti”. (Zenit, 23 maggio 2007)
Santoro ad “alzo zero” contro la Chiesa “La Rai ed il direttore generale Cappon evitino a Santoro l’acquisto del documentario BBC contro il Papa”. Non un semplice invito, ma una chiara indicazione ad evitare che il “servizio pubblico radiotelevisivo diventi un plotone mediatico di esecuzione”. Mario Landolfi, presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai, torna a puntare il dito contro Michele Santoro, ormai sempre più al centro delle polemiche tra politica e tv. Abbandonato il confronto-scontro con il ministro Mastella, a cui proprio questa mattina è stata recapitata una richiesta di risarcimento dall’ex europarlamentare Ds, ora motivo del contendere è la prossima puntata di “Anno Zero”. Una puntata che, se tutto dovesse andare come spera Santoro, dovrebbe essere dedicata all’inchiesta che qualche anno fa mandò in onda la tv inglese BBC riguardo casi di pedofilia che coinvolsero alcuni ecclesiastici negli Usa, in Irlanda e in Brasile. Roba vecchia, su cui tanto la Cei che la Chiesa hanno già avuto modo di rispondere e di archiviare. Ma a preoccupare ci sarebbe l’accusa, sostenuta all’interno del reportage, che punterebbe il dito contro l’allora cardinale Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI, che avrebbe avallato la copertura dello scandalo. Ce ne è quindi per gettare nuova benzina sul fuoco delle polemiche che da mesi già stanno incendiando i rapporti tra politica e Chiesa. E da Palazzo San Macuto, Landolfi cerca di stoppare in anticipo il fermento. Presidente, allora niente reportage per Santoro? Il problema non è questo. Sarebbe troppo riduttivo limitare il tutto alla semplice questione acquistare o non acquistare. Il tema è un altro. Quale? Che si trasformi “Anno Zero” in un plotone mediatico pronto a fare fuoco contro la Chiesa ed il Pontefice. Non è questa la “mission” del Servizio pubblico e non è questo il ruolo che, secondo me, dovrebbe spettare alla Rai. La sinistra parla di censura preventiva… Ma per carità, quale censura. Qua dobbiamo intenderci una volta per tutte. Il pluralismo non è il sesso degli angeli. La Rai non può diventare il luogo dove sfogare le proprie personali inquietudini. Questo non è pluralismo, ma altra cosa. Ma intanto che si fa per giovedì? La decisione spetta alla Rai ed al suo direttore generale Cappon. Il mio invito a non acquistare il video della BBC è legato a ragioni di opportunità, non certo ad una censura preventiva. Mi chiedo, infatti, che senso ha mandare in onda un vecchio reportage di un’inchiesta, per giunta calunniosa e lacunosa. A me pare che ci sia solo uno scopo: quello di puntare la pistola mediatica contro il Papa e la Chiesa tutta. C’è chi pensa che la puntata di giovedì di Santoro sia una “vendetta” contro il Family Day… Sarebbe assurdo. Il Family day è stata una grande manifestazione spontanea di gente che ha voluto riaffermare la centralità della famiglia ed il suo ruolo. Ed anche su questo tema ho dovuto notare che la Rai si è inchinata troppo e in maniera acritica a chi in nome di una presunta modernità vuole semplicemente scardinare i valori più radicati e profondi della nostra civiltà. Presidente, non è la prima volta che interviene per criticare le scelte in ambito Rai… La questione è che da tempo sto notando e denunciando una situazione che ha portato l’Azienda a diventare il cavalcavia preferito per scagliare sassi contro bersagli immobili. Giornalisti, comici e conduttori fanno a gara per dirla più grossa pur di avere facile e soprattutto gratuita pubblicità. Torniamo a Santoro. Prima Berlusconi a cui non dette la replica in diretta. Poi Mastella e la puntata sui gay. Adesso la Chiesa. Come giudica il suo ritorno in Tv? Più che giudicare mi viene da chiedere, e penso che in molti cittadini-contribuenti che pagano il canone se lo chiederanno, ma quando Santoro parla dagli schermi del servizio pubblico, quando lo fa come conduttore e quando come onorevole?. Lei propose tempo fa di non andare da Santoro, ne è ancora convinto? Allora dissi che la Rai aveva il dovere di pretendere da Santoro obiettività e correttezza, ricordandogli che “Anno Zero” è un programma finanziato anche da quei contribuenti elettori dell’opposizione che puntualmente sono irrisi, offesi e calpestati nei suoi servizi pseudogiornalistici. E’ evidente che ancora qualora la sua fosse un’informazione pregiudiziale e livorosa farebbero bene a declinare l’invito a partecipare al suo programma. Purtroppo da quel giorno le cose non mi sembrano molto cambiate. (L’Occidentale, 21 Maggio 2007)
Dico: il 1968, i teodem e il diritto naturale C’è una data importante per capire quanto sta accadendo in tema di “Dico”. Tale data è il 1968 e precisamente la data di pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae, con la quale papa Paolo VI pronunciava un celebre non possumus, riaffermando l’insegnamento tradizionale sull’illiceità di ogni forma di regolazione artificiale delle nascite e ricordava come i due fini del matrimonio, unitivo e procreativo, non possono essere separati come invece vorrebbe la mentalità laicista. Molti studiosi fanno risalire a questa enciclica l’inizio della contestazione del Magistero da parte di alcuni teologi e di una porzione di fedeli cattolici, contestazione che amareggerà il restante periodo di pontificato di Paolo VI e che sarà successivamente oggetto di diversi interventi della Congregazione per la dottrina della fede sotto la guida del card. Joseph Ratzinger. Che cosa viene contestato al Magistero della Chiesa? Perché dal 1968 in poi assumono una visibilità costante nella vita della Chiesa, soprattutto attraverso l’enfatizzazione offerta dai mass media, sia i teologi che contestano il Magistero sia quel cattolicesimo democratico che, nella vita culturale e politica, si oppone a qualsiasi contrapposizione da parte dei cattolici contro le manifestazioni più anticristiane della modernità, e non soltanto nell’ambito della morale sessuale e matrimoniale? Naturalmente il tema meriterebbe una più ampia e meditata riflessione che ci aiuterebbe a capire cosa è successo nella vita della Chiesa italiana negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, quando il Papa, che pur aveva sollevato tanti entusiasmi nel mondo progressista, venne sostanzialmente abbandonato e accusato di avere impedito lo sviluppo profetico del Concilio Vaticano II, tanto che nell’ultimo decennio del pontificato (dal 1968 al 1978) Paolo VI denuncerà costantemente, un numero impressionante di volte, quella che lui stesso aveva definito l’autodemolizione della Chiesa. Tuttavia qualcosa si può accennare anche in poche battute. Una prima considerazione ha per oggetto il diritto naturale, la cui importanza è stata ricordata ancora da papa Benedetto XVI nel discorso alla Pontificia Università Lateranense lunedì 12 febbraio 2007. Come spiega proprio l’Humanae vitae, la Chiesa non insegna soltanto quanto rivelato da Dio attraverso le Sacre Scritture, ma anche quanto riguarda la natura, perché Dio che si è rivelato in Cristo è lo stesso che ha creato l’uomo e il mondo, iscrivendo nella creazione una legge appunto naturale, finalizzata al Bene supremo, che è Dio stesso, e il cui rispetto comporta anche il benessere (lo “stare bene”) della società. Non è così per quei cattolici democratici che nel 1974, in occasione del referendum contro il divorzio, si sono schierati a fianco dei divorzisti incitando pubblicamente a votare no, cioè a mantenere la legge. Non è così per l’attuale ministro Rosy Bindi che, insieme agli altri cattolici democratici, reclama l’autonomia della politica e delle decisioni che i governanti devono prendere (e fa benissimo a rivendicare questa libertà), ma dimentica che la legittima autonomia nelle cose temporali dall’autorità ecclesiastica non significa che il governante cattolico non sia tenuto a rispettare, nelle leggi che promuove, il rispetto del diritto naturale e dunque l’indissolubilità del matrimonio, l’unicità e irripetibilità della famiglia e la sua centralità nella vita sociale. Per cui il ministro non può auspicare, come invece è apparso sui quotidiani del 15 febbraio, che la Chiesa si occupi delle cose di Dio, come se la famiglia, o il simil-matrimonio proposto dai Dico, non sia affare di Dio e della Chiesa. Il problema è che molti intellettuali cattolici hanno perso la nozione di diritto naturale e quindi hanno dimenticato il senso universale, valido per tutti gli uomini, non solo per i cristiani, delle proposte avanzate dalla dottrina della Chiesa su temi come la vita e la famiglia. Complice la “scelta religiosa” – cioè quella forma di disimpegno dalla vita pubblica maturata negli anni Sessanta in contrapposizione all’Azione Cattolica di Luigi Gedda – molti cattolici ritengono oggi di essere i portatori di una scelta di fede opinabile accanto ad altre proposte e non invece di avere il compito di aiutare gli uomini del loro tempo a riconoscere il disegno d’amore di Dio verso ogni persona e verso le nazioni. Un disegno che è l’unico salvifico, anche se la Misericordia divina opera anche al di fuori della Chiesa visibile. Ora, questo disegno di Dio è parzialmente comprensibile dalla ragione umana, almeno quando riguarda la vita e la famiglia. Dunque, il rifiuto dei Dico oggi, così come la battaglia per l’indissolubilità del matrimonio nel 1974, sono battaglie che la Chiesa non può non combattere perché riguardano tutti gli uomini, indipendentemente da quale fede religiosa ciascuno professi. Avendo perduto la consapevolezza del diritto naturale, l’azione pastorale e politica dei cattolici democratici nel ventennio successivo al Concilio è apparsa incerta, perché aveva perduto la certezza di poter offrire una soluzione, parziale ma reale, per tutti gli uomini, anche per quelli che non possedevano la fede. E questa proposta debole, incerta, aveva bisogno di appoggiarsi ad altre forze politiche che agli occhi dei cattolici democratici rappresentavano l’incarnazione della speranza che avevano perduto. Queste forze politiche vennero così sempre ricercate dove i cattolici democratici pensavano che si orientasse inevitabilmente la storia, cioè a sinistra: e la “scelta religiosa” divenne così come un ponte sul quale si transitava sempre e soltanto verso una direzione, andando verso la quale molti abbandonarono la stessa professione di fede. L’«amaro risveglio» del cattolicesimo democratico è cominciato almeno nel 1985, a Loreto, quando papa Giovanni Paolo II incitò i cattolici a essere visibilmente presenti nella vita pubblica delle nazioni moderne. Oggi, quelle parole di un Papa venuto dall’est, sono diventate le parole di una Chiesa, quella italiana, che ha ritrovato una compattezza e una fortezza che sembravano perdute. Speriamo ne prendano atto anche i cattolici democratici. (Marco Invernizzi il Timone, 20 febbraio 2007)
I miti infranti dal Papa in Sud America Il viaggio di Benedetto XVI in Brasile mostra con chiarezza la differenza da quelli che l’hanno preceduto, a cominciare da quello fondamentale di Medellín nel 1968 cui intervenne Paolo VI e che costituì il quadro ecclesiale in cui nacque la teologia della liberazione. Nel documento di Puebla del ‘79 comparve il termine «strutture di peccato», singolare contaminazione tra il linguaggio del marxismo e una parola così significativa per il cattolicesimo come «peccato». Significava che la lotta politica contro il capitalismo americano faceva parte dei compiti ecclesiali. Oltre l’impatto della teologia della liberazione, le dittature di destra che dominavano l’America Latina consentivano alla Chiesa di svolgere la tradizionale funzione di libertà e protezione verso i perseguitati o emarginati dalla repressione autoritaria. Tuttavia, l’impegno politico della Chiesa divenne forte: e la Chiesa brasiliana si pensò costruita sulle Comunità di base, in cui la mancanza del sacerdozio per lo scarso numero dei preti dava rilevanza all’azione dei laici. Questa struttura ecclesiale dava luogo a un’interpretazione che si chiamò di Chiesa popolare contro le strutture capitalistiche e autoritarie. Ciò ha dato però luogo a un fenomeno opposto: la diffusione delle Chiese pentecostali ed evangeliche come guida della spiritualità popolare in un modo semplice. La lettura della scrittura, il canto, il carisma delle guarigioni, la fede nella Provvidenza erano i supporti sui quali, sul modello protestante, si poteva costruire una struttura ecclesiale, in cui l’immediatezza del sentimento religioso tradizionale costituiva il fondamento dell’esistenza cristiana, esigente sul piano morale come la cattolica. Mentre la Chiesa cattolica in Brasile e in America Latina si dedicava alla teologia politica, si produceva in quei Paesi una singolare rinascita cristiana in forma comunitaria, simile a quelle Usa in chiave protestante. Forse il fenomeno era inevitabile, ma certo l’assunzione della teologia politica come opera della Chiesa cattolica aprì lo spazio a queste nuove forme che hanno sottratto milioni di fedeli alla Chiesa di Roma. La teologia della liberazione finisce in Chávez e nell’indigenismo dei governi di Ecuador e Bolivia, ma è presente ovunque venga contestata la stessa radice della Chiesa in Sud America attorno alla conquista spagnola e all’ispanizzazione o portoghesizzazione delle culture indigene. Benedetto XVI s’è trovato in Brasile di fronte al successo della predicazione spirituale, morale, tradizionale, fatta in chiave protestante e di fronte all’ultimo risultato d’una teologia della liberazione che è giunta nell’indigenismo alla liberazione più radicale: quella della colonizzazione ispano-portoghese fatta con la conquista territoriale. Di fronte a questa realtà, Benedetto ha espresso il suo messaggio spirituale. Ha demitizzato i termini di «strutture» come indicatori di realtà esteriori sia capitalistiche che marxistiche, facendo di queste ultime oggetto della specifica condanna e dichiarando che quello che il Cristianesimo annuncia si trova prima e oltre le strutture, incapaci in quanto strutture di contenere la radicalità dello spirito e della vita. Egli ha parlato alla Chiesa brasiliana come se ciò che era intercorso tra Medellín del ‘68 ed Aparecide del 2007 fosse un periodo ormai chiuso e un terreno che non dava più frutti. Si vedrà nella conferenza di Aparecide come la Chiesa brasiliana risponderà a questo riassestamento sulle basi più proprie della tradizione cattolica. (Gianni Baget Bozzo, La Stampa, 28 maggio 2007)
Emergenza famiglia: sulle terapie l’accordo è difficile Al Palacongressi di Firenze per la prima volta in tremila discutono assieme della famiglia italiana, e di questo va dato atto al ministro Bindi. Ma, di quale famiglia? La questione emerge subito alla tavola rotonda fra i responsabili per la Famiglia dei vari partiti. Si tirano gli articoli della Costituzione di qui e di là, per dimostrare la prevalenza dei diritti individuali oppure della famiglia. Il sottosegretario Chiara Acciarini, in rappresentanza del governo, esordisce dicendo che occorre occuparsi della realtà del paese, così com’è. E com’è? «Le coppie con figli - sostiene lei - sono ormai in minoranza, al 43 % delle tipologie familiari». Dalle statistiche risulta che le coppie con figli sono il 41% del totale, contro il 21 di quelle senza figli e contro il 26% di famiglie con un solo componente, soprattutto anziani, ma anche singles “convinti”. Quindi, è proprio corretto parlare delle famiglie con i figli come minoranza? Mah. Eppure questa singolare prospettiva sul “paese reale” alligna tra le pieghe della Conferenza. Quando la senatrice Burani Procaccini, FI, afferma che piazza San Giovanni rappresentava una Italia in attesa di risposte, si avverte in sala qualche brusio, e una percepibile freddezza. Non piace troppo, ricordare quella piazza in un parterre notevolmente filogovernativo. Poi la Acciarini, confluita in Sinistra democratica dai Ds, sottolinea che a questa conferenza dovevano essere invitati i rappresentanti delle unioni gay. «Quale famiglia, dunque?». L’onorevole Pedrizzi, An, domanda: ma io, con quale governo sto parlando? L’onorevole Bassoli, Ds, riconosce che la famiglia in Italia «è un istituto molto forte». È già un punto di partenza, in questa politica, e soprattutto in questa maggioranza. Detto questo, quali sono le scelte prioritarie? E qui la prima grande divergenza è sulle politiche fiscali per la famiglia. Per Rossi Gasparrini (Udeur), Santolini (Udc), Bobba (Margherita), Pedrizzi (An), Martini (Lega) e Burani Procaccini (FI) la via è il qu oziente familiare, nell’ottica di stabilire una equità orizzontale, per cui l’avere figli a carico non sia una penalizzazione. A sinistra si diffida dal quoziente - benchè la Bindi si sia detta disposta a un confronto - temendo che finisca col privilegiare le classi benestanti. La Santolini, già presidente del Forum delle famiglie, pone una questione di principio: i soldi spesi per allevare figli non devono essere tassabili. Bobba snocciola una cifra: le detrazioni per carichi fiscali costano allo Stato 11,6 miliardi di euro; in Francia, per il Qf si spendono 12,5 miliardi. Dunque, dice, il Qf non è più oneroso. Altro punto, la conciliazione del lavoro con la famiglia, part time, congedi familiari, nidi. Questione che registra un ampio consenso, anche se Rossi Gasparrini solleva una questione non secondaria: la presenza in Italia di otto milioni di casalinghe che reggono le famiglie, e di cui malgrado tutto, a Firenze quasi non si parla. E dunque il riconoscimento del lavoro domestico, ma anche la introduzione di una ipotesi sommersa a Firenze dall’imperativo «più donne, più occupazione», le donne “devono” lavorare: la politica deve stabilire che le donne “devono” andare in ufficio, o metterle nella possibilità di scegliere liberamente? In Germania i bonus per i figli sono dati direttamente alle famiglie. A loro organizzarsi, se affidare i bambini al nido o tenerli a casa. Ma l’ipotesi che una donna possa anche scegliere di stare con i figli non piace a Chiara Acciarini: «Il restare a casa delle donne, è un buttare via una risorsa». Dedicarsi ai figli? Uno sprecarsi. Una risposta che fa sussultare, pure nella stanchezza dell’aula semivuota, all’una di notte. Una cosa sembra farsi strada a Firenze, con fatica: l’idea che la crisi della struttura famiglia non è un problema dei cattolici. C’è condivisione ampia sul fatto che le politiche familiari debbano essere la priorità economica, anche se non si capisce bene con quali risorse reali possa essere sostenuta. Pedr izzi fa notare che applicare i primi articoli della legge 194 costerebbe poco, e aiuterebbe dei bambini a venire al mondo. Luisa Santolini dice che nella presunta “alleanza” che si vorrebbe creare per la famiglia, mancano per ora i “poteri forti”: Confindustria, sindacati, Confcommercio. E che senza questa alleanza non si va lontano. In effetti, a fronte delle cifre illustrate ieri dai demografi, la serietà dei problemi sembra più grave di quella percepita da parte della politica. Bobba ha perfino un dubbio: che sia già troppo tardi, per rimediare al tempo perduto: «Però - esorta - proviamoci, se siamo davvero convinti che la famiglia sia la struttura fondamentale per continuare a sperare». (Marina Corradi, Avvenire, 27 maggio 2007)
Dimmi che ora è e ti dirò in cosa credi Misurare il tempo, una pratica umana dalla notte dei tempi. E se oggi si perfezionano gli strumenti tecnici di precisione, restano insoluti nodi significativi come il senso del tempo e la ricerca di un’ora “globale” per tutto il pianeta. A sottolinearlo è lo studioso Stefano Soprana, uno dei massimi esperti di orologeria in Italia, che domani aprirà il terzo Festival biblico di Vicenza - dedicato a I tempi delle Scritture - con una conferenza su La lettura delle ore nella Bibbia, in programma alle 17 al Museo civico del capoluogo veneto. Come viene misurato il tempo nella Bibbia? «Con la “tecnologia” del sole: ecco la “luce” e le “tenebre” della Genesi, il famoso “e fu sera e fu mattina”. L’Antico Testamento assume la modalità di misurazione elaborata dai Babilonesi, che erano i più grandi matematici del tempo. Gli scienziati della Mesopotamia avevano diviso la giornata in 24 ore: la prima iniziava al sorgere del sole». La Bibbia assegna un valore religioso a questa scansione? «Sì, vi è un significato teologico per il quale la prima ora del mondo è quella del giorno, cioè della luce, contrapposta alle tenebre: l’alba è il luogo di Dio. Fu poi soprattutto il medioevo a riprendere in senso spirituale questo passaggio». Quali altre influenze culturali vi sono nella Bibbia per determinare il tempo? «Di matrice egiziana non c’è praticamente nulla, mentre con l’epoca romana si passa ad un nuovo ordine: ne sono testimonianza i riferimenti evangelici della crocifissione di Cristo (l’ora terza, sesta, nona), così come la parabola dei vignaioli, quando si parla dell’ora “ultima”, che corrisponde a quella prima del tramonto. I Romani dividevano la notte in veglie e il giorno in 12 ore, che non erano di 60 minuti bensì variavano ad ogni stagione: 45 minuti per l’inverno, 75 per l’estate». Cosa c’è di specificamente ebraico nella scansione del tempo nella Bibbia? «La celebrazione delle feste, legate alla luna, elemento astronomico che incide fortemente sul raccol to dei campi e, quindi, ha un rapporto diretto con il sostentamento della gente. Anche i musulmani celebrano le loro feste guardando alla luna, che è il simbolo della loro religione». In che modo un credo religioso incide nella misurazione del tempo di una cultura? «L’influenza è totale: le religioni, nell’elaborare le loro dottrine sulla creazione, codificano il tempo con determinate costruzioni astronomiche: gli Incas hanno la loro, i Romani pure, gli Ebrei rielaborano quella mesopotamica. Oggi non misuriamo più il tempo guardando gli astri: perché? Il grande passaggio avviene con il pendolo di Galileo: fino ad allora non c’era la precisione, il tempo era determinato dalla coppia luce/buio, mentre con l’introduzione del pendolo succede qualcosa di impensato: si arriva alla costruzione dell’ora precisa con l’equazione del tempo. I primi ad applicarla sono gli orologiai che così fanno nascere il commercio: sono i marinai inglesi, olandesi e francesi, che si dirigono verso l’America scoperta da poco, i primi a prendere come punto di riferimento il pendolo e non più gli astri. Con la misurazione del tempo in senso tecnologico le assicurazioni possono calcolare i periodi precisi di partenza e arrivo delle navi dirette verso il Nuovo Mondo, sorgono le assicurazioni sulle marci trasportate, insomma la tecnologia diventa più importante dell’astronomia: nasce il capitalismo. In seguito con il meridiano fisso - stabilito a fine ‘800 - si arriva alla nascita dei treni. Ai nostri giorni, sulla spinta delle necessità dei mercati finanziari globalizzati, siamo alla ricerca di quella che viene chiamata “l’ora globale”. E non è detto che non ci si arrivi». In cosa consisterebbe questa “ora globale”? «Un’ora fissa e indicativa per tutti, ad ogni latitudine e longitudine. Oramai, con la facilità di comunicazione che abbiamo, verrà superato il fatto che mentre a Tokyo si sta per chiudere la Borsa, a Londra gli uffici siano ancora chiusi. Il tempo e la sua misurazione hanno sempre seguito l’evolversi della condizione umana». Ora però si rischia di cancellare le campane dall’habitat dell’uomo moderno. «Una volta il tempo era scandito dal suono, oggi dalla visione: prima si sentivano le campane, adesso si guarda il cellulare. Un tempo la campagna dava il ritmo della giornata, oggi dà fastidio. E pensare che, tra i tanti rumori che abbiamo in una città, le campane è quello che preferisco!». Nella nostra società si rischia di perdere il tempo come dono? «Dovremmo mantenere un ritmo da creature, e non da prodotti tecnologici. E, comunque, il significato del tempo resta invariato: le domande sul prima e il dopo, che sono interrogativi religiosi, restano sempre davanti a noi». (Lorenzo Fazzini, Avvenire, 26 maggio 2007)
Pio XII: Tornielli, mai distrutto discorso Una “bufala”. Così Andrea Tornielli, biografo di Pio XII, definisce all’Agi le “rivelazioni” secondo le quali l’allora card. Eugenio Pacelli avrebbe distrutto il discorso ai vescovi italiani, per il decennale dei Patti Lateranensi, il 10 febbraio 1939, che Pio XI, al secolo Achille Ratti, scrisse di suo pugno, ma non riuscì mai a pronunciare a causa della morte sopraggiunta poche ore prima della lettura di questo testo che, precisa il biografo, “oggi viene frettolosamente classificato come ‘anti- nazista’, mentre si riferiva piuttosto al fascismo essendo diretto alla Chiesa Italiana”. In qualità di segretario di Stato, spiega Tornielli, Pacelli aveva collaborato alla stesura del discorso, del quale, come risulta dalle carte, aveva apportato minime correzioni. La morte del Papa ne impedì la pubblicazione e, come Camerlengo, a norma del diritto canonico Pacelli non poteva autorizzarla. Anche Giovanni Paolo II ha lasciato numerosi discorsi già pronti, ma questo non consente di attribuirglieli in quanto non li ha poi pronunciati. “Il fatto che quel discorso di Pio XI non lo abbia distrutto - continua Tornielli - risulta evidente: è infatti riportato nel volume di Emma Fattorini ‘Pio XI, Hitler e Mussolini’, le cui anticipazioni alimentano oggi queste nuove infondate accuse alla memoria di Pio XII”. Per un’agenzia di stampa e un Tg queste anticipazioni avvalorano anche la bizzarra ipotesi che Pio XI sia stato avvelenato proprio per impedirgli di pronunciare il discoroso. “Fatemi sopravvivere fino al discorso”, avrebbe infatti implorato i medici Pio XI, e questo autorizza a parlare di omicidio. Gli assassini si sarebbero affidati, e qui si sconfina ancora di più nella fanta-storia, “al dottor Francesco Petacci, padre dell’amante del Duce, chiamato, si vociferò, a occultare un avvelenamento organizzato dai fascisti. Ma l’ipotesi delittuosa - ammettono le stesse fonti - non ha mai superato lo stadio di diceria”. Sui presunti dissensi in tema di politica tedesca fra Papa Ratti e il cardinale Pacelli, è intervenuto recentemente anche il Prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, padre Sergio Pagano, ricordando che “la spasmodica attesa dei documenti del nunzio Pacelli a Monaco e a Berlino, che sembravano dovessero rivelare chissà quali retroscena, produsse sulle prime curiosità da parte di taluni ricercatori, ma poi, visto che carte eclatanti e sconvolgenti non apparivano, la curiosità lasciò il posto se non al disinteresse, almeno alla disattenzione. Secondo padre Pagano, “vi sono infatti studiosi, per chiamarli così, che alle indagini lunghe e minuziose e all’attenzione per le sfumature dei documenti, preferiscono giudizi generali, che nel caso dei Papi e della Chiesa cattolica divengono subito estremi: nero o bianco, assoluzione o condanna. Ma l’attività dei Pontefici, della Santa Sede e la realtà della Chiesa non sono realtà monolitiche, o soltanto piramidali”. (AGI, 27 maggio 2007)
Ultimo appello: salvate il cristiano dell’Iraq Nella guerra che insanguina l’Iraq, combattuta principalmente da gruppi musulmani contro altri musulmani e gli “infedeli”, i cristiani iracheni sono gli unici che non utilizzano né armi né bombe, nemmeno per difendersi. Non esistono in Iraq milizie cristiane armate. Di fatto essi sono il gruppo più vulnerabile e perseguitato. Nel 2000 erano più di un milione e mezzo, il 3 per cento della popolazione. Oggi si stima che siano rimasti in meno di 500 mila. In un comunicato ufficiale diffuso il 24 maggio, il governo iracheno ha promesso protezione alle famiglie cristiane minacciate e cacciate da gruppi terroristici islamici. Anche alcuni esponenti musulmani hanno espresso solidarietà. Il passo del governo – privo però di iniziative concrete – fa seguito al drammatico appello lanciato domenica 6 maggio da Emmanuel III Delly, patriarca dei caldei, la più cospicua comunità cattolica irachena, nell’omelia della messa celebrata nella chiesa di Mar Qardagh, ad Erbil, nel Kurdistan. La regione curda, a settentrione di Baghdad, è la sola in Iraq dove oggi i cristiani vivono in relativa sicurezza. Ad Erbil è stato trasferito il seminario caldeo di Baghdad, il Babel College con la biblioteca, i cui edifici, nella capitale, sono divenuti piazzaforte delle truppe americane, nonostante le proteste del patriarcato. Nelle città curde di Erbil, Zahu, Dahuk, Sulaymaniya, Ahmadiya e nei villaggi cristiani del circondario affluiscono i profughi cristiani dal centro e dal sud del paese. Poco più a nord, però, nella regione di Mosul e nella piana di Ninive, il pericolo si fa di nuovo palpabile. Qui è la culla storica del cristianesimo in Iraq. Vi sono chiese e monasteri che risalgono ai primissimi secoli. In alcuni villaggi si parla ancora un dialetto aramaico chiamato sureth e nelle liturgie si usa l’aramaico, che era la lingua di Gesù. Sono presenti comunità di vari riti e dottrine: caldei, siro-cattolici, siro-ortodossi, assiri d’Oriente, armeni cattolici e ortodossi, greco-melchiti. I villaggi cristiani sono però circondati da popolazioni musulmane ostili. E ancor più pericolosa è la vita dei cristiani nella capitale della regione, Mosul. I sequestri di persona sono frequentissimi. Il rilascio avviene dopo che i famigliari hanno versato una somma tra i 10 e i 20 mila dollari, oppure hanno accettato di cedere le loro case e lasciare la città. Ma il sequestro può anche finire nel sangue. Nel settembre del 2006, dopo il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, un gruppo denominato “Leoni dell’islam” sequestrò padre Paulos Iskandar, siro-ortodosso. I rapitori pretesero che trenta fogli di scuse per le offese arrecate all’islam fossero affissi sulle chiese di Mosul. Poi lo decapitarono. Lo stesso giorno, a Baghdad, fu ucciso un altro sacerdote, padre Joseph Petros. Disse una suora all’agenzia vaticana Fides: “Gli imam nelle moschee predicano che uccidere un cristiano non è reato. È una caccia all’uomo”. Pascale Warda, una cristiana assira, ministro dell’immigrazione nel penultimo governo iracheno, crede che sia necessario creare una provincia autonoma nella piana di Ninive, una specie di area protetta non solo per i cristiani ma anche per altre minoranze religiose come gli yazidi, cultori di un’antichissima religione prezoroastriana. Ma l’intensificarsi delle aggressioni da parte di musulmani che vivono nella stessa regione rende l’ipotesi impraticabile. Lo scorso aprile, 22 yazidi sono stati fatti scendere da un bus e uccisi su una strada vicino a Mosul. Nel 2005, un assalto terrorista massacrò i quattro assiri che scortavano la ministro. A Mosul gruppi islamici hanno cominciato ad esigere dai cristiani il pagamento di una tassa, la jiza, il tributo storicamente imposto dai musulmani ai loro sudditi cristiani, ebrei e sabei che accettavano di vivere in regime di sottomissione, come “dhimmi”. Ma è soprattutto a Baghdad che la jiza è imposta ai cristiani in modo sempre più generalizzato. Nel quartiere di Dora, 10 chilometri a sud-ovest della capitale, ad alta concentrazione di cristiani, gruppi legati ad al Qaeda hanno instaurato un sedicente “Stato islamico nell’Iraq” e riscuotono sistematicamente la tassa, fissata tra i 150 e i 200 dollari l’anno, l’equivalente del costo vita di un mese per una famiglia di sei persone. L’esazione del tributo si sta estendendo ad altri quartieri di Baghdad, verso al-Baya’a e al-Thurat. Ad alcune famiglie cristiane di Dora è stato detto che possono restare solo se danno in sposa una figlia a un musulmano, in vista di una progressiva conversione all’islam dell’intera famiglia. Una fatwa vieta di portare al collo la croce. Quanto alle chiese, avvertimenti a colpi di granata hanno imposto di togliere le croci dalle cupole e dalle facciate. A metà maggio, la chiesa assira di San Giorgio è stata data alle fiamme. Sette sacerdoti sono stati finora sequestrati nella capitale. L’ultimo, nella seconda metà di maggio, è stato padre Nawzat Hanna, cattolico caldeo. Secondo una stima del governo iracheno, la metà dei cristiani hanno lasciato Baghdad e i tre quarti se ne sono andati via da Bassora e dal sud. Chi non si ferma nel Kurdistan se ne va all’estero. Si calcola che in Siria vi siano fino a 700 mila cristiani arrivati dall’Iraq, altrettanti in Giordania, 80 mila in Egitto, 40 mila in Libano. I più restano lì bloccati, senza assistenza né diritti, in attesa di un improbabile visto per l’Europa, l’Australia, le Americhe. In Iraq i cristiani sono tradizionalmente presenti nelle professioni. Molti sono medici e ingegneri. Nelle scuole sono – erano – il 20 per cento degli insegnanti. Sono attivi nei settori informatico, edilizio, alberghiero, agricolo specializzato. Gestiscono radio e tv. Fanno i traduttori e gli interpreti, professione particolarmente vulnerabile che ha già contato trecento vittime. La costituzione irachena stabilisce per tutte le religioni una parità di diritti che non ha eguali nelle legislazioni degli altri paesi arabi e musulmani. Ma la realtà è opposta. Ha scritto la rivista di geopolitica “Limes” in un servizio sul suo ultimo numero, il terzo del 2007: “L’annientamento del piccolo grande popolo cristiano iracheno, erede della speranza dei profeti, corrisponderebbe alla fine della possibilità che il nuovo Iraq diventi una nazione libera e democratica”. E sarebbe una drammatica sconfitta anche per la Chiesa. (Sandro Magister, www.chiesa, 28 maggio 2007)
Lo scandalo della disobbedienza Politici che si dichiarano credenti sfidano apertamente gli insegnamenti della Chiesa sulla famiglia. La rivista “Il Timone” ha chiesto a Monsignor Alessandro Maggiolini di spiegare le ragioni di questo scandalo. Per il battagliero vescovo emerito di Como non ci sono dubbi: mancanza di fede e carenza di dottrina. Monsignor Maggiolini, indispettita dalla polemica sul “Dico” e sulle coppie di fatto il ministro Rosy Bindi ha intimato alla Chiesa di tacere sulle cose del mondo e di limitarsi a “parlare di Dio”. Che cosa le risponde? «Il problema della povertà, la struttura della famiglia, l’educazione dei figli, la giustizia del salari, l’adeguamento delle pensioni, il trattamento dei contratti di lavoro, la questione della sanità, il TFR, e tante altre questioni sono cose del mondo, e dunque la Chiesa deve tacerne? Strano. Proprio coloro che stimolano la Chiesa ad assumere le proprie responsabilità storiche, all’improvviso diventano spiritualisti come monaci cistercensi, quando la comunità cristiana non risponde ai desideri o alle pretese di chi si impegna in un sociale che spesso è giustizia, ma spesso è anche impossibilità di attuare do che si chiede. Così la Chiesa diventa — a volta a volta — sindacato, azienda, partito, governo e cose simili. Insomma, che cosa si sta chiedendo alla Chiesa? E Cristo l’ha fondata e la sostiene come una ditta dove la salvezza dal peccato e la vita di grazia non c’entrano proprio nulla? Il ministro Rosy Bindi non si è mai interrogato sulla natura e sulla finalità della Chiesa fondata e ideata e attuata dal Signore Gesù? Al Battesimo va sostituito una tessera di struttura politica o sindacale? E allora, che ci stanno a fare la politica e o sindacati? “Andate, predicate il Vangelo a ogni creatura ecc”. Il dibattito di questi mesi intorno ai “Pacs” e ai “Dico” ha mostrato un fatto indiscutibile: la Chiesa proclama una parola chiara sulla famiglia e sulle leggi che la riguardano, e politici eminenti che si dichiarano cattolici dissentono apertamente dal Magistero. Come è possibile tutto ciò? «La disobbedienza alla Chiesa può avvenire secondo diversi gradi. Ci può essere il rifiuto di verità di fede, e si ha l’eresia, peccato il quale esclude dalla comunità cristiana. Ci può essere l’opposizione alla norma morale — teorica o pratica — e si ha il peccato o lo scisma, vale a dire, ancora una volta la separazione dalla fraternità cristiana. Ci può essere la disobbedienza che riguarda non il Credo o il Decalogo in senso stretto, ma indicazioni date dalla Chiesa perché la comunità cristiana sia unita al Signore Gesù, tra fratelli e capace di testimoniare il Vangelo. In questo terzo caso si ha una opposizione alla Chiesa che si esprime nella gerarchia e che è chiamata a essere unita il più possibile nel mistero di Cristo e della Trinità. Anche qui vi può essere peccato grave, quando la disobbedienza concerne fatti gravi come il caso di matrimoni che si dichiarano religiosi, ma non sono nemmeno matrimoni civili. Circa i “pacs” e i “dico”, la Chiesa ha proclamato una cosa chiara sulla famiglia e sulle leggi che la riguardano. Politici the amano essere dichiarati eminenti dissentono dal Magistero, magari dichiarando che sono “cristiani adulti”, come se la Chiesa madre del credenti fosse una bamberottola che può essere trascurata o snobbata a piacere; mentre essa è la Sposa di Cristo e il luogo dello Spirito Santo. Questa opposizione o trascuratezza nei confronti della Chiesa dipende, tutto sommato, da un affievolimento della fede. La gerarchia sarebbe chiamata a obbedire e un certo laicato supponente si sentirebbe in diritto di comandare alla santa madre Chiesa. È troppo richiamare il fatto che la comunità ecclesiale contiene ed è animata dal Signore Gesù nel cui nome parla e insegna?». L’aspetto più sconcertante è che i politici “disobbedienti” non sono dei contestatori della prima ora, delle schegge impazzite, ma persone nate e cresciute nel seno di istituzioni ecclesiali riconosciute e accreditate: sono uomini e donne formate nell’Azione Cattolica, nelle Acli, nella Caritas, nelle parrocchie, negli oratori. Luoghi che magari continuano a frequentare con convinzione. Come spiega questa contraddizione? «Non basta avere tessere e distintivi per dichiararsi cattolici. Non bisognerà fare di ogni erba un fascio. Ma gradatamente ci si può mettere contro la Chiesa quasi senza accorgersene, se ci si illude che la Chiesa è nostra figlia e non nostra madre». La fede è una cosa, l’impegno politico un altro: come rispondere a chi si nasconde dietro questo “divorzio” della coscienza? «L’impegno politico include poco o tanto sempre una legge morale “naturale” che è assunta, perfezionata e trasfigurata dalla fede. Il divorzio tra fede e impegno politico è un modo come un altro per non credere più, magari giustificando la separazione con pezzulli di Vangelo staccati dal contesto e non interpretati dalla Chiesa». Un certo tipo di cattolicesimo — che si è autodefinito “cattolicesimo democratico” — oggi sostiene che il compito della democrazia non è quello di affermare una verità e un bene sull’uomo, ma di limitarsi a raggiungere una sintesi, una mediazione. In questo modo ci si condanna a una concezione formale della democrazia, nella quale qualsiasi contenuto può diventare legge dello Stato. Può spiegare come e perché questo modo di pensare è lontano anni luce dal Magistero millenario della Chiesa? «A furia di ripetere formule vuote, non ci si rende più conto che si tratta di formule vuote. Che cosa significa “mediazione” se si vuole unire il niente con il niente? Se la fede ha un contenuto e la legge morale ha un contenuto, occorre fare sintesi di queste norme che dicono la verità e praticano il bene. Diversamente, la democrazia diviene anarchia e l’insegnamento ecclesiale diventa invenzione che cambia col cambiare del giorno o del clima». Divorzio, aborto, fecondazione artificiale, coppie di fatto: una catena degli orrori alla quale diversi politici cattolici in tempi differenti non hanno saputo o voluto opporsi: perché? «Perché non erano più cattolici. E la china verso la profanazione dell’uomo non è finita. Non c’è fondo all’obbrobrio del male. E lo si può raggiungere quasi insensibilmente». Monsignor Maggiolini, lei è stato per molti anni uno dei più combattivi e appassionati pastori dell’episcopato italiano, denunciando certe derive interne al mondo cattolico. Sapendo della sua abituale sincerità, il Timone le chiede: dove ritiene si sia sbagliato in questi decenni di pastorale? Dove occorre invertire la rotta? «Occorre ricuperare una fede dolce e solida. A costo di essere messi al bando e di essere irrisi. Si impone un ritorno al catechismo e alla preghiera. In quarant’anni dal Concilio non si è trasmesso quasi nulla della dottrina cristiana. Tale dottrina, poi, deve diventare contemplazione. In questi decenni la pastorale è consistita quasi totalmente nel rendere i credenti simili agli atei o quasi. Occorre fare una proposta cristiana dolce e decisa, riacquistando il senso del perdono di Dio nella Confessione che permette sempre di ricominciare da capo». Ricorda «Nello scoprire e nel vivere la propria vocazione e missione, i fedeli laici devono essere formati a quell’unità di cui è segnato il loro stesso essere di membri della Chiesa e di cittadini della società umana. Nella loro esistenza non possono esserci due vite parallele: da una parte, la vita cosiddetta «spirituale», con i suoi valori e con le sue esigenze; e dall’altra, la vita cosiddetta «secolare», ossia la vita di famiglia, di lavoro, dei rapporti sociali, dell’impegno politico e della cultura».(Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Christifideles laici, n. 59). (Mario Palmaro, © il Timone, n. 62, aprile 2007)
Il successo del Family day non confonda i cattolici Il gran successo numerico del Family day può essere pericoloso per la Chiesa? Innanzitutto mi rallegro che i miei timori di flop si siano dimostrati infondati. Un popolo saggio e generoso, disprezzato dalle élite, dai salotti e sempre censurato dai media, ha fatto sentire la sua voce. È un gran bene per la nostra Italia e per il suo futuro civile (anche per la sua sopravvivenza demografica). Ma non è una guerra fra guelfi e ghibellini, fra laici e cattolici. La “guerra dei Dico” è innanzitutto una guerra fra cattolici, una drammatica spaccatura ecclesiale che cova sotto la cenere da tre decenni. Infatti il testo dei Dico è stato partorito dall’interno del mondo cattolico, non dai Radicali di Pannella. È stato costruito da due personalità che vengono dall’establishment “cattolico democratico”, quello più protetto e sponsorizzato dai vescovi italiani: l’Azione Cattolica e la Fuci (mentre i movimenti che il 12 maggio hanno riempito piazza San Giovanni per anni sono stati presi letteralmente a calci dai vescovi italiani). Mi spiego. A firmare i Dico per il governo del dossettiano Romano Prodi - è quella Rosy Bindi che viene dalla presidenza dell’Azione Cattolica Italiana, una che è entrata in politica nella Dc proprio come “rappresentante” del mondo cattolico e fiduciaria dei vescovi. E l’estensore materiale della legge è Stefano Ceccanti, oggi capo dell’Ufficio legislativo del ministero per i Diritti e per le Pari opportunità, ma ieri presidente della Fuci, la “fucina” dell’establishment “cattolico democratico”. Non solo. Proprio Ceccanti ha svelato che l’articolato dei Dico si ispira al cardinal Martini. Testuale: «Il cardinale Carlo Maria Martini, in un bellissimo discorso pronunciato alla vigilia di Sant’Ambrogio del 2000 diceva che sulle coppie di fatto “l’autorità pubblica può adottare un approccio pragmatico e deve testimoniare una sensibilità solidarista”. E concludeva: “Al vertice delle nostre preoccupazioni non deve esserci il proposito di penalizzare le unioni di fatto, ma sostenere le famiglie in senso proprio”. Questi sono i canoni di Martini che di fatto andiamo a proporre» (La Stampa, 11.12.2006). Il virus modernista Infatti quando il Papa ha “demolito” i Dico con l’Esortazione apostolica che richiamava i politici cattolici a «non votare leggi contro natura», il cardinal Martini, tre giorni dopo, ha tuonato pubblicamente quasi da Antipapa: «La Chiesa non dia ordini dall’alto». Martini è solo la punta di un iceberg. Il “modernismo” progressista è un virus che dilaga nella Chiesa dal Concilio. Già Paolo VI, nel 1977, confidò a Jean Guitton: «Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non-cattolico e può avvenire che questo pensiero non-cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa». In effetti il modernismo è diventato predominante nelle facoltà teologiche, nei seminari e negli episcopati, compreso quello italiano che però è stato di fatto «commissariato» da Giovanni Paolo II e da Bene- detto XVI attraverso Camillo Ruini e oggi monsignor Bagnasco. Per questo, in battaglie come quella del Family Day, la maggior parte dei vescovi (che hanno votato Ulivo) sono stati inerti e ostili. Resta da capire se per la Chiesa ha senso, mentre si indebolisce la fede vissuta e la dottrina ortodossa, proiettare in battaglie culturali e politiche esterne (contro i “laicisti”) quel raddrizzamento della fede cattolica che non si osa operare per via diretta, come fece san Pio X condannando la teologia modernista. Cercando infatti un’influenza culturale e politica sui costumi, si rischia di finire in quello che Romano Amerio chiamava «cristianesimo secondario, l’errore germogliato nel XIX secolo», per il quale «si considerò il Cristianesimo come il sistema supremo dei valori umani». Osserva Amerio che «la Chiesa è per sé santificatrice e non incivilitrice e la sua azione ha per oggetto immediato la persona e non la società». La frase più drammatica di Gesù nel Vangelo non è quella dove annuncia odio e persecuzioni dal mondo, ma quella dove si chiede: «Quando il Figlio dell’Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra?». Cioè il vero problema non riguarda “i laicisti”, ma la Chiesa stessa: è la fede. In un’altra circostanza Gesù pose questa domanda: «Che vale all’uomo conquistare il mondo intero se poi perde se stesso?». Che vale alla Chiesa guadagnare influenza culturale e politica se poi rischia di perdere se stessa? Mi spiego con tre esempi recenti. Il 12 maggio, per il Family Day, l’Avvenire, giornale dei vescovi italiani, esce con un editoriale intitolato: «Dedicato a chi non ci sarà». E c’è un passo che lascia allibiti: «Il pensiero va pure alle persone omosessuali che, in coppia, cercano di amarsi in un rapporto che vogliono stabile. La loro non è una famiglia, ma è comunque un rapporto degno di rispetto che nessuno può irridere o minimizzare. Le famiglie pensano a loro e non dimenticano il monito a non giudicare, ma amare». Qui si fa una certa confusione. È sacrosanto infatti affermare il diritto delle persone omosessuali a non essere disprezzate e discriminate, ci mancherebbe. Anche il “Catechismo della Chiesa Cattolica” insegna che costoro «devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviti ogni marchio di ingiusta discriminazione». Lo stesso Catechismo spiega che la tendenza omosessuale in sé non è peccato, ma - attenzione - afferma pure che «gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati», «sono contrari alla legge naturale» e «in nessun caso possono essere approvati». L’editoriale del giornale dei vescovi parla delle «coppie omosessuali» omettendo di ricordare il giudizio morale della Chiesa sui rapporti omosessuali e dando ad intendere che - purché non si definiscano “famiglia” - quello «è comunque un rapporto degno di rispetto». In realtà, per la dottrina cattolica sono le persone ad essere degne di rispetto, le relazioni omosessuali invece sono qualificate come «gravi depravazioni». È curioso: per Avvenire sembra più importante negare il titolo di famiglia alle unioni omosessuali (cosa che in realtà riguarda l’ordine civile), che negarne l’accettabilità morale (che riguarda la dottrina della Chiesa ed è ben più importante per i cristiani). Egualmente equivoco è l’editoriale di ieri dell’Avvenire sull’ «omofobia». “Non possumus” Secondo esempio. Il Papa, in viaggio per il Brasile, dichiara che l’arcivescovo di Città del Messico, il quale ha evocato la scomunica per i politici che legalizzano l’aborto, ha agito secondo il Codice di diritto canonico. Giuliano Ferrara, entusiasta, ha giustamente elogiato Benedetto XVI che «difende il diritto della Chiesa a essere quel che è». Solo che poche ore dopo il Papa è stato smentito dal direttore della Sala Stampa vaticana e dallo stesso cardinale messicano il quale asserisce che non ha mai minacciato la scomunica (contraddicendosi perché richiama il Codice di diritto canonico che proprio di scomunica si occupa). Pare un drammatico “vorrei, ma non posso”. Non va infine dimenticato che da mesi il Papa ha pronto il “motu proprio” per ridare libertà di celebrare la messa secondo l’antico rito tridentino, ma “non può” firmarlo perché interi episcopati (che hanno le chiese deserte, i seminari vuoti e spesso liturgie incredibili) minacciano addirittura lo scisma. Una ribellione oscena e apocalittica. Con una situazione della Chiesa così drammatica, il successo del Family Day non deve indurre nell’errore del trionfalismo. Colse nel segno il cardinale Ratzinger quando disse: «Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana». (Antonio Socci, Libero 18 maggio 2007)
27 MAGGIO 2007
A tutela dei conviventi, non c'è bisogno dei Dico A chiunque vi abbia partecipato, è apparso come assolutamente evidente il carattere di autentica festa popolare che ha contrassegnato il Family Day. È questa una delle non ultime ragioni per le quali la presenza, tra la gente, di politici di ambedue gli schieramenti è stata assolutamente irrilevante ai fini della caratterizzazione della giornata. Saggiamente gli organizzatori avevano preannunciato che la piazza sarebbe stata sì aperta a tutti - non poteva essere altrimenti -, ma che sul palco sarebbero saliti solo i promotori della giornata e coloro ai quali i promotori avrebbero deciso di dar voce, nella convinzione che quando si parla di famiglia non tutte le voci sono importanti allo stesso modo. Quelle di coppie giovani e meno giovani, che si sono succedute sul palco e che hanno raccontato la loro esperienza di vita sono state voci doppiamente importanti: perché assolutamente autentiche (cosa ben rara in una società mediatizzata come la nostra) e perché non riconducibili a schematismi politici e ideologici. Anche per questo, per il suo aver voluto dare priorità al vissuto delle persone, rispetto alle ragioni (pur rispettabili) della politica, la manifestazione è stata un vero successo. Quanto detto, non implica però che le ragioni della politica - della politica familiare -, portate dalla gente a Piazza San Giovanni solamente in modo indiretto, debbano continuare ad alimentare solo indirettamente il dibattito politico. Questo è ciò che in Italia è purtroppo sempre successo: malgrado le esplicite indicazioni costituzionali, che avrebbero dovuto vincolare il legislatore a operare fattivamente per promuovere e tutelare le comunità familiari, per decenni e decenni di famiglia in Italia si è parlato in astratto, riconoscendone meriti e bisogni, elaborando linee di politica sociale anche suggestive, ma senza arrivare mai a passare dal piano delle intenzioni a quello della fattualità concreta. Ora basta. La manifestazione del 12 maggio - è stato giustamente detto - è solo un punto di partenza. Gli italiani non vogliono né si accontentano più di un sistema che li tuteli come individui; vogliono essere riconosciuti nella loro realtà quotidiana di persone che vivono relazioni familiari e che vedono, in quel luogo di comunicazione totale che è la famiglia lo spazio per loro più autentico e prezioso. La famiglia va riconosciuta, tutelata e promossa non per tutelare chi ne fa parte, ma perché è essa stessa meritevole di tutela, come «società naturale fondata sul matrimonio». L' affermazione costituzionale è talmente limpida, che si resta davvero perplessi, quando la si vede minimizzata e distorta. Questo non significa che le convivenze di fatto, le convivenze non familiari, non siano situazioni meritevoli di tutela giuridica. Nessuno è mai arrivato a dir tanto. Ciò che esse "non meritano" è di ottenere un riconoscimento pubblico, che le ponga come forme di esperienza alternativa a quella familiare (e come tali sono stati pensati e si sono presentati i Dico, qualunque possa essere l'opinione in merito dei loro fautori). Una volta che tale equivoco sia stato risolutamente eliminato, si potrà pur riaprire, senza alcun pregiudizio, una riflessione, che si spera possa essere alimentata dalla buona volontà di tutti, su come tutelare diritti individuali nascenti da particolari esperienze di vita. Non c'è davvero bisogno dei Dico per riconoscere legalmente ad un malato il diritto di farsi assistere anche da un non familiare e di nominarlo eventualmente suo fiduciario. Né meritano di essere definite mere «sistematine al Codice civile» o addirittura «fregnacce» (secondo la pittoresca espressione che Anna Finocchiaro, evidentemente decisa a perdere la sua fama di donna garbata ed elegante, utilizza in una ruvida intervista a Repubblica del 15 maggio) le proposte di intervenire sul Codice civile, per introdurvi nuove ipotesi di vincoli contrattuali, finalizzate a tutelare interessi di soggetti socialmente deboli. C i sono diverse possibili strade per un lavoro giuridico innovativo, condiviso e soprattutto rispettoso della specificità della famiglia: bisogna solo verificare la buona volontà di percorrerle da parte di tutti senza pregiudizi ideologici. (Francesco D'Agostino, Avvenire, 16 maggio 2007)
Il papa in Brasile: un corso intensivo sulla bellezza del cristianesimo Di tutti i commenti sul viaggio del Papa in Brasile forse quello più efficace l'ho potuto raccogliere non da un opinion-leader ma da un giovane studente di San Paolo: «È stato un corso intensivo sulla bellezza del cristianesimo in un Paese dove tutti credono di sapere cosa voglia dire essere cattolico». In effetti, sino a poco tempo fa, la Chiesa in America Latina dava per scontata l'identità religiosa di questi popoli concentrandosi sulle questioni sociali del continente. Benedetto XVI ha rovesciato la prospettiva: il suo è stato un grande appello al rinnovamento della Chiesa sulla base dei fondamenti del messaggio cristiano da cui deriva l'impegno sociale e politico. Inaugurando i lavori della Quinta Conferenza del Celam, l'episcopato latino-americano, ha ricordato con toni drammatici che «oggi è in gioco l'identità cattolica del continente. E proprio per questo, come ha sottolineato nell'omelia al santuario mariano di Aparecida, «La Chiesa si sente missionaria in quanto discepola, cioè capace di lasciarsi sempre attrarre con rinnovato stupore da Dio. Ed anche la Chiesa si sviluppa per attrazione, non fa proselitismo». Una stoccata alle sette neo-pentecostali che negli ultimi anni hanno sottratto fedeli alla Chiesa cattolica, ma anche un appello ai credenti perché sappiano testimoniare il fascino del cristianesimo. Il viaggio di Papa Ratzinger in America Latina segna il passaggio definitivo da una Chiesa "sociologica" ad una Chiesa spalancata alla «realtà vista con lo sguardo di Cristo», da un cattolicesimo egemonizzato dalla Teologia della liberazione (tramontata già da tempo) ad uno dove giocano un ruolo decisivo i movimenti ecclesiali, più volte evocati da Benedetto XVI. Il Papa «dottrinale», come un po' riduttivamente viene definito, non si è certo tirato indietro sul piano sociale denunciando i mali dell'America Latina, le sperequazioni tra ricchi e poveri, il flagello della droga. Ma guai se la Chiesa li affrontasse perdendo la sua indipendenza: farebbe di meno, non di più per i poveri. Nella prospettiva di Papa Ratzinger solo in questo modo l'America Latina potrà continuare ad essere il «Continente della speranza», espressione cara a Papa Wojtyla che il suo successore rilancia insistendo sui valori inderogabili della vita e della famiglia. I mass-media l'hanno criticato per la sua intransigenza, ma proprio su questi argomenti Benedetto XVI ha trovato uno straordinario feeling coi giovani il cui entusiasmo si è fatto sentire allo stadio Pacaembu di San Paolo. Li ha invitati a «non sprecare la loro gioventù» parlando come un padre che ha a cuore la felicità dei figli e non certo come un precettore con la bacchetta in mano. Molti hanno notato che in Brasile Papa Ratzinger non ha saputo muovere le folle. Ma al Campo di Marte, per la canonizzazione di Frei Galvão, c'era oltre un milione di persone. Il che aveva scatenato pronostici esagerati per la messa ad Aparecida dove c'erano molte delegazioni da tutta l'America Latina ma in piccoli gruppi. In ogni caso la logica che guida le missioni pastorali di un Pontefice non può essere quella dei mass-media e neppure dei grandi numeri. Si rivolge ai credenti ma sollecita tutti. Come ha scritto il giornale Tribuna «Il Papa ci ha spiegato che esiste un altro tipo di civilizzazione, ci ha stimolato a parlarne. È la dimostrazione che c'è una luce in fondo al tunnel». (Luigi Geninazzi, Avvenire, 16 maggio 2007)
Nel dibattito sulla figura storica di Gesù, che ha occupato gli studi religiosi degli ultimi due secoli e oggi ha ripreso vigore anche in seguito all'uscita del saggio di Papa Ratzinger, l'Apocalisse di Giovanni è stata considerata documento inutilizzabile ai fini di una ricostruzione di carattere storico, dato che questo libro riguarderebbe non la prima venuta di Cristo ma la seconda, che coinciderà con la fine del mondo. Inoltre l'Apocalisse appare a qualche studioso come il frutto di una mente un po' esaltata («allegoria allucinata» la definiscono Augias e Pesce, mentre Odifreddi parla di «delirio, di pertinenza più della psichiatria che della teologia»). Salvo poi, come fanno Augias e Pesce, servirsi di questo libro per delineare con precisione quale fosse il pensiero di Gesù riguardo al futuro: «Gesù aspetta l'avvento del regno di Dio che avrà luogo in due modi diversi…: si avrà un giudizio universale, ma anche un periodo intermedio in cui il Messia regnerà e la terra sarà rinnovata" (Inchiesta su Gesù, p. 220). Il che è desunto, pari pari, dalla celebre descrizione del regno millenario (Ap 20,4 ss.), interpretato alla lettera, come evento escatologico che si svolgerà sulla terra e avrà, così sembra di capire, carattere materiale. A differenza degli altri studiosi, nella sua ricerca su Gesù il Papa cita ripetutamente il libro di Giovanni, con spunti di interpretazione che meritano, a mio parere, qualche riflessione. Penso, ad esempio, alla citazione composita di Daniele (7,13) e Zaccaria (12,13.14) che si trova quasi alla conclusione del prologo dell'Apocalisse: «Ecco, egli viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero» (Ap 1,7). Il Papa cita due volte questo passo (pp. 279, 400) e aggiunge, la seconda volta, che «il contenuto di questa affermazione si realizzerà appieno alla fine della storia». Ora, la venuta con le nubi è quella di cui parla Daniele a proposito di «uno simile a Figlio d'uomo». Nell'interrogatorio davanti al sinedrio Gesù cita le parole di Daniele e le applica a se stesso. A Caifa che gli chiede se è il Messia, il Figlio di Dio, egli risponde: «Tu lo dici» (Mc 14, 62: «Io lo sono»), e aggiunge: «Da questo momento vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Virtù (Dio) e veniente sulle nubi del cielo» (Mt 26, 64). In queste parole c'è stato chi ha visto un annuncio della parusìa, cioè della seconda venuta. Ma il resoconto di Matteo rende inaccettabile questa interpretazione. Per conto mio, ci vedo un'allusione alla sua morte di croce seguita dalla risurrezione e ascensione al cielo. E pertanto nella citazione scritturale contenuta nel prologo dell'Apocalisse vedo semplicemente l'enunciazione del tema che sarà trattato nel corso del libro: la morte di Gesù, seguita dalla risurrezione, costituisce il punto culminante della sua rivelazione («apocalisse») e della storia della salvezza. Anche della «nuova Gerusalemme» il Papa ritiene che si tratti di «un'immagine brillante che aiuta il popolo di Dio in cammino a comprendere, partendo dal suo futuro, il suo presente e lo illumina con spirito di speranza» (p. 206). Se ben comprendo il senso di queste parole, quindi, la visione della «nuova Gerusalemme» che conclude il libro di Giovanni sarebbe un evento escatologico, che si realizza cioè alla «fine della storia», anche se ha inizio nella storia presente. Nel testo dell'Apocalisse tuttavia la discesa dal cielo sulla terra della «nuova Gerusalemme» è presentata come un evento già accaduto e di per sé concluso: essa infatti già si trova sul «monte grande e alto», su cui un angelo porta in spirito Giovanni a visitarla (Ap 21, 9 s.). Il fatto che essa discenda «dal cielo, da Dio» implica una «nuova» creazione che la fa essere altra da quella che era in precedenza. A questo punto occorre riflettere sul parallelismo, chiaramente intenzionale e rilevato da tutti i commentatori, che Giovanni stabilisce tra la visione relativa alla «nuova Gerusalemme» e quella in cui si descrive il giudizio sulla «prostituta, quella grande», poi precisata come «Babilonia, quella grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra», e raffigurata sotto l'aspetto di una «donna» sontuosamente abbigliata, «ubriaca del sangue dei santi e dei testimoni di Gesù» (Ap 17, 1 ss.). Come è noto, la maggior parte dei commentatori ha visto qui un riferimento alla Roma imperiale, alle sue pretese di divinizzazione e alle sue persecuzioni contro i cristiani. D'accordo con alcuni interpreti del passato e contemporanei, ho creduto invece di ravvisare in questa figura la Gerusalemme infedele e violenta, contro la quale anche Gesù pronuncia parole di dura condanna. Se così è, la Gerusalemme che scende dal cielo è una realtà del tutto «nuova» che viene a sostituire l'antica, giudicata e condannata alla distruzione. Questa radicale trasformazione dell'antica nella «nuova» Gerusalemme è effetto della morte di Cristo. La vicenda pubblica di Gesù analizzata nel libro del Papa si conclude con l'episodio della trasfigurazione. Del racconto evangelico l'autore sottolinea, in particolare, le trasformazioni che avvengono nella persona di Gesù: il suo volto splende come il sole e le sue vesti diventano splendenti, bianchissime. Prendendo spunto dal colore bianco delle vesti di Gesù, egli afferma che «nella letteratura apocalittica le vesti bianche sono espressione della creatura celeste: le vesti degli angeli e degli eletti». E aggiunge: «Così, l'Apocalisse di Giovanni parla delle vesti candide che verranno indossate dai salvati» (p. 358). Il tempo futuro usato dall'autore sembrerebbe indicare che egli intende la celebre visione della «folla immensa» biancovestita (Ap 7, 9) come allusione al raduno escatologico degli eletti, anche se ammette che i cristiani, mediante il battesimo, hanno un'anticipazione del futuro, in quanto «hanno lavato le loro vesti e le hanno rese bianche nel sangue dell'Agnello» (Ap 7, 14). La citazione papale di questa visione trascura però circostanze e particolari su cui da sempre si discute e che sono indispensabili ai fini non soltanto dell'interpretazione della visione stessa ma di tutto il libro di Giovanni. Per intanto, la visione della «folla immensa» non compare in forma isolata: è preceduta dalla visione della segnatura in fronte «con il sigillo del Dio vivente», a opera degli angeli, dei «centoquarantaquattromila da ogni tribù dei figli d'Israele» (Ap 7, 14). Si tratta, anche in questo caso, di «salvati», che in nessun modo possono essere identificati con i componenti della «folla immensa». Essi infatti compongono un «numero» ben preciso che viene comunicato al veggente (Ap 7, 4: «udii il numero»), mentre il numero degli altri «nessuno poteva calcolarlo» (Ap 7, 9). Essi provengono esclusivamente «da ogni tribù della casa di Israele», mentre gli altri da tutta l'umanità (Ap 7, 9: «da ogni nazione, razza, popolo e lingua»). La salvezza degli uni viene procacciata dagli angeli, quella degli altri è frutto diretto del sacrificio di Cristo (Ap 7, 14: «hanno lavato le loro vesti e le hanno rese bianche nel sangue dell'Agnello»). I centoquarantaquattromila sono i «salvati» dell'antica economia, ricompensati con il dono vita eterna prima della venuta storica di Cristo, perché con la loro missione profetica e con la loro morte violenta hanno reso testimonianza a Gesù Cristo prima della sua venuta, come Giovanni illustra nell'episodio dei «due testimoni» (Mosè e Elia: Ap 11, 3-12). Come sopra si è detto, in queste parole il Papa vede un'allusione al battesimo che unisce i cristiani alla passione di Gesù. È opinione condivisa dagli interpreti, i quali però intendono che questa unione spirituale diventerà reale alla fine dei tempi, in quanto essi saranno sottoposti alla «persecuzione, quella grande». Conferma di ciò trovano nelle parole del Vegliardo a proposito dei componenti della «folla immensa»: «Essi sono coloro che vengono dalla persecuzione, quella grande». Ciò che non riesco a capire è, in primo luogo, da quale elemento sia dedotta la collocazione nel futuro, addirittura escatologico, dell'evento di cui parla il Vegliardo: egli sembra riferirsi a una realtà già in atto. Inoltre non capisco la sicurezza con cui si afferma che la persecuzione riguarderà i componenti della «folla immensa». Il testo dice che «essi sono coloro che vengono dalla persecuzione, quella grande», non già «coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione», come si trova nella versione italiana della Traduction Oecuménique de la Bible, la quale in nota specifica che si tratta della «prova escatologica». È possibile, allora, pensare che la «persecuzione» dalla quale vengono (cioè provengono) sia quella che ha colpito Gesù Cristo, e che è «grande» non per il numero delle vittime ma perché ha colpito il Figlio di Dio. (Eugenio Corsini, Avvenire, 17 maggio 2007)
Apocalisse: ma la «rivelazione» cela ancora tanti misteri Nel 395 Girolamo riceve da un nuovo amico, Paolino, poi vescovo di Nola, una richiesta di aiuto: l’aristocratico dell’Aquitania convertito e da poco ordinato sacerdote intende studiare la Scrittura e chiede lumi al grande biblista ritiratosi ormai da un decennio a Betlemme. La risposta geronimiana è in una lettera che in una ventina di pagine presenta con tratti efficacissimi tutti i libri della Bibbia. Con una celebre definizione dell’Apocalisse, che «ha tanti misteri quante sono le parole. Ho detto poco e ogni elogio è inferiore al merito del libro; in ciascuna parola si nascondono molteplici significati» (Lettere 53, 9). Tre secoli dopo la sua composizione – probabilmente nell’ultimo scorcio del I secolo – Girolamo aveva non solo rappresentato con efficacia una storia di interpretazioni già molto lunga, ma anticipato le vicende successive del libro che chiude il canone scritturistico con l’enigmatica «rivelazione» (questo vuol dire in greco apokàlypsis) a Giovanni. Tanti misteri quante parole, sintetizzava la risposta a Paolino, e non si è lontani dalla realtà se si pensa ad altrettanto innumerevoli interpretazioni succedutesi nella storia, dalla prima metà del II secolo – e dunque, quasi a ridosso della composizione del testo – sino all’età contemporanea. Profondamente radicato nell’apocalittica giudaica, il testo giovanneo si illumina proprio alla luce di questa estesissima, complicata e affascinante letteratura (soprattutto apocrifa), studiata in Italia soprattutto da Paolo Sacchi, che ha diretto appunto un’eccellente traduzione in 5 volumi degli apocrifi veterotestamentari (avviata dalla Utet e completata da Paideia). Come risulta dall’ultima traduzione italiana dell’Apocalisse di Giovanni curata da Edmondo Lupieri per la Valla (Mondadori). Rivelazione sugli ultimi tempi della Chiesa e sulla fine del mondo? Testo che allude alla situazione del cristianesimo nel mondo giudaico e pagano, oppure solo documento storico relativo agli avvenimenti vissuti dal profeta Giovanni? Parola che anticipa tutta la storia? Rivelazione che in sé concentra una «ricapitolazione» delle vicende universali? Da Papia, Giustino e Ireneo nel II secolo a Ticonio e Agostino (IV e V secolo), dal medioevo (Gioacchino da Fiore, Pietro di Giovanni Olivi) ai fondamentalisti protestanti degli Stati Uniti contemporanei, è difficile decidersi tra le mille e una interpretazioni di un testo inesauribile, che Eugenio Corsini tradusse e commentò nel 1980 (Apocalisse prima e dopo, Sei) presentandone i simboli come sempre attuali: perché l’apocalisse è la venuta di Cristo. (Gian Maria Vian, Avvenire 17 maggio 2007)
Se fede e ragione si alleano nella ricerca della verità Mons. Rino Fisichella, George Cottier e Pino Lorizio alla due giorni della Lateranense sui «praeambula fidei» principi preliminari la cui dimostrazione predispone all’adesione a Cristo. Fides et ratio. Non solo un'enciclica di Giovanni Paolo II ma una duplice condizione che guida da secoli lo sviluppo del pensiero cristiano. La distinzione tra fede e ragione e la necessità del loro accordo contraddistingue l'indagine di due dimensioni del pensiero umano, entrambe alla ricerca della verità: la filosofia e la teologia. Se un filosofo argomenta cercando nella ragione le sue motivazioni, un teologo le cerca nella Rivelazione. La ragione diventa quindi lo strumento utile a chiarire le verità della fede e una via privilegiata è rappresentata dai cosiddetti praeambula fidei, ossia quelle verità preliminari la cui dimostrazione non può prescindere dalla fede. Se «si può (o si deve) ancora parlare di praeambula fidei» è l'interrogativo che dà il titolo al Convegno iniziato ieri presso la Pontificia Università Lateranense. L'appuntamento intende approfondire uno dei temi trattati nell'enciclica di Wojtyla del 1998, alla luce di quell'espressione di san Tommaso (praeambula fidei appunto) che muove i primi passi nella controversa questione relativa alla ragionevolezza della fede. «Il testo di Fides et ratio può costituire un vero scenario su cui collocare la problematicità dei praeambula fidei». Ha esordito così Rino Fisichella, rettore della Lateranense introducendo i lavori. Fisichella ha auspicato un dialogo continuo e proficuo tra filosofi e teologi affinché «nel comune indagare si possa ricevere l'uno il sostegno dell'altro ma soprattutto - ha concluso - perché si possa offrire all'uomo la luce della verità come condizione per approdare alla risposta definitiva circa il senso ultimo della sua esistenza». Sul rapporto tra teologia e filosofia ha insistito Pino Lorizio, docente di Teologia fondamentale alla Lateranense, che ha evidenziato come queste due dimensioni del sapere umano possano essere interpretate alla luce degli insegnamenti dei Padri. Lorizio ha citato Ratzinger e le due operazioni che secondo il Papa aiutano a comprendere il rapporto tra fede e ragione: «la purificazione della ragione» (richiamata tre volte nell'enciclica Deus caritas est), e l'allargamento degli spazi della razionalità» (tema affrontato nel discorso al Convegno ecclesiale di Verona). «Attraverso questi due percorsi - ha concluso Lorizio - la teologia può uscire dalla propria "sacrestia" ed intercettare l'esperienza religiosa dell'uomo post moderno in modo che la rivelazione sia percepibile e sensata per lui». Se la teologia rilegge la fede alla luce del Vangelo, la filosofia offre risposte razionali per dimostrare i praeambula fidei. È questo il senso dell'intervento di Mario Pangallo, ordinario di Storia della filosofia alla Lateranense, che ha indicato la filosofia come la via che può aiutare chi non crede a comprendere la verità e il mistero della fede. Ma nel corso della storia la ricerca della verità è stata spesso osteggiata. La necessità di conoscere la storia è il fil rouge della relazione del cardinale Geogers Cottier, già teologo della Casa pontificia, che scorge nel Concilio Vaticano I il passaggio tra l'egemonia di una ragione che nega totalmente il soprannaturale e la situazione odierna, nella quale è proprio la fede a venire in soccorso della ragione. Il porporato, invita quindi a guardarsi da rappresentazioni fuorvianti della fede, che non rispettano, anzi negano, la verità della storia. Spetterà al filosofo Gianfranco Basti aprire i lavori della seconda e conclusiva giornata del Convegno internazionale «Si può (o si deve) parlare ancora di "praeambula fidei"?» iniziato ieri presso la Pontificia Università Lateranense. La mattina verterà sul tema «Teoria e pratica del "praeambula fidei"». In programma gli interventi di Horst Seidl, ordinario di storia della filosofia antica («La metafisica greca e la teologia cristiana dei primi secoli«), Angela Ales Bello, docente di Storia della filosofia contem- poranea («La proposta di Edith Stein e la fenomenologia»), Roberto Di Ceglie, incaricato di Filosofia della religione («Filosofia del senso comune e teoria dei "praeambula fidei" in Etienne Gilson» e Luca Tuninetti associato di filosofia della conoscenza («Recupero dei "praeambula fidei" in alcuni esponenti della filosofia antica»). Nel pomeriggio si parlerà di «Posizioni che escludono l'ipotesi dei "praeambula fidei"» soffermandosi sul pensiero di Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger, Emanuele Severino e Gianni Vattimo. (Massimiliano Padula, Avvenire, 17 maggio 2007)
Giornata contro l'omofobia: Siamo tutti persone. Conta questo. Il modo peggiore per cominciare un articolo sulla giornata contro l'omofobia? Con la solita dichiarazione previa: noi non siamo omofobi. Non perché non lo siamo, ma perché quella frase è ridotta ormai a una sorta di tic di replica a un altro tic, l'accusa reiterata e ossessiva di alcuni, pochi, soliti baroni del movimento gay organizzato: i cattolici sono omofobi, la Chiesa è omofoba, il popolo di piazza San Giovanni è omofobo, eccetera. L'accusa viene lanciata non in presenza di reali manifestazioni omofobe, ma come ritorsione nei confronti di qualsiasi libera critica civile rivolta a quanto quei baroni dicono o fanno. Anziché replicare con laica razionalità, scagliano l'insulto, come se l'intento non sia discutere, ma additare alle folle il mostro. A quel punto il dialogo è finito prima ancora di cominciare. L'omofobia è cosa ben più seria e grave, e tutti dovremmo fare il nostro personale esame di coscienza in proposito. Il modo vero e serio per vincerla è prendere consapevolezza che non esistono gli omosessuali accanto agli eterosessuali, ma persone accanto ad altre persone. Persone che possono essere etero o omo, ma prima di tutto sono persone. Da cristiani, poi, quando preghiamo con le parole insegnateci da Gesù: «Padre nostro», non escludiamo nessuno ma includiamo tutti. «Nostro», ossia di noi etero e omo allo stesso modo. Siamo tutti persone e come tali ciò che ci unisce è senza alcun dubbio molto più di ciò che ci divide. Ma le persone sono portatrici di diversità. Etero e omo sono diversi. E la diversità ha sempre creato dei problemi, tanto più difficili da superare quanto più la diversità era accentuata. E qui forse ci è dato di ragionare sul perché, nella comunità cristiana, il tema degli omosessuali appare ancora non risolto. Individuiamo tre motivi. In parte, ci può essere una certa durezza di cuore - spesso solo apparente: magari è imbarazzo - da parte di alcuni cristiani che fanno fatica. Disprezzarli e colpevolizzarli per questa loro fa tica sarebbe ingeneroso e sciocco: così facendo si induce chiusura ulteriore. Secondo motivo: l'aggressività, anche se solo di facciata, di certe manifestazioni pubbliche, come i Gay Pride, viene avvertita come una minaccia da chi apprezza il pudore e non l'esibizionismo, omo o etero che sia. Terzo, forse non abbiamo fatto nostra abbastanza - vivendola nella carne, non soltanto apprendendola sul catechismo - la realtà di una Chiesa madre e maestra. Madre, capace di accogliere e perdonare ogni cuore sincero, capace di amore senza limiti. Maestra, fedele al suo compito di annunciare, con dolce fermezza, la verità. Oggi sarebbe bello poterci prendere degli impegni. La Chiesa a tenere le sue porte sempre spalancate perché tutti, etero o omo, siamo battezzati, allo stesso modo figli di Dio; tutti a prendere atto che la diversità esiste, il matrimonio è una cosa sola, e la famiglia è tale se a formarla sono un uomo e una donna; e i legami omo-affettivi sono non "più" o "meno", ma di altra natura: semplicemente diversi. Le persone omosessuali a proporre, non imporre la loro cultura ormai pervasiva sui massmedia, perché ogni forma anche inconsapevole di imposizione gioca contro la loro stessa causa; e magari a smarcarsi da chi è riuscito a fare di una condizione una professione. Le persone eterosessuali a scrollarsi di dosso ogni residuo di pregiudizio proprio, anche solo riflesso, e a non tollerare il pregiudizio altrui. A quel punto, l'odierna giornata non sarà passata invano. (Umberto Folena, Avvenire, 17 maggio 2007)
Papa femminista nel viaggio in Brasile Non è passata inosservata la pista di approfondimento sul ruolo della donna nella società e nella Chiesa che, nel suo discorso inaugurale della V Conferenza generale dell'Episcopato latino-americano e dei Caraibi, Benedetto XVI ha affidato all'attenzione di quanti - il continente femminile in particolare - hanno a cuore l'uguale dignità e responsabilità delle due dimensioni dell'umano, espresse - sin dall'origine - dalla femmina e dal maschio. A precisarlo è Sandra Ferriera Ribero, fisica, esperta in sociologia delle religioni e uditrice a quell'importante consesso episcopale. Nell'incontro di ieri l'altro con la stampa non ha mancato di notare come il Papa abbia puntato il dito sulla piaga dolente delle società latinoamericane rappresentata dal fenomeno del "machismo", che trova il suo corrispondente speculare nel cosiddetto "marinismo". Questa rigida demarcazione dei ruoli sessuali all'interno delle famiglie nell'America latina è il prodotto di una secolare sedimentazione culturale, ancora lontana dall'esaurirsi, nonostante l'emergere di nuovi ruoli femminili alternativi come l' "hembrismo", sviluppatisi con molta forza e flessibilità nella coscienza femminista di quei Paesi, nel tentativo di preservare la propria identità all'interno di una più egualitaria rappresentazione sociale dei due generi. Benedetto XVI ha esplicitamente stigmatizzato il machismo quale forma estrema che finisce con l'incoraggiare, all'interno delle famiglie, un doppio standard morale. Da una parte il maschio, il cui codice culturale lo pone in una posizione di predominio, espressa anche nei comportamenti sregolati che rendono ammissibili le avventure extramatrimoniali, con il conseguente forte distacco affettivo con i membri femminili della famiglia a cui ci si rivolge con aggressività fisica e mentale. Altro segno del machismo è obbligare la donna - e non solo la moglie - ad avere molti figli, che saranno poi abbandonati, rimanendo a carico delle madri. Dall'altra parte è ancora preval ente - e non soltanto nelle classi meno abbienti - il corrispondente culturale del marinismo, il cui concetto base è che la donna - rifacendosi nominalmente a Maria, la Madre evangelica - è spiritualmente migliore del maschio, e perciò capace di sopportare tutte le sofferenze inflitte dagli uomini: è il complesso della "donna martire" secondo il quale le donne devono sopportare i comportamenti machista per sacrificare se stesse a favore dei bambini, del marito e della famiglia. Va da sé che questa violenta riproposizione oppositiva dei ruoli sessuali, con pesante ricaduta sul piano dell'educazione, non può che preoccupare i pastori, soprattutto il Papa che indica nuove strade per trasformare dall'interno delle relazioni umane il duplice ruolo del femminile e del maschile, anche guardando alla duplice profilo della Chiesa che accanto alla figura petrina affianca quella di Maria, che non ha nulla a che fare con il marinismo, ma che rappresenta la forma concreta e responsabile dello sviluppo armonico delle potenzialità femminili. C'è da augurarsi che una rinnovata mariologia latinoamericana possa incontrarsi con le forme più aperte dell'hembrismo. (Paola Ricci Sindoni, Avvenire, 18 maggio 2007)
Omelia imbarazzante? No, giornalismo devastante Come creare il mostro e darlo allegramente in pasto all'opinione pubblica. Quanto è capitato ieri al segretario della Cei, monsignor Giuseppe Betori, è degno di una lezione di giornalismo su come non si fa giornalismo eppure si fa, tanto resterai impunito. Allora. Da una parte abbiamo l'omelia tenuta da Betori nella Cattedrale di Gubbio l'altro ieri, festa del patrono sant'Ubaldo. Dall'altra le cronache e i commenti di certi giornali, molti dei quali si sono evidentemente ispirati ai "lanci" di alcune agenzie di stampa. E la sensazione è di enorme imbarazzo. Non per Betori, ma per i giornali. Difficile imbattersi in un simile cumulo di invenzioni, travisamenti e sintesi truffaldine. Prendiamo il Corriere della Sera. Titolo a pagina 12: «Il relativismo etico è il nuovo Barbarossa». Occhiello: «Bisogna ispirarsi a sant'Ubaldo che difese Gubbio dall'esercito imperiale». La Repubblica a pagina 10 conferma: «Giuseppe Betori ha riattualizzato l'assedio del Barbarossa contro la città». La Chiesa che si difende dallo Stato aggressore… Giochino goloso, peccato che Betori non nomini mai il Barbarossa, di cui il Corriere, in un eccesso di zelo, pubblica perfino ritratto e scheda. «Sant'Ubaldo - sono le vere parole di Betori - pose fine all'assedio delle città nemiche». La guerra in questione era tra Gubbio e una decine di città umbre. Quella della Chiesa contro lo Stato, di una Chiesa minacciata e assediata, è una totale invenzione. Ubaldo, ricorda Betori, difende non la Chiesa ma la città e la sua gente. Ma c'è di peggio e più sottile. Quali sono, attribuite a Betori, le nuove minacce portate alla convivenza civile da «nichilismo e relativismo»? I giornali ne citano cinque: l'eutanasia, l'aborto, l'embrione ridotto a materiale per sperimentazioni, la negazione della dualità sessuale e lo scardinamento della famiglia. Un abile taglia e cuci. L'elenco di Betori era infatti ben più lungo. Ecco che cosa i giornali hanno censurato: nichilismo e relativismo provocano «l'emarginazione e la condanna dei più deboli e svantaggiati; coltivano sentimenti di arroganza e di violenza che fomentano le guerre e il terrorismo; delimitano gli spazi del riconoscimento dell'altro chiudendo all'accoglienza di chi è diverso per etnia, cultura e religione; negano possibilità di crescita per tutti mantenendo situazioni e strutture di ingiustizia sociale». Sembrano i temi storicamente più cari alla sinistra. Un colpo di forbice e via. Chiara Saraceno, sulla Stampa (pagina 41, titolo: «Monsignore, si dia una calmata»), è ancora più raffinata. Scambia le cause con gli effetti facendo fare a Betori la figura dell'ottuso fissato con il sesso, gli embrioni e l'eutanasia: «Sono loro - scrive la Saraceno - responsabili dei mali del mondo, non i dittatori politici ed economici (eccetera)». L'ultimo terzo dell'omelia è dedicato alle soluzioni: al «volto di Dio che è amore» (Deus caritas est, Benedetto XVI), alla «visione alta della carità», alla «meta della santità»: silenzio totale, è ovvio, altrimenti viene contraddetta la caricatura di un Betori tutto politico e ingerente. A quel punto si telefona ai politici notoriamente disponibili, gli si legge una riga di titolo d'agenzia e gli sciagurati commentano, a cominciare (e finire) dal verde Silvestri: Betori è come il mullah Omar. Sappiamo che ormai il danno è fatto. Che è vano pretendere dagli interessati di correggersi chiedendo scusa a Betori e ai lettori. Che l'Ordine dei giornalisti ha ben altro a cui pensare. Superfluo appellarsi alla deontologia professionale, al buon senso e alle buone maniere. La Saraceno parla di un'omelia «intimamente violenta oltre che intellettualmente rozza». Perché prima di massacrare così un vescovo, un prete, una persona, non ha avuto l'accortezza, la curiosità, la prudenza di informarsi e leggere per intero l'omelia? Chi è intellettualmente rozzo? Chi deve esercitare "autocontrollo"? Ecco perché siamo imbarazzati. Peggio: disgustati. (Umberto Folena, Avvenire, 18 maggio 2007)
Infame calunnia via Internet ai danni della Chiesa e di Ratzinger: Ognuno, evidentemente, si consola come vuole. O, meglio, come può. Così stupisce solo in parte che dinanzi alla vitalità cattolica documentata sabato scorso in Piazza San Giovanni, ci sia chi trovi benefico sfogo a rovistare nel bidone della spazzatura alla ricerca di qualche lisca di pesce o di qualche uovo in decomposizione. Confidando magari che qualche organo di informazione, più o meno clandestino, non faccia troppo lo schizzinoso, e rilanci generosamente il tutto, offrendo al proprio pubblico come sicuro il cibo ampiamente avariato. Ci riferiamo ad un documentario su preti cattolici e abusi sessuali che, mandato in onda dalla Bbc nel 2006, viene oggi sottotitolato in italiano da Bispensiero, sito di amici siciliani di Beppe Grillo, e caricato su Video Google, dove pare abbia un certo successo. A proposito di bocche buone. Si tratta di un pot-pourri di affermazioni e pseudo-testimonianze che furono apertamente sconfessate a suo tempo dalla Conferenza episcopale inglese, la quale invitò l'augusta Bbc a "vergognarsi per lo standard giornalistico usato nell'attaccare senza motivo Benedetto XVI". Il pezzo forte del servizio infatti consisteva (e ancora consiste) nell'accusa rivolta a Joseph Ratzinger di essere stato niente meno che il responsabile massimo della copertura di crimini pedofili commessi da sacerdoti in varie parti del globo, in quanto "garante" per 20 anni - da quando fu nominato prefetto vaticano - del testo Crimen sollicitationis, che è un'istruzione emanata in realtà dal Sant'Uffizio il 16 marzo 1962. Da notare la data: nel 1962 infatti Joseph Ratzinger non era certo prefetto della futura Congregazione per la dottrina della fede, essendo in quel tempo ancora teologo molto impegnato nella sua Germania. C'è da dire che quel documento veniva presentato dalla Bbc come un marchingegno furbesco, escogitato dal Vaticano per coprire reati di pedofilia, quando invece si trattava di un'impor tante istruzione atta ad «istruire» i casi canonici e portare alla riduzione allo stato laicale i presbiteri coinvolti in nefandezze pedofile. In particolare, trattava delle violazioni del sacramento della confessione. Da notare che l'Istruzione richiedeva il segreto del procedimento canonico per permettere ad eventuali testimoni di farsi avanti liberamente, sapendo che le loro deposizioni sarebbero state confidenziali e non esposte a pubblicità. E di conseguenza anche la parte accusata non vedesse infamato il proprio nome prima della sentenza definitiva. Insomma, un insieme di norme rigorose, che nulla aveva a che fare con la volontà di insabbiare potenziali scandali. E che il testo Crimen Sollicitationis non fosse pensato per tale fine lo dimostrava un paragrafo, il quindicesimo, che obbligava chiunque fosse a conoscenza di un uso del confessionale per abusi sessuali a denunciare il tutto, pena la scomunica. Misura che semmai dà l'idea della serietà del documento e di coloro che lo formularono, se si pensa che in base alla legge italiana il privato cittadino (tale è anche il vescovo e chi è investito di autorità ecclesiastica) è tenuto a denunciare solo i crimini contro l'autorità dello Stato, per i quali infatti è prevista la pena dell'ergastolo. Senza contare che Joseph Ratzinger, più tardi diventato sì prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, avrebbe firmato - ma siamo nel maggio 2001 - una Lettera ai Vescovi e altri Ordinari e Gerarchi della Chiesa Cattolica, pubblicata anche negli Acta Apostolicae Sedis, dove si prevede espressamente che "il delitto contro il sesto precetto del Decalogo, commesso da un chierico contro un minore di diciotto anni", sia di competenza diretta della Congregazione stessa. Segno, per chi abbia un minimo di buon senso giuridico, della volontà romana non certo di occultare, ma di dare piuttosto il massimo rilievo a certi reati, riservandone il giudizio non a realtà "locali", potenzialmente condizionabili, ma ad uno dei massimi organi della Santa Sede. Questa, e non altra, è stata la posizione della Chiesa cattolica sui reati ad essa interni di pedofilia. Questa, e non altra, la limpida testimonianza del nostro Papa che in tempi non sospetti si scagliò contro la sporcizia nella Chiesa. I calunniatori dovrebbero chinare il capo e chiedere scusa. (Andrea Galli, Avvenire, 19 maggio 2007) Notizia di ieri, 21 maggio: Michele Santoro vuole acquistare il documento della Bbc per costruirci attorno una puntata di «Annozero», con un taglio di parte facilmente intuibile, ma i vertici Rai per ora non lo hanno autorizzato. Esiste già un prezzo del video, attorno ai ventimila euro, ma nel maremoto che già regna in Rai, nessuno finora ha preso posizione. Né Marano, direttore di Rai2, secondo il quale Santoro non dipende da lui, né Di Bella, direttore del Tg3, che è responsabile di «Annozero» solo per la par condicio pre-elettorale. Tutto, quindi, è nelle mani del direttore generale Cappon. Far trasmettere il filmato significa incidente grave con il Vaticano, data la presentazione dei fatti, il cui montaggio rispecchia una loro palese manipolazione per scopi chiaramente anticlericali; vietare l’acquisto vuol dire mandare Santoro in trincea: il giornalista potrebbe denunciare la “censura” in diretta. Terze vie non si intravedono, e il caso “costruito” è già pronto. Alla faccia di chi si aspetta una informazione finalmente affrancata da pregiudizi ideologici, ed è invece costretto a sorbirsi trasmissioni artatamente confezionate più per soddisfare la curiosità morbosa di certo pubblico, piuttosto che rispondere al più diffuso desiderio di una verità storicamente corretta.
Un successo che scuote anche la Chiesa Che cosa hanno voluto dirci il milione di manifestanti che sabato hanno sfilato a Roma per il Family day? Se lo chiedono in tanti, preoccupati dall’inusuale mobilitazione di una porzione della società. Le diagnosi si sprecano, e si sprecano pure gli atti d’accusa: una manifestazione antigovernativa, una prova di forza della Chiesa, un simbolo di quel neoguelfismo rinascente e mai morto in Italia, uno schiaffo alla sinistra, e via spoliticando. Ma a noi sembra, molto più banalmente, che il popolo del Family day abbia solo voluto portare nel cuore del Paese, là dove si fanno e disfano le leggi, tre segnali forti e chiari. Il primo: il matrimonio e la famiglia sono un bene oggettivo, patrimonio di tutti gli uomini, credenti e no. Questa manifestazione ha chiesto a gran voce la liberazione di un prigioniero politico: la laicità, per troppo tempo presa in ostaggio dal gotha degli intellettuali laicisti e dalla sinistra egemonica di stampo radicale e libertario, relegando chi non fosse d’accordo nella comoda riserva indiana del cattolicesimo. Come se non esistesse un problema reale, tangibile e inevitabile: la definizione del nocciolo duro di valori, di contenuti e di beni - morali e talora anche giuridici - che sta sempre alla base di ogni esperienza politica che chiamiamo Stato di diritto. Far credere che, per essere un laico a tutto tondo, devi essere a favore dei Dico è una truffa, prima ancora che morale, intellettuale. In secondo luogo, questa manifestazione ha spezzato quel sortilegio mediatico in base al quale - ogni volta che qualche frangia progressista entra in azione per spazzare via un pezzetto di tradizione e identità culturale - subito un sondaggio conferma che «il Paese è pronto, la maggioranza lo vuole». Dopo Roma può ripartire un confronto serio e ragionevole fra le diverse anime del Paese, che abbia il coraggio di mettere in discussione il dogma del «totalitarismo democratico»; cioè l’idea per cui la democrazia sarebbe un guscio vuoto, una pura forma dove la volontà di potenza dei più decide qualsiasi contenuto della legge. Terzo, ma non ultimo per importanza, «contenuto» del Family day: un segnale forte e chiaro che scuote la Chiesa al suo interno. Perché - vogliamo scriverlo senza imbarazzi clericali - se siamo giunti allo scontro politico culturale sui Dico è anche, o forse soprattutto, perché da anni è in atto uno scontro ben più grave e lacerante all’interno dello stesso mondo cattolico. Girando per parrocchie e per diocesi si può toccare con mano l’esistenza di importanti e tutt’altro che marginali defezioni. Che non riguardano solo le associazioni storicamente legate al «cattolicesimo democratico»; non riguardano solo i soliti preti più o meno pittoreschi, in salsa no-global o catto-comunista. Il malessere sale fino alle curie episcopali, nelle quali siedono talvolta vescovi che - parlando sottovoce o tacendo - non condividono ciò che Benedetto XVI o il cardinale Bagnasco vanno insegnando, coerentemente con la dottrina millenaria della Chiesa. Sembra prendere corpo la drammatica profezia di un Papa insospettabile come Paolo VI, il quale nel 1974 preconizzò una Chiesa nella quale si sarebbe diffuso a macchia d’olio «un pensiero non cattolico», capace di diventare forse maggioritario, ma che - concludeva Montini - non sarebbe mai diventato «il pensiero della Chiesa». Fra i credenti si è molto restii a scrivere queste cose, perché si teme possano suonare come un segno di debolezza, o peggio di mancanza di rispetto nei confronti della gerarchia. Ma noi pensiamo si debba abbandonare ogni indugio, e rendersi conto che siamo giunti a un punto di svolta: c’è un Papa che, nella tempesta della post modernità, lotta per tenere ben saldo il timone della barca di Pietro; ci sono vescovi, biblisti, facoltà teologiche, riviste «cattoliche» che - come una ciurma ammutinata - non vogliono più prendere ordini da lui. E poi c’è il popolo dei fedeli, che mostra segni di insofferenza per pastori che trasformano la dottrina cattolica in un fervorino progressista sulla raccolta differenziata e la pace nel mondo. Forse - almeno noi lo speriamo - la marcia del Family day è un segno che il Papa, da oggi, è un po’ meno solo. (Mario Palmaro, Il Giornale, 20 maggio 2007)
“L'ipotesi migliore”: l'umile proposta della Chiesa di Ratzinger e Ruini Lo stesso giorno in cui a San Paolo del Brasile Benedetto XVI rivolgeva ai vescovi di quella nazione il discorso chiave del suo viaggio, in Italia il suo cardinale vicario Camillo Ruini dettava le linee di un incontro positivo del cristianesimo con i tratti dominanti della cultura contemporanea. Quel giorno era l'11 maggio. E i due discorsi, del papa e del suo vicario, pur geograficamente così lontani, erano in realtà vicinissimi. In un mondo globalizzato, infatti, tendenze come il relativismo e il nichilismo, il dominio delle scienze e, viceversa, il risveglio pubblico delle religioni non hanno più confini e aree riservate. Incidono sulla vita di tutti, in tutti i continenti. E quindi una Chiesa a dimensione universale come la cattolica non può non affrontare la sfida. Lo ha fatto fin dalle sue origini, come il cardinale Ruini spiega nella parte iniziale del suo discorso, che traccia a grandissime linee una storia dell'incontro tra la teologia cristiana e le culture, dall'impero romano all'età moderna, per poi concentrare l'attenzione soprattutto sulla stagione che corre dal Concilio Vaticano II a oggi. Ruini descrive le interpretazioni divergenti che il Concilio ha avuto dentro il pensiero cattolico: interpretazioni "che hanno diviso la teologia cattolica e fortemente influenzato la vita della Chiesa". Egli dedica un passaggio anche alla teologia della liberazione fiorita in America latina negli anni Settanta ed Ottanta, allo choc da essa subita nel 1989 con il crollo del sistema marxista e al successivo suo confluire nella teologia delle religioni intese come molteplici e valide vie di salvezza "extra Ecclesiam": confluenza puntualmente confermata dalle critiche rivolte a Benedetto XVI, dopo il suo viaggio in Brasile, da esponenti delle teologie "indigeniste". Ma non si limita a descrivere lo stato delle cose. Il suo discorso si conclude con proposte positive e si riallaccia al grande magistero di Joseph Ratzinger. L'immagine che se ne ricava da entrambi – dal papa teologo e dal suo vicario filosofo – non è quella di una Chiesa arroccata nelle sue mura e sotto assedio. E nemmeno quella di una Chiesa intenta soltanto a dire il paradosso e la bellezza della verità cristiana, accada quel che accada. Ma al contrario: "Perché questa ricchezza e bellezza rimangano vive ed eloquenti nel nostro tempo è necessario che entrino in dialogo con la ragione critica e con la ricerca di libertà che lo caratterizzano, in modo da aprire questa ragione e questa libertà, e da assumere dentro alla fede cristiana i valori che esse contengono". Così il cardinale Ruini in un passaggio chiave del suo discorso dell'11 maggio, che vi proponiamo nella sezione Approfondimenti. Il discorso è stato pronunciato in una sede e a un pubblico non ecclesiali ma laici: a Torino, alla Fiera Internazionale del Libro. (Sandro Magister, wwwchiesa, 21 maggio 2007)
20 MAGGIO 2007
Dal Brasile risuona una parola tagliente più di una spada Una parola che è una persona: Gesù. Lo stesso al quale Benedetto XVI ha dedicato il libro della sua vita. Per il papa il futuro della Chiesa in America latina e nel mondo è legato all'obbedienza a Lui. E ha sentito il dovere di ricordarlo ai vescovi. Tra i dodici discorsi, omelie, messaggi, saluti pronunciati da Benedetto XVI nei quattro giorni del suo viaggio in Brasile, il più atteso era il discorso inaugurale della quinta conferenza dell'episcopato latinoamericano e dei Caraibi, ad Aparecida. Ma il discorso che sarà ricordato in futuro, come il più rivelatore degli obiettivi del papa, è stato un altro. È stato quello da lui rivolto ai vescovi del Brasile nella cattedrale di San Paolo, al termine dei vespri di venerdì 11 maggio . È il discorso riprodotto in questo sito nella sezione Magistero Pontificio. Il papa lo comincia con parole "più taglienti di una spada": le parole del Nuovo Testamento sull'obbedienza perfetta al Padre di Gesù, salvatore di tutti proprio perché obbediente in tutto, fino alla croce. I vescovi – afferma – sono semplicemente "legati" a questa obbedienza: la loro missione è predicare la verità, battezzare, "salvare le anime una ad una" nel nome di Gesù. "Questa, e non altra, è la finalità della Chiesa", sottolinea Benedetto XVI. Quindi, dove latita la verità della fede cristiana e dove i sacramenti non sono celebrati "manca l’essenziale anche per la soluzione degli urgenti problemi sociali e politici". Le consegne date dal papa ai vescovi brasiliani nel seguito del discorso discendono tutte da questo fondamento. Il chiaro intento di Benedetto XVI è di ricentrare su Gesù vero Dio e vero uomo la vita della Chiesa latinoamericana: una Chiesa che a suo giudizio, negli ultimi decenni, s'è troppo decentrata sul terreno sociopolitico, sotto l'influsso della teologia della liberazione. Per Benedetto XVI, una forte evangelizzazione è la vera risposta agli attacchi alla famiglia, ai delitti contro la vita, all'abbandono del cattolicesimo a vantaggio dei nuovi culti "evangelical" e pentecostali. Anche il celibato del clero vacilla quando "la struttura della totale consacrazione a Dio comincia a perdere il suo significato più profondo". E anche ai poveri va offerto "il balsamo divino della fede, senza trascurare il pane materiale". Evangelizzare significa insegnare la verità cristiana integrale, come sintetizzata nel Catechismo. Significa celebrare i sacramenti, specialmente la Confessione e l'Eucaristia: la Confessione non collettiva ma individuale perché "il peccato costituisce un fatto profondamente personale" e l'Eucaristia con fedeltà alle norme perché essa "non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante né della comunità". Ai vescovi, il papa chiede di vigilare sulla produzione teologica, di curare la formazione dei preti, di praticare l'ecumenismo senza dimenticare che "l’unica Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui". In ciascuna di queste consegne date da Benedetto XVI ai vescovi del Brasile è facile intuire le situazioni che le provocano: dallo sfrenato spontaneismo liturgico alle violazioni diffuse del celibato sacerdotale. Il papa non si è dilungato nel descrivere tali situazioni. Esattamente come non ha pronunciato nessuna parola esplicita – contrariamente alle attese di molti – sulla teologia della liberazione. Anche a un'analisi del successo dei culti pentecostali egli ha dedicato solo minimi cenni. E non ha incontrato nessuno dei leader di questi culti, nemmeno nel fuggevole saluto programmato a San Paolo con i capi di altre confessioni cristiane e religioni. Viceversa, Benedetto XVI ha centrato tutta la sua predicazione sul fondamento da cui è partito nel discorso ai vescovi: Gesù. Ha fatto cioè la stessa opera di concentrazione sull'essenziale che caratterizza la sua enciclica "Deus caritas est" e il suo libro "Gesù di Nazaret". Le analisi e le linee d'azione le affida ai vescovi e ai delegati della conferenza continentale da lui inaugurata ad Aparecida il 13 maggio. A loro ha semplicemente indicato l'obiettivo. Ad esempio, a proposito del "proselitismo aggressivo" dei culti pentecostali, egli non ha proposto una contro-propaganda dello stesso tipo. Ha detto invece, nell'omelia della messa di domenica 13 maggio: "La Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per 'attrazione'. Come Cristo 'attira tutti a sé' con la forza del suo amore, culminato nel sacrificio della Croce, così la Chiesa compie la sua missione nella misura in cui, associata a Cristo, compie ogni sua opera in conformità spirituale e concreta alla carità del suo Signore". È un messaggio che Benedetto XVI rivolge non solo al Brasile o all'America latina, ma alla Chiesa di tutto il mondo. (Sandro Magister , www.chiesa, 15 maggio 2007)
Il giorno del Family Day: un milione e oltre fanno festa e premono sulla politica Più di un milione di persone (un milione e mezzo secondo gli organizzatori) ha partecipato alla manifestazione “Più famiglia”, organizzata da 450 associazioni italiane per affermare il valore della famiglia come unione fra uomo e donna, aperta alla generazione, e come centro della vita sociale, culturale, economica e politica. Piazza san Giovanni – il luogo del raduno nel pomeriggio - non è mai stata così piena. Fin dal mattino alle 7 sono arrivati gruppi da tutt’Italia, con genitori e figli, bambini e vecchi, persone sane e portatori di handicap. Vi sono perfino famiglie giunte dopo un giorno di viaggio, dalle isole. Molti di loro sono cattolici, ma vi sono anche musulmani ed ebrei. La manifestazione, caldeggiata soprattutto dalla Chiesa cattolica, è stata molto ostacolata dalla sinistra radicale, dai gruppi gay, dai media in massima parte schierati con la mentalità radicale e liberal, sostenitori di un disegno di legge che vuole parificare le coppie di fatto e omosessuali al modello familiare tradizionale. Nella piazza non si respira né odio né omofobia, ma un senso di pace, di festa, di allegria: ci sono i clown, i bambini che danzano, palloncini e ombrelli colorati e un mare vastissimo di carrozzine, nonne, fidanzati, coppie appena sposate e coppie che celebrano proprio al Family Day il loro 30°, 40° anno di matrimonio. Sul palco si succedono molte testimonianze di famiglie con e senza figli; di giovani fidanzati disoccupati; di coppie sposate che accolgono drogati o anziani e malati. “La famiglia”, ha detto Eugenia Roccella, una delle principali organizzatrici della manifestazione, “è il nucleo primario di qualunque stato sociale, attraverso i compiti di sussidiarietà che si assume; è in grado di tutelare i deboli, i piccoli, i malati, i vecchi…. La famiglia, come la riconosce la nostra Costituzione, si fonda sul matrimonio, su un impegno preso davanti alla collettività… Il resto, le unioni di fatto, le convivenze, l’amore in tutte le sue mille forme precarie o durature, sono storie di individui, regolate da diritti individuali”. Le diverse testimonianze, accolte nel silenzio e concluse con applausi scroscianti, sono state inframmezzate da canzoni per grandi e piccoli. Fra tutti risalta il cantante Povia, vincitore del Festival di Sanremo, la competizione canora più importante in Italia, che ha fatto cantare tutta la folla oceanica i suoi successi, dedicati proprio ai bambini. Fra una sua canzone e l’altra, egli ha inserito un testo con accompagnamento musicale dedicato proprio al Family Day. Con fare poetico e un po’ profetico, egli ha denunciato “l’oscurantismo” della cultura dominante, vuota e “mascherata” e ha chiesto di curare “la famiglia tradizionale”, di “sostenere economicamente le giovani coppie nel fare figli e levargli dal futuro le paure”, o “favorire l’adozione alle coppie eterosessuali che sono in attesa che gli venga affidato un bambino da anni e anni di dure lotte… Perché Signori questa è la realtà. I bambini devono avere una mamma e un papà”. E ha concluso – mentre la folla era in ovazione – con uno slogan: “I diritti dei bambini sono più importanti di quelli dei grandi”. Fra i gruppi che più hanno contribuito al successo della manifestazione vi sono alcuni movimenti ecclesiali: Rinnovamento dello Spirito, Comunità neocatecumenali, Comunione e Liberazione, i cui responsabili hanno anche spiegato il valore della famiglia naturale, potenziata e sostenuta dalla religione e dal cristianesimo. All’inizio della manifestazione è stato anche proiettato un video con un intervento di 20 anni fa del defunto Giovanni Paolo II. Con toni attualissimi il papa polacco chiedeva a tutti di difendere l’istituzione della famiglia contro gli attacchi della cultura di morte, che è una cultura anti-famiglia. È toccato all’altro organizzatore principale, il sindacalista Savino Pezzotta, a porre delle domande ai politici: “Abbiamo il diritto di sapere – ha detto – se chi ci governa punta su un modello antropologico centrato unicamente sull’autonomia dell’individuo, sull’utilitarismo delle affettività temporanee e deboli, o se invece punta a consolidare quella della dinamica famigliare e pertanto di un’affettività che si incardini nella dimensione della responsabilità sociale”. Ai politici egli ha anche chiesto che vi siano “normative organiche per la famiglia che affrontino il tema della protezione del diritto alla vita d’ogni essere umano, dal concepimento alla morte naturale”. E ha suggerito che vi siano consultori, asili-nido, salute, scuola, formazione, sostegno al reddito, politiche fiscali, affitti equi, aiuto alle famiglie che curano persone handicappate o malati terminali, riformando il welfare e ricentrandolo sulle esigenze delle famiglie. Pezzotta ha anche sottolineato che la manifestazione di oggi è collegata a “un grande movimento europeo di popolo”, che ha organizzato manifestazioni simili in Belgio, Portogallo, Spagna e Francia. Alla fine egli ha salutato Benedetto XVI, in visita in Brasile, e mons. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, che nei giorni scorsi ha ricevuto minacce e offese proprio a causa della sua difesa della famiglia naturale. (Bernardo Cervellera, AsiaNews, 12 maggio 2007)
La seduzione di “disko & droga” Il dibattito era su “fede, politica e società” ma un padre di famiglia è intervenuto con foga irruente, alzando i toni e accusando la classe politica di non far niente per salvare i giovani dalle stragi del sabato sera: oltre un migliaio ogni anno! Nessuno ha ripreso l’argomento, era fuori tema, eppure di discoteca si muore come di droga, di alcool, aggiungo di “noia mortale”, che nasconde un male di vivere o un vivere senza senso! Troppi ragazzi e ragazze, in età sempre più giovane, corrono dietro a tanti divertimenti a rischio che ruotano attorno a questo mondo, che li ingabbia e distrugge la gioia della fatica, dello studio, annullando fantasia e creando dipendenza e omologazione in basso. Poveri ragazzi! Invocano originalità e sono così uguali agli altri: nel vestito, nel linguaggio, nella musica, nella banalità e volgarità, nella superficialità dei gusti e delle emozioni! Le proposte fioccate dalle scrivanie dei vari ministri, che si sono alternati negli ultimi anni, sulle scrivanie delle redazioni dei giornali o nei salotti TV sono sembrate più un buffetto sulla guancia che un vero intervento efficace. Le “mamme coraggio” non mi pare siano aumentate; quelle che si battono ancora sul campo sono forse diminuite e le loro proposte cestinate. Ma che senso ha la proposta di “lorsignori” di chiudere le discoteche ad orari “cristiani” o il palloncino anti alcool o i pullman che portano avanti e indietro i discotecari, quando noi adulti proponiamo filosofie basate sul consumo o sul nulla o vanificanti ogni norma etica in nome di pseudo-libertà? La discoteca diventa mito quando mancano alternative nel tempo libero, quando non ci sono stimoli culturali e operativi, quando non si hanno criteri di giudizio sulle scelte di vita, quando Dio è scritto in minuscolo, quando ognuno può aggiungere altre pietre da tirare contro questa società che appare una moderna “adultera”, quando tradisce la cultura per l’effimero e crea idoli che non hanno niente del Dio, che Gesù Cristo è venuto a annunciarci? Qualcuno afferma che i giovani d’oggi sono “cloni”, fotocopia di adulti poveri, sterili, senza fantasia. Può darsi! Una soluzione per sfuggire alle seduzioni della disko o della droga, potrebbe essere l’aiutarli a scoprire il gusto dei legami veri con le persone, il gusto del lavoro manuale, delle occupazioni che un tempo erano segno d’amore: dal preparare un pranzo al cucirsi un vestito, all’inventare giochi per divertirsi con mezzi poveri, che privilegiano la voglia di stare insieme, ai divertimenti più “nobili” quali dipingere, fotografare, danzare, fare teatro, a quelli legati alla natura come un’ascensione in montagna o una gita in barca o in mountain-bike, alle forme esigenti del volontariato, che libera dall’inutilità del vivere! Tutto questo richiede fatica! Eliminarla significa eliminare la creatività e l’iniziativa, la ricerca, l’originalità. Sembra il solito discorso moralista fritto e rifritto, ma credo che dobbiamo preoccuparci quando la “noia” e la “voglia di sballo” colpiscono ragazzini e ragazzine che spesso solo nei campi estivi dell’oratorio si sentono liberi dalle cose per giocare con gli altri! All’oratorio o in campeggio ritrovano mille occasioni di amicizia e di cantare la vita, salvandola dalla monotonia! Ho scoperto forse l’acqua calda con questi miei discorsi, ma è quello che si deve assolutamente fare per dare risposte positive ai nostri ragazzini e ai nostri giovani, che spesso l’acqua la sciupano, non ascoltando i nostri consigli. Ma non è così per tutti. Forse sono i più quelli che la desiderano per purificarsi dalle scorie del banale e del vuoto! (Vittorio Chiari, IncrociNews, 19/2007)
La violenta mutazione delle giovanissime «Ho dodici anni, faccio la cubista, mi chiamano principessa» È il titolo di un libro (edito da Bompiani) che racconta di giovani donne fra gli 11 e i 14 anni. Vanno a scuola, vivono in famiglia, come tutte le ragazzine delle loro età, ma il sabato pomeriggio si trasformano. In discoteche aperte solo a loro e ai toro coetanei, gestite da ragazzi di poco più vecchi, si trasformano. Perizoma, pelle lucidata, top microscopici, ballano sul cubo, mimano pose erotiche. E poi “trescano” in modo casuale con altri coetanei, si fanno pagare per fare sesso coi più grandi, si drogano, fumano, bevono. E intanto riprendono e si fanno riprendere dai cellulari. Tornate a casa il loro mondo continua attraverso i computer, gli sms, i blog che testimoniano esperienze insospettabili raccontate con un linguaggio osceno e violento. Marida Lombardo Pijola, giornalista del Messaggero, ha raccolto le testimonianze, i blog di queste giovani donne e ce li ripropone nella loro crudezza e violenza. Colpisce non solo l’assenza di valori, la provocazione del linguaggio, una vita che passa attraverso il computer e l’assenza completa del mondo degli adulti, ma l’abbandono di ogni modello femminile. Quelle ragazzine hanno con il sesso, con il denaro, il rapporto privo di sentimento che generalmente viene attribuito ai maschi. Lo ostentano, ne fanno un loro punto di forza. Lo affermano con una brutalità inimmaginabile. Ogni differenza è sparita in queste giovani donne disincantate e aggressive che non hanno alcun riferimento femminile, alcun modello, alcuna somiglianza neppure con quelle qualche anno più vecchie di loro. Loro hanno rotto con la femminilità. L’hanno buttata via insieme al pudore, al sentimento, alla simpatia. Forse anche al disagio o alla sofferenza. Cosi almeno pare. L’autrice dice che si tratta di un fenomeno non marginale e che in 2 anni c’è stata una vera e propria mutazione di una generazione di donne. Per questo il libro provoca inquietudine. Queste che si confidano nel libro sono donne che non conosciamo, che ci vivono accanto, ma di cui sappiamo davvero poco. Sarà sincero, per quanto terribile, quel modo di comportarsi? Oppure dietro quell’ostentazione di violenza e di brutalità c’è una sofferenza negata? Usare il proprio corpo con l’indifferenza con cui altri vorrebbero usarlo è una forma sbagliata di emancipazione o una inconsapevole subordinazione? E il mondo degli adulti che fa? Perché non cerca dl capire, di aiutare e magari, se necessario, anche di reprimere? Che cosa si è rotto nella trasmissione di valori fra gli adulti e quelle giovani? Le domande sono tante. Le risposte non ci sono. Ma attraverso quel libro almeno conosciamo una realtà di cui non supponevamo l’esistenza. (Ritanna Armeni, Conduttrice di Otto e mezzo, 12 maggio 2007)
In piazza il cuore e la ragione grande festa di popolo Voleva essere una festa. E festa è stata. Una festa grande, enorme, smisurata. Una festa allegra e positiva come sanno essere le feste davvero riuscite. Una festa che non è bastata una piazza a contenerla, una festa tracimata da San Giovanni nelle decine di rivoli di via Santa Croce in Gerusalemme, via Emanuele Filiberto, via Appia e stradine e vicoli dove l'occhio non poteva arrivare. Più di un milione di persone, ma quante di più? Impossibile contarle. Una festa di popolo, ma popolo vero. Mamme e papà, tanti bambini, e nonni. Da ogni angolo d'Italia. Arrivi a San Giovanni in Laterano prima delle 10, la festa comincia alle 15 e pensi: saremo i primi. Invece già nella metropolitana è evidente una presenza sospetta di bambini, ragazzi e giovani, mamme con carrozzina, papà con zainetto e figli per mano. Soprattutto bambini, tantissimi bambini: bambini senza denti, bambini con i bavaglini, bambini con la maglietta dell'uomo ragno, bambino che ridono, bambini che sbadigliano. Vescovi totalmente assenti, preti quasi. Per tutti la festa è cominciata venerdì sera, a bordo di tremila pullman, otto treni speciali, un traghetto dalla Sicilia, e un'interminabile fila di auto e camper convergenti sulla capitale. Sono appena le 10 e la folla preme. I neocatecumenali hanno occupato le prime file e avendo energia da vendere danzano in cerchio con chitarre e tamburelli. Il traffico non è stato ancora chiuso e procede a fatica. Lo striscione di Cl ha i caratteri granata su fondo bianco, i cappellini dell'Azione cattolica sono d'un vivo color arancio. In prima fila c'è anche la "Compagnia dei tipi loschi del beato Piergiorgio Frassati". Gli striscioni sono propositivi e mai gridati. Il tono è quello del Rinnovamento nello Spirito: "La famiglia costruisce il futuro di tutti". Sorride, la piazza, d'un sorriso contagioso: i veleni abitano altrove. Il popolo è un'onda incessante ma gentile, cortese e paziente, anche perché il sole picchia sodo. E il palco? Il palco ha la for ma di una casa posta sul bordo della piazza. Dal palco scivola musica per tutti i gusti, dal folk irlandese alla break dance, dal Battisti del Mio canto libero al Conte-Celentano di Azzurro. Il palco come casa vi sembra esagerato? Per niente. C'è l'orchestra, ci sono i due conduttori - Paola Rivetta e Alessandro Zaccuri, misuratissimi - ma c'è soprattutto un salottino con genitori e bambini che giocano con delle costruzioni grosse e colorate, che ogni tanto crollano ma i bambini, dopo il primo disappunto, sorridono e tornano e rimetterle una sopra l'altra, a ricostruire con pazienza, senza stancarsi: proprio come accade nelle famiglie vere. Ore 15, si comincia. Una piazza ripiegata su di sé? Tutto il contrario: "I veri protagonisti sono i bambini. Nessuno è in piazza per se stesso, ma per chi gli sta a fianco". La marea di parasole bianchi e azzurri si agita appena, quando sugli schermi compare l'ospite impossibile, che osserva la festa da Lassù, e il viso è giovane, la voce forte, le parole inequivocabili: "Proteggiamo la famiglia da ogni distruzione". È il 30 dicembre 1988, l'ospite è Giovanni Paolo II. Sul palco sfilano alcune delle 450 aggregazioni laicali che hanno voluto la festa: Azione cattolica e Comunione e liberazione, Agesci e Cammino neocatecumenale, Acli e Rinnovamento nello Spirito, Ucid e Coldiretti, Mcl e Csi, Famiglie nuove e Movimento per la vita… Kiko Argüello non si accontenta di parlare, ma canta accompagnandosi con la chitarra. Sfilano i testimonial: Claudio Lippi ("Ho vissuto con grande tristezza il mio divorzio. Per questo so quanto sia importante tenere alto il senso e il valore della famiglia"), Beppe Dossena ("Siamo tutti tifosi della famiglia"), Giorgio Israel ("La famiglia sposata, con figli, è il pilastro della convivenza sociale"), Souad Sbai e Giuliano Ferrara. Dietro il palco sfilano i politici, ma chi se ne accorge? La piazza no di certo. Gli organizzatori, sapienti, hanno riservato ai politici uno spicchio di prato in prima fil a, in piedi come tutti; ma il percorso per arrivarci costeggia la Basilica e la grande piazza non può esserne distratta. Ad accorgersene sono le telecamere e i giornalisti a caccia di una dichiarazione. Arrivano tutti coloro che avevano annunciato il loro arrivo (tranne Cossiga, indisposto). Berlusconi compare alle 17.35 proprio quando la festa tocca il suo apice. È sul palco Povia, che stupisce e conquista anche scettici e prevenuti. Non si limita alla comparsata, al pezzo d'ordinanza ("Vorrei avere il becco"). Ma a sorpresa si esibisce in un appassionato rap-manifesto sulla famiglia: "Siamo in un momento in cui domina l’oscurantismo, e la famiglia tradizionale non sta bene e ha bisogno di cura… Una ragazza al solo pensiero di una gravidanza ha paura… Quanta dilagante imbecillità… Chiediamo sia facilitata l’adozione per le famiglie eterosessuali che attendono per anni… Questa è la realtà: un bambino deve poter avere una mamma e un papà… E anche se siamo separati troviamoci uniti per i figli". Povia canta una canzone scritta per la figlia Emma ("Ti insegnerò che avrai coraggio solo quando avrai paura"), e annuncia che a settembre dovrà scriverne un’altra per Amelia. "Bambini, vogliamo tanti bambini nel paese dei senza bambini". Saluta alzando un cartello: "Non farti cambiare dal mondo". La piazza è tutta, completamente sua. La basilica getta una cortese ombra sulla piazza. Il regista Giulio Base chiede: "Che cos’è una casa?". E risponde: "È piccola ma ci sta tutto". La brezza accarezza la piazza, la piazza respira, è l’atto finale. Parla Giovanni Giacobbe, presidente del Forum delle associazioni familiari: "Siamo qui perché più forte risuoni la voce delle famiglie italiane". Segue Eugenia Roccella, la prima portavoce di "Più Famiglia": "Ci hanno chiesto mille volte perché saremmo venuti in piazza San Giovanni. Perché siamo qui? Perché abbiamo nel cuore un’esperienza fondamentale che ci unisce: siamo tutti nati nel grembo di una donna, ge nerati da un atto d’amore tra un uomo e una donna. Siamo tutti figli: laici e cattolici, credenti e non credenti, islamici ed ebrei, omosessuali ed eterosessuali". E infine l’altro portavoce, Savino Pezzotta: "Siamo convenuti in questa piazza, senza distinzioni di fede, di cultura, di ideologia e di orientamento politico. Il bene comune, il bene del Paese, il bene dell’Italia, il bene delle nuove generazioni è il nostro riferimento di fondo". Da Povia a Pezzotta, il cuore e la ragione si incontrano. La festa è finita. L’orchestra augura buon viaggio di ritorno alle famiglie sulle note di Samarcanda: "Vivere, vivere, vivere ancora…". Piazza San Giovanni ha dato all’Italia più di un milione di buoni motivi per vivere ancora e ancora, e ancora. In famiglia. (Umberto Folena, Avvenire, 13 maggio 2007)
La realtà quando rompe gli schemi La verità alla fine trova sempre il modo di emergere. E per chi ha gettato anche solo uno sguardo alle immagini della manifestazione di Piazza San Giovanni, la verità era evidente: mai vista una piazza così, stracolma di famiglie e di bambini, un popolo tranquillo e generoso, senza ombra di aggressività o acredine. Le "orde barbariche" di cui aveva parlato il manifesto, erano mamme che bagnavano la testa dei loro piccoli, ragazzi che cantavano o tiravano fuori i panini dalle sacche, papà che spingevano carrozzine. Gente allegra e nient'affatto minacciosa, che non poteva essere costretta dentro gli schemi ideologici con cui tanti hanno cercato di stravolgere il significato dell'appuntamento. Lo schema, per esempio, di una manifestazione politica, da interpretare tutta in chiave antigovernativa; oppure quello di una sfida alla laicità dello Stato, una sorta di rigurgito sanfedista, magari con Rosy Bindi nei panni di Eleonora De Fonseca. E ancora, l'immagine di una folla prezzolata, pagata dai soldi di una Chiesa ricca e potentissima, o quella di un assembramento di arcigni moralizzatori che non tollerano la diversità, giudicano e condannano. Probabilmente chi ha nutrito, nei confronti di quella piazza, tanto rancoroso livore da volerla equivocare a tutti i costi, continuerà a farlo, e sarà disposto a negare l'evidenza. Chi ha visto, però, lo sa. E persino dalla stampa più ostile traspare qualche incertezza. Impossibile non registrare l'entusiasmo pacifico di quel milione e più di persone, la spontaneità dell'adesione di tante famiglie che si sono sobbarcate il viaggio con i figli, per dire semplicemente: guardate che ci siamo. Nessun quotidiano ha sottolineato l'assoluta laicità di una manifestazione, promossa da associazioni cattoliche, in cui si è difeso a spada tratta il matrimonio civile; o l'insistenza con cui si è ribadito che l'avversione ai Dico non vuol dire un "no" ai diritti delle persone conviventi, omo o eterosessuali che siano, ma un "no" al metodo scelto per farlo. Dire che siamo tutti figli di un atto d'amore tra un uomo e una donna, e che questa è l'esperienza che unifica gli esseri umani, non è un'affermazione discriminatoria, se mai inclusiva. Affermare che il bene della famiglia è il bene del Paese è puro buon senso, qualcosa che chiunque non sia in malafede potrebbe condividere. Benché nei media si sia cercato di far passare l'equivalenza tra Piazza Navona e San Giovanni, cercando di rinnovare la logora contrapposizione tra laici e cattolici, nessuno ha potuto crederci, nemmeno i cronisti. A Piazza Navona la differenza non era soltanto quella - abissale - dei numeri, nonostante si esibisse anche il vincitore dell'ultimo Sanremo; era piuttosto nella litigiosità interna, nell'intolleranza aggressiva di alcuni, nei rituali stanchi, nel tono polveroso dell'insieme, compreso il conformismo banale (né coraggioso né laico) di registi, cantanti, attori e volti noti. Ma nemmeno questo è bastato a oscurare la grande novità delle famiglie che a San Giovanni si incontravano e riconoscevano per la prima volta, di un popolo cattolico che è società civile e chiede ascolto, che è capace di alleanze con il mondo laico non ideologico, che difende la propria esperienza di vita. Quel popolo l'hanno visto tutti, non è più la nebulosa astensionista del referendum sulla procreazione assistita, è una presenza, ha un volto. L'hanno visto soprattutto i politici, quelli che sono venuti e quelli che non sono venuti. E come i bambini del simpatico Povia, i nostri politici si sono stupiti, e hanno fatto "oh!". (Eugenia Roccella, Avvenire, 15 maggio 2007)
L’ha dedicato a Vincenzo Muccioli, «che ha speso la propria esistenza perché lo sterminio finisca», e agli amici che erano ragazzi come lui verso la fine degli anni ’60, quando si diffuse la moda degli spinelli. Laura, Daniela, Paolo, Sacha e tanti altri: ci hanno rimesso tutti la vita, perché di cannabis ci si ammala e si muore. Claudio Risé, psicologo e psicoanalista, ha scritto un libro per rompere il muro d’omertà che, soprattutto in Italia, copre i danni devastanti della "maria". Si intitola Cannabis, come perdere la testa e a volte la vita, edizioni San Paolo. Mentre in altri Paesi d’Europa e del mondo, a cominciare dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti, assistiamo a un deciso cambio di rotta, dopo che dieci anni di ricerche scientifiche hanno dimostrato i danni irreparabili provocati dalla cannabis, in Italia, inspiegabilmente, continuiamo a pensare che facciano molto più male alla salute le merendine e gli "snack". «Questo è un fatto indiscutibile», spiega Risé, «proprio recentemente il ministero della Pubblica istruzione e il ministero della Salute hanno varato dei piani di attenzione nei confronti delle merendine e di ciò che i bambini mangiano a scuola, mentre continuano, rispetto ai loro colleghi europei, a non fare grandi ed esplicite campagne sui pericoli ormai riconosciuti legati all’uso della cannabis». E questo come lo spiega? «In Italia, come scrivo nel libro, persiste questa specie di leggenda rosa cominciata dopo il ’68, quando si diffuse per la prima volta a livello di massa il fumo dei derivati della canapa indiana. La leggenda della "buona maria" che non fa male, la droga della pace, della tranquillità e dell’allegria». Allora era una droga più leggera... «Certo. In quegli anni il principio attivo della cannabis, il "tetracannabinolo", era molto minore di oggi e quindi gli effetti erano più blandi, però io sono abbastanza vecchio per ricordarmi che, fra gli amici che finirono in queste abitudini, il numero delle persone che perse la testa o perse la vita, come dice il sottotitolo del libro, è stato straordinariamente elevato. Quindi questa leggenda rosa non è mai stata vera». Lei sostiene però che oggi i rischi sono molto maggiori. «Certo, perché in pochi anni il principio attivo è passato dal due al 20 per cento, quindi la droga che oggi circola è molto più pericolosa. La ricerca scientifica, legata allo sviluppo delle neuroscienze, ha stabilito in modo preciso tutti gli effetti della cannabis sulle diverse parti del cervello e sul funzionamento complessivo dell’organismo. Dalla disfunzione della memoria breve alla caduta dei freni inibitori fino allo sviluppo di quelle sindromi abuliche che rendono incapaci di organizzare la propria vita su obiettivi precisi e alla disorganizzazione motoria, che è ovviamente una delle cause principali delle stragi del sabato sera». Una delle cose che colpisce di più nel suo libro è proprio questo collegamento tra consumo della cannabis e fenomeni come il bullismo e le stragi del sabato sera. «C’è un rapporto diretto, perché le persone che fanno uso di cannabis diventano incontrollate e incontrollabili. Si sviluppa una forte caduta delle capacità inibitorie e anche una grande eccitazione e aggressività. Secondo le statistiche Onu, la cannabis è la droga maggiormente usata nei casi di violenza. Ci sono fior di ricerche a questo proposito, fatte con la partecipazione di ottimi scienziati italiani, ma i media non ne parlano». A suo avviso i media sono i principali responsabili di questa omertà? «Le responsabilità sono tante: ci sono innanzitutto i politici, e poi un certo mondo dello spettacolo. Però il mondo della comunicazione, col suo silenzio, le copre tutte. In Italia i giornali non ti danno spazio». Cosa si può fare? Per quanto riguarda la famiglia, per esempio, lei stabilisce un collegamento tra l’uso della cannabis da parte dei giovani e degli adolescenti e la mancanza di controllo da parte dei genitori. «Tutte le statistiche internazionali sostengono che più la famiglia segue i figli e si fa sentire interessata al loro comportamento ed è contraria all’assunzione di droghe e meno loro le assumono. La famiglia è certo importante, però sono molti i genitori che negli anni ’70, a loro volta, si facevano gli spinelli e quindi sono poco attenti al fenomeno. Non è un dato trascurabile, perché se oggi la percentuale di chi assume queste sostanze è del 30 per cento, in quegli anni era superiore al 10. E poi la famiglia non ha appoggi da parte delle istituzioni, quindi può fare molto, ma è anche impotente». Che cosa si può fare allora? «Sono molto importanti le politiche pubbliche. Negli Stati Uniti, durante la presidenza Bush, si è fatto un grande sforzo per informare degli effetti nefasti della marijuana: il New York Times, per esempio, che è un giornale democratico, ha diffuso un opuscolo di 60 pagine distribuendolo a tutti gli insegnanti. In conclusione l’uso dei derivati della canapa è diminuito. Bisogna fare la stessa cosa. Informare esattamente sui danni e smetterla di inserire queste sostanze tra le droghe leggere, perché non lo sono affatto. E poi avviare una politica seria di controllo e di dissuasione». (Simonetta Pagnotti, Famiglia Cristiana, 20/2007)
Per una vera cultura del perdono Quando, anni fa, gravi fatti di cronaca scuotevano la coscienza dell'opinione pubblica per la loro rarità, incomprensibilità e ferocia, il perdono rimaneva circoscritto nella sfera intima e privata del singolo o dell'insieme di individui che si trovavano coinvolti in un fatto luttuoso. Oggi, invece, che i reati più orrendi e impensabili si consumano quotidianamente e sono diventati una tragica routine che i mass media restituiscono all'opinione pubblica con una overdose di voyeurismo che finisce pian piano - ma inesorabilmente - con il sopire la capacità di scandalizzarsi e di interrogarsi, il perdono ha mantenuto solo in parte la sua natura privata, individuale, e si è trasformato in un obbligo sociale che divide la pubblica opinione dando vita a due drammatiche e opposte situazioni: lo svilimento, da un lato, della morte e dunque della vita umana; dall'altro, una contrapposizione sterile vittima-carnefice che preclude la via a quella “cultura del perdono”, tanto necessaria in una società dove il conflitto, l'intransigenza, il settarismo, la faziosità sembrano essere le uniche linee guida della convivenza civile. Ripensando a ciò che è accaduto nella chiesa di Fidene, ai funerali di Vanessa Russo, quando dall'altare è stato invocato il perdono e dalla folla qualcuno ha urlato «No, mai mai», la nostra non deve essere una reazione di facile e affrettato giudizio: il perdono è un atto di fede, un atto di speranza. Fede è dare fiducia all'altro, guardando non al passato, ma al futuro. Così fa Dio con ciascuno di noi: ci perdona non come Colui che dimentica il nostro passato, ma come Colui che ci sospinge oltre. Chi si vendica vuole una vittoria per se stesso. Chi perdona dà la possibilità all'altro di vincere, ossia di aprirsi alla vita. Amare il nemico non è buonismo: è un atto che rivela un “di più” che viene da chi si fida dell'uomo. Perdonare non è cancellare l'ingiustizia, ma è offrire una possibilità di conversione a chi ha sbagliato, affidandolo all'amore di Dio. Non giudicare non vuol dire chiudere gli occhi al male. Vuol dire riconoscere che non siamo noi stessi il metro di giudizio, ma Cristo, e Cristo crocifisso. In tal senso, per esempio, il perdono offerto agli assassini da Giovanni, il figlio di Bachelet, nella chiesa di San Roberto Bellarmino di Roma, ai funerali del padre assassinato dalle Brigate Rosse, commosse perfino i carnefici perchè anche chi non fa una precisa professione di fede, può riconoscere un segno pasquale, di risurrezione, in quella vicenda umana, che nascostamente si rinnova, a bilanciare tante violenze e offese, nella storia degli uomini. E' urgente, quindi, rendersi conto del significato più vero e profondo del perdono, oggetto di molte contraffazioni e diminuzioni. Perdonare è molto più che accettare o tollerare l'ingiustizia, molto più che frenare la rabbia e il dolore dell'offesa. Con frequenza si sente dire: «Perdono, ma non dimentico». Perdonare non è dimenticare, ma ricordare con altri occhi! Così il perdono si converte nella forma più intelligente e più saggia di amministrare la “memoria ingrata”, che proviene dalle offese recateci dal prossimo. Il perdono ricostruisce la memoria ed evita l'amnesia. Il perdono non annulla le esigenze della giustizia, ma le completa poiché, se la giustizia dice compensazione, l'amore fa sì che la compensazione sia degna dell'uomo. Non si tratta quindi di contrapporre giustizia e perdono in modo da sottrarsi all'esigenza di riparare l'ordine ingiustamente leso: «Il perdono - come ebbe a scrivere Giovanni Paolo II - mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell'ordine, perché è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli animi». Perdono e non-perdono, allora, possono comprendersi meglio per mezzo degli archetipi di Caino e Abele. Lungo la storia dell'umanità è prevalso l'archetipo di Caino. L'archetipo di Abele conduce, invece, all'amore e al perdono. È una forma di affermazione della volontà umana, di spiritualità profonda, di esistenza ricreatrice. Occorre dare vita a un “comune denominatore etico”, fatto di criteri basilari condivisi, indispensabili al crearsi di una convivenza orientata al perdono e alla giustizia. È quanto suggerisce la “regola aurea” del Vangelo («Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te»): la collaborazione non nasce semplicemente ed esclusivamente da un sia pur necessario orientamento al bene, ma affonda le radici nell'esercizio etico di quei principi, cadendo i quali ogni relazione si ritrova consegnata alla distruzione. Diversamente, come temo, il tutto sarà flatus vocis che non lascia traccia. E oggi, di parole che non lasciano traccia, il mondo è pieno, e certamente stanco! (Doriano Vincenzo De Luca, IncrociNews, 19/2007)
Scontro epocale tra cultura per l’uomo e cultura del nulla Sua Eccellenza Monsignor Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro, sabato 28 aprile, in un interessantissimo incontro cui ha partecipato assieme alla costituzionalista Marta Cartabia, ha sottolineato che di fronte ai ripetuti attacchi alla Chiesa, i cristiani, anziché lamentarsi devono “agire” mostrando con l’esperienza vissuta la bellezza della scelta cristiana, perché attraverso questo Cristo vincerà il mondo; certo di fronte all’ingiustizia non si deve neppure tacere, ma una volta denunciata con franchezza, il compito della vita resta quello indicato prima. In questi giorni le denuncie che siamo obbligati a lanciare sono due: la prima per un fatto molto noto, la seconda per un fatto sconosciuto ai più. Il fatto noto sono le reiterate minacce a Sua Eccellenza Monsignor Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Cei. Inutile descrivere i diversi episodi, dei quali i media hanno informato abbondantemente. Nel documento pubblicato qui, su Culturacattolica.it il 29 - 04 - 2007 dal titolo «Scandalo a Strasburgo» informavamo del tentativo di far approvare, nel contesto dell’ennesima risoluzione sull’omofobia, un durissimo attacco al Presidente della CEI; gli italiani autori di tale attacco personale sono Monica Frassoni dei Verdi, Vittorio Agnoletto e Giusto Catania di Rifondazione comunista. Le considerazioni relative mi sembrano queste: spesso al Parlamento europeo abbiamo sentito accusare, a sproposito, il Santo Padre di istigare all’odio verso gli omosessuali, perché gli stessi presunti “fedelissimi” dei diritti umani non accusano, ben più fondatamente, di istigazione all’odio Frassoni, Agnoletto e Catania, che mentendo e distorcendo artatamente ciò che ha detto S. E. Mons. Bagnasco, hanno cercato di farlo apparire un nemico. sia chiaro che al di là della denuncia dei Parlamentari europei che sono soliti denigrare il Papa, questi tre sono realmente corresponsabili dell’esasperazione del clima nei confronti dell’Arcivescovo di Genova, e del tentativo di intimidazione, come ha detto questa mattina Sua Eminenza il Cardinale Camillo Ruini, che ha aggiunto:«Parleremo ancora più forte e chiaro» poiché quanto detto al punto precedente è vero, che cosa fanno in concreto gli alleati di questi tre Signori, oltre a dichiarare la loro solidarietà di maniera a S. E. Mons. Bagnasco? La loro solidarietà è inutile se almeno non si dissociano da questi tre, smentendoli. Dovrebbero fare qualcosa in più, ma questo sarebbe davvero il minimo. E veniamo adesso al fatto sconosciuto ai più. L’Unione europea recentemente ha costituito la “Agenzia per i diritti umani” che ha sede a Vienna; è un organismo farraginoso con trenta membri del Consiglio di Amministrazione (uno per ogni Stato membro, due nominati dalla Commissione esecutiva e uno dal Consiglio dei Capi di Stato e di Governo), ma soprattutto, come sempre in tema di diritti umani, si teme, fondatamente, che lavori per la definizione dell’aborto come “diritto umano fondamentale” e per la severa condanna dell’omofobia con tutto ciò che per esperienza sappiamo comporta. Non è un’illazione immotivata visto che il Parlamento europeo più volte ha proposto all’Assemblea dell’ONU dei diritti umani di definire così l’aborto, e visto cosa capita tutte le volte che parla di omofobia, che, sia chiaro, merita la si condanni, magari non ogni due o tre mesi! E senza gli strascichi polemici che sono invece il vero scopo do queste risoluzioni insieme al riconoscimento del matrimonio di gay e lesbiche. Bene per il Consiglio di Amministrazione dell’Agenzia di Vienna il Governo Prodi ha designato come propria rappresentante la Dottoressa Elena Paciotti, già presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, già Deputata europea del PSE, eletta nelle file dei Democratici di sinistra. Una persona di alto profilo e prestigio, decisamente aspramente contraria alla Chiesa cattolica ed alle sue “ingerenze”. Qui le considerazioni conseguenti possono essere: Il Presidente del Consiglio Romano Prodi, o era distratto, ma non lo credo, oppure ha avvallato questa nomina, pur sapendo cosa c’è in gioco, vuoi perché non gli interessa nulla salvaguardare la cultura e la visione cristiana dell’uomo e della società, utile a tutti gli uomini, oppure perché è succube di coloro che lo mantengono al potere. I cattolici militanti nei partiti che compongono la maggioranza, molti dei quali sembrano prendere posizione contro i “DI-CO”, cosa hanno fatto e fanno per questo problema che rischia di compromettere veramente molto. Sappiamo tutti come subdolamente si tenti di accreditare nelle varie legislazioni nazionali pronunciamenti dell’Unione Europea su temi non di sua competenza, fino ad ora con successo, sia per prese di posizione dell’Alta Corte di Strasburgo, sia per decisione delle varie Corti Costituzionali. Pur non essendo l’aborto e la relativa obiezione di coscienza non di competenza dell’UE, sono in atto fortissime pressioni sulla Polonia perché renda più permissiva la sua legislazione in materia. O usciamo dall’Europa, o facciamocene carico davvero, e non solo per pronunciare bei discorsi a favore dell’europeismo e della costituzione! Detto ciò (che va detto!) resta il richiamo di S. E. Mons Negri: non possiamo fare solo proclami o piagnistei, tutti siamo impegnati a mostrare, vivendole innanzi tutto per noi, la bellezza, l’umanità e la “convenienza” delle nostre scelte, coerenti con il Vangelo letto alla luce dell’insegnamento della Chiesa; senza volerle imporre a nessuno, ma rendendo evidente ed affermando che non sono valide solo per noi, ma sono per tutti gli uomini che vogliono vivere una vita veramente umana e dignitosa. Questo compito di sempre dei cristiani, sintetizzato da Papa Paolo VI con l’affermazione « il nostro tempo ha più bisogno di “testimoni” che di “maestri” », è oggi particolarmente urgente perché, come ha affermato S. E. Mons. Negri, siamo di fronte ad uno scontro epocale tra la cultura per l’uomo e la cultura del nulla, frutto del positivismo e relativismo, come molte volte ha richiamato Benedetto XVI. Solo questa testimonianza rende autentico un giudizio forte e chiaro su questo momento storico. (dal sito www.culturacattolica.it)
13 MAGGIO 2007
Concerto del 1° maggio: «È terrorismo alimentare furori ciechi e irrazionali» «Anche questo è terrorismo». Non ricorre ai mezzi termini l'Osservatore Romano per definire la performance del comico Andrea Rivera, che dal palco del primo maggio - sul quale era salito come conduttore insieme all'attrice Claudia Gerini - si è lasciato andare a pesanti battute sul Papa e la Chiesa cattolica. Il giorno dopo, ieri, il giornale della Santa Sede, nella cronaca che apre la pagina delle notizie italiane, ha definito la prova un «piccolo comizio», nel quale il conduttore «ha mischiato varie cose e varie aggressioni verbali, dando vita a un confuso e approssimativo discorso sull'evoluzionismo e sui temi delle vita e della morte». In serata, parlando al Tg1, il direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha definito le parole di Rivera un «atto irresponsabile», invitando poi a darsi da fare tutti «per disinnescare le tensioni e per ricreare le condizioni per un dialogo sereno nella nostra società». In questo senso, ha concluso il gesuita, «è bene che quella che in realtà è stata una evidente sciocchezza non diventi una tragedia, e non sia occasione per un riaccendersi di sproporzionati conflitti». Ma a far accendere un'infuocata polemica nel corso della giornata era stato il riferimento dell'Osservatore al terrorismo. L'articolo apparso sull'organo della Santa Sede, invece, afferma con sicurezza che «è terrorismo lanciare attacchi alla Chiesa. È terrorismo alimentare furori ciechi e irrazionali contro chi parla sempre dell'amore per la vita e l'amore per l'uomo». E rincara la dose: «È vile e terroristico lanciare sassi, questa volta addirittura contro il Papa, sentendosi coperti dalle grida di approvazione di una folla facilmente eccitabile». Inoltre l'Osservatore sottolinea come ciò sia fatto tramite argomenti «risibili», che manifestano la «solita sconcertante ignoranza sui temi nei quali si pretende di intervenire pur facendo tutt'altro mestiere». Infine, il giornale d'Oltretevere collega la vicenda al clima di questi mesi, culminato nelle minacce al presidente della Cei Angelo Bagnasco. «Sono di queste ore anche gli slogan nei cortei inneggianti ai terroristi, i messaggi che appaiono su internet, provenienti da "br" in carcere, un'offensiva che cerca di trovare terreno fertile nell'odio anticlericale». Quest'ultimo viene «coscientemente alimentato da chi fa del laicismo la sua sola ragione d'essere, per convenienza politica». Un atteggiamento che usa «interpretazioni capziose di discorsi fatti dallo stesso presidente della Cei, discorsi condotti sempre, come si diceva, in nome dell'amore, in difesa del bene dell'uomo, ragionamenti articolati e argomentati, rivolti a chi ha l'onesta di ascoltarli». Mentre le forzature servono solo ad aprire una «nuova strategia della tensione, dalla quale trae ispirazione chi cerca motivi per tornare a impugnare le armi, per rivitalizzare organizzazioni che hanno perso su tutti i fronti, primo fra tutti quello della storia». Insomma, a far rivivere «anacronismi». «Come quella presenza sul palco a San Giovanni. Un residuato in mezzo a tanti giovani». Infine, l'articolo si chiede come ci sia finito sul palco «questo personaggio, al quale si è purtroppo costretti a concedere ora un'immeritata notorietà». «Chi l'ha scelto non ha tenuto conto del momento che stiamo vivendo. Le parole del "conduttore" forse sono solo espressione di una sconcertante superficialità. Ma la loro pericolosità non è altrettanto superficiale». Gli organizzatori, vale a dire le confederazioni sindacali, hanno preso le distanze subito per bocca dei tre segretari. «Sono frasi del tutto inopportune, tanto più in una giornata come questa», è stato il commento di Guglielmo Epifani della Cgil. Per Raffaele Bonanni della Cisl, «questo non è il luogo adatto per fare politica e fare divisioni». Angeletti (Uil) ha liquidato quelle di Rivera come «dichiarazioni stupide». Bonanni ieri ha invitato l'artista a scusarsi con il Vaticano, ma anche con i sindacati «perché ha usato impropriamente» la manifesta zione «come occasione di propaganda ideologica» e ha affermato che, con le altre due sigle dei lavoratori, valuterà nei prossimi giorni se «chiedere i danni a questa persona per aver leso, in qualche modo, l'immagine di tolleranza e di convivenza tipica del concerto del primo maggio». Rivera - già artista di strada, poi transitato dal teatro, con Gigi Proietti, alla tv, con Serena Dandini («Parla con me» su Raitre) - alla fine e si è detto «profondamente dispiaciuto di aver creato polemiche così accese nel mondo televisivo, politico e religioso» e si è detto «consapevole di non aver fatto delle esternazioni leggere», ma che non era sua intenzione offendere il Papa e la Chiesa. (Gianni Santamaria, Avvenire, 3 maggio 2007)
Una tensione studiata: ma non prevarrà! Piaccia o non piaccia è così: c'è una nuova e incredibile «strategia della tensione» in questo nostro Paese. Una strategia soprattutto mediatica e mirata a scavare, con un aratro storto e trascinato all'indietro, innaturali solchi di incomprensione e di diffidenza nella società italiana. Un'operazione pianificata da quanti ritengono di poter coltivare, in quei solchi tesi a dividere «laici» e «cattolici», ambizioni politiche e raccolti elettorali. Un progetto mediocre eppure potenzialmente devastante, come ha intuito ieri l'Osservatore Romano, perché anche la più risibile e maligna delle pretese - e tale è quella di mistificare l'impegno dei cattolici per l'affermarsi della cultura della vita e a difesa della famiglia - può diventare l'innesco di incendi non solo di parole. Perché questo, purtroppo, si rischia in un Paese dove ancora resiste la malapianta della violenza ideologica. Che si nutre di esitazioni e di minimizzazioni, ma anche di esasperazioni. E il presidente Napolitano ce lo ha opportunamente ricordato con la sua robusta e motivata solidarietà al presidente della Conferenza episcopale italiana fatto oggetto di oscure minacce. Tuttavia, anche solo l'escalation di slogan e di progetti di legge-slogan (dai Dico al cosiddetto testamento biologico) su tematiche decisive per la qualità del futuro della società italiana rappresenta un pericolo che non va sottovalutato. E, comunque, l'artificioso clima di contrapposizione che si tende a instaurare - e che si continua a nutrire di nuovi sospetti e di vecchie invettive anticlericali - è allarmante di per sé. Offre pretesti a chiunque cerchi la luce dei riflettori e sia abbastanza spregiudicato da imbastire acri comizi di circostanza. Persino, come s'è visto il primo maggio a San Giovanni, al "giovin comico" che sapendo di potersi affacciare su una duplice grande platea (quella assiepata nella piazza romana e quella raggiunta grazie a telecamere e microfoni del servizio pubblico radiotelevisiv o) ha premeditato un attacco al Papa e alla Chiesa grossolano quanto a contenuti, ma di studiata e insultante perfidia. Ingiustificabile, eppure accolto con solidale comprensione da non pochi paladini del politicamente corretto. Gli stessi che (nel nome della vera "laicità" e, manco a dirlo, dell'autentico cristianesimo) tengono banco ormai da mesi sulla scena politica e massmediatica, cercando di imporre le proprie visioni su eutanasia, sperimentazione sugli embrioni umani, matrimonio e convivenza. E che, ora, non esitano a difendere a spada tratta dalle inevitabili e severissime critiche l'ultima recluta del loro agguerrito manipolo di propagandisti. Non ci rassegniamo ad allargare le braccia davanti a una tale deriva e al frastuono che l'accompagna. Un rumore di fondo sempre più insopportabile, che nessuno dovrebbe illudersi di poter trasformare nella colonna sonora di questa fase difficile e cruciale della nostra vicenda nazionale nella quale - non dimentichiamolo - stiamo anche decidendo con quanto rispetto per noi stessi e per la nostra storia civile e culturale intendiamo partecipare alla costruzione di un'Europa che non sia più solo un mercato. Non ci rassegniamo, insomma, all'idea di un dibattito politico che si alimenta persino delle battutacce dell'arruffapopolo di turno pur di tenere alto il livello di un distorcente e innaturale livore e pur di puntellare il ruvido e sbilenco muro anticattolico che si vorrebbe inventare all'alba del XXI secolo. Il presidente della Repubblica, in significativa convergenza con il Segretario di Stato vaticano, ha saputo dire con serenità e chiarezza - purtroppo poco imitate da troppi responsabili politici - l'impossibilità di questo progetto divisivo. E continuare parlare con serenità e chiarezza è l'obiettivo ribadito della Chiesa italiana. Questa, e solo questa, è la realtà del nostro Paese. E va rispettata. (Marco Tarquinio, Avvenire, 3 maggio 2007)
Dico: il Family Day del 12 maggio L’appuntamento è per il 12 maggio a Roma, in Piazza San Giovanni Laterano. Arriveranno da tutta Italia, a decine, forse a centinaia di migliaia. Arriveranno singoli, gruppi, famiglie, parrocchie, movimenti. Giungeranno per protestare contro la minaccia rappresentata dai Dico (la Legge sui diritti e i doveri delle persone conviventi). Ma il Family Day, promosso da un folto gruppo di aggregazioni ecclesiastiche, su impulso della Santa Sede, rischia di essere una manifestazione di protesta contro i Dico in cui non si potrà attaccare apertamente il progetto di legge e i suoi responsabili. Non mancano infatti appelli e raccomandazioni perché “la festa della famiglia” mantenga un basso profilo e, soprattutto, non abbia un carattere antigovernativo. Lo ha chiesto ad esempio l’arcivescovo di Pisa monsignor Alessandro Plotti: «Spero che questa giornata non assuma connotazioni di polemica politica, che sarebbero fuori luogo, pro o contro i Dico, questioni di cui si occupa il Parlamento». Eppure i Dico non sono una calamità naturale piombata dal Cielo sul Paese. Si tratta di una proposta di legge presentata da due ministri del governo Prodi, Rosy Bindi e Barbara Pollastrini e approvata dal Consiglio dei Ministri l’8 febbraio 2007. «Un disegno legislativo inaccettabile sul piano dei principi, ma anche pericoloso sul piano sociale ed educativo» lo ha definito il 26 marzo il Presidente della CEI Mons. Angelo Bagnasco nella sua prolusione al Consiglio della Conferenza Episcopale. Ed è proprio per sventare questo pericolo che cattolici e non cattolici manifesteranno a Roma il 12 maggio. Il sen. Alfredo Mantovano ha opportunamente dedicato un volumetto a La guerra dei Dico (Rubettino Editore, Soveria Mannelli 2007) mostrando come la battaglia in corso si situi all’interno di un più ampio attacco promosso da correnti ideologiche rivoluzionarie e forze politiche che odiano profondamente la famiglia e, più generalmente, ogni traccia di ordine naturale e cristiano. La battaglia in corso è una battaglia morale, ma anche politica, come lo furono quelle sul divorzio, sull’aborto e sulla fecondazione assistita. Oggi come allora il nemico più insidioso è rappresentato da tutti i sacerdoti, le comunità di base, le associazioni o movimenti ecclesiali che minano dall’interno l’unità del mondo cattolico, affermando che non si devono intraprendere crociate o guerre sante, ma che la politica migliore resta quella del dialogo e della mano tesa con gli avversari. Gli organizzatori sembrano in qualche punto cedere a queste pressioni, nel linguaggio, se non nei contenuti della manifestazione. Nel volantino diffuso in tutta Italia, accanto al «No al riconoscimento pubblico delle unioni di fatto» si legge un equivoco «Si ai bisogni dei conviventi». La sostituzione della parola “bisogni” con quella “diritti” è un espediente che non contribuisce a chiarire le idee. Poiché i “conviventi” di cui si parla sono soprattutto omosessuali, non si vede perché si debbano soddisfare i loro “bisogni”, i loro “rapporti affettivi”, fondati sull’appagamento del piacere svincolato da ogni regola morale. Resta il fatto che la mobilitazione del 12 maggio sarà un’importante prova di forza, la prima dopo oltre 30 anni, del popolo cattolico. C’è bisogno di comprendere, come afferma l’ultimo fondo di “Famiglia Domani flash” (n.1/07), «che la battaglia sul “matrimonio omosessuale”, ribattezzato Pacs in Francia e Dico in Italia, costituisce, a livello europeo e mondiale, una aperta sfida alla famiglia e alla Chiesa da parte di forze e gruppi di pressione che si propongono di cancellare l’identità cristiana della nostra società». A Roma si manifesterà contro i Dico e in difesa delle radici della civiltà cristiana. (Corrispondenza romana, 5 maggio 2007)
«Se escludiamo le posizioni più radicali, quelle per cui il cristianesimo è solo ideologia, oggi nessuno in campo esegetico mette in dubbio che i Vangeli si fondino sull’evento storico di Gesù e sulla sua morte e risurrezione». Uno sguardo sui Vangeli non appiattito su un unico registro. E con la convinzione che chiudere gli occhi su ciò che agli occhi dei propri contemporanei ha reso la sua figura unica, non è cercare davvero il Gesù della storia. È con questo sguardo che Rinaldo Fabris, presidente dell'Associazione biblica italiana, invita ad affrontare le pagine di Gesù di Nazaret, il libro di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Un volume che, da biblista, invita a considerare all'interno di un dibattito che viene da lontano. «Il rapporto tra il Gesù della storia e il Cristo della fede è un tema teologico centrale già da due secoli - commenta -. Oggi, però, se escludiamo le posizioni più radicali (quelle per cui il cristianesimo è solo ideologia o una mera ricostruzione storiografica), nessuno in campo esegetico mette in dubbio che i Vangeli si fondino sull'evento storico di Gesù e sulla sua morte e risurrezione. Ma il nodo che solleva Ratzinger è un altro: la ricerca storiografica - chiede - si deve comunque fermare al dato minimale suffragato dalle diverse fonti o attraverso i Vangeli può provare ad addentrarsi nel mistero di questa persona? Questa seconda è la prospettiva che il libro propone». Il Papa parla dei limiti del metodo storico-critico, che pure - riconosce - ha dato risultati importanti. «Il problema è l'impossibilità di arrivare con questo metodo preso da solo a un'immagine a tutto tondo di Gesù, capace di fondare davvero la fede. Per lui invece leggere i Vangeli con onestà porta a scoprire che il Gesù storico è proprio il Cristo della fede. Perché nelle parole di Gesù si ritrova la consapevolezza di una relazione unica col Padre: si presenta come il profeta definitivo, Colui che porta a compimento la Torah. Del resto lo stesso Käsemann, allievo di Bultmann, parlava di un'autorità, di un'immediatezza nei rapporti con Dio, presente nella figura di Gesù e che non può essere spiegata se non ammettendo un'eccedenza che rimanda al mistero. In prat ica ciò che Käsemann afferma per via dogmatica, Ratzinger lo presenta come un dato storico offertoci dalla Scrittura». Ratzinger invita a ritrovare il Gesù storico non solo nei sinottici, ma anche nel Vangelo di Giovanni. «Parecchi ricercatori oggi seguono questa linea: il quarto Vangelo, infatti, contiene alcune informazioni riguardo alla geografia e alla storia, che lette nel contesto ebraico del tempo si rivelano molto puntuali e precise. Del resto la tesi di Bultmann, che nel suo commento al Vangelo di Giovanni nel 1941 attribuiva i discorsi di Gesù a una fonte gnostica, alla luce delle successive scoperte non è più sostenibile. E dunque si riscopre l'attendibilità di Giovanni. Anche se poi è interessante notare che il Papa, dopo la premessa sulla dimensione storica, si concentra sui simboli giovannei: il pane, l'acqua, il pastore... Presentato così il simbolo non contraddice la storia, ma coglie la sua dimensione profonda e dunque anche contemporanea. Rivela l'attualità del messaggio di Gesù». Il Papa rilancia anche il metodo dell'«esegesi canonica»: in che cosa consiste? «Propone una lettura dei testi alla luce dell'intero canone biblico. È una reazione a un certo frammentarismo del metodo storico-critico: al suo concentrarsi solo sui livelli, sulle fonti...» Che cosa si perde con questo frammentarismo? «L'idea della Bibbia stessa come documento storico. Perché i suoi libri sono stati conservati, trasmessi, letti e interpretati non isolatamente, ma come un corpus. E dunque è necessaria questa lettura complessiva, che poi è quella del canone ebraico. A questo proposito anche il tema dell'unità tra Antico e Nuovo Testamento è molto importante nel libro. Non a caso il Papa inizia con una citazione del Deutoronomio e dei simboli giovannei offre la radice biblica. Ci rende comprensibile Gesù dentro la storia ebraica, perché il suo linguaggio, le sue immagini, sono quelle della Bibbia. Anche questo è un dato storic o: non è dai libri apocrifi, ma dall'Esodo, dai Profeti, dai Salmi soprattutto, che Gesù trae il suo linguaggio sul Regno di Dio, sulla promessa riguardo alla vita futura, sul suo rapporto con Dio creatore». Questa impostazione del libro aiuterà anche il dialogo tra ebrei e cristiani? «Già come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Ratzinger aveva firmato il documento Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana, che sottolineava espressamente questa continuità. Tenendo però conto anche della differenza: non si può appiattire la figura Gesù dicendo che era solo un maestro ebreo illuminato o un profeta malinteso dall'autorità. Ratzinger lo colloca nella sua specificità sullo sfondo delle attese ebraiche. E ha l'abilità di introdurre anche le tesi di Jacob Neusner, questo rabbino molto "simpatizzante" che non perde però la sua identità di ebreo. Questo è dialogo nel senso vero». C'è una pagina del libro che l'ha colpita particolarmente? «Ho già citato la rilettura dei simboli giovannei. Perché nel libro sì, c'è l'attenzione ai risultati, alla ricerca esegetica. Ma il Papa apre anche delle finestre che vanno al di là dei dibattiti teologici o cristologici. Pone la domanda chiave: che cosa ha portato di nuovo Gesù rispetto a ciò che era l'ebraismo o a ciò che avevano già detto le altre grandi esperienze religiose dell'umanità? È la questione della differenza, della novità cristiana, a lui tanto cara. Con Gesù - è la sua risposta - è cambiata l'immagine di Dio e l'immagine dell'uomo. Ha portato l'immagine di Dio Padre dentro l'umanità. Questo, alla fine, è il cuore dei Vangeli». (Giorgio Bernardelli, Avvenire, 8 maggio 2007)
Caso Bagnasco. Minacce ai preti: una specialità dei comunisti Le scritte apparse a Genova contro il vescovo, attuale presidente della Cei (“Bagnasco a morte”, “Bagnasco attento, ancora fischia il vento”) corredate da falce e martello, stella delle Br e “P38”, sembrano sottovalutate o snobbate. Haidi Giuliani, senatrice di Rifondazione comunista (e madre di Carlo Giuliani) ha dichiarato che sono “scritte stupide”, ma “non è da darci tutta questa rilevanza, anche perché can che abbaia non morde”. Forse la senatrice Giuliani ha dimenticato che in Italia, nel recente passato, alcuni che abbaiavano minacce poi hanno anche morso. E ferocemente. Parlo dell’estremismo rosso degli anni Settanta che – senza essere stato fermato al tempo dei proclami – diventò terrorismo politico ferendo gravemente la nostra democrazia. Il Capo del governo, il presidente della Camera Bertinotti – di solito prodigo di dichiarazioni – insieme con Diliberto e gli altri leader, non avrebbero potuto esprimere pubblicamente la loro solidarietà a monsignor Bagnasco? E non avrebbero dovuto invitare a isolare e condannare i facinorosi che si esprimono con quelle minacce? I politici che hanno manifestato solidarietà al presidente dei vescovi italiani si contano sulle dita di una mano. Stupiscono soprattutto i silenzi fra i politici cattolici (che si sarebbero dovuti sentire più di tutti). Sorprende meno il silenzio di quanti – per dirla con “Avvenire” – non perdono occasione per strillare che “la Chiesa è prepotente e loro sono democratici”. Le minacce a Bagnasco peraltro si aggiungono a scritte blasfeme e a manifesti apparsi sempre a Genova dove si vede (in fotomontaggio) il papa davanti al plotone di esecuzione. Tutti segnali di intolleranza. Non è in atto una pericolosa minimizzazione? Ieri “Avvenire” non ha drammatizzato, tuttavia in un editoriale ha ammonito che “il salto fra la microcriminalità politica e l’avventurismo di indole terroristica è più probabile se il brodo di coltura è abbondante e caldo al punto giusto. Se gli obiettivi più sensibili sono abitualmente lasciati soli, rispetto allo scherno pubblico e alla maldicenza generalizzata”. E’ per questo che sarebbe preziosa la pubblica condanna di quelle minacce e la solidarietà sincera col presule da parte di tutti i leader politici. E’ sensato condividere la conclusione dell’editoriale del Foglio: “La scelta compiuta da settori estremisti di mettere nel mirino (c’è da sperare solo metaforico) i vescovi e il fatto che l’Italia sia ormai l’unico paese europeo in cui gli ecclesiastici si muovono sotto scorta, descrivono una situazione densa di pericoli sui quali la politica è chiamata a riflettere”. E’ un’analisi giustamente allarmata. Ma c’è da aggiungere che per capire il presente e il futuro possibile bisogna ricordare il passato. Specie se rimosso. Anche il Foglio lo dimentica evidentemente se – nello stesso editoriale – si legge che “il movimento operaio italiano ha sempre considerato la pace religiosa come un obiettivo da perseguire ed è per questo che vedere i suoi simboli tradizionali, la falce e il martello, sotto scritte minatorie nei confronti di un prelato tanto rappresentativo non può essere considerata una ‘normale’ espressione di estremismo”. Su questo dissentiamo. C’è – questo sì – la storia dell’articolo 7 della Costituzione che Togliatti fece votare, ma, fuori dal Palazzo, nell’Italia reale c’è anche la storia censurata, di una immensa carneficina del clero italiano, perpetrata da fanatici che inalberavano il simbolo della “falce e martello”. Altro che don Camillo e Peppone (racconto simpatico, ma lontano anni luce dalla realtà). Don Mino Martelli, prete imolese, fu uno dei primi a rompere coraggiosamente l’omertà storiografica con un paio di volumi sulle violenze rosse contro i preti: “I partigiani comunisti” scrisse nel 1982 “spedirono in Paradiso con un bel rosario di piombo durante e dopo la guerra, presumibilmente 110 sacerdoti, l’ultimo dei quali nel 1951… A quanto mi consta né i partigiani democristiani (80 mila in Italia), né i repubblicani, né i socialisti, né i liberali, hanno continuato a sparare dopo la guerra. Solo i comunisti – non tutti per fortuna – hanno abbondantemente e impunemente ucciso anche nel dopoguerra e fino al 1951”. Ma per cinquant’anni il silenzio ha avvolto il più grave martirio del clero italiano in duemila anni di storia della Chiesa in Italia (a cui si aggiungono anche i tanti preti massacrati dai nazifascisti durante la guerra). Gli storiografi cattolico-democratici, che hanno avuto in mano le cattedre universitarie e hanno scritto centinaia libri e articoli, e sottoscritto tanti appelli progressisti di critica alla Chiesa (anche recenti), sembra non abbiano mai trovato il tempo per alzare i veli su questa immane tragedia. E’ curioso che il Paese che si dedica da decenni alla commemorazione delle stragi (a cui sono state intestate vie, convegni e perfino delle commissioni parlamentari), non si sia mai voluto accorgere della strage dei preti italiani. Qualche faro si è acceso e qualche riconoscimento di eroismo è arrivato solo per i preti che hanno avuto la ventura di essere massacrati dai nazisti. Ma di solito se n’è fatta occasione di propaganda. E’ il caso del martirio di don Giovanni Fornasini, ucciso dai tedeschi a Marzabotto. A lui – protestò l’Osservatore romano – “forse per errore o albagia propagandistica fu concessa la Medaglia d’oro al merito partigiano. Uno scherzo della storia!” polemizzò il giornale vaticano. “Egli fu soltanto ‘partigiano’ di Dio, ucciso perché lottava per la salvezza delle anime, detestava la violenza, ligio solo alle verità evangeliche, protettore degli innocenti, condannando partigiani e soldati per lo scempio delle popolazioni inermi”. Come gli altri parroci uccisi. Don Giuseppe Jemmi per esempio aveva anche eroicamente aiutato la Resistenza e fu pure arrestato dai tedeschi. Poi però fece sentire la sua voce di pastore contro gli omicidi dei partigiani: “Fratelli, sta scritto: non ammazzare! Non macchiatevi le mani di sangue. Non ascoltate la tentazione della vendetta. Non siate i figli di Caino…”. Così fu ammazzato lui stesso il 19 aprile 1945 e la sua splendida figura è rimasta sconosciuta. Come quelle di tanti altri preti martiri. Si è dovuto aspettare Giampaolo Pansa che nel 2003 – grazie all’autorevolezza del suo nome, al di sopra di ogni sospetto ideologico – ha raccontato, insieme al “sangue dei vinti”, anche il martirio di alcuni sacerdoti nel dopoguerra, quando – scrive - “stava cominciando un’altra guerra civile e a tutto campo: partigiani comunisti contro preti, padroni e democristiani”. Il sentimento diffuso all’estrema sinistra era che “bisognava prepararsi alla famosa ora X”, il “grande cambio”, la presa del potere come nei paesi dell’Est, e, scrive Pansa, “il vero drammatico problema era che nel partito di Togliatti, di Longo, di Secchia, di Amendola, di Pajetta, l’intero gruppo dirigente, compresi i capi locali, non facesse quasi nulla per stroncare alla radice questa convinzione”. Sulla scia di Pansa – che ha valorizzato il lavoro di solitari storiografi locali o parroci che hanno sfidato il tabù e l’ostilità ideologica - è uscito il libro “Storia dei preti uccisi dai partigiani” di Roberto Beretta, che tenta di raccontare tutte queste drammatiche vicende. Con una storia così alle nostre spalle, oggi si deve leggere (lo apprendo da Avvenire) che “Liberazione”, giornale di Rifondazione comunista, “paragona il clero al Ku Klux Klan”. Così la Chiesa italiana, invece del riconoscimento del suo martirio, si prende ancora insulti. Non sarebbe il caso di riflettere a Sinistra? (Antonio Socci, Libero, 11 aprile 2007)
Ormai, per i parlamentari europei, sembra un dato assodato: il cattolicesimo è omofobo. L'aggettivo indica, secondo la definizione fornita in un precedente documento dell'Unione, la «paura e avversione irrazionale nei confronti della comunità Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali e transgender)». L'Italia sarebbe dunque un luogo dove i diritti degli omosessuali vengono calpestati, dove la Chiesa incita all'odio e alla caccia contro i diversi, fino a provocare suicidi nelle scuole. Questo è il quadro che emerge dalla mozione europea votata il 26 aprile, in cui si mescola in un'unica condanna la situazione polacca e quella italiana, accomunate da un elemento ritenuto intollerabile: la vitalità della fede cattolica. C'è uno strano rovesciamento della realtà storica, che ha condotto il cardinale Scola a esprimere tutta la sua amara incredulità: «Come si fa a pensare che uomini e donne cristiani, preti, vescovi, che ogni giorno si chinano nella condivisione dei bisogni di tutti, senza distinzioni, non cerchino di accompagnare il cammino di tutti?». La religione cattolica, fondata sul perdono e l'accoglienza, da sempre sensibile di fronte alla fragilità umana, tanto da essere stata nei secoli accusata di scarso rigore, di ipocrisia, di lassismo, oggi viene imputata del contrario, spesso da chi appartiene a una cultura puritana di ben altra asprezza. O forse è proprio quella stessa cultura, che odia il peccatore più del peccato, e brucia chi dalla voce di popolo è additata come strega, che vince sulla ragionevolezza e sulla realtà. Il rigorismo moralista tipico del nord Europa, incapace di sopravvivere nella sua versione luterana originale, sembra essersi comodamente annidato nella cultura postmoderna; dopo aver distrutto dall'interno la fede cristiana in patria, mira a distruggere non tanto il cattolicesimo, quanto le vecchie ma pericolanti mura del liberalismo europeo, intrecciandosi con un'intolleranza giacobina. Si tratta di una scelta pericolosa per la comunità Lgbt, la quale però non sembra cogliere il rischio, abbagliata dalla terminologia dei diritti: eppure a confermarlo basterebbe la sovrana indifferenza con cui gli stessi parlamentari europei hanno accolto il «permesso» dato dall'Onu alla lapidazione degli omosessuali in Nigeria, notizia che non ha scandalizzato nessuno, non ha provocato furibonde reazioni, ed è stata quasi ignorata dalla stampa. Ma le avvisaglie del nuovo corso erano già contenute tutte nel processo politico intentato in sede europea all'onorevole Rocco Buttiglione, candidato dall'Italia come commissario, e clamorosamente bocciato dopo una sorta di percorso penitenziale che ha previsto anche una (inutile) lettera di scuse. La vicenda è stata ricostruita da Luca Volonté, capogruppo Udc alla Camera, in un libro edito da Rubbettino e uscito da poco in libreria, La congiura di Torquemada. Molti ricorderanno le polemiche nate intorno al caso Buttiglione, ma rileggere a tre anni di distanza la cronaca degli eventi offre notevoli spunti di riflessione. Scorrendo il resoconto delle domande poste al candidato italiano dalla Commissione, e le risposte, emerge con evidenza una tenace volontà di equivocare, un pregiudizio radicato, e soprattutto una tendenza a leggere tutto attraverso le lenti deformanti nel dibattito, secondo i membri delle commissioni giudicanti: troppo carico di valenze emotive, estraneo alla pura politicità della sede. Eppure, rimane netta l'impressione che proprio a categorie squisitamente morali i parlamentari abbiano fatto ricorso, forse inconsapevolmente, nel valutare Buttiglione. Certo, il politico italiano scontava anche l'appartenenza al governo Berlusconi, che mai in Europa è stato fino in fondo accettato, ma l'attacco era tutto cucito sulla sua fede cattolica, e sulla necessaria incompatibilità con la carica, che da questa fede derivava. Inutilmente Buttiglione, durante un esame che ricorda più che altro un interrogatorio di polizia, si appella alla grande tradizione europeista dei politici cattolici, inutilmente insiste sulla distinzione tra morale e diritto, dichiarando che mai e poi mai discriminerebbe una persona perché omosessuale. Il concetto di discriminazione è ormai slittato verso nuovi significati, e nuovi usi. Nel libro si riporta integralmente un articolo di Giuliano Ferrara che sottolinea la strana asimmetria che si è creata: «Buttiglione e i suoi seguaci, malgrado tutta la loro avversione, non cercherebbero di impedire a un politico di rivestire un certo incarico per via dell'omosessualità. Buttiglione ha mai espresso una lamentela nei confronti di Peter Mandelson, quell'eccitante attivista di Bruxelles?». Altri, invece, brandiscono l'arma impropria della politica contro le discriminazioni per discriminare opinioni che non amano, criminalizzarle e metterle al bando. (Eugenia Roccella, Il Giornale, 28 aprile 2007)
Per essere profeti, le religiose hanno bisogno di intimità con Gesù, dice il Papa Per essere profetesse del tempo attuale, le religiose devono coltivare un’intima relazione di amicizia con Dio, ha affermato Benedetto XVI. “Il ‘profeta’ prima ascolta e contempla, poi parla lasciandosi permeare totalmente da quell’amore per Dio che nulla teme ed è più forte persino della morte”, ha spiegato questo lunedì ricevendo in udienza i partecipanti all’Assemblea Plenaria dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali. “L’autentico profeta, perciò, non si preoccupa tanto di fare delle opere, cosa senza dubbio importante, ma mai essenziale – ha spiegato il Papa –. Egli si sforza soprattutto di essere testimone dell’amore di Dio, cercando di viverlo tra le realtà del mondo, anche se la sua presenza può talora risultare ‘scomoda’, perché offre ed incarna valori alternativi”. L’assemblea di questa istituzione, che rappresenta 794 famiglie religiose femminili operanti in 85 Paesi dei cinque Continenti, sta riflettendo dal 6 al 10 maggio all’Ergife Palace Hotel di Roma sul tema "Chiamate a tessere una nuova spiritualità che generi speranza e vita per tutta l’umanità". “Solo” dall’“unione con Dio scaturisce infatti ed è alimentato il ruolo ‘profetico’ della vostra missione, che consiste nell’‘annuncio del Regno dei cieli’, annuncio indispensabile in ogni tempo e in ogni società”, ha detto il Papa. “Non cedete pertanto mai alla tentazione di allontanarvi dall’intimità con il vostro celeste Sposo, lasciandovi catturare eccessivamente dagli interessi e dai problemi della vita quotidiana”, ha raccomandato il Vescovo di Roma alle superiore. “Sia quindi vostra preoccupazione prioritaria aiutare le vostre consorelle a ricercare primariamente Cristo e a porsi generosamente a servizio del Vangelo”, ha proseguito. “Non stancatevi di riservare ogni cura possibile alla formazione umana, culturale e spirituale delle persone a voi affidate, perché siano in grado di rispondere alle odierne sfide culturali e sociali”, ha concluso. Nel suo saluto a Benedetto XVI, il presidente dell’Unione Internazionale delle Superiore generali, suor Therezinha Rasera, ha affermato per le oltre 600.000 religiose sparse nel mondo: “Crediamo che la nostra missione sia, per antonomasia, quella di prendersi cura della vita, ovunque questa sia minacciata”. “Siamo presenti nei luoghi di povertà, conflitti, tensioni, guerre e negli angoli più remoti di questo pianeta, vivendo molte volte le stesse condizioni e il destino della gente che soffre”, ha aggiunto. (Zenit, 7 maggio 2007)
6 MAGGIO 2007
Ancora sul «Gesù di Nazaret» di Ratzinger I pregiudizi del laico Papa Ratzinger lo ha messo nero su bianco: il suo Gesù di Nazaret (Rizzoli) - uscito due settimane fa come prima parte di un'opera al cui completamento sta lavorando e che «non è in alcun modo un atto magisteriale» - può ovviamente essere criticato, ma ha bisogno di un «anticipo di simpatia senza il quale non c'è alcuna comprensione». E la prima ampia critica del libro, che viene pubblicata oggi su «Micromega» a firma del suo direttore Paolo Flores d'Arcais, conferma quanto ha scritto Benedetto XVI. Il lungo testo infatti è del tutto privo di quell'atteggiamento necessario alla conoscenza di qualsiasi realtà e anzi dimostra un pregiudizio - nel senso etimologico di giudizio a priori - che finisce per trascurare il libro del papa e impedisce di capirlo. Il saggio del filosofo italiano, intitolato Gesù e Ratzinger tra storia e teologia, è molto lungo e tuttavia avverte di essere «un provvisorio e parziale (anzi parzialissimo) insieme di appunti» che sarà sviluppato in un libro, annunciato per l'autunno. In effetti il testo si presenta come una raccolta di osservazioni - ricavate da una bibliografia «soprattutto anglosassone» (molto lacunosa) - sulla questione del Gesù storico e sul suo rapporto con la tradizione cristiana. Osservazioni che intendono criticare a fondo il Ratzinger dell'Introduzione al cristianesimo (il commento al Credo apostolico che già nel 1968 ebbe in Germania un clamoroso successo) e del recentissimo libro su Gesù. In realtà la critica di Flores d'Arcais non «smentisce e demolisce in modo analitico e dettagliatissimo le pretese di Papa Ratzinger» - come recita con enfasi pubblicitaria il sommario del saggio - ma si contrappone soprattutto alle affermazioni generali di Ratzinger affastellando, senza troppo ordine e con una certa approssimazione, argomenti risaputi, come per esempio quello della pluralità dei cristianesimi: fenomeno ben noto agli storici e che non contraddice per nulla l'argomentare di Benedetto XVI. Il quale ne è naturalmente al corrente, e dimostra anzi di avere uno sguardo molto più largo e aggiornato di quello degli autori utilizzati dal direttore di «Micromega». Basti ricordare l'attenzione di Ratzinger, puntuale e rigorosamente storica, rivolta all'importanza di tutto il giudaismo ellenistico e degli scritti di Qumran oppure al rapporto fra la tradizione giovannea e quelle sinottiche. Poco persuasiva storicamente è poi la considerazione indistinta delle diverse correnti del cristianesimo primitivo - da quelle giudeocristiane ai sistemi gnostici - e, per quanto riguarda la formazione del corpus neotestamentario, il prescindere completamente sul piano storico dalla prospettiva "canonica" che il Gesù di Benedetto XVI invece valorizza. E ancora, per quanto riguarda il contesto ebraico e il rapporto con l'ebraismo attuale, appare meno anacronistico il confronto di Ratzinger con Jacob Neusner rispetto all'utilizzazione che Flores d'Arcais fa di Geza Vermes, altro autorevole studioso ebreo. Per essere davvero stringente (ed eventualmente convincente) la critica del filosofo a Ratzinger dovrebbe insomma confrontarsi sul Gesù storico - e sui punti trattati nel Gesù di Nazaret, tutti trascurati a eccezione della discussione sul termine abbà - tenendo conto del dibattito scientifico maturato nell'ultimo ventennio, cioè almeno sfogliando le opere di Raymond E. Brown, John P. Meier, Klaus Berger (tradotte dalla Queriniana) e di James D. G. Dunn (Paideia). Il tono pregiudiziale di Flores d'Arcais scivola poi in un livore accusatorio ben sintetizzato dalla chiusa del lungo articolo pubblicato su «Micromega», che citiamo per esteso proprio per dar prova del tono generale con cui l'autore conduce le sue critiche: «Questo suo libro - conclude Flores d'Arcais - si iscrive dunque in quella vera e propria crociata di "Riconquista" con cui la chiesa gerarchica di Papa Ratzinger non vuole più limitarsi a criticare con veemenza le conquiste della modernità (fragilissime, mai coerentemente sviluppate e oggi più che mai a repentaglio), cioè l'"etsi Deus non daretur" che pone fine alle guerre di religione, l'autonomia dell'uomo, il kantiano "sapere aude!", la lezione darwiniana che vanifica ogni finalismo e ci rende "sovrani", ma punta a colonizzare nuovamente le società, a realizzare un nuovo "costantinismo" sulle macerie di ogni vestigia del Concilio Vaticano II, ad imporre come "legge naturale" i propri dogmi morali e come reati penali ciò che considera "peccati mortali", dopo aver rovesciato con interpretazioni oscurantiste tutti i valori critici dell'illuminismo, per sequestrarli e annetterseli». Che dire? Bisogna soltanto sperare che Flores d'Arcais riveda questo «insieme di appunti» ed eviti nel suo prossimo libro l'immancabile e gratuita accusa di oscurantismo fideista che su «Micromega» rivolge al Gesù di Benedetto XVI. Che nella prospettiva di fede va al di là del metodo storico, ma certo non ne prescinde. Proprio come la fede non prescinde dalla ragione. (Gian Maria Vian, Avvenire, 27 aprile 2007)
Ratzinger contro i "maestri del sospetto". Sin dalle prime righe della Premessa al suo Gesù di Nazaret, Joseph Ratzinger (come preferisce essere indicato, scrivendo qui come studioso privato) spiega perchè, con una sorta di urgenza, ha dedicato al libro «ogni momento libero» anche dopo «l’elezione alla sede episcopale di Roma». E spiega pure perchè, «non sapendo quanto tempo e quanta forza saranno ancora concessi», ha deciso di anticipare i capitoli centrali del testo progettato, quelli sulla vita pubblica del Nazareno, rinviando al futuro la riflessione sui “vangeli dell’infanzia“ e sul “mistero pasquale“, cioè i racconti di passione, morte, risurrezione. Ratzinger, dunque, spiega questa fretta usando un’espressione significativa, che sembra in contrasto con i suoi toni sempre pacati ed equilibrati. Se ha deciso di andare alle radici stesse, al Fondatore medesimo, è perchè c’è oggi «una situazione drammatica per la fede». Fede che sta dissolvendosi, se non si contrasta l’ aggressione –che viene anche da certa intellighenzia cattolica – alla verità storica dei racconti evangelici. Il Cristo, il Messia, il Figlio di Dio annunciato e adorato dalla Chiesa non sarebbe che una costruzione tardiva, che poco o nulla avrebbe a che fare con il «Gesù della storia», oscuro predicatore come tanti altri all’interno della tradizione ebraica. «E’ penetrata profondamente nella coscienza comune della cristianità» scrive colui che ora è papa «l’impressione che sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo in seguito la fede nella sua divinità avrebbe plasmato la sua immagine». Questo libro, dunque, vuole essere uno strumento per “ricominciare da capo“, per procedere a quella rievangelizzazione già auspicata pressantemente da Giovanni Paolo II. Pagine, queste, pensate e volute per rivisitare, riaffermare, salvaguardare il fondamento dell’intero edificio cristiano. Soltanto alla luce di una certezza di fede ritrovata è possibile darsi ad elevazioni spirituali e trarre conseguenze morali. Ma se Gesù non è l’Unto annunciato dai profeti ed è solo uno Yeoshua, un predicatore vagante dagli incerti contorni dell’era tra Augusto e Tiberio, sono abusive e grottesche le elucubrazioni che si ricavano da un insegnamento frutto di chissà quali oscure manipolazioni e interpolazioni. Pur allergico alle iperboli giornalistiche, questa volta aggettivi come “prezioso“, se non “decisivo“ (per i credenti, ma forse non solo) mi sembrano applicabili al Gesù del teologo bavarese che proprio oggi compie il suo ottantesimo anno e da due è Vicario di quel Cristo di cui qui parla. Mentre le attuali classifiche dei best seller librari nereggiano di titoli che compatiscono l’innocenza o denunciano l’ignoranza di coloro che si ostinano a dirsi credenti, ecco un papa-professore che spiazza piccoli e grandi “maestri del sospetto“, mostrandosi più aggiornato di loro. In effetti, vanno oggi per librerie dei libelli che vorrebbero dimostrare che “non possiamo più essere cristiani“ riesumando la propaganda dei polemisti ottocenteschi, ripetendo le trite grossolanità dei farmacisti e dei notai della provincia massonica. Si presentano cioè, come rivelazioni devastanti per la fede argomenti che entusiasmavano anche un giovane socialista, un autodidatta, tal Benito Mussolini che –sul palco dei comizi, avvolto in una bandiera rossa– dava un minuto d’orologio all’inesistente Dio per fulminarlo. Si diffondono, poi, libri certamente più insidiosi perché più sofisticati, ma dove su Gesù discettano professori formatisi sugli schemi novecenteschi, secondo i quali le incerte, spesso arbitrarie, etodologie dette “storico-critiche“ sarebbero “scienza“ e, dunque, oggettive, indiscutibili. Dimenticando, però, di avvertire il lettore che quegli schemi sono tanto poco “storici“ e tanto poco “critici“ che ogni generazione di esegeti confuta quella precedente, dando per sicura un’altra verità, destinata ovviamente ad essere essa pure ribaltata. Anche perchè, come ricorda con ironia ma con verità Ratzinger, «chi legge queste ricostruzioni del “vero“ Gesù può subito constatare che esse sono soprattutto fotografie degli autori e dei loro ideali», ciascuno spacciando per “scienza“ il suo temperamento e lo spirito del suo tempo. Difficile prendere sul tragico biblisti come questi, che per decenni hanno venerato come principe tra loro o, almeno, hanno rispettato un Rudolf Bultmann (al quale Ratzinger dedica qualche battuta ironica) che sentenziò che non esiste, che non può e che non deve esistere alcun rapporto tra ciò che i vangeli raccontano e ciò che davvero è successo, ma che al contempo rifiutò sempre di andare in Palestina: se i luoghi e l’archeologia confutavano la teoria libresca, tanto peggio per loro, non per la teoria. A chi è rimasto al XIX o al XX secolo, ecco ora far controcanto non un papa che si appella al principio di autorità o formato a quella che Hans Kung chiama, con lo sprezzo del clericale “adulto“, la «arcaica teologia romana», ma uno studioso tra i più apprezzati al mondo che ha attraversato tutta la modernità per affacciarsi, alla fine, al post-moderno. L’epoca, cioè, in cui, dopo aver triturato in ogni modo i versetti evangelici per piazzarne i detriti nel cestino del mitico, del didascalico, dell’edificante, dell’interpolato, ci si è accorti che, in realtà, in questo modo l’enigma di Gesù non si dissolveva ma diventava più fitto. E che, forse, la lettura semplice dei vangeli “così come stanno“ può essere più chiarificatrice di quella di un accademico tedesco. Dico tedesco non a caso perché in Germania –dove ogni università anche pubblica ha due facoltà di teologia e di esegesi, una protestante l’altra cattolica -è nato e si è via via ampliato, sino a divenire ipertrofico, quel metodo “storico-critico“ accettato poi ovunque dai biblisti, intimiditi da nomi teutonici che si richiamano alla severa, inappellabile Wissenschaft, la Scienza con la maiuscola. Formgeschichte, Redaktiongeschichte, Wirkunggeschichte, Entmithologisierung, Ur-Quelle ed infinite altre teorie e sistemi che il professor Ratzinger conosce benissimo, che sono nati e coltivati nelle università in cui è stato docente, che nella sua giovinezza hanno affascinato anche lui. E che ora non condanna né rinnega, sia chiaro. «Spero» scrive «che il lettore comprenda che questo libro non è stato scritto contro la moderna esegesi ma con riconoscenza per il molto che ci ha dato e continua a darci». Nulla rifiuta di quanto di valido venga dagli accademici sui colleghi. Non vuole andare contro ma oltre, consapevole che proprio la ricerca –purché concreta, sensata e, dunque, pronta a ogni possibilità, persino a quella di aprirsi al Mistero- può mostrarci che ci sono ben più cose nella Scrittura di quanto non scorga la critica positivista, il razionalismo esegetico. Così, alla fine lo specialista come lui, consapevole di ogni obiezione, rotto a ogni teoria, sistema, metodo può concludere che, se si vuol raggiungere Gesù , «ci si può fidare dei vangeli», che non è vero che la ricerca storica sia in contrasto insanabile con la fede. Al contrario, alla fine può confermarla. In questo senso, il libro che il nostro docente ha iniziato da cardinale e ha completato da pontefice, sembra nella linea del grido di colui che sempre chiama «il mio venerato e amato Predecessore». Ma sì, il «non abbiate paura!» di Giovanni Paolo II risuona anche in queste pagine che non temono la critica dei sapienti, che la rispettano, che ne colgono quanto vi è di positivo ma la sorpassano. (Vittorio Messori, Corriere della Sera, 15 aprile 2007)
Contro il magistero della Chiesa La Chiesa nel mirino Ancora attacchi contro il presidente della Cei Angelo Bagnasco. Un’altra scritta minacciosa con spray rosso («Bagnasco boia») è comparsa a Firenze, sul retro della Chiesa di Santo Spirito. Il graffito secondo la polizia, sarebbe stato realizzato da alcuni partecipanti al corteo del 25 aprile, organizzato in Santo Spirito dai centri sociali e dalle sigle dell'estrema sinistra. Ma gli attacchi arrivano anche dal cuore dell’Europa. Tre eurodeputati italiani, Vittorio Agnoletto e Giusto Catania di Rifondazione e Monica Frassoni dei Verdi, hanno presentato una bozza di risoluzione al Parlamento europeo in cui fanno riferimento esplicito al vescovo di Namur e a Bagnasco, colpevoli, secondo questo drappello di parlamentari della sinistra radicale, di omofobia e di discriminazione nei confronti degli omosessuali. Nel documento si dice che Bagnasco avrebbe «comparato un progetto di legge che conferisce una serie limitata di diritti alle coppie omosessuali a una licenza a commettere atti di incesto e di pedofilia». Il documento è stato votato ieri ma per intervento di Forza Italia il riferimento a Bagnasco è stato tolto. Il caso però resta e ieri è scoppiata la polemica. Il Sir, l’agenzia dei vescovi, usa toni duri: «È ora di dire basta a questi attacchi indecorosi da parte di esponenti comunisti e verdi. Il rischio è che, batti e ribatti, la falsità generi odio e provochi conseguenze imprevedibili». Gli attacchi al presidente della Cei in sede europea «sono segni del non voler comprendere le cose, e sono segni anche di ignoranza» afferma mons. Aldo Giordano, segretario generale del Ccee (Consiglio delle Conferenze episcopali d'Europa). «Questi attacchi - ha spiegato il prelato - non esprimono quindi l'opinione del popolo europeo e neanche il parere di coloro che vogliono veramente capire i problemi e non semplificarli con gli slogan». Per in cardinale Camillo Ruini «la Chiesa cattolica, nonostante alcune pallottole di carta, gode di un rispetto maggiore in Italia di quanto accada nelle istituzioni dell'Unione europea». Il capogruppo Udc alla Camera, Luca Volontè chiama in causa il presidente della Camera Bertinotti nella sua veste di ex segretario del Prc «affinchè utilizzi tutti gli strumenti di moral suasion per invitare il suo partito di provenienza ad evitare ogni atto che possa in qualche modo accrescere la tensione, aumentare i pericoli o fomentare nuove minacce anticristiane nel Paese». Ma Rifondazione non molla la presa e insiste. L’eurodeputato Giusto Catania afferma che «le reazioni violente dei vescovi italiani a seguito dell'approvazione da parte del Parlamento europeo della risoluzione sull'omofobia è sintomatica di una vocazione omofobica presente tra le alte gerarchie ecclesiastiche». Replicano Antonio Tajani, Presidente degli eurodeputati di Forza Italia e vice presidente del Ppe e Mario Mauro, vice presidente del Parlamento Europeo che chiedono a Fassino, D’Alema, Rutelli e Prodi di «prendere con decisione le distanze dalle proprie famiglie politiche europee che hanno tentato di lanciare un attacco calunnioso nei confronti del presidente della Cei». (Il Tempo, venerdì 27 aprile 2007)
Se l’anticlericalismo si traveste da pacifismo Al Parlamento europeo nei giorni scorsi è stata presentata una mozione violentemente anticlericale a integrazione della risoluzione contro l’omofobia. A scendere sul piede di guerra alcuni deputati dei Verdi e della Sinistra radicale, con un attacco frontale alla chiesa cattolica e a quella italiana, in particolare, nella figura di monsignor Angelo Bagnasco, presidente della Cei, accusato di aver «comparato un progetto di legge (Dico, ndr) a una licenza a commettere atti di incesto e di pedofilia». Notizia non vera, già smentita e smontata, senza bisogno di ulteriori ricami ideologici. Punto e a capo. Ma tant’è, quando si decide di fare la guerra, tutte le armi e tutti i pretesti vanno bene al caso. Il Ppe ha poi edulcorato un po’ il paragrafo avvelenato della Risoluzione: «Poiché dichiarazioni e atti da parte di leader politici e religiosi hanno un grandissimo impatto sull’opinione pubblica, costoro hanno un’importante responsabilità nel contribuire positivamente a un clima di tolleranza e di uguaglianza». Sta di fatto che alcuni rappresentanti delle nostre forze al governo hanno sentito il bisogno di un tale affondo. Non siamo più al rifiuto delle radici cristiane dell’Europa, ma più direttamente a un anticlericalismo frontale, che punta allo scontro con la Chiesa e al rifiuto di ogni forma di dialogo. Insomma, l’obiettivo è quello di creare una progressiva demonizzazione, per seminare in tutta Europa la cultura del sospetto, fino a fare del fenomeno religioso il nuovo tabù del ventunesimo secolo. Altro che tolleranza, sfilate per la pace, bandiere tricolore, proclami di dialogo cui ci avevano abituato i sottoscrittori della risoluzione. Un pacifismo, con la guerra nell’animo, pronto a sfilare ad Assisi con preti e frati, tra colombe svolazzanti e rami di olivo, salvo armarsi di mitra e cannoni, quando la posta in gioco non è più la «cattura» elettorale di una fascia di cattolici. Che la storia stesse prendendo una brutta piega lo si era capito, nei giorni scorsi, dalle reazioni rabbiose apparse sui muri delle nostre città. Contro Ratzinger, Ruini e Bagnasco è scesa in campo la migliore intolleranza, tanto da obbligare le forze dell’ordine a rafforzare le misure di sicurezza, per tutelare la loro incolumità. Un clima di ostilità che, stando a quanto raccontano i più avanti negli anni, evocava certo clima di intimidazione del dopo guerra. Commentando il 25 Aprile, Prodi ha parlato di un’Italia che sta andando verso la pacificazione. Beato lui che vede il mondo in rosa. E magari ci crede anche. E allora poco male se qualche lobby, che difende lo zero virgola un per cento delle coppie, si scatena contro la chiesa, usando piazza e televisione di Stato come una clava. Del resto è da quando ha preso il potere che il nostro Presidente del Consiglio si va definendo cristiano adulto. Poco importa se nel senso di responsabile o di emancipato. Pacificazione: perfino la fonetica consente un allargamento della bocca in un sospiro benedicente... Poi fa nulla se, su Rai Tre, qualche traboccante conduttore auspica che si ripetano i tempi dei faraoni, quando si massacravano diecimila sacerdoti in un colpo, o che i no global e gli esagitati dei Centri Sociali scendano in piazza per inneggiare alle Brigate Rosse. Pacificazione, dunque, anche se ciò che accade al Parlamento europeo non va nel senso della diagnosi prodiana. Tra Stato e Chiesa i governi illuminati cercano sempre l’arte della convivenza, alla quale è estraneo tanto il compromesso come la reciproca negazione. Non per evitare i conflitti, ma come riconoscimento della reciproca utilità sociale. (Bruno Fasani, Il Giornale, 27 aprile 2007)
Il monito di papa Ratzinger: la Chiesa non è un partito di massa La Chiesa non è una semplice organizzazione di manifestazioni collettive» né «la somma di individui che vivono una religiosità privata», ma una «comunità di persone» in cui «si è educati all'amore attraverso tutti gli avvenimenti della vita». Una comunità che sa di avere continuamente bisogno della «bontà misericordiosa di un Dio che perdona». Benedetto XVI ha compiuto il suo pellegrinaggio sulla tomba di Sant’Agostino, il grande vescovo di Ippona, convertitosi al cristianesimo e divenuto un brillante pensatore e un dottore della Chiesa. Ratzinger è legatissimo alla figura del «dottore della grazia», al quale ha dedicato la tesi. E in due riprese, durante la sua permanenza a Pavia, ne sintetizza il messaggio, parlando di amore e misericordia. Davanti a 20mila persone radunate negli Orti del Collegio Borromeo per la messa, il Papa parla delle «tre conversioni» del santo che da giovane, a 17 anni, aveva iniziato a convivere con una giovane nordafricana, aveva avuto un figlio e quindi a 32 anni aveva cambiato vita. La prima conversione è il «cammino interiore verso il cristianesimo» di Agostino che, pur vivendo «come tutti gli altri», condizionato «dalle abitudini e dalle passioni dominanti», era rimasta «una persona in ricerca, tormentato dalla questione della verità». Nella descrizione della seconda conversione, si possono cogliere accenni autobiografici del Papa: dopo anni di tranquillità, di studio e di vita monastica Agostino è infatti costretto dai fedeli a diventare sacerdote e predicatore. Ora deve «tradurre le sue conoscenze e i suoi pensieri sublimi nel pensiero e nel linguaggio della gente semplice», la stessa missione che è toccata al professor Ratzinger. Ma è la terza conversione la più commovente: Agostino si rende conto che tutta la Chiesa, «tutti noi, inclusi gli apostoli», sono continuamente bisognosi della misericordia di un Dio che perdona «e noi - aggiungeva - ci rendiamo simili a Cristo, il perfetto, nella misura più grande possibile, quando diventiamo come lui persone di misericordia». La meditazione sul santo, le cui spoglie sono state portate via da Ippona alla vigilia dell'invasione musulmana, Benedetto XVI la completa davanti alla tomba vera e propria, nella chiesa di San Pietro in Ciel d'Oro, ricordando che al suo insegnamento è debitrice la prima parte dell'enciclica «Deus caritas est». «Solo chi vive l'esperienza personale dell'amore del Signore - spiega - è in grado di esercitare il compito di guidare e accompagnare altri nel cammino della sequela di Cristo». In particolare i giovani, aggiunge, «hanno bisogno di ricevere l'annuncio della libertà e della gioia, il cui segreto sta in Cristo». Prima della recita del Regina Coeli, il Papa ha citato il suo recente libro su Gesù: «Per i più giovani è un po' impegnativo, ma idealmente lo consegno a voi, perché accompagni il cammino di fede delle nuove generazioni». Un altro momento saliente della prima visita ufficiale a una diocesi italiana, ribattezzata dagli organizzatori «B-Day», è stato l'incontro con studenti e docenti dell'università. Qui Benedetto XVI ha ricordato che «solo ponendo al centro la persona e valorizzando il dialogo e le relazioni interpersonali può essere superata la frammentazione specialistica delle discipline e recuperata la prospettiva unitaria del sapere». L'organizzazione, guidata dal prefetto vicario Vincenzo D'Antuono, è stata impeccabile, mentre la Provincia di Pavia ha colto l'occasione della visita per promuovere degli «itinerari religiosi» nel territorio provinciale. (Andrea Tornielli, Il Giornale, 23 aprile 2007)
Fare il prete, la professione più felice Nietzsche lo diceva con la sua tipica virulenza: «mi fanno pena questi preti […] per me essi sono dei prigionieri e dei marchiati. Colui che essi chiamano redentore li ha caricati di ceppi. Di ceppi di falsi valori e di folli parole! Ah, se qualcuno potesse redimerli dal loro redentore!». E la sua convinzione - temiamo - è molto diffusa: i preti sono degli infelici e dei frustrati. Ma oggi, Giornata delle vocazioni, possiamo riferire di uno studio che smentisce completamente questa visione. Infatti, da una ricerca del General Social Survey dell'Università di Chicago, risulta che i membri del clero sono la categoria "professionale" più felice e gratificata negli Stati Uniti. Il dato si riferisce al periodo 1972-2006 ed è stato ricavato su un campione di più di 50.000 americani. I ricercatori si aspettavano che le professioni più gratificanti fossero quelle più prestigiose e remunerate. Invece, a dispetto del disprezzo con cui sono spesso visti e del loro modesto salario, i più soddisfatti del loro lavoro sono risultati proprio preti e pastori. È vero, ci sono preti che lasciano il loro ministero: dal 1964 al 2004 i sacerdoti cattolici che hanno abbandonato il loro status sono stati 69.063. Non c'è da stupirsi, visto che la Chiesa è stata sconquassata da molte tempeste. Ma, nonostante queste tempeste, 11.213 di loro sono poi ritornati indietro, pentiti della loro scelta. Quale può essere, allora, la ragione dei dati americani sopra citati? Già questa ricerca spiega che gli uomini più felici sono quelli che si dedicano agli altri e che hanno individuato un senso della vita. Cioè il ritratto della vocazione dei membri del clero. In effetti, cercando di approfondire, l'esperienza certifica l'esistenza di una connessione tra amore e felicità: tutto ciò che facciamo per amore ci risulta meno gravoso e, anzi, spesso, è tanto gioioso quanto più è intenso l'amore che proviamo. Ad esempio, fare un lavoro non interessante per puro senso del dovere o solo per guadagnarmi da viv ere è molto faticoso; mentre farlo per amore di mia moglie, dei miei figli, di Dio se ho senso soprannaturale, può diventare gratificante, come molte persone possono confermare. Infatti l'amore può trasfigurare le nostre azioni e anche i nostri sacrifici rendendoli gioiosi. Ancora, lo stesso Nietzsche diceva giustamente che chi detiene un senso della vita può sopportare qualsiasi cosa. Ebbene, a dispetto delle rappresentazioni fuorvianti del cristianesimo, che lo descrivono come una prigione di estenuanti doveri e divieti, in realtà, la sintesi dei comandamenti, l'essenza della morale cristiana incarnata dai sacerdoti, è il comandamento dell'amore: «Amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza» e «il prossimo tuo come te stesso» (Mc 12, 29-31). Da questo comandamento scaturiscono tutti gli altri. Non solo, ma questo comandamento dell'amore coincide con il senso della vita. (Giacomo Samek Lodovici, Avvenire, 29 aprile 2007)
La dittatura del relativismo propensione d'Europa Non so se ci sia ancora memoria, nella pubblica opinione, del "caso Buttiglione"; so però che questo è il momento giusto per ravvivarla e per cancellare la scorretta ricostruzione della vicenda che venne fatta propria, all'epoca, praticamente da tutti i principali quotidiani italiani: la bocciatura di Rocco Buttiglione, candidato nel 2004 dal governo italiano a vice-presidente della Commissione europea (un candidato di cui nessuno hai mai negato competenza, intelligenza, l'esplicito impegno per l'Europa e assoluta probità personale), sarebbe da addebitare alla sua ottusa e omofoba intransigenza cattolica, incapace di amalgamarsi col nuovo, radicato e irrinunciabile pluralismo delle istituzioni europee. Le cose, però, non sono andate così e Luca Volontè oggi lo documenta, in modo impeccabile, in un libro leggibilissimo, nel quale la palese (e legittima) passione politica nulla toglie al rigore della cronaca. Buttiglione è caduto vittima di un'autentica "congiura", che andava al di là della sua persona. Infatti il vero obiettivo dei "congiurati", più che quello di escluderlo dalla Commissione europea, era di rendere evidente una volta per tutte e a tutti come solo il laicismo (riassumendo con questo termine una globale opzione politico-ideologica di timbro relativistico) fosse e dovesse essere riconosciuto quale unico legittimo orizzonte di riferimento delle istituzioni europee. È evidente che in questo orizzonte non poteva trovare spazio una figura come quella di Buttiglione. Nelle serrate audizioni presso il Parlamento europeo, egli ha riconosciuto, con esemplare lucidità, la differenza tra ordine giuridico, ordine morale e ordine religioso e si è impegnato, come uomo politico e di governo, ad un sincero rispetto verso tutte le norme giuridiche democraticamente introdotte nel sistema. Però - e qui sta il punto decisivo - non ha ceduto alla tentazione di dichiararsi disposto a "privatizzare" la propria visione cristiana del mondo, riducendola, secondo i desideri espliciti dei laicisti, a sentimento intimo, arbitrario, emotivo e irrazionale. È in questi termini che va capito il "caso Buttiglione", come un caso da ritenere tuttora aperto: lo dimostra, se ancora si cercano prove, la recentissima approvazione della risoluzione europea contro l'omofobia, nella quale si è cercato di introdurre, forzando indebitamente recenti dichiarazioni dell'arcivescovo Bagnasco, una condanna esplicita del pensiero del presidente della Cei e più in generale dell'insegnamento cattolico in tema di famiglia e di sessualità. L'opera di Volontè ci aiuta però ad andare al di là del singolo episodio, dandoci piena conferma della correttezza di un'espressione che molti ancora esitano ad usare: dittatura del relativismo. Abbiamo tutti ascoltata questa espressione il 18 aprile 2005, nel contesto dell'omelia pronunciata dal Card. Ratzinger in occasione della messa "Pro eligendo Romano Pontifice". È l'unica che riassume davvero la sostanza della questione. A chi non vuol credere che a tanto si sia arrivati e che la parola dittatura sia esagerata, si impone una riflessione disincantata su ciò che avviene anche in questa stagione. I fatti, ricordava instancabilmente Norberto Bobbio, sono resistenti e solo l'acquisizione dei fatti - come quelli puntigliosamente e rigorosamente citati da Volontè - può aiutarci nella lotta contro l'ideologia. (Francesco D'Agostino, Avvenire, 29 aprile 2007)
La libertà negata ai figli. Se chiama Dio Caro Direttore, che oggi, in una società che fa dell'assenza di Dio il proprio orizzonte, sia arduo e impopolare indossare i panni della fede già lo sapevo. Ma mai avrei potuto immaginare che esprimere, sia pure solo come desiderio, una personale vocazione alla consacrazione religiosa, potesse procurarmi una sequela di insulti, di irrisioni, di pervicaci incredulità, come quella che io ho incontrato. Ho 29 anni e solo da poco ho prepotentemente riscoperto il dono della fede. L'amore per Gesù Cristo sta lentamente ma inesorabilmente mutando la mia vita, tanto da fermentare come desiderio di una vocazione al dono totale. Eppure, i commenti che mi inseguono tradiscono una clamorosa mancanza di rispetto, non tanto a me (certo anche a me), quanto a tutti coloro che riconoscono nel Vangelo l'unica bussola della propria esistenza. In alcuni affiora persino il disprezzo e il biasimo per una scelta di vita che ritengono "perdente", "piena di rinunce". Ebbene, con queste righe voglio gridare al mondo che non mi arrendo, che resisterò alle tentazioni che il mondo mi propina con l'obiettivo di neutralizzare e ancor più estirpare per sempre la mia volontà di seguire il Signore. Lui mi darà la forza. Firmato: C. Dentello. Un incipit singolare, questo, per un fondo di giornale. Ma ho preferito riportare per intero, e non solo citare, il testo di questa lettera ricevuta nei giorni scorsi, perché la denuncia che essa imprigiona possa deflagrare meglio. Il dramma che ci racconta non è quello di un giovane soltanto. Sappiamo da varie parti che oggi c'è un'emergenza sul fronte dei diritti umani di cui nessuno parla, quella della vocazione religiosa ostinatamente (violentemente) impedita. E che pure sarebbe una declinazione immancabile di quella libertà che si pensa non negata ad alcuno. Invece. Il fenomeno non è del tutto nuovo. Oggi però questa forma di violenza, anche se appare incredibile per i non addetti ai lavori, è sempre più diffusa, ed è causa di disagi profondi, lancinanti, in chi la vive in prima persona. Avvertire una chiamata interiore, una fascinazione piena, un trasporto insoffocabile e non poter, ad un tempo, esprimere e verificare quel che si sente: ecco il dramma. Percentualmente è un numero significativo quello dei seminaristi che hanno dovuto affrontare una vera e propria battaglia dentro le mura domestiche per dar corso al proprio progetto di vita. La controprova evidentemente non c'è: chi può sapere quante sono le persone che infine rinunciano? Che, per non creare troppe lacerazioni attorno a sé, chinano il capo e lasciano perdere? Ragionando dunque sui casi noti, sappiamo che non raramente si raggiunge in famiglia un armistizio appena: questi giovani sono magari già al terzo o quarto anno di teologia ma la cosa non si è ancora appianata. Quando tornano a casa, è tutto un guardare di sottecchi, per catturare una qualche incertezza e poter sopraffare. Per intanto, non si accetta neppure di conoscere gli educatori del seminario, ritenuti per lo più gli ammaliatori del figlio. Perché succede tutto ciò? Non si vuole che il figlio tradisca le aspettative per anni cullate dai genitori? Ma quanti sono i giovani che, alla prova pratica, non assecondano papà e mamma? E quindi? Si ritiene forse che quello del prete sia un "mestiere" da infelici, se non da falliti, tale da non garantire il giusto consenso sociale? Oppure, saltati gli schemi, si ha paura che Dio si insedii nella vita del figlio ma anche nella propria? I motivi veri - riconosciamolo - sono serrati nel cuore dei genitori, a volte così bene che neppure gli stessi genitori trovano più la chiave. Ma a quel cuore non è possibile, in questa giornata delle vocazioni, non andare tutti idealmente a bussare. Lasciate che Dio compia i suoi miracoli, inattesi e sorprendenti. Che squarci come una saetta anche il sereno cielo d'estate. Se egli c'è - e noi crediamo che ci sia, e riteniamo altresì che l'ipotesi della sua esistenza sia la più razionale e convincente - se c'è, egli non può non chiamare. Anzi, è il-Sempre-Chiamante. Tappargli la bocca nella vita dei nostri figli, è una doppia, inaudita violenza. Toc, toc: a bussare è un popolo intero. (Dino Boffo, Avvenire, 29 aprile 2007)
Controstampa: C'è stata la guerra tra gli Apostoli? Trasformatosi a sorpresa da promotore dei "girotondi" in biblista-fai-da-te, il filosofo Paolo Flores D'Arcais, descrive sul numero 3/07 di Micromega, che lui dirige, la lotta dei «sette contro dodici», ovvero «la guerra tra gli apostoli». È un'autentica novità, che l'Unità anticipa (venerdì 27) e che l'Autore ha ricavato da una lettura tutta sua del sesto capitolo degli Atti. Forse scambiando i primi sette diaconi ellenisti per i Sette contro Tebe della famosa tragedia eschilea, Flores D'Arcais trasforma il martirio di Stefano, ucciso dagli «ebrei delle sinagoghe elleniste», nell'esito tragico di una sanguinosa lotta intestina fra i cristiani palestinesi e i cristiani della diaspora di origine greca, questi ultimi abbandonati al loro destino dai Dodici Apostoli, perché «la persecuzione non riguardava la loro chiesa», ma solo quella del Protomartire e dei suoi sei compagni diaconi. Come se la nomina di costoro da parte dei Dodici Apostoli fosse equivalsa alla creazione di una Chiesa separata... Cosa che, anche se fosse vera, sarebbe in ogni caso una smentita dell'affermazione del Flores D'Arcais del «carattere integralmente ebraico dei "cristiani"» di quei giorni, dato che egli stesso scrive: «Si ammette la conversione dei gentili» e che «a Paolo viene affidato l'Evangelo degli incirconcisi» (come si legge in Gal 2,7). Insomma, una tesi, che non si regge neanche sulle argomentazioni di chi la propone. A volte a chi fa troppi girotondi, capita che giri un po' la testa. Leggi e natura Alla domanda «chi è propriamente la Natura o l'"evoluzione" in quanto soggetto?» che «all'unisono» Benedetto XVI e il cardinale Schõnborn avrebbero posto nel simposio riservato tenuto dal Papa l'estate scorsa con i suoi antichi discepoli a Castelgandolfo, si può far rispondere - scrive il Riformista, giovedì 26 - lo stesso Darwin: per natura occorre intendere «soltanto l'azione combinata e il risultato di numerose leggi naturali, e per leggi la sequenza di fatti da noi accertati». Dopodiché, però, la domanda non può che essere riproposta: infatti «leggi» davvero equivale a «sequenza di fatti»? E che s'intende per «leggi naturali»? Attaccata o all'attacco? È nota la risoluzione del Parlamento Europeo da cui, all'ultimo momento, è stato tolto il nome di mons. Bagnasco, anche se — scrive Liberazione, venerdì 27 — «è come se ci fosse», perché «la risoluzione non lascia spazio a dubbi» circa la condanna della asserita «omofobia» dell'arcivescovo di Genova. L'agenzia Sir, ufficiosa della Cei, deplora questo ingiusto attacco alla Chiesa, ma sapete come finisce? Che Repubblica e Manifesto titolano allo stesso modo: la prima «Il Vaticano attacca la Ue» e il secondo «La Chiesa va all'attacco dell'Ue». Credenti, ma in che? «Noi, cattolici, tifiamo Dico»: così il Manifesto titola un servizio in cui fa parlare ben cinque «credenti» non identificabili (sono dotati soltanto di nome e di età). Cinque persone, comunque, che io credo per bene, che però sono come la signora di Bergamo, membro del locale Comitato Promotore Registro delle Unioni Civili, che invece scrive a Liberazione (e questa ci fa il titolo delle «Lettere», giovedì 26)) per protestare «contro la campagna vaticana martellante, pesante e volgare» per dire: «Siamo tutti laici, tutti divorziati, tutti conviventi, tutti gay, tutti credenti». In che cosa? (Pier Giorgio Liverani, Avvenire, 29 aprile 2007)
“Basta” con “attacchi indecorosi” fondati sul “falso” La “nota” dell’Agenzia Sir: Pubblichiamo la nota Sir sugli attacchi al presidente della Cei Mons. Angelo Bagnasco, da parte di tre europarlamentari italiani di Rifondazione comunista (Agnoletto e Catania) e Verdi (Frassoni) firmatari di una mozione anti-Bagnasco presentata nel corso del dibattito sull’omofobia che giunge oggi al voto del Parlamento europeo. “Ci risiamo. Proseguono – questa volta nella sede del Parlamento europeo per opera di una pattuglia di deputati comunisti e verdi – gli indecorosi attacchi al presidente della Cei mons. Angelo Bagnasco. Va bene minimizzare e cristianamente tenere nella considerazione che meritano, cioè nessuna, le argomentazioni propagandistiche e vietamente anticlericali di un pugno di facinorosi. Va bene opporre al falso, alla falsificazione, alla disinformazione, alla propaganda che ancora oggi (in pieno ventunesimo secolo), si definisce “comunista”, la realtà dei fatti e delle parole. Ma il rischio è che, batti e ribatti, la falsità generi odio e provochi conseguenze imprevedibili. Dunque è ora di dire “basta”. Dirlo con il tono di mons. Bagnasco, mite e fermo, sereno e deciso. Dire “basta” con fermezza e risolutezza. E’ ora di finirla. Dire “basta” a questi attacchi significa nello stesso tempo assicurare che tutti, non solo i cattolici, continueranno a parlare con passione e con impegno di quei grandi temi – la famiglia, la vita, la verità e la giustizia – sui quali mons. Bagnasco ha inaugurato la sua presidenza della Cei, in piena coerenza con il magistero del Papa e nella continuità della testimonianza delle Chiese in Italia. E’ la “libertas ecclesiae”, che diventa oggi esemplare, preziosa risorsa per il Paese e per la stessa Europa. Segua il Parlamento europeo questa strada, quella del “dialogo strutturato” con le Chiese, indicato nel Trattato costituzionale, e scoprirà non gli schemi di ideologie sconfitte dalla storia, laiciste o comuniste, ma la realtà delle cose, l’esperienza elementare di vita, un grande patrimonio, che è responsabilità e dovere di tutti in Italia come in Europa, fare crescere e sviluppare, per il bene di tutti”. (Sir, 26 aprile 2007) C’è anche la Margherita tra i nemici di Bagnasco «Ma a che gioco giocano quelli della Margherita?». Da Strasburgo, il capogruppo Antonio Tajani ringhia indignato contro il partito di Rutelli. Che a Roma si affanna a indicare Rifondazione e Verdi come ideatori del fallito attentato a monsignor Bagnasco e a prendere le distanze dai Dico, ma che in sede di europarlamento ha addirittura scavalcato le truppe di Bertinotti ed ha votato senza traumi contro «i commenti discriminatori formulati da dirigenti religiosi in quanto fomentano odio e violenza» contro gli omosessuali. E non si limita a generiche accuse Tajani. Armato di verbali e resoconti racconta la storia da dietro le quinte e fa nomi. A partire da quello di Vittorio Prodi, fratello del premier, che assieme a Luigi Cocilovo (anche lui della Margherita dopo una lunga carriera in Cisl), ha dato il suo sì alla mozione contro l’omofobia e le ingerenze delle religioni in materia. Diversamente dall’ex-sindaco di Venezia Paolo Costa che almeno ha scelto l’astensione. «Leggo che a Roma - prosegue Tajani - c’è qualcuno che addirittura cerca di sostenere che Patrizia Toia, anche lei margherita, inserita nel gruppo liberale dell’Alde, si sarebbe data da fare per eliminare i riferimenti a monsignor Bagnasco...! Si tratta di un falso clamoroso! La Toia non s’è vista per niente in questo frangente. E nella risoluzione messa a punto dall’Alde, prima che fosse concordato un testo comune c’era, chiarissimo, il riferimento al presidente della Cei come esempio da condannare. Anzi, erano le stesse identiche righe, in fotocopia, che si ritrovavano tanto nel documento dei Verdi e della sinistra comunista che in quello dei socialisti. Eppure non hanno battuto ciglio, la Toia e gli altri. E non è finita qui...». Ancora Tajani, come un fiume in piena, rivela che dopo la cancellazione del riferimento a monsignor Bagnasco («E devo confessare che a sorpresa sono stati più malleabili quelli di Rifondazione che i margheriti...») il Ppe aveva chiesto al presidente dell’Europarlamento Poettering un rinvio del voto al 15 maggio, così da «scavallare» senza troppe polemiche quel Family day che già arroventa il dibattito politico nazionale. Come da regolamento, si è dovuti andare al voto su quella richiesta, e anche qui - e il tabulato lo conferma senza ombre di dubbio - gli uomini della Margherita sono scesi in campo a dire no: i soliti Prodi e Cocilovo, ma anche il capogruppo Pistelli e la laica Sbarbati, che si sono aggiunti a Musacchio (Gue/Ngl) e ai socialisti Napoletano, Pittella, Zingaretti e Zani. «Segno evidente della loro volontà di bacchettare la conferenza episcopale italiana», osserva il capogruppo azzurro. A quel punto, nel voto sulla mozione unitaria definita da Ps, Verdi, Gue/Ngl e Alde, Prodi e Cocilovo hanno dato il loro «sì», mentre «altri - osserva Tajani - si sono eclissati magari per non compromettere il loro rapporto con la Chiesa in Italia, a cominciare proprio da Pistelli». Sapere che in Italia dalla sede della Margherita si tende oggi a scaricare tutta le responsabilità del voto su Rifondazione e i Verdi, Tajani non lo manda giù: «Tentano di creare una cortina di fumo, ma i documenti dell’Europarlamento parlano chiaro. Non hanno fatto alcuna obiezione quando il loro gruppo ha presentato un testo che condannava il presidente della Cei Bagnasco, e non hanno avuto dubbi, tranne Costa, nel votare la condanna dei religiosi che non accettano l’omosessualità. Come credere alla loro buona fede, tanto sui Dico che sul Family day?». (Alessandro M. Caprettini, Il Giornale, 28 aprile 2007)
“La Civiltà Cattolica” rompe il silenzio su Romano Amerio In “La Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti di Roma stampata col previo controllo e l'autorizzazione della segreteria di stato vaticana, è uscita una recensione che segna la fine di un tabù. Il tabù è quello che ha cancellato dalla pubblica discussione, per decenni, il pensiero del più autorevole e colto rappresentante della critica alla Chiesa del XX secolo in nome della grande Tradizione: il filologo e filosofo svizzero Romano Amerio, morto a Lugano nel 1997 a 92 anni di età. Amerio, che pure fu sempre fedelissimo alla Chiesa, condensò le sue critiche in due volumi: “Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel XX secolo”, cominciato nel 1935 e ultimato e pubblicato nel 1985, e “Stat Veritas. Séguito a Iota unum”, uscito postumo nel 1997, entrambi per i tipi dell’editore Riccardo Ricciardi, di Napoli. Le parole latine nel titolo del primo volume, "Iota unum", sono quelle di Gesù nel discorso della montagna: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure uno iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto" (Matteo 5, 17-18). Lo iota è la più piccola lettera dell'alfabeto greco. "Iota unum", di 658 pagine, fu ristampato tre volte in Italia per complessive settemila copie e poi tradotto in francese, inglese, spagnolo, portoghese, tedesco, olandese. Raggiunse quindi molte decine di migliaia di lettori in tutto il mondo. Ma nonostante ciò scese su Amerio un quasi totale censura, nella Chiesa, sia quando era in vita sia dopo. La recensione della "Civiltà Cattolica" segna quindi una svolta. Sia per dove e come è stata pubblicata, con l'autorizzazione della Santa Sede, sia per le cose che dice. Propriamente, la recensione riguarda un libro su Amerio pubblicato nel 2005 dal suo discepolo Enrico Maria Radaelli. Ma al centro dei giudizi del recensore c'è indiscutibilmente il grande pensatore svizzero. E i giudizi sono largamente positivi: sia su "la statura intellettuale e morale di Amerio", sia su "l’importanza della sua visione filosofico-teologica per la Chiesa contemporanea". Il recensore, Giuseppe Esposito, è psicologo e fine conoscitore di teologia. Pur non concordando in tutto con Amerio, sostiene che il suo pensiero "merita una discussione più approfondita" e "senza pregiudizi". In particolare, scrive, "appare riduttivo archiviare la sua riflessione – e quella di Radaelli – nell’ambito del tradizionalismo nostalgico, come una posizione ormai superata, incapace di comprendere le novità dello Spirito". Al contrario, sostiene il recensore, il pensiero di Amerio "conferisce una forma e un contenuto filosofico a quella componente ecclesiale che, sulla scia della Tradizione, è protesa a salvaguardare la specificità-identità cristiana". Forma e contenuto filosofico che si identificano per Amerio nel "primato della verità sull’amore". Il nesso tra verità e amore, come si sa, è al centro dell'insegnamento di Benedetto XVI. Ecco dunque riprodotta qui sotto la recensione apparsa su "La Civiltà Cattolica" del 17 marzo 2007, n. 3762, alle pagine 622-623, a firma di Giuseppe Esposito. Il libro recensito, il primo organicamente dedicato alla vita e al pensiero di Romano Amerio, è il seguente: Enrico Maria Radaelli, "Romano Amerio. Della verità e dell’amore", Marco Editore, Lungro di Cosenza, 2005, pp. XXXV-340, euro 25,00. "Innamorato della verità e della Chiesa..." «Appassionato cultore di Romano Amerio (1905-97), Enrico Maria Radaelli ne espone vita, opere e pensiero, ponendo il lettore di fronte a una produzione intellettuale che si snoda lungo un periodo di circa 70 anni. Ed ecco l’Amerio filosofo, filologo, storico e anche teologo, con gli importanti contributi su Cartesio, Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni, ma soprattutto su Tommaso Campanella. Intento primario dell’autore è quello di riportare in luce la figura del maestro dopo l’ostracismo conseguente alla pubblicazione, nel 1985, del suo "Iota unum". È il testo di sintesi del sapere ameriano e, per l’autore, è un vero "compendio metafisico dello scibile cattolico" (p. 135), capace di fornire convincenti e saldi argomenti per avvalorare la fede. Il libro, tradotto in ben sette lingue, in Italia non fu accolto bene, e Amerio fu bollato come tradizionalista, preconciliare, lefebvriano. Ma, secondo Radaelli, è un errore ridurre tutto il pensiero ameriano alla sua posizione sul Concilio Vaticano II.
In primo luogo perché "Iota unum" non è originato direttamente dal Concilio né dalla stima del vescovo scissionista Marcel Lefebvre (che Amerio critica per la sua separazione dalla comunione ecclesiale), ma raccoglie riflessioni avviate già 30 anni prima, inerenti tematiche più generali. In secondo luogo perché, così facendo, si banalizza l’importante questione di fondo sollevata da Amerio, ben rappresentata dall'autore nel titolo: "Della verità e dell’amore". È qui il nucleo del pensiero ameriano: il primato della verità sull’amore. Sovvertire tale ordine, producendo così una "metafisica dislocazione di essenze", per Amerio si traduce inevitabilmente in un attacco al Cristo, il Verbo di Dio, il Logos. È per questo che scrive "Iota unum" e, presentandolo ad Augusto Del Noce, lo definisce un tentativo di "difendere le essenze contro il mobilismo e il sincretismo dello spirito del secolo" (p. 231). E a Del Noce, affascinato dall’argomento, pare che "quella 'restaurazione cattolica' di cui il mondo ha bisogno abbia come problema filosofico ultimo quello dell’ordine delle essenze" (p. 233). Innamorato della verità e della Chiesa, preoccupato per la secolarizzazione del cristianesimo, per la sua riduzione alla morale e alle opere a scapito del primato del cristocentrismo, Amerio critica l’"ecumenismo fondamentalista", la dispersione dell’identità cristiana nel relativismo religioso, la rinuncia alla Verità per rispetto delle verità-altre, la riduzione dell’unica vera religione a una delle diverse religioni possibili. È decisivo porre l’assoluta centralità del Verbum: "Il valore assoluto attribuito alla realtà divina della Parola (Logos), come dei fatti che con la religione ne discendono, [...] mettono al riparo l’uomo dal disorientamento del relativismo" (p. 79). È il richiamo a non sottovalutare i rischi insiti nel naturalismo e in ogni "concezione dello Spirito raccorciata dal soprannaturale al naturale, [...] dal religioso al culturale, dallo spirituale all’intellettuale" (p. 130). Per Radaelli, alla fine è avvenuto proprio ciò che il suo maestro temeva: "Il sovvertimento dei princìpi per i quali la ragione è sostituita nella sua prima causalità dall’amore, il progetto dalla realizzazione, l’intelletto dalla libertà, l’idea dalla praxis, [...] i valori classici del naturalismo religioso sembrano avere il sopravvento sulla supremazia del soprannaturale" (p. 206). L’autore, con linguaggio ricercato e volutamente apologetico, fa risaltare la statura intellettuale e morale di Amerio, e chiarisce l’importanza della sua visione filosofico-teologica anche per la Chiesa contemporanea. Il risultato è certamente una arringa difensiva appassionata e a volte graffiante, ma è soprattutto una provocazione al confronto con il "pensiero forte" ameriano. Certo, non è possibile condividere il giudizio negativo esteso al Concilio nel suo insieme e a tutto ciò che di positivo ne è derivato. Inoltre, è opinabile il tentativo di spiegare tutte le attuali difficoltà del cristianesimo quasi solamente come esito di una deviazione dal dogma del Logos, del declassamento della Verità al secondo posto dopo l’amore. La realtà è più complessa e non si può ricondurre tutta a un solo aspetto: in questo caso c’è il rischio di riduttivismo filosofico. Eppure l’ipotesi ameriana merita una discussione più approfondita e appare riduttivo archiviare la sua riflessione – e quella di Radaelli – nell’ambito del tradizionalismo nostalgico, come una posizione ormai superata, incapace di comprendere le novità dello Spirito, se non proprio quasi di ostacolo alla Sua azione, nonostante le dovute riserve. Se ci si libera dal pregiudizio fondamentalista, invece, il nucleo della riflessione ameriana si traduce in una provocazione per il pensiero. E non si tratta di un’isolata visione metafisica del cristianesimo: esso conferisce una forma e un contenuto filosofico a quella componente ecclesiale che, sulla scia della Tradizione, è protesa a salvaguardare la specificità-identità cristiana. In tale ottica il lavoro di Radaelli, riproponendo le questioni teoriche ameriane di fondo, invita a confrontarsi senza pregiudizi, in modo più sereno. Il testo, dottamente introdotto da Antonio Livi, decano della facoltà di filosofia della Pontificia Università Lateranense, è corredato anche da interviste ad Amerio e recensioni a "Iota unum", nonché da un piccolo glossario per la sua lettura. Insieme all’elenco delle opere ameriane, completi e molto utili sono gli indici dei nomi, persone, luoghi e argomenti». (Sandro Magister, www.chiesa, 30 aprile 2007)
29 APRILE 2007
Pio XII, i piani per salvare gli ebrei Il 23 ottobre 1943 il Vaticano si sta occupando della questione dei rifugiati negli stabili extraterritoriali, conventi ecc., con il penitenziere di San Pietro, il cappuccino padre Aquilino Reichert; questi ha desunto da alcuni segnali provenienti dal generale Stahel, governatore militare di Roma, che «gli pare imprudente l'atteggiamento del Vicariato che, secondo lui, facilita agli ebrei, ai disertori ecc. adito ai conventi». Anche perché le SS, che presto aumenteranno a migliaia di unità, certamente non rispetteranno l'extraterritorialità degli immobili vaticani e si daranno a razzie nei conventi e stabili della Santa Sede. Il 25 ottobre del 1943 «l'ambasciatore di Germania dice che notizie dalla Germania direbbero che nella Città del Vaticano vi sono rifugiati politici, ebrei, militari, ecc.». «Si risponde che la cosa non è vera», annoterà Montini. E i curatori dei documenti vaticani, in una nota esplicativa a piè di pagina, dicono che ovviamente si trattava di una «risposta diplomatica», insomma di una bugia di circostanza. Coincidenza temporale presentano questi episodi con la circolare vaticana del 25 ottobre 1943, rivelata dal segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone, in cui si prescriveva a tutti gli istituti religiosi di ospitare gli ebrei. «Attenti alle date - osservava Arrigo Levi ieri su La Stampa - la retata del Ghetto di Roma avviene il 16 ottobre». Ancor più significativo, dal punto di vista delle date, sarebbe trovare un'altra circolare inviata dalla segreteria di Stato alle diocesi, in una data che si può ipotizzare vada tra l'8 e il 16 settembre 1943. Come riportato da Avvenire lo scorso gennaio, ne aveva parlato ripetutamente il Giusto delle Nazioni don Aldo Brunacci, recentemente scomparso, che insieme al suo vescovo, Nicolini, salvò tutti gli ebrei presenti ad Assisi attraverso una rete di conventi, di religiosi e di famiglie cattoliche. Nicolini ricevette la circolare vaticana, la lesse e la mostrò a Brunacci, il quale sotto i suoi ordin i eseguì i desiderata pontifici senza chiedersi che fine potesse poi fare quel documento in seguito mai più trovato. Nel caso di questa nuova circolare del 25 ottobre 1943 abbiamo un altro prezioso elemento di raffronto. Si tratta del «diario di casa» del monastero delle agostiniane ai Santi Quattro Coronati, rivelato da Trenta Giorni: «In queste dolorose situazioni il Santo Padre vuol salvare i suoi figli, anche gli ebrei, e ordina che nei monasteri si dia ospitalità a questi perseguitati. Anche le clausure debbono aderire al desiderio del Sommo Pontefice e, col giorno 4 novembre, noi ospitiamo fino al 6 giugno le persone qui elencate…». La vicinanza temporale tra il 25 ottobre 1943 (visita dell'ambasciatore tedesco per indagare sull'«ospitalità vaticana»; circolare della Santa Sede alle case religiose) e il 4 novembre successivo (data in cui in una di queste case religiose si inizia a ospitare i perseguitati dietro ordine del Papa) suggerisce che siamo davanti a molto di più di una semplice coincidenza. Si potrebbe obiettare che le prove definitive che attestano gli ordini di Pio XII di salvare gli ebrei, impartiti alle diocesi (fra l'8 e il 16 settembre 1943) e alle case religiose (il 25 ottobre successivo) non siano ancora tali per gli storici, e che quindi nel frattempo sia da considerare ancora valida la tesi di studiosi come Susan Zuccotti, la quale ha scritto che, in assenza di un documento-chiave che l'attesti, non vi è prova che il papa diede ordini alla Chiesa cattolica di salvare gli ebrei. I salvataggi, si dice, certamente vi furono, ma per iniziativa "privata" di cattolici, laici e religiosi; mentre la gratitudine degli ebrei sopravvissuti verso Pio XII si basò sull'errata supposizione che fosse stato il papa ad salvarli. Si dimentica tuttavia di dire che, mentre nel caso di Zuccotti e simili, questa tesi si basa prevalentemente su fonti orali, nel caso che qui ora ci interessa c'è da pensare che vere e proprie prove scritte dell'assistenza del Papa s tiano ormai per vedere la luce. Siamo per il momento nel campo delle ipotesi e lo storico dev'essere quanto più cauto possibile. La prima fonte, indubbiamente autorevole, è quella citata dall'attuale segretario di Stato Bertone, il quale ha informato dell'esistenza di una circolare del 25 ottobre 1943 in cui Pio XII si diceva «d'accordo» nel promuovere «l'accoglienza di quanti più ebrei possibili negli istituti religiosi e nelle catacombe». Un'altra seconda fonte è la cosiddetta "velina", conservata in un convento di suore Giuseppine, documento che è stato mostrato a Sandro Barbagallo, uno studioso esperto di archivistica, il quale ha aggiunto la sua testimonianza a tal riguardo. Tutto fa pensare che siamo davanti a nuovi sviluppi del "caso Pio XII", che sembrano autorizzare a proposito di papa Pacelli giudizi ben diversi da quelli che prevenuti polemisti diffondono e amplificano senza prove. (Matteo Luigi Napolitano, Avvenire, 20 aprile 2007)
I giovani come «guida» nella Pavia di Agostino Una piccola città dai grandi numeri. Una realtà di provincia aperta al respiro del mondo. Uno scrigno di memorie antiche dove si costruisce il futuro. È Pavia, la città che custodisce le spoglie di sant'Agostino e che, fra stasera e domani, accoglierà Benedetto XVI, pellegrino illustre innamorato del vescovo di Ippona. I volti e i nomi del Papa teologo e del dottore della Chiesa si guardano e si salutano dai muri, nelle piazze, nelle strade, dove campeggiano gli striscioni e i manifesti di benvenuto delle istituzioni, delle associazioni, dei movimenti. La prima tappa: stasera alle 20,15 in piazza Duomo, davanti alla cattedrale ancora chiusa per i lavori di stabilizzazione legati al crollo dell'adiacente Torre Civica che il 17 marzo 1989 provocò quattro vittime. Un luogo dove la memoria s'innesta sulla memoria. Tutti i volti della città Ma sarà l'intero programma della visita pastorale - la sequenza dei luoghi e degli incontri di queste intense, attese, 24 ore - ad evocare e restituire le peculiarità, le sofferenze e le speranze di Pavia. Una città piccola, si diceva: circa 75 mila abitanti il capoluogo, 170 mila la diocesi. Ma dai grandi numeri, come quelli del Policlinico San Matteo - dove domani alle 9 si apre la giornata del Papa - e dell'Università - dove alle 16,15 Ratzinger incontrerà il «mondo della cultura». Il Policlinico: 70 mila ricoveri l'anno, 1.300 posti letto, 3.200 dipendenti fra medici, infermieri, tecnici, impiegati. E l'Università: 25 mila studenti, 1.120 docenti, 920 impiegati. Grazie al San Matteo, all'Università e alla trama dei collegi, Pavia richiama «forestieri» da tutta Italia e da altri Paesi. Ma dietro i numeri, ci sono i volti e le storie. Di persone assetate di salute e speranza, e di passioni e intelligenze impegnate nella ricerca scientifica e nella cura, come quelle che il Papa incontrerà al San Matteo. E di persone affamate di sapere e di futuro, come sono gli studenti che riempiranno il Cortile Teresiano dell'a teneo. È in queste realtà e nella trama di attività che vi si svolge che Pavia, piccola città della provincia lombarda, si fa globale, si apre al mondo e abbraccia il mondo; è così che Pavia, scrigno di memorie antiche, prepara il domani, suo e d'altri. Ma il «prendersi cura» chiama anche ad altre sfide: costruire «cittadinanza», coniugare giustizia e carità, com'è per tante realtà giovanili e del volontariato, cattoliche e laiche. Saranno loro - assieme a un gruppo di ragazzi Sinti - a dare il primo benvenuto al Papa, stasera alle 20,15 in piazza Duomo, col vescovo Giovanni Giudici e Piera Capitelli, il primo sindaco donna di Pavia. Il cuore «eucaristico» della visita sarà la Messa alle 10,30 di domani agli Orti Borromaici, dove su un'area di 25mila metri quadrati sono attesi 16 mila fedeli attorno al Papa, ai vescovi lombardi e agli Agostiniani. Proprio nella «casa» degli Agostiniani l'ultima tappa alle 17,30 di domani nella basilica di San Pietro in Ciel d'Oro, dove il Papa celebrerà i vespri con i sacerdoti, i religiosi, le religiose e i seminaristi della diocesi. Ma prima di entrare in basilica, il Papa benedirà la prima pietra del Centro culturale agostiniano che l'Ordine monastico vuole intitolare a Ratzinger. E sarà un altro modo per far dialogare memoria e futuro, fede e ragione, a pochi giorni dalla festa della conversione di Agostino, martedì 24 aprile, «cuore» della 39ª Settimana agostiniana. Quel martedì mattina nell'aula Foscolo dell'Università alcuni studiosi parleranno dei libri XVII, XVIII e XIX della Città di Dio. Malati e medici, studenti e docenti, giovani e disabili, pubbliche autorità e nomadi Sinti, vescovi, preti, suore, laici: c'è posto per tutti nella civitas Dei peregrina che a Pavia si stringe intorno al Papa. Parole e musica Oggi arriva il Papa, dunque, e ancora la città ferve di iniziative. Come il convegno Agostino nostro contemporaneo che si apre alle 15,30 al Collegio Borromeo, promosso d al suo «Centro di etica generale e applicata». La lectio magistralis è stata affidata al filosofo Bernhard Casper; con lui, studiosi come Luigi Alici, Antonio Pieretti, Italo Sciuto, Pierangelo Sequeri, Carmelo Vigna e Salvatore Veca. Stasera alle 21 su iniziativa dell'Ordine agostiniano Santa Maria del Carmine ospiterà un concerto in onore del Papa. E stamani il settimanale diocesano Il Ticino uscirà con uno «speciale» a colori di 96 pagine, mentre lunedì sarà in edicola con un'edizione speciale. (Lorenzo Rosoli, Avvenire, 21 aprile 2007)
Credo, ergo sum. Il Gesù di Nazaret di Ratzinger «Giù le mani da questo libro se non hai la fede». Nel commentare Gesù di Nazaret Giovanni Reale rispolvera la nettezza dei milieu accademici tedeschi, dove ha studiato negli anni Settanta, gli stessi di Joseph Ratzinger. E il nostro filosofo più «agostiniano» non ha dubbi nel giudicare l'opera «la più bella di quest'autore». Il giudizio è la spia di un coinvolgimento totale: «Le Beatitudini raccontate nel libro sono il ritratto perfetto di Cristo. E come sono commoventi le pagine su Pietro: sicuramente, le ha composte quand'era già Pontefice; chi le ha scritte sa di essere il 264° successore di Pietro». Ratzinger dichiara che il libro vuole «favorire nel lettore la crescita di un vivo rapporto con Lui». È possibile leggere «Gesù di Nazaret» se non si crede? «Effettivamente, c'è una condizione necessaria per leggerlo e intenderlo: avere la fede o essere in cerca di essa. Come dice Heidegger, soltanto un uomo religioso può comprendere la vita religiosa, altrimenti non dispone di alcun dato genuino. E soggiunge: giù le mani per colui che non si sente sul giusto terreno. Noi potremmo dire: giù le mani dal Gesù di Nazaret di Benedetto XVI per colui che non si sente nel giusto terreno. A chi non possiede la fede Cristo non lo può spiegare nessuno, neppure il Pontefice. Se uno non ha almeno un anelito alla fede lo interpreta in chiave mitologica, politica, sociologica, eccetera. Parlare a costoro di Cristo è come parlare a un cieco della luce e dei colori». Qual è l'idea motrice dell'opera? «La troviamo nel Salmo 27: "Il tuo volto Signore io cerco, non nascondermi il tuo volto". Ho l'impressione che corrisponda a una domanda che Ratzinger si è sentito porre: Joseph, chi pensi che io sia? Molti hanno parlato di Cristo senza credere, ma sono caduti nell'errore ermeneutico di porre Gesù sul piano dei grandi pensatori. L'ha fatto Jaspers, ponendolo accanto a Socrate, Buddha e Confucio. La risposta di Ratzinger , invece, è stupenda: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". È la risposta di Pietro e, leggendola, mi sono commosso». Che idea di fede permea il libro del Papa? «Che credere in Cristo è credere nel Regno di Dio in persona. Questo vuol dire essere cristiano, oggi come duemila anni fa. Rileggiamo Il sale della terra, sempre di Ratzinger: "La sostanza di questa fede è che riconosciamo Cristo figlio di Dio vivente, incarnato e divenuto uomo, e per mezzo suo crediamo nella Trinità". In Deus caritas est, poi, scrive che la fede è una decisione che riguarda l'intera struttura della vita e ha a che fare con la parte più profonda di ognuno di noi: "Se l'uomo comincia a guardare a partire da Dio, se cammina in compagnia di Gesù, allora vive secondo nuovi criteri, e allora un po' di ciò che deve venire è già presente adesso. A partire da Gesù entra gioia nella tribolazione"». Se l'«eschaton» è anche di questo mondo, dev'essere comprensibile anche per la ragione e non solo per la fede. «È l'architrave dell'opera di Ratzinger ed è una convinzione agostiniana. Mi sono accorto che il Papa ama molto Giovanni e io sto traducendo il commentario di Agostino a quel Vangelo: vi si trovano delle frasi che sono assolutamente in sintonia con il pensiero del Pontefice: "Il profeta Isaia disse: se non crederete non capirete. Per mezzo della fede - scrive Agostino - ci uniamo a Lui, per mezzo dell'intelligenza veniamo vivificati". E ancora: "Abbiamo creduto per poter conoscere. Se avessimo voluto conoscere prima di credere non saremmo riusciti né a capire né a credere". Infine: "Vuoi capire? Credi". Parole di Agostino, concetti di Ratzinger. Del resto, Benedetto XVI aveva già dato ragione a Barth nel rifiutare la filosofia come fondamento della fede indipendentemente da quest'ultima». Il rapporto tra fede e ragione in Ratzinger è sempre stato centrale, come in Agostino. Ma qual è il punto esatto in cui la seconda piega il capo? «Per Ratzinger si potrebbe usare un sillogismo cartesiano: credo dunque sono. Pone il credere al vertice, non toglie la ragione ma l'associa e la subordina alla fede. Tu capisci, se credi. Questo dice il Papa: la fede è una decisione che coinvolge la totalità della vita e quindi non ha solo un valore assiologico, ma ha addirittura una portata ontologica: la tua vita di uomo, se credi davvero, viene cambiata e plasmata. Tu sei in rapporto a ciò in cui credi e in funzione della misura e della forza con cui credi». Si dice che quest'opera riconcili il metodo storico-critico con l'esegesi biblica. È così? «Il metodo del Papa richiama spesso quello storico-critico e ammette che è importante ma non sufficiente; se applichi il metodo storico-critico in modo impeccabile ma non credi, esce un Cristo storicamente ricostruito ma dai lineamenti sfuocati. Invece, il libro considera il Gesù storico a partire dalla sua comunione con il Padre, lo comprende, oltre che con i criteri storico-critici, anche con quelli della fede». Guardiamo al futuro, che in realtà è un po' presente, perché il Papa sta già scrivendo la seconda parte del libro. Dove ci porterà? «Questo libro contiene già il nocciolo del sogno di Benedetto XVI: il tentativo di ridare unità ai cristiani. Il minimo comun denominatore c'è: credere che Cristo è il Dio fatto uomo, che si è fatto crocifiggere ed è risorto per redimerci. Le confessioni cristiane possono partire da lì. Visto che tutti ci crediamo, tutti possiamo ripartire da lì». (Paolo Viana, Avvenire, 21 aprile 2007)
Lo Stato aiuta i conviventi e sposarsi non conviene più L’articolo 31 della Costituzione della Repubblica Italiana assicura di agevolare con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi. Se la lingua italiana è lingua italiana, ciò significa che sposarsi conviene, poiché vi sono le agevolazioni economiche e le altre provvidenze (e lasciamo da parte l’italiano un po' ammuffito) e l’adempimento dei compiti relativi. Poi si va a vedere la legge fondativa italiana e ci si accorge che gli sposi guadagnano a non sposarsi e a separarsi, se sono già congiunti. Dal punto di vista economico - stiamo a questo - lo Stato discrimina rispetto alle convivenze. Discrimina non agevolando l’unione, ma rendendola più gravosa. Anche la direzione di normative recenti sa di accanimento nei confronti della famiglia. Si ponga il caso dell’ultima legge finanziaria che al tormentato capitolo famiglia stabilisce che i figli debbano essere a carico di entrambi i coniugi al 50%, e che comunque non possono essere a carico del coniuge con il reddito inferiore. Questa norma non vale nell’ipotesi di una coppia di semplici conviventi. Meglio mettersi insieme alla rinfusa per pagare meno tasse. L’iniziativa quanto meno incongruente arriva, dati alla mano, da due legulei sposati consiglieri della Liguria, che hanno presentato alla Giunta una mozione per il rispetto della Costituzione che la maggioranza di centrosinistra ha respinto. Da Nord a Sud della nazione la situazione è la stessa. Il nodo ben arruffato è uno: il cumulo dei redditi, che si applica alle coppie convolate a nozze, ma non a quelle conviventi che non risiedono nella stessa casa, a meno che, beffa nella beffa il matrimonio non sia stato celebrato con rito esclusivamente religioso, quindi senza la contestuale congiunzione degli effetti civili. Vi sono diseguaglianze anche maggiori. Queste scattano sui servizi per i figli dalla prima infanzia in poi. Si ponga il caso per ottenere un posto all’asilo nido: si deve affrontare una impresa titanica di strutture a numero chiuso, alle quali si accede fino a esaurimento di posti. Ebbene, poiché le graduatorie si basano anche sul reddito, la famiglia che complessivamente guadagna 41.000 euro, avrà minori chances, per esempio, della madre che ne guadagna 16.000 e ha un figlio a carico. In farmacia per esempio, il diritto all’esenzione dei ticket sui farmaci scatta con un reddito di 36.000 euro, perciò i due coniugi non potranno usufruirne, al contrario dei due «non coniugi». I conti non sono logaritmici; anche per l’accesso all’edilizia convenzionata là dove il reddito complessivo deve aggirarsi sui 38.000 euro. La simulazione degli uffici regionali liguri, per esempio, dove la tassa è di 14.000 euro di reddito senza casa di proprietà, dice chiaro che il figlio della coppia sposata con reddito complessivo di 41.000 euro perché la sua tassa sarà a quota 20.000 oltre il limite fissato. Ma se la coppia non fosse sposata e il figlio a carico di uno dei due partner sarebbe garantito. L'esemplificazione può continuare. E dimostrerebbe che la famiglia «normale» - naturale - sarebbe sempre in perdita. Se gli italiani sposati hanno già imparato a evitare accuratamente la comunione dei beni, si pensi solo che le agevolazioni sulla prima casa sono negate ai nuclei familiari in cui un coniuge ne possieda già una, a meno che la coppia non abbia scelto, appunto, il regime di separazione dei beni. Un fenomeno triste si sta diffondendo: le finte separazioni. Non fosse altro che per l’assegno di mantenimento per il coniuge che è detraibile dal reddito imponibile ai fini fiscali. Dove si vede la trappola delle finte deduzioni delle tasse. Macché deduzione! (Mons. Alessandro Maggiolini, Vescovo emerito di Como, Il Giornale, 14 aprile 2007)
Il Magistero di Benedetto XVI: una "scuola" di teologia, di vita e di spiritualità Pubblichiamo il testo dell'intervento pronunciato dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, durante l'incontro in onore di Papa Benedetto XVI, promosso dall'Ufficio della Pastorale Universitaria del Vicariato di Roma, svoltosi nella sera di giovedì 19 aprile presso il Teatro Argentina: È per me motivo di grande gioia prendere parte a questa serata culturale in onore di Papa Benedetto XVI promossa dai giovani studenti dei collegi universitari di Roma. Saluto con viva cordialità i Magnifici Rettori e i docenti che hanno voluto condividere questo desiderio dei giovani di festeggiare il Santo Padre per il Suo 80° genetliaco e per il secondo anniversario della Sua elezione. Cari giovani, il tema impegnativo che avete scelto di trattare, pur in un contesto di festa, rivela il vostro particolare desiderio di condividere con il Santo Padre l'amore fedele per il Signore Gesù, unico salvatore del mondo, e nel contempo, di offrire ai vostri coetanei la testimonianza della vostra gioiosa sequela. Ricordiamo i ripetuti inviti del Papa: Chi ha scoperto Cristo deve portare altri verso di Lui. Una grande gioia non si può tenere per sé. "Vangelo e giovani. Dal mito alla realtà". Questo titolo, da voi scelto, non si configura come uno slogan ma ci conduce a ragionare con Benedetto XVI sulla collocazione temporale di Gesù all'interno della storia universale: "l'attività di Gesù non è da considerare inserita in un mitico prima-o-poi, che può significare insieme sempre e mai; è un avvenimento storico precisamente databile con tutta la serietà della storia umana realmente accaduta - con la sua unicità, la cui contemporaneità con tutti i tempi è diversa dalla atemporalità del mito" (Ratzinger, Gesù di Nazaret, p. 31). Con questa citazione vi invito a leggere il suo libro uscito di recente. Dice il Vangelo di Giovanni: "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1, 18). E tutti i miti che parlano di una divinità che muore e risorge - commenta il teologo Ratzinger - alla fine aspettavano Lui: il desiderio è diventato realtà. Siamo ancora rivolti alle feste di Pasqua e, guardando in particolare il mondo della comunicazione a cui i giovani sono tanto sensibili, viene da chiedersi se la risurrezione di Cristo è considerata ancora oggi una notizia da comunicare e da sostenere, come quando venne diffusa dopo la crocifissione, che sconvolse Gerusalemme tanto che si cercò di soffocarla nel sangue. Oppure se non sia vista come una specie di mito ripetuto di anno in anno. La risposta ci viene dagli innumerevoli martiri cristiani, anche nel nostro tempo. A duemila anni di distanza, per la veridicità di questa notizia si continua a morire e a vivere, perché questa è la buona notizia che fa vivere in pienezza la vita e per la quale, quindi, vale la pena donare se stessi. Per essere testimoni voi giovani avvertite la necessità di possedere una robusta preparazione, non solo dottrinale, ma vitale, della fede cristiana. Vale sempre l'avvertimento paterno di Benedetto XVI ai giovani durante la GMG di Colonia, che li esortava a far si che la religione non diventi un "prodotto di consumo" dove si sceglie quello che piace: "La religione cercata alla maniera del "fai da te" alla fine non ci aiuta. È comoda, ma nell'ora della crisi ci abbandona a noi stessi. Gesù Cristo! Cerchiamo noi stessi di conoscerlo sempre meglio per poter in modo convincente guidare anche gli altri verso di Lui" (Spianata di Marienfeld, Domenica, 21 agosto 2005). La conoscenza di Dio, nella sua realtà vera e profonda, non può essere compresa adeguatamente con i soli strumenti di analisi con cui cerchiamo di indagare i fenomeni sociali e culturali. La presenza di Dio, in Gesù Cristo, è afferrabile solo se l'uomo si lascia coinvolgere entrando in una relazione che è luce e mistero. Lo si riconosce così come Parola/Logos che orienta e costruisce la storia e prende in considerazione tutto l'uomo, con i suoi dubbi e le sue fragilità, le sue preoccupazioni e le sue speranze, la sua intelligenza e la sua volontà. La fede in Gesù Cristo non pone l'uomo in una vaga e non definita metastoricità, dove si confonde o viene assorbito da forze misteriose, ma gli riconosce la sua responsabilità di essere fatto a immagine e somiglianza di Dio. Benedetto XVI, con il suo alto insegnamento teologico, offerto con semplicità e discrezione, segno di autentica statura intellettuale, ci accompagna in questo cammino di fede che non teme la luce della ragione, e nemmeno l'oscurità dell'opposizione e della persecuzione. Anzi, fa comprendere che nuovi impulsi e la stessa realtà storica vengono incontro al Vangelo chiedendo ad esso luce per capire il nostro tempo. Voi giovani universitari siete nella condizione più favorevole per condividere il cammino contemporaneo della Chiesa, sostanziando il vostro entusiasmo e la vostra generosità con la solidità di un pensiero ben fondato e robusto. In questo cammino non siete soli. Nella circostanza odierna sono lieto di accogliere il volume preparato dai docenti - e mi piace sottolineare: dai giovani docenti - delle Università di Roma e del Lazio, in occasione dell'80° genetliaco del Papa. A loro va il più vivo ringraziamento e sono certo di interpretare per questo il pensiero del Santo Padre. Il titolo del volume: "La Carità intellettuale. Percorsi culturali per un nuovo umanesimo" è un titolo impegnativo, ma confacente alle responsabilità che i docenti universitari hanno nella formazione delle giovani generazioni e nella elaborazione culturale. II Santo Padre nella recente veglia mariana ha manifestato la Sua gioia e il suo apprezzamento per il tema della carità intellettuale. Essa ben definisce il ruolo del docente e ne allarga gli orizzonti. Troppe volte nella storia si sono create incomprensioni tra fede e ragione, troppe volte gli orizzonti della scienza e della ricerca si sono divaricati e ristretti a tal punto da non vedere più la realtà nella sua totalità. Definire il ruolo dei docenti universitari con l'impegnativa e talvolta ardua prospettiva della carità intellettuale è una chiara indicazione di percorso, sia per la vita personale del docente sia per l'intera comunità universitaria. La società e, in particolare, i giovani studenti attendono dai docenti universitari una guida sicura e illuminata, dove si intrecciano onestà intellettuale e purezza di cuore, che costituiscono l'anima della carità intellettuale. Un esempio stupendo ce lo offre Benedetto XVI, per lunghi anni docente universitario ed ora supremo maestro e pastore della Chiesa universale. L'esercizio della carità intellettuale in lui si manifesta nel modo rigoroso e chiaro con il quale sa condurre alla ragionevolezza della fede, ma anche si manifesta nel silenzio, nell'ascolto profondo e rispettoso, nella capacità di mettersi in relazione con l'interlocutore. Ogni occasione di incontro con Benedetto XVI è per me una scuola di teologia aggiornata, di sintesi limpida della dottrina cristiana, ma anche una scuola di vita e di spiritualità. Infine vorrei rivolgere brevi parole per commentare il secondo dono che questa sera viene offerto per il Papa. È un DVD che raccoglie due grandi Oratori di Lorenzo Perosi: "Il Natale del Redentore" e "la Risurrezione di Cristo", eseguiti dall'Orchestra del Conservatorio di Santa Cecilia, dal Coro interuniversitario, insieme ai Cori dei Conservatori e delle Università del Lazio, guidati dal Maestro Valentino Miserachs. È una raccolta molto significativa per il valore spirituale e artistico delle opere del Perosi, ma anche per la collaborazione di cui è espressione: mi riferisco al Ministero per l'Università, alla Congregazione per l'Educazione Cattolica, alla Radio Vaticana e al Centro Televisivo Vaticano. Ma un pensiero particolare desidero rivolgere ai giovani del Coro Interuniversitario, guidati dal Maestro Massimo Palombella, per la gioiosa e qualificata testimonianza con cui accompagnano la pastorale universitaria di Roma. Sono due doni che volentieri consegnerò al Santo Padre, facendomi interprete dei vostri sentimenti di filiale devozione. Sono certo che sarà per Lui un momento di consolazione, sapendo di poter contare sulla collaborazione degli universitari e dei docenti di Roma e del Lazio impegnati nella pastorale universitaria. (L’Osservatore Romano, 21 aprile 2007)
In Paradiso i bambini che muoiono senza Battesimo I bambini che muoiono senza Battesimo sono destinati al Paradiso: è la conclusione alla quale, dopo anni di studi, è giunta la Commissione Teologica Internazionale, che ha pubblicato un documento in cui chiarisce che il tradizionale concetto di limbo riflette una “visione eccessivamente restrittiva della salvezza”. Ampi stralci del documento, intitolato “La Speranza di salvezza per i bimbi che muoiono senza essere stati battezzati”, sono stati pubblicati dall’agenzia dei vescovi statunitensi, Catholic News Service (CNS). La versione integrale del testo in lingua italiana verrà pubblicata il prossimo 5 maggio sul quindicinale dei Gesuiti, "Civiltà Cattolica". Ma quali sono le ragioni che hanno portato a chiarire, dal punto di vista teologico, che i bambini morti senza Battesimo vadano in Paradiso? Roberta Moretti lo ha chiesto al segretario generale della Commissione Teologica Internazionale, padre Luis Ladaria: R. - Le ragioni fondamentali sono rappresentate in primo luogo dalla misericordia infinita di Dio, che vuole che tutti gli uomini siano salvati, e dalla mediazione unica ed universale di Cristo, che è venuto nel mondo per salvare tutti gli uomini. Gesù si è poi mostrato specialmente vicino ai bambini, con una particolare predilezione: tutte queste ragioni portano alla speranza nella salvezza dei bambini morti senza essere stati battezzati. D. - E’ corretto dire che questa presa di posizione della Commissione Teologica Intenazionale rappresenti la fine di un percorso di ricerca teologica sulla questione? R. - Io non credo si possa dire questo in termini assoluti, perché questa ricerca era stata già attivata molto prima che la Commissione Teologica si occupasse di questo tema. Naturalmente, poi, la Commissione Teologica non ha un’autorità magisteriale. In questo senso, questa presa di posizione della Commissione Teologica, di per sé, non esclude nuove investigazioni. Rappresenta un momento in un percorso di ricerca, forse un momento specialmente qualificato, ma non si può dire che lo chiuda, dal momento che noi non possiamo attribuire a questo documento un’autorità più grande di quella che ha. D. - Come è entrato il limbo a far parte della concezione popolare? R. - Il limbo non è mai stato definito come un dogma. Il Catechismo della Chiesa Cattolica non lo menziona e questo rappresenta un indizio che già in quel momento le cose stavano cambiando e che la mentalità teologica non era la stessa di anni o secoli precedenti. Il limbo, però, ha cominciato a far parte non soltanto della rappresentazione popolare ma anche della teologia come un tentativo per evitare di dover dire che i bambini morti senza Battesimo andassero nell’Inferno: c’erano infatti delle posizioni più rigoriste che pensavano che i bambini non battezzati andassero all’inferno. Anche se si aggiungeva che le pene che soffrivano erano soavi, miti. Questo appariva un po’ troppo rigoroso. Si sviluppò allora lentamente questa idea del limbo. D. - Quale è stato il contributo di Benedetto XVI alla stesura di questo documento? R. - La stesura è opera della Commissione Teologica, ma Benedetto XVI - essendo, tra l’altro, stato presidente della Commissione Teologica Internazionale, e quindi prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede - indicò questo come un tema di studio, probabilmente d’accordo con il Papa Giovanni Paolo II. Come sappiamo, ha poi dato il suo consenso alla pubblicazione. (Radio Vaticana, 21 aprile 2007)
Pasqua a Roma: le omelie segrete del successore di Pietro Omelie segrete tranne a chi le ha potute ascoltare di persona, mentre Benedetto XVI le pronunciava. Anche nel messaggio "urbi et orbi" il papa ha detto molto più che un elenco di paesi in guerra. Gesù risorto appare agli apostoli, e a Tommaso che dubita dice: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. L'incredulità di Tommaso e la sua successiva professione di fede – “Mio Signore e mio Dio!” – sono state al centro del messaggio rivolto al mondo da Benedetto XVI la domenica di Pasqua. Papa Joseph Ratzinger ha detto che "ciascuno di noi può essere tentato dall’incredulità di Tommaso". Gli innumerevoli mali che affliggono gli uomini mettono a dura prova la fede. Ma proprio nelle piaghe di Cristo risorto appare il vero volto di Dio: "un Dio che, in Cristo, si è caricato delle piaghe dell’umanità ferita". È qui che la fede, da quasi morta, rinasce: perché "solo un Dio che ci ama fino a prendere su di sé le nostre ferite e il nostro dolore, soprattutto quello innocente, è degno di fede". A questo punto Benedetto XVI ha chiamato per nome le regioni del mondo dove ci sono più ferite e dolore, dal Darfur al Congo, dall'Afghanistan all'Iraq alla "Terra benedetta che è la culla della nostra fede". E ha aggiunto: "Cari fratelli e sorelle, attraverso le piaghe di Cristo risorto possiamo vedere questi mali che affliggono l’umanità con occhi di speranza". In precedenza aveva detto che "l’odierna umanità attende dai cristiani una rinnovata testimonianza della risurrezione di Cristo; ha bisogno di incontrarlo e di poterlo conoscere come vero Dio e vero uomo". Ma poco o niente di questo annuncio del Cristo risorto è stato rilanciato dai grandi media. Ha avuto evidenza solo l'elenco dei paesi colpiti da guerre e calamità. C'è un limite oltre il quale le parole di Benedetto XVI non vanno. Esse raggiungono nella loro interezza solo coloro che le ascoltano di persona, o presenti fisicamente o grazie a una diretta televisiva. Il numero di queste persone è cospicuo, superiore a quello di tutti i precedenti pontificati. Il messaggio pasquale "urbi et orbi" e la Via Crucis del venerdì santo sono stati seguiti da grandi folle e ritrasmessi in più di quaranta paesi. Ma ancor più sterminato è il numero delle persone alle quali il messaggio del papa arriva mutilato, o non arriva del tutto. Questo limite comunicativo Benedetto XVI lo ha sperimentato in misura ancora maggiore nelle altre celebrazioni della scorsa settimana santa. Nella messa "crismale" della mattina del giovedì il papa ha dedicato l'omelia a spiegare il senso profondo dell'essere sacerdoti, "rivestiti di Cristo" e quindi capaci di agire e parlare "in persona Christi". L'ha fatto ripercorrendo la simbologia delle vesti liturgiche. Ma a quanti degli oltre quattrocentomila vescovi e sacerdoti cattolici sono arrivate le sue parole? Nell'omelia della messa "in coena Domini" della sera del giovedì Benedetto XVI ha illustrato la novità della Pasqua di Gesù rispetto a quella celebrata dagli ebrei. Nell'omelia della notte di Pasqua ha descritto la vittoria di Gesù sulla morte avvalendosi delle raffigurazioni tipiche delle Chiese d'oriente: con Gesù risorto che scende negli inferi e così "porta a compimento il cammino dell’incarnazione. Mediante il suo morire Egli prende per mano Adamo, tutti gli uomini in attesa, e li porta alla luce". Ma tra i presenti a queste messe solo chi comprendeva l'italiano poteva ascoltare con frutto le omelie del papa. I media cattolici che ne hanno tradotto e rilanciato i testi in vari paesi hanno allargato l'area d'ascolto di poco, a un pubblico di nicchia. Per un papa come Benedetto XVI che ha incentrato proprio sulla parola il suo ministero, questo è dunque un limite serio. Nella curia romana gli uffici che si occupano di comunicazione non hanno fatto sinora nulla di nuovo, per ovviarvi almeno in parte. Ad esempio, nessuno provvede a far arrivare tempestivamente, a tutti i vescovi e sacerdoti del mondo, collegati via internet, una newsletter con i testi del papa nella rispettiva lingua. Le sole iniziative efficaci, in questo campo, sono di Benedetto XVI in persona. Col suo libro su Gesù che uscirà tra pochi giorni in più lingue egli raggiungerà in forma diretta e personale un numero altissimo di lettori in tutto il mondo. E Gesù "vero Dio e vero uomo" è proprio il cuore del messaggio di papa Benedetto. Così come è stato il cuore delle sue omelie di Pasqua. (Sandro Magister, www.chiesa, 19 aprile 2007)
La tendenziosità dei media nella copertura giornalistica dei temi religiosi Tra i mezzi di comunicazione di massa e la religione spesso non intercorrono buoni rapporti. Il problema non è tanto che i giornalisti ignorino i temi religiosi, quanto piuttosto la carenza di qualità nei loro servizi. Il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, ha di recente sottolineato alcune incongruenze dei mezzi di comunicazione. Nell’ambito di un’intervista con una rivista francese, il Cardinale ha stigmatizzato il modo in cui la stampa riporta le notizie sulla Chiesa cattolica, secondo la Reuters del 31 marzo. Spesso i media si concentrano più sulle questioni controverse come la sessualità e l’aborto, mantenendo invece un “assordante silenzio” sul lavoro caritatevole fatto da migliaia di organizzazioni cattoliche in tutto il mondo. “I messaggi della Chiesa sono soggetti a un certo tipo di manipolazione e falsificazione da parte di alcuni media occidentali”, ha affermato il Cardinal Bertone. Secondo il porporato, poi, anche la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona dello scorso settembre è stata riportata in forma distorta, avendo dato eccessiva attenzione alla citazione da parte del Papa di ciò che un imperatore bizantino aveva detto circa i musulmani. Il discorso era in realtà una discussione sul ruolo che Dio riveste nella società. “I commentatori che estrapolano frasi fuori dal contesto esercitano il loro lavoro disonestamente”, ha affermato il Cardinal Bertone. Anche al documentario di Discovery Channel sulla presunta tomba di Gesù è stato dato eccessivo risalto. Secondo il Cardinale, la pubblicità che viene data a tali argomenti così speciosi indebolisce la fede della gente. Il documentario, mandato in onda il 4 marzo scorso, è un esempio di come i mezzi di comunicazione possano dare un’impressione errata dei fatti. Il regista del film, James Cameron, ha affermato che vi sarebbero sufficienti elementi statistici per affermare che l’ossario rinvenuto alla periferia di Gerusalemme nel 1980 potrebbe aver contenuto i resti di Gesù e degli altri componenti della famiglia, secondo l’Associated Press del 26 febbraio. La grande attenzione riservata dai mezzi di comunicazione al documentario è stata subito oggetto di valutazione. Secondo il Washington Post del 28 febbraio, William Dever, archeologo biblico, ha messo in evidenza l’eccessivo entusiasmo con cui è stato trattato il documentario: “È una vergogna come questa storia sia stata gonfiata e manipolata”. “Si tratta di un’operazione pubblicitaria che renderà queste persone molto ricche, a dispetto di milioni di innocenti che non conoscono a sufficienza i fatti per saper distinguere la realtà dalla finzione”. Ipotesi non certe Le presunte prove statistiche che avvalorerebbero quanto affermato nel documentario sono state prese in esame da Carl Bialik, esperto di dati statistici del Wall Street Journal. In un articolo del 9 marzo, Bialik ha preso in considerazione l’affermazione secondo cui il ritrovamento di una tomba con i nomi di Gesù e di altri membri della famiglia era statisticamente così improbabile da potersi considerare come una prova dell’ipotesi che si tratti della vera tomba di Gesù. Le affermazioni contenute nel documentario sono basate su un lavoro svolto da Andrey Feuerverger, statistico dell’Università di Toronto, secondo cui vi sarebbe solo una probabilità su 600 che i nomi sulla tomba fossero di una famiglia a cui non fosse appartenuto Gesù di Nazareth. Ma, come ha sottolineato Bialik, questo calcolo si basa su molti assunti. Vi sono diverse opinioni su come le iscrizioni sulla tomba debbano essere considerate. Scegliendo interpretazioni diverse da quelle usate dal documentario, la tesi secondo cui si tratterebbe della tomba di Gesù verrebbe gravemente indebolita, ha affermato. Oltre ai problemi di interpretazione dei nomi, vi sono quelli relativi alla diffusione di questi nomi nella popolazione del tempo. Ivo Dinov, professore associato di statistica presso l’Università della California, a Los Angeles, ha detto a Bialik: “Non sarei così tranquillo ad affermare una cifra simile, perché il pubblico generale non capirebbe che si tratta di un dato molto, molto soggettivo”. Le presunte rivelazioni del documentario fanno parte di uno schema di programmazione dei media relativo a periodo di Pasqua, ha spiegato Charlotte Allen, uno dei redattori di Beliefnet, in un articolo di opinione apparso sul Los Angeles Times del 4 marzo. “Tutte queste presunte rivelazioni fanno parte di un costante lavoro diretto a costruire versioni alternative di cristianesimo rispetto a quella che abbiamo”, ha osservato Allen. Spesso la scoperta di nuovi “vangeli” o altri documenti risponde al bisogno di gruppi di persone o organizzazioni di trovare forme dottrinali alternative, che coincidano meglio con le loro idee personali su come dovrebbe essere il cristianesimo, ha aggiunto. “Le persone che ritengono incredibili o comunque da respingere le nozioni di peccato, salvezza, espiazione e di vita oltre la morte, usano come appiglio antichi documenti in cui questi elementi sono assenti, per giustificarne l’eliminazione dalle loro personali cosmologie”, ha osservato Allen. Ulteriori rivelazioni Come in un copione già programmato, il 21 marzo, il quotidiano Times di Londra ha riportato il seguente titolo: “Gesù non era un operatore di miracoli”. Il relativo articolo verte sul libro scritto da Benjamin Iscariot, insieme a Jeffery Archer e Francis Molony, dal titolo “The Gospel Accordino to Judas” (Il Vangelo secondo Giuda). Ai lettori del Times è stato assicurato che il libro è stato “pubblicato con l’approvazione del Vaticano” e che esso dimostrerebbe che “Gesù non ha trasformato l’acqua in vino, né ha calmato la tempesta nel Mare di Galilea, né ha mai camminato sulle acque”. Ma, come sottolineato dal quotidiano Guardian del 21 marzo, Archer è noto piuttosto per essere autore di romanzi e di recente ha scontato una pena in prigione per falsa testimonianza. Inoltre, come riporta il Guardian, il Vaticano non ha affatto dato il suo sostegno a questo libro. Intervenendo alla presentazione del libro, padre Stephen Pisano, rettore del Pontificio Istituto Biblico, ha precisato che la sua partecipazione non significava “che l’Istituto, il Vaticano o il Papa approvino questo libro”. Ma con l’approssimarsi della Pasqua questo tipo di notizie è continuato. Il 3 aprile il New York Times ha pubblicato un articolo sostenendo l’assenza di qualsiasi prova archeologica dell’Esodo degli ebrei dall’Egitto, guidato da Mosé. Zahi Hawass, principale archeologo egiziano, avrebbe affermato che la storia dell’Esodo sarebbe “un mito”. Ma il contesto di questo servizio del New York Times risulta alquanto curioso. Hawass era alla guida di un gruppo in visita all’antica fortezza scoperta di recente nel nord del Sinai e la sua affermazione sull’Esodo è stata la risposta a una domanda formulata dallo stesso giornalista. Questo commento, fatto en passant nel corso della presentazione dei reperti archeologici appartenenti ad un contesto del tutto diverso, è diventato poi la base di un articolo di 900 parole pubblicato dal New York Times. Inoltre, lo stesso articolo sorprendentemente non riporta alcuna opinione divergente o contrastante che riconfermi la veridicità storica dell’Esodo. Come presentare le notizie Le critiche al modo di operare dei media riguardano anche il modo in cui questi presentano e interpretano determinati eventi. Un caso interessante, in questo senso, è quello relativo alle proteste in Turchia contro la visita del Papa dello scorso novembre. Un servizio del 27 novembre apparso su un sito Internet spagnolo, relativo alla copertura giornalistica sulla Chiesa “La Iglesia en la Prensa” (La Chiesa nella stampa), ha messo a confronto i titoli dei quotidiani spagnoli con quelli dei giornali italiani. Durante la visita, alcuni gruppi ostili alla Chiesa cattolica e alla presenza di Benedetto XVI hanno organizzato una manifestazione di protesta. I giornali spagnoli hanno sottolineato l’ostilità riservata al Papa e la presenza di migliaia di protestanti. La stampa italiana ha invece evidenziato che il numero dei protestanti era molto inferiore rispetto alle aspettative. Dalle notizie precedenti al giorno della protesta, si sarebbe dovuto riversare sulle strade circa un milione di persone, ma solo in 15 o 20 mila hanno effettivamente partecipato alla manifestazione. Ciò nonostante, i quotidiani spagnoli hanno volutamente ignorato il fallimento di questa protesta. L’insegnamento, in questo caso, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica, è che “di fronte ai mass-media i fruitori si imporranno moderazione e disciplina” (n. 2496). Coloro che fruiscono dei mezzi di comunicazione di massa, prosegue il Catechismo, “si sentiranno in dovere di formarsi una coscienza illuminata e retta, al fine di resistere più facilmente alle influenze meno oneste”. Il Catechismo consiglia giustamente i fedeli di guardarsi da una ricezione passiva di quanto veicolato dai media e raccomanda loro di non essere “consumatori poco vigili di messaggi o di spettacoli”. Considerato il modo in cui i media hanno presentano i temi religiosi recentemente sulla stampa, si tratta di una saggia raccomandazione per i nostri tempi. (Padre John Flynn, Zenit, 22 aprile 2007)
22 APRILE 2007
Sui muri e sui giornali: «La Chiesa taccia» La sanno lunga. Sanno perfino quando si potrà ricominciare a parlare: il 24 giugno, festa di San Giovanni Battista. Fino a quell'epoca l'unica interruzione consentita sarà (sarebbe) in occasione dell'assemblea generale della Cei nella seconda metà di maggio, dopo il Family Day. Prima e dopo quella data invece, silenzio assoluto, più di due mesi, un lasso di tempo sufficiente a troncare, sopire, far dimenticare: due mesi di afasia per i vescovi italiani, un silenzio che sarebbe addirittura imposto dal soglio più alto, misura cautelativa estrema per rattoppare gli "errori" fin qui commessi dalla Cei. Sì, avete letto bene. Non siamo nella Ddr di Honecker, nella Cuba di Castro o nella Corea del Nord, ma in Italia, dove di muraglie e di confini spinati non ce ne sono, nemmeno fra una sponda e l'altra del Tevere. Ma loro, i giornalisti famosi gli opinionisti di pregio, la sanno lunga lo stesso. Tanto da spararla in prima pagina (è avvenuto ieri sulla Stampa di Torino), sicuri di ciò che scrivono, anzi, diciamo pure compiaciuti quanto basta perché fra le righe si intraveda il serpentello velenoso della maldicenza, quella che lascia balenare il lampo di un dissidio fra Santa Sede e Conferenza episcopale italiana, così, tanto per gradire, per far sapere che dai muri d'Italia la polemica contro la Chiesa cattolica si è spostata nientemeno che all'interno delle stanze apostoliche. Tanta è la voglia di vedere spaccature. Sciocchezze, in realtà. Come si può facilmente evincere dal comunicato prontamente emesso ieri dalla sala stampa vaticana. Fandonie dunque, leggere come i pollini che danzano nell'aria in bizzarre giornate di primavera. Non fosse che le scritte, quelle scritte, sono purtroppo assolutamente vere, a differenza delle congetture balzane che le accompagnano. Lo sanno bene gli inquirenti, che non sottovalutano il problema pur senza esasperarlo né amplificarlo oltre misura. Esattamente come dichiarava ieri per sé la Cei per bocca del suo segretario monsign or Betori. In fondo lo sa bene - a giudicare da ciò che afferma - anche Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione comunista alla Camera quando dice a proposito delle scritte contro il presidente della Cei comparse a Bologna: «È da condannare in maniera molto ferma. Come sono da condannare le scritte simili apparse in altre città. Sono gesti di intimidazione».Et voilà, eccola la parola magica: intimidazione. Detta da Migliore, non da uno della parrocchia, da un esponente cioè di quell'area radicale della sinistra raramente tenera nei confronti della Chiesa cattolica. Ma Migliore coglie nel segno, perché di intimidazione si tratta e di nient'altro. Non è il gesto di uno sconsiderato, ma la filigrana di un clima che si va per ora coagulando. Che forse si limiterà all'invettiva a mezzo di graffiti, forse no, ancora non si sa. Lo scopo è chiaro, far tacere una voce. Da che mondo è mondo accade, le voci scomode vanno imbrigliate ridotte al silenzio, sepolte dal coro assordante dell'invettiva. E "loro", che la sanno lunga, non sono da meno. Perché nella fiction a mezzo stampa in cui fantasticano di silenziatori imposti dalla Santa Sede denunciano in modo assai trasparente il messaggio (e il desiderio segreto) di cui sono latori: la Chiesa taccia, in ogni caso. Pia illusione. La Chiesa non si fa intimidire, né oggi né mai, né dalle scritte sui muri né dalla fantasy eletta a scoop. "Loro" che la sanno così lunga dovrebbero sapere anche questo. (Giorgio Ferrari , Avvenire, 13 aprile 2007)
Missionari rapiti, quale trattamento? Lungi da ogni considerazione polemica sulle posizioni politiche di maggioranza e opposizione, in questi giorni il dibattito parlamentare pare fortemente incentrato sui postumi della vicenda che ha avuto come protagonista il nostro collega Daniele Mastrogiacomo sequestrato il mese scorso dai talebani. Una storia davvero penosa per i suoi strascichi, soprattutto in riferimento alla sorte dei due accompagnatori afgani che, com'è noto, hanno perso la vita nel corso di due distinte esecuzioni. Premesso che in simili circostanze è sempre bene stringersi attorno a coloro che sono vittime di simili soprusi in un atteggiamento di indubitabile solidarietà, occorre però riflettere al contempo sulle differenti modalità che, nel corso degli anni, hanno caratterizzato le procedure per la liberazione di nostri connazionali sequestrati nelle zone di guerra. O anche no. In effetti, dall'11 Settembre l'impegno diretto dell'Italia in territorio iracheno, come anche in Afghanistan, ha accresciuto notevolmente l'interesse nazionale e quello del governo di turno rispetto a queste vicende, sia dal punto di vista politico che mediatico. È chiaro però che quando si tratta di sequestri che coinvolgono i giornalisti, per ragioni legate alla fisiologia della comunicazione, l'enfasi viene elevata all'ennesima potenza al punto tale che le principali testate catapultano sul posto i loro inviati, s'intensificano i servizi, cresce a dismisura il pathos collettivo. Così che la copertura dell'evento diventa una sorta di appassionato filo diretto che rende quasi spasmodica l'attesa per la liberazione. Se poi ci si mettono anche i video messaggi, con relativi strazianti appelli, l'ansia dell'opinione pubblica si gonfia al massimo. Altra però è la logica che riguarda esperienze simili vissute dai missionari nelle cosiddette periferie del "villaggio globale". È vero che chi parte per la missione «ad gentes» è pronto a dare la vita per la causa del Vangelo, ma questo non può costituire un alibi per la nos tra società che finisce spesso con il relegare in una zona d'ombra queste "sentinelle di Dio", forse scomode proprio per la loro testimonianza. Sta di fatto che finora non solo questi "artigiani di pace" non hanno fatto notizia, ma si trovano comunque marginalizzati rispetto a tanti altri loro connazionali che versano nelle stesse precarie condizioni, poco importa che si tratti di giornalisti, improvvidi turisti o chicchessia. Ma quando mai in questi anni i missionari sequestrati nelle remote savane africane hanno potuto godere di quella pressione diplomatica internazionale che invece è stata riservata ad altri in tempi più recenti? Bisognerebbe chiederlo a personaggi del calibro di padre Franco Manganello e padre Vittorio Rosele, ambedue saveriani, ostaggi per un paio di mesi nel 2000 dei sanguinari ribelli sierraleonesi dell'allora Fronte Unito Rivoluzionario. E a nessuno, nei circoli missionari, è mai venuto in mente, neanche lontanamente, di pagare un riscatto o di chiedere ai governi locali il rilascio di "prigionieri-ribelli" in cambio della liberazione dei religiosi. Fondamentalmente per due ragioni: anzitutto in quanto tali scelte avrebbero svalutato il ruolo e dunque l'autorevolezza delle congregazioni missionarie che risiedono stabilmente in questi paesi e poi perché le autorità locali non avrebbero affatto gradito questo genere di trattative finalizzate al finanziamento o quantomeno alla legittimazione dell'operato degli insorti. E al di là dell'interesse manifestato dall'Unità di Crisi della Farnesina nei confronti dei religiosi, solitamente ai missionari reduci dalla prigionia o addirittura morti ammazzati non vengono riservati voli speciali, funerali di Stato o commissioni d'inchiesta. Una cosa è certa: questi missionari di frontiera, che a volte hanno trattato loro stessi per ottenere la propria liberazione, sono gli eroi nascosti di quella cultura del dialogo che caratterizza oggi il dinamismo dell'evangelizzazione alle frontiere del mondo. Ed è pro prio per questa loro istintiva propensione alla parola verace che accettano il rischio nella consapevolezza che la posta in gioco è quella della salvezza di tanta umanità dolente. (Giulio Albanese, Avvenire, 13 aprile 2007)
Cattolici tedeschi, martiri di Hitler Quarantaquattro sacerdoti diocesani, sessantuno laici e laiche, trentuno religiosi e religiose. Tutti tedeschi, cattolici, e martiri sotto la dittatura nazista. Raggruppati secondo le diocesi di appartenenza, diversi territori sotto la giurisdizione di visitatori apostolici, le varie congregazioni o i rispettivi istituti di vita consacrata. Scelti perché avversarono i disegni satanici del nazionalsocialismo in nome della fede. Sono loro i tanti protagonisti del nuovo martirologio curato da Helmut Moll e da oggi in libreria con il titolo Testimoni di Cristo (San Paolo, pagine 654, euro 55). Si apre questo nuovo tomo e - dopo due pagine di Karl Lehmann, presidente della Conferenza Episcopale Tedesca che ha commissionato quest'opera, e tre pagine del prefetto della Congregazione delle cause dei santi José Saraiva Martins (tutti e due a richiamare il dovere della memoria così come l'aveva formulato Giovanni Paolo II nella Tertio millennio adveniente, oltre che l'universale vocazione alla santità indicata dal Concilio Ecumenico Vaticano II) - ecco l'introduzione del curatore. Sacerdote, ex allievo del professor Joseph Ratzinger con il quale si laureò nel 1973 a Ratisbona, professore di cristianesimo delle origini, monsignor Moll mette subito le mani avanti premurandosi di indicare i tre criteri principali con i quali ha condotto la sua selezione per poter «accettare i candidati proposti». E cioè «causa di morte violenta, motivo di odio religioso e di odio verso la Chiesa da parte dei persecutori, cosciente e intima accettazione della volontà di Dio nonostante il pericolo di vita», pur riconoscendo che la loro applicazione pratica non è avvenuta senza difficoltà. Chiarito questo, al lettore viene spalancata la porta di una lunghissima galleria gremita di piccoli ritratti, ricostruiti da decine di autori che si sono avvalsi di archivi pubblici e privati, civici ed ecclesiastici, epistolari e carte di famiglia, dichiarazioni testimoniali, fonti a stampa datate e recenti, con risultati talora differenti: alcuni profili appaiono più intensi e nitidi, altri lo sono meno. Lavori non facili considerata la distruzione sistematica di tante tracce. In ogni caso, si tratta di una serie davvero impressionante da affiancare idealmente ad altri martirologi: da quello ecumenico di Bose a quello dei cattolici russi di Bronislas Czaplicki. Una serie che mostra ampiamente come ci sia stata anche una Germania davanti alla quale inchinarsi nell'ex Terzo Reich; e quanto rilevante sia stato il contributo di sangue versato da Berlino a Magonza, da Treviri a Monaco, da Aquisgrana a Würzburg, da Colonia ad Amburgo, ecc. - praticamente in ogni diocesi, comprese quelle di territori oggi polacchi. È il frutto dunque di una ricerca storica che non ha voluto vedere solo crimini, colpe, omissioni, silenzi, ma anche gesti straordinari, prove eroiche, esempi di carità, di amore: nel segno della fede. Anche a ricordare - ce ne fosse bisogno - quanto poco fondamento abbiano quei luoghi comuni sempre pronti a coprire con le uniformi delle SS tutti i tedeschi durante il regime hitleriano; e a ribadire ancora che non c'era solo una Germania fatta di persecutori e carnefici, ma pure di anime limpide che hanno lasciato i loro corpi dilaniati a Dachau, Auschwitz, Sachsenhausen...., o nelle prigioni di Halle, Amburgo, Berlino... Nella lunga "galleria" spiccano nomi ben noti anche in Italia come Edith Stein , il gesuita Alfred Delp, lo studente Christoph Probst della cerchia di amici della "Rosa Bianca". Ma la "lista" presenta tantissimi medaglioni tutti da scoprire, identità e vicende mai sentite. Uomini e donne dalla professioni più disparate: impiegati e studentesse, ingegneri e avvocati, maestri e sindacalisti, operatrici sanitarie e giornalisti, operai, muratori, artigiani, commercianti... Persone di ogni età, giovani e anziani. Accomunati dall'essere andati incontro alla morte - per fucilazione, i mpiccagione, ghigliottina, attraverso il gas, nelle forme più brutali -, pregando a voce alta. Come i protomartiri cristiani. Non è difficile trovare fra loro figure di convertiti. Balzano agli occhi percorsi biografici che richiamano paralleli sorprendenti con la Stein, ad esempio quello di suor Elisabeth Michaelis - uccisa nelle camere a gas di Auschwitz - (definì il suo martirio come «la sofferenza dell'Antico testamento per il Nuovo»), oppure del laico di origine ebraica Siegfried Fürst, del quale viene riferito che si occupò Pio XII in persona, pure lui finito in una camera a gas di Auschwitz. Si leggono storie dolorose che hanno all'origine tradimenti o delazioni, ma si concludono con il perdono, la preghiera, o la ripetizione di versetti come «Per me è il morire un guadagno» (Fil, 1,21), come accadde a Bruno Binnebesel, parroco della diocesi di Danzica, morto nel carcere di Brandeburgo e le cui ceneri riposano presso quelle del grande apostolo di Berlino Carl Sonnenschein e del sacerdote poeta Ernst Thrasolt. Parroco - e assai più famoso perché beatificato nel 1996 - era anche il berlinese Bernhard Lichtenberg, morto in prigionia per aver celebrato una messa in favore degli ebrei dopo la Notte dei Cristalli del 8-9 novembre 1938. Laici erano invece la coppia Maria e Bernhard Kreulich, messi a morte nel marzo 1944 per aver criticato il regime. E Nikolaus Gross, padre di sette figli, redattore di «Kettelerwache», l'organo dell'Associazione dei lavoratori Cattolici tedeschi, giustiziato nel carcere di Plötzensee nel gennaio del 1945. Oppure il diciannovenne apprendista meccanico di Monaco Walter Klingenbeck, ghigliottinato nell'agosto 1943 dopo aver scritto ad un amico: «Ho appena ricevuto i sacramenti e ora sono pronto, se vuoi fare qualcosa per me, recita un Pater noster». Il nuovo Martyrologium continua presentando tante altre storie, che si assomigliano eppure sono uniche, testimonianze di un cattolicesimo che preferì la morte al cedimento. Una lista di cattolici sì, che non ci fa dimenticare nemmeno un istante le molte analoghe esperienze offerte dal protestantesimo tedesco (si pensi al teologo Dietrich Bonhoeffer o al conte Helmut James von Moltke), ma che traduce una risposta concreta all'appello rinnovato tante volte da Giovanni Paolo II. Anche in un incontro con alcuni superstiti di Mauthausen nel 1988. In quell'occasione il papa venuto dall'Est aveva detto: «Uomini di ieri e di oggi… diteci, abbiamo forse noi dimenticato con troppa fretta il vostro inferno?». (Marco Roncalli, Avvenire, 12 aprile 2007)
Luigi Stefanini, la ricerca dell'imago Dei Dal personalismo all'estetica, indagò le vie tramite cui la realtà si apre alla comprensione della trascendenza e al mistero dell'uomo. Platone, Aristotele, Agostino, Pascal… Ai grandi del pensiero Luigi Stefanini ha sempre dato del tu. Era convinto che fare filosofia significasse aprire un "colloquio", un dialogo faticoso, ma appassionato, alla ricerca della verità su se stessi. Stefanini nacque a Treviso nel 1891. Si impegnò a lungo nei gruppi e nelle associazioni cattoliche prima di intraprendere una brillante attività accademica. Da docente universitario contribuì in maniera profonda alla vita culturale del nostro Paese. Negli anni difficili del secondo dopoguerra fu promotore entusiasta dei "Convegni di Gallarate": una fucina di idee per la ricostruzione morale dell'Italia. Stefanini morì a Padova nel 1956. La filosofia fu la prima e mai abbandonata passione, ma con lo stesso ardore si interessò di pedagogia, psicologia e sociologia. Il suo spessore intellettuale varcò i confini nazionali: Stefanini fu un protagonista della filosofia italiana ed europea della prima metà del secolo scorso. Eppure sembra che la sua figura sia stata inspiegabilmente dimenticata. Anche in ambito cattolico. Si rivela quindi quanto mai opportuna la recente monumentale monografia di Glori Cappello, Luigi Stefanini. Dalle opere e dal carteggio del suo archivio. Raccoglie una mole di documenti inediti che attestano la corrispondenza del filosofo trevigiano con gli esponenti principali della cultura internazionale. Un "colloquio" contemporaneo con i colleghi filosofi: Nicola Abbagnano, Antonio Banfi, Augusto Guzzo, Giuseppe Lombardo Radice, Michele Federico Sciacca, Maurice Blondel, Eduard Spranger. Ma anche con i rappresentanti più autorevoli di altre discipline, come i filologi Ettore Paratore e Vittore Branca. Il volume è stato curato dalla "Fondazione Luigi Stefanini", sorta a Treviso per salvaguardare l'originalità di un pensiero di sorprendente attualità. Per Stefanini all'origine della riflessione filosofica c'è qualcosa di molto concreto: «l'esperienza che io ho di me stesso». Cardine della sua elaborazione è quindi il concetto di persona umana intesa come imago Dei. Non a caso Stefanini è annoverato tra gli esponenti insigni dell'imaginismo e del personalismo filosofico. Il suo lascito intellettuale è condensato nella formula: «Quanto più discendo in me tanto più trovo gli altri: e quanto più mi apro agli altri tanto più approfondisco me stesso». Nel dibattito odierno sul dialogo tra le culture si parla spesso di identità e apertura: secondo l'intuizione di Stefanini i due aspetti non sono in conflitto tra loro. Sin dall'inizio della nostra esperienza ci scopriamo inevitabilmente diversi dagli altri poiché siamo identici solo a noi stessi. Ma veniamo alla luce in una realtà che ci ha preceduto: dobbiamo per forza aprirci agli altri, essi fanno parte della nostra identità. E ragionando sulla limitatezza umana, Stefanini affermava la necessaria apertura a Dio e il desiderio di immortalità: «Se un supremo amore mi ha amato tanto da costituirmi, non come un granello di sabbia sperduto tra le arene del mare, ma come un unico, di cui un altro identico non ci fu né ci sarà in tutta la storia del creato, questo unico non può essere distrutto». Sulla scia di Emmanuel Mounier e Jacques Maritain, Stefanini difendeva il primato della persona in un tempo in cui ideologie come comunismo e liberalismo lo annullavano nel collettivismo e nell'individualismo. Il filosofo trevigiano lamentava già allora la subordinazione della persona ad esigenze economiche, sociali, politiche. Scorgeva nel pensiero contemporaneo, soprattutto in Heidegger, la consapevolezza e la denuncia del progredire di forze spersonalizzanti nella società. Ma di fronte a questa realtà si chiedeva: «Dovremmo abolire l'industria e ritornare all'artigianato per salvare la persona?... Dovremmo abolire le banche per salvarci dalla estraniazione della moneta?». «No - era la sua risposta - ma bisogna che l'utensile resti nelle mani dell'uomo». Oggi Stefanini impallidirebbe di fronte all'ideologia tecnica che minaccia l'uni cità e l'irripetibilità dell'essere umano paventandone la produzione in laboratorio o la clonazione… L'utensile è diventato l'uomo stesso. Se manca il riconoscimento della propria identità, cade il rispetto della dignità altrui e si perde il valore di un'esistenza piombata tra le mani come un dono. Stefanini parlava di «smarrimento del senso della persona», annunciando così profeticamente il relativismo del tempo presente in cui non c'è nessuna verità su di sé. Per questo credeva fermamente nella sfida educativa: «Il compito dell'educazione è il recupero dei valori per mezzo del recupero della persona. L'uomo moderno va invitato a non tradire se stesso nella sua scelta». Con tutte le forze si prodigò perché rimanesse vivo l'interrogativo che ognuno si porta dentro. Una domanda elementare quanto decisiva a cui spesso si preferisce rimanere indifferenti: «Ma io, chi sono?». (Glori Cappello, Avvenire, 13 aprile 2007)
Il mistero di Cacciari invitato in Vaticano Basta con le prediche di Cacciari, l'Anticristo. C’è un famoso detto attribuito a un Papa che recita: «Chi sa fa, chi non sa insegna, chi non sa insegnare dirige. Chi non sa neanche dirigere, fa il politico e governa». In effetti Massimo Cacciari non sa cosa sia il cristianesimo, non avendolo praticato e sperimentato, tuttavia da anni lo insegna sui giornali e cerca di dirigere il Papa e la Chiesa, facendo il politico. Ora il sindaco di Venezia ha un’occasione straordinaria per insegnare al Pontefice il suo mestiere: è stato chiamato a presentare il libro di Ratzinger, "Gesù di Nazaret", il 13 aprile prossimo, nell’Aula del Sinodo, in Vaticano, insieme col cardinale di Vienna Schönborn e con il valdese professor Garrone. Il tutto coordinato dal direttore della Sala stampa vaticana, padre Lombardi. Cacciari potrà spiegare per esempio un fondamentale dogma della fede cattolica che Benedetto XVI ignora di sicuro. È vero che Ratzinger è un raffinatissimo teologo, è vero che è stato per venti anni il "custode" dell’ortodossia cattolica (all’ex S. Uffizio) ed è vero che è perfino Papa e quindi nessuno più di lui conosce le verità della dottrina cattolica, eppure il Santo Padre ignora che fra i "dogmi" della sua fede c’è quello della "reincarnazione". A dire il vero lo ignorano tutti da duemila anni. Ma lo scoop si deve appunto a Cacciari che in una memorabile intervista alla Repubblica dell’11 settembre 2006 pare aver dichiarato: «Secondo la teologia islamica l’ateismo è insito nella rivelazione della cristianità. Dipende dal dogma della reincarnazione». La reincarnazione? È l’opposto del cristianesimo, ma non è male come battuta di spirito. Sarà stato un lapsus o un errore del giornalista, ma è divertente che sia capitato a uno che si picca di impartire sempre lezioni a tutti. Innanzitutto al Papa. A bacchettare Ratzinger, come fosse uno scolaretto, il sindaco di Venezia cominciò già alla vigilia della sua elezione, quando bocciò l’espressione «dittatura del relativismo». Poi, subito dopo quella stessa elezione, protestò perché i cardinali non avevano seguito le sue tassative indicazioni di eleggere il cardinal Martini che era amico suo e nel quale egli avvertiva il travaglio di essere cattolico, mentre in Ratzinger - lamentava il barbuto pensatore - il dogma è certezza. Dopo il discorso di Ratisbona Cacciari ha di nuovo bacchettato il Pontefice: «Ratzinger è incorso in una gaffe», «è stata un’imprudenza, bene avrebbe fatto ad argomentare meglio le sue idee». Insomma bocciato. E bocciato pure Ruini e bocciata Oriana Fallaci che - a suo dire - avrebbe «parlato a vanvera, senza usare minimamente la ratio». Infatti la "ratio" è una esclusiva del sindaco di Venezia. Che la sfoggia sempre. Come quando insegna che la religione che «si è imposta agli altri con la violenza» è quella cristiana, mentre «l’islam al contrario, non ha mai usato il "modello assimilazionistico"». Fantastico. Questa fa il paio con la trovata della "reincarnazione". Il mese scorso, quando il Papa tornò sul tema delle "radici cristiane" dell’Europa, Cacciari riprese a tuonare dalla Repubblica: «concezione reazionaria». Intimò poi al pontefice di non fare più «predicozze» e bocciò la critica all’intolleranza laicista: «un’accusa priva di fondatezza». Infine, quando Ruini - su indicazione del Papa - annunciò la Nota della Cei sui Dico, scagliò l’ennesimo anatema: «atteggiamento teocratico», «la Chiesa tradisce se stessa». Ora va a discettare in Vaticano. Non sapendo risolvere da sindaco il problema dell’acqua alta, prova a risolvere da filosofo le domande sull’Altissimo. C’è stato un tempo in cui il pensatore della laguna aveva fatto innamorare vescovi e preti per aver scritto "L’Angelo necessario" (Adelphi). Molti, fermandosi al titolo, o leggendolo senza comprenderlo a fondo, lo considerarono un trattato di angelologia cattolica e videro Cacciari quasi come un convertito. Poi la New Age ha cominciato a diffondere una certa moda degli angeli in salsa gnostica, Cacciari è stato letto più attentamente e si è capito che il suo libro è tutt’altro che cattolico. La rivista dei gesuiti, Civiltà Cattolica, l’ha ironicamente definito «filosofo ombrosamente pensoso» e in ambiente cattolico sono cominciate a circolare addirittura "demonizzazioni" di Cacciari. Maurizio Blondet, all’epoca giornalista di Avvenire, iniziava un suo libro sul "potere iniziatico" (titolo: "Gli ’Adelphi’ della dissoluzione") proprio riportando un’inquietante frase che Cacciari gli rivolse durante un’intervista: «Il Papa deve smettere di fare il katéchon!». E poi spiegò la "parolaccia", si tratta di «ciò che trattiene l’Anticristo dal manifestarsi pienamente». Ne parla San Paolo nell’inquietante sua profezia sull’Anticristo. Blondet la prese male: «Come si può chiedere al Papa di non opporsi al Male? Mi domandai anche: perché Cacciari desidera accelerare l’avvento dell’Anticristo?». Chissà, forse non si capirono. Fatto sta che Cacciari ammalia alcuni cattolici e ne fa inorridire altri. Nel sito dell’Azione cattolica un lungo argomentato articolo del 2004 illustra i contenuti pericolosi del pensiero di Cacciari che cirolano acriticamente nelle sacrestie. Torna l’accento sullo "gnosticismo", l’antico nemico della Chiesa, l’origine di tutte le eresie anticristiane, soprattutto per il suo dualismo che finisce per identificare il Bene e il Male, Dio e Satana, in un inaccettabile Uno. L’antropologa Cecilia Gatto Trocchi - studiosa del mondo occulto e magico - nel 1996 dedica "a Massimo" il suo libro "Il risorgimento esoterico", scritto in risposta al volume di Cacciari "Dell’Inizio". La Gatto Trocchi confronta "L’Angelo necessario" di Cacciari con un libro di Giovanni Papini che contiene questo capitolo: "Il Diavolo è necessario?". Papini riprendeva antiche teorie gnostiche, condannate dalla Chiesa, secondo cui Satana svolgerebbe un ruolo affidatogli da Dio e alla fine anche lui sarebbe stato salvato. «Massimo Cacciari aderisce appassionatamente alla tesi fondamentale del pensiero gnostico», afferma la studiosa. Secondo la quale infine il filosofo veneziano sarebbe molto vicino ai temi della New Age. Formulati però in modo colto. Egli arriverebbe a identificare «il nuovo Messia con il Filius perditionis...». Letture allarmate che si trovano riprese da un recente volume sui movimenti esoterici di Roberta Grillo, presidente del Gris della diocesi di Milano. Probabilmente è un eccesso di allarmismo e di complottismo. Bisogna capire che Cacciari usa le categorie teologiche e le dottrine antiche, ma se ne infischia dello "spirito", è sempre di storia e di politica che parla: deve spiegare a se stesso com’è possibile che una persona intelligente sia stata comunista e come si "giustifica" l’orrore che è stato il comunismo. Affronta dunque da filosofo il problema del male e lo risolve all’opposto di Ratzinger che in "Fede, verità, tolleranza" demoliva proprio la tesi della "necessità" del Male. Ecco cosa scriveva il cardinale: «Il male non è affatto - come reputava Hegel, e Goethe vuole mostrarci nel Faust una parte del tutto di cui abbiamo bisogno, bensì la distruzione dell’Essere. Non lo si può rappresentare, come fa il Mefistofele del Faust, con le parole: "io sono una parte di quella forza che perennemente vuole il male e perennemente crea il bene". Il bene avrebbe bisogno del male e il male non sarebbe affatto realmente male, bensì proprio una parte necessaria della dialettica del mondo. Con questa filosofia sono state giustificate le stragi del comunismo, che era edificato sulla dialettica di Hegel, vòlta in prassi politica da Marx. No, il male non appartiene alla "dialettica" dell’Essere, ma lo attacca alla radice». In pratica: il comunismo non è stato un «male necessario», ma solo un Male devastante. (Antonio Socci, Libero, 5 aprile 2007) Le trame che hanno portato Cacciari in Vaticano Cacciari l'Anticristo? Ma no, semmai l'Antipatico per i suoi compagni di partito. A me è simpatico. Non sono certo io - come scriveva ieri il Foglio - ad avergli attribuito quel titolo. È lui che si è baloccato per anni con l'Anticristo, con il Katechon, con il Filius perditionis, con l'"Angelo necessario" (che poi sembra il Maligno). Ed è poi Ratzinger ad aver citato anni fa - come vedremo - gli "anticristi" della Lettera di san Giovanni in riferimento agli "intellettuali". Forse l'"Angelo necessario" a Cacciari potrebbe essere l'Angelo Scola, che il Papa ha nominato Patriarca di Venezia. Potrebbe impartirgli qualche lezione di catechismo per evitargli eresie o cantonate come quella sulla "reincarnazione". Ma chissà che non sia proprio per far dispetto al Patriarca di Venezia che qualcuno in Vaticano ha chiamato il sindaco di quella città a presentare il libro di Ratzinger su Gesù. Questo qualcuno si dice sia il Segretario di Stato cardinal Bertone che da quando si è insediato sembra in guerra contro tutti: dal predecessore a Ruini, da Bagnasco a Scola. In effetti invitare in Vaticano a pontificare uno che fa il politico come Cacciari è del tutto irrituale per la Santa Sede. Oltretutto uno che ha scritto quel che ha scritto su Ratzinger, che ha attaccato duramente il cardinal Ruini sui Dico, un sindaco che solo poche settimane fa si è trovato in urto frontale con la diocesi di Venezia per la campagna del Comune intitolata "L'amore secondo noi". Con tutti i gravi problemi di Venezia, Cacciari non ha trovato di meglio che lanciare una serie di manifesti sull' omosessualità (ad esempio: «La mia compagna di banco è lesbica. E allora?»). Il settimanale diocesano "Gente Veneta" lo ha aspramente contestato: «finisce per porre sullo stesso piano omosessualità ed eterosessualità». Secondo il giornale cattolico «questi messaggi generano confusione, sono fortemente diseducativi e possono avere un esito devastante tra i giovanissimi, che spesso vivono con fatica la scoperta del proprio orientamento sessuale». In questa campagna si coglie «un pregiudizio ideologico, che si fonda su un concetto parziale di libertà... Stupisce, e un poco anche scandalizza conclude l'editoriale del direttore - il modo superficiale con il quale la campagna promossa dal Comune affronta temi che richiederebbero invece grande discrezione e un imponente sforzo educativo». Secondo il giornale della Chiesa l'amministrazione Cacciari si attribuisce «un ruolo educativo che non le spetta, lanciando ai giovani messaggi opposti a quelli che una larga parte di famiglie che abitano nel territorio del Comune, con fatica e con convinzione, cercano di trasmettere ai propri figli. A noi pare che questa sia discriminazione!». Pochi giorni dopo questo scontro, Cacciari è invitato addirittura a commentare il libro del Papa in Vaticano. Incredibile, no? L'ultimo testo che Cacciari aveva pubblicamente chiosato - con un certo pathos - era stata la lettera di Veronica Berlusconi al marito, uscita sulla Repubblica. Un commento finito subito fra i gossip di Dagospia. Era proprio necessario chiamarlo - dopo l'esegesi di Veronica - a fare quella di Ratzinger? Non è uno sgarbo al Papa? Il cardinal Bertone sembra da settimane impegnato ad ammiccare al centrosinistra e a far la guerra agli altri cardinali. Prima cercò di "bypassare" Ruini accordandosi con Prodi sui Dico. Dovette intervenire il Papa per ribadire che la linea era quella di Ruini. Sandro Magister, vaticanista dell'Espresso, segnala che il 27 marzo Bertone «ne ha fatta un'altra delle sue». Ha reso nota una lettera al nuovo presidente della Cei, Bagnasco, dove gli "intima" di farsi da parte sulla politica italiana perché ci pensa lui. Il vescovo di Genova citando il papa gli ha risposto picche. Dalla conclusione, nota Magister, «si direbbe che Benedetto XVI abbia dato ragione più alla Cei che al suo effervescente segretario di stato». Altro scontro si è verificato sul "Family Day" del 12 maggio prossimo. Fra Bertone e i prodiani il feeling è evidente (il prelato ha pure presentato un libro del "margherito" Bobba). Ora la sorprendente scelta del sindaco di Venezia, altro margherito, per quel delicato compito "teologico". Ieri il geniale Giuliano Ferrara sul Foglio ha dedicato al "prescelto" Cacciari una monumentale paginata, apparentemente per rispondere al mio articolo, ma in realtà per far dispetto a Marcello Pera (pure lui teocon e amico personale del Papa). Ma questa intervista, dove Cacciari «spiega il suo rapporto con il cristianesimo», appare devastante. Come ha scritto tempo fa don Antonio Livi, teologo dell'Opus Dei e decano della Lateranense, solo degli «sprovveduti» possono ritenere Cacciari «vicino al cristianesimo». L'intervista al Foglio è un'insalata di parole che dice tutta la tristezza dell'intellettualismo. Cacciari pensa davvero che il cristianesimo sia questione di «conoscenza» e di cultura (in fondo condivide con Ferrara le tesi dell'idealismo tedesco). Sembra non accorgersi minimamente che per "capire" qualcosa di Cristo bisogna andare - come fece l'intellettuale Agostino d'Ippona - a scuola dai semplici, dalle "analfabete" Bernadette Soubirous e Caterina da Siena. O da santi come Padre Pio che porta impressa nella carne la passione di Gesù, per farlo scoprire vivente oggi. Davanti agli intellettuali del suo tempo (e mi metto anche io in questa sciagurata categoria) un giorno Gesù, felice, prese a lodare il Padre ad alta voce: «perché hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli». San Paolo scriveva: «Dio ha scelto ciò che per il mondo è stolto per confondere i sapienti». Chi in Vaticano ha chiamato Cacciari dovrebbe leggersi una memorabile omelia del cardinal Ratzinger nella quale affermava che «compito del magistero» è proprio «difendere la fede dall'elitaria presunzione degli intellettuali». Ratzinger partiva dalla prima Lettera di Giovanni: «di fatto ora molti anticristi sono apparsi». E commentava: «La fede cristiana che all'inizio era stata la religione dei poveri e dei semplici, aveva affascinato nel frattempo anche spiriti di grande ingegno. Ma le sue affermazioni li interessavano solo come simboli. Accettare che veramente questo Gesù vissuto in Palestina fosse stato il Figlio di Dio e che la Sua Croce avesse redento il mondo, sembrava a costoro una ingenuità impossibile a pretendersi. No, queste semplici affermazioni della professione di fede erano per loro immagini di cose superiori e solo come tali erano interessanti e preziose. Così» continua Ratzinger «essi cominciarono a costruire il loro cristianesimo "superiore", e i poveri fedeli che semplicemente accettavano la lettera erano per costoro degli "psichici", cioè uomini in uno stadio preliminare rispetto allo spirito più elevato». Queste dottrine scossero la Chiesa dalle fondamenta ed è «a questo vilipendio della fede semplice da parte degli intellettuali e ai loro artifici interpretativi che san Giovanni si oppone», spiegando che «non sono i dotti a determinare ciò che è vero della fede battesimale, bensì è la fede battesimale che determina ciò che c'è di valido nelle interpretazioni dotte. Non sono gli intellettuali a misurare i semplici, bensì i semplici misurano gli intellettuali». Il compito del magistero ecclesiale, affermava Ratzinger, è «difendere la fede dei semplici contro il potere degli intellettuali». E ribadiva: «Il magistero ecclesiale protegge la fede dei semplici, di coloro che non scrivono libri, che non parlano in televisione e non possono scrivere editoriali nei giornali: questo è il suo compito democratico. Esso deve dare voce a quelli che non hanno voce». Per questo chiamare a pontificare Cacciari in Vaticano è una scelta infelice che può confondere tanti cristiani. (Antonio Socci, Libero, 8 aprile 2007) Per avere un’idea diretta, vi invitiamo a leggere Intervista con Cacciari “L’anticristo” Così infatti l’ha definito Antonio Socci. E qui Massimo Cacciari spiega il suo rapporto con il cristianesimo, le sue critiche alla chiesa, il suo interesse per gli angeli, i suoi teologi preferiti, il suo Gesù dell’amore. (Cfr Giulio Meotti, Il Foglio, Sabato 7 aprile 2007)
"Il Vangelo secondo Giuda" di Jeffrey Archer: polverone sull'iscariota Il fatto Il 20 marzo scorso a Roma è stato presentato presso il Pontificio Istituto Biblico dallo stesso Rettore, il gesuita p. Stephen Pisano, il libro dal titolo "Il Vangelo secondo Giuda" di Jeffrey Archer (un personaggio tanto bizzarro - ha passato due anni in carcere per spergiuro - quanto famoso: già membro del Parlamento britannico e ora della Camera dei Lord). Il libro è stato scritto in collaborazione con il salesiano don Francis Moloney, Ispettore (Superiore provinciale) dei salesiani dell'Australia e studioso di Sacra Scrittura, già membro della Commissione teologica internazionale. Il libro è pubblicato da Macmillan (UK), da St Martin's Press (USA), e dalla Mondadori (Italia) in otto lingue: inglese, italiano, polacco, olandese, spagnolo, francese, tedesco e portoghese. Il p. Pisano si è affrettato a spiegare a Radio Vaticana "che l'Istituto Biblico, in quanto istituzione accademica, non ha niente a che fare con romanzi moderni; l'unico motivo per cui abbiamo accettato di permettere la presentazione, è la presenza di padre Francis Moloney, uno studioso del Nuovo Testamento, molto conosciuto e grande esperto" e "che, permettendo la presentazione di questo libro, ciò non implica che né l'Istituto Biblico stesso, né il Vaticano, né il Papa abbiano accettato in alcun modo questo libro". Il p. Pisano ha ammesso anche che il libro "potrebbe creare una certa confusione nella gente che non sa cosa viene dalla Bibbia e che cosa viene dall'autore. Temo soltanto che la gente creda che tutto ciò che viene scritto qui sia Storia, ma non lo è: è romanzo!". Per Moloney invece "Il vangelo secondo Giuda" sarà uno strumento utile per la vita dei lettori cristiani che hanno una conoscenza superficiale dei vangeli e si rapportano ad essi come se fossero testi storici moderni. Come è nato il libro? Inizialmente Archer ha esposto il suo progetto a padre Michael Seed della cattedrale di Westminster, il quale gli suggerì di andare a Roma dal cardinale Carlo Maria Martini , arcivescovo emerito di Milano ed ex rettore del Pontificio istituto biblico, per esporgli gli obiettivi che si prefiggeva e la necessità di trovare un esperto che lo affiancasse nel progetto. Martini gli raccomandò tre teologi, tra i quali Moloney . Archer e Moloney si diedero appuntamento a cena nel ristorante romano «I Due Ladroni» (sembra comico!) e combinarono di lavorare insieme alla stesura del testo. Moloney e Archer, a differenza degli altri "Vangeli di Giuda", tentano di dimostrare che il ritratto popolare tradizionale di Giuda, in cui si assommano tutti i suoi tratti negativi descritti nei quattro Vangeli, potrebbe non rendergli giustizia. «Questo Vangelo - si legge nell'introduzione del volume - è scritto affinché tutti possano conoscere la verità a proposito di Giuda Iscariota e del ruolo che ebbe nella vita e nella tragica morte di Gesù di Nazaret». Il risultato è un testo da cui emerge una nuova identità dell'apostolo condannato nei secoli alla reputazione del traditore. Secondo Moloney e Archer Giuda non va considerato come un traditore, un ladro, un corrotto pronto a sacrificare il Figlio di Dio per denaro, ma un personaggio che la storia ha trattato ingiustamente . Per loro, infatti - sono questi i punti salienti del libro - Giuda era convinto che Gesù fosse un profeta, forse addirittura il Messia, ma non poteva accettare un Messia che fosse mortale. Non solo, secondo i due, Gesù non camminò sulle acque e nemmeno trasformò l'acqua in vino alle nozze di Cana: «Queste cose - dichiara Giuda - non successero mai». Questi miracoli non sono accettati dalla maggior parte degli studiosi biblici seri, ha spiegato Moloney. E ancora: Giuda non ricevette trenta denari per tradire Gesù. Egli non voleva nemmeno che Gesù venisse catturato nell'orto del Getsemani: la sua intenzione era convincerlo, con l'aiuto dello scriba, a tornare nella più sicura Galilea. Fu Giuda, invece, a essere tradito dallo scriba. E, infine, la tesi forse più ardita: Giuda non s'impiccò né, come racconta Luca, morì a causa di un incidente, ma visse fino a tarda età e morì come Gesù, crocifisso dai romani a Khirbet Qumran. Il commento Pare proprio che il 2007 sia l’anno di Giuda Iscariota, il traditore di Gesù. Prima c’è stato il gran battage pubblicitario attorno al vangelo apocrifo frammentario del IV secolo venuto alla luce in Egitto attorno agli anni ’70 e rilanciato dalla National Geographic Society per essere restaurato e pubblicato (un testo gnostico del quale ci siamo già interessati nella rubrica Il Teologo del nostro giornale). È seguito poi il fiorire di commenti a quest’opera di vari studiosi (Enrico Giannetto per Medusa, Erich Noffke per la Claudiana e Tom Wright per la Queriniana). Si è anche avuta la ripresa di uno dei tanti romanzi intitolati Vangelo secondo Giuda, cioè quello del polacco Henryk Panas (edizioni e/o), e c’è stato persino un libretto di meditazioni su Giuda e il mistero del tradimento, scritto da un mio ex alunno, sacerdote milanese, Sergio Stevan. Ora è il momento di quello che Mondadori (e altri editori stranieri in contemporanea) sogna essere il botto di un nuovo Codice da Vinci alla Dan Brown, il Vangelo secondo Giuda (pagine 118, euro 12,00). Il prodotto è più essenziale e meno scorretto di quella clamorosa "bufala" storico-teologico-mediatica, anche se non privo di suoi punti deboli e persino di uno svarione in greco nella copertina che vorrebbe imitare la legatura di un antico manoscritto. L’idea dell’autore è quella di immaginare la scoperta di un remoto Vangelo secondo Giuda, elaborato dal figlio dell’apostolo, Beniamino, sulla base delle parole del padre, riparato nel "monastero" degli esseni di Qumran, il celebre sito sul Mar Morto nelle cui grotte furono rinvenuti a partire dal 1947 i noti manoscritti ebraici. Siamo, quindi, in presenza dell’imitazione di un vangelo apocrifo, che crea confusione con quello effettivo a cui sopra accennavamo. Un sodalizio ardito Un testo "inventato", quindi, ma con un allestimento strutturale modellato sui vangeli "veri", sia canonici sia apocrifi, coi suoi bravi 25 capitoli, distribuiti in 792 versetti. Naturalmente, narrando la vita di Cristo e le sue parole e opere, si ricorre a citazioni dei Vangeli canonici (incastonati nel testo in caratteri rossi), ma si aggiungono nuovi eventi, frutto della fantasia dell’autore. Costui è un personaggio curioso, un lord inglese di nome Jeffrey Archer, che ha passato un paio d’anni in galera per falsa testimonianza e che si è riciclato come autore di best seller. Ho avuto occasione anch’io tempo fa di sentirlo, inviato a me dal cardinale Martini a cui si era rivolto per una consulenza esegetica sul romanzo. A mia volta, lo dirottai su qualche studioso del Nuovo Testamento delle università pontificie romane, e fu così che egli si affidò all’esegeta salesiano Francis Moloney, che compare con lui nella copertina in "audace sodalizio". Effettivamente il sodalizio è un po’ ardito perché può ribadire nel lettore medio l’impressione di essere in presenza di un testo scientificamente fondato non solo nelle coordinate storico-geografiche e culturali, ma anche nelle fantasiose ipotesi che vengono formulate. A questa convinzione possono contribuire sia le note finali, che hanno le caratteristiche tipiche dei commenti biblici, sia la recente, sorprendente presentazione pubblica dell’opera, nientemeno che presso la più prestigiosa sede degli studi esegetici cattolici, il Pontificio Istituto Biblico di Roma. Le tesi che il moderno "apocrifo" avanza – talora in mezzo a esilaranti ingenuità come quella dei soldati romani che "alla Asterix" gridano: Iudaei sunt porci! – riguardano soprattutto la figura di Giuda, peraltro nella linea di alcuni dei tantissimi romanzi dedicati all’Iscariota (l’etimologia di questo soprannome è spiegata a pagina 105 con tutte le ipotesi del caso). Ritornare all’autenticità Detto in breve, costui, sulla scia dell’amicizia con uno scriba, vuole salvare Gesù dal fallimento e dalla brutta fine a cui si è votato e cerca di impedirgli di recarsi a Gerusalemme («Tu devi salvarlo da sé stesso!», lo esorta lo scriba). «Il suo unico scopo era salvare Gesù da una morte inutile» e questo programma viene continuamente ribadito. Ma alla fine c’è un colpo di scena. Giuda scopre che tra coloro che arrestano il suo Maestro c’è proprio lo scriba che aveva approfittato di lui secondo un piano progettato dal potere religioso e politico ebraico. «Si avventò rabbioso contro di lui, sferrando pugni in aria e gridando: "Mi hai tradito!"». Ma ormai non c’è più nulla da fare e lo scriba, sarcastico, accuserà proprio Giuda di aver tradito Gesù. «Ecco il traditore!», griderà alla folla e così alla fine «Giuda pianse», proprio come era accaduto a Pietro dopo il suo rinnegamento. Egli sale sul Golgota, assiste alla crocifissione di Cristo e, anziché impiccarsi come narrano Matteo e Luca (negli Atti degli Apostoli) secondo una notizia che Moloney ritiene frutto di una denigrazione sistematica nei confronti del "traditore", denigrazione perfezionata dal quarto Vangelo (Giovanni 6,70; 13,2.27), si ritira appunto a Qumran. «Evitato dai capi giudei e abbandonato dai seguaci di Gesù», in quel luogo vive in una solitudine che è interrotta solo dall’arrivo del figlio Beniamino, che ne raccoglie le memorie destinate a divenire il Vangelo secondo Giuda. Quando la decima legione romana Fretense avanza per "bonificare" il deserto dai ribelli, dopo aver distrutto Gerusalemme nel 70, Giuda è arrestato in quella comunità posta lungo le sponde del Mar Morto e «muore come Gesù, crocifisso dai Romani». Presentando il libro lo scorso 20 marzo, il rettore del Pontificio Istituto Biblico ottimisticamente si augurava che questa potrebbe essere l’occasione per ritornare dalla biografia romanzata all’autenticità evangelica. Pur con una buona dose di scetticismo, convalidata anche dalla confusione che simili operazioni editoriali generano nel lettore dal palato deformato da questo che è un apocrifo di un apocrifo, non possiamo che associarci a quell’auspicio. (Gianfranco Ravasi, Famiglia Cristiana n. 13 del 1 aprile 2007)
Occorre svelenire il clima di violenza Appello alla serenità da parte di mons. Angelo Bagnasco dopo le minacce di morte ricevute nei giorni scorsi. Il segretario generale della Cei, mons. Betori, si augura che «siano fatti isolati». Rimane la preoccupazione per gli effetti di informazioni superficiali o false. «C’è una responsabilità nell’uso della parole e nel modo in cui i fatti vengono riportati», ha evidenziato Adriano Fabris, docente di etica della comunicazione all’Università di Pisa, per il quale «le parole, talvolta, sono pesanti come pietre: possono promuovere la pace, certamente, ma possono anche accrescere l’odio». Come il clima di violenza, per ora fortunatamente solo verbale, che si è creato attorno al presidente della Cei. «Mons. Giuseppe Betori, segretario generale della Cei, esprime vicinanza e solidarietà al presidente della Cei, mons. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, in questo momento in cui è fatto oggetto di espressioni intimidatorie». Inizia così il comunicato stampa diffuso nella serata del 9 aprile scorso, dopo che in giornata altre scritte intimidatorie - “Bagnasco a morte” - e una stella a cinque punte erano apparse in diversi luoghi di Genova contro il presidente della Cei accompagnate da frasi ingiuriose contro il card. Camillo Ruini e il Papa. «Ci auguriamo - si legge nel comunicato - che siano fatti isolati, rassicurati anche dalla parole del Questore di Genova, dott. Salvatore Presenti, per il quale allo stato attuale non si richiede “nessun innalzamento del livello di attenzione” e “nessuna misura preventiva”». Mons. Betori conclude la nota con queste parole: «Soprattutto condividiamo nel profondo l’invito alla serenità formulato dallo stesso Presidente della Cei e - accompagnandolo con la preghiera - lo ringraziamo per la testimonianza che Egli offre alla comunità ecclesiale e all’Italia tutta». È inevitabile che i giornalisti interpretino i fatti, ma «nel clima di contrapposizioni e di conflitti in cui ci troviamo oggi a vivere, sono privilegiate le interpretazioni capaci di innalzare il livello della tensione, anche a costo di travisare la notizia». A evidenziarlo alla agenzia Sir è Adriano Fabris, docente di etica della comunicazione all’Università di Pisa, soffermandosi sui «motivi, certo non nobili, che hanno creato attorno a mons. Bagnasco un clima di violenza, per ora fortunatamente solo verbale»: a cominciare dai giorni scorsi, con «esempi e accostamenti che tali erano solo nell’interpretazione di un cronista, e che hanno suscitato un caso che, forse, avrà fatto vendere qualche copia di giornale in più», per arrivare alle minacce di morte. Fabris invita “ognuno” a «prendersi le proprie responsabilità». I giornalisti, anzitutto: «C’è una responsabilità nell’uso della parole e nel modo in cui i fatti vengono riportati», ammonisce l’esperto, per il quale «le parole, talvolta, sono pesanti come pietre. Possono promuovere la pace, certamente, ma possono anche accrescere l’odio. E dunque devono essere usate con attenzione e cautela». Per Fabris, infatti, «non è possibile costruire intere pagine su di una falsa informazione, com’è accaduto qualche giorno fa, e poi relegare nelle parti interne, quando non addirittura sottacere del tutto, la notizia delle minacce di morte al presidente della Cei. Èquestione di correttezza e di rispetto per la propria professione». Ma alla base di tutto questo, ammonisce Fabris, «c’è la necessità di un rispetto ancora più profondo: quello che dev’essere dovuto ai sentimenti religiosi degli uomini. Non sempre, di questi tempi, ciò è avvenuto, come c’insegna, ad esempio, il recente caso delle vignette su Maometto». L’auspicio finale è «che la serenità con cui mons. Bagnasco vive questo difficile momento faccia comprendere a tutti, anche ad alcuni giornalisti, la portata etica che è insita in ogni comunicazione». (IncrociNews, n. 15/2007)
Essere cattolici non è obbligatorio Ma non è neanche gratuito, specie per chi lo proclama pubblicamente. Si sta arrivando, sulla questione della regolamentazione delle coppie di fatto, allo “spartiacque” che era stato preannunciato da un autorevole editoriale del quotidiano dei vescovi. Su questa materia la chiesa chiede obbedienza ai suoi fedeli, compresi quelli che rivestono cariche politiche. E’ la chiesa cattolica nel suo insieme a farlo, senza distinzioni possibili tra l’episcopato italiano e la cattedra papale, visto il linguaggio se possibile più esplicito impiegato da Benedetto XVI, confortata dal sostegno delle organizzazioni del laicato, che manifesteranno in piazza San Giovanni a sostegno dell’unicità irripetibile della famiglia. Le reazioni dei sostenitori dei Dico a questa richiesta di obbedienza vanno dallo scandalo alla delusione allo sconcerto. L’argomento più ripetuto è che in questo modo i vescovi italiani ledono la libertà di coscienza dei credenti e l’autonomia della politica. Si tratta di un uso paralogistico, cioè inappropriato al caso, di nobili concetti. La coscienza è libera, libera di aderire o no a una religione, ma se lo fa assume liberamente un impegno. Essere cattolici non è obbligatorio, ma il cattolicesimo non è un supermarket nel quale si prende quel che serve e si lascia il resto. L’autonomia della politica, poi, si esercita nelle istituzioni nelle quali gli eletti rispondono alla loro coscienza e ai loro elettori, peraltro senza un cogente vincolo di mandato. Se un esponente politico, però, vanta pubblicamente la sua adesione alla fede cattolica, traendone anche i vantaggi elettorali che ne conseguono, non può negare a chi ha, per così dire, il copyright del cattolicesimo, cioè ai vescovi, di richiamarlo alla coerenza con i valori cui liberamente ma pubblicamente si è impegnato a ispirarsi. L’autonomia della politica implica che i cattolici accettino le decisioni delle istituzioni anche quando non le condividono, rispettando le leggi dello stato. Una libertà di coscienza che implica la disobbedienza ai vescovi e al Papa non è una novità, si chiama protestantesimo, e com’è noto non fa parte del cattolicesimo. (Il Foglio, 30 marzo 2007)
Chiesa Cattolica: vecchie e nuove persecuzioni Le minacce di morte espresse alla vigilia di Pasqua contro l’arcivescovo di Genova mons. Angelo Bagnasco, nuovo Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, non sono né il primo né l’ultimo episodio di crescente intolleranza neo-laicista degli ultimi tempi. Esse vanno ricondotte ad un più vasto fenomeno di “cristofobia” che vorrebbe cancellare la presenza pubblica dei cattolici dalla società, attraverso forme di intimidazione psicologica e di aperta persecuzione, come l’introduzione di leggi “anti-omofobe”, destinate a colpire con il carcere e con pesanti ammende finanziarie chiunque voglia diffondere l’insegnamento tradizionale della Chiesa sulla famiglia. Le radici di questa cristofobia affondano nella storia del Novecento. La prima grande manifestazione di “laicismo” che aprì il secolo XX fu la legge di separazione dello Stato e della Chiesa in Francia del 9 dicembre 1905, nota come Legge Combes, dal nome del Presidente del Consiglio Emile Combes (ex-seminarista, poi esponente di spicco della massoneria) che la propose, anche se essa fu approvata dal Governo guidato dal suo successore Maurice Rouvier. Questa legge prevedeva l’abolizione unilaterale del Concordato napoleonico del 1801; sopprimeva ogni finanziamento e riconoscimento pubblico alla Chiesa, considerando la religione solo nella sua dimensione privata e non in quella sociale. Stabiliva inoltre che i beni ecclesiastici fossero incamerati dallo Stato, mentre gli edifici del culto venivano affidati gratuitamente a delle “associazioni cultuali” elette democraticamente dai fedeli, senza l’approvazione della Chiesa. La legge di separazione è all’origine di quella tradizione laicista della Francia, che ha trovato la sua ultima espressione nell’accanita opposizione del presidente Chirac ad ogni forma di riferimento al Cristianesimo nel Trattato costituzionale europeo. Lo stesso Chirac, il 23 giugno 2003 commemorando all’Eliseo il 275° anniversario della fondazione della Massoneria, ha rivendicato il ruolo di quei massoni che, dopo aver laicizzato nel 1882 l’istruzione primaria, «con la stessa fermezza e lo stesso entusiasmo, hanno sostenuto la legge del 1901, che garantisce la libertà d’associazione, e quella del 1905, che separa le Chiese dallo Stato. La battaglia per la laicità deve molto al loro impegno. Battaglia permanente, battaglia sempre attuale». La battaglia contro la Chiesa, «sempre permanente e sempre attuale», trovò però sulla sua strada un nuovo Papa, Giuseppe Sarto, inaspettatamente asceso alla Cattedra di Pietro il 4 agosto 1903, con il nome di Pio X. Con le Encicliche Vehementer nos dell’11 febbraio 1906 e Gravissimo officii del 10 agosto dello stesso anno, san Pio X protestò solennemente contro le leggi laiciste, sollecitando i cattolici ad opporvisi con tutti i mezzi legali, al fine di conservare la tradizione e i valori della Francia cristiana. La Chiesa fu accusata di voler fomentare una “guerra di religione”, ma non si piegò. San Pio X emanò, il 6 gennaio 1907, l’Enciclica Une fois encore, di cui, proprio per l’attualità e la permanenza della battaglia, è importante ricordare i passi centrali, nel centesimo anniversario. «La Chiesa, si è detto, cerca di suscitare in Francia la guerra religiosa e sollecita con tutti i suoi voti la persecuzione violenta. Strana davvero siffatta accusa. Fondata da Colui che venne in questo mondo per pacificarlo e per riconciliare l’uomo con Dio, messaggera di pace su questa terra, la Chiesa non potrebbe volere la guerra religiosa se non ripudiando la sua sublime missione e rinnegandola al cospetto di tutti. Al contrario, essa rimane e rimarrà sempre fedele a questa missione di paziente dolcezza e di amore. D’altra parte, il mondo intero oggi sa, né su ciò può cadere in inganno, che se la pace delle coscienze è spezzata in Francia, ciò non è per colpa della Chiesa, ma per quanto hanno fatto i suoi nemici. Gli spiriti imparziali, anche quelli che non condividono la nostra fede, riconoscono che se nella vostra patria diletta si combatte sul terreno religioso, non è già perché la Chiesa sia stata la prima a ingaggiare la lotta, ma perché a lei stessa è stata dichiarata guerra. Questa guerra, da venticinque anni in modo particolare, essa non fa che subirla, Ecco la verità. Le dichiarazioni, mille volte fatte e ripetute sulla stampa, nei congressi, nei convegni massonici, nel seno stesso del Parlamento, provano ciò tanto chiaramente, quanto gli attacchi che vennero progressivamente e metodicamente rivolti contro di lei. Questi sono fatti innegabili, contro i quali le parole non potranno mai prevalere. La Chiesa vuole dunque la guerra, e la guerra religiosa meno ancora: affermare il contrario significa calunniarla e oltraggiarla». Anche oggi la Chiesa, per il suo fermo atteggiamento in difesa della vita e della famiglia, è accusata di voler interferire negli affari politici, di condurre una politica “muro contro muro”, di bandire “crociate” e “guerre religiose”, di “cercare la persecuzione”. In realtà essa reagisce a un’aggressione pubblica all’ordine naturale e cristiano. Null’altro essa chiede che di essere sé stessa, rimanendo fedele al mandato ricevuto dal suo Fondatore, che è quello di predicare la verità a tutte le genti. Non si può chiedere ai cattolici di tacere, né alla Chiesa di essere diversa da come Dio l’ha voluta. La Chiesa, nel corso dei secoli, è stata perseguitata innumerevoli volte, a causa della sua fede e della sua fedeltà. Lo sarà ancora e sempre risponderà con le parole di san Pio X: «Essa non auspica assolutamente la persecuzione violenta. Essa conosce questa persecuzione per averla sofferta in tutti i tempi e sotto tutti i cieli. Parecchi secoli da lei trascorsi nel sangue, le danno dunque il diritto di dire con santa fierezza che essa non la teme, e che tutte le volte che sarà necessario, saprà affrontarla. Ma la persecuzione, per sé stessa, è il male, perché è l’ingiustizia ed impedisce all’uomo di adorare liberamente Dio. La Chiesa dunque non può desiderarla, anche in vista del bene che, nella sua infinita sapienza, la Provvidenza ne trae sempre. Inoltre, la persecuzione non è soltanto il male, essa è altresì il dolore; ed è questa un’altra ragione per la quale la Chiesa, che è la migliore delle madri, non la desidera mai per amore verso i suoi figli. Del resto, questa persecuzione, che le viene attribuito di voler fomentare mentre si dichiara di essere fermamente decisi a non praticarla, in realtà le viene inflitta». L’atteggiamento fermo e chiaro di san Pio X costrinse la Repubblica francese ad arretrare. La legge di separazione non fu mai applicata con rigore e l’appello del Papa contribuì a una grande rinascita del cattolicesimo in Francia, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Un secolo dopo, la Chiesa è nuovamente vittima di quello che Benedetto XVI, ricevendo il 23 settembre 2005 l’ambasciatore messicano, ha definito «un crescente laicismo». Ma se il XXI secolo è destinato a conoscere una nuova persecuzione laicista, conoscerà anche un inarrestabile movimento di rinascita e restaurazione cattolica. (Corrispondenza Romana, n. 987 del 7 aprile 2007)
In Europa c'è chi festeggia la Pasqua assieme ai parenti, chi assieme agli amici. Anche in Asia, molti cristiani vorrebbero trascorrere una festa serena, ma sono braccati dalla polizia proprio perché cristiani. Mentre si avvicina la solennità, si inasprisce la repressione anti-cristiana in Pakistan, nel regime comunista vietnamita, nella musulmana Indonesia, nel Libano sempre più islamizzato. In Pakistan, nel Punjab, una famiglia cristiana è stata accusata di blasfemia. La blasfemia è punita con la morte dal regime di Islamabad: l'articolo 295 del Codice Penale pakistano, introdotto nel 1986, prevede anche l'impiccagione per chi commette questo peccato. Ebbene: i membri di questa famiglia sono stati accusati dai vicini di aver dato fuoco ad alcune pagine del Corano e di aver espresso commenti blasfemi su Maometto. Solo il semplice sospetto (su cui la polizia non ha ancora indagato) ha dato origine a una vera e propria «caccia alle streghe». I vicini di casa musulmani, organizzatisi, hanno attaccato e disperso una processione a cui partecipavano gli indiziati, ne hanno preso uno e lo hanno linciato. Strappato dalle mani dei carnefici dalla polizia, l'uomo, gravemente ferito, è stato immediatamente arrestato con l'accusa di blasfemia. Ora si teme per la sua vita, sia per i maltrattamenti che può subire dai carcerieri, sia per la possibilità che venga linciato in carcere da prigionieri musulmani. Gli altri membri della famiglia perseguitata, compreso un bambino di 11 anni (la shari'a non si ferma di fronte all'età) sono tuttora ricercati dalla polizia. In Libano, Paese che pure è tradizionalmente a maggioranza cristiana, retto da un presidente della Repubblica cristiano, l'islamismo sta prendendo piede e costringendo i cristiani alla fuga. Adesso, da maggioranza che erano, i libanesi non musulmani sono il 22% della popolazione. Dalla Seconda Guerra del Libano dell'estate scorsa ad oggi 60.000 sono emigrati, altri 100.000 hanno fatto domanda per un visto in varie ambasciate straniere. E si può capire anche il perché: nel sud del Libano, appena fuori dalla zona controllata dai Caschi Blu, Hezbollah ha di nuovo ripreso il controllo del territorio e sta ricostituendo anche tutta la forza militare perduta nei mesi scorsi. Alla minaccia degli integralisti sciiti, in questi ultimi mesi si somma anche quella dei radicali sunniti, provenienti dalla Palestina e dall'Iraq. Nei campi profughi palestinesi, a Tripoli, Beirut e Sidone, si stanno creando delle vere e proprie enclave indipendenti che non rispondono alla legge libanese, in cui si reclutano volontari per la guerriglia in Iraq, si inneggia a Osama Bin Laden e si predica contro gli ebrei e l'Occidente. In quelle zone, la polizia e l'esercito libanesi non entrano. Mentre i Caschi Blu non possono far nulla. E' comprensibile che i cristiani scappino, prima che sia troppo tardi. Questa Pasqua è drammatica anche per quei cristiani che vivono sotto il regime comunista vietnamita. In teoria la legge sancisce una piena libertà di culto, ma le autorità locali non la rispettano e si comportano ancora come ai tempi dell'ateismo di Stato. Nella provincia di Kontum, ai confini con il Laos, abitata da minoranze etniche Montagnard, le autorità permettono la celebrazione della messa pasquale in alcune chiese, ma hanno messo in atto nuovi controlli sulle attività dei cattolici. La propaganda di regime definisce ancora la Chiesa come una «forza ostile». Un pericolo ancor più grave viene corso dai cristiani in Indonesia, dove il Consiglio degli ulema (i dottori della legge islamica) di Giava Occidentale ha denunciato azioni di proselitismo illegale da parte dei cristiani. Secondo l'accusa degli ulema, i cristiani locali starebbero pagando 500 dollari ad ogni musulmano che si converte. L'accusa di proselitismo, assieme a quella di apostasia, è quanto di più grave si possa immaginare nella legge islamica. I cristiani accusati rischiano la vita, non tanto per mano della polizia, quanto a causa di possibili pogrom popolari tollerati dalle autorità. Nell'isola di Giava, da tre anni a questa parte, sta crescendo la pressione contro la comunità cristiana locale: non si ottengono le autorizzazioni per costruire nuove chiese, mentre quelle «abusive» vengono distrutte o costrette a chiudere. Sarà questo il nostro futuro in un'Europa sempre più «multiculturale»? (Stefano Magni, Ragion Politica, 7 aprile 2007)
8 APRILE 2007
Bagnasco: «Parliamo all'intelligenza» «La Nota che il consiglio permanente della Cei ha presentato a proposito della famiglia fondata sul matrimonio, è una nota che cerca di parlare all'intelligenza dei credenti attraverso alcuni accenni alla fede ma, soprattutto, all'intelligenza comune, al buon senso, alla ragione attraverso delle motivazioni delle ragioni di tipo antropologico». Lo ha affermato l'arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco intervenendo ad un incontro con gli animatori diocesani della cultura e della comunicazione. «La Nota è un esempio impegnativo - ha spiegato il presidente della Cei - con il quale ci siamo cimentati con molta coralità, con molto impegno e, mi pare, con un buon risultato. È un esempio di come oggi la comunicazione debba tenere conto delle ragioni antropologiche, non solo delle ragioni che derivano dalla fede, ma delle ragioni che derivano dal retto uso della ragione». Questo, ha affermato l'arcivescovo Bagnasco «per non cadere nella facilissima accusa che i cattolici vogliano imporre la propria fede, e le proprie convinzioni al popolo in un contesto di chiaro pluralismo». «Certamente - ha spiegato ai presenti - se noi come cattolici usassimo solo ed esclusivamente delle ragioni di fede, giustamente saremmo fuori da questo dinamismo democratico che è il confronto delle ragioni. Confronto retto, onesto, il più possibile pacato e rispettoso, cosa che non sempre accade». Proprio per ovviare a tali obiezioni, ha esortato l'arcivescovo, «dobbiamo sempre più abituarci, ancorati alle ragioni della nostra fede, ed imparare ad usare le ragioni della ragione». In ballo, ha continuato il presule c'è una «corretta antropologia». Il rischio è la mancanza di «un criterio oggettivo per giudicare il bene il male». Se il criterio è quello «dell'opinione pubblica generale», allora, «è difficile dire dei no». Perché, ha detto ancora l'arcivescovo, «dire di no all'incesto o al partito dei pedofili in Olanda se ci sono due libertà che si incontrano?». Contro queste «aberrazioni già presenti almeno come germogli iniziali», è difficile resistere, «se viene a cadere il criterio antropologico dell'etica che è anzitutto un dato di natura e non di cultura». (Adriano Torti, Avvenire, 31 marzo 2007)
"I vescovi sbagliano, noi non marceremo al Family Day" Noi al Family day non ci saremo». Aumenta il dissenso nella Chiesa per la crociata sulla famiglia e cresce il fronte dei cattolici «sì Dico», cioè sacerdoti diocesani, comunità di base, associazioni e movimenti ecclesiali che diserteranno la chiamata della gerarchia e degli stati maggiori del laicato alla «guerra santa» contro la regolarizzazione delle unioni di fatto. Sono in molti, nelle diocesi e nel laicato, a ritenere che la prova di forza, l’esibizione «muscolare» di 100mila cattolici in piazza, non giovi alla causa di un istituto (il matrimonio religioso) la cui crisi non accenna ad arrestarsi. No alla kermesse, spiega don Vittorio Cristelli, capofila dei «dissenzienti» in Trentino. «Le manifestazioni di piazza, anche per esigenze di spettacolarizzazione, si caricano di simboli polemici e di sceneggiature satiriche, che estremizzano le tematiche e personalizzano lo scontro», spiega. E anche tra i movimenti che hanno firmato il manifesto del «Family day» si aprono lacerazioni interne. Nelle Acli, per esempio, l’adesione del gruppo dirigente nazionale alla manifestazione del 12 maggio ha fatto infuriare una fetta consistente della base aclista. Una contrarietà che in alcuni casi si è tradotta persino in pronunciamenti ufficiali, come il clamoroso sì ai Dico della presidenza provinciale delle Acli di Arezzo: «Il ddl Bindi-Pollastrini non tocca l’istituto del matrimonio e nemmeno ne crea un altro simile, ma prende atto di una situazione e attribuisce alcuni diritti non alle convivenze in quanto tali ma ai conviventi, in quanto persone». Quindi no alla partecipazione alla kermesse anti-Dico perché «lo Stato deve occuparsi di tutti i cittadini senza distinzioni e discriminazioni, riconoscendo i loro giusti diritti». Mentre i cattolici del centrosinistra, dai diessini Mimmo Lucà e Giorgio Tonini agli ex-popolari della Margherita Pierluigi Castagnetti e Antonello Soro provano ad attenuare l’effetto della nota Cei sul ddl Bindi-Pollastrini, nella galassia «bianca» e tra i preti «pro-Dico» sono sempre meno quelli disposti a smussare gli angoli. Non si mobilita affatto contro la legge sulle unioni di fatto, per esempio, il parroco spoletino don Gianfranco Formenton che invece di sfilare a piazza san Giovanni il 12 maggio chiama alla «disobbedienza civile i cattolici impegnati in politica e cresciuti nei valori del cattolicesimo democratico». Un «contro-Family day», praticamente, «in nome del rispetto di tutti, della maturità e della coscienza dei fedeli impegnati in politica considerati, politicamente, dei minorati incapaci di intendere e di volere, cattolicamente». Eppure, aggiunge don Formenton, «nella "res publica" ci sono anche gli omosessuali e i conviventi che hanno il diritto di non veder confinati i loro diritti nel privato ma riconosciuti giuridicamente dallo Stato». Family day e nota Cei, rincara la dose il parroco aquilano don Aldo Antonelli, dimostrano la «talebanizzazione della Chiesa e l’ideologizzazione della teologia». E a «una gerarchia che non ha occhi per vedere se non se stessa» corrisponde l’«ammutinamento omertoso e interessato di politici abituati all’adulazione e alla prostrazione». La genuflessione, osserva don Antonelli, è «lo sport dominante nei due rami del Parlamento». Diserta il Family day anche don Beppe Scapino, parroco a Ivrea: «I Dico non sviliscono la proposta religiosa del matrimonio come unione tra un uomo e una donna per sempre e non cercano di sostituirsi ad essa, né vogliono imporsi come modello unico ed esclusivo per la società». Anche l’adesione dell’Azione cattolica al Family day suscita malumori. Una parte della dirigenza, a livello locale e nazionale, è in subbuglio. A Torino, l’appello a favore dei Dico di un gruppo di credenti è stato sottoscritto, tra gli altri, dai responsabili del Settore Adulti dell’Ac torinese Nino Cavallo e Paola Gariglio e dall’amministratore diocesano Stefano Vanzini (tutti e tre membri della presidenza diocesana). Oltre a loro, il presidente del Meic locale Beppe Elia e gli ex responsabili di Ac-ragazzi Domenico Raimondi, Elena Gariglio, Roberta Russo, l’ex responsabile Giovani Luca Bobbio e altri consiglieri. «Sintomo di un malumore diffuso, che ha trovato una sponda anche a livello nazionale: nel corso di una seduta straordinaria della presidenza di Ac - evidenzia l’agenzia cattolica Adista - i vicepresidenti nazionali degli adulti e dei giovani hanno lamentato il ruolo imposto all’associazione dalla Cei, che ha reso l’Ac semplice cinghia di trasmissione dei desiderata della gerarchia verso i credenti e le altre strutture laicali». (Giacomo Galeazzi, La Stampa 3 aprile 2007)
Cristiani cattolici: si può essere “Chiesa” dissentendo dal Magistero? Perché tanti personaggi che si reputano “cristiano cattolici”, si pongono in continua frattura polemica con le direttive del Magistero ecclesiastico? Mi riferisco non solo a laici sedicenti “cattolici” ma a preti e a persone impegnate attivamente nella pastorale parrocchiale. Non sarebbe più opportuno che la smettessero una buona volta, o quantomeno avessero il coraggio di passare apertamente e definitivamente ad altre realtà con cui probabilmente meglio si identificano, piuttosto che continuare a ricoprire il ruolo di pastori o guide, gettando nello scompiglio la Chiesa di Dio? “Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!” (Mt 18,7). Ognuno è libero di professare e di credere ciò che vuole: salvo poi a fare i conti con la propria coscienza. Ma smettiamola di parlare a vanvera, inveendo contro Papa e Vescovi, gli unici che, al contrario, rispondono pienamente e coraggiosamente al mandato divino di guidare, sorreggere e proteggere il gregge loro affidato. Perché ognuno si possa fare un’idea su quello che succede, ecco alcune notizie, così come riportate da “Adista”, che ha fatto da cassa di risonanza tra le “comunità di base” e negli ambienti cattolici del dissenso. «Continua e si intensifica la campagna della gerarchia cattolica contro ogni forma di riconoscimento giuridico delle convivenze fuori dal matrimonio. Ultimo tassello, la lettera pasquale 2007 del card. Camillo Ruini, ormai ex presidente della Cei ma ancora vicario del papa per la diocesi di Roma. Nella lettera si ribadisce il ruolo della famiglia quale pilastro della società, solo se fondata sul matrimonio "celebrato secondo una forma giuridica riconosciuta dalla società". Le altre forme di convivenza ‘di fatto', specie quelle omosessuali, non comportano invece, secondo Ruini, "assunzione di impegni e di doveri nei confronti della società. Si configurano piuttosto come un rapporto privato tra individui, analogo al rapporto di amicizia, per il quale nessuno si sogna di chiedere un riconoscimento giuridico. Non è giusto che abbiano gli stessi diritti della famiglia, dato che non hanno gli stessi doveri. Le loro esigenze dovrebbero trovare risposta nei diritti riconosciuti alle singole persone". Il percorso di "riflessione" sul valore della famiglia culminerà il 12 maggio in piazza San Giovanni a Roma, con il Family Day, ribattezzato anche con il nome italiano ‘Più Famiglia': una manifestazione promossa da un cartello di associazioni cattoliche che chiederanno al governo di difendere e promuovere la famiglia, unite dallo slogan: ‘Il bene della famiglie è il bene del Paese'. Ma accanto alle posizioni ufficiali della Chiesa, condivise da alcuni esponenti politici dei diversi schieramenti, teocon in primis, aumentano le voci del dissenso di semplici cittadini, di laici cattolici, oltre a quelle di preti, religiosi e gruppi parrocchiali. Il gruppo Promozione donna di Milano ha scritto una lettera "a proposito dei recenti interventi della Cei e del Vaticano". Nel testo, si sottolinea innanzitutto l'incapacità della Chiesa di ascoltare il popolo di Dio e il suo continuare a prendere posizione dall'alto e unilateralmente. Si contesta poi il concetto di diritto naturale a cui lo stesso papa ha fatto appello in difesa del matrimonio: "Non ci si può appellare alla ‘legge naturale' o alla ‘natura' tout-court, sapendo che è un aspetto contestato e discusso ed è in corso un dibattito di sempre più numerosi teologi, filosofi, antropologi, giuristi, in quanto la cosiddetta ‘natura' in realtà non è così armonica e così perfetta originariamente (caso mai nel processo evolutivo tende all'armonia), ma è invece disordine, discriminazione, spesso ‘legge della giungla'". E riguardo alla relazione uomo-donna, il documento afferma che "non si può non interrogarsi sul fatto che le modalità delle relazioni umane sono cambiate e che non esiste un modello ‘evangelico' di famiglia, perchè riflette il modello del suo tempo, e perciò il cosiddetto ‘modello cristiano' è mutato dalla tipologia di famiglia patriarcale e più recentemente da quella borghese". Il dibattito sui Dico ha coinvolto anche comunità parrocchiali e realtà di base come quelle del centro San Saverio, all'Albergheria, e della parrocchia di San Gabriele all'Altarello, entrambe a Palermo. A San Saverio, un gruppo di credenti, con il sostegno del sacerdote che anima la comunità, p. Cosimo Scordato, ha promosso un sondaggio chiedendo ai partecipanti della messa domenicale di esprimersi sui Dico: "La Chiesa non è composta solo dal papa, dalla Cei, dai vescovi - dice padre Scordato - La Chiesa è fatta soprattutto dai suoi fedeli, e questi sono tenuti a dare un parere sugli aspetti che riguardano la vita di tutti noi". "Se la vita di coppia eterosessuale che realizza la famiglia è la modalità antropologica fondamentale sia per la vita delle persone che per la convivenza civile, essa non è l'unica forma di realizzazione dell'amore". Non un sondaggio, ma un approfondito dibattito sui Dico si è svolto anche nell'altra comunità ecclesiale palermitana, la parrocchia di San Gabriele. Riferendone sulle pagine palermitane di Repubblica (14/3) il parroco, don Francesco Romano, ha dichiarato: "Noi, come cristiani, dobbiamo accogliere tutti. La famiglia tradizionale ovviamente andrebbe protetta, e questo spetta allo Stato laico. Che ovviamente ha il compito di tutelare tutti. Bisogna intervenire per garantire alla famiglia serenità, nel rispetto delle opinioni di tutti e tenendo presente che i tempi cambiano". Arriva invece dalla provincia di Firenze, e precisamente dalla Parrocchia di S. Stefano a Paterno, un'altra iniziativa all'insegna del dialogo nei confronti dei diritti individuali delle coppie conviventi. Il Consiglio pastorale ha infatti deciso di inviare a tutte le famiglie, e di distribuire in Chiesa durante le Messe, l'omelia che Don Fabio Masi ha pronunciato il 4 febbraio scorso, nella quale il parroco afferma tra l'altro: "I vescovi italiani stanno cercando di far passare, con operazioni di vertice, ciò che forse non è nemmeno opinione comune dei cattolici italiani: dimostrano così di non fidarsi della loro capacità di discernimento e ammettono implicitamente di non essere in grado di stabilire una comunicazione seria e profonda nella Chiesa. Ma in questo modo si sostituiscono alle Comunità cristiane, non le interpellano, non le ascoltano. Se la Chiesa è Popolo, Comunità e non un esercito, nessuno, nemmeno il papa, si può arrogare il diritto di parlare a nome di tutti su questi temi". Ma l'interventismo su Dico e famiglia di Vaticano e Cei è oggetto di aspre critiche anche da parte delle altre Chiese cristiane, che sui temi etici da tempo manifestano opinioni diverse. Ermanno Genre, docente di Teologia sistematica della Facoltà valdese di teologia di Roma, in un editoriale pubblicato sull'agenzia Nev (Notizie evangeliche), del 14 marzo, è convinto che l'esortazione apostolica Sacramentum caritatis, sebbene incentrata sull'eucaristia, contenga riferimenti indiretti alla politica. E a proposito del concetto di famiglia cristiana, afferma: "L'istituto famigliare non è un'invenzione dei cristiani: esso è condiviso da credenti e non credenti. La visione cristiana della famiglia e del matrimonio non si riduce a fatto di natura, si situa nell'orizzonte di una vocazione, nella direzione di una parola che permette a chi l'ascolta di confrontarsi con l'evangelo di Gesù Cristo e non con i non possumus ecclesiastici che non hanno altra autorità se non quella della propria autoreferenzialità".» (Roma-Adista, 33818)
Cuba: come la Chiesa coltiva il seme della libertà Da quando Fidel Castro, alla fine di luglio dell'anno scorso, ha formalmente lasciato il potere, per Cuba e per la Chiesa cattolica cubana è iniziata la grande vigilia. L'approdo finale è più che mai incerto. Ma il traguardo verso il quale i cattolici cubani puntano risolutamente si definisce con una parola: libertà. Uno dei più autorevoli testimoni di questo cammino di Cuba e della Chiesa cubana verso la libertà è Dagoberto Valdés Hernández, 52 anni, tre figli, ingegnere agrario, fondatore, nel 1993, del Centro de Formación Cívica y Religiosa della diocesi di Pinar del Rio e, nel 1994, della rivista "Vitral". Quando Castro conquistò il potere a Cuba, nel 1959, Valdés era bambino. Visse i pochi mesi di luna di miele tra la Chiesa e il nuovo regime, ma soprattutto la lunga fase di libertà cancellata, di violenza istituzionalizzata, di persecuzione. All'università, in quanto cattolico, gli è vietato l'accesso alle facoltà umanistiche, e allora si specializza in agraria. Ma il suo punto di riferimento ideale è Félix Varela, sacerdote, filosofo e politico, padre dell’indipendenza cubana e maestro di un liberalismo cattolico per molti aspetti simile a quello di pensatori suoi contemporanei come Antonio Rosmini e Alexis de Tocqueville. Lavora nell'Empresa del Tabaco, ma a metà degli anni Novanta il regime lo punisce per l'attività di formazione civica che egli intanto ha iniziato a svolgere nella diocesi di Pinar del Rio. Lo obbliga a raccogliere yaguas, un tessuto fibroso che si stacca dalle palme e serve per imballare il tabacco. Ma Valdés non si arrende, anzi, intensifica la sua attività di formazione. La rivista "Vitral", dal nome della vetrata multicolore che adorna molte case cubane, diventa la voce di un piccolo ma influente think tank cattolico-liberale, baluardo delle idee democratiche e della visione umanistico-cristiana dell’uomo nella Cuba comunista. Grazie al viaggio di Giovanni Paolo II a Cuba, nel 1998, anche in Vaticano si accorgono di lui, ne apprezzano l'attività e l'anno dopo lo nominano membro del pontificio consiglio della giustizia e della pace. Quella che segue è una delle rare interviste che Dagoberto Valdés Hernández ha dato a un giornale straniero. Ed è la prima nella quale egli affronta direttamente la questione della transizione di Cuba alla democrazia, con una particolare attenzione al ruolo della Chiesa cattolica cubana. Il giornale è "Mondo e Missione", mensile del Pontificio Istituto Missioni Estere, stampato a Milano, che pubblicherà l'intervista nel numero di aprile. Autore è Alessandro Armato. Chi volesse leggere la registrazione integrale, più ampia di quella qui riportata e ricca di altri spunti interessanti, la trova nella versione spagnola di questa pagina. "La Cuba che sogno": intervista con Dagoberto Valdés Hernández D. – Che clima si respira a Cuba? R. – Predominano l’incertezza e un senso di attesa. L’incertezza si deve soprattutto alla mancanza di informazione su tutto ciò che accade e al fatto che il futuro non è nelle mani del popolo sovrano, ma delle più alte sfere del potere politico. All’incertezza si uniscono le conseguenze di un danno antropologico provocato nella maggioranza dei cubani dall'ideologia "della dipendenza" e dal controllo totalitario, che impedisce lo sviluppo della libertà e della responsabilità. D. – Nei suoi editoriali, lei insiste sulla necessità di sviluppare una "maturità civica" per far uscire il paese dalla "adolescenza socio-politica" in cui vive. Quale ritiene sia il modo migliore per farlo? R. – Vedo due strade: l’educazione e i piccoli spazi di partecipazione. È vero che esiste un incredibile analfabetismo civico e politico, frutto dell’estremismo ideologico e del blocco sistematico delle informazioni alternative a quelle del governo. Ma questa situazione può essere superata solo rompendo l’isolamento interno, che è peggio dell’embargo esterno. C’è bisogno di più informazione, più apertura, più scambio. Serve un processo sistematico e profondo di educazione etica, civica e politica. Ma non credo possa bastare… D. – Che intende dire? R. – Non dobbiamo fermarci alla teoria: è necessario creare piccoli spazi di partecipazione e dibattito, serve allenamento alla democrazia, perché la teoria, che non è stata sperimentata in mezzo secolo, difficilmente potrà essere messa in pratica se prima non abbiamo provato ad applicarla in piccoli spazi. Come cercano di fare la Chiesa cattolica, le biblioteche indipendenti, le Damas de Blanco, i giornalisti non allineati, le Chiese evangeliche... Questo è quanto cerchiamo di fare da 14 anni col nostro Centro de Formación Cívica y Religiosa della diocesi di Pinar del Río, e con la rivista "Vitral". D. – Il cammino di Cuba verso la libertà sembra inarrestabile, ma non mancano le resistenze… R. – C’è e ci sarà sempre resistenza al cambiamento. È umano. A porre ostacoli non saranno solo coloro che detengono il potere oggi, ma buona parte degli stessi cittadini. La situazione attuale, però, pesa molto più che la resistenza naturale al cambiamento. Sembra che la bilancia spinga verso una serie di trasformazioni pacifiche e graduali, che ci condurranno dall’essere un fossile politico del passato a diventare un paese normale, inserito come gli altri nella comunità internazionale. Un paese i cui figli non dovranno più fuggire dalla propria terra se desiderano progredire e vivere in libertà. Non so tuttavia come si verificheranno questi cambiamenti, assolutamente necessari e inarrestabili. D. – Quali scenari intravede? R. – Il primo: una successione all’interno dello stesso sistema che apra gradualmente alle riforme economiche e sociali e di conseguenza normalizzi le relazioni politiche internazionali e proceda ad effettuare riforme politiche interne. Un altro scenario possibile è una combinazione tra una successione breve e una transizione lenta e duratura, affidata a una generazione più giovane dal pensiero più aperto. Nel più pessimista degli scenari non si realizzerebbe nessuna delle alternative precedenti e si rafforzerebbero il controllo totalitario, la repressione dei dissidenti e la chiusura internazionale. Tutte cose, queste ultime, che condurrebbero a una "nordcoreanizzazione" di Cuba, creando più sofferenza e povertà, aumentando l’esodo di massa. Col rischio di aprire la porta alla violenza. D. – Quali, a suo avviso, i principali rischi che dovrà affrontare la Cuba di domani? R. – Se si rafforzano la chiusura e l’isolamento andiamo dritti verso la violenza, l’esplosione sociale incontrollata e il caos politico. È inevitabile. Nessuno lo vuole, ma purtroppo pochi s’impegnano seriamente per scongiurare questo esito. Se invece Cuba si apre e si democratizza, ci misureremo con i rischi intrinseci a una libertà slegata dalla responsabilità: corruzione, relativismo morale, libertinaggio mediatico, disoccupazione e forse la nascita di nuove mafie. Evitare che questo succeda dipende da noi. Dobbiamo, fin d’ora, ampliare i servizi ecclesiali e sociali di formazione etica, i servizi di educazione civica e politica e promuovere una cultura della responsabilità nella libertà. D. – Teme l’"imperialismo" degli Stati Uniti? R. – Da fuori potrebbero venire influenze negative e addirittura aspirazioni egemoniche; noi cubani, però, abbiamo sufficiente esperienza in materia per cavarcela. Ma dall’esterno potrebbe anche venire – se lo sappiamo canalizzare adeguatamente – un aiuto positivo e costruttivo: da parte dei circa due milioni di cubani esiliati o emigrati. Un aiuto prezioso, sotto forma di conoscenze, esperienza, investimenti, riunificazioni familiari, rafforzamento della propria cultura. Il peggiore scenario ipotizzabile è quello di un’apertura che fosse cinica esterofilia, subordinazione indiscriminata a tutto ciò che proviene dall’esterno, a modelli edonisti e contrari alla vita, senza discernimento e coscienza critica. D. – Si parla anche di una possibile annessione di Cuba al Venezuela. Cosa ne pensa? R. – È una sparata, un’illusione impraticabile, che offenderebbe l’immensa maggioranza dei cubani e dei venezuelani. Altra cosa, invece, sarebbe una rispettosa integrazione regionale. D. – Crede possibile che il comunismo, invece di morire, si perpetui sotto forma di quel "socialismo del XXI secolo" di cui Hugo Chávez si dice il profeta? R. – Il comunismo, così come lo ha vissuto l’umanità, ha fallito ed è scomparso nel modo in cui una volta è esistito. Ciò che ne resta in alcuni paesi è solo un’ombra di quel passato triste. È stato un errore e non credo che l’umanità sia disposta a pagare il prezzo di ripeterlo. D. – In questo frangente, le sembra che l’atteggiamento dei cubani della diaspora sia costruttivo? R. – La grande maggioranza degli esuli cubani riconosce il protagonismo degli abitanti dell’isola e mette a nostra disposizione il suo potenziale, in termini di formazione e finanziamento. Esiste già un gruppo di imprenditori di ispirazione cristiana che sta realizzando un fondo comune d’investimento destinato unicamente alla micro-impresa e al microcredito, che secondo me dovrebbero essere le basi del nuovo modello economico per Cuba. Restano però ancora – tanto fuori come dentro Cuba – piccole minoranze con molto potere e influenza sui mezzi di comunicazione, che danno l’impressione di rappresentare tutti, quando invece non è così. Se queste minoranze, un residuo del passato, persistono con le loro rivendicazioni anacronistiche – gli uni per proprietà irrecuperabili, gli altri per puro attaccamento al potere – saranno un serio ostacolo per realizzare quei cambiamenti graduali, pacifici e giusti di cui Cuba ha bisogno. D. – Oppositori politici, dissidenti, esponenti della società civile: il panorama dei cubani che spingono per un’apertura democratica è assai variegato, ma non sono sempre chiari i profili dei differenti gruppi… R. – A Cuba oggi ci sono oppositori politici, dissidenti e gruppi di una società civile incipiente. Ma c’è anche un grande analfabetismo civico e politico che non permette agli attori sociali di distinguersi chiaramente. Inoltre abbiamo un governo che cerca di confondere gli uni con gli altri, per mettere tutti sullo stesso piano, accomunandoli nell’etichetta di "contro-rivoluzionari" e "mercenari" al servizio degli Stati Uniti. Tutto ciò pregiudica gravemente il futuro di Cuba. La nazione deve imparare a distinguere e riconoscere, rispettare e promuovere i differenti attori sociali. La società civile deve sapere qual è il suo ruolo e il suo margine di autonomia nei confronti dello stato e dei partiti politici di opposizione. Occorre un paziente lavoro educativo affinché i partiti d’opposizione sappiano rispettare e dialogare con gli altri membri della società civile, senza confonderli con i propri scopi, e affinché lo stesso stato impari a distinguere e a dialogare con gli uni e con gli altri. D. – "Vitral" è una rivista dissidente o d’opposizione? R. – "Vitral" è una rivista cattolica, espressione del Centro de Formación Cívica y Religiosa della diocesi di Pinar del Río. È una rivista della Chiesa, anche se il suo profilo è socioculturale e non confessionale. È aperta a tutti gli uomini di buona volontà e il consiglio di redazione controlla che tutto ciò che viene pubblicato si mantenga in un ambito etico-umanista ampio e pluralista. Questo ci identifica e ci colloca nel seno della società civile e non dentro l’opposizione politica. Personalmente mi concepisco come animatore civico dal punto di vista sociologico e come evangelizzatore della società civile in quanto cristiano. D. – È una rivista influente? R. – Dato che credo nel Vangelo, sono convinto che un piccolo granello di sale può essere efficace, un minuscolo chicco di senape può germogliare e una piccola luce nell’oscurità può orientare altri. "Vitral" aspira ad essere questo fermento nell’immensità della massa. D. – Circola liberamente? R. – "Vitral" circola come può, di mano in mano: non si può vendere per strada, non può essere portata nelle scuole, ma la stessa rete informale della Chiesa e il resto della società civile la fanno arrivare ai diecimila abbonati che abbiamo a Cuba, in alcune comunità della diaspora, in certe università di Stati Uniti, Messico e Spagna e a una rete di amici sparsi nel mondo. D. – Che ruolo svolge la Chiesa cubana in questa delicata fase di transizione verso un paese "giusto, libero e solidale", come ha detto il cardinale Jaime Ortega Alamino? R. – La Chiesa è l’unica istituzione a Cuba che nell’ultimo mezzo secolo ha mantenuto autonomia e indipendenza dallo stato. Nella Chiesa c’è ancora traccia di quella società civile che, per il resto, è stata pervicacemente disarticolata dal socialismo reale. Negli ultimi anni, l’istituzione ecclesiastica ha giocato un ruolo fondamentale nell’accompagnamento e nella ricostruzione della società civile, offrendo educazione etica, formazione civica, addestramento alla partecipazione e alla responsabilità comunitaria, educazione alla libertà, alla giustizia e alla pace. La Chiesa ha inoltre alleviato la disperazione e fornito motivi per restare nel paese a moltissimi cubani. D. – Come vede oggi la relazione tra Chiesa e potere politico? R. – La Chiesa ha mantenuto la sua identità, la sua missione e i suoi spazi, anche se il suo inserimento nella società è stato limitato da uno stato che pretendeva di controllare tutto e tutti. La Chiesa è riuscita a seminare il Vangelo in mezzo alle più incredibili difficoltà. Molti sacerdoti, religiosi e laici hanno lavorato per anni e anni come testimoni fedeli, anche a rischio della propria sicurezza e di quella delle proprie famiglie. Tutto questo è un grande dono di Dio! D. – Mezzo secolo sotto un regime comunista. C’è qualcosa di speciale che la Chiesa ha appreso durante questo tempo e può servire da insegnamento per tutti? R. – Credo di sì. Abbiamo imparato a credere nella forza della piccolezza, nell’efficacia del seme, nella potenza del lievito nella massa. Abbiamo imparato a essere umili, a vivere coi piedi nell’humus, condividendo la sorte di coloro che patiscono l’ingiustizia. Abbiamo imparato che la Chiesa cresce e si purifica nel mezzo delle tribolazioni e che questo è un tempo di gloria crocifissa e resuscitata per noi discepoli di Cristo che viviamo a Cuba. D. – Nel paese ci sono anche numerosi missionari… R. – La presenza di tanti missionari cattolici – non li chiamerei stranieri, perché nella Chiesa nessuno è straniero – è una grazia e un dono di Dio per questo popolo che soffre e spera. Ci sono missionari italiani, spagnoli, tedeschi, colombiani, messicani e di tante altre nazionalità. Arrivano con una grande generosità e curiosità, cercano di inculturarsi e di impegnarsi nei villaggi dove vengono inviati. La gente li riceve a braccia aperte. Ci offrono quello che non abbiamo conosciuto a causa della chiusura dell’isola, ma – a loro volta – ricevono molto dalla gente, costantemente impegnata a ricercare alternative per sopravvivere senza perdere la speranza. Annunciano il Vangelo e denunciano, quando è possibile, ciò che offende la dignità e i diritti umani. D. – A che difficoltà vanno incontro i missionari, se alzano la voce? R. – Molte volte devono tacere perché rischiano la revoca del permesso di soggiorno e un’espulsione silenziosa e umiliante. Alcuni missionari e missionarie si domandano cosa significhi perdere un permesso di soggiorno rispetto a perdere la vita, come accade altrove; altri ritengono che sia meglio continuare a rimanere qui a servire in silenzio. Altri ancora, infine, si chiedono se il silenzio sia complicità con l’ingiustizia. Ma nessuno resta indifferente al presente di questa bella isola, sofferente e ospitale, e alla sua gente, pacifica e allegra, che continua a sperare da cinque decadi la visita del Signore Gesù per realizzare – con le sue stesse forze – la liberazione interiore, la democratizzazione politica e lo sviluppo umano integrale. È quanto chiese, nel gennaio 1998, Giovanni Paolo II sulla Plaza de la Revolución José Martí, all’Avana: "Voi siete e dovete essere – disse – i protagonisti della vostra storia personale e nazionale". Lo speriamo. E ci stiamo provando. (Sandro Magister, www.chiesa, 2 aprile 2007)
Caccia alle streghe, bugie anticattoliche L’Inquisizione? Una «leggenda nera»; in realtà la sua opera nei secoli XVI e XVII ha addirittura evitato gli eccessi. Le vittime della repressione non furono né 6 né 9 milioni, bensì da 30 a 40 mila in 350 anni. E non solo donne. A partire dal Quattrocento, e per oltre tre secoli, si è scatenata la cosiddetta «caccia alle streghe», un fenomeno culturale e sociale complesso che ha determinato una violenta attività repressiva in molti Paesi. Sulla «caccia alle streghe», e sulle streghe, si è detto tutto e il suo contrario. S’è sostenuto che queste ultime fossero parte di una religione occulta ma anche un’invenzione, una proiezione delle fantasie maschili; oppure un’espressione delle culture alternative. Teorie marxiste e storiografia liberale, letture antropologiche e sociologiche si sono avvicendate accumulando una letteratura impressionante per mole e varietà. Negli ultimi anni sono state pubblicate alcune opere che hanno tentato di sistemare in modo enciclopedico il lavoro svolto e il dibattito storiografico che ne è seguito; ma i risultati non hanno rispettato le promesse. Del resto, sul fenomeno storico della stregoneria si pubblica ancora moltissimo, ma troppo spesso vengono ignorate le acquisizioni più recenti della ricerca e i punti di consenso degli studiosi. Una buona occasione per contemplare con un unico sguardo lo stato dell’arte degli studi sull’argomento è l’Encyclopedia of Witchcraft. The Western Tradition, curata da Richard M. Golden, (ABC-Clio, 2007, 4 volumi). Non ci si allarmi, non è una raccolta enciclopedica di pozioni e ricette di maleficio, ma un ottimo esempio di divulgazione d’alto profilo, e di carattere interdisciplinare, che raccoglie i contributi di 170 specialisti di ogni parte del mondo. Considerando l’autorevolezza del gruppo di studiosi chiamati a compilare le singole voci, (alcuni nomi: Henry Kamen, Brian P. Levack, Gustav Henningsen, Andrea Del Col, Oscar Di Simplicio, Gabriella Zarri, Marina Montesano) l’opera offre un contributo notevole nel chiarire anche l’aspetto delle responsabilità di parte cattolica che - lo si legge per esempio alla voce Misconceptions («Fraintendimenti») - la ricerca ha ridimensionato notevolmente. E tuttavia vere e proprie legge nde nere sopravvivono, a questo proposito, «in parte - si legge - perché il pubblico non ha accesso immediato agli studi degli specialisti e in parte perché certe idee servono a propositi contemporanei». Tra gli equivoci perpetuati vi è, ad esempio, il ruolo dell’Inquisizione che per gran parte del pubblico incarna l’istituzione maggiormente responsabile della caccia alle streghe. Nessuno può negare l’impatto del celeberrimo Malleus Maleficarum, il manuale per inquisitori scritto dai domenicani Spenger e Kramer, né il ruolo dell’Inquisizione in altre attività di repressione ereticale. Ma nel merito della caccia alle streghe pare proprio che le leggende nere debbano essere riscritte. Difatti - si legge in Witchcraft - «l’Inquisizione portoghese, spagnola e romana non solo non si sono macchiate della repressione delle streghe», vere o presunte, ma hanno addirittura evitato «lo scatenarsi delle cacce alle streghe durante il XVI e XVII secolo nel Sud Europa». Nemmeno risponde a verità che l’inquisizione papale già incaricata di combattere l’eresia catara sarebbe stata poi impiegata nei secoli successivi contro le streghe. Quest’idea è basata su una trovata di Étienne Léon de Lamothe-Langon, storico senza scrupoli, che nel 1829 falsificò documenti per fornire pezze d’appoggio alla sua tesi. Venendo ad altri aspetti, leggiamo che gli studi recenti hanno anche indebolito l’associazione univoca fra vittima della caccia alle streghe e sesso femminile. È vero che la maggioranza delle vittime furono donne, ma va tenuto presente che i cacciatori di streghe erano interessati alle persone accusate di stregoneria e non alle donne «in quanto tali» e infatti non poche vittime delle periodiche ondate di repressione furono uomini. Un’interpretazione sociologica un tempo in auge, e sostenuta soprattutto tra le studiose femministe, sostiene che le streghe fossero le depositarie della medicina tradizionale in competizione con due categorie che si andavano professionalizzando: i medici e il clero. Le accuse di stregoneria sarebbero state una risposta a questo mutamento. Ma, a conferma di quest’ipotesi, un tempo popolarissima, non sarebbe stata trovata ancora «nessuna prova». Per ultimo arriviamo all’argomento più delicato, quello del numero delle vittime. La cifra oggi proposta dagli storici, nonostante le sue oscillazioni, è lontanissima dai «sei» o «nove milioni di streghe» ripetuta acriticamente dai tanti improvvisati «storici della caccia alle streghe», e persino da intellettuali come Élemire Zolla, ed è pure lontana dalle centomila vittime che costituivano il calcolo di Voltaire. Il team internazionale di esperti riunito nell’opera di Golden, incrociando i dati disponibili, propende per circa trenta-quarantamila vittime in circa 350 anni. Una cifra spaventosa, certamente, che segnala l’importanza e la gravità del fenomeno, e l’impegno che ancora richiede il suo studio e la sua interpretazione. Lo stesso impegno che impone correttezza e limpidezza nella divulgazione dei risultati della ricerca storica - pur senza occultare la presenza di opinioni contrastanti, che dialogano anche fra le voci di questa grande «Enciclopedia». Affinché queste lontane tragedie non facciano il gioco di interessi contemporanei. (Mario A. Iannaccone, Avvenire, 3 aprile 2007)
Il crollo della famiglia? Manca solo l’incesto Il Papa invita a difendere i legami «naturali». Ma, per la scrittrice Dacia Maraini, «in natura le madri si accoppiano con i figli, i fratelli con le sorelle». È una pratica respinta dalla stessa legge biologica: eppure per alcuni sarebbe addirittura «normale». Dopo i Dico sarà la volta dell’incesto legalizzato? Le premesse ideologiche all’escalation sono state poste da Dacia Maraini nella sua rubrica sul Corriere della Sera, che questa settimana recava un titolo leggiadro: «La “famiglia naturale”? Non esiste, perché la natura è violenza, caos e incesto». Essendo figlia dell’etnologo Fosco Maraini, tutto lascia supporre che la scrittrice abbia competenze specifiche sull’argomento. Per di più è stata la compagna di Alberto Moravia, un grande esperto di biologia: infatti la sua principale occupazione, oltre a un dialogo assiduo col proprio organo genitale, erano i viaggi in giro per l’Africa a fotografare merde d’elefante, come mi ha sempre detto Sergio Saviane. «Il Papa sostiene, con ostinato candore, che si deve difendere la famiglia naturale», non si dà pace la signora. Un proposito evidentemente folle, quello di Benedetto XVI, visto che «nel mondo naturale il più grosso mangia il più piccolo, il più robusto schiavizza il più debole, le madri si accoppiano con i figli, i padri con le figlie, i fratelli con le sorelle». Oh, ma che razza di gente frequenterà la Maraini? Subito dopo, tuttavia, è lei stessa a riconoscere che certe discipline «impediscono il vivere selvaggio del nucleo originale». Appunto, perché metterle in discussione allora? Tanto più che «la famiglia del tutto artificiale» è in grado di opporsi «allo sperpero e al caos», rimarca più avanti. Ma alla scrittrice preme soltanto dare per assodato che «l’incesto, presente in tutte le specie, anche nell’uomo», e soprattutto nella sua produzione letteraria, considerato che la protagonista di Lettere a Marina voleva intendersela con la propria madre, «addirittura ammesso in certe circostanze storiche – vedi gli antichi egiziani – è stato proibito, come racconta bene Malinowski, per permettere alle prime tribù di espandersi, andare a cercare altre tribù, intrecciare rapporti e quindi aprire scambi di idee, di conoscenze, di esperienze». Insomma, si tratterebbe di un impaccio culturale, di una sovrastruttura diventata superflua in tempi di globalizzazione. A parte che le regole sociali rappresentano comunque il principale fattore evolutivo del consesso umano, converrà ricordare che l’etnologo polacco citato dalla Maraini ha elaborato le sue stravaganti tesi dopo aver esaminato i trobriandesi della Nuova Guinea, i quali all’inizio del secolo scorso erano ancora convinti che fossero gli spiriti a rendere madre una donna, penetrando nel suo corpo attraverso la testa, e negavano la correlazione fra coito e concepimento (magari lo negano ancor oggi, bisognerebbe tornare alle isole Trobriand a indagare), e non erano neppure sfiorati dall’idea che possa esistere l’adulterio, per cui se un uomo rientrava al villaggio dopo una lunga assenza e trovava la moglie gravida, ne giustificava lo stato interessante attribuendolo all’azione dei predetti spiriti. Manco avessero letto nel pensiero di Dacia Maraini con sette anni d’anticipo, Patrick Stübing e sua sorella Susan, tedeschi di Lipsia, si sono regolati di conseguenza e vivono come marito e moglie già dal 2000. Nel 2001 ebbero un figlio e furono processati per incesto. Pena mite: 10 mesi con la condizionale a lui, assolta perché minorenne lei. Il neonato fu dato in adozione. Tornati a casa, gli sciagurati fecero altri due bambini e finirono nuovamente alla sbarra: 25 mesi di reclusione per lui, affidamento al tutore per lei. Prima di entrare in carcere, il fratello-marito riuscì a mettere di nuovo incinta la sorella-moglie. Nacque così il quarto figlio. Ora l’avvocato Endrik Wilhelm ha deciso di portare il caso dei due degenerati, 30 e 22 anni, davanti alla Corte costituzionale, sostenendo una tesi ardita che non dispiacerà alla Maraini: il reato d’incesto punito dall’articolo 173 del codice penale tedesco (tre anni di carcere per i genitori che s’accoppiano con i figli, due anni per i fratelli che fanno sesso fra di loro) è da ritenersi un detrito del passato, basato su una legge del 1851 che condanna il «disonore del sangue». Per di più, secondo il legale, esso violerebbe il diritto all’autodeterminazione sessuale, dal momento che nessuna legge proibisce a persone anziane, disabili o affette da tare ereditarie di concepire bambini, nonostante l’alta probabilità che questi nascano con malformazioni. L’avvocato Wilhelm arriva ad affermare che il divieto d’incesto maschera un intento eugenetico, poiché vietando i rapporti fra consanguinei, nel timore che mettano al mondo figli menomati, si compie una selezione ereditaria positiva. Dal suo punto di vista, il rispetto delle libertà individuali giustifica il fatto che tre dei quattro figli concepiti dai fratelli incestuosi di Lipsia siano nati handicappati. Siamo, lo vedete da voi, al totale sovvertimento dell’etica universale e del comune buonsenso. Come rileva persino il professor Carlo Flamigni, pioniere delle più accanite sperimentazioni in tema di riproduzione umana, le motivazioni contro l’incesto sono di natura empirica. Il paladino della fecondazione artificiale ipotizza che alcune donne ricevano il seme dal medesimo donatore e siano inconsapevoli di questo fatto, essendo il donatore sconosciuto: «In tali casi», scrive, «è possibile che i figli di queste donne si incontrino e che scelgano di avere rapporti sessuali dai quali potrebbero nascere figli. Esiste dunque il problema di incesto potenziale ed esiste il problema della possibile patologia genetica che può conseguire alla nascita di un bambino che è figlio di due fratellastri». Altro che un tabù inventato «per difendere la famiglia artificiale». Il ripudio dell’incesto è secondo natura proprio perché salvaguarda innanzitutto la nostra specie. Qualora inclinasse ai rapporti sessuali con discendenti, ascendenti o affini, l’umanità finirebbe per autodistruggersi. Peraltro neppure l’essere più depravato riuscirebbe a dimostrare che se le relazioni incestuose producessero, per assurdo, effetti benefici, tutti s’affretterebbero a praticarle. Ma vi pare che i teorizzatori della naturalità dell’incesto si preoccupino del danno arrecato all’eventuale prole? Dacia Maraini, ancorata alle viete teorie malinowskiane, non sembra neppure sfiorata dall’idea che un uomo e una donna normali si astengano per istinto, e non per costrizione giuridica, dall’infliggere a ciò che hanno di più caro – un figlio – la condanna a vita di ritrovarsi con dei genitori-zii. È la legge biologica, non la religione, non il diritto, non la precettistica frutto di pregiudizi borghesi, a respingere come aberrante l’incesto. Che «provoca in chi ne è vittima disturbi psichici di varia natura, comprese patologie di carattere psicosomatico, angoscia depressiva, pesante senso di colpa e profonda vergogna»; che induce «nelle persone che l’hanno subìto in età infantile una tendenza al suicidio in percentuale sei volte maggiore di altri soggetti»; che è correlato a «disordini inerenti al corpo e alla sua immagine (per esempio, nel 5% dei casi di sindromi anoressiche e bulimiche)»; che «introduce una possibilità di confusione tra genitori e generati, tra creatore e creature, instaurando il progetto perverso di annullare la restrizione di ogni vincolo familiare»; che cancella «la differenza tra adulti e bambini, tra passato e futuro, tra etica e libertà assoluta». Non è Joseph Ratzinger a dirlo: sta scritto nel Dizionario enciclopedico della salute e della medicina edito dalla Treccani, che a pagina 342 bolla questa ripugnante pratica con una definizione che è insieme scientifica e morale: «Una catastrofe». Ma in tempi di relativismo suicida, che vedono ogni verità antropologica rovesciata nel suo contrario, per capire tutto questo non basta tenere sul Corriere della Sera una rubrica intitolata Il sale sulla coda. Bisogna averlo in zucca, il sale. (Stefano Lorenzetto, Il Giornale, 31 marzo 2007)
E il Führer disse: Pio XII è un nemico Non erano difensori d’ufficio o, peggio, apologeti travestiti da storici quanti per anni hanno respinto le interpretazioni di Pio XII rivolte a rappresentarlo come accondiscendente nei confronti del nazismo, se non addirittura come «Papa di Hitler». Anzi, proprio nulla di queste costruzioni resta in piedi. Come le ricerche storiche più fondate e attendibili sostenevano da tempo, e come ora conferma un dossier al di sopra di ogni sospetto: documenti inediti del Terzo Reich finiti in mano dei capi (Erich Mielke e il più famoso Markus Wolf) della Stasi - il servizio segreto della Germania orientale - ed entrati in possesso del quotidiano la Repubblica, che li ha anticipati ieri in un ampio articolo del suo inviato a Berlino Marco Ansaldo. Dai nuovi documenti emerge un Pio XII descritto dagli stessi nazisti come simpatizzante con il popolo tedesco ma certo non con il loro regime, come un capo religioso molto attivo nell’aiuto e nel soccorso a polacchi ed ebrei, e in attesa di «un cambiamento della situazione in Germania». Un papa, sintetizza il quotidiano, che «le alte sfere» del Reich «guardavano con diffidenza e perfino con preoccupazione». Comprensibilmente, se uno dei gesuiti tedeschi della segreteria personale del Pontefice, Robert Leiber, confidava a un ecclesiastico impiegato in Vaticano - ma che in realtà era una spia nazista - come «la maggiore speranza della Chiesa» fosse «che il sistema nazionalsocialista nel prossimo futuro venga annientato da una guerra», cioè l’imminente conflitto mondiale. La conclusione è obbligata: «Dalla lettura di questi documenti - scrive Ansaldo - la figura di Pio XII sembra dunque uscire in maniera nettamente diversa rispetto a quella tramandata». Ecco allora che il Papa amico dei nazisti - considerati dal Pontefice, secondo alcuni storici, come un male minore rispetto al pericolo sovietico - abbandona la scena per lasciare il posto a «un avversario abile e temuto» del nazismo, «tutto il contrario del ritratto di un Pacelli timoro so e indeciso arrivato fino a oggi». A questo punto l’inviato del quotidiano romano si è chiesto come sia stato possibile questo capovolgimento dei fatti, e da due specialisti - il gesuita Giovanni Sale, che da anni su La Civiltà Cattolica e in diversi volumi (Jaca Book) sta pubblicando una documentazione preziosa, e il giornalista tedesco Werner Kaltefleiter - si è sentito rispondere che il Pacelli filonazista è un frutto della propaganda comunista. Chi legge l’articolo di Ansaldo - che ha ricordato le recenti (ma non del tutto convincenti) dichiarazioni in questo stesso senso di Ian Pacepa, un alto dirigente dei servizi segreti rumeni - potrebbe pensare che il tempo è galantuomo, e che grazie a questi documenti la verità viene finalmente a galla. Le cose sono in realtà un po’ diverse. Ogni nuova acquisizione documentaria è certo importante, ma in questo caso «i dossier segreti di Hitler che riabilitano Pio XII» - così ha titolato in prima pagina la Repubblica - non fanno che confermare quanto da molto tempo si sapeva. E cioè che Pacelli non è mai stato filonazista, nemmeno strumentalmente in funzione antisovietica. E che questa deformazione è nata dalla propaganda sovietica, grazie a una leggenda nera le cui origini, poco note, sono state ripercorse nel 2004 dalla rivista Archivum Historiae Pontificiae. Innestatasi sulle critiche precoci di ambienti cattolici francesi e polacchi nei confronti dei «silenzi» di Pio XII (a proposito dell’aggressione italiana all’Albania e di quella tedesca alla Polonia), l’immagine di un Papa sostenitore dei regimi fascista e nazista fu lanciata già durante la guerra da organi di stampa sovietici, soprattutto dal quotidiano Izvestija. In realtà il Pontefice tra l’autunno del 1939 e la primavera del 1940 aveva appoggiato, con una decisione senza precedenti, il tentativo, presto abortito, di alcuni circoli militari tedeschi in contatto con i britannici di rovesciare il regime hitleriano. E dopo l’attacco tedesco all’Unione Sovietica i l Papa rifiutò di schierarsi con quella che veniva presentata come una crociata contro il comunismo e, anzi, si adoperò per superare le opposizioni di molti cattolici statunitensi all’alleanza con i sovietici. Oppositore del nazismo, dopo la guerra Pio XII fu altrettanto radicalmente anticomunista, e certo non perché succube degli americani o in quanto cappellano dell’Occidente, come volevano gli stereotipi diffusi dai sovietici. Quest’opera di propaganda culminò nel 1963 con la rappresentazione del dramma Der Stellvertreter («Il vicario») di Rolf Hochhuth, che riprendeva le tesi di una pubblicazione comunista sul Vaticano, come notò subito The Tablet. Da allora, per quasi un quarantennio, la campagna diffamatoria contro Pacelli ha finito per accreditare una rappresentazione diffusissima del Papa che, prima ancora di essere strumentale e infamante, è del tutto inventata. E non è un caso che il dossier presentato su la Repubblica sia rimasto tanti anni in mano ai servizi segreti della Germania orientale. Basterà tutto questo per liquidare «il Papa di Hitler»? Si può sperarlo, ma senza contarci troppo. (Gian Maria Vian, Avvenire, 30 marzo 2007)
Belgio allo sfascio: grazie ai laicisti, agli islamici e ai cristiani Una legge toglierà ogni limite alla libera manipolazione degli embrioni Fecondazione assistita anche eterologa, fruibile pure a coppie omosessuali e a single. Inseminazione e impianto di embrioni criocongelati permessi anche quando il titolare dei gameti è già morto. Nessun limite alla diagnosi preimpianto per individuare possibili malattie genetiche. Garanzia criptoeugenista che le caratteristiche fisiche del nascituro frutto di donazione eterologa di gameti o di embrione coincideranno con quelle dei genitori. Anonimato garantito, obbligatorio e inderogabile per le donazioni di embrioni. Libera disponibilità degli embrioni soprannumerari, che potranno a scelta essere donati per fecondazioni eterologhe, destinati alla ricerca o semplicemente distrutti. Non fosse per l'articolo 5, che stabilisce che «i centri per la fecondazione hanno la libertà di invocare la clausola di coscienza riguardo alle richieste che sono loro indirizzate», la legge belga relativa alla procreazione assistita e alla destinazione degli embrioni soprannumerari e dei gameti (sperma e uova) approvata in via definitiva il 15 marzo sarebbe probabilmente la più liberal del mondo. Due anni di discussioni parlamentari hanno fruttato ben pochi paletti. Mettiamoci pure il limite dei 45 anni per le donne che effettuano donazioni di gameti femminili e di 47 anni per quelle a cui vengono impiantati embrioni. Nient'altro limita quella che il deputato Philippe Monfils ha definito «l'autonomia della persona umana». Yvan Mayeur, relatore socialista della legge, ne ha enunciato l'impianto ideologico in aperta polemica con la Chiesa cattolica. Quest'ultima, con un comunicato dei vescovi del giugno 2006, aveva espresso un giudizio fortemente critico sulla norma in discussione: «In questa proposta di legge l'embrione non è considerato come un fine in sé. È trattato come un mezzo destinato a realizzare il desiderio di un figlio. Cosa importa che questo figlio "fabbricato" dalla scienza sia un orfano biologico? Importa prima di tutto che corrisponda al meglio al progetto parentale a geometria variabile del suo o dei suoi genitori legali». Mayeur ha reagito all'arguzia dei vescovi sul "progetto parentale a geometra variabile" irridendo la famiglia tradizionale e dichiarandola moribonda. «L'immagine idilliaca della famiglia tradizionale che ci si vorrebbe proporre - ha dichiarato durante il dibattito alla Camera - è tanto lontana dall'esperienza degli psicoterapeuti infantili quanto l'immagine demonizzata che trasparirebbe in tutte le altre famiglie: divorziate, ricomposte, omosessuali o sorte dalla donazione di gameti anonimi. Tutte queste oggi sono probabilmente più numerose in Belgio della famiglia classica alla quale si fa riferimento». Poi li ha bacchettati sulla questione dell'"orfano biologico" in nome della visione moderna del mondo che anima la legge, visione secondo cui il dato di realtà non ha in sé nulla di normativo, tutto dipendendo dalla volontà umana e dal suo potere: «Per quanto riguarda le fondamenta della morale sociale e del diritto bisogna basarsi sul biologico stretto, cioè sulla legge del sangue, o sulla responsabilità personale, sul "coscienziale"? Tutta la cultura passata è consistita nell'ascoltare il sangue e nel non tenere conto di ciò che l'uomo ha deciso». Perciò se una coppia mette per iscritto la volontà di praticare un'inseminazione o un impianto di embrione congelato anche dopo la morte di uno dei partner, la legge glielo permetterà per rispettare la loro libera decisione, ponendo solo dei paletti quanto alla tempistica: non prima di sei mesi (il tempo di elaborare il lutto), non dopo i due anni (quando la qualità del materiale biologico diventa scadente). Dallo stesso principio discende la legittimazione del ricorso alla fecondazione assistita da parte delle coppie omosessuali: «In questo ambito non ci si può limitare alle mezze misure», spiega Mayeur. «Si accetta sempre più facilmente l'unione di due persone dello stesso sesso, dunque non si può rifiutare loro l'adozione e, aggiungo, non si può rifiutare la fecondazione assistita. Non siamo più strettamente nei legami di sangue ma nelle scelte di individui responsabili, capaci come gli altri di assumersi la responsabilità di crescere dei figli». E al deputato Veronique Salvi del Cdh (ex democristiani) - che con un emendamento chiedeva l'abolizione dell'anonimato previsto dalla legge per la donazione di embrioni soprannumerari in quanto violazione dell'articolo 7 della Convenzione dei diritti del bambino, dove si afferma il diritto dei piccoli a conoscere i genitori - Mayeur ha risposto: «I donatori di gameti non sono genitori. Compion |