ANNO 2009
13 dicembre 2009
Rimini, anno 359: storia di un concilio di provincia
In occasione del 1650° anniversario del concilio di Rimini, si è tenuta una giornata di studi presso l'Istituto Superiore di Scienze religiose Alberto Marvelli della diocesi. Pubblichiamo gran parte della relazione principale. «Il concilio del 359, l'avvenimento grazie al quale la chiesa di Rimini si presenta alla ribalta della storia, rappresentò un momento importante, ancorché non favorevole all'ortodossia, nel lungo e complesso itinerario della controversia ariana nel corso del IV secolo. Nessuno dei tanti concili, ecumenici e no, celebrati durante quel secolo, raccolse un numero tanto grande di partecipanti, circa 400 soltanto tra gli occidentali, nessuno fu preparato con tanta cura dalle varie parti coinvolte nel contrasto, nessuno ebbe svolgimento tanto drammatico. Intorno al 320 un vecchio presbitero di Alessandria, Ario, diffonde una versione radicale della dottrina del lògos, in quanto ne esaspera il subordinazionismo strutturale affermando che anche il lògos divino è stato creato da Dio, ancorché in una condizione di privilegio riguardo al resto della creazione. Ario è condannato ad Alessandria, ma trova vari consensi in oriente tra gli avversari più accesi del monarchianismo. Nel concilio di Nicea (Asia Minore), il primo ecumenico indetto dall'imperatore Costantino e celebrato nel 325, Ario viene condannato a opera di una coalizione di origeniani moderati e di monarchiani più e meno radicali. Ma, troppo esposto in senso monarchiano, il simbolo niceno suscitò forte opposizione in oriente e la reazione, favorita dall'imperatore che era consapevole di avere in precedenza forzato troppo la mano al concilio, provocò, a seguito di accuse di vario genere, la deposizione dei rappresentanti più importanti del partito antiariano, tra i quali erano il monarchiano radicale Marcello di Ancira e Atanasio, il giovane vescovo di Alessandria. Quando, dopo la morte di Costantino (337), l'impero fu momentaneamente diviso tra i figli Costante e Costanzo, anche Roma, fino allora assente dal contrasto, entrò in gioco a fianco degli esuli Marcello e Atanasio. Comincia adesso, intorno al 340, un periodo convulso di azioni e reazioni, che porta anche, dopo il fallimento del concilio ecumenico di Serdica (odierna Sofia) nel 343, alla momentanea separazione delle Chiese di oriente e di occidente, e al quale Costanzo, rimasto unico imperatore nel 353, cerca di por termine sbarazzandosi di Atanasio e favorendo l'elaborazione di una formula di fede di significato generico in modo da coagulare intorno a essa una maggioranza di moderati. Ma la ripresa dell'arianesimo radicale con Aezio ed Eunomio, e il tentennare di Costanzo tra un partito e l'altro contribuirono ad aumentare ancora di più il disordine, la confusione, la proliferazione di dottrine e professioni di fede diverse, finché, siamo nel 358, si avvertì l'esigenza di riunire un nuovo grande concilio ecumenico, tale da ristabilire la pace religiosa dell'impero. Dopo le proposte di riunirlo a Nicea o ad Ancira, l'imperatore decise per due concili paralleli, uno per l'oriente da celebrare ad Antiochia di Caria (Asia Minore) e uno per l'occidente da celebrare a Rimini. La decisione di sdoppiare il concilio, facilmente giustificabile con motivazioni di comodo data l'opportunità di evitare di spostare dall'occidente in oriente un ingente numero di vescovi, era stata probabilmente ispirata a Costanzo dagl'influenti vescovi illirici Valente di Mursa e Ursacio di Singidunum (odierna Belgrado), da sempre avversi al partito niceno, i quali temevano il concentramento degli occidentali, poco edotti della materia in discussione ma che si sapevano in grande maggioranza ostili ad Ario, con gli orientali, più frammentati dottrinalmente, in gran parte antiniceni ma anche antiariani e in buon numero perfettamente in grado di affrontare i termini dottrinali del contrasto. Non sappiamo per qual motivo la scelta delle sedi sia caduta su due città un po' fuori di mano, decentrate rispetto a quelle che erano allora le comunità più importanti della cristianità. La spiegazione che possiamo suggerire è che, nella previsione di svolgimento non pacifico dei lavori dei concili, si preferì farli svolgere in sedi tali che i funzionari imperiali incaricati di sorvegliare l'andamento dei lavori fossero in grado di tenere più agevolmente la situazione sotto controllo. Il concilio si aprì a Rimini verso la fine di maggio del 359. Erano presenti più di 400 vescovi convenuti da tutte le parti dell'occidente. Era completamente assente la sede romana, in quanto il cedimento di Papa Liberio, che esiliato in Tracia si era piegato a sottoscrivere sia la condanna di Atanasio sia la formula di fede di Sirmio del 357, la più esposta in senso filoariano, ne aveva azzerato il prestigio in tutto il mondo cristiano. In apertura fu letta una lettera di Costanzo in data 27 maggio 359 nella quale prescriveva che, terminati i lavori, una delegazione di padri conciliari andasse da lui per incontrarsi con omologa delegazione dei vescovi orientali, e rendeva noto che nessuna delibera avrebbe avuto validità senza la sua approvazione. Era più che evidente, insieme con la riaffermazione dell'assoluto potere che l'imperatore riteneva di poter esercitare anche sul concilio ecumenico, massima espressione della gerarchia della Chiesa, l'invito a espletare rapidamente i lavori sulla base della professione di fede del 22 maggio del 358, la cui approvazione fu infatti richiesta, all'apertura dei lavori, da Valente e Ursacio, i capiparte dell'episcopato antiniceno presente al concilio, circa ottanta vescovi. Ma la proibizione di far uso del termine ousìa ("sostanza") era di significato chiaramente antiniceno, mentre l'orientamento prevalente dei padri conciliari, estraneo alla complessità dottrinale prevalente in oriente e ostile all'arianesimo, era a favore proprio del simbolo niceno. Perciò la proposta di Valente e Ursacio fu respinta, i due furono oggetto di violenti attacchi e dopo vari giorni di discussione, sulla quale non siamo ragguagliati ma che ipotizziamo tutt'altro che serena e distesa, si giunse all'approvazione di una dichiarazione che ribadiva la validità del credo niceno, respingeva la proibizione relativa al termine ousìa, e prescriveva che non si innovasse più in materia di fede. Ne conseguì l'abbandono della chiesa nella quale si svolgevano i lavori del concilio, da parte di Valente e Ursacio con i loro partigiani, che continuarono a riunirsi per conto loro in un oratorio. Il 21 luglio, su proposta di Greciano, vescovo di Cagli, il concilio condannò Valente, Ursacio e altri capiparte avversari e ribadì la condanna delle fondamentali proposizioni ariane, in termini per altro a volte tali da far intendere che alla maggioranza dei padri conciliari erano rimaste estranee alcune sottigliezze della terminologia in uso tra gli antiariani d'oriente. Considerati terminati i lavori, il concilio inviò a Costantinopoli una delegazione di venti membri. Valente e Ursacio erano stati più solleciti a raggiungere l'imperatore a Costantinopoli e lo avevano ragguagliato sui risultati del concilio, che non erano stati certo quelli che egli aveva auspicato: in effetti il rifiuto della formula del 22 maggio e soprattutto la riaffermazione del simbolo niceno collocavano l'episcopato occidentale su una linea dottrinale che lo poneva in contrasto non soltanto con i fautori, più o meno scoperti, dell'arianesimo, ma anche con gran parte dell'episcopato d'oriente, antiariano ma anche antiniceno, sì che qui i niceni erano ridotti a ben poca cosa, concentrati soprattutto in Egitto. Era ovvio che Costanzo non potesse accettare l'esito del concilio: rifiutò di ricevere la delegazione inviatagli e la fece sostare ad Adrianopoli, non lontano dalla capitale, in attesa del suo beneplacito. Nel contempo scrisse ai padri conciliari che erano rimasti a Rimini, spiegando che altre esigenze primarie non gli avevano consentito di ricevere la delegazione inviatagli e che, nell'attesa, nessuno dei presenti a Rimini era autorizzato ad abbandonare la città. Successivamente la delegazione fu trasferita da Adrianopoli a Nike, piccola stazione postale della Tracia, dove quei derelitti furono sottoposti a un vero e proprio lavaggio del cervello a opera di Valente, Ursacio e soci, abili ad alternare sottili disquisizioni dottrinali con concrete minacce e a farsi forti del favore dell'imperatore. E in data 10 ottobre 359 la resa fu sanzionata dall'approvazione di un protocollo. Mentre a Nike si svolgevano questi drammatici fatti, il 27 settembre aveva avuto inizio il concilio di Antiochia di Caria, al quale presero parte circa 160 vescovi. Nel giro di pochi giorni furono rifiutati a gran maggioranza non solo l'homooùsios niceno ma anche la formula di fede del 22 maggio, e fu riesumata la formula di fede di Antiochia del 341, un testo orientale che affermava la piena divinità di Cristo, di tono origenianamente arcaizzante, che taceva dell'homooùsios niceno ma condannava le proposizioni fondamentali della dottrina ariana. Nel frattempo, ritornata a Rimini la delegazione col protocollo della resa, si era nuovamente riunito il concilio. Inizialmente i padri conciliari, che erano rimasti nella città, rifiutarono la loro comunione ai firmatari della resa, ma in seguito, sollecitati e pressati da Valente, Ursacio e i loro partigiani, impauriti dalla dichiarazione del funzionario imperiale, il prefetto Tauro, che per ordine di Costanzo nessuno dei partecipanti al concilio sarebbe potuto ritornare a casa propria se prima non avessero sottoscritto tutti quel protocollo, a poco a poco cominciarono, chi prima chi dopo, a cedere e a sottoscrivere una professione di fede che, semplificata, ricalcava i termini del protocollo di resa. A questo punto, pur pressati dagli avversari e dai colleghi che, anche se avevano sottoscritto, non potevano tornare a casa, resistevano tenacemente una ventina di vescovi, capitanati dai vescovi della Gallia Febadio di Agen e Servazio di Tongres. Allora Valente propose un compromesso che, in quel disperato frangente, sembrò accettabile a Febadio: purché sottoscrivesse, gli si dette facoltà di aggiungere a titolo personale i chiarimenti che desiderasse. Non restava che comunicare all'imperatore il definitivo esito del concilio. Ne fu incaricata una nuova delegazione, capitanata questa volta dagli onnipresenti Valente e Ursacio. Le ultime sottoscrizioni si ebbero nella notte del 31 dicembre, sì che Costanzo potesse cominciare l'anno nuovo, con cui iniziava il suo decimo consolato, gloriandosi della recuperata pace religiosa dell'impero. Durante i tanti anni intercorsi dal 325, data del concilio di Nicea, al 359, i termini del contrasto tra la fede nicena e la dottrina ariana erano stati ampiamente approfonditi, inizialmente soltanto in oriente, ma successivamente, per opera di dottori quali Ilario, Mario Vittorino, Febadio di Agen, anche in occidente. Era evidente che, di fronte a un tale approfondimento dottrinale dei termini del contrasto in opposte direzioni, una soluzione di esso soltanto formale e di significato politico appariva insufficiente. Ecco perché gli esiti dei concili di Rimini e di Costantinopoli furono allora avvertiti da tutti come una vera e propria grande vittoria dell'arianesimo. Era stato invece il trionfo di Costanzo, e l'imperatore si accinse subito a consolidare il risultato raggiunto, imponendo la sottoscrizione della professione di fede riminese a tutti indistintamente i vescovi della cristianità. Ma non gli fu concesso di insistere a lungo in questa opera di consolidamento. Infatti di lì a poco l'occidente gli si ribellò acclamando imperatore Giuliano, che era suo cugino ma di idee radicalmente diverse dalla sue; egli stesso, prima di arrivare allo scontro decisivo, a seguito di breve malattia morì il 3 novembre del 361, dopo aver nominato in punto di morte suo erede Giuliano: questa morte inopinata e repentina consentì agli sconfitti di Rimini di riaprire le ostilità vanificando gli esiti del concilio». (Manlio Simonetti, ©L'Osservatore Romano, 6 dicembre 2009)
Un nuovo telescopio che punti sul senso delle cose
Si è svolto nei giorni scorsi a Roma un congresso internazionale organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze e dalla Pontificia Università Lateranense sul tema "1609-2009. From Galilei's telescope to evolutionary cosmology. Science, philosophy and theology in dialogue". Pubblichiamo un estratto dall'intervento dell'arcivescovo rettore della Lateranense, mons. Rino Fisichella. Una concezione cosmologica moderna procede a mostrare l'universo non solo secondo i dati che acquisisce sperimentalmente - per quanto le sia possibile - ma anche elaborando teorie che hanno una valenza tipicamente antropologica. Materia, spazio-tempo, movimento, causalità non sono estranei all'autocomprensione che l'uomo ha di sé e di quanto lo circonda. Le leggi che la cosmologia produce in riferimento all'universo non possono essere semplicemente identificate con tutto ciò che accade in esso; sarebbe un'identificazione gratuita e per nulla scientifica perché impossibile di verifica. Solo per esemplificare assumo la concezione di alcuni astrofisici secondo i quali i fenomeni di formazione stellare dureranno ancora per circa cento miliardi di anni, dopo i quali l'"era delle stelle" inizierà a declinare, in un periodo compreso fra dieci e cento billioni di anni, quando le stelle più piccole e longeve dell'universo, le deboli nane rosse termineranno il loro ciclo vitale. A conclusione dell'era delle stelle, le galassie saranno composte solo da oggetti compatti: nane brune, nane bianche, tiepide o fredde (nane nere), stelle di neutroni e buchi neri, così da giungere alla cosiddetta "era degenere" dell'universo. Alla fine, come risultato della relazione gravitazionale, tutte le stelle potrebbero precipitare all'interno del buco nero supermassiccio centrale, oppure potrebbero essere scagliate nello spazio intergalattico in seguito a collisioni. Questa visione, benché lontana nel tempo, è pura teoria e, comunque, evidenzia che si giunge a una fine alla quale si deve dare una risposta. L'uomo posto dinnanzi alla fine del proprio mondo non può soprassedere come se nulla fosse o come se la questione non lo toccasse in prima persona. Ha necessariamente bisogno di dare anche a una teoria come questa la sua interpretazione perché - piaccia o no - riporta alla questione fondamentale del senso. Qui entra in gioco direttamente anche la teologia. Il sapere teologico non è fermo alla visione biblica della creazione del mondo. Il teologo sa che questa pagina è pur sempre soggetta a interpretazione perché esprime una modalità attraverso cui l'autore sacro ha messo a disposizione la propria conoscenza del momento. In questa prospettiva, è il caso di fare un accenno a sant'Agostino, il quale con la lungimiranza e profondità del suo pensiero permane ancora ai nostri giorni come un vero maestro di sapienza. È sufficiente andare a un testo poco conosciuto quale il De Genesi ad litteram per comprendere il rapporto che Agostino intuiva si dovesse avere con la scienza proprio sulle questioni cosmologiche. Egli critica i cristiani che su questioni "scientifiche" si rifanno ai testi sacri interpretandoli alla lettera e afferma che tale metodologia è un danno sia per la corretta interpretazione della Sacra Scrittura sia per la credibilità della fede: "Accade infatti assai spesso che, riguardo alla Terra, al cielo, agli altri elementi di questo mondo, al moto e alla rivoluzione o anche alla grandezza e distanza degli astri, intorno alle eclissi del Sole e della Luna, al ciclo degli anni e delle stagioni, alla natura degli animali, delle piante, delle pietre e di tutte le altre cose di tal genere, anche un pagano abbia tali conoscenze da sostenerle con ragionamenti indiscutibili e in base a esperienza personale. Orbene, sarebbe una cosa assai vergognosa e dannosa e da evitarsi a ogni costo, se quel pagano sentisse (un cristiano) parlare di questi argomenti conforme - a suo parere - al senso delle Scritture cristiane dicendo invece tali assurdità che, vedendolo sbagliarsi per quanto è largo il cielo, non potesse trattenersi dal ridere. Ma è spiacevole non tanto il fatto che venga deriso uno che sbaglia, quanto il fatto che da estranei alla nostra fede si creda che i nostri autori sacri abbiano sostenuto tali opinioni e, con gran rovina di coloro, della cui salvezza noi ci preoccupiamo, vengano biasimati come ignoranti e rigettati". Come si nota da questa semplice esemplificazione la nostra grande tradizione di sapienza è in sintonia con l'autentico progresso scientifico e con il coerente rapporto tra fede e ragione. Quando venne a mancare questa sintonia e il teologo cadde nella trappola della sola spiegazione razionale, allora iniziarono guai seri per la stessa credibilità dei contenuti della fede. Per ritornare alla nostra questione, ciò che permane immutato è certamente per noi l'atto creativo di Dio che tenta di dare risposta alla domanda: perché esiste qualcosa e non il nulla? L'universo intero, nella sua pienezza è opera di un progetto del Creatore che liberamente pone in essere così che tutto dipende da lui perché è il fondamento dell'intera creazione. La comprensione di un Dio personale che ama e per questo dal nulla pone in essere il creato, al culmine del quale colloca l'uomo, è una risposta che non annulla la conoscenza modificata dell'universo, al contrario. In essa la teologia vede la necessità di comprendere come sia possibile parlare di materia, di energia e di divenire a cui è necessario dare un fondamento e questo, per la fede, è solo Dio. Come ha detto Benedetto XVI nel Messaggio che ha rivolto a questo congresso: "Al di là probabilmente delle sue intenzioni, la scoperta dello scienziato pisano permetteva anche di risalire indietro nel tempo, provocando domande circa l'origine stessa del cosmo e facendo emergere che anche l'universo, uscito dalle mani del Creatore, ha una sua storia (...) Anche oggi l'universo continua a suscitare interrogativi a cui la semplice osservazione, però, non riesce a dare risposta soddisfacente. L'analisi dei fenomeni, infatti, se rimane rinchiusa in se stessa rischia di far apparire il cosmo un enigma insolubile". Qualcosa, insomma, sfuggirà sempre e non sarà capace di soddisfare pienamente la mente che vuole interrogare circa l'origine e la fine. Rimangono a nostro avviso cariche di significato le parole che Giovanni Paolo II rivolgeva proprio agli scienziati quando, a conclusione della sua Fides et ratio scriveva: "Non posso non rivolgere una parola anche agli scienziati, che con le loro ricerche ci forniscono una crescente conoscenza dell'universo nel suo insieme e della varietà incredibilmente ricca delle sue componenti, animate e inanimate, con le loro complesse strutture atomiche e molecolari. Il cammino da essi compiuto ha raggiunto, specialmente in questo secolo, traguardi che continuano a stupirci. Nell'esprimere la mia ammirazione e il mio incoraggiamento a questi valorosi pionieri della ricerca scientifica, ai quali l'umanità tanto deve del suo presente sviluppo, sento il dovere di esortarli a proseguire nei loro sforzi restando sempre in quell'orizzonte sapienziale, in cui alle acquisizioni scientifiche e tecnologiche s'affiancano i valori filosofici ed etici, che sono manifestazione caratteristica e imprescindibile della persona umana. Lo scienziato è ben consapevole che la ricerca della verità, anche quando riguarda una realtà limitata del mondo o dell'uomo, non termina mai; rinvia sempre verso qualcosa che è al di sopra dell'immediato oggetto degli studi, verso gli interrogativi che aprono l'accesso al Mistero". In una parola, la domanda di senso permane comune alle tre scienze con le quali ci stiamo confrontando. È questa che merita di essere posta alla base per ritrovare un denominatore comune che, pur lasciando ognuna nella peculiarità della propria ricerca e metodologia, le unisce nel tentativo di mettere insieme i risultati raggiunti per sfociare in una visione d'insieme. Per paradossale che possa sembrare, dinnanzi alla permanente domanda sul senso della vita e del creato, è giunto il momento di scoprire un nuovo telescopio che sappia focalizzare in maniera coerente la risposta che soddisfi l'esigenza umana senza rinviare sempre oltre, verso ipotesi che possono affascinare senza giungere a una risposta definitiva. Ripensare la vita, questa è la grande sfida che deve unire tutti per dare una risposta carica di senso al perché del cosmo e, soprattutto, dell'uomo in esso. (Rino Fisichella, ©L'Osservatore Romano, 6 dicembre 2009)
Un mondo d’intolleranza: dilaga la cristianofobia
C’è un popolo, un grande e immenso popolo che ogni giorno vede aumentare la sua sofferenza in quanto gli viene negato un diritto fondamentale, quello della libertà religiosa. È un popolo che raramente fa notizia, salvo alcuni casi eclatanti. È più vasto di una nazione e non è circoscritto a un’etnia particolare. Sono i cristiani perseguitati nel mondo, un’emergenza sempre più grave di cui solo recentemente opinione pubblica e autorità politiche hanno iniziato ad accorgersi. Discriminazioni, minacce, violenze e uccisioni nei riguardi dei cristiani hanno registrato un’escalation impressionante in Medio Oriente, in India e in molti altri Paesi. Ma il nostro è un tempo che divora rapidamente tutto e poi tende a dimenticare, a girar pagina. C’è chi invece si prende cura di raccoglierle una per una, presentandoci un bilancio completo e dettagliato delle persecuzioni dei cristiani. Si tratta del "Rapporto sulla libertà religiosa" che viene pubblicato ogni anno dall’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre. Nel Rapporto 2009, diffuso ieri, si afferma che «il 75 % delle persecuzioni religiose colpisce le comunità dei cristiani». La presenza di questi fedeli, circa due miliardi di persone in tutto il pianeta, cresce soprattutto nei Paesi del Terzo Mondo. Ed è proprio in queste aree che stanno aumentando in modo allarmante gli episodi d’intolleranza, spesso violenta e sanguinosa, contro i seguaci di Cristo, vittime inermi dell’odio e del fanatismo. Accanto alle misure oppressive basate sull’ideologia ateista contraria a ogni religione, come ad esempio avviene nella Cina comunista, si sta allargando il fronte di quei Paesi dove si sono imposte ideologie che dicono sì ad un’unica religione, escludendo o limitando fortemente l’esercizio delle altre, qualificate come straniere o addirittura nemiche dell’identità nazionale. La situazione più preoccupante è quella dell’Iraq dove «il futuro del cristianesimo è minacciato in maniera massiccia» e la comunità dei credenti, segnata da una lunga scia di sangue, può essere definita «una vera e propria Chiesa di martiri». Qualche miglioramento viene segnalato in India, nella regione dell’Orissa, teatro di pogrom anti-cristiani culminati nell’estate dello scorso anno. Ma le persecuzioni si sono fatte più intense in Pakistan, in Nigeria e anche in Egitto. Perfino in America Latina, continente tradizionalmente cristiano, ci sono caudillos che agiscono contro la Chiesa cattolica. Ne risulta che oggi il cristianesimo è la religione più perseguitata nel mondo. Siamo di fronte a una "cristianofobia" che dovrebbe essere combattuta «almeno con la stessa determinazione con cui si condannano l’antisemitismo e l’islamofobia», come aveva ammonito qualche tempo fa il segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, monsignor Dominique Mamberti. Ne ha preso atto finalmente anche l’Unione Europea che, in concomitanza con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha riaffermato il suo impegno a combattere tutte le forme d’intolleranza legate alla fede e a tutelare «le minoranze religiose». Un impegno che acquista ancor più significato nel contesto di quella sottile strategia di svuotamento della tradizione cristiana che ha ispirato la recente sentenza della Corte di Strasburgo. C’è chi preferisce eliminare i simboli religiosi in casa propria chiudendo gli occhi di fronte al tentativo di cancellare la realtà delle minoranze cristiane in molte parti del mondo. Parlano di libertà ma dimenticano che quella religiosa rappresenta il primo e fondamentale diritto dell’uomo. Siamo ancora capaci di un sussulto corale d’indignazione quando viene calpestata? (Luigi Geninazzi, Avvenire, 9 dicembre 2009)
È proprio vero che con Dio o senza Dio cambia tutto? Parliamone
Il sottotitolo del convegno Dio oggi, organizzato dal Progetto culturale della Chiesa italiana a Roma nella settimana 7-12 dicembre 2009, non potrebbe essere più esplicito: Con Lui o senza di Lui cambia tutto. Nel dialogo ad ampio spettro che vi avrà luogo – esteso dall’arte alla filosofia alla politica al diritto – la Chiesa, proseguendo l’ambizioso progetto ideato da Camillo Ruini e sostenuto dagli ultimi due pontefici, si presenta con una tesi forte, che racchiude un’interpretazione dell’intero mondo umano. Alla luce di questo appuntamento la cultura cattolica appare oggi intenzionata, come non mai, a confrontarsi ad armi pari con le più varie espressioni dell’intellettualità cosiddetta “laica”, o per meglio dire non religiosa. Con quali argomentazioni si può oggi sostenere che, se si accetta o meno l’esistenza di Dio, “cambia tutto” nella scienza, nella società e nelle istituzioni umane? La confidenza che emerge in quest’approccio intellettuale deriva, a mio avviso, da due elementi di fondo venuti alla luce con grande chiarezza tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Da un lato, la Chiesa e la cristianità constatano come tutte le ideologie e filosofie della storia secolariste – fondate sulla negazione di un punto di riferimento trascendente per la conoscenza della realtà e nutrite dalla promessa di instaurare il paradiso in terra – si siano trasformate una dopo l’altra in un rovinoso cumulo di macerie, lasciando in loro vece soltanto una inconcludente, smarrita babele nichilista/relativista, senza più nessun collante culturale in grado di giustificare il consorzio sociale, il principio di autorità, i poteri, le istituzioni, le relazioni di diritti e doveri. Dall’altro, specularmente, proprio in mezzo a queste macerie la Chiesa ha tratto le forze per recuperare piena fiducia in un’articolazione razionale della fede: superando tanto la rigidità della vecchia impostazione scolastica quanto le incertezze di un esistenzialismo religioso troppo confondibile con il secolarismo e le ideologie novecentesche, in direzione di una nuova, vera e propria filosofia politica e giuridica cristiana, riconnessa però alle primarie radici religiose del giusnaturalismo e del costituzionalismo moderni. Nel contesto di questa nuova pagina della sua storia va interamente collocata la genesi del “progetto” ruiniano. Progetto concepito in un’epoca in cui era già tramontato lo scenario internazionale della guerra fredda ed avanzava una globalizzazione che però i cattolici percepivano già con chiarezza come culturalmente acefala (si veda al proposito il monito lanciato già nel 1979 da Giovanni Paolo II con l’enciclica Redemptor hominis, in cui i temi etico-politici venivano ricondotti prepotentemente alla centralità della persona umana contro l’astrattezza dei conflitti ideologici). E nell’evoluzione del quale un ruolo determinate è stato svolto proprio da Joseph Ratzinger: prima come esponente di spicco della nuova teologia, poi come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, infine come pontefice fermamente intenzionato a ristabilire una connessione organica tra prospettiva cristiana, interpretazione razionale della realtà, approccio universalistico al dialogo sui fini ultimi e sui princìpi irrinunciabili della convivenza umana. La misura di quella svolta si può oggi ritrovare pienamente in considerazioni come quelle che Ratzinger esponeva nella conferenza del 1991 L’elogio della coscienza, recentemente pubblicata in italiano dalla Cantagalli: dove egli puntava al cuore della contraddizione insita nella concezione secolarista e soggettivista del libero arbitrio, affermando l’infondatezza di qualsiasi appello alla sovranità della coscienza individuale, se non a partire da un suo riferimento ad una nozione condivisa e condivisibile di verità. E gli esiti maturi di essa si possono riconoscere nell’autorevolezza con cui il Pontefice, in un discorso come quello tenuto appena l’altro ieri in occasione della festività dell’Immacolata, può ricordare alla società civile mondiale che “c'è […] in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto”, proprio in quanto “nel cuore di ognuno di noi passa il confine tra il bene e il male”. In una prospettiva analoga, lo stesso Ruini può oggi lanciare l’offensiva culturale e politico-culturale sintetizzata nel titolo del convegno di Roma, così come in quello del suo prossimo volume, Il caso serio di Dio; affermando tra l’altro, come nell’intervista rilasciata al “Corriere della sera” del 2 dicembre scorso, che “se non c’è Dio, l’uomo è soltanto una particella della natura, manipolabile come tutto il resto. Si perde così il riferimento principe della vita sociale, l’idea che l’uomo, come diceva Kant, è sempre un fine a cui tendere e non un mezzo”. A questa consolidata articolazione di pensiero la cultura che si autodefinisce, per mancanza di specificazioni, “laica” tende attualmente a rispondere soltanto con la stanca riproposizione di un’ideologia scientistica/positivistica, nutrita essenzialmente dalla mitizzazione di nuove e più formidabili scoperte tecnologiche in grado di allungare la vita umana, e di renderla “dolce”, priva di dolore, consegnata al culto soggettivistico del desiderio e della “realizzazione” personale. Incapace ormai di articolare visioni complessive del senso della storia e della civiltà, essa si riduce a divinizzare quella “coscienza” individuale irrelata, banalizzata in un puerile gioco di “mi piace” e “non mi piace”, di cui Ratzinger aveva svelato l’intima fallacia. E, parimenti, a divinizzare le istituzioni politiche e giuridiche come presidio contro la sopraffazione, senza riuscire a legittimarle in altro modo che attraverso un astratto, idolatrico culto della “legalità”, ormai slegata da qualsiasi senso forte di giustizia. Inabile a cogliere la struttura di pensiero del nuovo umanesimo cristiano, essa non è in grado né dignitosamente di accettarlo, come dovrebbe, quale base irrinunciabile di una cultura dei diritti e delle libertà soggettive nelle società di massa; né di rivendicare con orgoglio la superiorità del nichilismo, se non negandone aprioristicamente l’esito obbligato di una divinizzazione della forza e della legge del più forte. Si riduce, perciò, per lo più a vituperare la Chiesa per le “clericali” invasioni di campo quando essa si esprime su temi biopolitici; per poi incoerentemente, subito dopo, applaudire i suoi pronunciamenti su temi come l’immigrazione o la solidarietà sociale. Senza comprendere l’intima coerenza culturale che unisce quelle posizioni: l’impensabilità di un’etica e di un diritto non fondati sull’amore per le persone umane nella loro preziosa, irripetibile unicità, data dalla loro condizione di creature. (Eugenio Capozzi, L’Occidentale, 10 dicembre 2009)
Anima e destino il ritorno di due parole tabù
Finalmente si torna a parlare dell'anima, anche in ambito filosofico e teologico, dopo che questo termine, a vari livelli e per diversi motivi, sembrava destinato a essere dimenticato o bandito: i motivi parevano tanti e certamente non privi di una qualche plausibilità. Da un lato, il confronto con la ricerca scientifica, e in particolare con i metodi e i risultati delle neuroscienze, ha indotto a parlare della mente, la cui ammissione risultava, peraltro, già assai problematica di fronte alla pretesa di molte impostazioni fisicaliste, secondo cui la stessa mente sarebbe superflua, giacché la struttura del cervello sarebbe sufficiente a spiegare le cosiddette attività superiori degli esseri umani, come la conoscenza, i sentimenti, gli atti di volontà. D'altro lato, sul versante più propriamente teologico, le critiche da molte parti avanzate contro il processo di ellenizzazione del cristianesimo hanno spinto a tornare a una lettura fedele al testo biblico, mirante a salvaguardarne la peculiarità linguistica e culturale, che sarebbe stata insidiata o cancellata dalla concettualizzazione greca, in particolare di ispirazione platonica: ne sarebbe risultato un dualismo nella concezione antropologica, una visione dell'anima come sostanza autonoma e separata dal corpo e una sua destinazione intrinseca all'immortalità, contro una prospettiva unitaria, più autenticamente scritturistica, in cui la dominante dinamica soteriologica ed escatologica sarebbe determinata dall'azione di Dio e l'esito finale consisterebbe nella risurrezione del corpo. Infine, ad accrescere la diffidenza verso l'anima, anche da parte filosofica, in epoca contemporanea, si muoveva il rilievo che un tale concetto sarebbe proprio della teologia, implicherebbe un contesto di fede rivelata e sarebbe, in qualche modo, estraneo a una considerazione prettamente razionale; per caratterizzare la peculiarità dell'uomo si preferiva ricorrere alle nozioni di coscienza, sia pure incarnata, di io, di spirito o anche di persona. Inoltre, la dimensione trascendentale talora veniva interpretata secondo una curvatura universalistica, in cui la peculiarità del singolo individuo, conoscente, agente e volente, rischiava di andare smarrita. Di recente sono apparsi numerosi testi, di diversa impostazione e differente prospettiva, che pongono al centro l'anima, per indagarne criticamente il "destino", cioè sia per capire se un tale concetto può resistere alle sfide lanciate dalle neuroscienze, sia per interrogarsi su ciò che attende l'uomo dopo la morte e in che senso si possa parlare di una vita futura. Quest'ultima domanda, al di là di tante infatuazioni di marca orientaleggiante che alludono a forme possibili di reincarnazione, nella prospettiva cristiana, intende approfondire, in termini attuali e concettualmente adeguati, il tema dei novissimi, che talora appare un po' trascurato nella riflessione teologica e nelle proposte pastorali. Si tratta certamente di testi che hanno peso e valore assai diversi, ma sono comunque significativi, poiché rimettono al centro dell'indagine filosofica e teologica un concetto, che non solo ha avuto una storia complessa, ricca e feconda nella cultura occidentale, ma tuttora sembra rivestire un'importanza e un ruolo particolari. Solo per alludere a un esempio, molte questioni di natura bioetica relative all'inizio e alla fine della vita, che tanto angustiano le discussioni di questi anni, possono essere meglio affrontate partendo proprio da un'adeguata concezione dell'anima e certe soluzioni o certi vincoli possono essere proposti e giustificati in modo plausibile solo facendo riferimento a una dimensione dell'uomo, la quale può rinvenire nell'anima una collocazione teoricamente soddisfacente. Certamente alcune precisazioni sono necessarie: spesso il richiamo all'anima è servito, sia nella riflessione filosofica, sia, soprattutto, nelle mediazioni del senso comune, a veicolare una prospettiva antropologica dualistica, quasi che anima e corpo siano due sostanze separate, capaci di coesistere nell'essere umano, ma eterogenee e legate da una relazione solo esterna ed estrinseca. In tal modo, diventa assai arduo individuare le modalità del legame tra esse e spiegare i fenomeni che attestano un'influenza reciproca; inoltre, indulgendo a una concezione cartesiana, si riserva all'anima l'intera componente spirituale dell'uomo, mentre il corpo, inteso nella sua autonomia quasi fosse una macchina, si esaurisce nell'esclusiva dimensione materiale, cosicché potrebbe legittimamente essere sottoposto a tutte le trasformazioni rese possibili dalla moderna tecnologia. Un'interpretazione ispirata alla prospettiva di Aristotele e Tommaso, che salvaguardi anche la peculiarità e l'originalità del secondo rispetto al primo, va, invece, in un'altra direzione, che oggi trova numerosi riscontri in diverse impostazioni olistiche e sistemiche della ricerca. Qui l'uomo è concepito come un ente strutturalmente unitario, in cui l'anima è l'unica forma, vale a dire è principio dell'essere e dell'attività complessiva, stratificata a diversi livelli gerarchicamente ordinati e connessi; e il corpo non va inteso come la materia della moderna fisica, privo di determinazioni qualitative, ma, proprio in quanto animato, come Leib, è tale solo grazie alla sua conformazione ottenuta tramite l'anima. E tale forma, che, da un lato, è totalmente intrinseca alla corporeità, dall'altro, sporge rispetto a essa e la trascende, avendo una sua autonomia ontologica, attestata da certe particolari attività (come la conoscenza astratta e la libertà) e possedendo, poi, un destino ulteriore a quello della vita fisica. Alcune acute riflessioni teologiche recenti vedono in una tale concezione dell'anima anche un presupposto teorico valido a rendere comprensibile la risurrezione, proprio perché garantisce l'originalità dell'uomo rispetto alla creazione e la sua disponibilità a cogliere e accogliere l'invito di Dio. (Michele Lenoci, ©L'Osservatore Romano, 10 dicembre 2009)
6 dicembre 2009
I cattolici pro aborto si pongono in una situazione oggettiva di peccato
L'aborto è stato uno degli argomenti principali della 94ª riunione dell'Assemblea Plenaria della Conferenza Episcopale Spagnola (CEE), svoltasi a Madrid (Spagna) dal 23 al 27 novembre. Al riguardo, i presuli hanno affermato che i cattolici favorevoli a questa pratica medica si pongono in una situazione oggettiva di peccato. I Vescovi hanno anche annunciato la prossima pubblicazione di due documenti: uno relativo alla crisi economica, l'altro rivolto ai sacerdoti. L'Assemblea è stata inaugurata il 23 novembre con il discorso del presidente, il Cardinale Rouco Varela, seguito dall'intervento del Nunzio Apostolico in Spagna, monsignor Renzo Fratini, che nel suo saluto ha chiesto di valorizzare la storia del Paese, che ha saputo esprimere la fede nella cultura nel corso dei secoli. “Le radici cristiane sono lì – ha sottolineato –. Dobbiamo essere ottimisti e positivi, e soprattutto non dimenticare che è Dio che con la sua Provvidenza amorevole muove i fili della storia. In Cristo non può mancarci la speranza”. L'Assemblea si è conclusa mentre la Camera dei Deputati iniziava il dibattito sul “Disegno di Legge Organica sulla salute sessuale e riproduttiva e sull'interruzione volontaria di gravidanza”, che in seguito ha superato la prima votazione alla Camera. Di fronte a un tema così rilevante per la società spagnola, i Vescovi hanno presentato varie considerazioni. In primo luogo, raccomandano chiaramente la lettura della Dichiarazione della Commissione permanente, datata 17 giugno scorso e intitolata “Sul disegno di legge sull'aborto: attentare contro la vita dei concepiti trasformato in 'diritto'”. In secondo luogo, ricordano che il disegno di legge, come dice la Dichiarazione, “rappresenta un serio passo indietro rispetto all'attuale legislazione depenalizzatrice, già di per sé ingiusta”. “Nessuno che segua gli imperativi della giusta ragione può approvare o votare questo disegno di legge – aggiungono –. In particolare, i cattolici devono ricordare che se lo fanno si pongono pubblicamente in una situazione oggettiva di peccato, e finché dura questa situazione, non potranno essere ammessi alla Santa Comunione”. In terzo luogo, affermano che “noi cattolici siamo per il 'sì' alla vita degli esseri umani innocenti e indifesi che hanno il diritto di nascere; per il 'sì' a un'adeguata educazione affettivo-sessuale che formi all'amore vero; per il 'sì' alla donna in gravidanza, che deve essere efficacemente sostenuta nel suo diritto alla maternità; per il 'sì' a leggi giuste che favoriscano il bene comune e non confondano l'ingiustizia con il diritto”. I pastori hanno ripreso in questa Plenaria il dialogo sulla crisi morale ed economica, alla luce dell'Enciclica di Benedetto XVI "Caritas in Veritate". Come frutto dei loro lavori, hanno approvato una Dichiarazione che verrà pubblicata prossimamente in cui sottolineano come in questo momento di gravi difficoltà economiche e sociali per tante famiglie sia necessario trasmettere una parola di solidarietà e speranza. La crisi, segnalano nella Dichiarazione, deve essere affrontata principalmente a partire dalle sue vittime, e con un giudizio morale che permetta di trovare la via adeguata per la sua risoluzione. In sintonia con l'Enciclica "Caritas in veritate", i Vescovi pongono l'accento sulla necessità di aspirare a uno sviluppo integrale, che non può essere raggiunto senza Dio. Sempre nella Dichiarazione fanno riferimento, tra gli altri, ai giovani, alle famiglie e a collettività come quelle dei migranti, che risentono particolarmente della crisi, e si dicono preoccupati della situazione soprattutto alla luce della Riforma sulla Legge sugli Stranieri recentemente approvata dal Parlamento. Per i presuli, la crisi deve essere un'occasione di discernimento e di azione di speranza. Per questo, esortano tutti, soprattutto le comunità cristiane, a continuare a condividere i propri beni con le vittime della crisi. A tale riguardo, la CEE ha deciso, come l'anno scorso, di consegnare alla Caritas una percentuale del Fondo Comune Interdiocesano, che in questa occasione è pari all'1,5%. Un altro tema centrale è stato rappresentato dalla riflessione e dal dialogo sull'esercizio del sacerdozio oggi in Spagna. L'Assemblea ha approvato un “Messaggio dei Vescovi della Conferenza Episcopale Spagnola ai sacerdoti in occasione dell'Anno Sacerdotale”, che verrà reso pubblico prossimamente. (Zenit, 30 novembre 2009).
Il Papa al convegno “Dal telescopio di Galileo alla cosmologia evolutiva”
Pubblichiamo di seguito il messaggio inviato da Benedetto XVI in occasione del convegno “Dal telescopio di Galileo alla cosmologia evolutiva. Scienza, Filosofia e teologia in dialogo”, inaugurato questo lunedì alla Pontificia Università Lateranense: «Al Venerato Fratello Mons. Rino Fisichella, Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense. Sono lieto di rivolgere il mio saluto a tutti i partecipanti al Congresso internazionale sul tema Dal telescopio di Galileo alla cosmologia evolutiva. Scienza, Filosofia e Teologia in dialogo. Lo porgo in modo particolare a Lei, Venerato Fratello, che si è fatto promotore di questo importante momento di riflessione, nel contesto dell'«Anno Internazionale dell'Astronomia», per celebrare il quarto centenario della scoperta del telescopio. Il mio pensiero va anche al Prof. Nicola Cabibbo, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, che ha collaborato nella preparazione della presente Assise. Saluto cordialmente le personalità venute da diversi Paesi del mondo, che, con la loro presenza, qualificano queste giornate di studio. Quando si apre il Sidereus nuncius e si leggono le prime espressioni di Galileo, traspare subito la meraviglia dello scienziato pisano dinanzi a quanto lui stesso aveva compiuto: «Grandi cose — egli scrive — in questo breve trattato propongo all'osservazione e alla contemplazione degli studiosi della natura. Grandi, dico, sia per l'eccellenza della materia in se stessa, sia per la novità mai udita nei secoli, sia anche per lo strumento attraverso il quale queste stesse cose si sono manifestate al nostro senso» (Galileo Galilei, Sidereus nuncius, 1610, tr. P.A. Giustini, Lateran University Press 2009, p. 89). Era l'anno 1609 quando Galileo puntò per la prima volta verso il cielo uno strumento «da me escogitato — come scriverà — illuminandomi prima la grazia divina»: il telescopio. Quanto si presentò al suo sguardo è facile immaginarlo; la meraviglia si trasformò in emozione e questa in entusiasmo che gli fece scrivere: «Grande cosa è certamente aggiungere all'immensa moltitudine delle stelle fisse, che con la naturale facoltà visiva si sono potute scorgere fino ad oggi, altre innumerevoli stelle, non mai vedute prima d'ora e che superano più di dieci volte il numero delle stelle antiche già note» (Ibid.). Lo scienziato poteva osservare con i propri occhi quanto, fino a quel momento, era solo frutto di ipotesi controverse. Non si sbaglia chi pensa che l'animo profondamente credente di Galileo, dinanzi a quella visione, si sia aperto quasi naturalmente alla preghiera di lode, facendo propri i sentimenti espressi dal Salmista: «O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!... Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l'uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne curi? Davvero... gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Sal 8, 1.4-5.7). Con questa scoperta crebbe nella cultura la consapevolezza di trovarsi di fronte a un punto cruciale della storia dell'umanità. La scienza diventava qualcosa di diverso da come gli antichi l'avevano sempre pensata. Aristotele aveva permesso di giungere alla conoscenza certa dei fenomeni partendo da principi evidenti e universali; ora Galileo mostrava concretamente come avvicinare e osservare i fenomeni stessi, per carpirne le cause segrete. Il metodo deduttivo cedeva il passo a quello induttivo e apriva la strada alla sperimentazione. Il concetto di scienza durato per secoli veniva ora a modificarsi, imboccando la strada verso una moderna concezione del mondo e dell'uomo. Galileo si era addentrato nelle vie sconosciute dell'universo; egli spalancava la porta per osservarne gli spazi sempre più immensi. Al di là probabilmente delle sue intenzioni, la scoperta dello scienziato pisano permetteva anche di risalire indietro nel tempo, provocando domande circa l'origine stessa del cosmo e facendo emergere che anche l'universo, uscito dalle mani del Creatore, ha una sua storia; esso «geme e soffre le doglie del parto» — per usare l'espressione dell'apostolo Paolo — nella speranza di essere liberato «dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8, 21-22). Anche oggi l'universo continua a suscitare interrogativi a cui la semplice osservazione, però, non riesce a dare una risposta soddisfacente: le sole scienze naturali e fisiche non bastano. L'analisi dei fenomeni, infatti, se rimane rinchiusa in se stessa rischia di far apparire il cosmo come un enigma insolubile: la materia possiede un'intelligibilità in grado di parlare all'intelligenza dell'uomo e indicare una strada che va al di là del semplice fenomeno. È la lezione di Galileo che conduce a questa considerazione. Non era, forse, lo scienziato di Pisa a sostenere che Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico? Eppure, la matematica è un'invenzione dello spirito umano per comprendere il creato. Ma se la natura è realmente strutturata con un linguaggio matematico e la matematica inventata dall'uomo può giungere a comprenderlo, ciò significa che qualcosa di straordinario si è verificato: la struttura oggettiva dell'universo e la struttura intellettuale del soggetto umano coincidono, la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura sono identiche. Alla fine, è «una» ragione che le collega entrambe e che invita a guardare ad un'unica Intelligenza creatrice (cfr. Benedetto XVI, Discorso ai giovani della Diocesi di Roma, in: Insegnamenti II, [2006], 421-422). Le domande sull'immensità dell'universo, sulla sua origine e sulla sua fine, come pure sulla sua comprensione, non ammettono una sola risposta di carattere scientifico. Chi guarda al cosmo, seguendo la lezione di Galileo, non potrà fermarsi solo a ciò che osserva con il telescopio, dovrà procedere oltre per interrogarsi circa il senso e il fine a cui tutto il creato orienta. La filosofia e la teologia, in questa fase, rivestono un ruolo importante, per spianare il cammino verso ulteriori conoscenze. La filosofia davanti ai fenomeni e alla bellezza del creato cerca, con il suo ragionamento, di capire la natura e la finalità ultima del cosmo. La teologia, fondata sulla Parola rivelata, scruta la bellezza e la saggezza dell'amore di Dio, il quale ha lasciato le Sue tracce nella natura creata (cfr. San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, ia. q. 45, a. 6). In questo movimento gnoseologico sono coinvolte sia la ragione che la fede; entrambe offrono la loro luce. Più la conoscenza della complessità del cosmo aumenta, maggiormente richiede una pluralità di strumenti in grado di poterla soddisfare; nessun conflitto all'orizzonte tra le varie conoscenze scientifiche e quelle filosofiche e teologiche; al contrario, solo nella misura in cui esse riusciranno ad entrare in dialogo e a scambiarsi le rispettive competenze saranno in grado di presentare agli uomini di oggi risultati veramente efficaci. La scoperta di Galileo è stata una tappa decisiva per la storia dell'umanità. Da essa, hanno preso avvio altre grandi conquiste, con l'invenzione di strumenti che rendono prezioso il progresso tecnologico a cui si è giunti. Dai satelliti che osservano le varie fasi dell'universo, diventato paradossalmente sempre più piccolo, alle macchine più sofisticate utilizzate dall'ingegneria biomedica, tutto mostra la grandezza dell'intelletto umano, che, secondo il comando biblico, è chiamato a «dominare» l'intero creato (cfr. Gen 1, 28), a «coltivarlo» e a «custodirlo» (cfr. Gen 2, 15). Vi è sempre un sottile rischio, però, sotteso a tante conquiste: che l'uomo confidi solo nella scienza e dimentichi di innalzare lo sguardo oltre se stesso verso quell'Essere trascendente, Creatore di tutto, che in Gesù Cristo ha rivelato il suo volto di Amore. Sono certo che l'interdisciplinarità con cui si svolge questo Congresso permetterà di cogliere l'importanza di una visione unitaria, frutto di un lavoro comune per il vero progresso della scienza nella contemplazione del cosmo. Accompagno volentieri, venerato Fratello, il vostro impegno accademico, chiedendo al Signore di benedire queste giornate, come pure la ricerca di ognuno di voi. Dal Vaticano, 26 novembre 2009. (L'Osservatore Romano, 1 dicembre)
Le omelie di Benedetto XVI: una guida per vescovi e preti
Alla vigilia dell'Avvento è uscito in Italia un libro che raccoglie le omelie di Benedetto XVI dell'anno liturgico appena trascorso. Ogni anno liturgico va da Avvento ad Avvento. È una grande narrazione sacramentale che, di messa in messa, ha questa particolarità: realizza ciò che dice. Il protagonista della narrazione, Gesù, non è semplicemente ricordato, ma è presente ed agisce. Le omelie sono la chiave di comprensione della sua presenza e dei suoi atti. Dicono chi egli è e che cosa fa oggi, "secondo le Scritture". Questo, almeno, è ciò che si apprende ascoltando papa Joseph Ratzinger, straordinario omileta. Le omelie sono ormai un segno distintivo del pontificato di Benedetto XVI. Forse ancora il meno noto e capito, ma sicuramente il più rivelatore. Le scrive in buona misura di suo pugno, a tratti le improvvisa, sono quanto di più genuino esce dalla sua mente. Ad esse si dedica in misura preponderante e crescente. Le omelie del penultimo anno liturgico – anch'esse pubblicate in un volume un anno fa dallo stesso editore – erano state ventisette; in questa nuova raccolta sono quaranta. E ad esse vanno aggiunte le "piccole omelie" che il papa pronuncia la domenica all'Angelus di mezzogiorno, sulle letture della messa del giorno: tutte inconfondibilmente di suo pugno, anch'esse riprodotte in appendice a questo volume. Per facilitare la lettura, nel volume ogni omelia è seguita dai testi delle letture bibliche della relativa messa. Benedetto XVI, infatti, fa riferimento sistematico a questi testi. E non solo. Quando serve, il lettore trova riprodotti anche altri testi liturgici commentati dal papa nell'omelia: dal "Magnificat" del vespro al "Te Deum" dell'ultimo dell'anno, dal "Victimæ pascali laudes" del giorno di Pasqua al "Veni Sancte Spiritus" di Pentecoste. Lo scorso Giovedì Santo papa Ratzinger commentò a lungo il canone – cioè la preghiera centrale della messa – che si legge quel giorno nella liturgia di rito romano. E anche questo canone il lettore trova trascritto nel libro, sia in latino che in lingua moderna. Le omelie papali sono ordinate secondo la scansione dell'anno liturgico, di domenica in domenica e di festa in festa, dall'Avvento al Natale, alla Quaresima, a Pasqua, a Pentecoste e oltre. Ma sotto ogni titolo è sempre specificato dove e come il rito è stato celebrato: ad esempio nella Cappella Sistina battezzando alcuni bambini, oppure a Gerusalemme, a Betlemme, in Camerun, in Angola, nell'uno o nell'altro dei viaggi papali. In ogni omelia, infatti, Benedetto XVI "situa" la sua predicazione, la applica alla comunità alla quale parla, oppure ricava dal contesto una lezione per tutti. Un esempio lampante è l'omelia riprodotta qui di seguito, che nel libro non c'è perché pronunciata mentre esso era già in stampa. Benedetto XVI l'ha letta durante la messa da lui celebrata lo scorso 8 novembre a Brescia, nella diocesi natale di papa Giovanni Battista Montini, Paolo VI. E a questo papa egli quindi fa riferimento, oltre che alle letture bibliche della messa del giorno. Un secondo esempio recente della predicazione di papa Ratzinger – per ragioni di data assente dal libro – è la "piccola omelia" dell'Angelus di domenica 15 novembre, anch'essa riprodotta più sotto. Se è sempre più evidente che Benedetto XVI, col suo "stile" nel celebrare la messa, intende offrire un modello a una Chiesa liturgicamente confusa, lo stesso si può dire che faccia con la sua arte omiletica. (Sandro Magister, www.chiesa, 27 novembre 2009)
È vero: la Chiesa è capace di «ingerenza»
Fu un chiaro intervento "politico", voluto decisamente da Papa Wojtyla e portato avanti con puntiglio dalla diplomazia vaticana. Venticinque anni fa l'opera di mediazione della Santa Sede riuscì a scongiurare un conflitto incombente tra Cile ed Argentina che si contendevano il possesso del canale di Beagle, all'estremità meridionale del continente latino-americano. Una vertenza secolare, riesplosa tra l'ultimo scorcio degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta sull'onda del virulento nazionalismo fomentato dalle dittature militari dei due Paesi. C'era un clima esagitato nel Cono Sud dove nel 1982 sarebbe scoppiata la guerra delle Falkland-Malvinas tra la Gran Bretagna della signora Thatcher e l'Argentina del generale Videla, mentre il Cile di Pinochet tifava apertamente per gli inglesi. A Buenos Aires e a Santiago si mobilitavano gli eserciti. Lo scontro armato sembrava inevitabile. Fu evitato grazie al coraggio di Giovanni Paolo II che volle intromettersi nella faccenda e inviò nelle due capitali un suo emissario, nonostante il rischio di un clamoroso fallimento. Dopo cinque anni di serrate trattative la difficile mediazione della Santa Sede fu coronata da successo ed il 29 novembre del 1984 l'Argentina, nel frattempo tornata alla democrazia, ed il Cile, con Pinochet ancora al potere, firmavano uno storico accordo di pace. L'anniversario è stato celebrato ieri in Vaticano dalle due presidentesse Bachelet e Kirchner alla presenza di Benedetto XVI che ha ricordato «l'instancabile lavoro» a favore della pace condotto da Giovanni Paolo II. E certamente, se il suo intervento non cadde nel vuoto fu perché seppe risvegliare quella comune vocazione di fraternità e di amicizia tra due popoli di tradizione cattolica. Fu un grande esempio di come il dialogo paziente e la volontà sincera di pace possono averla vinta sulla tentazione di ricorrere alla forza. Da quel giorno i rapporti tra Cile ed Argentina sono costantemente migliorati e oggi sono sfociati in una collaborazione strategica di grande valore per tutta l'America Latina. È un fatto che riempie di legittimo orgoglio quei Paesi. E dovrebbe far riflettere noi europei. L'intervento di Papa Wojtyla nella contesa per il canale di Beagle s'ispirava allo stesso principio enunciato da Pio XII nel 1939: «Nulla si perde con la pace, tutto può andare perduto con la guerra». Ma, come sappiamo, non venne ascoltato. Anzi fu deriso e minacciato in nome di ideologie follemente totalitarie e radicalmente anti-cristiane. La vecchia Europa tradiva le propri origini e s'avviava alla catastrofe. È risalita dall'abisso dove giacciono decine di milioni di morti ed è rinata nella pace e nella prosperità. Si è data perfino una bandiera con 12 stelle che richiamano la simbologia mariana. Ma ancora oggi l'Unione Europea non intende riconoscere le proprie radici cristiane, mentre una recente sentenza di una Corte che fa capo al Consiglio d'Europa vorrebbe bandire il crocifisso dai luoghi pubblici. E da più parti non si perde occasione d'accusare la Chiesa di volersi intromettere nella vita dei popoli e degli Stati. Già, nella nostra vecchia Europa una "ingerenza" così sfacciata come quella compiuta da Papa Wojtyla in America Latina avrebbe fatto gridare allo scandalo. Ma, vale la pena ripeterlo: la Santa Sede riuscì a evitare una guerra. Fu la prima concreta affermazione di quella «ingerenza umanitaria» che Giovanni Paolo II avrebbe poi rivendicato apertamente in tante altre situazioni di conflitto. È per questo che «il Papa della libertà» è stato anche il Papa che si è battuto instancabilmente per la giustizia e per la pace, sfidando piccoli dittatori e grandi leader mondiali. (Luigi Geninazzi, © Avvenire, 29 Novembre 2009)
Andate e battezzate. La scommessa della Chiesa argentina
L'Argentina e il Cile, assieme alla Colombia, sono le nazioni dell'America meridionale in cui la Chiesa cattolica è più saldamente impiantata. Ma sono anche quelle in cui è più incalzante la sfida della secolarizzazione: nella mentalità, nel costume e nelle norme giuridiche. Il 13 novembre un giudice di Buenos Aires ha autorizzato un "matrimonio" tra persone dello stesso sesso, dichiarando incostituzionali gli articoli del codice civile che lo vietano. Il capo del governo di Buenos Aires ha preso le parti del giudice. E ciò ha provocato la vigorosa reazione dell'arcivescovo della città, il cardinale Jorge Bergoglio, che è anche presidente della conferenza episcopale argentina, persona molto amata e stimata. La risposta della Chiesa alla sfida della secolarizzazione è un test decisivo per verificare la riuscita o meno delle indicazioni pastorali elaborate per il subcontinente dalla conferenza degli episcopati latinoamericani tenuta nel 2007 ad Aparecida. La secolarizzazione, infatti, erode quello che è un carattere tipico della Chiesa cattolica in questi paesi: quello di essere Chiesa di popolo, con la famiglia come struttura portante e con il battesimo dei bambini come pratica generale. In alcune regioni d'Europa battezzare un bambino è già divenuto un atto di minoranza, che per essere compiuto esige una decisione controcorrente. Ma ora anche in Argentina cresce il numero di bambini, ragazzi, giovani, adulti che non sono battezzati. Questo calo della pratica del battesimo consegue a un indebolimento dei legami familiari e a un allontanamento dalla Chiesa. Tra il clero c'è chi ne ha tratto questa conseguenza: là dove vede spegnersi i segni della fede, ritiene giusto neppure amministrare i sacramenti. In Argentina, oggi le autorità della Chiesa si muovono invece in direzione opposta. Già nel 2002 l'arcidiocesi di Buenos Aires e le diocesi del circondario avevano pubblicato un'istruzione che raccomandava vivamente di battezzare sia i bambini che gli adulti e spiegava come superare le resistenze alla celebrazione del rito. Ma ora i vescovi della regione sono tornati alla carica con un libretto dal titolo "El bautismo en clave misionera", che riproduce l'istruzione del 2002 e la integra con altre indicazioni orientative per i parroci. Così da quest'anno i parroci più solerti indicono periodicamente delle "giornate del battesimo", nelle quali amministrano il sacramento a bambini e ad adulti in situazioni di povertà o con famiglie divise, aiutati a superare le diffidenze proprie e del vicinato. Il senso di tutto ciò il cardinale Bergoglio l'ha spiegato in una intervista alla rivista internazionale "30 Giorni": "Il bambino non ha alcuna responsabilità dello stato del matrimonio dei suoi genitori. Il battesimo dei bambini può anzi diventare per i genitori un nuovo inizio. Io stesso qualche tempo fa ho battezzato sette figli di una donna sola, una povera vedova, che fa la donna di servizio e li aveva avuti da due uomini differenti. L'avevo incontrata alla festa di San Cayetano. Mi aveva detto: padre, sono in peccato mortale, ho sette figli e non li ho mai fatti battezzare, non ho i soldi per i padrini e per la festa... Ci siamo rivisti e dopo una piccola catechesi li ho battezzati nella cappella dell'arcivescovado. La donna mi ha detto: padre, non posso crederci, lei mi fa sentire importante. Le ho risposto: ma signora, che c'entro io?, è Gesù che la fa importante". A Bergoglio preme non far spegnere una tradizione tipica delle aree più remote dell'Argentina, in quei paesi e villaggi dove il prete arriva solo poche volte all'anno: "Lì la pietà popolare sente che i bambini devono essere battezzati il prima possibile, e allora c'è un uomo o una donna conosciuti da tutti come 'bautizadores' che battezzano i bambini quando nascono, in attesa che giunga il prete. E quando questo arriva, gli portano i bambini perché lui li segni con l'olio santo, terminando il rito. Quando ci penso, mi viene in mente la storia di quelle comunità cristiane del Giappone che erano rimaste senza sacerdoti per più di duecento anni. Quando i missionari tornarono, li trovarono tutti battezzati e tutti sacramentalmente sposati". Dice ancora il cardinale: "La conferenza di Aparecida ci ha incitati ad annunciare il Vangelo andando a trovare la gente, non rimanendo ad aspettare che la gente venga da noi. Il fervore missionario non richiede eventi straordinari. È nella vita ordinaria che si fa missione. E il battesimo, in questo, è paradigmatico. I sacramenti sono per la vita degli uomini e delle donne così come sono. I quali magari non fanno tanti discorsi, eppure il loro 'sensus fidei' coglie la realtà dei sacramenti con più chiarezza di quanto succede a tanti specialisti". Riaffiora qui l'antica e mai risolta disputa tra Chiesa di élite e Chiesa di popolo, tra Chiesa pura, di minoranza, e Chiesa di massa, popolata quest'ultima anche da quell'immensa marea umana per la quale il cristianesimo è fatto di poche cose elementari. In Italia, ad esempio, la disputa si è riproposta in occasione dell'ultimo grande convegno nazionale della Chiesa, tenuto a Verona nell'ottobre del 2006. In quell'occasione, una tesi sostenuta dai "rigoristi" era proprio quella di rifiutare il battesimo e altri sacramenti ai richiedenti ritenuti non idonei perché non praticanti. È un dilemma che lo stesso Joseph Ratzinger visse da giovane in prima persona, e infine risolse nella stessa direzione indicata dal cardinale Bergoglio. Questo è ciò che, da papa, lo stesso Ratzinger ha detto rispondendo alla domanda di un sacerdote di Bressanone, in un pubblico botta e risposta con il clero di quella diocesi, il 6 agosto del 2008. Il sacerdote, di nome Paolo Rizzi, parroco e docente di teologia, chiese in quell'occasione a Benedetto XVI, a proposito di battesimi, cresime e prime comunioni: "Santo Padre, trenta-trentacinque anni fa io pensavo che ci stessimo avviando ad essere un piccolo gregge, una comunità di minoranza più o meno in tutta l’Europa. Che si dovesse quindi donare i sacramenti solo a chi si impegna veramente nella vita cristiana. Poi, anche per lo stile del pontificato di Giovanni Paolo II, ho riconsiderato le cose. Se è possibile fare previsioni per il futuro, lei cosa pensa? Quali atteggiamenti pastorali ci può indicare?". Rispose papa Ratzinger: "Devo dire che io ho percorso una strada simile alla sua. Quando ero più giovane ero piuttosto severo. Dicevo: i sacramenti sono i sacramenti della fede, e quindi dove la fede non c’è, dove non c’è prassi di fede, anche il sacramento non può essere conferito. E poi ho sempre discusso quando ero arcivescovo di Monaco con i miei parroci: anche qui vi erano due fazioni, una severa e una larga. E anch’io nel corso dei tempi ho capito che dobbiamo seguire piuttosto l’esempio del Signore, che era molto aperto anche con le persone ai margini dell’Israele di quel tempo, era un Signore della misericordia, troppo aperto – secondo molte autorità ufficiali – con i peccatori, accogliendoli o lasciandosi accogliere da loro nelle loro cene, attraendoli a sé nella sua comunione. "Quindi io direi sostanzialmente che i sacramenti sono naturalmente sacramenti della fede: dove non ci fosse nessun elemento di fede, dove la prima comunione fosse soltanto una festa con un grande pranzo, bei vestiti, bei doni, allora non sarebbe più un sacramento della fede. Ma, dall’altra parte, se possiamo vedere ancora una piccola fiamma di desiderio della comunione nella Chiesa, un desiderio anche di questi bambini che vogliono entrare in comunione con Gesù, mi sembra che sia giusto essere piuttosto larghi. "Naturalmente, certo, deve essere un aspetto della nostra catechesi far capire che la comunione, la prima comunione, non è un fatto 'puntuale', ma esige una continuità di amicizia con Gesù, un cammino con Gesù. Io so che i bambini spesso avrebbero intenzione e desiderio di andare la domenica a Messa, ma i genitori non rendono possibile questo desiderio. Se vediamo che i bambini lo vogliono, che hanno il desiderio di andare, mi sembra sia quasi un sacramento di desiderio, il 'voto' di una partecipazione alla messa domenicale. In questo senso dovremmo naturalmente fare il possibile nel contesto della preparazione ai sacramenti, per arrivare anche ai genitori e – diciamo – così svegliare anche in loro la sensibilità per il cammino che fanno i bambini. Dovrebbero aiutare i loro bambini a seguire il proprio desiderio di entrare in amicizia con Gesù, che è forma della vita, del futuro. Se i genitori hanno il desiderio che i loro bambini possano fare la prima comunione, questo loro desiderio piuttosto sociale dovrebbe allargarsi in un desiderio religioso, per rendere possibile un cammino con Gesù. "Direi quindi che, nel contesto della catechesi dei bambini, sempre il lavoro con i genitori è molto importante. E proprio questa è una delle occasioni di incontrarsi con i genitori, rendendo presente la vita della fede anche agli adulti, perché dai bambini – mi sembra – possono reimparare loro stessi la fede e capire che questa grande solennità ha senso soltanto, ed è vera ed autentica soltanto, se si realizza nel contesto di un cammino con Gesù, nel contesto di una vita di fede. Quindi convincere un po’, tramite i bambini, i genitori della necessità di un cammino preparatorio, che si mostra nella partecipazione ai misteri e comincia a far amare questi misteri. "Direi che questa è certamente una risposta abbastanza insufficiente, ma la pedagogia della fede è sempre un cammino e noi dobbiamo accettare le situazioni di oggi, ma anche aprirle a un di più, perché non rimanga alla fine solo qualche ricordo esteriore di cose, ma sia veramente toccato il cuore. Nel momento nel quale veniamo convinti, nel quale il cuore è toccato, ha sentito un po’ l’amore di Gesù, ha provato un po’ il desiderio di muoversi in questa linea e in questa direzione, in quel momento, mi sembra, possiamo dire di aver fatto una vera catechesi. Il senso proprio della catechesi, infatti, dovrebbe essere questo: portare la fiamma dell’amore di Gesù, anche se piccola, ai cuori dei bambini e tramite i bambini ai loro genitori, aprendo così di nuovo i luoghi della fede nel nostro tempo". (Sandro Magister, www.chiesa, 30 novembre 2009)
Un Anno per i sacerdoti e non solo
Unisce necessità e riconoscimento. L'Anno sacerdotale chiede infatti il rigoroso rinnovamento interiore di tutto il clero mondiale; ma rappresenta anche l'abbraccio e la gratitudine corale del Papa e della Chiesa per la fedeltà e la sofferenza di tanti preti di fronte alle incomprensioni e alle difficoltà che possono incontrare. Un Anno che già raccoglie dei frutti e continua a prepararne di nuovi, come ha descritto lo scorso venerdì, in un incontro-colloquio con un gruppo di giornalisti, il segretario della Congregazione per il Clero, l'arcivescovo Mauro Piacenza. Con realismo e speranza, in un periodo storico non precisamente generoso con i sacerdoti. E anche a dispetto del peso che hanno, attraverso l'amplificazione dei media, figure sacerdotali "che in genere sono quelle del dissenso". Mentre i mezzi d'informazione - afferma il presule - generalmente hanno scarsa attenzione per le figure "del grande consenso, della grande comunione, che sono quelle della quasi totalità dei preti che fanno il loro dovere". L'arcivescovo apre le porte del dicastero e manifesta la sua preoccupazione per la cultura attuale che tende a omologare il sacerdote e ad appiattirlo il più possibile allo spirito del mondo, il quale elude la solidità del riferimento morale e preferisce il soggettivismo. "C'è continuamente bisogno di remare contro nel senso evangelico del termine; facendo anche guerre, ma "guerre di santità". La muscolatura interiore di un prete - preghiera, vita interiore e motivazione profonde - deve essere in un cero senso da Rambo se vuole resistere lui e se vuole che la sua azione pastorale sia incisiva". La Congregazione per il Clero moltiplica gli sforzi per promuovere questo rinnovamento interiore - "non una rivoluzione" - che permetta di ridare entusiasmo di fronte a tante nuove sfide. Riannodandosi a quel convincimento espresso da Paolo vi, secondo il quale il mondo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri. "Ciò che insegna il sacerdote - osserva monsignor Piacenza - acquista valore attraverso la propria testimonianza; è così che diventa credibile. E per essere credibile il prete deve essere profondamente credente". L'Anno sacerdotale parla a tutta la comunità di fedeli, non soltanto ai sacerdoti. A questi spetta una pastorale, come "arte della comunicazione della salvezza e della grazia di Dio", che risponda alle necessità del presente, aiutando i laici a instillare forza morale nelle realtà terrene. Il fatto è che le grandi sfide del mondo contemporaneo chiamano in causa direttamente i laici, non i "preti politicanti, i preti che fanno comizi o i preti "star". Ognuno faccia il suo. E il sacerdote che fa il prete fino in fondo è il primo agente di promozione" dell'evangelizzazione nella società. "Questa è la grande sinfonia della comunione cattolica", sottolinea il presule. Per questo il sacerdote è "dono" e "segno", non soltanto per la Chiesa, ma anche per la società civile, che può vedere in lui un riferimento utile "di pacificazione, di comprensione, di misericordia, di umanizzazione". Com'è d'aiuto, per lo stesso sacerdote e per gli altri, il segno esteriore della sua identità presbiteriale, che "in alcuni ambienti serve per essere insultati, ma anche per essere cercati". Un'identità che bisogna saper comprendere e apprendere, e che si definisce attraverso la configurazione a Cristo. È la ragione dell'obbedienza, del celibato, della povertà. Perché "il Buon pastore non riserva niente per sé. E il sacerdote, nonostante tutti i suoi difetti umani, è stato eletto da Cristo, non si è autoproposto"; egli deve essere "sempre il megafono del buon Dio che parla al suo popolo; il canale attraverso il quale circoli l'acqua in modo puro e arrivi così la salvezza che è Gesù Cristo". Un modello eminente di questa formazione è il curato di Ars, che domina un anno al termine del quale il Papa lo proclamerà patrono di tutti i sacerdoti del mondo. Figura straordinaria perché, semplicemente, egli agì sempre come sacerdote. "Fece soltanto questo, e niente di meno che questo!", afferma l'arcivescovo Piacenza. San Giovanni Maria Vianney "si realizzò" nell'eucarestia e nella confessione, donandosi totalmente alla sua parrocchia, nella quale non si poteva dire che inizialmente ci fosse molto amore per Dio. Fu la sua missione a trasmetterlo, in mezzo al "vento del deserto sahariano" del secolarismo; la stessa difficoltà che oggi sperimenta la Chiesa. Ma il curato d'Ars "trasformò tutto attraverso la sua santificazione". È un forte richiamo e anche una grande consolazione per il sacerdote del XXI secolo, oberato di compiti. Già lo sottolineò il concilio Vaticano II - spiega monsignor Piacenza - in linea con la tradizione che risplende nel curato di Ars: la chiamata a santificarsi non malgrado il ministero, ma attraverso lo stesso ministero sacerdotale. "La buona volontà, l'impegno, e lasciarsi guidare dal Divino Maestro" plasmò la cattedra d'insegnamento del curato di Ars, la cui pastorale fu eccezionale perché la apprese "amando il Signore, lasciandosi amare da Lui e non ponendo ostacoli all'azione dello Spirito Santo". Una lezione d'attualità, prosegue il segretario della Congregazione per il Clero: "Un santo è sempre un grande pastore", che "rivolge la sua preoccupazione a tutti" facendo il suo "apostolato incisivo". Questi elementi delineano l'anima dell'Anno sacerdotale e l'urgenza di comunicarlo adeguatamente. Sono, inoltre, il motore delle iniziative del dicastero per il Clero. Per questo esso ha innanzitutto raccomandato nei cinque continenti l'adorazione eucaristica, possibilmente perpetua, per la santificazione dei sacerdoti. "La rispondenza è veramente al di sopra di quello che si penserebbe", conferma monsignor Piacenza. Inoltre, sull'esempio di santa Teresa de Lisieux, è stata proposta una forma di "maternità spirituale" per fare sì che i laici si uniscano agli sforzi e alle difficoltà apostoliche dei sacerdoti e per sensibilizzare i fedeli ad accogliere i propri pastori, veri padri d'ogni comunità. In rete con tutte le diocesi del mondo, la congregazione vaticana diffonde, attraverso internet (www.clerus.org e www.annussacerdotalis.org) lettere mensili del prefetto, il cardinale Cláudio Hummes, e dell'arcivescovo Piacenza, insieme a materiale di studio, di riflessione e a comunicazioni. Tra i documenti frutto dell'Anno sacerdotale c'è la prossima pubblicazione - sempre a cura del dicastero - di un vademecum per la confessione e la direzione spirituale. A marzo si celebrerà - specialmente per i vescovi, primi formatori dei sacerdoti, e formatori in genere - il congresso teologico "Fedeltà di Cristo, fedeltà del Sacerdote" sugli aspetti umani, spirituali, teologici e pastorali che configurano la vita sacerdotale. L'Anno sarà chiuso il prossimo 11 giugno, con la tre-giorni dell'Incontro internazionale dei sacerdoti. Porte spalancate anche a seminaristi, diaconi permanenti, religiosi e religiose e fedeli laici. Un appuntamento mondiale che, con l'appoggio tecnico-logistico dell'Opera romana pellegrinaggi (www.josp.com) si svolgerà nella basilica di San Paolo fuori le Mura - per sottolineare il dinamismo evangelizzatore e la conversione personale dell'apostolo delle Genti - e nella basilica di Santa Maria Maggiore - come un cenacolo per invocare lo Spirito Santo con Maria. E trovando spazio, tra l'altro, per la confessione, messaggio tangibile dell'importanza di questo sacramento per gli stessi sacerdoti e della necessaria disponibilità di sacerdoti per il suo esercizio. Alla vigilia - ha annunciato ancora l'arcivescovo Piacenza - piazza San Pietro ospiterà una veglia alla presenza di Benedetto XVI: orazione, colloquio, canto e festa lasceranno spazio a esperienze di prima mano che non ometteranno le persecuzioni per causa della fede e il "martirio della coerenza" che subiscono non pochi sacerdoti. La solennità del Sacro Cuore di Gesù si celebrerà ugualmente "con Pietro, in comunione ecclesiale" nella basilica vaticana, con l'eucarestia presieduta dal Papa. E la conclusione dell'Anno sacerdotale segnerà anche il punto di partenza del rinnovato impegno universale della vocazione sacerdotale. (Marta Lago, ©L'Osservatore Romano, 2 dicembre 2009 )
Il mondo finirà nel 2012? Contro la bufala della profezia Maya
Ecco la trascrizione di un'intervista rilasciata da Massimo Introvigne alla televisione della Svizzera Italiana D. Libri, trasmissioni televisive e film ci spiegano che il mondo finirà il 21 dicembre 2012. Lo assicura, dicono, una profezia degli antichi Maya. Che cosa c'è di vero? R. Per rispondere con una parola sola: nulla. Ammettiamo che gli antichi Maya abbiano davvero previsto la fine del mondo per il 21 dicembre 2012. Questo ci direbbe qualcosa sui Maya, ma nulla sulla fine del mondo. La cultura e le credenze dei Maya non sono "la verità" ed è bizzarro che qualcuno oggi le prenda come guida. Per esempio, i Maya credevano che gli dei avessero bisogno di sacrifici umani, un elemento assolutamente centrale nella loro cultura. Credevano anche che migliaia di sacrifici umani avrebbero reso i loro regni invincibili ed eterni. Non è successo: i regni Maya sono stati spazzati via dalla conquista spagnola. D. Ma i Maya hanno, in effetti, previsto la fine del mondo per il 21 dicembre 2012? R. No. Si tratta di una teoria inventata da un teorico del New Age nato in Messico ma cittadino statunitense, José Argüelles, a partire dagli anni 1970 e illustrata particolarmente nel suo volume del 1987 The Mayan Factor (in italiano Il fattore maya. La via al di là della tecnologia, WIP, Bari 1999). Argüelles ha ottenuto un dottorato e ha tenuto corsi in varie università, ma la sua materia è la storia dell'arte, non l'archeologia o la cultura Maya. Inoltre egli ha francamente dichiarato che molte sue teorie derivano da "visioni" che avrebbe avuto sotto l'influsso dell'LSD. Neppure un solo specialista accademico dei Maya ha mai preso sul serio Argüelles o le sue teorie sul 2012 e "ciarlatano" non è neppure la più severa fra le molte espressioni sgradevoli che la comunità accademica ha usato nei suoi confronti. D. Su che cosa si basa l'idea della profezia Maya sul 2012? R. Sul fatto che per i Maya questo mondo è iniziato a una data che può essere calcolata. Varie fonti danno diverse versioni, ma la data più diffusa corrisponde all'anno 3114 a.C. del nostro calendario. Da questa data iniziano cicli di anni chiamati b'ak'tun. Molti testi Maya parlano di venti b'ak'tun, dopo di che finirà questo mondo o ciclo. In una data fra il 21 e il 23 dicembre 2012, sempre secondo la versione più attestata dalle fonti del calendario Maya, finirà il tredicesimo b'ak'tun e inizierà il quattordicesimo. In genere la fine di un b'ak'tun per i Maya è occasione di celebrazioni e feste. Le iscrizioni e altre fonti che parlano di avvenimenti rilevanti in occasione della fine del tredicesimo b'ak'tun, nel dicembre 2012, fanno riferimento appunto a celebrazioni. Argüelles e i suoi sostenitori insistono sul Monumento 6 del sito archeologico Maya di Tortuguero, in Messico, che in corrispondenza della fine del tredicesimo b'ak'tun allude in termini peraltro confusi alla discesa di divinità e al fatto che "verrà il nero". I commentatori accademici delle iscrizioni di Tortuguero pensano che si faccia riferimento anche qui a future cerimonie. In ogni caso, se si guarda al complesso dei testi di Tortuguero, si trovano riferimenti anche ai b'ak'tun dal quattordicesimo al ventesimo, per cui è certo che i Maya dell'epoca di questi monumenti (secolo VII d.C.) non pensavano che il mondo sarebbe finito nel nostro 2012, cioè alla fine del tredicesimo b'ak'tun. E non è neppure certo che i Maya pensassero a una fine del mondo con la fine del ventesimo b'ak'tun (da cui comunque ci separa qualche millennio) perché prima del nostro mondo ce n'era stato un altro, e potrebbe dunque trattarsi della fine di un mondo e non del mondo. Rimane anche vero che delle credenze dei Maya noi abbiamo un quadro incompleto e frammentario. D. I Maya non avevano anche un'astrologia, sulla cui base prevedevano eventi felici oppure catastrofici, e in particolare una catastrofe nel 2012? R. In linea concettuale si può dire che il calendario ci dice quando secondo un certo modo di calcolo termina un ciclo: ma che cosa succede alla fine di questo ciclo non ce lo dice l'astronomia ma la religione o l'astrologia. Il problema, però, è che non è neppure certo che i Maya avessero un'astrologia. Tutto quello che si può dire è che è possibile - ma non certo - che alcuni segni trovati in diversi codici (principalmente quello di Parigi, acquisito dalla Biblioteca Nazionale della capitale francese nel 1832 e qui riprodotto nell'immagine, ma ce ne sono di meno chiari anche altrove) mettessero in corrispondenza animali e costellazioni, creando una sorta di zodiaco, forse con significato astrologico. Siamo dunque in presenza di una congettura sull'esistenza di tredici simboli che potrebbero formare uno zodiaco e che secondo l'interpretazione più autorevole sono: due tipi diversi di uccelli (ma è difficile identificare quali siano), uno squalo o pesce "xoc", uno scorpione, una tartaruga, un serpente a sonagli, un serpente più grande ma non identificato quanto alla specie, uno scheletro, un pipistrello, più due animali che corrispondono a zone del codice (di Parigi) troppo danneggiate per un'identificazione certa. Dal momento che non è neppure certo che esistesse un'astrologia Maya, ogni congettura su "previsioni" collegate a questa astrologia è del tutto insensata. D. Ma gli attuali indios discendenti dei Maya prevedono la fine del mondo nel 2012? R. Assolutamente no. Vari studi di antropologi ed etnologi mostrano che non attendono nulla di particolare per questo anno, anzi non hanno mai sentito parlare di presunte profezie. D. Se si tratta di una bufala, perché è così diffusa? R. Diversi studiosi dei Maya, piuttosto infastiditi, hanno parlato di una pura speculazione commerciale. E' servita a lanciare film alcuni dei quali dal punto di vista meramente cinematografico sono anche ben fatti e gradevoli, purché li si consideri appunto dei semplici film. Da un punto di vista sociologico, forse si possono dire due cose in più. La prima riguarda l'enorme impatto della popular culture - romanzi, film, televisione - su un'opinione pubblica dove ormai è la vita a imitare l'arte e non viceversa e la fiction è considerata fonte d'informazioni sulla realtà (Il Codice da Vinci insegna). L'ultima puntata, del 2002, della popolarissima serie televisiva X-Files annunciava l'invasione degli alieni per il 21 dicembre 2012. Serie TV e film hanno una grandissima influenza su un pubblico "postmoderno", dove i confini fra finzione e realtà si sono fatti davvero molto labili. La seconda osservazione parte da un fatto: l'idea della profezia Maya lanciata da Argüelles era parte integrante del New Age. Oggi il New Age è in crisi, ma ci sono molti che - per le più svariate ragioni - hanno interesse a rilanciarlo. La diffusione della presunta profezia sul 2012 è stata ed è una grande occasione di rilancio del New Age. D. Ma della fine del mondo non parlano anche i cristiani? R. Sì. Anzi, Papa Benedetto XVI nell'enciclica del 2007 Spe salvi lamenta che non se ne parli abbastanza, perché la prospettiva della fine del mondo e del Giudizio Universale, dove i sacrifici dei buoni e la malizia dei malvagi emergeranno agli occhi di tutti e saranno definitivamente giudicati, illumina l'intera storia umana. La Chiesa, però, ha sempre condannato il millenarismo, che pretende di detenere un sapere dettagliato, che va oltre la Sacra Scrittura e l'insegnamento del Magistero, sul "come" della fine del mondo e di poterne determinare anche il "quando". La Chiesa annuncia la parola del Vangelo di Matteo (25, 13): "Non sapete né il giorno né l'ora". E chi afferma di saperli s'inganna, e inganna chi gli presta fede. (Massimo Introvigne, Facebook, Novembre 2009)
La domenica: «Salvaguardarla vuol dire difendere i valori della vita»
«Senza il Signore e il giorno che a Lui appartiene non si realizza una vita riuscita. La Domenica, nelle nostre società occidentali, si è mutata in un fine-settimana, in tempo libero. Il tempo libero, specialmente nella fretta del mondo moderno, è una cosa bella e necessaria; ciascuno di noi lo sa. Ma se il tempo libero non ha un centro interiore, da cui proviene un orientamento per l’insieme, esso finisce per essere tempo vuoto che non ci rinforza e non ricrea». È il pensiero di Benedetto XVI, così come chiaramente lo ha espresso a Vienna, il 9 settembre 2007. Sulla stessa linea d'onda i vescovi italiani: «Senza la domenica non possiamo vivere». La frase di Emerito, uno dei 49 martiri di Abitene, è come il paradigma del significato cristiano del giorno del Signore. E siccome «la domenica, nelle nostre società occidentali, si è mutata in un fine-settimana, in tempo libero», come ha ricordato nel 2007 Benedetto XVI a Vienna, quella frase ricorre nelle molteplici prese di posizione che Conferenze episcopali o singoli vescovi hanno espresso sul lavoro domenicale, come ad esempio quella dei presuli lombardi del dicembre del 2007. Non a caso proprio quella stessa frase fu scelta come tema del 24esimo Congresso eucaristico della Chiesa italiana, celebrato a Bari nel 2005, in quanto «salvaguardare la domenica significa anche difendere valori fondamentali della vita e coltivare un certo modo di intendere le relazioni, il tempo, la storia». Raccogliendo, in questo, l’invito del documento Ecclesia in Europa a non avere timore di difendere il valore del riposo domenicale «contro ogni attacco e di adoperarsi perché nell’organizzazione del lavoro, sia esso salvaguardato, così che possa essere giorno per l’uomo, a vantaggio dell’intera società». Un’idea poi ulteriormente sviluppata nel Convegno ecclesiale di Verona, che nella successiva Nota pastorale dei vescovi italiani – "Rigenerati per una speranza viva": testimoni del grande "sì" di Dio all’uomo" – ha affermato come il rapporto tra lavoro e riposo «pone forti provocazioni al credente, condizionato dai vorticosi cambiamenti sociali e tentato da nuove forme di idolatria». Per questo, pur con le necessarie attenzioni per le «sfide» che derivano dalla precarietà del lavoro, non solo «non deve venir meno il rispetto dei diritti inalienabili del lavoratore», ma «altrettanto urgente è il rinnovamento, secondo la prospettiva cristiana, del rapporto tra lavoro e festa». In particolare, «occorre fare attenzione alla crescita indiscriminata del lavoro festivo e favorire una maggiore conciliazione tra i tempi del lavoro e quelli dedicati alle relazioni umane e familiari, perché l’autentico benessere non è assicurato solo da un tenore di vita dignitoso, ma anche da una buona qualità dei rapporti interpersonali». (Avvenire, 3 dicembre 2009)
29 novembre 2009
La contrapposizione tra fede e ragione è un grande malinteso, dovuto al fatto che nell’epoca moderna esse sono state pensate come due princìpi separati: da un lato la fede, cioè il credere a verità imposte da un’autorità assoluta come quella di Dio, attraverso la mediazione della Chiesa; dall’altro la ragione, ossia la capacità libera e autonoma dell’uomo di indagare sulle verità che reggono l’universo e l’esistenza umana. In realtà, non è possibile credere senza che prima ci sia un pensare la credibilità di ciò che offre la fede e un volere assentire a essa. In caso contrario, la fede sarebbe in fin dei conti soltanto la passiva, pigra e supina accettazione di una credenza proposta dalla tradizione che viene dalla società in cui ci si trova a vivere. Scorgo due motivi all’origine di tale incomprensione. Da un lato, vi è stata quell’accentuazione intellettualistica, nella comprensione sia della ragione sia della fede, dovuta a una certa interpretazione dell’incontro tra il logos greco e la fede cristiana. Ragione e fede, hanno finito con il presentarsi e il giustificarsi quali forme essenzialmente differenti, e persino dialettiche, del conoscere. E se l’illuminismo, per risolvere questa dialettica, ha teso a sopprimere la fede dall’orizzonte della razionalità, Hegel ha pensato di salvare la fede introiettandola del tutto dentro la ragione. Dall’altro lato, è stato il principio dell’autorità, svuotato del suo originario significato – ciò che è proposto da Dio alla libertà per promuoverla – a provocare quella reazione emancipatrice che ha finito con l’identificare nella fede il nemico della libertà. Oggi le cose sono cambiate. E non soltanto per la ragione, che sperimenta la crisi della sua presunta assolutezza teorica e pratica, ma anche per la fede che – avendo ritrovato il senso della rivelazione come evento di Dio che si auto comunica – si è spalancata a una più integrale comprensione della propria identità e dinamica. Inoltre l’esito, peraltro diversificato sino a essere contraddittorio, dei principali filoni del pensiero filosofico moderno può paradossalmente rappresentare anche un guadagno. La caduta di una razionalità assolutizzata, così come delle ideologie totalizzanti, ha nuovamente dischiuso l’apertura dell’esperienza umana a ciò che la interpella da fuori, da Dio. Credenti e non, dialogo fecondo. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, la grande maggioranza di coloro con i quali ho avuto occasione di dialogare sulla questione di Dio non mettono in dubbio l’esistenza di un assoluto. Piuttosto s’interrogano sulla sua figura concreta e sulla relazione che noi viviamo con lui e lui con noi. In questo orizzonte entra in gioco la questione del futuro definitivo, quella che in termini cristiani definiamo la «vita eterna». In effetti, uno degli esiti della modernità è che, a partire da un certo punto del cammino del pensiero e dell’esperienza umana, è divenuto problematico comprendere come Dio sia presente nella storia. Il mondo classico era pieno di segni della presenza di Dio o degli dèi: mentre il mondo moderno sembra essere stato spogliato delle tracce del Divino. Su questo hanno pesato certamente le scoperte scientifiche e l’affermarsi delle scienze sociali con la loro portata critica della tradizione e l’invito all’esercizio di una ragione adulta e autonoma, ma ha anche giocato il fatto che il cristianesimo stesso, a partire dalla sua radice ebraica, ha contribuito decisamente a una de-divinizzazione del cosmo. Ha fatto cioè percepire che il mondo è «altro» da Dio. Del resto, quella verità centrale del cristianesimo che è l’incarnazione, e cioè l’avvento di Dio che si fa uomo e pone la sua tenda in mezzo a noi, porta appunto l’uomo a un’altezza vertiginosa, mai prima d’allora immaginata. Il cristianesimo ha però offerto di concerto un guadagno fondamentale, che soltanto a fatica è emerso lungo il corso dei secoli: l’uomo, che è la sintesi del creato e la grammatica in cui Dio dice se stesso in Gesù, è chiamato a essere il figlio di un Dio che è Abbà, Padre. Da figlio adulto e maturo deve affrontare la storia, con libertà e responsabilità, sotto lo sguardo di Dio che – quando il cuore dell’uomo si apre – fa sgorgare in lui delle energie impreviste, una sapienza e una forza prima non sperimentate. È ciò che noi cristiani chiamiamo l’azione dello Spirito Santo. Questa – mi sembra – è una delle frontiere lungo le quali va riscoperta la presenza e l’efficacia di Dio nella storia e nel cuore dell’uomo: rendersi sensibili agli impulsi, alla luce, al soffio dello Spirito. Dal dialogo con chi non crede o crede diversamente ed è sinceramente in ricerca, colgo questo desiderio dell’esperienza dello Spirito. E sento purificata la mia fede: che viene spinta a essere più coerente, lucida e vera. Mancuso sbaglia «solo» le risposte. Quello sull’anima e il suo destino è senz’altro un libro provocante, poiché solleva la questione di come articolare la verità cristiana con le scoperte della scienza e dell’autocoscienza contemporanea a proposito di una questione di vita o di morte per il futuro dell’uomo: un’istanza reale e urgente. Ma è l’architettura teoretica della proposta che sinceramente mi pare problematica, prima ancora delle tesi particolari che poi argomenta. C’è un problema di fondo che riguarda, per riprendere san Tommaso d’Aquino, il rapporto tra natura e grazia. L’assioma di Tommaso d’Aquino, «la grazia non distrugge ma presuppone e perfeziona la natura», è più dialettico di quanto sostiene Mancuso. Per Tommaso la visione razionale è presupposta dalla visione di fede, ma non ne è il criterio ultimo di valutazione. La grazia perfeziona la natura non nel senso della semplice continuità, bensì nel senso sia del risanamento delle ferite che la segnano (il peccato), sia della divinizzazione e cioè del suo gratuito compimento. Il rapporto tra natura e grazia si comprende soltanto a partire dall’evento pasquale di Gesù dove c’è rottura insieme a compimento. Mancuso tende poi a sottovalutare la portata universale dell’evento di Gesù. Dice di rifarsi alla tradizione metafisica dell’evento cristologico e parla di una teologia universale: ma l’universalità, dal punto di vista della fede, è radicata nella singolarità dell’evento di Gesù Cristo. In sostanza, il progetto di Mancuso di una rifondazione metafisica della fede consentanea alla ragione contro le timidezze e i formalismi della teologia postconciliare è più un’intenzione che un risultato. Personalmente sono convinto che soltanto all’interno di una radicale visione di fede si possa sviluppare una metafisica adeguata capace di articolarsi con le istanze sane della ragione. Certo, Mancuso mette il dito nella piaga denunciando un pensiero, laico e cristiano, che non è all’altezza della posta in gioco. Ed è vero che bisogna rimboccarsi le maniche. «Novissimi», rinnovare il linguaggio. Lo scadimento di valore dei «novissimi» nella proposta pastorale della Chiesa è dovuto probabilmente a due fattori. Innanzitutto, al disagio rispetto al modo esagerato in cui questa dottrina è stata spesso proposta in passato, come uno spauracchio moralistico per incidere sulla vita dei fedeli soprattutto mediante la presentazione terrificante della dannazione eterna. In secondo luogo, perché l’attenzione del nostro tempo, a partire dall’epoca moderna, si è spesso unilateralmente concentrata sulla dimensione temporale e terrena dell’esistenza, trascurandone l’aspetto definitivo e ultraterreno. È necessario senz’altro riprendere oggi in modo equilibrato e illuminato la predicazione riguardante la vita eterna. Ricordo che alcuni anni fa l’allora cardinale Ratzinger, parlando della nuova evangelizzazione in Europa, sottolineò che la riflessione sulla vita eterna, sull’immortalità dell’anima e sulla risurrezione dei corpi deve costantemente far parte dell’annuncio cristiano: poiché privare l’uomo della luce sul suo destino eterno vorrebbe dire colpire a morte il cristianesimo. In ogni caso occorre un linguaggio rinnovato, che non si fondi solamente sull’aspetto del giudizio. Il punto fondamentale che in riferimento alla vita ultraterrena possiamo derivare dal Nuovo Testamento è che il credente – vivendo in Cristo, cioè secondo il suo Spirito – e chiunque vive secondo giustizia si trovano già innestati nella vita eterna. Per cui il giudizio di morte o di vita, la partecipazione cioè al paradiso o all’inferno, sono già esperienze attuali nella nostra esistenza. Anche le dimensioni della purificazione, dell’ascesi, della partecipazione alle sofferenze altrui - contemplate nella dottrina del purgatorio – esprimono un aspetto della partecipazione alla vita eterna nella logica della comunione che tutti già viviamo, vivi e defunti, sulla terra e in cielo, per e in Gesù. (Piero Coda, Avvenire, 19 novembre 2009)
Il prete e la tentazione del protagonismo
L'efficacia del ministero, garantita, nei suoi aspetti essenziali, dalla grazia divina, descritta nell'ex opere operato di tomista memoria, è affidata anche, misteriosamente e nel contempo in modo affascinante, alla libertà del singolo sacerdote e al percorso di progressiva conformazione esistenziale a Cristo, unico sommo sacerdote, che ha inizio con il sacramento dell'ordine e prosegue per tutto il tempo dell'esistenza terrena. In tal senso, ciascun sacerdote è, per eccellenza, uomo della comunicazione: della comunicazione con Dio e della comunicazione di Dio ai fratelli, a lui affidati nella sollecitudine del ministero. Come ricorda la Lettera agli Ebrei (5, 1-2), il sacerdote è un uomo totalmente relativo a Dio, dell'unico «relativismo» di cui sia possibile gloriarsi! È un uomo costituito dalla Misericordia divina in una precisa funzione rappresentativa di Cristo stesso: è alter Christus, come c'insegna la migliore tradizione ecclesiale. In tal senso egli è, indipendentemente anche dalle personali doti di comunicatore, sacramentalmente costituito in comunicazione-rappresentativa di Cristo stesso: il sacerdote e il sacerdozio non sono autosufficienti o indipendenti da Cristo e, quando — Dio non voglia! — lo divenissero, perderebbero la propria stessa forza missionaria, riducendosi a mere realtà umane, incapaci, per conseguenza di comunicare e rappresentare il Mistero. Lo stesso esercizio dei Tria munera sacerdotali è eminentemente un atto di comunicazione. Non mi riferisco solo al munus docendi, che lo è in modo più diretto e immediato nella predicazione e nella catechesi, ma anche al munus sanctificandi, in quella straordinaria forma di celeste comunicazione che è la divina liturgia, che obbedisce a precise regole comunicative proprie, mai disponibili a personali manipolazioni o aggiustamenti, e al munus regendi, per mezzo del quale i sacerdoti sono chiamati a comunicare la sollecitudine di Cristo Capo, Buon Pastore, che pasce, attraverso i suoi ministri, il gregge, per condurlo al Padre. La comprensione e, dove necessario, la ri-comprensione della sostanziale natura ontologico-rappresentativa del sacerdozio ministeriale, distinto essenzialmente da quello battesimale, costituisce oggi un'autentica priorità per il clero, sia nella formazione iniziale, sia in quella permanente. Insegna a tal riguardo il Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1581: «Questo sacramento configura a Cristo in forza di una grazia speciale dello Spirito Santo, allo scopo di servire da strumento di Cristo per la sua Chiesa. Per mezzo dell'ordinazione si viene abilitati ad agire come rappresentanti di Cristo, Capo della Chiesa, nella sua triplice funzione di sacerdote, profeta e re». La prima e più efficace condizione perché ciascun sacerdote assuma consapevolmente la responsabilità della comunicazione che pone in essere, è determinata dalla comprensione della propria autentica e profonda identità, sacramentalmente e definitivamente determinata, non disponibile e, proprio per questo, oggettiva comunicazione del divino. Lo stesso Santo Padre, nel mettere in luce il nucleo essenziale della spiritualità di san Giovanni Maria Vianney, nel cui 150° anniversario celebriamo l'Anno sacerdotale, lo ha individuato nella «totale immedesimazione con il proprio ministero». Proprio tale immedesimazione è condizione imprescindibile d'ogni efficace comunicazione. La seconda suggestione, che mi pare urgente offrire, riguarda l'indebito, e non di rado perfino davvero imbarazzante, proliferare dei «preti-star», presenti in molti organi d'informazione, soprattutto in televisione, senza alcun permesso dell'ordinario e senza possibilità di reale controllo da parte della legittima autorità ecclesiastica. Se da un lato sarebbe onestamente auspicabile, in tale ambito, un'opportuna riflessione sul servizio di «sorveglianza» degli ordinari — non si tratterebbe di un soffocante regime «poliziesco», ma di senso di responsabilità e di carità pastorale verso tutti, credenti e non — dall'altro ferisce non poco la constatazione di come spesso, se non nella maggioranza dei casi, certi sacerdoti, e persino alcuni religiosi, si discostino, anche palesemente, dalla comune dottrina, e non solo in ambito morale, ma anche de fide. È il segno d'uno smarrimento della propria coscienza identitaria, che determina, non di rado, disorientamento nei fedeli laici e nei comuni ascoltatori, i quali sono posti davanti alla differenza, talora clamorosa, tra la dottrina ufficiale della Chiesa e quanto comunicato — aggiungerei «inopportunamente!» — dai sedicenti preti-star. Sappiamo bene come il mondo, nel senso giovanneo — e in tal senso non pochi media svolgono pienamente questo compito — abbia sempre cercato di travisare la verità, di disorientare e, soprattutto, di nascondere la poderosa unità della dottrina cattolica, sia intesa in se stessa, come compiuto sistema di comprensione del reale che ha in Dio stesso la propria origine soprannaturale, sia rispetto alla reale unità del Corpo ecclesiale che, ben lo sappiamo, è seme fecondo d'efficace testimonianza, all'insegna della preghiera sacerdotale: Ut unum sint. Ora è quanto mai importante evitare il proliferare di quello che non ho timore di definire un vero e proprio far west comunicativo, nel quale alcuni sacerdoti, pretendendo di parlare in nome della Chiesa e, di fatto, in parte rappresentandola, almeno in forza dell'ordinazione sacramentale, procurano divisione e disorientamento, arrecando un vero e proprio danno all'unità e all'efficacia della comunicazione ecclesiale ed evangelica. Se si considera, poi, l'amplificazione che tali interventi mediatici hanno, in forza degli strumenti adottati la responsabilità diviene davvero incalcolabile. Vengono in mente le parole chiare del Signore: «Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli» (Matteo, 5, 19). Probabilmente, parte della Chiesa, e in essa del corpo episcopale chiamato a vigilare, deve ancora assumere pienamente il significato portante che, anche a livello antropologico, ha avuto, e avrà nei prossimi decenni, la cosiddetta «rivoluzione mediatica», che, dopo quella francese e industriale, è la più importante rivoluzione della modernità. Un'ultima osservazione sul significato e sulla corretta collocazione teologica della comunicazione. Non di rado si è creato un certo slittamento semantico tra i termini «comunione» (communio) e «comunicazione», pensando d'individuare reali o presunte «radici trinitarie» alla comunicazione umana. Se è chiaro che è sempre l'uomo l'attore, o almeno uno degli attori, della comunicazione, e che l'uomo è stato creato a immagine del Dio trinitario, ed è chiamato a divenirne somiglianza, tuttavia non pare direttamente giustificata un'identificazione dei due suddetti termini. La communio appartiene all'ordine dei fini ed è assolutamente necessario rispettarne la natura, anche e soprattutto all'interno del discorso teologico. La comunicazione, per contro, appartiene all'ordine dei mezzi e può lecitamente essere descritta come un mezzo, forse come uno dei mezzi più efficaci, per il raggiungimento o, meglio, l'accoglienza della communio. Ritengo che la riflessione su questa «strumentalità» e «finalizzazione» della comunicazione alla comunione, sia premessa indispensabile d'ogni pensare teologico, che voglia portare un contributo realmente edificante, e permetta, anche alla comunicazione dei sacerdoti, una reale finalizzazione che, in sintesi, potrebbe, semplicemente, rispondere alla domanda: «Quanto sto comunicando appartiene alla Chiesa? Favorisce la comunione? Comunico, cioè metto in comunione, chimi ascolta, con duemila anni di storia cristiana?». Anche nella comunicazione dei sacerdoti è di straordinaria efficacia quanto ricordato dal Papa nella Caritas in veritate: «L'essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. Talvolta l'uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende — per dirla in termini di fede — dal peccato delle origini. La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell'interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società: “Ignorare che l'uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell'educazione, della politica, dell'azione sociale e dei costumi (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 407)». Evidentemente può essere causa di gravi errori anche nel campo della comunicazione e della «comunicazione nella missione del sacerdote». (Mauro Piacenza, L’Osservatore Romano, 20 novembre 2009)
Sindone firmata: è già polemica
«In base ai confronti svolti, oggi sono convinta che le tracce di scrittura identificate sul lino della Sindone possano appartenere ad un testo derivato direttamente o indirettamente dai documenti originati fatti produrre per la sepoltura di Yeshua ben Yosef Nazarani, più noto come Gesù di Nazareth detto il Cristo». È questo il sasso lanciato nello stagno della scienza della Sindone, il celebre (e discusso) sudario di Cristo conservato a Torino, da una storica di recente balzata agli onori delle cronache per i suoi saggi medievalistici. Già il volume I Templari e la sindone di Cristo (Il Mulino), uscito a inizio anno, di Barbara Frale, funzionaria dell’Archivio Segreto Vaticano, aveva diviso gli esperti. Ora, con La Sindone di Gesù nazareno (Il Mulino, pp. 254, euro 28), la Frale - nata a Viterbo nel 1970 - lancia un’altra ipotesi suggestiva: che sul lino custodito all’ombra della Mole si annidino alcune scritte multilingue vergate da un funzionario addetto alla sepoltura dei condannati a morte nella Gerusalemme del I secolo. Qui Barbara Frale interpreta un’iscrizione compatibile con la tradizione che vede nel sudario il telo che avvolse il corpo di Gesù di Nazareth, che nella primavera prossima verrà di nuovo mostrato in pubblico: a Torino si recherà pellegrino anche Benedetto XVI. La Frale ha interpretato la seguente scritta: «Gesù Nazareno deposto sul far della sera, a morte, perché trovato» colpevole. Il tutto scritto con termini di tre idiomi: latino, greco ed ebraico. E al profluvio di critiche che si preannunciano, la giovane addetta dell’Archivio vaticano risponde così nelle conclusioni del suo volume, anticipato ieri da Repubblica: «L’ipotesi che le scritte siano state messe da un falsario per avvalorare l’autenticità della Sindone è da scartare: infatti questo truffatore avrebbe dovuto inventare un sistema complicato per lasciare sul telo certe tracce che sarebbero divenute visibili ai posteri solo tanti secoli dopo, con l’invenzione della fotografia; inoltre qualunque falsario avrebbe usato le diciture del titulus crucis, quelle descritte dall’evangelista: non certo quelle strane parole che con i Vangeli non c’entrano proprio nulla». E la discussione si infiamma. «Sono molto stupito». Monsignor Giuseppe Ghiberti, vicepresidente del Comitato per l’ostensione della Sindone, non nasconde la sua perplessità, sebbene metta le mani avanti: «Prima di tutto bisogna leggere l’opera. Sono stato di fronte alla Sindone ore e ore e mai ho avuto sentore di nulla del genere. E nemmeno l’hanno avuto professori competenti in elaborazione di immagini». Circa il carattere multilinguistico della ricostruzione, Ghiberti afferma: «L’unico precedente che può dare peso a questa ipotesi è il titolo della croce di Gesù, che era in più lingue». Ma alla domanda se ritenga realistica la tesi della studiosa laziale, Ghiberti risponde con un eloquente sospiro. E riprende: «Quando non si conoscono bene gli argomenti altrui, si preferisce sospendere il giudizio. Ma tutto questo non mi convince». «Non voglio essere ironico né polemico», esordisce Luciano Canfora, docente di Filologia greca e latina all’università di Bari. «Ma secondo me Barbara Frale si è avventurata in qualcosa di molto insidioso». Per lo studioso barese «la ricchezza di particolari nascosti nelle fibre di lino fa pensare a una vera falsificazione». Canfora qualifica come errata l’ipotesi della Frale in base a due elementi: la ricchezza di dettagli e il poliglottismo della scritta decifrata. «Si presenta tutto ciò come una gigantesca novità, ma così non è. La prima, forte perplessità è la presenza di tre lingue nella scritta ritrovata. La Frale spiega tale riscontro con il pluriculturalismo della Gerusalemme del tempo. Ma un conto è l’ambiente culturale di una città - annota Canfora -, altra cosa un documento che racchiude tre lingue. È come se oggi un taxista di origine indiana a Londra, per scrivere una ricevuta, utilizzasse tre idiomi diversi». Canfora sottolinea un altro particolare per spiegare la sua disapprovazione: «Tutto si basa sull’idea che al collo del condannato vi sia il verbale del giudizio di Caifa su Gesù». L’affermazione che si trattasse di uno scritto fatto da un becchino trova l’antichista pugliese nettamente scettico: «Non è ovvio che esistesse una figura del genere. Non abbiamo ancora una trattazione sistematica sulla figura di funzionari addetti alla sepoltura dei condannati a morte nella Giudea del I secolo: vi sono testimonianze contraddittorie al riguardo». Canfora stabilisce un parallelo tra il papiro di Artemidoro e la Sindone, o meglio tra la contestata autenticità della seconda e la dimostrata falsità del primo: «I numerosi dettagli, che vogliono avvalorare l’autenticità, indicano invece che questi elementi scritturistici sono aggiunte tardive. Com’è stato constatato dalla polizia scientifica per il papiro di Artemidoro». Canfora riconosce che Barbara Frale non propone una tesi: «Lei dice: io ho trovato questo. Ma ha riscontrato cose tutt’altro che univoche!». A Canfora replica Franco Cardini, medievalista e docente all’università di Firenze: «Primo: dobbiamo difendere Barbara Frale dai sindonologi che si scagliano con durezza contro quanti sostengono ipotesi troppo forti. La sua non è ancora una tesi ma un’ipotesi, ragionevole e affascinante, basata su indizi. Si tratta di una pista interessante. Ritengo che gli indizi che lei individua siano troppo coerenti per poterli considerare frutto del caso. Si è limitata a riempire dei vuoti di documentazione come solitamente si fa nella ricerca storica. La sua è un’interpretazione con forti basi storiche, niente a che fare con la fantastoria di Dan Brown». Insomma, per lo storico fiorentino siamo davanti a «un lavoro serio, da prendere in considerazione, in cui ci sono osservazioni geniali». È poi singolare che Cardini giudichi in maniera opposta il particolare del plurilinguismo rinvenuto dalla Frale sul lino di Torino, cosa che Canfora bolla come «artefatto»: «Se si trattasse di un documento di ambiente caratterizzato da un forte monolinguismo, capirei l’obiezione. Ma la Gerusalemme del I secolo era un luogo di straordinario incrocio linguistico: il latino era la lingua ufficiale ma il greco rappresentava il "basic english" del tempo. Poi c’erano il caldeo, l’ebraico, e altre lingue che poggiavano su una grande tradizione grafica». Cardini guarda all’oggi per suffragare la plausibilità dell’interpretazione plurilinguistica della Frale: «I ragazzini arabi dei suk della Gerusalemme attuale, quando scrivono, passano tranquillamente dalla grafia araba a quella latina dell’inglese. Il plurilinguismo della scritta della Sindone non mi sorprende affatto». Invece Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di Sindonologia di Torino, non concorda con la Frale: «Premetto che devo leggere il libro per un giudizio completo. Comunque, già nell’opera precedente, questa studiosa faceva un accenno a tale ipotesi. Il nodo è che queste scritte sono tutt’altro che confermate. Non è mai stato fatto un rilievo fotografico che dia risposte definitive se sulla Sindone ci siano delle scritte. Del resto in molti vi hanno rinvenuto tantissime parole: sembra più un’enciclopedia che un sudario!». Barberis afferma che è prioritario «stabilire se queste scritte esistono. Che poi si giunga a conclusioni del genere della Frale, mi sembra fantascienza e fantastoria. Sono inoltre estremamente critico su queste ipotesi perché possono essere strumentalizzate dagli avversari della Sindone». (Lorenzo Fazzini, Avvenire, 21 novembre 2009)
La sfida delle cellule staminali
Le cellule staminali sono oggi oggetto di prospettive e competizioni maggiori nel campo delle scienze e della medicina. È stato lo sviluppo degli studi sull’embrione umano che ha stimolato l`interesse per questo tipo di cellule e ha portato a partire dal 1998 a scoprire mezzi tecnici per isolarle e coltivarle in vitro. Queste cellule staminali embrionali si sono rivelate immediatamente molto interessanti per la biologia e la medicina. Ciò che le rende per alcuni versi uniche nella loro specie è la proliferazione abbondante e la quasi illimitata possibilità di differenziazione in tutti i tipi di cellule dell’organismo. Queste cellule, tuttavia, hanno evidenziato profondi limiti per la loro utilizzazione terapeutica. Al di là dei gravi problemi etici che suscitano – per poter avere queste cellule si deve distruggere l’embrione – ciò che crea seri problemi presso gli scienziati è il rifiuto che viene loro opposto dalle difese immunitarie dell’organismo nel momento in cui sono trapiantate nel paziente, fino a generare tumori, e la loro sopravvivenza in coltura dovuta a cellule di topo. Si è visto, al contrario, che altre cellule staminali possono trovare maggior efficacia in diverse patologie; queste sono chiamate “adulte”, se rinvenute nei diversi tessuti dell’organismo, o “ombelicali” se raccolte dal sangue del cordone ombelicale. Il loro prelievo non pone nessun problema di ordine etico, non generano cancro nelle parti di trapianto e sono ben accettate dall’organismo dei pazienti. Un limite di queste cellule, purtroppo, è la loro mancanza di abbondante proliferazione, di potenziale differenziazione in tutti i tipi cellulari dell’organismo e di stabilità in coltura. È per questo motivo che alcuni scienziati rimangono maggiormente attratti dalle cellule staminali embrionali, nonostante i seri problemi a cui si è fatto cenno. Nel settembre 2006 la Pontificia Accademia per la Vita si fece promotrice di un convegno per valutare le conoscenze acquisite sulle cellule staminali, sul loro reale potenziale e sulla possibile potenzialità nella prassi terapeutica. In quell’occasione, lo scienziato giapponese Shinya Yamanaka annunciò che contro ogni attesa era riuscito a riprogrammare delle cellule di topolini già differenziate per farle divenire delle cellule staminali indifferenziate, pluripotenti, dotate di tutte le qualità delle cellule staminali embrionali. Chiamò queste cellule “iPS” (induced Pluripotent Stem cells). L`anno successivo, Yamanaka con alcuni colleghi pubblicò altri studi che riportavano ulteriori esperimenti di riprogrammazione cellulare partendo questa volta da cellule di pelle umana. In maniera indipendente da Yamanaka, anche il famoso ricercatore americano James Thomson era giunto agli stessi risultati di riprogrammazione cellulare, evidenziando il loro carattere innovativo. Questi studi, che hanno segnato una svolta decisiva nella ricerca sulle cellule staminali, sono stati giudicati lo scorso dicembre dalla prestigiosa rivista “Science Magazine”, come il “passo più significativo” dell’anno. La tecnica di produzione di cellule iPS, infatti, ha permesso di realizzare ciò che era impensabile in materia di biologia cellulare: far passare cellule adulte differenziate allo stato di cellule immature, indifferenziate, di tipo embrionale. Ad oggi circa trecento laboratori sparsi per il mondo studiano queste cellule e ciò che merita attenzione è il fatto che numerose squadre di ricercatori sono passati dallo studio delle cellule staminali embrionali a quello delle cellule iPS. È importante osservare che le cellule iPS non presentano solo le stesse caratteristiche delle cellule staminali embrionali umane in termini di proliferazione cellulare, stabilità e potenziale di differenziazione, ma le superano su almeno tre fronti. Il primo è di ordine etico: le iPS, infatti, non sono ottenute attraverso la distruzione della vita umana di embrioni vitali. La loro riprogrammazione risolve pienamente le difficoltà etiche, rispettando la dignità e la vita umana. Con l’avvento delle cellule iPS, pertanto, si può considerare chiuso il dibattito etico che ha agitato l’opinione pubblica, i parlamenti e la comunità scientifica. Il secondo riguarda le applicazioni terapeutiche: le cellule iPS offrono il grande vantaggio di essere ottenute da cellule prelevate direttamente dal paziente. Ciò significa che nel momento del loro trapianto risultano immunocompatibili con l’organismo del paziente stesso e, dunque, perfettamente accettate. Il terzo, infine, consente di verificare come le cellule iPS permettono di creare dei modelli di patologie. È sempre grazie a Yamanaka che si può parlare per l’immediato futuro di generazione di modelli cellulari delle malattie, in vitro, come la prima applicazione pratica di questa tecnologia. Si possono ricordare in proposito studi già effettuati con la produzione di cellule iPS a partire da cellule di pazienti con un gene mutato responsabile della sclerosi laterale amiotrofica (Sla) o di altre patologie quali il morbo di Parkinson, il diabete giovanile, l’atrofia muscolare spinale. La cosa, come si può ben osservare, non è affatto trascurabile, ma anzi presenta aspetti estremamente importanti soprattutto per la farmacologia. Su queste recenti scoperte, è apparso importante offrire una nuova opportunità ai ricercatori e a quanti si interessano di cellule staminali. La Pontificia Accademia per la Vita, la Federazione Internazionale delle Associazioni dei Medici Cattolici, la Fondazione Jérôme Lejeune e il Comitato Consultativo di Etica del Principato di Monaco si fanno promotori del secondo Congresso Internazionale sulle cellule staminali adulte dal titolo Adult somatic stem cells: new perspectives, che si terrà a Monaco dal 26 al 28 novembre. Ci auguriamo che i risultati di questo importante Convegno possano permettere un ulteriore progresso nella ricerca scientifica sulle cellule staminali, attenta a rispettare l’integrità della vita umana e nello stesso tempo capace di rispondere con efficacia alla pressante necessità terapeutica, nel quadro di una medicina rigenerativa divenuta realtà. (Mons. Rino Fisichella, L’Osservatore Romano, 23 novembre 2009)
22 novembre 2009
Romano Amerio: Il Vaticano II non ha affatto rotto col passato
Aveva diritto a un risarcimento il filosofo e teologo Romano Amerio che nel 1985 pubblicò il suo Iota unum e fu tacciato di anticonciliare, passatista, addirittura lefebvriano. Adesso che il ponderoso volume è disponibile [nell'edizione di Fede & Cultura), si può riflettere più serenamente non solo sulle questioni sollevate da Amerio, ma anche su tutto il periodo postconciliare. Lo «sdoganamento» di Amerio corona gli sforzi e la cocciutaggine del suo fedele discepolo Enrico Maria Radaelli, il quale, incoraggiato anche dal filosofo dell’Università Lateranense Antonio Livi, pubblicò nel 2005 un profilo del maestro ticinese, favorevolmente recensito dalla Civiltà cattolica nel 2007. L’Osservatore romano, che nel 1985 non aveva pubblicato la recensione favorevole a Iota unum redatta dal prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, Angelo Paredi, nel 2007 ha riservato ampio spazio al convegno indetto per il decennale della morte di Romano Amerio, pubblicando integralmente l’ampia relazione conclusiva di monsignor Agostino Marchetto. E qui tocchiamo un primo merito di Amerio, cioè di contrastare l’interpretazione del Vaticano II come discontinuità, svolta, rottura con la tradizione, quasi che da esso fosse nata una Chiesa diversa da quella fondata da Cristo. È questa la tesi sviluppata nei cinque volumi della Storia del Concilio Vaticano II elaborata dall’Istituto per le Scienze religiose di Bologna, animato da Dossetti, Alberigo e Melloni (in ordine decrescente di statura), tesi che monsignor Marchetto, non solo nel convegno su Amerio ma anche in ponderosi volumi, ha saputo smantellare, con soddisfazione dell’Osservatore. Dunque, Romano Amerio è innanzitutto indomito paladino della continuità della tradizione, dalla consegna delle chiavi a Pietro fino alla fine dei tempi, attraverso tutti i Concili finora celebrati e quelli che seguiranno in futuro. Si tratta, per dirla coi classici, dello «sviluppo omogeneo del dogma». Un secondo punto a favore di Amerio lo possiamo sintetizzare con le parole che un suo sincero estimatore, don Divo Barsotti, ebbe a scrivere in tempi non sospetti: «Amerio dice in sostanza che i più gravi mali presenti oggi nel pensiero occidentale, ivi compreso quello cattolico, sono dovuti principalmente a un generale disordine mentale per cui viene messa la caritas avanti alla veritas, senza pensare che questo disordine mette sottosopra anche la giusta concezione che noi dovremmo avere della Santissima Trinità». Amerio dimostra che il dialogo non può essere separato dall’annuncio, allo scopo di favorire la libera conversione dell’interlocutore; che una pastorale valida non può non essere teologica, e che una teologia valida non può non avere un ancoraggio metafisico. È quanto ha sostenuto monsignor Mario Oliveri, vescovo di Albenga-Imperia, nel profilo di Amerio appena pubblicato su Studi cattolici. È chiaro che il primato della verità sulla carità va inteso in senso ontologico, non cronologico, dato che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono coeterni e coessenziali. Nella pratica ascetica, dottrinale, pastorale, sociale, tutto si tiene, come indica Benedetto XVI nella Caritas in veritate segnalando «il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della veritas in caritate (Ef 4, 15), ma anche in quella, inversa e complementare, della caritas in veritate. La verità va cercata, trovata ed espressa nell’"economia" della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità». Iota unum, che si presenta con una certa dispersione analitica, va interpretato alla luce di questo criterio unificante, peraltro senza l’esagerazione di presentare Amerio come nuovo san Tommaso. (Cesare Cavalleri, Avvenire, 1 settembre 2009)
1100 anni fa: Cluny, la rinascita del Medioevo
Fu una grande, autentica rivoluzione. Immaginiamoci un mondo desolato, tutto foreste e brughiere, sorvegliato da tetri castellacci ch’erano piuttosto fortezze cinte da palizzate, con centri demici piccoli e miserabili. E prendiamo un pugno di uomini in abito nero, giovani o giovanissimi la più parte, armati d’una gran voglia di costruire, di organizzare il lavoro attorno a loro, di legger libri e di diffonderli riproducendone copie, d’innalzare a Dio preghiere sulle ali d’un nuovo modo di far musica e di elevargli chiese e monasteri animati da una nuova concezione architettonica. Gente decisa a trasformare la terra in un’anticamera del paradiso, a somiglianza dei loro orti claustrali odorosi di fiori e di piante che ridonano la salute agli ammalati. Un miracolo. Forse questo è un quadro un po’ troppo colorato: ma non lontano da quella realtà che si squadernò a partire dalla Borgogna del X secolo, da dove partì una riforma monastica che mutò volto non solo alla Chiesa latina, ma a tutta l’Europa occidentale e centrale. Una riforma che segna, quanto meno nei nostri schemi mentali, la linea di passaggio dall’Alto al pieno Medioevo. Nel X secolo, oltre un millennio fa, l’Europa cominciava a uscire da un lungo letargo. L’impero romano d’Occidente era stato cancellato da circa mezzo millennio, c’erano stati esperimenti di ricostruzione statale ad opera di regnanti barbarici non ignari dell’antichità; il cristianesimo si era diffuso variamente acculturandosi con i costumi pagani celti, germani e slavi; i vescovi di Roma avevano faticosamente e imperfettamente affermato il loro modello liturgico e disciplinare di Chiesa latina coniugandolo con svariate tradizioni locali; il colto e prospero mondo greco-orientale era sempre più lontano, nuovi barbari - ungari, normanni, saraceni - si erano affacciati ai confini, l’islam aveva occupato il Mediterraneo e la penisola iberica recandovi peraltro una cultura, un sapere e una tecnologia allora nettamente superiori rispetto all’occidentale. Un re germano brutale e lungimirante, il franco Carlo figlio di Pipino ("Carlomagno"), aveva fondato un nuovo tipo d’impero che ambiziosamente avrebbe voluto collegarsi al modello romano ma il suo esperimento, fra VIII e IX secolo, si era andato frammentando nei decenni successivi lasciando posto a quell’esperienza che noi definiamo, impropriamente, "feudalesimo". Alla fine del X secolo, un re sassone - Ottone I - avrebbe ripreso l’esperienza "imperiale" di Carlomagno, fondando una realtà istituzionale fragile, contraddittoria e affascinante che avrebbe resistito in Europa fino all’inizio dell’Ottocento. Un tempo di lenta e faticosa rinascita, dunque, il X secolo. Lo sappiamo anzitutto dalle tracce sicure di un miglioramento climatico. Ghiacci artici che si sciolsero, tempo più dolce, quindi raccolti agricoli migliori, contrarsi della piaga della fame, contrarsi della piaga della mortalità infantile, incremento demografico. Il numero crescente di gente in cerca di nuovi insediamenti contadini per lavorare la terra determinò un attacco alle brughiere paludose e alle fitte boscaglie. Le città antiche tornarono a riempirsi di abitanti; nuovi centri demici - magari in legno e paglia - sorsero dappertutto; si tracciarono nuove strade; si organizzarono ponti e guadi; si radicò un fenomeno già vivo ma ora carico di nuova linfa, il pellegrinaggio, e lungo le vie dei santuari sorsero anche nuovi mercati, magari stagionali e itineranti, in concomitanza con le feste dei santi locali (le feriae, "fiere"). Fu in questo contesto che nel 910 un grande principe della Francia centrale, Guglielmo I duca d’Aquitania e conte di Mâcon, fece dono di un grande possesso fondiario nella località di Cluny in Borgogna a un abate benedettino, Bernone, per costruirvi un monastero che, in omaggio appunto all’autorità del vescovo di Roma, sarebbe stato dedicato ai santi Pietro e Paolo. Il duca rinunziò fin dal principio a qualunque diritto di alta mano sulla nuova istituzione, ponendolo sotto la diretta autorità del pontefice romano e limitandosi a chiedere che in quel luogo si elevassero per sempre riti di suffragio per le anime sua e dei suoi familiari. Ai grandi successori di Bernone, Oddone (927-942) e soprattutto Maiolo (954-994), venne affidato il compito non solo di perfezionare la nuova abbazia secondo la regola benedettina, ma anche di farne il centro (la "casamadre") di una quantità di affiliazioni monastiche - tra cui l’importante abbazia regia di Fleury - dove alla regola si sarebbero aggiunte le consuetudines, le particolari norme elaborate appunto a Cluny: quella detta "cluniacense" divenne pertanto una particolare "congregazione" all’interno dell’Ordine benedettino (impropriamente si parla di un "Ordine di Cluny"). Cluny e le abbazie o i semplici monasteri che ad essa si affiliarono conobbero nel corso dei secoli X-XI uno straordinario sviluppo, affiancato da immensi donativi fondiari che resero la congregazione ricchissima consentendole una rigorosa ma anche agiata vita monastica incentrata sull’opus Dei - il servizio liturgico accompagnato da una speciale forma di canto e da una caratteristica cultura musicale-, sulla trascrizione di codici, sullo studio e sulla preghiera comune. Nell’abbazia-madre e in quelle affiliate si sviluppò anche una tipica esperienza architettonica, che fu parte fondamentale nell’elaborazione dello stile romanico. La rete delle abbazie e dei priorati cluniacensi giunse a coprire tutta l’Europa, con particolare densità in Francia, Italia settentrionale, ma anche Germania e penisola iberica. Da Cluny vennero novità fondamentali per tutta la Chiesa occidentale, dalla liturgia all’architettura sacra a vere e proprie originali istituzioni, come la festa dei santi e dei defunti del 1-2 novembre, che riprendeva cristianizzandola un’antica consuetudine celtica. Gli abati cluniacensi s’imposero poco a poco, con la loro autorevolezza, nella Chiesa romana, divenendo consiglieri di re, di prelati e di papi: venne così a configurarsi una vera e propria Ecclesia cluniacensis, che raggiunse l’apice sotto l’abate Ugo (1049-1109), fondatore della vera e propria potenza non solo spirituale, ma anche politica dell’abbazia, che fu uno dei motori più potenti della riforma morale e istituzionale della Chiesa. Primo cluniacense ad essere eletto papa fu il priore Oddone di Lagery, consigliere di Gregorio VII ed eletto papa nel 1088. Fu a lui che si deve il primitivo impulso del movimento che noi chiamiamo "prima crociata", un pellegrinaggio armato profondamente connesso con le vicende della "lotta per le investiture" e della riforma morale della Chiesa e della società del tempo. (Franco Cardini, Avvenire, 15 Novembre 2009)
Filmoteca Vaticana: la storia della Chiesa in 35 millimetri
"Quest'anno ricorre il 50 anniversario della fondazione della Filmoteca Vaticana, voluta dal mio venerato predecessore, il beato Giovanni XXIII, e che ha raccolto e catalogato materiale filmato dal 1896 a oggi in grado di illustrare la storia della Chiesa. La Filmoteca Vaticana possiede pertanto un ricco patrimonio culturale, che appartiene all'intera umanità. Mentre esprimo viva gratitudine per ciò che è già stato compiuto, incoraggio a proseguire tale interessante lavoro di raccolta, che documenta le tappe del cammino della cristianità, attraverso la suggestiva testimonianza dell'immagine, affinché questi beni siano custoditi e conosciuti". Con queste parole Benedetto XVI ha ricordato i cinquant'anni di attività della Filmoteca Vaticana, impegnata a ricercare e conservare il materiale filmato sulla storia dei Pontefici, della Chiesa, della sua opera nel mondo, oltre a una serie di film di alto valore artistico e umano. L'invenzione del cinema ha indubbiamente creato un nuovo modo di comunicare. Nato nel 1895 per documentare il mondo e le attività dell'uomo, si è andato configurando sempre più come manifestazione artistica ed espressione della società. Le immagini in movimento sono diventate uno degli elementi caratteristici della società contemporanea, fondamentali per registrare e riprodurre le vicende del reale, anche se solo nel 1980 l'Unesco ha riconosciuto che i film sono un bene culturale e, come tali, fanno parte del patrimonio dell'umanità. L'esigenza di preservare dalla scomparsa gli elementi costitutivi di questo patrimonio culturale del Novecento, con la volontà di trasmetterlo alle generazioni future, risale indietro nel tempo ed è all'origine delle filmoteche, strutture nate per custodire la memoria, riscoprendo e valorizzando le immagini filmate. La Filmoteca Vaticana, come tante altre nel mondo, è impegnata a ricercare, conservare e divulgare materiali non sempre noti, ma particolarmente preziosi, che rendono la sua collezione unica al mondo. Essa, infatti, custodisce un piccolo pezzo di questo patrimonio culturale composto dalle immagini filmate che ricostruiscono la storia della Chiesa, ma che testimoniano anche lo stretto legame tra i Pontefici del Novecento e la comunicazione. Quando il 16 novembre di cinquant'anni fa Giovanni XXIII istituisce la Filmoteca Vaticana, comprende già il valore della testimonianza filmata, al punto di creare nella Città del Vaticano un archivio che possa raccogliere e conservare il materiale audiovisivo. Il 1959 è un anno particolare nel pontificato di Roncalli; è, infatti, lo stesso anno in cui il Papa annuncia il concilio Vaticano II, in un momento di profondi cambiamenti storici e sociali. Da qui è nata l'idea di ricordare l'anniversario della Filmoteca con un dvd, La Filmoteca Vaticana. Immagini dal concilio, realizzato da Nicola Vicenti unicamente con le immagini dell'archivio. Il filo conduttore del documentario è il legame che unisce la Filmoteca al Vaticano II. I due eventi potrebbero sembrare slegati, ma in realtà sono intimamente connessi dalla necessità che il Papa sente di parlare al mondo, con il suo stesso linguaggio. E lo fa attraverso i media, che stanno velocemente trasformando la realtà del pianeta e che saranno i testimoni dell'evento che porterà la Chiesa universale in una nuova era. L'urgenza è comunicare con tutti. Il documentario è stato realizzato selezionando le oltre 100 ore di filmati sul Vaticano II, senza la pretesa di esaurire l'argomento in 60 minuti, sottolineando piuttosto lo spirito di quell'aggiornamento che interrogava la Chiesa universale e coinvolgeva tutti gli uomini, mentre la comunicazione viaggiava veloce, grazie alla possibilità offerta dai media di raggiungere tutti i cristiani. In tutti questi anni la Filmoteca Vaticana ha continuato a ricercare e custodire le testimonianze filmate sulla Chiesa e i Pontefici che, con criteri ed espressioni diverse, secondo le epoche, hanno dimostrato attenzione, interesse, stima, e a volte riserve, per gli strumenti della comunicazione, aprendo la strada al loro utilizzo da parte dei fedeli e della Chiesa stessa, per annunciare il messaggio di Cristo. La Chiesa, dunque, entra con Papa Giovanni XXIII in questo rinnovamento, con l'intento di instaurare un rapporto di dialogo che conduca alla reciproca comprensione e tale percorso si può ricostruire attraverso il materiale filmato raccolto in cinquant'anni dalla Filmoteca, sottolineando come in ogni epoca i Pontefici abbiano definito determinate forme espressive di comunicazione. Leone XIII, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI. Centotredici anni di storia a cui fanno da sfondo guerre, tragedie e traguardi dell'uomo. In un immaginario lungometraggio realizzato con i documenti di archivio sarebbe possibile illustrare la storia della Chiesa, della comunicazione e allo stesso tempo del mondo, attraverso gli eventi che hanno caratterizzato gli anni in cui la macchina da presa è diventata testimone dell'uomo. Per questo motivo la Filmoteca Vaticana è aperta a tutti coloro che vogliono comprendere meglio la storia della Chiesa e l'accoglienza dei ricercatori è fondamentale, perché spesso arrivano in archivio senza una vera consapevolezza di determinati argomenti, magari con qualche pregiudizio, ignorando l'esistenza di immagini che si rivelano poi una vera scoperta. Conserviamo dunque il materiale per tramandarlo, mostrarlo a chi, vedendolo per la prima volta, conosce e si incuriosisce tanto da voler approfondire determinate tematiche, o a chi, rivedendo immagini già conosciute, rivive il suo passato e riscopre le sue radici. La Filmoteca Vaticana compie ogni giorno il percorso di catalogazione dei documenti audiovisivi, attraverso una serie di passaggi non semplici che partono dall'identificazione delle immagini e puntano alla conservazione e alla valorizzazione dei materiali. Le pellicole, pur essendo tra gli standard più duraturi, hanno bisogno di attente cure per durare nel tempo e i film in attesa di essere esaminati sprigionano a volte un odore di aceto; è l'odore inconfondibile di un processo debilitante di degradazione chimica che colpisce le vecchie pellicole a base di acetato di cellulosa che, se non opportunamente conservate, sono destinate alla distruzione. In cinquant'anni molte di queste pellicole, alcune uniche, sono state salvate e recuperate grazie proprio agli sviluppi di tecniche sempre più affidabili, aggiungendo un'altra tessera al grande mosaico della storia umana. Ogni anno riusciamo a recuperare qualche filmato rilevante, come nel caso di Guerra alla Guerra, la pellicola del 1948 restaurata assieme alla Cineteca Nazionale. Questo documentario, importante dal punto di vista artistico e storico, attesta l'impegno di Pio XII durante la seconda guerra mondiale, a favore di tutte le vittime del conflitto e rappresenta una riflessione fondamentale sulla guerra, anche per le nuove generazioni. A questo si aggiungono le 70 pellicole che documentano l'attività della Pontificia Opera di Assistenza (Poa) voluta da Pio XII come sostegno ai bisognosi. A marzo, tra l'altro, è stato realizzato il dvd Pastor Angelicus, un film del 1942 che, sempre sullo sfondo della guerra, è uno straordinario esempio di comunicazione da parte della Chiesa. La Filmoteca Vaticana ha voluto celebrare così i 70 anni dell'elezione di Pio XII, avvenuta il 12 marzo 1939, sottolineando il fatto che dopo di lui è cambiato il modo di fare comunicazione. Un elenco di tutto il materiale dell'archivio sarebbe impossibile da redigere, ma i titoli catalogati sono oggi 7.800. Grazie alle migliaia di metri di pellicola conservati, la Chiesa si esprime attraverso i suoi Pontefici, i santi, i missionari, i sacerdoti, gli uomini che hanno prestato la loro opera al servizio del Vangelo. E a questo si aggiunge lo sguardo degli artisti, di coloro che attraverso il film hanno espresso la loro spiritualità per condividerla con lo spettatore. Vent'anni fa l'archivio aveva 500 titoli registrati su un libro e le pellicole erano conservate in un ambiente non del tutto idoneo. In questi venti anni la Filmoteca è cresciuta; molto materiale che era destinato alla distruzione è stato recuperato e sono stati creati ambienti climatizzati che garantiscono la conservazione delle pellicole. Quelle pellicole che ancora oggi vedono la luce nella piccola sala di proiezione che si trova a Palazzo San Carlo, realizzata negli anni Sessanta e completamente ristrutturata nel 2005. In questa sala sono stati proiettati documentari storici, film di particolare valore, fiction di argomento religioso, proiezioni nelle quali l'archivio ha avuto l'onore di ospitare attori, registi, produttori, ma soprattutto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. La Filmoteca Vaticana continua dunque il lavoro per il quale è stata creata, aperta alle collaborazioni, agli scambi, attenta alla conservazione e sempre alla ricerca di filmati che possono contribuire a ricostruire pezzo dopo pezzo la storia della Chiesa e dell'uomo, le sue radici. In passato, l'immagine filmata ha faticato a ottenere il suo riconoscimento. Ormai però il cinema è considerato una forma d'arte, simbolo del XX secolo, elemento sostanziale della sfera comunicativa, testimonianza storica e culturale capace di esprimersi attraverso la creatività, mezzo per documentare la storia e conservare la memoria culturale, strumento di conoscenza. Le parole d'incoraggiamento del Santo Padre sono l'augurio migliore per l'anniversario della Filmoteca Vaticana, una piccola realtà con una collezione davvero eccezionale che non vuole restare chiusa in una scatola, perché l'archivio conserva la memoria, una memoria fatta di ricordi che devono essere sollecitati affinché l'identità cristiana dell'uomo non resti nascosta in un cellario ben climatizzato. La sola conservazione del patrimonio filmato non basta; fondamentale rimane la sua diffusione. (Claudia Di Giovanni, ©L'Osservatore Romano, 15 novembre 2009)
una possibilità concreta non contraria all'ecumenismo
L'arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, primate della Comunione anglicana, sarà a Roma dal 19 al 22 novembre per intervenire al colloquio dedicato al cardinale Johannes Willebrands nel centenario della nascita, in programma giovedì 19 alla Pontificia Università Gregoriana. Porterà una testimonianza ecumenica e con ogni probabilità "parlerà proprio dello sviluppo indiscutibilmente positivo dei rapporti tra anglicani e cattolici dopo il concilio". Sarà una occasione anche per fare il punto sulla nuova Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus.
Il cardinale Walter Kasper, presidente del
Pontificio Consiglio per la Promozione dell'unità dei cristiani,
annuncia così, in un colloquio con "L'Osservatore Romano", che con il
primate saranno esaminati direttamente gli sviluppi della nuova
struttura personale pensata dal Papa per gli anglicani: "La sua prossima
visita in Vaticano dimostra che non c'è stata alcuna rottura e rilancia
il desiderio comune di parlarsi in un momento storico importante. Con
questo spirito l'arcivescovo di Canterbury si incontrerà con membri
della Curia romana e il 21 novembre parlerà con il Papa. Abbiamo
l'occasione di aprire una nuova fase del dialogo ecumenico che continua
a essere una priorità della Chiesa cattolica e del pontificato di
Benedetto XVI". La Costituzione apostolica "si comprende proprio a partire dal concilio e dai dialoghi diretti che ha suscitato" evidenzia il cardinale. Sulla "possibilità di un riavvicinamento c'erano già allora grandi speranze anche perché nei contatti diretti si avverte che abbiamo una tradizione comune di quindici secoli". Aspettative andate però "un po' deluse, soprattutto di recente, per via di alcuni sviluppi interni alla Comunione anglicana. Si sono infatti susseguite l'ordinazione delle donne al presbiterato e poi all'episcopato, la consacrazione di un vescovo omosessuale, la benedizione di coppie dello stesso sesso: scelte che hanno provocato gravi tensioni interne al composito mondo anglicano. Per forza di cose si è allargato anche il fossato con i cattolici. Comunque la risposta critica a questi sviluppi non è venuta soltanto dagli anglicani filo-cattolici. Insomma, non tutti coloro che non sono d'accordo con quelle novità vogliono diventare cattolici, anche perché tra gli anglicani la maggioranza è d'ispirazione evangelica". Kasper spiega senza giri di parole la genesi e il significato della nuova Costituzione apostolica a partire dall'esperienza diretta del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'unità dei cristiani. "Stiamo ai fatti. Un gruppo di anglicani ha chiesto liberamente e legittimamente di entrare nella Chiesa cattolica. Non si tratta di una nostra iniziativa. Si sono rivolti prima al nostro Consiglio, e come presidente ho risposto che la competenza è della Congregazione per la Dottrina della fede". Il porporato tiene a spazzare il campo da equivoci "perché - sottolinea - in questi giorni ho letto tante ricostruzioni giornalistiche inverosimili": il Consiglio "è sempre stato informato dalla Congregazione per la Dottrina della fede e non è vero che sia stato tenuto da parte. Non abbiamo partecipato direttamente alle conversazioni ma siamo stati messi al corrente, com'è giusto. Il testo della Costituzione è stato preparato dalla Congregazione per la Dottrina della fede. Noi abbiamo visto la bozza e presentato le nostre proposte". Quali prospettive apre la Costituzione? "Non possiamo certo opporci - dice il cardinale - se un anglicano o un gruppo di anglicani vogliono entrare nella piena e visibile comunione con la Chiesa cattolica. Il Papa ha aperto la porta con benevolenza. Ha indicato una strada. Ha offerto una possibilità concreta che certo non è contraria all'ecumenismo. Già il decreto Unitatis redintegratio del Vaticano II puntualizza chiaramente che un conto è l'ecumenismo, un conto la conversione. Ma non c'è contraddizione. Del resto, l'idea di riunione corporativa prevista dalla nuova Costituzione è presente fin dall'inizio nel dialogo con gli anglicani". Infatti, secondo Kasper, "proprio i pazienti confronti ecumenici hanno mostrato che c'è già un ponte che ci unisce, e una vicinanza tale da poter compiere un passo così importante". E aggiunge con nettezza: "Pensare come qualche commentatore che il Papa con questa decisione voglia solo "allargare il suo impero" è ridicolo". Il difficile viene ora. Per il cardinale "è fisiologico che ci siano non piccoli problemi da risolvere in una questione così delicata. Un po' di confusione c'è stata soprattutto tra i giornalisti. Non è facile mettere d'accordo tutte le parti in causa, ascoltare le ragioni di ciascuno. Ora prendiamo atto di come stanno le cose e andiamo avanti insieme". Che cosa accadrà adesso? Kasper mette in guardia dal rischio di "parlare in astratto" e suggerisce di attendere gli sviluppi: "Per prima cosa dobbiamo sapere concretamente chi e quanti sono gli anglicani decisi a cogliere questa opportunità. Poi vedremo tempi e luoghi". Dal porporato viene dunque un "invito al realismo". Si deve "vedere caso per caso chi sono queste persone. Non ci si fa cattolici solo perché in disaccordo con le scelte della propria confessione. Come non è sufficiente firmare il Catechismo della Chiesa cattolica, anche se è una scelta significativa. Ecco perché tengo a ribadire: si deve vedere caso per caso e non generalizzare". Forte della propria esperienza di dialogo con gli anglicani, il cardinale fa notare che esistono "alcuni nodi difficili da sciogliere, problemi che non sono stati ancora affrontati e la cui soluzione appare complicata. Restando coi piedi per terra, diciamo subito che non sarà una decisione facile per i vescovi e i pastori anglicani, anche dal punto di vista della collocazione sociale". Tra le questioni pratiche da affrontare Kasper indica "la preoccupazione di alcuni vescovi di dividere la loro diocesi: una parte che entra nella Chiesa cattolica e un'altra che resta anglicana. Come gestire una separazione del genere? E poi la chiesa, intesa come edificio, a chi appartiene? Chi stabilisce se un edificio è di proprietà dello Stato o del comune o della comunità, se è cattolico o anglicano?". Qualche perplessità il cardinale nutre sul dialogo con la Traditional Anglican Communion: "I loro rappresentanti quasi due anni fa hanno chiesto di essere incorporati nella Chiesa cattolica. Ma non hanno preso parte alle conversazioni. Adesso però sono saliti al volo su un treno già in corsa. Va bene, se sono sinceri le porte sono aperte. Ma non chiudiamo gli occhi sul fatto che dal 1992 non sono in comunione con Canterbury". Parole nette ma non di chiusura: "Bisogna rispettare la coscienza e la libertà di coscienza. La conversione, poi, è un fatto personale: c'è la libertà della grazia, la libertà della decisione umana. Non si può entrare in questo campo, non si può spingere, non si può organizzare". Sulla delicata questione del celibato sacerdotale per Kasper non ci sono punti da chiarire e non c'è alcuna modifica nella disciplina della Chiesa: "È evidente che soltanto vescovi e sacerdoti già ad oggi ordinati possono restare sposati e che questo, di norma, non varrà nel futuro per i seminaristi". È quanto ha spiegato anche agli ortodossi: "A Cipro per evitare malintesi ho subito detto ai nostri partner ortodossi che non si tratta di proselitismo o di un nuovo uniatismo. Dell'argomento ho parlato una volta anche con l'arcivescovo di Canterbury e lui si è detto d'accordo sul fatto che non possa esistere un uniatismo anglicano. Del resto l'uniatismo è un fenomeno storico che riguarda le Chiese orientali e gli anglicani sono di tradizione latina. Resta valido il documento di Balamand del 1993, secondo cui si tratta di un fenomeno del passato avvenuto in circostanze non ripetibili. Non è un metodo per il presente e il futuro". Gli ortodossi "erano interessati soprattutto - dice il cardinale - a comprendere la natura dell'ordinariato personale per gli anglicani, e ho precisato che non si tratta di una Chiesa sui iuris e non ci sarà dunque il capo di una Chiesa ma un ordinario con potestà vicaria". Per Kasper, dunque, non ci saranno "ripercussioni negative" alla pubblicazione della Costituzione apostolica, neppure da parte protestante: "In tutti i cristiani è ormai un dato acquisito che il Papa vuole continuare i dialoghi ecumenici così come sono stati generati dal concilio Vaticano II". (Giampaolo Mattei, ©L'Osservatore Romano, 15 novembre 2009)
La Messa del Santo Curato d'Ars
«(...) Conosciamo quanta irregolarità di orario avesse in alcune sue azioni, come il mangiare o il dormire, ma, quando si trattava della Messa, il momento più santo della giornata, non tollerava nessun ritardo. Un giorno una delle persone più distinte della sua parrocchia gli fece chiedere che il mattino seguente ritardasse un poco la Messa per potervi partecipare, ma il Santo diede questa risposta: "Ditele che è impossibile: si alzi più presto. Io non posso fare perdere la Messa a nessuno dei miei parrocchiani per causa sua". Il momento della Messa!... Dal suo volto era scomparsa ogni nube di tristezza, ed ormai sembrava avere dimenticato la terra. Un giorno - secondo Caterine Lassagne - ebbe a dire confidenzialmente: "Io non vorrei essere parroco, ma sono contento di essere prete anche solo per potere celebrare la Messa!". Secondo il parere del suo confessore, "tutto ciò che aveva fatto dalla levata fino a quel momento, poteva essere considerato come un'eccellente preparazione". Ma egli voleva ancora alcuni minuti per meglio raccogliersi prima del santo Sacrificio. Rimaneva immobile inginocchiato sul pavimento del coro, con le mani giunte e gli occhi fissi al tabernacolo, e non vi era nulla che fosse capace di distrarlo in quegli istanti di intimità con Dio. Amava i paramenti ricchissimi e preziosi. Avrebbe voluto un calice d'oro massiccio, perchè "il più bello che aveva non gli sembrava ancora degno di contenere il sangue di Gesù Cristo". Soprattutto gli piaceva l'altare maggiore con la sua base di marmo, sulla quale sono scolpiti l'Agnello, San Giovanni Battista, suo patrono, S. Sisto, patrono d'Ars; col suo tabernacolo di bronzo dorato e cesellato, ed il suo alto baldacchino, ornato di pennacchi bianchi. Ma per lui la principale bellezza della chiesa era sempre il contegno esemplarmente edificante dei fedeli. La sua Messa non era lunga oltre il tempo richiesto, cioè la mezz'ora. Per tutta la sua vita seguì il rito speciale della chiesa di Lione. Secondo tale rito, il celebrante, dopo la elevazione, rimane un momento con le braccia distese, e questo era il solo gesto che don Vianney prolungava in un modo che impressionava. Dionigi Chaland, che gli servì la Messa come chierichetto nel 1827 e che divenne prete, ebbe a dire: "Io ero colpito nel vederlo dopo la consacrazione con gli occhi e le mani levate rimanere per cinque minuti in una specie di estasi. Condividendo il pensiero dei miei compagni ritenevo che vedesse Dio". Prima della Comunione "si fermava ancora un momento, come in conversazione con Nostro Signore, ed infine consumava le sacre Specie". "Com'era bello quando celebrava! - esclama fratello Atanasio. - Lo si sarebbe detto un altro San Francesco di Sales". "L'ho visto qualche volta celebrare - ha detto don Luigi Beau, suo confessore - ed ogni volta mi è sembrato di vedere un angelo sull'altare". Si veniva alla chiesa espressamente per edificarsi e contemplarlo durante la celebrazione dei divini misteri. Così fecero, tra le altre, anche persone ospiti al castello, le quali andarono alla Messa solenne solo "per avere l'occasione di vederlo e di osservarlo". "Una persona della parrocchia - afferma la baronessa di Belvey - mi diceva: Se volete imparare ad ascoltare bene la Messa, mettevi in un luogo ove possiate vedere il nostro Curato all'altare. Io mi collocai in un luogo ove potevo osservarlo e scoprii nei suoi lineamenti qualche cosa di celestiale. Dai suoi occhi caddero lacrime durante quasi tutta la santa Messa; la stessa cosa ossservai ogni qualvolta mi recai ad Ars". Un artista riteneva non potersi descrivere l'espressione del volto del nostro Santo all'altare. In lui non v'era neppure l'apparenza di una distrazione. Il suo contegno esterno riproduceva quello che passava nell'intimo della sua anima. Era nemico di ogni affettazione e non faceva nessun gesto esagerato o superfluo, ma pregava e contemplava coi suoi occhi elevati o chini, e supplicava con le sue mani giunte o distese. Questo contegno era una predicazione muta, ma di un'eloquenza irresistibile, ed a più di un peccatore bastò averlo visto una volta per convertirsi. Così ad esempio un framassone, che aveva acconsentito a venire alla chiesa, sentì il suo cuore trasformato, appena contemplò il Santo all'altare. Si aveva l'impressione sensibile che là non era solo, ma che stava con lui il Sommo Sacerdote, Gesù Cristo. Dal suo esterno era facilmente indovinabile la sua adorazione, perchè ogni gesto, ogni sguardo, ogni movimento dicevano l'annientamento, il desiderio, la speranza, l'amore... Ed erano precisamente questi i sentimenti che passavano nella sua grande anima, durante la celebrazione. (...)». (François Trochu, Il Curato d’Ars, Casa Editrice Marietti, Genova-Milano 2004, pp. 397-398).
L’insegnamento perduto del Meccano
Probabilmente stiamo attraversando un periodo di transizione. Il mondo è saturo di tutto, nessuno sta aspettando più niente di nuovo, non c’è più niente da scoprire, soprattutto sul fronte artistico. Questo tempo, come il Meccano, ha esaurito tutte le sue possibilità. Il ‘Meccano’ era forse l’unico gioco che si poteva acquistare in ferramenta, dato che era fatto soltanto di barrette di metallo forate, viti, dadi, pulegge e piccoli arnesi. Fu inventato da un inglese alla fine dell’800, ed era talmente originale che, oltre che in Europa, si diffuse anche in America. Di solito aveva un libretto di istruzioni che suggeriva alcuni modelli che si potevano costruire con i pezzi contenuti nella scatola: una locomotiva, una scavatrice, una bilancia, un’elica a manovella… cose così. Il meccano era una gioia per gli occhi e una festa per le mani. Ogni bullone stretto equivaleva a mille neuroni attivi in più. A seconda del numero dei pezzi contenuti, le scatole erano numerate da 1 a 10. La scatola numero 10 era un sogno irraggiungibile, accessibile solo ai figli dei ricchi: conteneva tutti i pezzi per costruire una gru a motore alta due metri. Comunque, ogni scatola, anche la numero 1, permetteva di costruire moltissime cose, tutte davvero funzionanti. Si partiva dalle strutture più intriganti (il mulino a vento! Il martello battipalo! Un camion col rimorchio!), poi si provava a costruire anche le altre, e poi si inventava. Ma inesorabilmente si arrivava, prima o poi, al punto di arresto, che era quando si esaurivano tutte le idee possibili con il numero di pezzi limitato contenuti nella scatola, allora si cominciava a improvvisare costruendo oggetti casuali, senza senso, ma era un sentiero che non andava mai molto lontano. E così, stanchi delle solite forme e poco gratificati da quelle senza senso, arrivava il giorno in cui la scatola del meccano rimaneva a prender polvere sopra qualche mobile. Era un bel gioco e infastidiva il pensiero di non saperlo sfruttare meglio, di più, perché aveva potenzialità enormi, ma davvero non si riusciva ad andare oltre. Anche in seguito, quando ai pezzi meramente meccanici cominciarono ad aggiungersi parti elettriche, magnetiche e di plastica colorata, moltiplicando dunque le possibilità inventive, si arrivava comunque al punto di arresto. Quello che non sapevamo è che invece “oltre” ci andavamo eccome: ci andavamo quando c’era da riparare la foratura della bicicletta, quando c’era da costruire il primo amplificatore per la chitarra elettrica comprando i pezzi sfusi, quando c’era da montare la scaffalatura in cantina per la raccolta di Topolino, Tex e Alan Ford… il Meccano non era stato affatto inutile, e anche se apparentemente non ci pensavamo più e continuava a prender polvere sul mobile, il suo insegnamento si rivelava in quelle circostanze della vita in cui mani e cervello, appunto, dovevano coordinarsi per la risoluzione di piccoli (ma anche grandi) intoppi. Il pc ha preso il posto del meccano nella vita dei ragazzi di oggi. Il pc è un meccano hi-tech e tutti sappiamo quello che si può fare con un computer, oggi. Tutto ciò che a un ragazzo interessa: musica, film, immagini, notizie, idee… è immediatamente accessibile grazie a un pc collegato in rete, e non col contagocce, ma a cascata. Cascate e cascate di ogni ben di dio: discografie complete (inclusi i bootleg mai pubblicati) di qualunque artista esistente; centinaia di film, telefilm, cartoni animati da quelli usciti la settimana scorsa a quelli di sessant’anni fa; informazioni dettagliatissime su qualunque argomento esistente… Eppure il punto di arresto è sempre dietro l’angolo. E, oltre a questo, oggi si è aggiunto un problema ulteriore, ben più grave del punto di arresto: l’ipereccedenza. L’iperceddenza di stimoli. Per esempio, avere diecimila files mp3 è come non averne nessuno, perché semplicemente sono troppi e impediscono di sviluppare un gusto evoluto, una propria identità musicale. Ci vuole tempo e molti ascolti accurati per capire perché quel tipo di musica ci piace più di quell’altra, ci vuole tempo per capire perché Keith Emerson era meglio di Rick Wakemann (chi ha la mia età capisce cosa voglio dire); e un disco lo si assaporava sin dalla copertina, spesso capolavori di grafica, vista in negozio (che stupore quando apparve la mucca di Atom Heart & Mother! E il tabloid finto incluso in Thick as a brick? E la copertina a strati di Brain Salad Surgery?…), poi lo si portava a casa (ma non subito, prima bisognava mettere insieme i soldi) come una reliquia, e lo si ascoltava attenti e concentrati… i dischi venivano acquistato accordandosi con gli amici: se tu prendi Per un amico io prendo Storia di un minuto, così poi ce li scambiamo. Era un’esperienza artistica e di vita a tutto tondo e, soprattutto, erano altri centomila neuroni attivi in più a settimana. E questo valeva anche per le altre cose: i libri, il teatro, i viaggi, il cinema… È la perdita di questa rete fatta di dettagli, sensazioni, desideri a lungo inseguiti prima di essere esauditi, che rende sterili. Penso che se mi avessero regalato un meccano gigante con un miliardo di pezzi, forse mi sarei perduto nella sua vastità. L’idea di poter fare tutto non mi avrebbe fatto fare niente, e la conseguenza sarebbe stata l’anedonia, l’assenza di creatività. Paradossalmente essere troppo ricchi fuori porta dritto alla miseria dentro. Mi chiedo se questo succederebbe anche con gli ideali alti come la bellezza e la verità… troppa bellezza spingerebbe alla noia e a trovare più interessanti i difetti? Troppa verità farebbe apparire più intrigante la menzogna? Bisognerebbe provare per saperlo; di certo comunque non è questo il mondo in cui potremo fare la prova dato che almeno sino ad oggi bruttezza e menzogna trionfano ancora in tale abbondanza da rendere inappagata la nostra sete di verità e bellezza… A parte ciò è comunque vero che oggi fare una rivoluzione culturale è decisamente più difficile rispetto anche solo a qualche decennio fa. Non mi stupisce il fatto che due giochi come il Meccano e il Monopoli siano nati più o meno nello stesso periodo, ma il Meccano sia ormai fuori produzione, mentre il Monopoli si è espanso anche in Oriente. Sono due giochi che rappresentano due paradigmi sociali possibili: l’uno basato sull’ingegno, l’altro sulla rincorsa al profitto. Tutti sappiamo bene dei due quale ha trionfato nel mondo e quale ceduto il passo. Nel codice genetico mutante di questo tempo assordante e bulimico l’ingegno ha assunti caratteri aberranti, che poco o nulla hanno ancora a che fare con l’arte e la creatività e sono lontani anni luce dal tipo di ingegno alimentato dal Meccano. È difficile oggi immaginare un libro che abbia realmente la forza di scuotere le coscienze; una musica che susciti stupore e meraviglia per la sua novità; un’artista che trovi un linguaggio talmente originale da aprire un nuovo orizzonte… Difficile non tanto per la mancanza di idee rivoluzionarie nel mondo, ma per l’indifferenza con la quale le persone ci passano sopra. Se dentro alla mia scatola gigante di Meccano, quella ipotetica con un miliardo di pezzi, ci fosse stato un pezzo specialissimo, che so, una “puleggia anti-gravità” o un “cristallo smaterializzante”, forse non me ne sarei nemmeno accorto. Forse lo avrei preso in mano, dopo aver rovistato fra centinaia di migliaia di altri pezzi ordinari e, annoiato, lo avrei rimesso nella scatola. Uno dei peggiori effetti collaterali dell’avere troppe opzioni è la perdita della capacità di discernimento: tutto è uguale a tutto. Il troppo genera accidia, inedia: quando sono troppi, i pezzi sono tutti uguali. E quando trionfa la noia anche l’incontro con il genio lascia indifferenti. Se nascesse oggi Leonardo sarebbe costretto a lavorare nell’industria della telefonia; Mozart andrebbe a Sanremo; Dante scriverebbe sceneggiature per le fiction Tv e Omero sarebbe un giornalista. E sarebbero, probabilmente, talmente frustrati e privi di entusiasmo che userebbero soltanto il 2% del loro genio, lasciando nel mondo platonico delle idee il loro straordinario contributo all’evoluzione umana. Questi sono tempi incredibilmente scoraggianti per gli artisti e i geni. Tutto viene appiattito e questo crea le condizioni più favorevoli per una trionfale instaturazione della mediocrità in ogni ambito della società. Quest’epoca verrà ricordata per i campioni di mediocrità che presero il potere nel mondo, nei parlamenti, nelle accademie, nei templi… (vien quasi voglia di sospettare che abbiano ragione coloro che credono vi sia in corso una invasione extraterrestre occulta che agisce mediante un’escaltion di alieni nei posti chiavi del potere, i quali mandano poi avanti degli umani-fantoccio per non farsi scoprire…) Non sapremo mai quanti grandi artisti sono oggi in circolazione – e ce ne sono certamente –, perché sono inattivi, costretti a usare soltanto il 2% del loro talento in quanto vivono in un mondo talmente addormentato da non essere più in grado di riconoscere il talento, quando lo incontra… artisti di talento sconosciuti forse a cominciare da sé stessi. E mi chiedo anche: non sarà che questo ottundimento sociale diffuso non è un caso, ma fa parte di un piano strategico a lungo termine che punta a saturare con il nulla l’inconscio collettivo? Non è un cervello vuoto, ma un cervello stracolmo di cazzate che mi fa davvero paura. Perché in un cervello siffatto non c’è alcuna speranza di far entrare più nulla di buono. E, diciamolo onestamente, siamo sommersi di cazzate. Pensateci un attimo e guardatevi intorno. È dagli anni ’80 che ci sommergono di cazzate. La nostra vita è farcita di cazzate al cubo, idee vuote e sterili, nulla a go-go tutto intorno a noi: nella politica, nella cultura, nell’arte, nella società, nella letteratura, nella musica, nel giornalismo… Noi che siamo nati prima di quegli anni almeno abbiamo fatto in tempo a vedere e sentire la differenza ma, mi chiedo, quando al mondo ci saranno solo quelli che sono nati dopo, che razza di mondo sarà? Nick Mason, il batterista dei Pink Floyd, nel suo libro autobiografico (“Inside Out”, Rizzoli) ha scritto: «Quelli che avevano fatto tappezzeria ed erano stati tagliati fuori dal divertimento degli anni Sessanta, fecero ritorno negli anni Ottanta, ottenendo il controllo del paese e distruggendo il servizio sanitario, l’istruzione, le biblioteche e qualsiasi istituzione culturale su cui riuscirono a mettere le mani». Un giorno, sicuramente dopo il 2012, un archeologo, sotto un cumulo di macerie tecnologiche e lamiere d’automobili scoprirà una copia del Piccolo Principe, una di Ommadawn e una scatola del Meccano e allora penserà: “Capperi! quindi non sono sempre stati degli zombie i nostri progenitori, è esistita davvero un’epoca pre-rincoglionimento di massa…” (Franco Del Moro, Innernet, Pubblicato su Ellin Selae n. 89)
15 novembre 2009
Concilio tradito? Disputa su Rahner
Troppo vicino a Hegel e Heidegger, troppo «relativista»... Il dibattito sulla piena ortodossia del grande teologo riprende quota grazie a riletture globali del suo pensiero. Ci sono fiumi carsici che scorrono a lungo prima di trovare un pertugio e salire in superficie. Un fenomeno del genere ha riguardato la liturgia. Prima l’opera del cardinale Joseph Ratzinger, poi il pontificato di Benedetto XVI hanno permesso che si aprisse una riflessione serena sull’applicazione della riforma liturgica e su alcuni punti della riforma stessa. E fossero prese in considerazione istanze che erano state relegate a rivendicazioni di un mondo tradizionalista. Un fenomeno simile sembra riguardare anche un autore che ha rappresentato uno dei nodi teologici del post-Concilio: Karl Rahner (1904-1984). Parallelamente al successo e all’influenza esercitata dal gesuita tedesco, non sono infatti mai venute meno le voci che hanno richiamato l’attenzione su aspetti della sua produzione considerati problematici: l’ossimoro di un «tomismo trascendentale», la latente storicizzazione e relativizzazione del dogma, una concezione del divino e della mistica giudicate troppo vicine al monismo di Hegel, una fede intesa come «apriori trascendentale», con il conseguente pericolo di un dissolvimento del valore della grazia, una «teologia speculativa e filosofica» insomma – come scriveva Ratzinger nella sua autobiografia – «interamente forgiata dalla tradizione della scolastica suareziana letta alla luce di Heidegger e dell’idealismo tedesco», in cui «la Scrittura e i Padri della Chiesa non giocavano un ruolo significativo». Cornelio Fabro, Hans Urs von Balthasar, i cardinali Siri, Parente, Scheffczyk e Ratzinger – quest’ultimo in dosi omeopatiche, in diversi scritti – sono alcuni dei nomi che hanno suggerito un vaglio più attento dell’opera di Rahner. In Germania la scuola tomista, che ha in David Berger uno dei nomi di punta, a partire dal volume collettaneo Karl Rahner: kritische Annährungen («Karl Rahner: avvicinamenti critici», Respublica Verlag 2004) ha riproposto il tema della piena ortodossia di Rahner. Due giovani famiglie religiose, i Francescani dell’Immacolata e l’Istituto del Verbo Incarnato, hanno fatto della chiarificazione dottrinale dell’opera di Rahner un obiettivo del loro impegno teologico. Due pontifici atenei romani, quello della Santa Croce e il Regina Apostolorum, da anni lavorano discretamente a un superamento del «rahnerismo». E via dicendo. Che il fiume prema per salire in superficie lo dimostra anche il convegno internazionale di critica rahneriana tenutosi lo scorso anno a Firenze, i cui atti sono usciti a giugno per le edizioni Cantagalli (Karl Rahner: un’analisi critica). Ma un’altra spia sembra essere Karl Rahner: il Concilio tradito, libro appena pubblicato dall’editrice Fede e Cultura (pp. 368, euro 24). Scritto dal domenicano Giovanni Cavalcoli, docente di Metafisica allo Studio filosofico domenicano di Bologna e membro della Pontificia Accademia Teologica, è di fatto la prima monografia che sintetizza e approfondisce le obiezioni mosse negli anni al sistema rahneriano (suddivise in gnoseologia, trascendenza verso Dio, antropologia, cristologia e vita cristiana) e i fraintendimenti dottrinali che, secondo i critici, avrebbe alimentato. Un lavoro che Cavalcoli ha preparato nell’arco di trent’anni, con i saggi su Rahner usciti sulla rivista teologica Sacra Doctrina. Un’opera che si propone come un contributo a quell’ermeneutica della continuità nella lettura del Concilio sollecitata da Benedetto XVI e che, sostiene Cavalcoli, ha trovato in Rahner l’antagonista «più fascinoso e influente». Un invito agli studiosi rahneriani ad aprirsi al confronto, per fare chiarezza su una figura centrale nella teologia del ’900. (Andrea Galli, Avvenire, 5 Novembre 2009)
Valori non negoziabili per un'Europa più solida
Prendendo spunto dalla recente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che vorrebbe imporre la rimozione dei crocifissi nelle aule scolastiche italiane, il Cardinale Angelo Bagnasco ha indicato i “valori non negoziabili” come decisivi per impedire che la civiltà europea cristiana si sfaldi. Nel corso della prolusione alla 60a assemblea Generale dei Vescovi italiani, svolta ad Assisi lunedì 9 novembre, l’Arcivescovo di Genova ha spiegato che “il sorprendente pronunciamento deve fare riflettere su una certa ideologia che non rinuncia a fare capolino nelle circostanze più delicate della vita continentale, quella di un laicismo per cui la neutralità coinciderebbe con l’assenza di valori, mentre la religione sarebbe necessariamente di parte”. Ma una simile posizione, ha sottolineato il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), “oltre ad essere un’impostura, non è mai stata espressa dalla storia e neppure dalla volontà politica degli europei”. Dopo aver ribadito che “il crocifisso nella molteplicità dei suoi significati può suggerire solo valori positivi di inclusione, di comprensione reciproca, in ultima istanza di amore vicendevole” ed aver difeso “il fermo e inalienabile diritto di ciascun popolo alla propria identità culturale” il Cardinale Bagnasco ha denunciato “il tentativo di rivalsa” di “esigue minoranze culturali” le quali, “servendosi del volto apparentemente impersonale della burocrazia comunitaria, perseguono sulle libere determinazioni dei popoli”. Per impedire che il modello di civiltà dell’Europa si sfaldi, il Presidente della CEI ha proposto di “riconoscere la visione trascendente della persona e la pari dignità di tutti gli esseri umani”. Facendo riferimento ai tanti interventi in materia di Benedetto XVI, il porporato ha sottolineato che ci sono “valori profondamente radicati nella struttura dell’essere umano” e che “per la loro natura e il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono negoziabili”. Si tratta in sostanza di quello che il Pontefice ha indicato come un “giusto e delicato equilibrio fra l’efficienza economica e le esigenze sociali, della salvaguardia dell’ambiente, e soprattutto dell’indispensabile e necessario sostegno alla vita umana dal concepimento fino alla morte naturale, e alla famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna”. Riprendendo l’enciclica “Caritas in veritate” (n.15), il Cardinale Bagnasco ha sostenuto che “non può avere basi solide una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata”. L’Arcivescovo di Genova ha rivelato che questo è uno dei temi rilevanti su cui l’Assemblea dei Vescovi rifletterà. In questo contesto, il Cardinale Bagnasco ha espresso pesanti riserve sulla pillola abortiva ru-486 e sulla proposta di inserire l’ora di religione islamica nelle scuole. In merito al via libera concesso dall’Aifa per l’utilizzo e la commercializzazione della pillola abortiva ru-486, il Presidente della CEI ha fatto presente che “ciascuno naturalmente si fa carico delle proprie responsabilità circa gli effetti concreti sulla salute delle persone che vi ricorreranno ed il rispetto delle condizioni minime che sono state a fatica riconosciute come indispensabili per la sua assunzione”. “Nello stesso tempo – ha aggiunto – non si potrà non riconoscere, come già fa la legge 194, la possibilità dell’obiezione di coscienza agli operatori sanitari, compresi i farmacisti e i farmacisti ospedalieri, che non intendono collaborare direttamente o indirettamente ad un atto grave”. Circa la ventilata ipotesi dell’ora di religione islamica, che la CEI avversa, il porporato ha precisato che “non è in discussione, la libertà religiosa di chicchessia, ma la peculiarità della scuola e le sue specifiche finalità che − in uno Stato positivamente laico − sono di ordine culturale ed educativo”. “Infatti, - ha ribadito - l’insegnamento di religione cattolica, com’è noto, non è un’ora di catechismo, bensì un’occasione di conoscenza che si vuole ‘assicurare’ circa quei ‘principi del cattolicesimo’che ‘fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano’ (Accordo di revisione del Concordato Lateranense, art. 9). Conoscenza che è indispensabile in ordine ad una convivenza più consapevole e matura”. (Antonio Gaspari, Zenit, 9 novembre 2009)
“Paolo VI. L’audacia di un Papa”
Su un uomo schivo e non incline a rivelarsi facilmente [Montini, ndr], il lettore e lo studioso hanno ormai a disposizione un’abbondante messe di documenti, ricostruzioni e interpretazioni. A questa si aggiunge ora una voluminosa biografia di Montini (Andrea Tornielli, Paolo VI. L’audacia di un papa, 2009), dovuta alla penna alacre del vaticanista del quotidiano milanese «il Giornale», prolifico autore di svariati volumi, fra i quali una biografia dedicata a Pio XII (2007) e un rapido profilo di Montini (Paolo VI. Il timoniere del Concilio, 2003). Se Benedetto XV è, per lo storico John Pollard, un Papa «sconosciuto», Montini è, per il giornalista, dimenticato e incompreso, se non frainteso. Dimenticato perché quasi schiacciato fra il pontificato molto popolare del Papa «buono», Giovanni XXIII, e quello, cronologicamente lunghissimo e mediaticamente iper-rappresentato, di Giovanni Paolo II. Papa frainteso, poi, e criticato sia da sinistra che da destra. «Da quanti gli imputavano (e gli imputano) di aver tarpato le ali del concilio, imbottigliandone le speranze e frenandone gli slanci. E da quanti gli attribuivano (e gli attribuiscono) la responsabilità della crisi della Chiesa, degli abusi liturgici, dell’incertezza sulla dottrina, dell’imponente emorragia di sacerdoti che ha caratterizzato gli anni difficili del postconcilio. Frainteso in molti casi proprio dai suoi amici, da coloro che gli erano più vicini, da quanti hanno trasformato il dialogo da strumento per l’annuncio e la testimonianza evangelica a fine ultimo da perseguire dimenticando la propria identità, arrivando a confondersi e ad approvare indistintamente scelte che con la fede erano in aperto contrasto. Frainteso da quanti hanno trasformato la «scelta religiosa» […] in un manifesto dell’anonimato» che ha rischiato di portare al dissolvimento della presenza cristiana nella società.Papa frainteso, ancora, da quanti — entusiasti o costernati — hanno visto nel Vaticano II l’inizio di un’era assolutamente nuova, di totale rottura col passato, e da quanti, dopo averlo ammirato per la sua «apertura» al mondo, lo crocifissero senza pietà al momento della pubblicazione dell’Humanae vitae (1968), «il documento che ha segnato il massimo isolamento» di Montini, ma che pure rappresentò la sua lucidissima intuizione sulle derive di una tecnica applicata all’ambito della riproduzione umana e, al tempo stesso, il suo coraggio: non ebbe paura e seppe soffrire da solo, mentre l’opinione pubblica, all’esterno ma soprattutto all’interno della Chiesa, si sollevava contro di lui. Come è stato sottolineato da un convegno sull’ultima enciclica di Paolo VI, organizzato nel 2008 dalla Pontificia università lateranense, del quale si attendono gli atti. Sulla base di studi storici ormai numerosi, la biografia vuole sgombrare il campo da questi clichés paradossalmente convergenti e concordemente falsificanti: vescovo «rosso», «prigioniero della minoranza conciliare», Papa «amletico», «Paolo mesto» non sono solo formule senza fondamento ma finiscono per impedire di cogliere la bellezza di una vita straordinariamente coerente e lineare. Quasi come quella del suo predecessore ambrosiano del Seicento, che «come un ruscello (…) scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume». Oltre che alla celebre immagine manzoniana si può ricorrere anche al giudizio di un contemporaneo. La coerenza intimamente lineare della vita di Montini era stata colta infatti dalla grande intelligenza di don Giuseppe De Luca quando, scrivendo proprio all’allora pro-segretario di Stato per gli Affari Ecclesiastici Ordinari il 22 marzo 1953, icasticamente affermò: «Sei stato e sei il sacerdote d’una navigazione e d’una avventura: vorrei che tutti se ne avvedessero domani, non per la tua gloria, ché sei troppo intelligente per seguirla e troppo cristiano per tollerarne anche soltanto un’ombra, ma per la gloria del Signore a cui serviamo a iuventute nostra; e l’onore di questa Chiesa di Roma (…)». E questa coerenza, questa unica «navigazione» e «avventura», Tornielli cerca di illuminare, ripercorrendo in particolare la vita di Montini prima del pontificato (cui dedica dieci dei diciotto capitoli del volume), nella convinzione, peraltro diffusa, che si tratti del «periodo meno esplorato», soprattutto dagli inizi degli anni Quaranta alla nomina a Milano. Il viaggio — che fa ricorso anche a documenti di archivi personali (come quelli di Eugène Tisserant, Alberto Castelli, Angelo Dell’Acqua, Enrico Pietro Galeazzi, Giulio Andreotti) e a testimonianze riservate la cui origine è invariabilmente celata dalla circonlocuzione «memoriale, copia in possesso dell’autore» — parte quindi dalle radici familiari, da quel «regno delle madri» che è sempre determinante nella vita di chiunque. Nel caso di Montini, un cattolicesimo socialmente impegnato, senza nostalgie temporalistiche, in cui la profonda religiosità si coniuga a sentimenti risorgimentali di amor di patria allora non comunemente diffusi fra i cattolici italiani (la nonna paterna di Battista, Francesca Buffali, fu pubblicamente elogiata dal garibaldino Nino Bixio per l’aiuto prestato ai feriti nella seconda guerra d’indipendenza). L’esempio del padre, Giorgio, giornalista e deputato popolare di spirito antifascista («a lui — confidò in seguito il Papa a Jean Guitton — debbo il non preferire mai la vita alle ragioni della vita»), poi l’incontro con l’oratoriano Giulio Bevilacqua, con la sua sensibilità alla dottrina sociale cristiana di stampo lovaniense ma al tempo stesso alla liturgia come scuola e alimento di vita, segnano sin dall’inizio il «percorso atipico» del giovane Montini, prete senza passare per il seminario, diplomatico che trascorre solo pochi mesi in Polonia, curiale ma con una passione per la «carità intellettuale» nella formazione dei giovani universitari, «ministro» fedele di Pio XI e Pio XII al cui servizio Montini — scrisse ancora De Luca il 9 gennaio 1952 — fece dell’obbedienza al Papa «un atto d’intelligenza e di tenerezza».In questo cammino lineare la grande svolta è senza dubbio la nomina ad arcivescovo di Milano (1 novembre 1954). Pagine efficaci del volume sono dedicate a ricostruire i possibili retroscena di quella promozione, che fu anche una rimozione e un allontanamento, e a mostrare le diverse cause che mossero il «partito romano» all’offensiva finale contro Montini. Ma l’episcopato milanese fu anche l’esperienza che preparò e maturò Montini per il pontificato, l’incontro con la modernità in una metropoli che ne era allora il simbolo, fra sviluppo tecnologico e industriale, disaffezione e lontananza religiosa, disagio sociale. A questo mondo — «tutto è formidabile, tutto sproporzionato alle mie forze, tutto esigente una vivacità di spirito, una resistenza di attività, una santità di parola e di vita, che supera la mia capacità, e converte in assillo interiore il poco che faccio, il troppo che non faccio», confida ad Angelo Dell’Acqua il 25 marzo 1955 — Montini si rivolge con la grande «Missione» del 1957, una prova generale dello sforzo evangelizzatore e missionario del quindicennio pontificale.Per il pontificato, anche Tornielli, come altri, non crede a una divisione in due periodi, secondo una vulgata largamente accreditata, «il primo, quello dell’apertura e della speranza, il secondo, quello della chiusura e del ripiegamento», assumendone a crinale il 1968, l’anno dell’Humanae vitae e del Credo del popolo di Dio, ma anche della rivolta giovanile e della contestazione. In realtà, troppi sono gli elementi di profonda continuità che smentiscono questa superficiale ricostruzione. Se una bipartizione ha un senso, essa va piuttosto individuata, secondo l’autore, «nel passaggio da un’idea di riformismo legata al cambiamento degli organigrammi e delle strutture a una percezione sempre più chiara, nella drammaticità del contesto storico, della necessità della testimonianza personale e dell’urgenza dell’evangelizzazione».E di gesti, di quei «gesti simbolici» di cui Papa Montini secondo il cardinale Johannes Willebrands aveva il genio, è punteggiato il pontificato, al di là ovviamente della guida e dell’applicazione del Vaticano II: dalla scelta (assolutamente nuova) dei viaggi apostolici e delle loro mete allo straordinario inginocchiarsi, il 14 dicembre 1975, ai piedi del metropolita Melitone di Calcedonia a capo della delegazione del Patriarcato di Costantinopoli; dall’implorante lettera alle Brigate rosse che detenevano Aldo Moro (21 aprile 1978) all’ultima uscita, già febbricitante, il 1 agosto 1978, alle Frattocchie, per recarsi sulla tomba di Giuseppe Pizzardo, che lo aveva seguito nei suoi primi passi in Segreteria di Stato ma che pure aveva avuto un ruolo non secondario nelle dimissioni di Montini dalla Fuci nel 1933 e nel suo allontanamento da Roma nel 1954. Un gesto di gratitudine ma anche, nell’interpretazione accreditata di chi allora era vicinissimo al Papa, la volontà di «togliere qualsiasi cosa ci fosse stata nella sua anima, nel suo cuore, verso il defunto cardinal Pizzardo», per fare ormai prevalere solo sentimenti di riconoscenza, venerazione e affetto.Nella delicatezza magnanima di questo estremo gesto vi è tutto Montini. E al termine del volume si pensa proprio che Paolo VI, come il servo sofferente di Isaia, non ha mai spezzato la canna incrinata, non ha mai spento il lucignolo fumigante. Proprio come la figura intravista dal profeta, Montini ha conosciuto, forse più di ogni altro Papa del Novecento, il ludibrio e l’oltraggio, al punto che la «sofferenza in solitudine» può essere assunta a «vera cifra» del suo pontificato. Ma, immerso nel dolore della Passione, Paolo VI è stato forse il Papa anche più prossimo alla gioia della Resurrezione, con quella esortazione apostolica Gaudete in Domino (9 maggio 1975), pubblicata nel corso dell’Anno santo, che è l’unico documento papale esclusivamente dedicato alla gioia cristiana. Se la «società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere», essa «difficilmente riesce a procurare la gioia. Perché la gioia viene d’altronde. È spirituale. Il denaro, le comodità, l’igiene, la sicurezza materiale spesso non mancano; e tuttavia la noia, la malinconia, la tristezza rimangono sfortunatamente la porzione di molti». Allora, come il suo Bernanos, Paolo VI invita tutti alle sorgenti della gioia cristiana, «perché la gioia di essere cristiano, strettamente unito alla Chiesa, «nel Cristo», in stato di grazia con Dio, è davvero capace di riempire il cuore dell’uomo». (G.M. Vian, Osservatore Romano, 8 novembre 2009)
Repubblica Ceca: la fede oltre la nebbia
Se chiedete per le strade della capitale della Repubblica Ceca cos’è il PraŽskéJezulátko, il «Bambino di Praga», è probabile che nessuno sia in grado di rispondervi. Più di un prete, anzi, confesserà che la miracolosa statuetta in legno e cera del Bambin Gesù, arrivata nel XVII secolo dalla Spagna in seguito a un complesso giro di matrimoni dinastici, è probabilmente più famosa in America latina e nelle Filippine che nella città che gli dà il nome. Non sorprende quindi che, andando la domenica mattina nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, ai piedi dell’imponente collina del Castello, la lingua corrente dei devoti che si inginocchiano e pregano davanti al Bambino sembri essere più lo spagnolo che il ceco: segno che, anche qui come negli altri Paesi dell’ex-blocco sovietico, la nuova ricchezza arrivata dopo il 1989 e la sua Rivoluzione di velluto ha portato un fenomeno in precedenza sconosciuto, l’immigrazione. Eppure è proprio ai piedi del PraŽské Jezulátko, con il suo ricco guardaroba di oltre cento vesti lasciate come ex voto dai fedeli di tutto il mondo, che papa Benedetto XVI ha deciso di venire a inginocchiarsi non appena atterrato all’aeroporto internazionale di Praga per la sua visita-lampo di tre giorni in terra ceca, dal 26 al 28 settembre scorso. Il Pontefice ha deposto una corona d’oro sulla testa di quello che, storicamente, è uno dei simboli della Controriforma e della riconquista cattolica nella terra che aveva dato i natali a Jan Hus, il grande riformatore della Chiesa, precursore di Lutero, che morì sul rogo nel 1415 dopo aver provato, senza successo, a perorare le proprie idee davanti al Concilio di Costanza. Un gesto potenzialmente controverso, quindi, se si pensa anche che la "Vittoria" che dà il nome alla chiesa che ospita il Bambino è quella della famigerata battaglia della Montagna Bianca, con cui nel 1620 le forze della Lega cattolica, guidate dall’imperatore austriaco Ferdinando II, sconfissero l’esercito protestante boemo. Prima di quella battaglia, al posto dell’odierno edificio barocco affidato ai carmelitani, sorgeva una chiesa luterana e ancora oggi, nei libri di scuola, i trecento anni di dominio asburgico e forzata ricattolicizzazione del Paese, che soffocarono l’indipendenza boema fino alla nascita della Cecoslovacchia nel 1918, passano sotto il nome di «secoli bui». Non a caso, ad attendere il Papa all’uscita dalla chiesa, qualcuno aveva appeso sul muro di un edificio governativo uno striscione che recitava, in latino e in ceco, «Benedicte, rehabilita Jan Hus». Ma Papa Ratzinger, nel far visita al Bambino di Praga, ha voluto concentrarsi sul valore universale della devozione a Gesù infante, sulla sua «tenerezza» e «predilezione» per i bambini, sui suoi 30 anni di vita «nell’umile famiglia di Nazaret»: temi a prima vista semplici, in apertura di un viaggio che programmaticamente voleva essere nel «cuore dell’Europa» che «ha bisogno di ritrovare le ragioni della fede e della speranza». La Repubblica Ceca, dicono infatti le statistiche, è un Paese tra i più secolarizzati al mondo, con oltre il 60% di non credenti "ufficiali", dove matrimonio gay e aborto sono legali e che, unico tra le nazioni dell’Europa dell’Est, non ha ancora firmato un Concordato con la Santa Sede. Un viaggio, quindi, al centro del continente relativista e "senza radici" che il Pontefice ha più volte denunciato, a cui però Papa Ratzinger ha proposto non il modello della Chiesa trionfante e "imperiale" dell’epoca asburgica – un modello già sconfitto, peraltro, trent’anni prima dell’avvento del comunismo, dalla precoce industrializzazione e urbanizzazione della Cecoslovacchia tra le due Guerre – ma una Chiesa «minoranza creativa». Perché – ha spiegato sul volo che lo portava a Praga – «sono le minoranze creative che determinano il futuro», con la loro «eredità di valori che non sono cose del passato, ma sono una realtà molto viva ed attuale» e la loro capacità di «essere presenti nel dibattito pubblico», contribuendo al «grande dialogo intellettuale, etico e umano» della società, a cominciare da quello tra «agnostici e credenti». Tutti e due, infatti, per il Papa «hanno bisogno dell’altro: l’agnostico non può essere contento di non sapere se Dio esiste o no, ma deve essere in ricerca e sentire la grande eredità della fede; il cattolico non può accontentarsi di avere la fede, ma deve essere alla ricerca di Dio». Il Papa, quindi, con il suo viaggio, ha proposto al Paese più secolarizzato d’Europa di aprire le porte non a una Chiesa "trionfante" ma a una Chiesa piccola, forte e pronta al dialogo. Eppure, quello del «trionfalismo» è un peccato recente che i cechi non hanno ancora perdonato alla Chiesa. O almeno, così la pensa padre Tomáš Halík, ex-assistente del cardinale František Tomášek – storico arcivescovo di Praga dal 1977 fino alla caduta del comunismo – e oggi cappellano della chiesa universitaria di San Salvatore. «La Cecoslovacchia», racconta, «fu usata da Stalin come terreno di prova per la completa "ateizzazione" della società. La persecuzione dei cristiani, negli anni ’50 e ’60, fu durissima». In quei decenni, tutte le proprietà della Chiesa vennero confiscate, ogni prete riceveva uno stipendio dallo Stato e doveva avere una licenza per esercitare il suo ministero – una licenza, però, che rischiava di perdere se appena tentava di fare seriamente il suo lavoro – e per ogni credente attivo era impossibile aspirare ad avere un ruolo importante nella società. Fu così che nacque la Chiesa clandestina: vescovi e preti ordinati nelle diocesi dei Paesi vicini oppure segretamente in patria, che portavano avanti il loro ministero di nascosto, continuando a svolgere il loro mestiere di operai o piccoli impiegati. Tra questi, anche l’attuale arcivescovo di Praga, il cardinale Miloslav Vlk, costretto a lavorare dal 1978 al 1986 come lavavetri dopo che gli era stata ritirata la licenza, o lo stesso Halík. Per chi rimaneva nell’ufficialità, invece, era pressoché impossibile non essere compromessi con il regime, tanto che anche la Chiesa ceca, come quella polacca, è stata coinvolta da una serie di rivelazioni su preti "collaborazionisti": l’ultimo scandalo è stato quello dell’ex-segretario della Conferenza episcopale, Karel Simandl, costretto addirittura a lasciare il Paese. «A ogni modo», spiega padre Halík, «furono molti, in quegli anni, i preti che finirono in prigione. E lì si ritrovarono fianco a fianco con gli altri dissidenti, protestanti, liberali, socialisti, comunisti non ortodossi: ne nacque una solidarietà, un rispetto reciproco, che nascevano dalla consapevolezza di non essere più i "pilastri della società", e dalla necessità di concentrarsi sull’essenziale del proprio ministero». La persecuzione, insomma, fu un’esperienza di «purificazione» dal trionfalismo del cattolicesimo asburgico e quando, alla fine degli anni ’60, dopo il fallimento della Primavera di Praga, il regime allentò la persecuzione e molti preti uscirono finalmente di prigione, «scoprirono con sorpresa ed entusiasmo che la Chiesa, con il Concilio Vaticano II, era andata nella loro stessa direzione di "purificazione" e di messa in luce dell’essenziale della fede, a cominciare dall’eucaristia». Negli anni della repressione la Chiesa aveva accumulato un «capitale morale» non indifferente: uno dei suoi leader, Václav Malý, oggi vescovo ausiliare di Praga, era stato tra i firmatari di Charta 77 e, successivamente, portavoce del Forum Civico, il movimento fondato da Václav Havel che guidò la Rivoluzione di velluto del 1989. Racconta il cardinale Giovanni Coppa, nunzio a Praga dal 1990 al 2001, che nelle grandi assemblee del Forum che precedettero la Rivoluzione venne chiesto a Malý di aprire le riunioni con un Padre Nostro: «La proposta fu accolta con entusiasmo, ma nessuno conosceva le parole della preghiera». Al di là della profondità del «deserto spirituale» che caratterizzava l’élite ceca, è significativo che anche leader dichiaratamente agnostici, come Havel, o ostili alla Chiesa cattolica, come l’attuale presidente Václav Klaus, riconoscessero la leadership morale della Chiesa. Quasi suo malgrado, racconta padre Halík, negli anni ’70 e ’80 il cardinale Tomášek era diventato un «simbolo della resistenza ceca al comunismo»: nel 1989, fu a lui che i leader della Rivoluzione di velluto chiesero di affacciarsi dal Castello per salutare la folla. All’indomani della caduta del regime, anche in un Paese tradizionalmente laico come la Cecoslovacchia, per la Chiesa si era aperta una significativa «finestra di opportunità». «C’erano grandi attese, ci si aspettava un suo ruolo importante nel Paese», spiega Halík, che in quegli anni preparò un piano pastorale che permettesse al cattolicesimo di contribuire al rinnovamento morale della società. «Ma», aggiunge con una punta di amarezza, «molti nella Chiesa divennero vescovi, divennero persone importanti, e ci si occupò di ricostruire le strutture pastorali, amministrative, economiche che fino a quel momento non esistevano. La trasformazione attraversata durante il comunismo da molti sacerdoti si potrebbe riassumere con il passaggio dal considerarsi eccellenze al considerarsi fratelli»; un passaggio, avverte però, che con la fine del comunismo ha corso il rischio di ripetersi in senso inverso. Fu perso l’attimo, sintetizza il sacerdote: «L’atmosfera della visita di Giovanni Paolo II, nell’aprile ’90, fu un po’ troppo trionfale, e già in quell’occasione molti cechi cominciarono a essere scettici, a temere il ritorno della "Chiesa potente" del passato». Fu proprio allora che si aprì la controversia sui beni della Chiesa confiscati dal comunismo: una lunga battaglia legale che potrebbe portare nelle casse dei vescovi 10,3 miliardi di euro a compensazione di chiese, palazzi e terreni perduti. Una somma enorme, per il piccolo Paese mitteleuropeo, tanto che più volte il Parlamento ceco, da ultimo nel 2008, ha bocciato la bozza di accordo tra Stato e Chiesa per il rimborso dei beni espropriati. Col passare degli anni, la questione della restituzione dei beni è venuta sempre più a coincidere, agli occhi dell’opinione pubblica, con la Chiesa stessa. E simbolo della controversia è diventata la cattedrale di Praga, attualmente di proprietà dello Stato e situata nel cuore del Castello, storicamente il centro dell’indipendenza e del potere ceco, oggi sede del Presidente della Repubblica. I rapporti tra Chiesa e Stato, insomma, sono in stallo: il Parlamento ha respinto nel 2003 il Concordato con la Santa Sede. Da questo punto di vista, in un’intervista rilasciata durante la visita del Papa, il cardinale Vlk ha definito il suo periodo alla guida della Chiesa ceca un «fallimento», almeno per ciò che riguarda i rapporti istituzionali. Ben diversa, invece, la storia per quanto concerne le relazioni ecumeniche. L’atmosfera oggi non è più quella del XVII secolo, quando la praghese Cappella di Betlemme, dove aveva predicato Jan Hus e dove tutti i cristiani ricevevano – con un dirompente segno di uguaglianza tra chierici e laici – la comunione sotto le due specie (sub utraque), veniva ceduta in gestione ai gesuiti che la lasciarono andare in rovina, fino a quando fu necessario abbatterla e al suo posto vennero costruiti degli appartamenti. Fu, paradossalmente, il regime comunista, che usava Hus come simbolo del nazionalismo ceco, a ricostruire la Cappella con le fondamenta e quanto restava delle mura originali. Monsignor František Radkovsky, vescovo di Plzen, è responsabile dei rapporti con le altre Chiese cristiane per la Conferenza episcopale ceca. Racconta che, per lui, l’ecumenismo è iniziato negli anni ’70, quando era parroco in un piccolo paese sui monti al confine con la Baviera (i preti più attivi venivano sempre inviati in località isolate): «Lì iniziammo una serie di incontri mensili con i pastori hussita, evangelico, luterano e ortodosso della zona». Il regime filo-sovietico, spiega, tendeva a dare piccoli privilegi alle Chiese più "piccole", per creare divisioni tra i cristiani. «Ad esempio, a noi cattolici era proibito fare catechismo, mentre ai luterani era permesso di tenere la loro Bibelstunde settimanale. Allora, ci accordammo perché anche i cattolici partecipassero all’ora biblica luterana, così da ricevere una formazione cristiana». Questi buoni rapporti sono proseguiti anche dopo la caduta del comunismo: monsignor Radkovsky cita come esempio la dichiarazione sul mutuo riconoscimento del battesimo con i Fratelli Boemi (la comunità che si ricollega alla predicazione di Jan Hus) e la "condivisione" con le altre Chiese cristiane delle cappellanie negli ospedali, nell’esercito e nelle prigioni. «Anche il famigerato accordo per la restituzione dei beni ecclesiastici prevedeva che la Chiesa cattolica avrebbe donato il 17% di quanto ottenuto alle altre Chiese. La sua bocciatura ha colpito tutti i cristiani!», esclama. Malgrado lo striscione appeso fuori dalla chiesa della Vittoria, a Praga, in occasione della visita del Papa, la ferita hussita si può definire chiusa dopo il mea culpa di Giovanni Paolo II e il grande convegno internazionale su Hus organizzato in Vaticano nel 1999. Cosa rimarrà, nella Repubblica Ceca, della visita di Benedetto XVI? «È presto per fare bilanci», mette le mani avanti il cardinale Vlk. «Ma almeno», aggiunge con una battuta, «il presidente Klaus avrà capito che la Chiesa cattolica non è, come disse nel 1990, un "club turistico", ma un’istituzione globale da prendere sul serio». Dal canto suo, monsignor Radkovsky osserva: «Malgrado qualche ironia, mi ha colpito l’attenzione dei media e l’atmosfera di apertura che hanno accompagnato il viaggio del Papa». Certo, nei giorni in cui Benedetto XVI era a Praga, per le strade della capitale ceca era impossibile trovare segni dell’illustre visitatore, nemmeno sulle facciate delle chiese. Per Tom Clifford, caporedattore centrale del Prague Post, il quotidiano in lingua inglese della capitale, «ai cechi non è ben chiaro perché il Papa abbia scelto di venire qui. Molti sospettano un’agenda nascosta, più politica che spirituale, come se la sua visita potesse rendere più semplice l’accordo sul Concordato e sui beni confiscati». In realtà, come lo stesso Pontefice ha ricordato più volte nei suoi discorsi, a cominciare da quello pronunciato «da professore a professori» al corpo accademico della storica Università Carlo, dopo 20 anni di riconquistata libertà molti iniziano a porsi la domanda sull’uso, sulla direzione da dare a questa libertà. Un dibattito a cui la Chiesa è pronta a dare il suo contributo. Padre Halík sottolinea che anche nel Paese più secolarizzato d’Europa «il secolarismo ha bisogno di un avversario intelligente. E il Papa può giocare questo ruolo». Tanti, aggiunge, si pongono la domanda sul senso dell’esistenza e avvertono una fame spirituale: «Sono intellettuali, giovani, artisti: una "minoranza creativa" pronta a essere stimolata, provocata dal messaggio cristiano». Al di là della nostalgia per il cattolicesimo "trionfante", il Papa ha cercato di rivolgersi proprio a loro, consapevole che in un Paese in cui il ricordo della dittatura è ancora vivo, «un’evangelizzazione condotta come un monologo suscita soltanto il ricordo dell’indottrinamento di regime». (Alessandro Speciale, Jesus, 11 novembre 2009)
Tv e cinema, il dovere di educare a scelte responsabili
Il recente rapporto-proposta “La sfida educativa”, pubblicato dal Progetto culturale della Cei con Laterza, si occupa anche di mass media e spettacolo, che hanno un impatto notevolissimo sulla formazione culturale (e quindi anche esistenziale e morale) delle persone. Sempre di più ci si va accorgendo che di fronte a questi mezzi sono errati i due atteggiamenti opposti: quello di totale acquiescenza alle loro proposte, così come quello di un rifiuto aprioristico e totale, che è di fatto impossibile (i contenuti di tv e cinema filtrano poi attraverso molti altri mezzi, e permeano comunque la cultura ‘vissuta’) portando anche a perdere quel che di buono – e non è pochissimo: bisogna andarlo a cercare – viene realizzato in questi ambiti. La televisione e il cinema, lo ripetiamo da tempo, non sono soltanto ‘mezzi’ tecnici: sono strumenti che ospitano ‘discorsi’ fatti da alcune persone ad altre. Così come per i nostri interlocutori in carne e ossa, o per i libri e i giornali, è importante discernere anche nei mezzi audiovisivi cosa c’è di buono e cosa di antropologicamente falso, scadente, frivolo, degradante. Da qui l’importanza che a tutti i livelli della comunità cristiana si svolga una continua opera di discernimento, che diventa poi orientamento culturale, anche contrastando idee sbagliate seppure molto diffuse. Nello stesso tempo è assai utile segnalare ‘testi’ (quindi anche film e programmi tv) che possano essere interessanti e arricchenti. Non sono moltissimi in percentuale, ma ogni anno ce n’è un buon numero. Se poi si va a guardare un po’ più in là del contemporaneo, si trovano opere di qualche anno (o decennio) fa che ancora oggi sono perfettamente valide e utilizzabili. Per fare un esempio con le fiction televisive – genere di solito disprezzato (ospita molti prodotti scadenti) ma popolarissimo –, negli ultimi anni ci sono state opere come Paolo Borsellino, Bartali , D e Gasperi , Guerra e pace o Enrico Mattei che in modo diverso si sono rivelate molto interessanti. Per non citare poi le fiction religiose, alcune delle quali notevoli: Karol e Giovanni Paolo II, Madre Teresa, Paolo VI , Chiara e Francesco, e non poche altre. Per il cinema si potrebbe fare un discorso analogo, anche se in questo caso crediamo sia importante liberarsi una volta per tutte da una sudditanza culturale verso alcuni autori ‘da festival’, spesso manieristi che sanno usare bene la macchina da presa ma hanno poco da dire, o nichilisti che sanno raccontare e commuovere in modo efficace ma spesso menzognero. C’è un cinema umanistico che non fa a pugni con il mercato e può essere letto a diversi livelli di profondità: pensiamo a tutta la produzione della Pixar: da Toy Sory a Ratatouille e al recente Up . Pensiamo a film di valore come La rosa bianca , Le vite degli altri , ma anche a prodotti hollywoodiani di intrattenimento umanamente interessante come Cinderella Man o Batman Begins, Il diavolo veste Prada o Hotel Rwanda. Il confine fra puro intrattenimento e film ‘educativi’ è spesso molto labile: sono stato molto sorpreso da Io & Marley, il film con Jennifer Aniston e Owen Wilson (e un cagnone labrador) che non prometteva granché ma è forse il miglior film family della stagione, con riflessioni importanti sull’amore coniugale, il rapporto fra lavoro e famiglia, il sacrificio per far crescere ed educare i figli… nche nei confronti dei giovani, a volte vittime di prodotti di scarsa qualità o direttamente diseducativi come alcuni programmi tv pomeridiani, l’unica strategia alla lunga vincente è far sì che la ‘moneta buona’ scacci la cattiva. Per instaurare un dialogo sui temi dell’innamoramento e della scelta della persona con cui condividere l’esistenza proviamo magari con film come Orgoglio e pregiudizio, Ragione e sentimento, o anche Hitch … Tante scelte possono dipendere dal contesto: un conto è una fruizione in famiglia con bambini, altro sono gruppi di adolescenti o giovani, più o meno colti, motivati e preparati… In tutti questi casi vale un principio di fondo: fare uno sforzo per informarsi, trovare strumenti affidabili, diffondere una cultura della responsabilità e del discernimento anche nelle scelte di ‘intrattenimento’. Che poi solo intrattenimento non è. (Armando Fumagalli, Avvenire, 4 novembre 2009)
La Chiesa cattolica nella Germania comunista e la svolta del 1989
La divisione della Germania in seguito alla seconda guerra mondiale ha determinato profondi cambiamenti nello scenario ecclesiastico. Parti delle diocesi di Paderborn, Würzburg, Fulda e Osnabrück sono state separate di colpo dalle loro sedi vescovili - dato che erano situate sul territorio della zona un tempo di occupazione sovietica, in seguito passata alla Deutsche Demokratische Republik (Ddr), la Repubblica democratica tedesca. In particolare, è apparso eclatante il caso della diocesi di Berlino. Solo la diocesi di DresdenMeissen era situata interamente nel territorio della Ddr, come pure residui dell'arcidiocesi di Breslavia, da cui in seguito è sorta la diocesi di Görlitz. Solo a fatica i vescovi con sedi nella Repubblica federale tedesca hanno potuto mantenere rapporti con i loro fedeli nella Ddr. Come soluzioni d'emergenza era previsto che i vescovi, per le loro comunità situate nella Ddr, nominassero dei rappresentanti dotati di pieni poteri straordinari. In tal modo era possibile salvaguardare l'azione pastorale e l'unità ecclesiastica, laddove la costituzione di una conferenza di ordinari tedesco-orientale da parte di Pio XII teneva conto delle esigenze pratiche. Ma lo scioglimento delle strutture ecclesiastiche dal loro vincolo con le diocesi tedesco-occidentali avite, allo scopo di conseguire un'identica copertura di territorio statale e struttura gerarchica, corrispondeva anch'esso alle aspirazioni d'autonomia statale e di riconoscimento internazionale da parte della dirigenza della Ddr. Mentre le analoghe intenzioni della dirigenza della Ddr nei confronti delle comunità locali protestanti furono coronate da successo e queste si separarono dalla Evangelische Kirche in Deutschland (Ekd), si opposero energicamente la Conferenza dei vescovi tedeschi e il Governo della Repubblica federale. A entrambi premeva sottolineare l'unità della Germania, anche sotto l'aspetto ecclesiastico, insistendo sullo status quo. La Santa Sede venne incontro alle concrete esigenze pastorali, creando nel 1973 per le parti delle diocesi tedesco-occidentali situate nella Ddr i cosiddetti Uffici diocesani di Erfurt-Meiningen, Magdeburgo e Schwerin, e nominando per ciascuno d'essi un amministratore apostolico, mentre la giurisdizione del vescovo occidentale restava sospesa, ma non veniva soppressa. Nel 1976 fu costituita la "Conferenza dei vescovi di Berlino", che divenne un necessario forum di comunicazione per gli amministratori apostolici, come pure per i vescovi di Berlino e Dresden-Meissen. Un'ulteriore iniziativa auspicata dalla diplomazia della Ddr e progettata dall'arcivescovo Casaroli, segretario del Consiglio per gli Affari pubblici della Chiesa, ossia quella di innalzare gli Uffici vescovili al rango di Amministrazioni apostoliche, non fu più messa in atto, poiché Paolo VI morì il 6 agosto 1978 e Giovanni Paolo II inaugurò un nuovo corso. Se Paolo VI era partito dal presupposto d'una durata imprevedibile del sistema sovietico e quindi s'era adoperato per trovare un modus vivendi - o meglio, non moriendi - con Mosca, al fine di garantire la sopravvivenza della Chiesa nel blocco orientale, Giovanni Paolo II s'impegnò invece in un confronto risoluto. Quindi tramontarono anche le aspirazioni dirette alla costruzione di una struttura gerarchica circoscritta al territorio della Ddr. Solo dopo la caduta del Muro ha potuto configurarsi un nuovo ordinamento ecclesiastico, senza che fosse connesso a implicazioni politiche. Nel 1994 furono erette le diocesi di Magdeburgo ed Erfurt, per cui si pose fine all'ordinamento provvisorio in vigore fino a quel momento. Per quanto riguarda l'organizzazione ecclesiastica, la situazione pastorale, religiosa nella Ddr era determinata dalla circostanza che con la Riforma del XVI secolo erano stati soppressi una quindicina di diocesi e numerosi conventi. A eccezione di pochi territori - pensiamo all'Eichsfeld, a Oberlausitz, come pure a singoli conventi - fin dalla guerra dei Trent'anni la vita ecclesiastica cattolica nel territorio di quella che sarebbe diventata la Ddr si era estinta. Una situazione completamente nuova si è profilata solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, a causa della quale circa un milione e mezzo di fuggiaschi o profughi cattolici affluirono nel territorio della futura Ddr. Alcuni hanno ipotizzato che le potenze vincitrici avessero in programma una mescolanza confessionale connessa a questo processo. In tal modo ha avuto origine una diaspora cattolica negli odierni nuovi Länder federali. La situazione dei cattolici era quindi molto difficile, perché questi territori già all'epoca della Repubblica di Weimar, anzi già verso la fine del xix secolo, a causa della propaganda ateistica dei socialisti, erano stati largamente scristianizzati. Durante gli anni del nazismo l'ideologia del sangue e del suolo, cioè della razza, contribuì alla diffusione della religione neopagana della razza germanica, che accentuò ulteriormente la scristianizzazione. Quindi l'ateismo connesso al regime della Sed (il partito socialista unitario tedesco) ha avuto gioco facile. Di conseguenza la fede dei cattolici che vivevano in quest'ambiente è stata sottoposta alle prove più ardue. La Chiesa cattolica, nella Ddr, si trovava in una duplice situazione di diaspora. Sul piano confessionale, rispetto alla popolazione di religione evangelica, rappresentava una quantité négligeable. Protestanti e cattolici, però, cominciarono a considerarsi sempre più, in un certo senso, come piccole oasi in un deserto di ateismo. Un'esperienza che ha portato a una forma di solidarietà e a una vicinanza ecumenica. Nelle questioni di attualità, soprattutto quelle legate alla politica ecclesiastica, si trovava un accordo - il rapporto con gli organi dello Stato e del partito era molto diverso. Un parallelo cattolico rispetto al modello protestante di una "Chiesa nel socialismo" non è esistito in nessuna fase. Piuttosto il contrasto con l'ideologia dominante era univoco. La resistenza cattolica si è diretta non tanto contro lo Stato di per sé, ma contro l'ideologia che ne era alla base. Questa differenza affonda le sue radici fin nell'epoca della Riforma. Soprattutto nei territori di Prussia-Brandeburgo, in conseguenza della Riforma la sovranità sulla Chiesa era stata rivendicata dai principi dei singoli territori, che si sentivano summi episcopi delle loro Chiese territoriali. Questo sistema di governo ecclesiastico su base territoriale da parte dei signori ebbe naturalmente come conseguenza una particolare prossimità o dipendenza della Chiesa dallo Stato. Nel mio luogo d'origine, Ansbach - un principato del Brandeburgo - ancora alla fine del XVIII secolo il ii Senato della Camera della guerra e del demanio svolgeva le funzioni di suprema autorità ecclesiastica. Questa dipendenza s'è mantenuta oltre la fine della monarchia. Ben diversa si presentava la situazione dei cattolici, che in particolare in seguito alle leggi bismarckiane connesse al Kulturkampf (dopo il 1870) erano stati sottoposti a una persecuzione più grave che sotto il regime nazista. Durante questa fase furono scacciati o incarcerati nove dei dodici vescovi prussiani. Un destino che fu condiviso da centinaia di sacerdoti. Queste esperienze vissute nel passato hanno segnato in modo duraturo l'atteggiamento dei cattolici nei confronti del potere statale. A ciò s'è aggiunta l'esperienza del periodo nazista, che "fa capire la strategia difensiva adottata dai vertici della Chiesa cattolica nella Ddr fino agli anni Ottanta, orientata a compartimentare la limitata sfera ecclesiastica interna" (H. Heineke). Quindi, da parte cattolica, s'è mantenuta una distanza nei confronti degli organi statali e partitici, senza tuttavia provocarli con una resistenza aperta. I contatti comunque necessari con queste istanze furono affidati dai vescovi a singoli sacerdoti, che dovevano agire su loro incarico e secondo le loro direttive. A questo punto è naturale chiedersi se dalle cerchie del clero siano usciti collaboratori o fiancheggiatori della Stasi, i servizi segreti della Ddr. Per quanto è consentito dire allo stato attuale della ricerca, la rigida regolamentazione di questi contatti era in grado d'impedire una simile collaborazione a livello diffuso. Se il ministero per la Sicurezza dello Stato ha perseguito l'obiettivo d'esercitare pressioni sulla Chiesa cattolica per pilotarla, attraverso informazioni informali nel senso della politica ecclesiastica condotta dallo Stato-Sed, si è trattato di un tentativo fallito. Di 183 dirigenti che tra il 1950 e il 1989 hanno lavorato per la Caritas, solo tre hanno avuto contatti cospirativi con la Stasi. Quattro sacerdoti agivano su disposizioni dei vescovi. L'altro risvolto di questo modello pastorale della distanza nei confronti dello Stato e di una società plasmata dal materialismo comunista, consisteva nel percepire e criticare la vita ecclesiastica concentrata "intorno al campanile" come un cristianesimo da sacrestia angusto e segregato. Per un altro verso, per la piccola Chiesa cattolica della diaspora il legame con Roma era stato importante da sempre. Dopo l'ascesa al soglio pontificio di Giovanni Paolo II questo legame s'è rivelato decisivo per una riorganizzazione della vita ecclesiastica. In questo contesto il Papa non solo ha offerto sostegno ai vescovi, ma li ha invitati ad avviare un rapporto con le cerchie evangeliche impegnate "per la giustizia, la pace e la preservazione della creazione". Ma con ciò siamo già alle soglie dell'anno 1989. Ancora oggi sono vivide le immagini che si sono presentate allo sguardo dello spettatore nella tarda estate del 1989 a Lipsia: erano le famose dimostrazioni del lunedì, la prima delle quali ebbe luogo il 4 settembre. Meta delle dimostrazioni era la chiesa di San Nicola, nella quale si concludevano con la preghiera della pace. Lo stesso accadeva in numerose città della Ddr. Era la comunità evangelica che aveva aperto le sue chiese a questo scopo e aveva appoggiato in vari modi le dimostrazioni. A questo punto è legittimo interrogarsi sull'eventuale impegno cattolico nel processo di svolta. In confronto al ruolo svolto dalle comunità evangeliche, esso appare più modesto. Ma questa circostanza non deve meravigliare, dato che i cattolici rappresentavano solo una esigua minoranza. La quota di protestanti sulla popolazione complessiva, che ammontava all'85 per cento nel 1950, si era ridotta al 25 per cento nel 1989, quella dei cattolici era passata dal 10 per cento al 5 per cento. Naturalmente i cattolici non possedevano chiese che avrebbero potuto accogliere una moltitudine di persone per la preghiera della pace - a eccezione delle note enclavi cattoliche di Eichsfeld e Oberlausitz. Tuttavia, non poche comunità cattoliche si sono impegnate in misura più modesta anche politicamente. Così molti cattolici si comportavano da oppositori; insieme con i protestanti si impegnavano per l'ambiente e nei movimenti pacifisti e si schieravano nelle dimostrazioni del lunedì. Il vescovo di Dresda, Reinelt, ha riferito, per esempio, di aver spesso accompagnato coloro che dimostravano contro il regime della Ddr insieme con il vescovo evangelico locale - quest'ultimo a Lipsia, Reinelt a Dresda. Le singole parrocchie offrivano gli spazi dove i membri democratici della comunità, critici verso il regime, s'incontravano e si scambiavano le loro opinioni. Inoltre, bisogna aggiungere che i cattolici della Germania Est guardavano indubbiamente con attenzione agli eventi in Polonia, dove dopo la quasi profetica omelia di Pentecoste pronunciata da Giovanni Paolo II a Varsavia, nel 1979, s'era messo in moto un movimento che alla fine avrebbe portato agli avvenimenti del 1989. Il Papa allora aveva citato il versetto della liturgia di Pentecoste: "Emitte Spiritum tuum... et renovabis faciem terrae." Poi aveva battuto al suolo energicamente il suo bastone pastorale e aveva proseguito: "Questa terra qui". In polacco "terra" significa anche "Paese"! Consentitemi di citare, per ricapitolare, cosa scrive nel suo nuovo libro Urbi et Gorbi - Christen als Wegbereiter der Wende Joachim Jauer, che è stato per anni corrispondente della Zdf nella Ddr e in Europa orientale: "Sono senz'altro più numerosi i protagonisti evangelici rispetto a quelli cattolici, e questo non stupisce. Ci troviamo qui, nel paese di Lutero, nell'ex Ddr. Le piccole comunità cattoliche qui sono sorte solo dopo la seconda guerra mondiale, dagli insediamenti di profughi della Boemia o della Slesia. Questa è la prima osservazione. La seconda è che i vescovi cattolici volevano salvaguardare il loro piccolo gregge e hanno quasi innalzato un baluardo difensivo intorno a loro. Questo ha fatto sì che la piccola Chiesa cattolica, sul territorio della Ddr, abbia potuto preservare i suoi fedeli dalla perdita della fede molto più della grande Chiesa evangelica, dalla quale i capi della Sed... sono riusciti ad allontanare una quantità, addirittura milioni, di persone. Questo tra i cattolici non è stato possibile... Ma queste notizie non arrivavano all'opinione pubblica. Anche per noi corrispondenti era quasi impossibile aver accesso a queste informazioni... Non ho mai... potuto fare un servizio in una chiesa cattolica... Da questo emerge... un'immagine distorta, come se i cattolici addirittura non fossero esistiti". Ma subito dopo la svolta si è visto che esistevano e non erano rimasti affatto inattivi. Il teologo evangelico Erhard Neubert, sbalordito ed evidentemente contrariato per il gran numero di cattolici che dopo il 1990 si sono assunti responsabilità politiche nei nuovi Länder federali, scrisse nel 1991: "Abbiamo esautorato la Sed, e ora il potere l'hanno preso i cattolici". La tesi della rivoluzione protestante è falsa quanto quella della presa del potere da parte dei cattolici dopo il 1990. Che i cattolici, in rapporto alla loro quota nella popolazione complessiva, fossero rappresentati politicamente in modo sproporzionato, era dovuto al fatto di essere impegnati prevalentemente nella Christlich Demokratische Union (Cdu). A questo si aggiungeva che il programma della Cdu si inseriva nella tradizione della dottrina sociale cattolica, che non era affatto ignota ai cattolici impegnati della Ddr. Inoltre, si è potuto accertare che fin dagli anni Settanta si è verificata nella Ddr un'"ascesa silenziosa" dell'élite cattolica verso posizioni direttive non politiche in ambito accademico, nella sanità e nelle professioni tecniche. A differenza dei laici attivi durante la svolta, i vescovi si sono espressi e comportati con discrezione in relazione alla politica. Questo non esclude che, per esempio, il vescovo di Magdeburgo, Braun, già nel settembre 1989, abbia formulato apertamente delle critiche nei confronti del regime della Sed. Il vescovo Reinelt di Dresda, all'inizio dell'ottobre 1989, ha cercato d'impedire personalmente violenti scontri fra dimostranti e servizi di sicurezza nella piazza della stazione di Dresda; e il 16 ottobre, due giorni dopo l'esautoramento del capo dello Stato della Ddr, Erich Honecker, ha chiamato i cattolici ad impegnarsi nella politica. Questo appello è stato prontamente raccolto dalle comunità. Potrebbero essere citati ancora altri esempi. In ogni caso, si può parlare anche d'una partecipazione dei cattolici alla svolta. Quando è caduto il Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, alcuni vescovi tedeschi - fra i quali quello di Berlino, Sterzinsky, che aveva assunto la sua carica solo in settembre - si trovavano a Roma per incontrare papa Giovanni Paolo II. Quando i vescovi, sorpresi dagli eventi, si sono accomiatati dal Papa per affrettarsi a tornare in patria, Giovanni Paolo II li ha congedati con queste parole: "Fate di tutto, per unirvi anche voi, seppure come un piccolo gregge, a tutti gli uomini di buona volontà, in particolare ai cristiani evangelici, per rinnovare la faccia della terra nel vostro Paese nella forza dello Spirito divino". Un'eco significativa della famosa predica di Pentecoste pronunciata a Varsavia nel 1979. A questo punto è opportuno chiedersi se questo è accaduto, se la faccia della terra sia stata effettivamente rinnovata nei nuovi Länder federali. Ora, sul piano organizzativo la risposta può essere affermativa. In questo arco di tempo nei nuovi Länder federali sono state create le strutture gerarchiche, e le relazioni fra Stato e Chiesa sono state regolate da concordati. Dal 1989 sono stati fondati 26 conventi maschili, 24 conventi femminili e numerosi movimenti religiosi - come per esempio Comunione e liberazione, Cursillo de Cristiandad, Mariage Encounter, Emmanuel e altri - hanno intrapreso la loro attività apostolica. A questo si aggiunge la fondazione di 58 nuove scuole cattoliche. Tutto ciò conferma anche per la Chiesa nella ex Ddr la validità del motto di Montecassino: Succisa virescit. Sono ormai trascorsi vent'anni dalla svolta, dalla liberazione della Chiesa nella Germania orientale. A questo punto, si è tentati di chiedersi se a questo processo sia connessa anche una corrispondente influenza sulla società dei nuovi Länder. Fino a oggi non è possibile dare una risposta positiva a tale proposito, se si considera l'alta percentuale di voti che ha ottenuto nelle elezioni degli ultimi due decenni il partito succeduto alla Sed, la Pds, legata come in precedenza all'ideologia marxista. Anche lo schieramento estremista di destra ha un seguito tutt'altro che modesto. Comunque, oggi, non è ancora il momento per interrogarsi su un'eventuale influenza cristiana sulla società della ex Ddr a seguito della svolta. Circa cento anni di scristianizzazione di questi Länder - prima a causa del materialismo volgare del tardo Ottocento e poi delle ideologie irreligiose del Novecento - hanno contribuito al sorgere, in questi luoghi, di un clima spirituale e sociale che non è affatto favorevole al diffondersi del messaggio cristiano. Ma questa situazione non deve assolutamente indurre alla rassegnazione, deve piuttosto essere riconosciuta e raccolta dalla Chiesa in Germania come una sfida. (Walter Brandmüller, ©L'Osservatore Romano, 11 novembre 2009)
Costituzione Apostolica per l’ingresso degli anglicani nella Chiesa cattolica
Il Vaticano deciderà "caso per caso" sull'accoglienza dei diaconi anglicani sposati che vogliono divenire preti cattolici: è la norma della Costituzione apostolica per l'ingresso dei tradizionalisti anglicani nella Chiesa cattolica, annunciata il 20 ottobre e pubblicata nelle scorse ore dalla Santa Sede. Porta chiusa, invece, per "i chierici anglicani che si trovano in situazioni matrimoniali irregolari". Nel sesto paragrafo del documento papale - preannunciato alcuni giorni fa con una nota del Cardinale William Levada che intendeva smentire le anticipazioni della stampa - si afferma che il futuro Ordinario, "in piena osservanza della disciplina sul celibato clericale nella Chiesa Latina, pro regula ammetterà all`ordine del presbiterato solo uomini celibi. Potrà rivolgere petizione al Romano Pontefice, in deroga al can. 277, paragrafo 1, di ammettere caso per caso all`Ordine Sacro del presbiterato anche uomini coniugati, secondo i criteri oggettivi approvati dalla Santa Sede". Nelle norme complementari si specifica che "in considerazione della tradizione ed esperienza ecclesiale anglicana, l`Ordinario può presentare al Santo Padre la richiesta di ammissione di uomini sposati all`ordinazione presbiterale nell`Ordinariato, dopo un processo di discernimento basato su criteri oggettivi e le necessità dell`Ordinariato. Tali criteri oggettivi sono determinati dall`Ordinario, dopo aver consultato la Conferenza Episcopale locale, e debbono essere approvati dalla Santa Sede". Inoltre, "coloro che erano stati ordinati nella Chiesa Cattolica e in seguito hanno aderito alla Comunione Anglicana, non possono essere ammessi all`esercizio del ministero sacro nell`Ordinariato. I chierici anglicani che si trovano in situazioni matrimoniali irregolari - si specifica, quindi - non possono essere ammessi agli Ordini Sacri nell`Ordinariato". "La possibilità prevista dalla Costituzione Apostolica della presenza di alcuni chierici sposati negli Ordinariati Personali - precisa una nota vaticana allegata alla Costiuzione apostolica - non significa in alcun modo un cambiamento nella disciplina della Chiesa per quanto riguarda il celibato sacerdotale. Esso, come dice il Concilio Vaticano II, è segno e allo stesso tempo stimolo della carità pastorale e annuncia in modo radioso il regno di Dio (Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1579)". La Costituzione Apostolica 'Anglicanorum coetibus' "introduce una struttura canonica che provvede ad una tale riunione corporativa tramite l`istituzione di Ordinariati Personali, che permetteranno ai suddetti gruppi di entrare nella piena comunione con la Chiesa Cattolica, conservando nel contempo elementi dello specifico patrimonio spirituale e liturgico anglicano. Contemporaneamente - prosegue una nota della sala stampa della Santa Sede -, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha emanato Norme Complementari, che serviranno alla retta attuazione del provvedimento". Il documento papale, che porta la data del 4 novembre, "apre una nuova strada per la promozione dell`unità dei cristiani, riconoscendo nel contempo la legittima diversità nell`espressione della nostra fede comune", precisa il comunicato. "Non si tratta di un`iniziativa che abbia avuto origine nella Santa Sede, ma di una risposta generosa da parte del Santo Padre alla legittima aspirazione di tali gruppi anglicani. L`istituzione di questa nuova struttura si colloca in piena armonia con l`impegno per il dialogo ecumenico, che - puntualizza il Vaticano - continua ad essere una priorità per la Chiesa Cattolica". Non ci saranno solo preti sposati, ma anche 'ordinari' sposati, tra gli anglicani tradizionali che si convertiranno alla Chiesa cattolica, precisano ancora le norme complementari alla Costituzione apostolica pubblicata che vieta ai preti cattolici, tra l’altro, di fare 'avanti e indietro' tra la Chiesa cattolica e quella anglicana per 'bypassare' la norma del celibato sacerdotale. "Un Vescovo già anglicano e coniugato - afferma il paragrafo 1 della undicesima norma complementare - è eleggibile per essere nominato Ordinario. In tal caso - si sottolinea - è ordinato presbitero nella Chiesa cattolica (non vescovo, dunque, ndr) ed esercita nell`Ordinariato il ministero pastorale e sacramentale con piena autorità giurisdizionale". "Coloro che erano stati ordinati nella Chiesa Cattolica e in seguito hanno aderito alla Comunione Anglicana - si evidenzia poi all'articolo 6, comma 2 - non possono essere ammessi all`esercizio del ministero sacro nell`Ordinariato. I chierici anglicani che si trovano in situazioni matrimoniali irregolari non possono essere ammessi agli Ordini Sacri nell`Ordinariato". Non entrerà nella Chiesa cattolica, dunque, il primate della Traditional Anglican Communion, l'arcivescovo John Hepworth, ex prete cattolico. Le norme complementari determinano, all'articolo 10, comma 4, che "l`Ordinario può accettare come seminaristi solo i fedeli che fanno parte di una parrocchia personale dell`Ordinariato o coloro che provengono dall`Anglicanesimo e hanno ristabilito la piena comunione con la Chiesa Cattolica". Gli anglicani tradizionalisti verranno pienamente integrati nella Chiesa cattolica: lo precisa, intanto, padre Gianfranco Ghirlanda, Rettore della Pontificia università Gregoriana, in una annotazione di esplicazione distribuita dalla sala stampa vaticana. "Dalla lettura della Costituzione Apostolica e delle Norme Complementari emanate dalla Sede Apostolica - spiega il religioso - si percepisce chiaramente l`intento, con la previsione di erezione di Ordinariati Personali, di comporre due esigenze: da una parte quella di 'mantenere vive all`interno della Chiesa Cattolica le tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali della Comunione Anglicana, quale dono prezioso per alimentare la fede dei suoi membri e ricchezza da condividere'; dall`altra - osserva Ghirlanda -, quella di una piena integrazione di gruppi di fedeli o di singoli, già appartenenti all`Anglicanesimo, nella vita della Chiesa Cattolica". La Costituzione Apostolica "Anglicanorum coetibus" "non è minimamente in contraddizione con l'impegno ecumenico della Chiesa Cattolica, che continua esattamente come prima", ha dichiarato ai giornalisti, dal canto suo, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi. Commentando il documento, il gesuita ha anche constatato che vi e' in esso "uno sforzo di composizione degli elementi caratteristici dell'Anglicanesimo con una piena integrazione nella Chiesa Cattolica". Il provvedimento, ha proseguito, "non dà vita a un nuovo Rito nella Chiesa Cattolica, come lo sono quello greco-cattolico e maronita, ma a una 'variazione' del rito latino, come è, ad esempio, il rito ambrosiano, che non è una Chiesa distinta". Infatti, "l'Ordinariato personale - ha concluso Lombardi - è inserito nella Conferenza Episcopale, anche se ha libri liturgici propri, un Consiglio di governo e norme sue sul celibato". (Petrus, 9 novembre 2009)
Il contributo dell'ordine di Cluny alla vita monastica
Nella sua catechesi dell'Udienza generale di mercoledì 11 novembre 2009, il Papa, continuando a parlare dello sviluppo della teologia nel XII secolo, si è soffermato sul contributo al rinnovamento della vita monastica dato dall’Ordine di Cluny. Ecco il testo integrale. Cari fratelli e sorelle, questa mattina vorrei parlarvi di un movimento monastico che ebbe grande importanza nei secoli del Medioevo, e di cui ho già fatto cenno in precedenti catechesi. Si tratta dell’Ordine di Cluny, che, all’inizio del XII secolo, momento della sua massima espansione, contava quasi 1200 monasteri: una cifra veramente impressionante! A Cluny, proprio 1100 anni fa, nel 910, fu fondato un monastero posto sotto la guida dell’abate Bernone, in seguito alla donazione di Guglielmo il Pio, Duca di Aquitania. In quel momento il monachesimo occidentale, fiorito qualche secolo prima con san Benedetto, era molto decaduto per diverse cause: le instabili condizioni politiche e sociali dovute alle continue invasioni e devastazioni di popoli non integrati nel tessuto europeo, la povertà diffusa e soprattutto la dipendenza delle abbazie dai signori locali, che controllavano tutto ciò che apparteneva ai territori di loro competenza. In tale contesto, Cluny rappresentò l’anima di un profondo rinnovamento della vita monastica, per ricondurla alla sua ispirazione originaria. A Cluny venne ripristinata l’osservanza della Regola di san Benedetto con alcuni adattamenti già introdotti da altri riformatori. Soprattutto si volle garantire il ruolo centrale che deve occupare la Liturgia nella vita cristiana. I monaci cluniacensi si dedicavano con amore e grande cura alla celebrazione delle Ore liturgiche, al canto dei Salmi, a processioni tanto devote quanto solenni e, soprattutto, alla celebrazione della Santa Messa. Promossero la musica sacra; vollero che l’architettura e l’arte contribuissero alla bellezza e alla solennità dei riti; arricchirono il calendario liturgico di celebrazioni speciali come, ad esempio, all’inizio di novembre, la Commemorazione dei fedeli defunti, che anche noi abbiamo da poco celebrato; incrementarono il culto della Vergine Maria. Fu riservata tanta importanza alla liturgia, perché i monaci di Cluny erano convinti che essa fosse partecipazione alla liturgia del Cielo. Ed i monaci si sentivano responsabili di intercedere presso l’altare di Dio per i vivi e per i defunti, dato che moltissimi fedeli chiedevano loro con insistenza di essere ricordati nella preghiera. Del resto, proprio con questo scopo Guglielmo il Pio aveva voluto la nascita dell’Abbazia di Cluny. Nell’antico documento, che ne attesta la fondazione, leggiamo: "Stabilisco con questo dono che a Cluny sia costruito un monastero di regolari in onore dei santi apostoli Pietro e Paolo, e che ivi si raccolgano monaci che vivono secondo la Regola di san Benedetto (…) che lì un venerabile asilo di preghiera con voti e suppliche sia frequentato, e si ricerchi e si brami con ogni desiderio e intimo ardore la vita celeste, e assiduamente orazioni, invocazioni e suppliche siano dirette al Signore". Per custodire ed alimentare questo clima di preghiera, la regola cluniancense accentuò l’importanza del silenzio, alla cui disciplina i monaci si sottoponevano volentieri, convinti che la purezza delle virtù, a cui aspiravano, richiedeva un intimo e costante raccoglimento. Non meraviglia che ben presto una fama di santità avvolse il monastero di Cluny, e che molte altre comunità monastiche decisero di seguire le sue consuetudini. Molti principi e Papi chiesero agli abati di Cluny di diffondere la loro riforma, sicché in poco tempo si estese una fitta rete di monasteri legati a Cluny o con veri e propri vincoli giuridici o con una sorta di affiliazione carismatica. Si andava così delineando un’Europa dello spirito nelle varie regioni della Francia, in Italia, in Spagna, in Germania, in Ungheria. Il successo di Cluny fu assicurato anzitutto dalla spiritualità elevata che vi si coltivava, ma anche da alcune altre condizioni che ne favorirono lo sviluppo. A differenza di quanto era avvenuto fino ad allora, il monastero di Cluny e le comunità da esso dipendenti furono riconosciuti esenti dalla giurisdizione dei Vescovi locali e sottoposti direttamente a quella del Romano Pontefice. Ciò comportava un legame speciale con la sede di Pietro e, grazie proprio alla protezione e all’incoraggiamento dei Pontefici, gli ideali di purezza e di fedeltà, che la riforma cluniacense intendeva perseguire, poterono diffondersi rapidamente. Inoltre, gli abati venivano eletti senza alcuna ingerenza da parte delle autorità civili, diversamente da quello che avveniva in altri luoghi. Persone veramente degne si succedettero alla guida di Cluny e delle numerose comunità monastiche dipendenti: l’abate Oddone di Cluny, di cui ho parlato in una Catechesi di due mesi fa, e altre grandi personalità, come Emardo, Maiolo, Odilone e soprattutto Ugo il Grande, i quali svolsero il loro servizio per lunghi periodi, assicurando stabilità alla riforma intrapresa e alla sua diffusione. Oltre a Oddone, sono venerati come santi Maiolo, Odilone e Ugo. La riforma cluniacense ebbe effetti positivi non solo nella purificazione e nel risveglio della vita monastica, bensì anche nella vita della Chiesa universale. Infatti, l’aspirazione alla perfezione evangelica rappresentò uno stimolo a combattere due gravi mali che affliggevano la Chiesa di quel periodo: la simonia, cioè l’acquisizione di cariche pastorali dietro compenso, e l’immoralità del clero secolare. Gli abati di Cluny con la loro autorevolezza spirituale, i monaci cluniacensi che divennero Vescovi, alcuni di loro persino Papi, furono protagonisti di tale imponente azione di rinnovamento spirituale. E i frutti non mancarono: il celibato dei sacerdoti tornò a essere stimato e vissuto, e nell’assunzione degli uffici ecclesiastici vennero introdotte procedure più trasparenti. Significativi pure i benefici apportati alla società dai monasteri ispirati alla riforma cluniacense. In un’epoca in cui solo le istituzioni ecclesiastiche provvedevano agli indigenti fu praticata con impegno la carità. In tutte le case, l’elemosiniere era tenuto a ospitare i viandanti e i pellegrini bisognosi, i preti e i religiosi in viaggio, e soprattutto i poveri che venivano a chiedere cibo e tetto per qualche giorno. Non meno importanti furono altre due istituzioni, tipiche della civiltà medioevale, promosse da Cluny: le cosiddette "tregue di Dio" e la "pace di Dio". In un’epoca fortemente segnata dalla violenza e dallo spirito di vendetta, con le "tregue di Dio" venivano assicurati lunghi periodi di non belligeranza, in occasione di determinate feste religiose e di alcuni giorni della settimana. Con "la pace di Dio" si chiedeva, sotto la pena di una censura canonica, di rispettare le persone inermi e i luoghi sacri. Nella coscienza dei popoli dell’Europa si incrementava così quel processo di lunga gestazione, che avrebbe portato a riconoscere, in modo sempre più chiaro, due elementi fondamentali per la costruzione della società, e cioè il valore della persona umana e il bene primario della pace. Inoltre, come accadeva per le altre fondazioni monastiche, i monasteri cluniacensi disponevano di ampie proprietà che, messe diligentemente a frutto, contribuirono allo sviluppo dell’economia. Accanto al lavoro manuale, non mancarono neppure alcune tipiche attività culturali del monachesimo medioevale come le scuole per i bambini, l’allestimento delle biblioteche, gli scriptoria per la trascrizione dei libri. In tal modo, mille anni fa, quando era in pieno svolgimento il processo di formazione dell’identità europea, l’esperienza cluniacense, diffusa in vaste regioni del continente europeo, ha apportato il suo contributo importante e prezioso. Ha richiamato il primato dei beni dello spirito; ha tenuto desta la tensione verso le cose di Dio; ha ispirato e favorito iniziative e istituzioni per la promozione dei valori umani; ha educato ad uno spirito di pace. Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché tutti coloro che hanno a cuore un autentico umanesimo e il futuro dell’Europa sappiano riscoprire, apprezzare e difendere il ricco patrimonio culturale e religioso di questi secoli. (© Copyright Libreria Editrice Vaticana, 11 novembre 2009)
8 novembre 2009
Giovani non praticanti in cerca della Verità
La necessità di interessare i giovani al Cristianesimo è una questione che preoccupa praticamente tutti i responsabili ecclesiastici di oggi. Non è un segreto che una buona parte dei giovani non si sente appartenenti ad alcuna Chiesa, ma questo non significa che sia insensibili alla religione, secondo una recente pubblicazione. Nel libro dal titolo “Lost and Found: The Younger Unchurched and the Churches That Reach Them” (B and H Publishing Group), gli autori Ed Stezzer, Richie Stanley e Jason Hayes, prendono in considerazione i ventenni americani, per vedere come alcune Chiese tentano di entrare in sintonia con una generazione notoriamente riluttante ad impegnarsi in una religione istituzionale. Nella loro ricerca, ai fini della loro analisi, suddividono i non praticanti in diverse categorie. Alcuni non hanno mai partecipato a organizzazioni religiose, altri hanno abbandonato la pratica della religione dopo l’infanzia, e altri ancora rappresentano le categorie di chi è più ostile o di chi è più aperto alle Chiese. Non è uno studio incentrato su una Chiesa cristiana specifica, quanto piuttosto uno sguardo su come i giovani interagiscono con il Cristianesimo. I dati contenuti nel libro sono tratti da diversi studi condotti dal 2006 al 2008. Il campione è composto di 20-24enni e di 25-29enni secondo un rapporto di circa 40/60. Più della metà sono laureati, mentre otto su nove hanno intrapreso una qualche forma di istruzione post-secondaria. Come risulta anche da altri studi sui giovani, gli intervistati hanno spesso risposto di sentirsi spirituali, ma di non considerarsi proprio religiosi. Infatti, il 43% dei non praticanti si è definito spirituale, mentre il 31% si è detto spirituale e religioso, sebbene senza alcuna frequentazione regolare in chiesa. Risulta inoltre che più del 60% di loro frequentava la chiesa settimanalmente da bambini. Pertanto apparirebbe più corretto definire molti dei non praticanti come ex praticanti, osservano gli autori. Il libro entra poi nel merito di ciò che i non praticanti effettivamente credono. Quattro su cinque di loro credono nell’esistenza di un essere supremo, mentre tre su quattro ammettono che l’esistenza di Dio incide o inciderebbe sulla loro vita. Questo dato iniziale è stato poi ulteriormente qualificato a seconda di ciò che i non praticanti intendono per Dio. Mentre la maggioranza degli intervistati ha risposto di credere nel Dio descritto nella Bibbia, il 58% ha altresì affermato che il Dio biblico non è per nulla diverso dagli dei o esseri spirituali adorati da altre religioni come l’Islam o il Buddismo. Effettivamente, l’ambito in cui vi è stata maggiore sintonia tra i giovani spirituali e quelli non spirituali, è nell’idea che il Dio della Bibbia non si differenzia dagli altri dei. “Spirituali o non spirituali, la maggioranza concorda su un Dio blando”, osservano gli autori. “In altre parole, un’abbondante confusione spirituale permea il sistema delle convinzioni dei giovani non praticanti”. In maggiore dettaglio Quando poi si va a distinguere tra i gruppi etnici, risulta che il 98% dei giovani afro-americani non praticanti sostiene l’esistenza di Dio, mentre per gli ispanici la cifra è dell’84%. Invece, solo il 76% degli anglo-sassoni non praticanti dice di credere in Dio. Ancora più interessanti sono i dati sulle credenze, messi a confronto con i livelli di istruzione. Gli intervistati laureati sono risultati meno propensi a credere in Dio: solo il 79% di loro, rispetto al 94% dei diplomati o con un istruzione inferiore. Similmente, solo il 53% dei più istruiti ha convenuto che l’unico Dio esistente è quello della Bibbia, mentre tale convinzione è stata espressa dall’85% dei meno istruiti. Un minor grado di istruzione è risultato legato anche alla maggiore convinzione che l’esistenza di Dio influisca sulla propria vita. Lo studio prosegue poi esaminando il pensiero su Gesù. Sono state poste due domande: se si credeva nella resurrezione, e se la fede in Gesù era positiva per la vita di una persona. Circa i due terzi dei non praticanti hanno concordato sul fatto che Gesù è morto e tornato in vita. E il 77% degli intervistati ha risposto affermativamente alla seconda domanda. Quindi – conclude lo studio – il fatto che la maggioranza dei giovani non si avvicina alla Chiesa non è dovuto a un problema di fede in Dio o in Gesù. Quando si è trattato invece di questioni inerenti la Chiesa, le risposte non sono state cosi favorevoli. Mentre il 73% ha concordato che la Chiesa cristiana è in generale una cosa positiva per la società, circa due terzi ha accusato i praticanti di essere ipocriti, e il 90% ha sostenuto di avere un buon rapporto con Dio pur non frequentando la Chiesa. Secondo gli autori, non sorprende che i non praticanti manifestino ostilità rispetto alle Chiese. D’altra parte i sondaggi hanno rivelato che la maggioranza degli intervistati risultano essere aperti ad ascoltare gli amici che parlano del Cristianesimo. Infatti, l’89% di loro ha dichiarato di essere disposto a lasciare che qualcuno gli racconti del Cristianesimo. Inoltre, poco meno della metà ha affermato che se un amico diventasse cristiano, ciò avrebbe un effetto positivo sulla loro amicizia. Ciò non toglie, tuttavia, che il 46% si è riconosciuto nella frase “i cristiani mi danno ai nervi”. Prendere contatto L’ultima parte del libro esamina come alcune Chiese stanno cercando di attirare i non praticanti. Gli autori identificano nove caratteristiche comuni alle diverse forme di questi tentativi. -- Creare una comunità più unita attraverso una sana dinamica dei piccoli gruppi, che consente alle persone di entrare in contatto con gli altri. -- Consentire ai giovani di essere protagonisti, attraverso attività di volontariato. -- Dare opportunità di culto che tengano conto sia della cultura che della dovuta riverenza a Dio. -- Stabilire efficaci modalità di comunicazione, che possono variare nello stile, ma che sono più colloquiali che ammonitive. -- Apertura ad usare il linguaggio della tecnologia, familiare ai giovani. -- Costruire rapporti intergenerazionali, collegando i giovani agli adulti che li stimolano a maturare. -- Promuovere leadership oneste e autentiche. -- Esercitare leadership nella trasparenza e nel personale senso di umanità. -- Adottare un approccio di squadra nell’esercizio del ministero. Riguardo alla necessità di dare ai giovani l’opportunità di fare volontariato, gli autori osservano che attraverso queste attività caritatevoli, non solo i destinatari sono aiutati, ma gli stessi volontari vede cambiare la propria vita. I giovani di oggi hanno un grande desiderio di cambiare il mondo – aggiungono gli autori – e vogliono essere parte di questi progetti. Nel passato, molte Chiese protestanti richiedevano alle persone di far parte della Chiesa prima di consentire loro lo svolgimento di attività di volontariato. Tuttavia, gradualmente – spiega il libro – le Chiese hanno aperto alla possibilità di fare attività prima di diventare fedeli. Molti di queste persone, quindi, si uniscono ai gruppi della chiesa, dopo aver stabilito il contatto iniziale attraverso le attività di volontariato. Comunicare Gli autori trattano anche, in dettaglio, delle moderne tecniche informatiche utilizzate per attirare i giovani. Fino a poco tempo fa – sostengono – erano poche le chiese che avvaloravano a sufficienza l’impatto delle innovazioni nella comunicazione. Che una chiesa sia presente on-line può cambiare il modo in cui questa viene considerata, può aiutare a sfatare miti e a facilitare l’adesione. Utilizzare videoclip, social network e altri strumenti, consente ai non praticanti di vedere le persone credenti e il ruolo che la fede riveste nella loro vita. La tecnologia deve essere al servizio del Vangelo – avvertono gli autori – nel senso che deve essere usata per veicolare un messaggio e non per essere uno strumento fine a se stesso. In conclusione gli autori auspicano un maggiore impegno per connettere i giovani a Dio e alla Chiesa. Se si riuscisse ad ottenere questo, allora si potrebbe anche sperare di cambiare il mondo. I giovani sono alla ricerca di cose che si trovano nel Cristianesimo. Per questo occorre trovare il modo per riavvicinarli alla Chiesa. (padre John Flynn, Zenit, 2 novembre 2009)
Le nuove tecnologie: sfide all’evangelizzazione”
“La cultura moderna scaturisce, ancor prima che dai contenuti, dal dato stesso dell’esistenza di nuovi modi di comunicare che utilizzano linguaggi nuovi, si servono di nuove tecniche e creano nuovi atteggiamenti psicologici. Tutto questo costituisce una sfida per la Chiesa chiamata ad annunciare il Vangelo agli uomini del terzo millennio mantenendone inalterato il contenuto, ma rendendolo comprensibile grazie anche a strumenti e modalità consoni alla mentalità e alle culture di oggi”. Sono le parole con cui il Santo Padre Benedetto XVI si è rivolto ai partecipanti all’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, che si è soffermata sulle nuove tecnologie della comunicazione, ricevuti in udienza il 29 ottobre nel Palazzo Apostolico Vaticano. Nel suo discorso il Papa ha citato le due Istruzioni Pastorali “Communio et Progressio” di Papa Paolo VI ed “Aetatis Novae” di Giovanni Paolo II, “che hanno favorito e promosso nella Chiesa un’ampia sensibilizzazione su queste tematiche. Inoltre, i grandi cambiamenti sociali avvenuti negli ultimi vent’anni hanno sollecitato e continuano a sollecitare un’attenta analisi sulla presenza e sull’azione della Chiesa in tale campo”. Benedetto XVI ha quindi ricordato l’Enciclica “Redemptoris missio” di Giovanni Paolo II, dove si afferma che "l’impegno nei mass media, non ha solo lo scopo di moltiplicare l’annunzio: si tratta di un fatto più profondo, perché l’evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dal loro influsso". Ed aggiungeva: "Non basta, quindi, usarli per diffondere il messaggio cristiano e il magistero della Chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa ‘nuova cultura’ creata dalla comunicazione moderna" (n. 37.c). Prendendo atto del “carattere multimediale” e della “interattività strutturale dei singoli nuovi media”, che hanno generato gradualmente “una sorta di sistema globale di comunicazione, per cui, pur mantenendo ciascun mezzo il proprio peculiare carattere, l’evoluzione attuale del mondo della comunicazione obbliga sempre più a parlare di un’unica forma comunicativa, che fa sintesi delle diverse voci o le pone in stretta reciproca connessione”, Benedetto XVI ha esortato ad “analizzare con più grande professionalità le varie dimensioni di questo fenomeno, incluse soprattutto quelle antropologiche”, ed ha invitato “quanti nella Chiesa operano nell’ambito della comunicazione ed hanno responsabilità di guida pastorale a saper raccogliere le sfide che pongono all’evangelizzazione queste nuove tecnologie”. Nella parte conclusiva del discorso, il Santo Padre ha richiamato il suo Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali di quest’anno, dove incoraggia i responsabili dei processi comunicativi “a promuovere una cultura del rispetto per la dignità e il valore della persona umana, un dialogo radicato nella ricerca sincera della verità, dell’amicizia non fine a se stessa, ma capace di sviluppare i doni di ciascuno per metterli a servizio della comunità umana. In tal modo la Chiesa esercita quella che potremmo definire una ‘diaconia della cultura’ nell’odierno ‘continente digitale’, percorrendone le strade per annunciare il Vangelo, la sola Parola che può salvare l’uomo”. (Agenzia Fides, 30 ottobre 2009)
Esempio di “dissenso teologico”: il pensiero di Padre Ernesto Balducci
1. Nella dichiarazione Siamo testimoni di Cristo che ci ha liberato, i presuli partecipanti all’Assemblea Speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi — svoltasi in Vaticano dal 28 novembre al 14 dicembre 1991 — affermano che, "mentre [...] una teologia radicata nella parola di Dio e aderente al magistero della Chiesa è sommamente utile per il compito dell’evangelizzazione, si deve riconoscere che il "dissenso" teologico costituisce un ostacolo per l’opera evangelizzatrice, in primo luogo per quella che si deve attuare continuamente all’interno della Chiesa stessa" (1). 2. A chi ha ritenuto il monito espressione di routine ecclesiastica e come tale lo ha accolto, offre prova certa della sua puntualità un’intervista allo scolopio toscano padre Ernesto Balducci, raccolta a metà febbraio del 1992 da Carlo Formenti per il supplemento settimanale del Corriere della Sera (2). Le affermazioni in essa contenute contrastano in modo tanto evidente con l’ortodossia e con l’ortoprassi cattoliche da non necessitare di commento; ma è di qualche importanza conoscerle sia per il loro carattere esplicito, sia perché il "pulpito" messo a disposizione da chi le pronuncia le qualifica in modo inequivoco come funzionali al progetto di secolarizzazione, "[...] cioè di estromissione della motivazione e della finalità religiosa da ogni atto della vita umana" (3), quindi come autentico ostacolo all’evangelizzazione. 3. Dunque, secondo padre Ernesto Balducci "il cristianesimo in quanto religione è in crisi irreversibile", "[...] è attraversato da una scissione: in quanto profezia messianica, esso predice l’avvento di un uomo che non è mai stato, un uomo futuro che realizzerà quelle possibilità che non hanno ancora trovato attuazione[...]. In questo senso la fede cristiana non è una "religione". Essa si è trasformata in religione in quanto ha assunto delle forme culturali particolaristiche, che coincidono con la storia dell’Occidente. Giovanni Paolo II è interno a questo cristianesimo storico che ha avuto la sua formulazione più rigorosa nel Concilio di Trento, e che è vissuto condannando tutte le conquiste politiche e scientifiche dell’umanità"; egli è "[...] un vir catholicus nel senso tridentino-polacco, [quindi] torna ora ad affermare che la Chiesa è l’anima dell’Europa. Un Iuogo comune ormai privo di senso, che legittima una cultura che ha anche espresso i roghi contro gli eretici". 4. Ma la situazione attuale è ancipite, nota lo scolopio: infatti, "oggi viviamo nell’evento della dissociazione fra la forma culturale, relativa, e la potenzialità messianico-profetica del cristianesimo". "Già nel 1871 Darwin diceva che, di fronte alla scoperta che la Terra è l’unico ambiente vitale comune a tutta la specie, i vincoli di "simpatia" che nel passato legavano fra loro i membri di una stessa tribù, città o nazione avrebbero dovuto abbracciare tutti gli abitanti del pianeta. Oggi siamo arrivati a questa soglia"; "ma per affrontare la sfida dell’età planetaria [...] bisogna capire qual è l’attuale fase evolutiva della nostra specie. La prima fase è stata quella dell’ominazione: uscendo dalla lotta per la vita basata sulla selezione naturale, l’homo sapiens entrò nella fase culturale, in cui l’evoluzione non è più il risultato della selezione ma di un "progetto" evolutivo. Un progetto, tuttavia, sempre dominato dalle strutture psichiche e sociali dell’antagonismo, dalla legge della "guerra madre di tutte le cose" di cui parlava Eraclito. Io però — tiene a precisare l’intervistato — non sono d’accordo con chi vede nel passato solo conflitti: oltre alle pulsioni aggressive, l’uomo ha sempre avvertito l’impulso opposto all’amicizia; per dirla con Freud: non c’è solo Thanatos, c’è anche Eros. Così come non sono d’accordo con chi ritiene che la natura umana sia immutabile, segnata dal "peccato originale": la nostra storia evolutiva dimostra al contrario che l’uomo è un essere plastico, modificabile". 5. Passando dalla dottrina, e dalla cultura in cui si incarna, alla morale, lo stesso scolopio afferma che, mentre "il problema demografico è la più grande sfida epocale [...] il messaggio che arriva alla gente comune è solo questo: la Chiesa è contraria ai metodi contraccettivi, e cioè un messaggio che non tiene conto della responsabilità nei confronti dell’umanità intera. Su questi temi il cristianesimo storico sarà sbaragliato. [...] Così come il cattolicesimo è la fede cristiana incarnata nella filosofia platonica, spesso fino a identificarsi con essa, dovrà incarnarsi nelle idee della nuova scienza". 6. Rebus sic stantibus, emerge finalmente il problema del "che fare", anche a fronte di chi, come Hans Küng, ritiene che il dissenso sia in regresso e la "restaurazione" avanzi. In proposito, padre Ernesto Balducci afferma che "Küng è rimasto troppo "cattolico": interpreta il fatto che sono diminuiti i fenomeni di contestazione della Chiesa dall’alto come una restaurazione del potere gerarchico"; quindi periodizza significativamente: "Nella fase dell’integrismo preconciliare chi dissentiva diventava spretato, eretico, reietto; poi è venuta la fase dell’antagonismo fra Chiesa conciliare e Chiesa apparato; oggi stiamo vivendo una terza fase: c’è la Chiesa apparato e poi c’è una forma comunitaria che progredisce autonomamente senza confrontarsi con la prima, che non ne tiene semplicemente conto. Facciamo l’esempio dell’America Latina: è vero che la teologia della liberazione è vessata, che Roma impone vescovi allineati all’Opus Dei, ma poi succede che, quando si insediano, non dispongono di strutture su cui far presa, di preti che condividono le loro idee. C’è una "Chiesa duale", c’è un dimorfismo evolutivo per cui mi viene a volte di dire provocatoriamente che il Vaticano rischia di diventare un gruppo del dissenso". 7. Dunque, secondo l’esponente del dissenso, "[...] è giunta l’ora di un nuovo adattamento della specie al suo ambiente [...]. [I nuovi scienziati] ci hanno fatto capire la necessità di costruire una "comunità creaturale": noi abbiamo sempre parlato di una comunità fra gli uomini, ma la nuova comunità dev’essere quella fra tutte le creature. La nuova etica si rivela come una "religione naturale" con cui dovranno misurarsi le religioni positive, la cui origine è nella comunione fra tutte le creature che si rivela alla coscienza che ha preso atto delle interconnessioni che legano l’uomo all’uomo e gli uomini alle cose. Nel coincidere con questo substrato materiale e biologico la necessità etica non muore: ritrova il suo senso profondo che è, a dispetto di tutti gli spiritualismi, la custodia del fuoco della vita su questo pianeta". 8. Quanto alla politica, "[...] più grave dell’inaffidabilità morale dei partiti è la loro impotenza — che coincide con l’impotenza del moderno Stato-nazione — ad affrontare le sfide dell’età planetaria, i problemi che io definisco "assoluti", come quelli dell’ecologia, dell’immigrazione, della droga". Per esempio, relativamente alla droga, "la legge del ’91 ha trasformato nuovamente il tossicodipendente in un criminale. Le carceri sono piene di detenuti condannati per questo tipo di reati, e i sieropositivi aumentano continuamente perché una siringa costa mezzo milione al mercato nero e, ovviamente, la usano in decine di persone. È il punto d’arrivo di una catena causale mondiale che mobilita enormi interessi contro i quali solo quella che io chiamo la "cosmopoli", il nucleo costitutivo di una comunità politica mondiale, può prevalere. O arriveremo a creare questa autorità politica mondiale o andremo sempre di più verso la disgregazione e la crisi". 9. Dunque, il vecchio progressismo catto-comunista si "aggiorna", si rivela anche catto-mondialista e, se non propone più di "battezzare" Karl Marx razionalista, richiama Karl Marx romantico, "letto" da Ernst Bloch (4) e all’interno di una filière che da Charles Robert Darwin passa attraverso Sigmund Freud: "La qualifica di cristiano — afferma esplicitamente padre Ernesto Balducci —, in quanto mi differenzia dagli altri, mi pesa. Il termine è nato ad Antiochia, nel 43 d. C., coniato da burocrati romani per "schedare" quelle comunità poco conformi alle regole sociali.[...] È vicino il giorno in cui capiremo che Gesù non intese dar vita a una nuova "religione", ma abbattere tutte le barriere che impediscono all’uomo di essere fratello all’uomo. Se voglio sapere se uno è cristiano non gli chiedo se crede, ma come assume la responsabilità del prossimo. Bloch diceva che solo un ateo può essere un vero cristiano, e solo un vero cristiano può essere ateo nel senso che nega il "dio della tribù"". Quanto all’azione, il new look del dissenso pratica la disattenzione organizzata nei confronti della Chiesa gerarchica, cioè la trasformazione del dissenso dottrinale in dissenso sociologico, inteso a ridurre lo stesso "Vaticano", in una prospettiva appunto sociologica e quantitativa, a un "gruppo del dissenso". Mentre devo registrare con dispiacere il fatto che padre Ernesto Balducci possa esternare quanto riportato senza incorrere in nessuna censura ecclesiastica, utile in tesi anche a lui, ma, in tesi e in ipotesi, certamente profittevole al popolo di Dio che lo incontra sui mass media, medito e propongo di meditare le parole del Signore Gesù relativamente al "piccolo gregge" (5) e una tesi di san Bonaventura secondo cui "il Sommo [...] Pontefice [...] è vicario di Cristo sulla terra; perciò, anche se fosse solo, e tutto nella Chiesa fosse distrutto, potrebbe restaurare tutto" (6). (Giovanni Cantoni, Cristianità n. 204/1992) NOTE (1) Sinodo dei Vescovi. Assemblea Speciale per l’Europa, Dichiarazione Siamo testimoni di Cristo che ci ha liberato, n. 5; a esposizione e a commento cfr. il mio Per la "nuova evangelizzazione" dell’Europa, in Cristianità, anno XIX, n. 200, dicembre 1991. (2) Cfr. Ernesto Balducci S.P., Dalla crisi delle religioni alla rinascita della fede, intervista a cura di Carlo Formenti, in 7 Supplemento del Corriere della Sera, n. 7, s.i.d. ma 15-2-1992, pp. 23-30. Tutte le citazioni senza rimando sono tratte da questo testo, che si presenta implicitamente come esposizione sintetica delle tesi dell’opera dello stesso padre scolopio La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (FI) 1992. (3) Giovanni Paolo II, Annunciare il valore religioso della vita umana. Discorso "Sono lieto", del 1°-3-1991, n. 1, Cristianità, Piacenza 1991, p. 5. (4) Cfr. il mio Fra crisi e "ristrutturazione": ipotesi sul futuro dell’impero socialcomunista, in Cristianità, anno XVIII, n. 187-188, novembre-dicembre 1990. (5) Cfr. Lc. 12, 32. (6) San Bonaventura, Quaestiones disputatae de perfectione evangelica, q. 4, a. 3, ad 15, in Obras de San Buenaventura, ed. bilingue, vol. VI, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1972, p. 330.
«Il condom è inutile, serve solo al gay business»
«Sudafrica. Coordinerò la promozione di programmi incentrati sulla riduzione del numero dei partner sessuali, la fedeltà di coppia e l’astinenza, rivolti a leader tradizionali e religiosi. Lavorerò sotto l’egida dell’Ubuntu Institute, una Ong presieduta dal genero di Nelson Mandela. Valorizzeremo cerimonie e rituali tradizionali. Sarà un approccio molto indigeno, il contrario del modello top-down internazionale, il contrario della promozione di tecnologie e medicinali americani». Mancano quattro mesi alla definitiva chiusura del suo programma di ricerca sulla prevenzione dell’infezione da Hiv ad Harvard, ed Edward Green ha già deciso la mèta del suo esilio. Messo alla porta dalla famosa università americana per le sue ultradecennali posizioni troppo controcorrente in materia di lotta all’Aids – culminate nella difesa della dichiarazione papale sulla dannosità del condom in occasione della visita in Camerun e Angola – l’antropologo della medicina (65 anni) ha deciso che non andrà in pensione, e lo fa sapere col consueto accompagnamento di frecciatine polemiche. Al Meeting di Rimini è andato a raccogliere l’applauso solidale di migliaia di partecipanti, che gli hanno espresso la loro gratitudine per aver dimostrato con argomenti di ragione e di buon senso che Benedetto XVI non è affatto un ignorante e un fanatico in materia di Aids africano, e che il pregiudizio semmai sta di casa altrove. Ma che forse hanno notato meno uno dei contenuti cardine della sua relazione: «Il modello dei programmi internazionali contro l’Aids – ha detto Green – è quello dei programmi concepiti negli anni Ottanta negli Stati Uniti: da noi i primi gruppi di popolazione colpiti sono stati gli omosessuali e gli utilizzatori di droga intravena. Gli attivisti gay hanno imposto il punto di vista che chiedere a queste persone di modificare le loro abitudini sessuali equivaleva a esprimere una condanna morale nei loro confronti. Hanno imposto la linea che bisognava combattere l’Aids senza rinunciare alla liberazione sessuale che gli omosessuali avevano appena conquistato. Così è nato e si è imposto in tutto il mondo il costosissimo modello di lotta all’Aids centrato sui condom e sugli antiretrovirali. Ma in Africa questo modello non funziona di sicuro». «I due gruppi che storicamente hanno modellato le politiche americane, poi quelle internazionali, in materia di Aids», spiega Green a Tempi, «sono stati il movimento gay e le organizzazioni del family planning. Da subito si è realizzata un’alleanza di fatto, basata sulla comunanza di interessi e di visione del mondo: entrambi erano ideologicamente liberal, entrambi antireligiosi e in particolare ostili alla Chiesa cattolica, perché la sua dottrina condanna sia l’uso degli anticoncezionali che i rapporti fra persone dello stesso sesso. Parlo con cognizione di causa, perché a quel tempo io facevo parte del secondo gruppo: ero un esperto di social marketing degli anticoncezionali, mi occupavo di strategie per diffondere la contraccezione moderna nel Terzo mondo. L’Aids era una tragedia, ma per noi rappresentava anche una grande opportunità che avrebbe facilitato il nostro lavoro: pubblicizzavamo i profilattici spiegando che risolvevano due problemi: quello delle gravidanze indesiderate e quello di una gravissima malattia a trasmissione sessuale». «Nei gay abbiamo trovato dei formidabili alleati nella causa della diffusione del condom: negli Stati Uniti il movimento assunse subito la posizione che i malati di Aids non dovevano essere stigmatizzati, che non era giusto colpevolizzare le persone per i comportamenti che li avevano portati a contrarre l’infezione. I messaggi per la prevenzione dovevano essere gay-friendly e dovevano rispettare gli stili di vita di tutti senza giudicarli. La soluzione stava in una propaganda martellante a favore dell’utilizzo continuativo e perfetto del condom, e nella messa a disposizione di aghi sterili gratuiti ai tossicodipendenti. I gay sono stati molto persuasivi coi politici e li hanno convinti ad applicare questa impostazione ai programmi pubblici finanziati dallo Stato negli Usa. I gay non avevano esperienza di programmi nel Terzo mondo, e a portare nei Caraibi, in Africa, Asia e America latina questa filosofia di lotta all’Aids ci abbiamo pensato noi che lavoravamo nel family planning, e che siamo entrati a far parte massicciamente dei programmi internazionali». «Si è compiuto così un grande paradosso: dalla California ai paesi musulmani conservatori del Nordafrica e del Medio Oriente, da New York e da Parigi ai villaggi dell’Africa nera tradizionalista, si applica un unico modello di prevenzione dell’Hiv, derivato dall’ideologia della liberazione sessuale per cui si sono battuti i liberal americani. È una vera assurdità antropologica, e infatti in Africa non ha funzionato. Gli unici paesi in cui si segnala una flessione dei tassi di sieropositività sono quelli dove la gente ha ridotto il numero dei partner sessuali e ha praticato la fedeltà di coppia. Queste cose io le ho scoperte sul campo già all’inizio degli anni Novanta e ho cercato di comunicarle a tutti gli attori interessati, ma ho fatto molta fatica a trovare orecchie disposte ad ascoltarmi. I miei primi articoli, scientificamente ineccepibili, sono stati respinti da riviste importanti come Social Science and Medicine e Medical Anthropology. Io mi limitavo ad analizzare separatamente gli interventi condom-based e quelli non condom-based, ma già solo questo linguaggio li mandava in bestia: “È un’utopia, la verità è che tu odi i condom e hai in testa un’agenda religiosa”, mi dicevano. Ma io non sono cristiano e non appartengo ad alcuna chiesa!». «La verità amico, era ed è anche oggi un’altra: la lotta all’Aids è un’industria multimiliardaria che sarebbe messa in pericolo da una strategia così semplice come quella che dice “non avere tanti partner, sii fedele alla tua compagna, astieniti”. Piuttosto che puntare all’eliminazione del rischio con una strategia che costerebbe molto poco e che molto poco è costata laddove, come in Uganda, è stata applicata, ci si limita alla riduzione del rischio spendendo miliardi di dollari in condom e antiretrovirali sempre più potenti a causa dei ceppi resistenti di Aids che sorgono. Ma è un business che resta molto popolare, perché è agganciato all’idea di “liberazione sessuale”». (Rodolfo Casadei, Tempi, 3 settembre 2009)
La trasmissione dei testi patristici latini: problemi e prospettive
Se sfogliamo quell'autentica bibbia del filologo che è la Storia della tradizione e critica del testo di Giorgio Pasquali (Firenze, 1934), avvertiamo subito come, tra tanti autori dell'antichità classica, vi siano presi in considerazione anche antichi testi cristiani, dal Nuovo Testamento alla Storia della Chiesa di Eusebio, dalle lettere di Gregorio di Nissa alle poesie di Prudenzio; e se vogliamo additare un editore di testi patristici eccezionalmente benemerito per qualità e quantità di lavoro, il pensiero corre subito a Eduard Schwartz, a un filologo classico. La cosa non sorprende, perché gli ambiti delle lettere classiche e cristiane, ben specificati uno rispetto all'altro in virtù dei contenuti, non lo sono invece per quanto attiene all'allestimento di edizioni criticamente valide: in effetti furono gli stessi tramiti che assicurarono, lungo i secoli del medioevo, la sopravvivenza dei testi sia pagani sia cristiani, e gli stessi monaci che trascrivevano Ambrogio e Agostino, dedicavano le loro cure, pur se più occasionalmente, a Cicerone e Virgilio. D'altra parte, gli antichi testi cristiani, quelli che oggi definiamo patristici, presentano alcuni caratteri che, pur non essendo loro specifici in senso stretto, di fatto si riscontrano mediamente con maggiore frequenza nelle loro pagine che non in quelle dei testi classici, e perciò possono essere assunti come oggetto della nostra attenzione. A mo' d'introduzione basterà accennare che di nessuno scrittore antico si dispone di autografi, non solo a causa del distacco cronologico ma anche perché lo scrittore antico di norma non scriveva direttamente ma dettava a tachigrafi, i quali mettevano per iscritto l'opera, che poi i copisti passavano in bella copia. Disponiamo perciò di trascrizioni, che col passare del tempo si succedevano l'una all'altra, nel senso che quella data copia dell'opera, mettiamo di Tertulliano o Agostino, veniva successivamente trascritta per diventare a sua volta la copia (antigrafo) di cui si facevano altre trascrizioni (apografi), prima su papiro e poi su pergamena, e così di seguito, sì che gradualmente il processo di trascrizione si allargava a raggiera attraverso i secoli dell'età di mezzo e dell'umanesimo, finché la scoperta della stampa ha modificato radicalmente il procedimento di trasmissione e diffusione dei libri. A migliaia sono giunti a noi i codici pergamenacei contenenti scritti degli antichi autori cristiani, ma sono sempre un'esigua minoranza rispetto a quante copie di una data opera sono state fatte col passare dei secoli e in gran parte sono andate perdute per motivi vari. Definiamo tradizione manoscritta di una data opera il complesso dei codici di essa che sono giunti a noi. L'entità dei manoscritti superstiti può variare, anche di moltissimo, da un'opera all'altra, da uno scrittore all'altro. È ovvio che è maggiore l'entità della tradizione manoscritta delle opere di scrittori importanti, ma neanche in questo caso bisogna generalizzare: perfino di Agostino qualche scritto è addirittura scomparso. Comunque, in complesso, di scrittori come Ambrogio, Girolamo, Agostino sono giunti a noi molti, a volte moltissimi manoscritti delle loro opere; invece di altri scrittori, tutt'altro che disdicevoli, alcuni scritti sono conosciuti grazie a un solo testimone, talvolta addirittura soltanto da antiche edizioni a stampa, in quanto il o i manoscritti di cui quei primi stampatori si sono serviti sono successivamente scomparsi per accidenti vari. In casi di tal genere il compito del moderno editore è relativamente agevole, pur se necessariamente denso d'interrogativi, e così anche quando i manoscritti superstiti sono pochi: ben diverso il caso quando i manoscritti sono molti, addirittura moltissimi. In effetti soltanto la collazione di tutti i testimoni mette l'editore in grado di apprezzare in modo esauriente il loro valore e di stabilire sulla base degli errori comuni i rapporti che intercorrono tra loro e perciò, in caso di lezioni diverse attestate per le stesse parole, scegliere quelle che egli ritiene originali - è il cosiddetto metodo di Lachmann. Per altro, quando i manoscritti sono molti, il lavoro di collazione diventa troppo faticoso per un solo studioso, a volte impossibile da realizzare: si pensi alle centinaia di codici che ci hanno tramandato le Confessiones o le Enarrationes in Psalmos di Agostino. In casi di questo genere o si fa una cernita preliminare di alcuni testimoni da privilegiare rispetto ad altri ovvero si ricorre a un lavoro di équipe: ma nel primo caso sono evidenti i limiti dell'iniziativa, mentre nel secondo si devono fare i conti con la difficoltà sia di mettere insieme un'équipe di studiosi validi sia di riuscire a farli operare in modo soddisfacentemente omogeneo. Dopo questi cenni necessariamente generici di carattere preliminare, entriamo più direttamente in rem, precisando che ci occuperemo di problemi: inerenti alla composizione stessa dell'opera; connessi con l'esistenza, o meno, del cosiddetto archetipo; proposti da testi scritti in lingua che, per comodità, definiamo grammaticalmente "irregolare"; derivati dalla citazione di un'opera, nella fattispecie biblica, nel contesto di un'altra. Oggi la pubblicazione di un libro implica tre operazioni ben distinte una dall'altra: l'autore scrive l'opera, il tipografo la stampa, l'editore la diffonde. Nel mondo antico il medesimo procedimento si aveva con opere che venivano trascritte in buon numero di copie nelle officine librarie e messe in vendita nelle librerie: era il caso soprattutto dei libri scolastici e delle opere di scrittori importanti, in prosa o in versi. Ma raramente il libro di contenuto cristiano veniva pubblicato in questo modo, e per lo più veniva trascritto e diffuso privatamente: ne risultava che la seconda e la terza operazione venivano in sostanza a coincidere, in quanto l'autore o chi per lui, che aveva fatto trascrivere e diffuso inizialmente solo pochi esemplari di una data opera, se richiesto, la faceva ulteriormente trascrivere e recapitare al richiedente. Ma in casi particolari poteva darsi che anche la composizione dell'opera interferisse con la sua diffusione, nel senso che l'opera alla quale quel dato autore attendeva era conosciuta, in ambienti a lui molto vicini, a mano a mano che veniva composta, e poteva darsi il caso che critiche e suggerimenti provocati da questa parziale e continuata conoscenza inducessero l'autore a soppressioni, modifiche, aggiunte: è il caso di uno scritto importantissimo quale il De principiis di Origene, la cui struttura, per vari rispetti anomala, si spiega appunto come esito di ripensamenti e modifiche apportati dall'autore in itinere. Oggi lo studioso è in grado di ricostruire il complesso procedimento di composizione e diffusione di questa opera soltanto a grandi linee, mentre resta incerta la definizione di tanti dettagli: ed è evidente, invece, che ai fini di una corretta edizione critica sarebbe importante che l'editore fosse meglio a conoscenza di tali dettagli. Un caso diverso si ha quando un autore, dopo aver completato e diffuso un suo scritto, vi ritorna sopra con aggiunte e/o modifiche. È il caso, per fare soltanto due esempi ben diversi uno dall'altro, della Storia della Chiesa - che Eusebio di Cesarea integrò più volte per aggiungere, di volta in volta, nuove notizie pertinenti ai fondamentali avvenimenti che di giorno in giorno modificavano, tra la fine del III secolo e gl'inizi del IV, il quadro del rapporto tra Chiesa e impero - e del De fide di Gregorio di Elvira, dettato nel contesto delle vicende della controversia ariana negli anni 357-360, e ripreso qualche tempo dopo dall'autore al fine di replicare a critiche che gli erano state mosse. In entrambi i casi siamo in grado di accertare come sono andate nel complesso le cose, per l'eccezionale competenza dell'editore Schwartz, nel caso di Eusebio, e nel caso di Gregorio perché per vie diverse e sotto nomi differenti ci sono state tramandate entrambe le redazioni. Ma in altri casi è tutt'altro che agevole accertare se effettivamente quel dato autore abbia rivisto in secondo tempo la sua opera: in anni ormai abbastanza lontani si è discusso non poco di seconda redazione d'autore a proposito dell'Apologeticum di Tertulliano senza per altro nulla concludere di concreto. È ovvio che in casi di questo genere l'incertezza non può non riflettersi anche sull'allestimento dell'edizione critica. Un caso ancora diverso è quello di scritti di contenuto canonistico (liturgico e/o disciplinare). Opere di questo genere per loro natura non sono originali, nel senso che i loro autori, o meglio redattori, raccolgono e dispongono con un certo ordine materiale già in uso nelle loro comunità. Come tali, queste opere sono destinate ad accrescersi continuamente per l'aggiunta di altro materiale e anche a essere travasate da un'opera a un'altra per lo più di maggiori dimensioni. È evidente quanto questo stato di cose complichi il lavoro dell'editore, per lo più alle prese con manoscritti notevolmente diversi tra loro per la mancanza di omogeneità di questo materiale variamente collettaneo. Per averne un'idea basta scorrere tanti scritti della sterminata bibliografia relativa alla Didachè, con svariate, quasi tutte infondate, proposte di espunzione a spese del testo del principale testimone, un manoscritto conservato ora a Gerusalemme, il solo che ci abbia tramandato direttamente l'opera originale con l'omissione soltanto di poche righe finali. Di norma, tra un testo classico e i codici più antichi che ce lo hanno tramandato si frappone un intervallo temporale di molti secoli, e spesso i codici che ci hanno trasmesso questo testo sono pochi, a volte pochissimi. Invece per i testi patristici l'intervallo temporale è di media molto più ristretto, a volte ristrettissimo: per fare qualche esempio, del De Trinitate d'Ilario di Poitiers, dettato intorno al 360, ci sono giunti ben cinque manoscritti del V-VI secolo, e anche delle Historiae di Orosio, che risalgono ai primi decenni del V secolo, abbiamo un testimone della fine del VI. Abbiamo inoltre già rilevato come i testimoni che ci hanno trasmesso gli scritti patristici siano mediamente molto più numerosi rispetto a quelli che ci fanno conoscere i testi classici. Proprio la consapevolezza di queste differenze dovrebbe rendere cauto l'editore di testi patristici nell'applicazione di certi criteri ecdotici che pure sono del tutto usuali nella valutazione critica della tradizione manoscritta dei testi classici. Mi riferisco innanzi tutto all'identificazione del cosiddetto archetipo, intendendo con questo termine l'esemplare non giunto a noi, intermedio tra la prima edizione di una data opera e i codici che ce l'hanno trasmessa e che derivano tutti da questo esemplare perduto. Ricordo, come esempio kat'exochèn, che i due principali testimoni del poema di Lucrezio, due manoscritti di Leida, del IX secolo, denominati Oblongus e Quadratus, concordano tra loro in tante corruttele di varia entità da convincere Lachmann della loro derivazione da uno stesso esemplare, che egli assegnava al IV-V secolo. Rileviamo a tal proposito l'intervallo di tempo intercorrente tra l'epoca di composizione dell'opera e quella della trascrizione dei due manoscritti, quasi mille anni, e l'esiguità di questa tradizione manoscritta. Casi di questo genere, ben attestati nell'ambito dei testi classici, ovviamente non mancano nell'ambito dei testi patristici: io stesso svariati anni fa dimostrai che, tranne uno, tutti i codici posteriori all'XI secolo che ci hanno tramandato l'Apologia di Rufino di Aquileia, dettata sul finire del IV secolo, discendono da un unico esemplare, con ogni probabilità rimontante al IX secolo. È naturale perciò che il filologo aduso ad applicare all'edizione dei testi cristiani criteri di valutazione usuali in ambito classico sia portato a generalizzare l'esistenza dell'archetipo intermedio anche in età patristica, dove invece, per i motivi che ho sopra accennato, occorre valutare con maggiore cautela. Mi limito a un esempio. Le Confessiones di Agostino, composte verso la fine del IV secolo, ci sono state tramandate da numerosissimi manoscritti, svariate centinaia. La selezione di quelli utilizzati per le tre edizioni critiche che sono state pubblicate tra il 1896 e il 1991 è stata ristretta a una dozzina di testimoni, quasi tutti del IX secolo. Anteriore a questa data si ha soltanto il Sessoriano 55, che risale al VI secolo, così come l'antologia di passi di quest'opera allestita da Eugippio. Knöll, al quale dobbiamo la prima edizione critica dell'opera per il "Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum" (volume 33; 1896), collazionando i manoscritti da lui selezionati constatò che tutti si accordano in alcuni errori, non più di tre o quattro indiscutibili, e su questa base postulò l'esistenza di un archetipo intermedio tra l'edizione agostiniana dell'opera e gli innumerevoli manoscritti che ce l'hanno tramandata. La sua ipotesi fu accettata dai successivi editori, Skutella (1934) e Verheijen ("Corpus Christianorum. Series Latina", 27; 1991). Mi chiedo se questa ipotesi possa essere considerata valida: il numero degli errori è esiguo, tanto più se rapportato alla lunghezza dell'opera, in tredici libri; tra l'epoca della sua composizione e la datazione del Sessoriano intercorrono non più di due secoli; l'entità della tradizione manoscritta è stragrande, e dobbiamo anche considerare che, secondo l'attestazione proprio di Agostino, le Confessiones erano la sua opera più popolare, il che significa che la sua conoscenza si era diffusa rapidamente in Africa, Italia, Gallia e altrove. Considero molto difficile che varie centinaia di manoscritti, dispersi in diverse regioni d'Europa, possano essere derivati tutti, direttamente o indirettamente, da un unico esemplare trascritto dopo la fine del IV secolo e prima del VI. Preferisco perciò ipotizzare che i pochi errori comuni a tutti i manoscritti finora utilizzati per l'edizione critica fossero già presenti nell'esemplare dal quale Agostino a suo tempo aveva fatto trascrivere le prime copie di questa sua fortunata opera. In effetti il filologo classico, aduso a trattare con testimoni tanto lontani dall'epoca di composizione delle opere che tramandano, necessariamente è portato a dare poco peso all'eventualità di errori già contenuti nella prima edizione di tali opere; ma, come ho rilevato, in ambito patristico le cose stanno diversamente e impongono di prendere in considerazione questa eventualità, tanto più se teniamo conto della complessità del procedimento editoriale e anche della disattenzione, oltre che dell'ignoranza, di tanti copisti. Basti scorrere il testo del De doctrina Christiana di Agostino trascritto, per i primi due libri, nel codice Petropolitano, addirittura coevo dell'opera e forse uscito proprio dallo scrittorio d'Ippona, eppure tanto ricco di sviste d'ogni genere. Per concludere su questo punto, in casi di opere tramandate da manoscritti cronologicamente non molto distanti dall'epoca di composizione, si può ammettere la derivazione di tutti gli attuali testimoni da un archetipo intermedio solo in presenza di un numero notevole di errori significativi o comunque anche di una sola corruttela ma veramente indicativa (per esempio, la presenza di una vasta lacuna in tutti i testimoni, che stia a indicare caduta di uno o più fogli nell'archetipo). In presenza di un numero esiguo di errori non così significativi è preferibile ipotizzare la loro presenza già nella prima edizione dell'opera. Il chiarimento non ha soltanto valore teorico: se infatti un editore è convinto di trovarsi di fronte a una tradizione chiusa, la tendenza a correggere il testo tradito ne risulta senz'altro incoraggiata. Per tornare alle Confessiones, se Verheijen non fosse stato convinto della derivazione di tutta la tradizione manoscritta da lui utilizzata da un unico archetipo intermedio, non sarebbe stato tanto corrivo a correggere il testo tramandato concordemente da tutti i manoscritti anche là dove non se avverte la necessità. (Manlio Simonetti ©L'Osservatore Romano, 2 novembre 2009)
Finestre sul passato per ritrovare il presente: l’epigrafia
La storia è "grande" solo perché si compone di tante storie "piccole", e la conoscenza che dell'una e delle altre possediamo è legata a quella rete di relazioni che il tempo è pronto a disfare, a meno che qualcuno - a esempio un contadino o un epigrafista - non faccia opposizione ricordando tutto, caparbiamente. Fra le maglie di questa rete c'è, dunque, anche l'epigrafia: una disciplina che studia le iscrizioni da vari punti di vista. L'archeologico-topografico guarda alla classe del manufatto, alla sua funzione, allo stato di conservazione, al contesto originario di appartenenza, alle manipolazioni subite; l'artistico esamina le figure abbinate all'iscrizione in un rapporto di mutuo completamento narrativo; il linguistico traccia il profilo dei committenti e degli scriventi; il grafico investiga materie e modalità scrittorie, tecniche, esiti formali: alla ricercatezza della scrittura "capitale" su marmo, geometricamente solenne, si contrappongono il gusto anarchico e la secchezza che agitano il corsivo della vita quotidiana, per non parlare delle molli sinuosità partorite dal pennello degli scriptores pompeiani, annuncianti spettacoli gladiatorii, come Aemilius Celer che "scrisse da solo al lume della Luna"; lo storico-antiquario impiega i dati del testo per ricostruire il panorama di un'epoca; il collezionistico-museografico e umanistico non solo indaga l'apporto che gli studiosi europei dal XV secolo hanno recato, trascrivendo e commentando iscrizioni, ma ricostruisce le raccolte private e pubbliche e i passaggi di proprietà, puntando, con un percorso inverso, alla provenienza archeologica; lo storico-culturale accerta il ruolo che nel mondo moderno taluni documenti antichi hanno avuto in relazione al clima politico dell'epoca; infine il bibliografico-archivistico impiega e ordina la produzione manoscritta e a stampa in relazione alla storia degli studi. L'epigrafia è dunque un universo vario, denso di sfide, provocazioni, curiosità: pone davanti i suoi rigidi formalismi, i suoi sottintesi, le sue sintesi, le sue lacune defatiganti, gli enigmi, le abbreviature irrisolvibili, le ambiguità lessicali, gli inganni delle falsificazioni. Mette spesso in imbarazzo proponendo argomenti sconosciuti, costringendo a ricominciare daccapo. Il più delle volte non è lo studioso a scegliere di cosa occuparsi, ma è l'epigrafe che, offrendosi casualmente, condiziona il percorso di approfondimento, seducendo la fantasia. Se si è fortunati si lavora sugli originali ancora in situ, ma quasi sempre si trovano fuori contesto, nei luoghi più diversi. Spesso l'originale è perduto, sicché si deve ricostruirne le vicende e verificare l'esattezza del testo confrontando le trascrizioni note. Negli anni della rivoluzione francese, dell'impero napoleonico, dei sofferti papati di Pio VI (1775-1799) e Pio VII (1800-1823), Gaetano Marini (1742-1815), prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana dal 1798, fra le tante imprese compiute, che attendono ancora un narratore (l'ha rilevato Marco Buonocore nel 2004), trovò il tempo di salvare alcune migliaia di antiche "piccole" storie, facendone murare il pietrificato ricordo nella Galleria Lapidaria dei Musei Vaticani, nota come Ambulacrum Iulianum (da Papa Giulio ii) o come "corridore bramantesco" dall'architetto che la costruì. Salvare la storia, mentre se ne viene travolti, è impresa coraggiosa, esemplare, generosa, lungimirante, benefica e, a suo modo, anche poetica. In quelle lapidi divise per argomenti Marini ci si specchiava come degno rappresentante di una posterità non immemore; per lui ogni epigrafe era la finestra di un passato da ricomporre per ritrovarvi il senso del presente coi suoi traguardi e i suoi orrori. Marini ci ha consegnato il frutto del proprio lavoro e regalato l'opportunità di compiere gli stessi viaggi che egli fece tante volte quanti furono i testi decifrati, letti, analizzati, contestualizzati, spiegati, datati. La sfida di allora era e rimane quella di ricostituire i legami che il tempo ha sciolto, magari partendo dalla storia di un marinaio della flotta di Capo Miseno, originario della provincia Aegyptus, passando per un ex voto, sino a scendere nel quotidiano, col tempo dedicato al lavoro, con una sosta alla trattoria del "cuoco sobrio" o nelle terme private di Aurelia Faustiniana, la cui insegna vantava in Ficulea servizi ed efficienza paragonabili a quelli offerti nell'Urbe. L'epigrafia delle carriere può stupire, giovando alla ricostruzione della mappa dei poteri distribuiti nel tempo e nei luoghi, svelando la complessa struttura della macchina imperiale e il profilo della sua classe dirigente, che fu caparbiamente conservatrice nella forma e pragmaticamente innovatrice nella sostanza (vedi la storia del diritto romano). La "scrittura esposta" mostra ancora oggi, come nell'antichità, la metamorfosi della lingua, del formulario, dei contenuti, passa da un'avara età repubblicana al ricco alto impero (I-II secolo) e poi, attraverso un periodo di crisi che culmina con l'editto dioclezianeo sui prezzi (III), al basso impero (IV-VI), con un'epigrafia anarchica e povera di informazioni (nel 1997 fu dedicata una mostra a Le iscrizioni dei cristiani in Vaticano). Il profilo appena tracciato contiene tutti gli elementi che sono alla base di quella passione di ricerca nota come "mal d'epigrafia": chi la volesse contrarre dovrà - studio a parte - trovare dentro di sé il giusto equilibrio tra fantasia e realismo, tra impulso all'azzardo e autocontrollo critico, fra desiderio di certezza e necessità di approssimazione. Schiere di "ammaliati" ci tengono buona compagnia, anche se ad alcuni, come a Gaetano Marini, è andata via la voce. (Ivan Di Stefano Manzella, ©L'Osservatore Romano, 2 novembre 2009)
La formazione dei formatori nei seminari è la vera urgenza dei nostri tempi. In questo sforzo educativo va riconosciuto un ruolo preminente all'esperienza ecclesiale nel cammino vocazionale. Questo implica il coinvolgimento anche dei laici nella valutazione dei candidati al sacerdozio. Lo sostiene monsignor Giovanni Tani, rettore del Pontificio Seminario Romano maggiore, nell'intervista rilasciata al nostro giornale in occasione dell'Anno sacerdotale. L'Anno sacerdotale può diventare un'occasione per rivedere i metodi formativi applicati nei seminari? Credo che i metodi formativi siano costantemente verificati. In questi anni si avverte una forte attenzione, fuori e dentro i seminari, sulla formazione al sacerdozio. L'Anno sacerdotale è certamente una buona occasione per riprendere e approfondire la dottrina sul sacerdozio. Il Papa ha detto che questo anno deve "Aiutare innanzitutto i sacerdoti, e con essi l'intero Popolo di Dio, a riscoprire e rinvigorire la coscienza dello straordinario ed indispensabile dono di grazia che il ministero ordinato rappresenta per chi lo ha ricevuto, per la Chiesa intera e per il mondo, che senza la presenza reale di Cristo sarebbe perduto". Nel nostro seminario, e penso che accada in tutti i seminari, i programmi di quest'anno, a partire dagli esercizi spirituali e dai ritiri mensili, hanno come contenuto la riflessione sul sacerdozio di Cristo, sul sacerdozio comune di tutti i fedeli e sul sacerdozio ministeriale ordinato. Non escludo che da tutto il lavoro di questo anno possa scaturire qualche idea riguardo ai percorsi e ai metodi formativi. Il Pontificio Seminario Romano è una realtà aperta all'universalità, in quanto accoglie giovani da ogni parte del mondo: come influisce ciò sulla formazione? Alcuni vescovi italiani e di altre nazioni mandano i loro alunni al Seminario Romano maggiore, perché ricevano qui la formazione al sacerdozio. Il Seminario Romano fin dalla sua fondazione accoglie alunni da diverse diocesi, dove essi, dopo la formazione, ritornano per svolgervi il ministero. Questa convivenza di alunni romani e non romani è un notevole arricchimento per la nostra comunità; i candidati al sacerdozio mettono insieme e confrontano le varie esperienze, le diverse sensibilità culturali, spirituali ed ecclesiali, creando comunione e completando il loro vissuto particolare che così è valorizzato e, al contempo, relativizzato. Si ha così uno spaccato significativo della universalità della Chiesa. Le varie provenienze si ritrovano immediatamente nella comunione ecclesiale, soprattutto nella celebrazione dell'Eucaristia, nella preghiera, nella venerazione a Maria santissima e nell'obbedienza al Papa. Il Pontificio Seminario Romano è il seminario della diocesi del Papa: che cosa comporta in termini di impegno rispetto agli altri? L'impegno in seminario è risposta alla chiamata di Dio, e questo è vero, indifferentemente, per tutti i seminari. Essere il seminario della diocesi del Papa è un motivo in più per impegnarsi e, quindi, una responsabilità in più. Certo, è anche un dono, che si evidenzia ad esempio nel fatto che il Papa visita la nostra comunità tutti gli anni: una cosa che ci fa onore e che ci espone anche come il "Seminario del Papa". Se poi qualcosa nella nostra vita non risulta ben fatto è facile che si dica: "E questo è il seminario del Papa!". Per noi è abbastanza naturale pensare al Papa come ultimo riferimento della nostra realtà di Seminario. Comunque il Papa affida al cardinale vicario per la diocesi di Roma il compito di seguire la nostra vita e di darci le linee principali del progetto formativo. Ritiene necessario un cambiamento dei criteri di valutazione dei seminaristi? In questi ultimi decenni, a partire dal concilio vaticano II, si sono precisati molti criteri di valutazione. Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis ha indicato le quattro aree della formazione: umana, intellettuale, spirituale, pastorale. L'area umana è stata molto studiata, anche con l'apporto della psicologia e delle altre scienze umane. Non vedo necessari cambiamenti dei criteri di valutazione: è necessario chiarirli bene e saperli applicare nei singoli casi. Forse va accentuata la dimensione ecclesiale del cammino vocazionale attraverso un'autentica esperienza di Chiesa in cui anche i laici possano dare il loro contributo alla formazione e alla valutazione dei futuri sacerdoti. Va anche capito se questi giovani hanno fatto un vero incontro con Cristo, tale da giustificare una scelta come quella per il sacerdozio. Ciò che vedo come molto importante è che si realizzi una vera attenzione alla singola persona, in un dialogo costante che sappia illuminare, motivare e anche correggere, in una atmosfera di cordialità e di fiducia. Se un seminarista sa mettersi in una situazione del genere, mostra di avere la disposizione fondamentale per una formazione. Certo sono necessari formatori all'altezza del compito educativo: ritengo che la formazione dei formatori sia uno dei capitoli più urgenti dei seminari, perché anche nei seminari si vive un'"emergenza educativa": i nostri giovani spesso sono segnati dal soggettivismo, che rende difficile la docilità e la docibilità. Considera il seminario un'istituzione al passo con i tempi o potrebbero essere possibili altre strutture o modalità per la formazione dei candidati al sacerdozio? Credo che si possa dire che la formazione al sacerdozio ha una struttura che non si può cambiare ed è la formazione comunitaria, anche perché deve portare a saper vivere in quella "fraternità sacramentale" che è il presbiterio. Il modello cui si fa riferimento è la comunità dei dodici apostoli costituita da Gesù: "Ne costituì Dodici - che chiamò apostoli - perché stessero con lui e per mandarli a predicare". Questo è il nucleo della formazione al sacerdozio: attorno a esso si possono trovare delle varianti che corrispondano di più ai tempi e ai luoghi. Ma al momento non vedo alternative valide allo schema di seminario indicato dal concilio vaticano II. È possibile presentare alle nuove generazioni l'esempio di santità sacerdotale di san Giovanni Maria Vianney senza cadere nella semplice devozione? Abbiamo accolto molto volentieri l'indicazione del Papa a guardare al curato d'Ars come modello del sacerdote. È vero che la sua vita si è svolta in un contesto culturale molto diverso dal nostro, ma la sua santità mette in luce i valori fondamentali della vita sacerdotale (la preghiera, la dedizione completa, la predicazione semplice ed efficace, la confessione e la direzione spirituale, l'attenzione anche ai bisogni materiali delle persone) e questi colpiscono i seminaristi in modo forte. Lo scorso anno siamo andati ad Ars con gli ordinandi diaconi per gli esercizi spirituali in preparazione all'ordinazione: sono stati giorni molto belli e intensi. La figura del santo ha favorito in tutti, sacerdoti e seminaristi, un autentico momento spirituale. Quest'anno la nostra comunità sarà accompagnata da una icona con il volto di san Giovanni Maria Vianney e da una sua frase: "Il sacerdozio è l'amore del Cuore di Gesù". Secondo lei i recenti scandali che hanno colpito alcuni sacerdoti rilanciati dai mass media hanno influito negativamente sui giovani che vogliono diventare preti? Come ricostruire nell'opinione pubblica l'immagine autentica del presbitero? Certamente quei fatti continuano a colpire e a far riflettere. Rendono più pensoso e attento il discernimento vocazionale. I giovani lo sanno, ma quando scelgono di entrare in seminario prevale in loro la luce e la bellezza della chiamata; sono a volte gli altri, parenti e conoscenti, a volerli contrastare dicendo che "i preti sono tutti così". A me sembra che l'opinione della gente che frequenta le parrocchie e le comunità, sia nella stragrande maggioranza molto positiva nei confronti dei loro sacerdoti. Per ricostruire l'immagine del prete nell'opinione pubblica non vedo altra strada che far conoscere figure valide di sacerdoti. A noi sacerdoti il compito e la responsabilità di condurre una vita coerente con la nostra vocazione. (Nicola Gori, ©L'Osservatore Romano, 2 novembre 2009)
L'amicizia tra preti segno della vittoria di Cristo
L'importanza decisiva dell'amicizia nella vita dell'uomo d'ogni tempo può essere colta anche dal fatto che i più grandi scrittori e filosofi dell'umanità hanno spesso parlato d'amicizia e hanno visto nell'amicizia un tema fondamentale per la comprensione dell'uomo: qualcosa che entra nella definizione stessa della vita. Voglio citare qui fra tutti solo Aristotele e Cicerone. Il primo, nell'Etica Nicomachea, ai libri ottavo e nono, parlando dell'amicizia, sostiene che "non c'è nulla di più necessario alla vita e che senza di essa ogni bene non è bene". E il grande oratore romano, nel suo dialogo Lelius de amicitia, al capitolo sesto, scrive: "Non so se, al di fuori della sapienza, non ci sia nient'altro di meglio per l'uomo, dono degli dei immortali alla sua vita, dell'amicizia". Dunque, l'amicizia è vista da questi grandi dell'antichità precristiana come un bene necessario, dono di Dio. Essa è anche considerata come fonte di felicità: sempre nel Lelius, al capitolo ventisettesimo, Cicerone dice che se si tolgono dalla vita la carità e la benevolenza - che come vedremo sono per lui le caratteristiche dell'amicizia - viene tolta ogni possibilità di gioia. L'amicizia è dunque un aspetto dell'amore, è il vertice dell'amore. Essa innanzitutto implica una reciprocità che non è necessaria in ogni amore: si può amare una cosa, un bene, anche una persona, senza che tale amore sia necessariamente intaccato dall'assenza di reciprocità. L'amicizia invece è una virtù attiva, che implica la risposta dell'altro: l'amicizia implica l'amico. Non solo, l'amicizia implica che l'amico sia un altro se stesso - lo dicono sia Aristotele che Cicerone, quest'ultimo nel libro ventunesimo del Lelius - un altro se stesso che è amato come si ama se stessi. Con l'amico si vive una vita di concordia e di comunione. I beni della vita presente, quelli sperati nella vita futura: tutto diventa strumento per alimentare l'armonia di questa vita comune. Cicerone definisce l'amicizia consensio divinarum et humanarum rerum - che potremmo tradurre come convergenza e fruizione comune dei beni umani e divini - vissuta cum benevolentia et caritate. La parola "carità" - notiamo che con Cicerone siamo ancora al di fuori di un contesto cristiano - dice qui la gratuità che deve esserci in questo consenso, mentre la parola "benevolenza" dice il desiderio che l'unico criterio del rapporto con l'altro sia il bene dell'altro. Non si cercano vantaggi perciò nell'amicizia - dice sempre Cicerone nel libro ventisettesimo - se non quelli che fioriscono da sé nell'amicizia: la letizia che viene da una vita vissuta nella saggezza e nell'amore. Aristotele aggiunge una nota importante: l'amicizia è attiva e selettiva, essa cioè si nutre di preferenza, è un'intensità dell'amore che fa sì che la vita fra gli amici sia come una scuola della carità che si è chiamati ad avere con tutti. La novità di rapporti portata da Cristo Al vertice della sua vita, Gesù, che ha dato ampia testimonianza nella sua vita pubblica di che cosa volesse dire per lui l'amicizia, scelse alcuni con cui avere un più stretto rapporto e in mezzo ai discepoli volle gli apostoli, "perché stessero con Lui" (Marco, 3, 14) e a cui confidare tutto quanto il mistero della sua vita. Ecco dunque di nuovo le due caratteristiche dell'amicizia che già Cicerone aveva genialmente intuito, comunanza nelle cose umane e in quelle divine. Questa è la comunità apostolica, l'esempio più alto di amicizia che la storia presenti. È Gesù stesso a offrirci la chiave per guardare all'esperienza vissuta da lui con i discepoli. Egli dice: "Vi ho chiamati amici, perché ho detto a voi tutto ciò che il Padre ha detto a me" (cfr. Giovanni, 15, 15). Per comprendere che cosa sia veramente l'amicizia che Cristo ha vissuto come culmine della carità che da lui è nata, che è nata dalla sua incarnazione, dalla sua morte e resurrezione, è quindi necessario partecipare alla vita di Cristo. L'amicizia che egli ha vissuto con i suoi più intimi, l'amicizia che egli ha reso possibile fra gli uomini, nasce anche oggi dai suoi sacramenti, dal battesimo, dall'eucarestia, dalla penitenza; nasce anche oggi dal suo insegnamento e si manifesta in chi lo segue come riconoscimento del posto centrale che egli chiede d'assumere nell'esistenza di chi lo incontra. L'amicizia di Cristo vive perciò come servizio della sua persona - giustamente Agostino commenta la frase del vangelo di Giovanni citato sopra, dicendo: "Tu chiamami pure amico, io continuo a considerarmi tuo servo". Proprio per questo sono molti i pensatori cristiani che hanno dedicato all'amicizia pagine di grande profondità. Nelle loro riflessioni, le intuizioni degli antichi filosofi sono portate a chiarezza e a compimento proprio in forza della loro personale esperienza d'amicizia, vissuta in un contesto cristiano - che spesso era un monastero. San Tommaso, per esempio, riprende molti temi sia d'Aristotele che di Cicerone. Per lui, come per loro, l'amicizia è amor benevolentiae, l'amore che vuole il bene dell'altro, un amore di comunanza, di scambievolezza, un amore che consiste nel comportarsi con l'amico come con se stessi. L'amicizia si fonda su una comunanza di vita, di beni e di virtù. Essendo il vertice della carità, l'amicizia dona all'uomo l'esperienza stessa della vita divina: la Trinità non è forse l'esempio più alto e irraggiungibile di amicizia? Non a caso Aelredo di Rivaulx, un altro grande studioso medievale dell'amicizia - potremmo ricordare qui anche san Bernardo - nel suo De spirituali amicitia, al libro secondo, afferma che l'amicizia è un gradino verso l'amore e la conoscenza di Dio. In questa linea, i padri orientali - e a partire da essi una tradizione che porta fino alla teologia ortodossa di questi ultimi due secoli - hanno visto nell'amicizia l'espressione più alta dell'unione mistica fra Dio e l'uomo. Pavel Florenskij dedica una parte dell'opera La colonna e il fondamento della verità (la lettera undicesima) proprio all'amicizia e annota: "L'unità mistica di due è una condizione della conoscenza e della manifestazione dello spirito di verità che dà questa conoscenza". Egli porta alle estreme conseguenze le affermazioni di Cicerone e di Aristotele riprese da Tommaso. L'amico non è soltanto colui che tratta l'altro amico come se stesso, ma gli amici costituiscono una bi-unità, una diade: gli amici non sono più solo ciò che erano presi individualmente, ma qualcosa di più, un'anima sola. In questa unità ciascuno degli amici riceve conferma dalla propria personalità, trovando il proprio io nell'io dell'altro. Fraternità e sacerdozio Accennando ai temi della fraternità e dell'amicizia, ho voluto certo descrivere l'essenza dell'avvenimento cristiano, ma allo stesso tempo ho segnalato quella che considero una dimensione essenziale dell'umano. In altre parole, ho inteso descrivere sia la stoffa dell'essere che dell'essere entrato nella storia, cioè di Dio fatto uomo, la stoffa dell'avvenimento che lui ha inaugurato. Ora, ciò che è vero per ogni battezzato è vero per ogni vocazione che s'innesta sul battesimo. Quindi anche per il sacerdozio. Tutto ciò che nasce dal battesimo infatti partecipa della struttura di vita che esso comunica all'uomo, che è la comunione, e allo stesso tempo la esprime. Così, l'esperienza di ogni vocazione cristiana non può che essere alimentata da un'esperienza di fraternità. Non esiste nel cristianesimo una vocazione al rapporto con Dio che non sia avvenimento di comunione, non c'è la scorciatoia a Dio che passi a lato di Cristo e del suo corpo. In particolare, la parola "fraternità", essendo una parola che descrive l'essenza dell'avvenimento cristiano, non può essere disgiunta dall'essenza stessa della vita sacerdotale, anzi acquisisce una sua urgenza storica ed esistenziale proprio per i tempi in cui siamo chiamati a vivere. Il problema del nostro tempo è infatti proprio questo: la ricerca spasmodica di una scorciatoia a Dio - perché di Dio non si può fare a meno - una scorciatoia che eviti la corporeità di Cristo. Oggi nessuno può reggere di fronte agli attacchi di questa mentalità mondana se non nella misura in cui la sua affezione è guidata da un giudizio di appartenenza chiaro. È da questo giudizio che trae alimentazione e fascino la possibilità di vivere la verginità, la povertà e l'obbedienza che il sacerdote - come ogni cristiano secondo il suo stato - è chiamato ad abbracciare: se io appartengo ai miei fratelli, non appartengo più a me stesso, non appartiene più a me il mio tempo, non appartengono più a me le cose che ho, i miei soldi, le mie doti, i miei rapporti. Scoprire questo nella propria esistenza è qualcosa d'infinitamente più grande e pieno di letizia dell'appartenersi, del tenere a se stessi. Il tenere a se stessi rimpicciolisce; scoprire invece di appartenere a dei volti chiamati con me, scoprire e accettare di appartenere alla storia di Cristo nel mondo attraverso quei volti rende grandi. La grandezza della mia persona è data dalla storia di Cristo tra gli uomini, cui voglio appartenere in risposta alla sua chiamata. Penso che questa notazione, che è assieme psicologica e spirituale, descriva bene il passaggio dalla naturalità all'essere nuovo cui il battesimo chiama ognuno. Ma voglio approfondire le mie considerazioni. La condizione perché possa sorgere una personalità autenticamente cristiana è che essa riconosca l'avvenimento della compagnia in cui Cristo l'ha inserita e si lasci generare da essa. Nessuno di noi può procedere verso la verità di se stesso se non attraverso il cambiamento a cui la presenza degli altri lo sospinge. La presenza dell'altro cambia la nostra vita molto più delle piogge secolari che solcano il terreno e levigano le pietre. Questo è il valore sacramentale del fratello che mi è posto accanto. In questo senso arrivo a dire che se uno non avverte l'altro come un ostacolo, non può amarlo. Se non si è spiritualisti o superficiali, non si può non avvertire in certi momenti della vita il peso di chi ci è messo accanto nel posto dove si lavora, dato dalla differenza di percezione delle cose, dalla differenza delle storie e dei temperamenti personali... magari proprio in chi uno sente per altro verso straordinariamente vicino. È a questo punto che uno scopre il significato di presenza sacramentale dell'altro, nella misura in cui capisce che questa alterità o diversità è il segno di una Presenza che trascende l'altro e lo rende segno di qualcosa di più. Diceva Gilbert Cesbron: "Ogni grande esistenza nasce dall'incontro con un grande caso". Nella compagnia di Cristo questa grande occasione data alla nostra vita è l'altro che mi è posto a fianco, è la grandezza di Colui che mi raggiunge attraverso l'altro che mi è posto a fianco. Si noti bene: non necessariamente attraverso la santità dell'altro, magari anche attraverso la povertà dell'altro. Il crescere della persona non è un'impresa erculea, non è uno sforzo della volontà, è il frutto della provocazione continua di una compagnia vera: sufficientia nostra ex Deo, dice san Paolo (2 Corinzi, 3, 5). Gli altri, se sono desiderati, riconosciuti e perciò accolti come segno della compagnia Sua, rendono la nostra persona capace a sua volta di diventare compagnia sulla strada degli uomini che incontriamo. Degenerazioni nel vivere la compagnia Come tutte le cose umane, anche la compagnia che è segno del mistero e luogo della presenza di Cristo può essere vissuta in modo riduttivo. Laddove ciò accade è sempre il nostro criterio umano a prevalere sulla novità introdotta da Cristo nei rapporti tra gli uomini. Voglio elencare perciò schematicamente tre momenti di questo pericolo di riduzione. Una prima degenerazione possibile è quella di sentire la compagnia, l'amicizia in Cristo, come espressione di un dovere. Sarebbe un po' come dire: "Siccome siamo assieme, siccome Qualcuno ci ha messi assieme, allora "abbiamo il dovere" di vivere la nostra vita come espressione comune". La radice di questa degenerazione è la misconoscenza della vera natura della carità, avvenimento della gratuità dell'amore di Cristo per noi e della risposta a esso. In forza di questa insufficienza, un'amicizia ridotta moralisticamente a dovere ha breve storia e sfocia quasi sempre in violenza: la compagnia cristiana non si genera da se stessa, non nasce - solo - come frutto di un mio sforzo ascetico, ma è un dono, è una grazia nella sua origine e vive come memoria di tale grazia. Una seconda espressione degenerata della compagnia in Cristo è la comunità concepita e vissuta come una strategia: "l'unione fa la forza", come recita un proverbio italiano. La compagnia come strategia per meglio capire, per meglio intervenire, per più efficacemente agire - anche nella missione. Ciò può essere una tentazione sottile e pericolosa proprio perché fa leva su sentimenti di generosità e impegno che facilmente si presentano come aspetti del proprio amore a Cristo. La "malattia" di questa posizione sta ancora una volta nel fatto che essa poggia tutta sulla fiducia in se stessi e nel proprio fare. Una terza degenerazione è, infine, quella di concepire l'amicizia o la compagnia come un ricovero: come luogo accomodante, una fuga dal mondo. L'errore sta qui nel considerare la compagnia come una cosa bella, che ci fa sì felici, ma in senso naturalistico, distraendoci dalla missione che Cristo in essa e con essa ci affida. Una compagnia concepita in questo modo diventa il luogo di una somma di solitudini, dove alla lunga non si può che cercare nell'altro solo l'accondiscendenza a ciò che "sentiamo", a ciò che "ci piace". Il significato di una vera fraternità cristiana, al contrario, è che Dio non lascia solo l'uomo nella prova dell'esistenza. Questo sarebbe diabolico: la solitudine. Nella compagnia il dramma è possibile, perché è vinta la tragedia dell'uomo solo di fronte al male: è vinta, perché Uno per noi l'ha vinta. Cristo non ha chiamato i dodici solo perché stessero con lui, ma "per mandarli" (Marco, 3, 14) ad annunciare questa sua vittoria. (Massimo Camisasca, ©L'Osservatore Romano, 4 novembre 2009)
L'accoglienza risposta alla globalizzazione
Sono circa duecento milioni i migranti nel mondo; venti milioni i lavoratori migranti forzati; undici milioni i rifugiati; tra i cinque e i sei milioni gli apolidi. È un popolo in cerca di speranza quello sul quale il VI Congresso mondiale "Una risposta pastorale al fenomeno migratorio nell'era della globalizzazione", organizzato dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, intende richiamare l'attenzione. Si svolgerà in Vaticano dal 9 al 12 novembre. Lo hanno annunciato gli arcivescovi Antonio Maria Vegliò e Agostino Marchetto, e monsignor Novatus Rugambwa, , rispettivamente presidente, segretario e sotto-segretario del dicastero vaticano, nel corso della conferenza di martedì mattina 3 novembre, nella Sala Stampa della Santa Sede. Le sfide che la globalizzazione pone alla pastorale dei migranti e dei rifugiati saranno al centro delle discussioni congressuali. Con la globalizzazione, ha spiegato monsignor Vegliò, il mondo moderno persegue un grande progetto: realizzare una civiltà degna della persona umana, dove libertà, sicurezza e diritti fondamentali siano garantiti a tutti e dove sofferenza, paura e discriminazione non trovino più spazio. Proprio per fare il punto sullo stato di questo ambizioso progetto e individuare "aggiornate dinamiche pastorali", il Pontificio Consiglio ha promosso il congresso. Se da un lato la globalizzazione ha permesso di raggiungere obiettivi straordinari in ogni settore, al tempo stesso, ha prodotto anche risultati insoddisfacenti. La globalizzazione ha aperto i mercati all'intervento internazionale ma, ha sottolineato l'arcivescovo Vegliò, "non ha abbattutto le mura dei confini nazionali per una libera circolazione delle persone, pur nel rispetto della sovranità degli Stati e delle loro carte costituzionali, con salvaguardia della legalità e della sicurezza". Il fenomeno migratorio, quindi, solleva "una vera e propria questione etica". Il maggior rischio oggi, ha messo in guardia il presule, "è che l'intero dibattito sulla globalizzazione venga visto quasi esclusivamente in riferimento alla sfera economico-finanziaria, caratterizzata dalla quantità degli aiuti internazionali e dal grado di liberalizzazione del commercio". Ma, ha avvertito l'arcivescovo, "sappiamo come cristiani, che il cuore della vita è fondamentalmente spirituale e che la sfida è come promuovere e tutelare ogni persona umana, con preferenza per i più vulnerabili, come appunto, tra gli altri, sono i migranti e i rifugiati". Perché l'accoglienza sia efficace, monsignor Vegliò ha indicato come condizione indispensabile la "cooperazione fra le Chiese d'origine, di transito e di destinazione dei migranti, così come il dialogo tra Chiesa cattolica e comunità ecclesiali non in piena comunione con essa". In particolare, il presidente del Pontificio Consiglio ha ribadito che la Chiesa "è vicina ai migranti, specialmente alle vittime del traffico di esseri umani, ai rifugiati, ai richiedenti asilo e alle persone che soffrono i drammi della mobilità". L'arcivescovo Marchetto ha poi illustrato il programma del congresso, ricordando che viene celebrato a cinque anni dall'Erga migrantes caritas Christi. Successivamente, monsignor Rugambwa ha presentato le categorie di persone che parteciperanno al congresso, tra le quali, 144 delegati dalle commissioni episcopali, provenienti da ogni continente: 41 dall'America Latina, 5 dal Nord America, 23 dall'Africa, 26 dall'Asia e Oceania, 6 dal Medio Oriente e 43 dall'Europa. Saranno rappresentati poi il Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee) e il Consiglio episcopale latino-americano (Celam). Vi prenderanno parte inoltre 22 religiose di 16 congregazioni e 16 religiosi in rappresentanza di 13 istituti religiosi. Presenti inoltre 16 delegati di 15 associazioni e movimenti ecclesiali internazionali, delegati della Caritas internationalis, due rappresentanti della Commissione cattolica internazionale per le migrazioni (Icmc), e il direttore del servizio rifugiati dei gesuiti (Jrs). Hanno accolto l'invito anche 4 delegati fraterni. La messa inaugurale sarà celebrata nella basilica Vaticana dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone lunedì mattina 9 novembre. (©L'Osservatore Romano - 4 novembre 2009)
1 novembre 2009
Negli anni immediatamente successivi alla caduta del muro di Berlino, mentre l'umanità entrava in una nuova era, detta della globalizzazione, le Nazioni Unite hanno organizzato una serie di grandi conferenze internazionali con l'obiettivo di creare un nuovo consenso mondiale sulle norme, sui valori e sulle priorità della cooperazione internazionale per il XXI secolo. Nel corso di queste conferenze è stata adottata una serie di nuovi paradigmi che si esprimono con un nuovo linguaggio. Citiamo come esempi: buon governo, democrazia partecipativa, partenariati, consenso, sviluppo sostenibile, olismo, qualità della vita, educazione civica, sensibilizzazione, educazione fra pari (peer education), appropriazione, libertà di scelta, accesso universale alle scelte, diritti dei bambini, emancipazione delle donne, senza dimenticare il genere (gender) e la salute riproduttiva. Gli anni novanta hanno visto un proliferare senza precedenti di questi nuovi paradigmi. Da una decina d'anni la loro produzione è invece rallentata. Non appena terminata la serie di conferenze e non appena stabilite le norme mondiali, a livello internazionale si è dato avvio alla fase di applicazione. In questo momento è all'opera e continuerà a esserlo almeno fino al 2015, data limite per l'applicazione degli Obiettivi per lo sviluppo del millennio, all'interno di un quadro etico normativo stabilito nel corso della serie di conferenze degli anni novanta.
L'imposizione mondiale del nuovo linguaggio è
allo stesso tempo orizzontale e verticale. Orizzontale perché il nuovo
linguaggio si è già diffuso ovunque nel mondo, anche nei luoghi più
remoti. Non è più esterno alla Chiesa: molte ong, organismi di aiuto,
università, associazioni femminili cattoliche, sacerdoti e pastori,
l'hanno già adottato, a livelli diversi. Ma l'imposizione mondiale del
nuovo linguaggio è prima di tutto verticale. Questo linguaggio esprime
una nuova etica olistica (integrata) e postmoderna. Animata da una
dinamica potente, questa etica tende a trasformare silenziosamente - ma
realmente - tutte le culture dall'interno. La Chiesa resta ignorante rispetto alle sfide di questa etica: ignoranza di fronte, da un lato, ai suoi rischi - che sono mortali per la vita della fede - e, dall'altro, di fronte alle occasioni che i grandi cambiamenti culturali mondiali attuali offrono all'evangelizzazione e all'avvento della civiltà dell'amore. La nuova etica postmoderna decostruisce in effetti non solo la tradizione ebraico-cristiana, ma anche la modernità e le sue ideologie. Non è tutto o bianco o nero. S'impone quindi con urgenza uno sforzo di discernimento intellettualmente serio, che ancora non è stato fatto. L'ignoranza espone i cristiani al rischio di un amalgama tra la nuova etica e la dottrina sociale della Chiesa. È questo stesso amalgama che ha portato i cristiani occidentali al dissalamento della loro fede, in particolare dopo la rivoluzione culturale degli anni sessanta. Resta un enorme lavoro da fare per formulare la risposta che il Vangelo e la dottrina sociale danno alle sfide antropologiche e teologiche della postmodernità. Di fronte alle sfide di un'etica che, nei suoi aspetti radicali, vuole imporre alle culture la trascendenza del diritto di scelta dell'individuo al di fuori del disegno di Dio, i cristiani devono mettere nuovamente in luce la trascendenza della rivelazione divina. Il servizio più grande che la Chiesa può rendere all'umanità è infatti essere se stessa e rimanere fedele al Signore Gesù. (Marguerite A. Peeters, Osservatore Romano, 23 ottobre 2009)
Africa: Andiamo oltre i paternalismi, senza crearci alibi
Basta con i luoghi comuni infarciti di paternalismi stucchevoli che fanno dell’Africa la metafora della disgrazie umane. È davvero pungente e a tratti provocatorio il messaggio finale del Sinodo africano, a significare che non c’è tempo da perdere perché l’Africa deve cambiare e soprattutto non può abbandonarsi alla disperazione. Per carità i problemi sono reali, fanno ovviamente intendere i padri sinodali, ma è giunta l’ora di voltare pagina e questo sarà possibile solo e unicamente attraverso una decisa assunzione di responsabilità. Allora, se si vuole davvero aiutare l’Africa, il punto di partenza deve essere il rinnovamento della comunità cristiana, rifuggendo da inutili e sterili pietismi, nella certezza che occorre mettere in discussione una mentalità remissiva di fronte alle sfide imposte dalla globalizzazione. È sintomatico che a pensarla così non siano degli esperti stranieri, ma i vescovi africani che hanno preso parte all’assise sinodale. Ad esempio, il presidente della Commissione incaricata di redigere il testo, monsignor John Olorunfemi Onaiyekan, arcivescovo di Abuja (Ngeria), commentando il messaggio, ha affermato senza esitazione che non si può trovare alcuna scusante al deficit di democrazia che attanaglia il continente sostenendo che questa è una «via africana» per reggere i Paesi. Neanche piangersi addosso può aiutare a superare l’empasse, asserendo che l’Africa è stata vittima per secoli dello schiavismo o del colonialismo. D’altronde, come recita un detto anglosassone, charity begins at home, la carità comincia in casa propria. Ed è per questo motivo che il messaggio è indirizzato principalmente all’Africa in tutte le sue componenti, sia ecclesiali che sociopolitiche, perché possano modificare un sistema che determina una crescente divaricazione tra ricchi e poveri. In questa prospettiva, come si legge nel messaggio «l’Africa ha bisogno di politici santi che combattano la corruzione e lavorino al bene comune. Coloro che non sono formati alla fede, si convertano o abbandonino la scena pubblica per non danneggiare la popolazione e la credibilità della Chiesa cattolica». Molto importanti anche i riferimenti alla famiglia che le classi dirigenti debbono impegnarsi a salvaguardare, perché una nazione che penalizza questa istituzione agisce contro i propri interessi. Un richiamo questo che, lungi dal voler scadere in futili polemiche, potrebbe essere rivolto anche ai governi del Primo mondo. E ancora, proprio nella consapevolezza che l’Africa è parte integrante del villaggio globale, il messaggio è anche rivolto alla comunità internazionale, perché tratti il continente africano con rispetto e dignità, cambiando le regole del gioco economico e affrontando una volta per tutte la questione del debito estero, come anche il problema dello sfruttamento delle risorse naturali perpetrato con scaltrezza da gruppi d’interesse stranieri. Naturalmente, i temi trattati nella missiva sono davvero a 360 gradi: dal ruolo della donna, «spina dorsale» delle Chiese locali, ai giovani che rappresentano a livello continentale il 60% della popolazione con meno di 25 anni; dall’importanza del Sacramento della Riconciliazione, al rafforzamento dei legami con le antiche Chiese di Etiopia e di Egitto e tra l’Africa e gli altri continenti. Per non parlare dell’importanza che rivestono i mezzi di comunicazione sociale; della lotta contro l’Aids facendo riferimento soprattutto al valore della fedeltà coniugale e della castità; o del dialogo col mondo islamico, auspicando il pieno rispetto della libertà religiosa. Pertinente, poi, il richiamo alla necessità di sostenere i migranti e i rifugiati perché l’accoglienza è un dovere. Un impegno a cui nessun governo può sottrarsi. Toccante infine è il ringraziamento che viene formulato dai padri sinodali ai missionari. In fondo è anche merito loro se oggi in Africa c’è una Chiesa adulta. (Giulio Albanese, Avvenire, 24 Ottobre 2009)
La minaccia pornografica sui bambini: un nuovo rapporto invoca azioni urgenti
La tutela dei minori dallo sfruttamento sessuale è oggi una priorità per molti enti pubblici e privati. Secondo un recente rapporto, tuttavia, le misure che vengono concretamente adottate a fronte dei rischi per i bambini derivanti dalla pornografia di adulti sono gravemente insufficienti. Morality in Media, una società no profit con sede a New York, ha pubblicato a settembre uno studio dal titolo "How Adult Pornography Contributes To Sexual Exploitation of Children". La tesi che si sostiene è che gli enti pubblici e privati non tengono conto delle conseguenze derivanti da ciò che viene definita come un'"esplosione" della pornografia hardcore di adulti su Internet e altrove. Secondo il rapporto, la pornografia di adulti (senza la partecipazione di minori) rappresenta una minaccia per i bambini in molti modi: -- La pornografia adulta è usata per preparare le future vittime; -- Secondo molti, esiste una progressione diretta dal consumo di pornografia di adulti al consumo di pedopornografia; -- Gli adulti agiscono con i minori che si prostituiscono emulando la pornografia adulta, e gli sfruttatori della prostituzione usano la pornografia di adulti per istruire i minori che si prostituiscono; -- I bambini imitano, con i propri coetanei, i comportamenti visti nella pornografia di adulti; -- La dipendenza dalla pornografia di adulti distrugge i matrimoni, e i figli che crescono con un solo genitore hanno maggiore probabilità di essere sessualmente abusati. La preparazione Robert Peters, autore del rapporto e presidente di Morality in Media, spiega che qualche decennio fa, studiando i casi arrivati in tribunale, si era imbattuto in molteplici esempi di sfruttamento sessuale di minori in cui l'imputato adulto aveva mostrato o consegnato pornografia di adulti al minore come parte di un processo di preparazione. Gran parte del dibattito si è incentrata sulla questione se la pornografia di adulti porti a commettere crimini sessuali. Sebbene la questione relativa al nesso causale rimanga ancora controversa, Peters osserva che nella sua esperienza l'uso della pornografia adulta per stimolare e desensibilizzare i bambini è certamente un metodo utilizzato e che contribuisce a rovinarli. Si tratta di una constatazione che è ben più di un'opinione personale. Una delle appendici al rapporto contiene infatti più di 100 pagine di articoli di stampa e di casi giudiziari che si riferiscono a questo metodo di mostrare o somministrare pornografia ai bambini e di costringerli a guardarla. Il rapporto prosegue spiegando che con il passare del tempo le persone che sono dipendenti dalla pornografia hanno bisogno di materiale sessuale sempre più esplicito e deviante, esattamente come avviene per i tossicodipendenti con la droga. Nel tempo, quindi, per ottenere lo stesso effetto iniziale, si ha bisogno di aumentare le dosi dell'elemento stimolante. Peters osserva inoltre che si riscontra un aumento nella tendenza a emulare i comportamenti sessuali visionati nella pornografia. I fruitori della pornografia non sono quindi solo dei consumatori passivi, ma tendono a loro volta a mettere in pratica ciò che vedono. La minaccia mediatica Per quanto riguarda gli stessi bambini, il rapporto spiega che se uno di loro dovesse entrare in una libreria per adulti gli verrebbe detto di uscire, essendo vietato dalla legge vendere materiale pornografico ai minori. Per contro, se lo stesso bambino dovesse "cliccare" sui siti più commerciali di contenuto pornografico, potrebbe vedere gratuitamente pornografia esplicita, senza alcuna restrizione. Il rapporto osserva criticamente che per quanto riguarda Internet i tribunali ritengono che l'uso dei filtri da parte dei genitori sia una soluzione adeguata al problema. I genitori hanno certamente un ruolo fondamentale nel proteggere i propri figli dai contenuti dannosi di Internet, ammette Peters. Tuttavia, gran parte di loro può continuare ad accedere a Internet fuori casa o attraverso i terminali mobili. È sufficiente che in un gruppo di amici uno di loro abbia accesso libero a Internet perché anche tutti gli altri possano accedervi, sottolinea il rapporto. Peters afferma anche che nei suoi lunghi anni di esperienza ha potuto constatare una significativa casistica di gente che non solo usa la pornografia di adulti per stimolare e istruire le vittime minori, ma anche per stimolare sessualmente se stessi. Nelle conclusioni, il rapporto fa appello alle Chiese e alle altre organizzazioni religiose perché facciano di più per contrastare il problema della pornografia adulta. La pornografia è un problema non solo per molti di coloro che non frequentano le funzioni religiose, ma anche per molte persone di ogni età che invece le frequentano, sostiene il rapporto. Il mondo dell'informazione e dell'intrattenimento potrebbe inoltre aiutare a mostrare il fenomeno della produzione e del consumo della pornografia di adulti come un vero problema, anziché come una questione senza rilevanza morale o sociale. La famiglia L'affermazione del rapporto per cui la pornografia danneggia la famiglia e i bambini non è certamente un'opinione isolata. In Australia, il Sydney Morning Herald, in un articolo pubblicato il 5 marzo scorso, ha riferito del caso di un marito che si è scoperto essere un pornodipendente. La "catastrofiche conseguenze emotive che derivano" da questa dipendenza sono purtroppo molto comuni. Lo scorso anno, i consultori telefonici di Mensline, in Australia, hanno registrato un aumento del 34% delle chiamate da parte di uomini per i quali la pornografia costituiva un problema nel loro rapporto affettivo, ha osservato l'articolo. La possibilità di accedere alla pornografia attraverso i computer e i telefoni cellulari ha rimosso quella cosiddetta barriera all'accesso, ovvero il senso di vergogna di entrare in un sexy shop per comprare una rivista o un video. La pornografia costituisce un grave problema anche per le donne, ricorda l'articolo. "Una buona parte delle donne considera il consumo di pornografia da parte del marito come una forma di infedeltà", ha sostenuto il sociologo Michael Flood. "Persino quando il consumo è dichiarato, alcune donne lo considerano come una sorta di adulterio". Il collegamento tra l'industria multimiliardiaria della pornografia e l'appetito sessuale è diventato come il rapporto tra l'obesità e i piatti super-abbondanti, ha affermato la femminista Naomi Wolf in un articolo apparso sul quotidiano Times del 4 aprile. "L'ubiquità delle immagini sessuali, più che liberare il potere di Eros, lo diluisce", ha aggiunto. Ulteriori elementi a dimostrazione delle implicazioni che ne derivano per i bambini sono contenuti in un articolo pubblicato il 29 maggio sul quotidiano canadese Ottawa Citizen. Richard Poulin, docente di Sociologia dell'Università di Ottawa, ha partecipato ad una conferenza che si è svolta a Montreal dal titolo "Youth, Media and Sexualization". Il docente ha osservato che le aggressioni sessuali vengono commesse oggi da persone più giovani nei confronti di vittime più giovani. Inoltre, secondo un sondaggio da lui effettuato su studenti dell'Università di Ottawa, risulta che l'età media in cui si inizia a vedere immagini pornografiche è di 13 anni. Tra coloro i cui genitori tengono materiale pornografico a casa, l'età è risultata più bassa, ovvero tra i 10 e gli 11 anni. Poulin ha anche menzionato un sondaggio che mostra che un uomo su cinque tra i 22 e i 23 anni ammette di essere sessualmente attratto da ragazze tredicenni. "E non si tratta di una tendenza triviale", ha affermato. Ambiente sano Benedetto XVI ha affrontato la questione della pornografia nel suo discorso del 16 aprile rivolto ai Vescovi americani durante la sua vista dello scorso anno negli Stati Uniti. "I bambini hanno diritto di crescere con una sana comprensione della sessualità e il ruolo che le è proprio nelle relazioni umane", ha affermato. "Ad essi dovrebbero essere risparmiate le manifestazioni degradanti e la volgare manipolazione della sessualità oggi così prevalente". I bambini hanno il diritto di essere educati secondo valori morali autentici, fondati sulla dignità della persona umana, ha proseguito il Pontefice. "Che cosa significa parlare della protezione dei bimbi quando la pornografia e la violenza possono essere guardate in così tante case attraverso i mass media ampiamente disponibili oggi?", ha domandato. Per gestire questo problema, il Papa ha parlato dell'urgente necessità di valutare criticamente i valori che guidano la società di oggi. Se vogliamo davvero prenderci cura dei giovani, dobbiamo riconoscere la nostra responsabilità di promuovere e di vivere quegli autentici valori morali che soli rendono capace ogni persona di prosperare, ha concluso. Un puntuale richiamo sui pericoli derivanti da un problema che troppo spesso viene ignorato. (John Flynn, Zenit, 25 ottobre 2009)
Un dotto musulmano insegna ai cristiani come leggere le Sacre Scritture
Nella sua udienza generale di mercoledì 14 ottobre Benedetto XVI ha portato ad esempio Pietro il Venerabile, il grande abate di Cluny che nel secolo XII, per "favorire la conoscenza" dell'islam, "provvide a far tradurre il Corano". Oggi, all'inizio del secolo XXI, accade qualcosa di più. Un numero crescente di studiosi cristiani applica al Corano, per approfondirne la comprensione, i metodi di lettura già applicati alla Bibbia: fondati non solo sulla tradizione e sulla teologia, ma anche sull'analisi storico-critica e letteraria. Questi ultimi metodi hanno faticato ad essere approvati dalla Chiesa cattolica, ma da molti decenni sono divenuti di uso comune. Fanno parte di quelle "conquiste dell'illuminismo" accolte dalla Chiesa che Benedetto XVI – in un importante discorso del 22 dicembre 2006 – ha auspicato vengano accolte anche dal mondo islamico. In effetti, l'esegesi musulmana del Corano ha conosciuto nell'ultimo secolo "un'intensa attività interpretativa non inferiore a quella medievale", come ha documentato tra altri l'islamologo Massimo Campanini in un saggio pubblicato nel 2008 dalla Morcelliana col titolo: "L'esegesi musulmana del Corano nel secolo ventesimo". Ma l'esegesi musulmana contemporanea – mostra Campanini – si esplica soprattutto nell'applicare il Corano all'agire umano, ai comportamenti pratici; è eminentemente "un'ermeneutica della prassi". Per il resto, essa non innova in nulla rispetto ai metodi di esegesi tradizionali dell'islam. Uno degli studiosi cattolici che applica al Corano gli strumenti della moderna esegesi, specie letteraria, è fr. Michel Cuypers, che vive al Cairo. Il suo ultimo libro, uscito due anni fa in Francia, è di grande suggestione. È dedicato all'analisi di un capitolo del Corano: "Le festin: une lecture de la sourate al-Mâ’ida [Il banchetto: una lettura della sura al-Mâ’ida]", e reca la prefazione dell'eminente studioso musulmano Mohamed-Ali Amir-Moezzi. Di Cuypers www.chiesa ha rilanciato tempo fa un'ampia intervista e, più di recente, un articolo sul ruolo della tradizione nell'interpretazione islamica del Corano, pubblicato anche da "L'Osservatore Romano". In quest'ultimo articolo, nel descrivere gli ultimi sviluppi dell'interpretazione del Corano in campo musulmano, Cuypers ha mostrato come vi siano oggi dei "modernisti" che tendono a escludere il ricorso alla tradizione, con questa conseguenza: "Il Corano diventa dunque la sola fonte realmente normativa dell'islam. Una 'sola Scriptura' che non è priva d'influssi da parte del modello protestante (alcuni modernisti sono volentieri chiamati i 'Lutero dell'islam'). Questa liberazione dalle maglie della tradizione permette d'ipotizzare una nuova esegesi del Corano, oggi richiesta da alcuni intellettuali musulmani. Le 'occasioni della rivelazione', attinte agli hadîth, non sono più il metodo privilegiato d'esegesi, come nel passato. Un'esegesi critica è ormai possibile. "Questa posizione aperta ha tuttavia come contropartita il fatto di situare gli intellettuali musulmani modernisti ai margini della corrente generale dell'islam, che resta massicciamente legata alla sunna come norma di fede e legge, organicamente connessa al Corano. Si comprende così che le differenti concezioni dei musulmani rispetto alla tradizione sono al cuore della crisi attuale dell'islam". Ebbene, a questo passaggio dell'articolo di Cuypers reagisce con veemenza – nella nota riprodotta più sotto – uno studioso musulmano che appartiene invece a una corrente dell'islam sunnita molto ortodossa e legata alla tradizione: la corrente asharita, il cui fondatore fu il teologo Abu 'l-Hasan Al-Ashari (873-935) e il cui massimo esponente fu Abu Hamid Al-Ghazali (1058-1111), molto critico del suo contemporaneo Averroè, da lui accusato di razionalismo. L'autore della nota è Aref Ali Nayed, lo stesso che nel 2006 pubblicò una doppia replica al memorabile discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, e due anni dopo un commento polemico alla conversione dall'islam al cristianesimo di Magdi Allam, battezzato da papa Joseph Ratzinger nella notte di Pasqua del 2008. Nayed è una personalità di rilievo nel dialogo tra la Chiesa cattolica e l'islam. Nato in Libia, ha studiato filosofia della scienza ed ermeneutica negli Stati Uniti e in Canada, ha seguito corsi alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e ha tenuto lezioni al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica. È consulente all’Interfaith Program dell’università di Cambridge. Ha diretto il Royal Islamic Strategic Studies Center di Amman, in Giordania. Ha fondato quest'anno a Dubai un centro di studi islamici chiamato Kalam Reseasrch & Media. Ma, soprattutto, Nayed è uno dei 138 saggi musulmani che hanno indirizzato a Benedetto XVI nel 2007 la celebre lettera "Una Parola comune". Anzi, ne è stato il principale estensore. Ha fatto parte della delegazione di cinque rappresentanti musulmani che il 4 e 5 marzo 2008 hanno concordato col Vaticano i successivi forum interreligiosi di dialogo, al primo dei quali ha partecipato in posizione eminente. Insomma, con queste credenziali viene naturale classificare Nayed tra le personalità musulmane più impegnate ed "aperte" nel dialogo con la Chiesa di Roma. Ma a leggere i suoi interventi si ricava anche che nel suo dialogare Nayed non attenua affatto gli elementi di contrasto. Anzi, sembra quasi che li esasperi. La lezione di Ratisbona è per lui "infamous". Battezzando Magdi Allam il papa ha compiuto un atto "infelice". E così via. Anche nel replicare a Cuypers, Nayed adotta toni battaglieri. Ne elude completamente le ampie e fini argomentazioni, per appuntarsi su una sola frase. E da questa prende spunto per rovesciare sulla Chiesa cattolica, in materia di esegesi biblica, le stesse accuse di oscurantismo tipiche della polemica laicista. E, viceversa, per rivendicare all'islam la primogenitura di quei metodi storico-critici e di analisi letteraria divenuti poi appannaggio dell'esegesi ebraica, protestante, illuminista e infine cattolica. La lettura di questo testo inviato da Nayed a www.chiesa è istruttiva, perché fotografa il reale livello a cui si trova oggi il dialogo intellettuale tra la Chiesa cattolica e l'islam. Gli abbracci e le dichiarazioni di pace che si producono in tante cerimonie interreligiose non devono illudere. Nayed è persona coltissima ed amabile. Così come lo è Cuypers, piccolo fratello di Gesù. Ma tra i due mondi culturali c'è un abisso. (Sandro Magister, www.chiesa, 23 ottobre 2009)
Un Convegno sul Motu proprio Summorum Pontificum
Dal 16 al 18 ottobre 2009, sotto il titolo di Un grande dono per tutta la Chiesa, si è celebrato a Roma, a pochi passi dal Vaticano, l’attesissimo “II Convegno sul Motu proprio Summorum Pontificum di S.S. Benedetto XVI”. La riuscita di questo importante avvenimento è innegabile, ed è stata suggellata da un saluto del Santo Padre ai convegnisti. Organizzato dall’associazione Amicizia Sacerdotale Summorum Pontificum e dal gruppo laicale Giovani e Tradizione, il Convegno è stato presieduto, diretto e portato a buon fine dall’animatore e fondatore dei due menzionati organismi: il teologo domenicano padre Vincenzo Nuara. Preceduto da un ritiro per sacerdoti tenutosi venerdì 16, il 17 ottobre si è aperto il Convegno vero e proprio. La grande presenza di giovani sacerdoti e seminaristi, religiosi e religiose, molti dei quali neppure trentenni, è stata un segno eloquente di quanto gli attuali “segni dei tempi” vadano nel senso di un ritorno alle radici della fede, della dottrina e della spiritualità cristiana. Dopo la Santa Messa nella forma straordinaria, celebrata da mons. Atanasio Schneider, padre Nuara ha fatto una notevole introduzione ai lavori, in cui ha ricordato come dalla promulgazione del Motu proprio la vita di molti dei presenti è cambiata. Lamentando una situazione difficile in ordine all’applicazione del testo pontificio, il padre ha però richiamato il valore ascetico della sofferenza per una giusta causa: proprio dalle pene patite nel silenzio e nell’abbandono dai sacerdoti e dai fedeli legati toto corde al rito tradizionale verrà l’inizio della (vera) riforma della Chiesa. La prima conferenza è stata quella del vescovo Schneider sul tema della “Sacralità e bellezza della Liturgia nei Santi Padri”. Secondo il prelato, il culto di Dio deve essere consapevole della santità divina e questa nozione fondante e imprescindibile è presente fin dai testi liturgici più antichi che ci vengono dalla Tradizione. In pratica, l’esatto opposto di ciò che la moda liturgica prevalente, intrisa di valori umanistici e intramondani, ci vorrebbe imporre già da vari decenni. Il simbolismo e la gestualità sono fondamentali per una retta comprensione del mistero celebrato: secondo il prelato dunque, nulla, assolutamente nulla, dovrebbe essere lasciato al caso, all’improvvisazione e all’arbitrio umano. La relazione seguente è stata quella del prof. Roberto de Mattei, sul tema della “Cattolicità e Romanità della Chiesa nell’ora presente”. Lo storico romano ha presentato una sintesi del significato di Roma e della romanità all’interno della visione cattolica del mondo. Ha fatto notare come la romanitas non sia una nota aggiuntiva e di secondario valore per definire la vera Chiesa di Dio, anzi essa appare come la quintessenza della cattolicità. Non è un caso infatti che i nemici della Chiesa siano anche, necessariamente, nemici della (vera) romanità e della latinità. La modernità, inaugurata dall’anti-romanesimo luterano, registra due fenomeni speculari e convergenti: da un lato si vuole “purificare” il cristianesimo dalla romanità, come vorranno tutte le sette protestanti, il giansenismo, e poi il modernismo e il neo-modernismo; dall’altro si esalta Roma, per farne una sorta di idolo in funzione anti-cattolica: si pensi qui a Federico II, a Machiavelli, al ghibellinismo, ai giacobini e al nazionalismo laico otto-novecentesco. Nella medesima mattinata vi sono state anche due brevi ma importanti comunicazioni del Vice Presidente della Pontificia Commissione dei Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia Sacra, dom Michael John Zielinski, e di mons. Valentino Miserachs Grau, Presidente del Pontificio Istituto di Musica Sacra. Entrambi gli interventi hanno inteso significare l’importanza per l’Arte sacra e per la musica di Chiesa del legame con la tradizione liturgica latina e gregoriana: i due presuli hanno quindi criticato molte delle recenti evoluzioni artistiche o musicali, che occultano quella sacralità così necessaria al culto cristiano e alla spiritualità dei fedeli. Dopo il pranzo, v’è stato il gradito intervento di mons. Guido Pozzo, neo Segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei. Il presule ha ribadito l’importanza della liturgia tradizionale per la continuità dottrinale cattolica e ha notato che, nonostante le difficoltà esistenti, l’applicazione del Motu proprio dovrà continuare ad estendersi. Molto attesa la relazione tenuta da padre Stefano M. Manelli, fondatore dei Francescani dell’Immacolata, una delle più giovani e promettenti famiglie della “riforma francescana”. L’esimio sacerdote ha parlato lungamente e con accenti accorati del rapporto inscindibile tra la vita religiosa, che egli vive in prima persona da oltre mezzo secolo, e la liturgia. La decadenza liturgica attuale, più volte segnalata da Benedetto XVI, ha influito certamente sul calo delle vocazioni sacerdotali e religiose e anche sulla desacralizzazione di monasteri, conventi e istituti un tempo fiorenti. La decisione dei Francescani dell’Immacolata di tornare alla messa e all’ufficio liturgico tradizionale sta dando frutti preziosi, sia in quantità di vocazioni, sia in un innalzamento della vita spirituale nelle loro comunità maschili e femminili. Secondo padre Manelli, a norma del Motu proprio sono in particolare i religiosi che debbono riprendere gli antichi usi liturgici e ascetici: così essi formeranno quelle sante oasi di cui tutti i fedeli avvertono sempre più il bisogno. L’ultimo relatore è stato il noto teologo mons. Brunero Gherardini, recente autore di un importante messa a punto sul valore (e i limiti) dei documenti conciliari. Dopo aver ricordato che il Motu proprio si configura come una “sanatio”, egli ha illustrato il vero senso della Tradizione, all’insegna della continuità dogmatica e magisteriale. Con acume e profondità teologica, mons. Gherardini ha saputo mostrare l’opposizione tra la Tradizione vivente, intesa in senso cattolico, e cioè la virtualità infinita del magistero di fissare “nuovi” dogmi, già facenti parte della Divina Rivelazione, e la “tradizione vivente” inventata dal modernismo, che usa questa espressione per conformare il dogma e la dottrina alle variazioni pressoché infinite del fragile pensiero umano. Padre Nuara ha quindi chiuso i lavori ringraziando gli ospiti e notando che il Convegno stesso è parso come una grazia di Dio, la sua riuscita come un vero miracolo. La domenica 18 ottobre i convegnisti hanno avuto la gioia di partecipare alla Santa Messa pontificale, celebrata da mons. Raymond Leo Burke, Prefetto della Segnatura Apostolica, nella Basilica di san Pietro. Giova ricordare che alla Messa conclusiva, come del resto già durante tutto il convegno, erano presenti membri di tutti gli Istituti che usano del messale antico: dalla Fraternità san Pietro all’Istituto di Cristo Re, dai Francescani dell’Immacolata all’Istituto del Buon Pastore, oltre alla figura ben nota di mons. Perl. L’unità della “famiglia cattolica tradizionale”, pur tra tante difficoltà, non è il minor successo dell’iniziativa di padre Vincenzo Nuara. All’Angelus dello stesso giorno, il Santo Padre ha salutato i partecipanti al Convegno, dando così un appoggio dall’alto all’importante iniziativa. (Corrispondenza Romana, n.1114 del 24 ottobre 2009)
Cristiani in Anatolia: viaggio alle pendici del monte dei servi di Dio
Camminiamo per le strade di Idil, una piccola città della Turchia meridionale al confine con la Siria. Una città dai molti nomi. Quello turco "ufficiale" è solo l’ultimo di una serie, che porta traccia delle molte identità di chi ha abitato qui: Bethzabday, Azech, Hasach. Attiriamo l’attenzione di un gruppo di bambini, che ci accolgono entusiasti. Cerchiamo la chiesa di S. Maria? Nessun problema. Ci precedono correndo, ci fanno strada in una scia argentina di risate e battute. Quando arriviamo alla piccola chiesa siro-ortodossa, vedono le nostre macchine fotografiche e si mettono in posa, reclamando una foto. Bussiamo alla porta, ma nessuno risponde. Immediatamente uno dei bambini corre a chiamare il custode a casa. Pochi minuti dopo il giovane Semun Gösteris ci saluta con calore e ci invita ad entrare. Abita con sua madre, la signora Makbule, e con sua moglie Gülten in una casa proprio accanto alla chiesa. I giovani coniugi sono in attesa di un bambino. Semun ci mostra la chiesa e la foresteria, inaugurata lo scorso 15 agosto alla presenza di circa 500 persone, arrivate anche dall’estero: Germania, Francia, Svizzera, Olanda e Svezia. La fondazione della chiesa di S. Maria risalirebbe al primo secolo, quando Mor Addai, un discepolo di Gesù, arrivò a portare il cristianesimo in queste terre. Idil si trova nel cuore del Tur Abdin, una regione il cui nome, in lingua siriaca, significa «montagna dei servi di Dio»: più di ottanta monasteri sorgono nei dintorni. Il più antico di quelli ancora attivi, Dayro d-Mor Gabriel, è stato fondato nel quarto secolo. Questa è la patria degli «assiri» (da non confondere con l’antico popolo mesopotamico), altrimenti noti come «suryoye» o «siriaci»: di religione cristiana siro-ortodossa, parlano un dialetto aramaico, lontano discendente della lingua madre di Gesù. Ancora trent’anni fa, nel Tur Abdin vivevano 650 famiglie (13-15 mila persone). Il loro numero era già molto ridotto rispetto ai tempi d’oro del cristianesimo in queste terre. Durante la Prima guerra mondiale si stima che siano stati uccisi circa 500 mila cristiani siriaci (90 mila dei quali appartenenti alla comunità siro-ortodossa). Una tragedia che gli assiri chiamano «Sayfo», «la Spada» e che si affianca al «Grande Male», il genocidio degli armeni (la cui presenza in queste terre è diminuita drasticamente, in stridente contrasto con la ricchezza delle testimonianze architettoniche e archeologiche che caratterizzano il paesaggio). In epoche più recenti, l’emigrazione ha spinto via molti di quelli che erano sopravvissuti: verso la Siria, l’Iraq e il Libano negli anni ’70, in seguito verso l’Europa (specialmente in Svezia, dove oggi vivono circa 18 mila famiglie, e in Germania), l’Australia e gli Stati Uniti. Oggi gli assiri di Idil sono solo quattordici. Semun ci invita a bere qualcosa nel giardino della sua casa. Prima ancora che ci chieda che bevanda preferiamo, pregustiamo l’aroma inconfondibile del caffè assiro al cardamomo. Al momento del nostro arrivo, Semun era impegnato nell’aratura dell’orto, con l’aiuto di un amico. Kürt Hüseyin Bugday, musulmano: lui e Semun si conoscono fin dall’infanzia. Mentre sorseggiamo il nostro caffè, Kürt Hüseyin ci racconta che studia legge all’Università di Dicle e che, quando è libero dalle lezioni, non perde occasione per passare una giornata in compagnia del suo amico. «Non ci limitiamo a "capire" le tradizioni e le abitudini l’uno dell’altro: le rispettiamo profondamente». Man mano che si prosegue verso est, la popolazione assira aumenta. Nel villaggio di Ögündük, nelle vicinanze di Idil, vivono 52 famiglie assire, complessivamente 250 persone. Melke Tok da 48 anni è il sacerdote di entrambe le comunità. In quanto prete ortodosso, è sposato e ha due figlie e cinque figli. Sei su sette vivono in Europa. Il marito di una delle figlie fa il sacerdote nel villaggio di Haberli. Nel gennaio del 1994, Melke Tok ha vissuto una brutta avventura: è stato rapito da un gruppo di compatrioti musulmani («Hizbullah», li definisce Melke), forse a scopo di estorsione: «Hanno fermato la macchina e mi hanno ordinato di scendere. Mi hanno bendato, legato e portato a Kozluca, un villaggio vicino alla frontiera siriana. Mi hanno tenuto nel buio più completo, in una specie di bara, per tre giorni e tre notti». Grazie a un miracolo divino (e all’aiuto di un giovane musulmano), Melke Tok è riuscito a tornare a casa sano e salvo e la sua comunità – ci tiene a sottolineare – non ha pagato alcun riscatto ai rapitori. La signora Herane Uçar è nata e cresciuta a Ögündük. I suoi quattro figli, come gli altri bambini del villaggio, imparano la «lingua assira» e la Bibbia presso la chiesa di Mor Yakup. Le lezioni sono impegnative: tre ore ogni giorno, dal lunedì al sabato. La domenica tutta la famiglia frequenta regolarmente la liturgia. «Non so se si deve al fatto che tutti gli abitanti di questo villaggio sono assiri, ma noi non abbiamo difficoltà a vivere pienamente la nostra fede. Siamo molto felici di stare qui». Il nostro viaggio nel sud est dell’Anatolia prosegue verso Mardin, arroccata su un’altura a oltre 1000 metri sul livello del mare. Il suo nome siriaco, «Medro», significa «fortezza». L’atmosfera di questa città segnata dalla storia ricorda, per le sue vie fiancheggiate da case in pietra color miele, che digradano verso i fianchi della collina, la Città Vecchia di Gerusalemme. Oggi Mardin può vantare una pacifica convivenza tra famiglie arabe, curde, turche e assire: quella che era una delle antiche roccaforti della presenza cristiana in Anatolia appare come un composto mosaico di usanze, lingue e culture che si intrecciano nel reciproco rispetto. Jenifir Çoban ha undici anni e mezzo e vive con la sua famiglia nel cortile della chiesa di Kirklar. «Siamo assiri, ma a casa parliamo tutti arabo», racconta. «Io e mia sorella passiamo molto tempo a casa della nonna. Mia madre ci racconta le storie di Keloglan (un ragazzo povero che vive con la mamma in una capanna nel bosco e che, sognando di sposare la figlia di un pashà, fugge di casa e affronta mille avventure, ndr), di Cappuccetto Rosso e di Cenerentola. Invece la nonna di mia madre ci ha insegnato la storia di Sahmeran, la donna serpente, ma anche la vita di Gesù e le storie della Bibbia. Lei fin da piccola dipinge stoffe con soggetti religiosi: ha imparato da suo padre, che era pittore di icone. Le sue stoffe sono per la chiesa, o per chiunque le voglia. Sono sessant’anni che fa questo lavoro. Ha anche ricevuto una medaglia da Atatürk, perché in ogni scena che dipinge aggiunge sempre una mezza luna e una stella, i simboli della bandiera turca». «Cosa mi piace?», racconta ancora Jenifir, «Il colore viola, i libri di avventura e cantare nel coro della chiesa. La nostra festa più importante è la Pasqua. Nel periodo di Pasqua, digiuniamo per cinquanta giorni. Poi, quando arriva la festa, cuciniamo biscotti, budini di riso e dipingiamo le uova, una a una. Molti dei nostri vicini sono musulmani. Festeggiano sempre insieme a noi le nostre feste e noi facciamo lo stesso con le loro». A Diyarbakir, la romana Amida, ci ritroviamo a bere un tè nel cortile della chiesa siro-ortodossa, insieme a un sacerdote e a quattro donne musulmane. In queste zone le tensioni tra gruppi sociali e politici sono tutt’altro che rare. Tuttavia il clima che si respira qui sembra disteso. Ancora una volta lasciamo che sia una ragazza di dodici anni, Steyfi Melisa Açis, a raccontarci cosa vuol dire per lei essere assira. «I miei genitori sono di Midyat, un’antica città della regione del Tur Abdin. In seguito si sono trasferiti qui a Diyarbakir e lavorano alla chiesa di S. Maria: mostrano la chiesa ai visitatori e raccontano la sua storia. È un edificio molto antico: è stata costruita nel Terzo secolo, 1.750 anni fa. Anche io so qualcosa della storia della chiesa, perché a volte aiuto i miei genitori a fare da guida ai turisti. Ogni domenica vado a Messa e canto anche nel coro della chiesa. Durante le vacanze torniamo spesso al villaggio di mio padre: a parte Diyarbakir, ho visto Mardin e Midyat. La mia migliore amica si chiama Derya. La sua famiglia è musulmana, ma andiamo molto d’accordo. Parliamo soprattutto di scuola e delle lezioni da studiare. Nel tempo libero, mi piace cucire i vestiti per la mia bambola e cantare insieme a mia sorella Marianna. Le nostre canzoni preferite sono quelle tradizionali yemenite». L’ultima tappa del nostro viaggio è Adiyaman, una città in rapido sviluppo e decisamente più anonima delle storiche Mardin e Diyarbakir. La chiesa siro-ortodossa di Mor Petrus e Mor Pavlus è stata costruita nel 1883. Ci accoglie Davud Ün, che ci guida a visitare l’edificio. La chiesa attuale sorge sul sito di una chiesa più antica, la chiesa di S. Maria, crollata nel 1880, probabilmente in seguito a un terremoto. È stato il metropolita di Urfa Siverek (l’antica Edessa) a prendersi a cuore la ricostruzione, a cui hanno lavorato assiri venuti da Urfa. Lo si può notare dallo stile delle decorazioni e dall’uso peculiare del legno nella costruzione, una tradizione tipicamente assira. Oggi la chiesa di Mor Petrus e Mor Pavlus è rimasto l’unico esempio di questa tecnica. «È accaduto, in passato, che qualcuno tirasse sassi contro la chiesa», racconta Davud. «Ma non erano altro che ragazzate, a cui non dare troppa importanza». La chiesa è frequentata da 150 famiglie, che abitano in un raggio di 500 chilometri. «Nonostante la distanza, ogni domenica la chiesa è frequentata da 100-150 persone. E naturalmente il numero aumenta in occasione di feste religiose e ricorrenze». Nel cortile della chiesa, incontriamo Ruken Polat, 14 anni: sua madre è assira e suo padre è armeno. Il suo nome, in curdo, significa «allegra». Lo ha scelto suo padre. Alcune sere, la famiglia legge insieme la Bibbia a casa. Ruken ha imparato a farlo anche in lingua assira. Quasi ogni domenica, la famiglia Polat partecipa alla messa in una delle chiese di Adiyaman. In passato, Ruken e la sua famiglia hanno avuto qualche problema in città a causa della loro identità religiosa. Ma oggi, ci assicurano, la situazione è molto migliorata: possono pregare liberamente, andare in chiesa e manifestare la loro fede con più serenità. Il problema maggiore sembra essere la presenza sempre più esigua, decimata da decenni di emigrazione, verso l’estero o verso Istanbul. Mecit Sak ha 28 anni ed è nato nel villaggio di Beytüssebab-Kovan, vicino Sirnak. Nel 1990 tutta la sua famiglia (undici figli, i genitori e la nonna) ha dovuto lasciare la terra d’origine per cercare fortuna sul Bosforo. «Il flusso migratorio dal sud-est dell’Anatolia è iniziato nel 1985. Cinque anni dopo è toccato a noi. Non abbiamo avuto scelta. In seguito ad attacchi terroristici, il governo ha deciso di evacuare il nostro villaggio. Ci vivevano circa mille famiglie, ciascuna con una media di otto-dieci figli. Qualcuna ne aveva persino quindici. Noi siamo cristiani caldei. La nostra lingua è il caldeo. Lo abbiamo imparato da nostra nonna e lo parliamo a casa, ma non sappiamo leggerlo, né scriverlo. Al nostro villaggio andavamo alle funzioni regolarmente, presso la chiesa di S. Maria. Ora che siamo a Istanbul, frequentiamo la chiesa cattolica caldea ogni domenica. La chiesa è frequentata da 300-400 persone in media. Non sono solo caldei che vengono dal sud-est dell’Anatolia, ma anche iracheni. Anche loro abitano in città, per lo più in attesa di un futuro migliore all’estero». Monsignor Luigi Padovese, vescovo della diocesi cattolica di Anatolia, ci conferma che le differenze di confessione e di rito non sono un ostacolo insormontabile: «Le nostre parrocchie si prendono cura anche di cattolici di altri riti che non hanno più una chiesa propria (caldei, armeni, maroniti, siro-cattolici e melchiti) e talvolta anche di ortodossi, di cristiani delle antiche Chiese orientali e di protestanti». Le radici cristiane di questa terra sono straordinariamente profonde e ricche («Chi ha in tutto il mondo cristiano il privilegio di poter dire: Paolo è nato nella mia terra di Anatolia?», ama ricordare monsignor Padovese nelle sue lettere pastorali). Ma il nazionalismo esasperato del Novecento in alcuni casi ha preferito metterle da parte in nome di una (presunta) identità collettiva turca. «Nel secolo scorso in questa nostra Turchia, diversi cristiani per necessità o per convenienza, ma certo non volentieri, hanno rinunciato alla loro fede o l’hanno nascosta», spiega monsignor Padovese. «Sono ancora centinaia di migliaia i discendenti di queste famiglie antico-cristiane e con piacere noto che, di tanto in tanto, qualcuno occasionalmente si richiama alla fede dei propri genitori o nonni». Negli ultimi anni si è parlato più volte di un problema di sicurezza dei cristiani in Turchia, in seguito a una serie di gravi episodi, a partire dall’uccisione del sacerdote italiano don Andrea Santoro, avvenuta il 5 febbraio 2006. A gennaio 2007 è stato assassinato a Istanbul il giornalista armeno Hrant Dink; nell’aprile seguente tre protestanti (due turchi e un tedesco) sono stati sgozzati a Malatya e a dicembre padre Franchini, superiore della Custodia di Turchia, è stato aggredito in chiesa a Izmir. Monsignor Padovese aveva già a suo tempo sottolineato che da parte di certa stampa turca emerge ancora un respiro xenofobo, che può andare ad alimentare estremismi e strumentalizzazioni ideologiche: tuttavia atti del genere non sono certo rappresentativi della mentalità della maggioranza della popolazione, che anzi ha in più occasioni manifestato la propria solidarietà alle vittime e alle loro comunità. (Yildiz Çelik e Chiara Peri, Jesus, n. 10, ottobre 2009)
Preti anglicani sposati e preti cattolici spretati. Due situazioni inassimilabili
Sull’annunciato ingresso di comunità anglicane nella Chiesa cattolica ci sono arrivati due commenti notevoli: l’uno dai devoti del canonizzando cardinale Newman, e l’altro da un eminente studioso di liturgia, il professor Cesare Alzati. Da Birmingham Br. Lewis Berry, dell’Oratorio di san Filippo Neri, ci segnala che già nel 1876 John Henry Newman, convertito al cattolicesimo, aveva studiato un piano per creare una sorta di Chiesa anglicana “uniate”, simile a quelle di rito orientale unite a Roma. Il piano aveva l’appoggio del cardinale Manning, all’epoca arcivescovo di Westminster. Presto il piano fu accantonato. Ma Newman si disse convinto che in futuro sarebbe divenuto prezioso. E il “tempo giusto” lo vedeva coincidere con una crescente sfida del secolarismo, che avrebbe messo in crisi soprattutto la Comunione anglicana e quindi avrebbe incoraggiato la parte più fervente di essa a trovare rifugio nella Chiesa cattolica, molto più solida nel custodire integra la fede e nel resistere alla sfida. In effetti, è proprio ciò che sta accadendo in questi anni. Con la Comunione anglicana devastata dalle derive laico-radicali e con un numero crescente di sue comunità che bussano alla porta della Chiesa cattolica. Il testo è nel sito che sostiene la causa di canonizzazione del cardinale Newman: “Benedict XVI and Anglican Converts: Newman’s Perspective“. Il secondo commento ci è affidato dal professor Cesare Alzati, ordinario di storia del cristianesimo, per venticinque anni docente di storia della liturgia all’università di Pisa e autore di un recente volume capolavoro su “Il Lezionario della Chiesa ambrosiana”, edito dalla Libreria Editrice Vaticana. Nella sua nota, il professor Alzati affronta tra l’altro una questione che è stata riaffacciata in questi giorni: quella del reintegro nel ministero – sulla scia dei pastori anglicani con moglie e figli che diverrebbero sacerdoti della Chiesa cattolica – anche dei preti cattolici ridotti allo stato laicale per essersi sposati. Alzati esclude decisamente la cosa. E spiega perché. Ecco qui di seguito il suo commento completo. «Il papa Benedetto XVI, con ennesimo coraggioso gesto, si appresta ad accogliere nella comunione della Chiesa di Roma ecclesiastici e fedeli anglicani desiderosi di confermare la propria adesione alla Chiesa una e santa, professando con essa – secondo l’insegnamento dei padri oxoniensi – “quod semper, quod ubique, quod ab omnibus”, senza peraltro abbandonare il retaggio di pietà e di santità a loro trasmesso dalla Chiesa d’Inghilterra nella sua secolare tradizione, radicata in un patrimonio ben anteriore allo scisma. Ritengo che da tale atto solenne, destinato ad assumere un fondamentale rilievo nella storia delle Chiese cristiane, venga anzitutto uno straordinario contributo alla salvaguardia della stessa tradizione della Chiesa d’Inghilterra, nei suoi aspetti più vitali e luminosi, che nei secoli scorsi si sono irradiati nel mondo intero, fino a generare la Comunione anglicana, e che nel Novecento in modo tanto decisivo hanno contribuito alla crescita della tensione ecumenica tra le diverse componenti del mondo cristiano. Credo altresì che la decisione rappresenti, nell’immediato, non meno che in una prospettiva di lunga durata, anche un prezioso contributo alla vita intellettuale britannica, costituendo un segno di rispetto e di rinnovata attenzione ai fondamenti spirituali, che hanno alimentato la vicenda storica dell’Inghilterra e che ne hanno corroborato lo sviluppo culturale e civile. Merita al riguardo segnalare un altro particolare aspetto, non marginale, relativo al problema dell’ordinazione dei ministri anglicani dopo il loro ingresso nella comunione cattolica. Sono convinto che sulla questione delle ordinazioni anglicane, prima dell’introduzione del ministero femminile, si sarebbe potuta sviluppare un’ulteriore riflessione da parte cattolica, stanti gli ulteriori dati storici acquisiti al riguardo. Ora il problema mi pare superato dai fatti e la prevista ordinazione dei ministri accolti nella comunione cattolica assume anche il significato di certificare la radice apostolica del loro ministero, sulla quale molti sono stati indotti a dubitare dalla nuova situazione determinatasi nella loro Chiesa d’origine e nella Comunione anglicana. La prevista ordinazione non è peraltro priva di riflessi anche per l’ambito cattolico. Quando nella prima parte degli anni Novanta i ministri, che allora lasciarono la Chiesa d’Inghilterra, furono inserti nella Chiesa romano-cattolica del Regno Unito, non mancarono all’interno di questa preti e comunità che chiesero la reintegrazione di quanti, tra gli ecclesiastici cattolici, avevano lasciato il ministero per contrarre matrimonio. Al riguardo va osservato che – a parte il can. 10 di Ancyra che ha avuto eco soltanto in area siro-orientale – l’insieme di tutte le Chiese di tradizione apostolica ha sempre ritenuto, almeno in via di principio, che non possa darsi matrimonio dopo l’ordinazione, pena l’abbandono del ministero (cfr. can. 1 di Neocesarea). La preventivata ordinazione dei ministri di provenienza anglicana viene a sanare, in modo generalizzato e con ogni evidenza, pure qualsiasi possibile difetto canonico al riguardo. Il loro caso, pertanto, non potrà in alcun modo considerarsi un precedente cui riferirsi per scardinare l’ordine disciplinare all’interno del corpo ecclesiale cattolico-romano e renderà, anche sotto tale aspetto, il ministero dei nuovi ordinati pienamente conforme ai canoni antichi della Chiesa indivisa e pertanto canonicamente ineccepibile pure agli occhi dell’Oriente cristiano, sia ortodosso che unito. Peraltro, stanti le considerazioni sopra esposte in merito alle ordinazioni anglicane, mi parrebbe auspicabile che – con modalità simile a quella seguita dalla Comunione anglicana in riferimento ai ministri di culto di dubbia successione apostolica operanti nel quadro della Chiesa costituitasi nell’India del Nord e nel Pakistan – non si procedesse all’ordinazione con la consueta formula del Pontificale Romano, ma si elaborasse una formula specifica di ordinazione, finalizzata all’esercizio, da parte di questi ecclesiastici, del ministero presbiterale nella Chiesa Cattolica». (Fonte: Sandro Magister, Settimo Cielo, 22 ottobre, 2009)
Dall'inizio della sua esistenza e poi per tutta la vita, l'uomo si trova "gettato" in una trama di rapporti decisivi - a partire da quelli con i genitori, coi fratelli, coi nonni e oggi sempre più spesso coi bisnonni. Il suo impatto con la realtà avviene all'interno di queste relazioni buone attraverso le quali è la stessa struttura intelligibile del reale a suggerire il metodo più adeguato per ogni avventura educativa. Se è il reale a offrirsi al soggetto, compito dell'educatore sarà quello di introdurre l'educando a una esperienza integrale della realtà che lo guidi a decifrarne il significato. Nel suo regalarsi alla mia libertà, la realtà mostra dunque di possedere già un lògos, è intelligibile, come già affermava il realismo classico. Ciò domanda che l'io eviti di elaborare, in modo astratto (ab-[s]tractus/separato), una conoscenza da cui debbano poi scaturire delle applicazioni pratiche. La realtà, offrendosi per farsi conoscere, domanda invece un atto di decisione del soggetto. E così mette in luce la natura di persona del soggetto stesso. Infatti è proprio l'atto "il particolare momento in cui la persona si rivela". Ci troviamo al cuore di quella che Giovanni Paolo II e von Balthasar definiscono un'"antropologia adeguata". Un'antropologia consapevole del fatto che quando l'uomo inizia a riflettere su di sé e sul reale può farlo solo dall'interno del suo "esserci": "Possiamo interrogarci sull'essenza dell'uomo soltanto nel vivo atto della sua esistenza. Non esiste antropologia al di fuori di quella drammatica". Questo stesso fatto ha un'ulteriore conseguenza. Uno dei tratti propri dell'"esserci" del soggetto nel mondo è la sua obiettiva impossibilità di fare completa astrazione dalla tradizione nella quale egli si trova inserito, e che gli si manifesta, innanzitutto, nella forma del suo essere parte di una catena di generazioni. Lungi dal costituire un ostacolo ad una effettiva educazione e ad un pieno sviluppo della ragione - come il pensiero illuministico ci ha per troppo tempo spinto a pensare -, la tradizione offre all'educando un imprescindibile termine di paragone da spendere nel suo confronto con il reale. Essa è il terreno fertile da cui germoglia l'ipotesi vitale di significato da verificare nel corso della vita e senza la quale una vera e propria conoscenza non è tecnicamente possibile. In quanto "luogo di pratica e di esperienza", secondo la felice definizione di M. Blondel, la tradizione favorisce, come diceva Giovanni Paolo II, la scoperta della "genealogia" della persona che non è mai riducibile alla sua pura "biologia". Garantisce quell'esperienza compiuta di paternità-figliolanza senza la quale non si dà la persona con la sua capacità di esperienza e di cultura. Avendo così indirettamente individuato l'insostituibile apporto della libertà umana, sempre storicamente situata, alla paideia, possiamo legittimamente accennare al fattore "critico" insito in ogni proposta educativa. Mi riferisco alla categoria di rischio. Il rischio non è irrazionalità, ma affiora nella sempre possibile scissione tra il giudizio della ragione e l'atto di volontà. Nell'incontro del suo io tutto intero con tutta la realtà l'educando fa l'esperienza del rischio perché, pur percependo l'intrinseca positività della realtà stessa, può rimanere bloccato nell'adesione ad essa fino ad abbandonarsi alla tentazione dello scetticismo. In questa prospettiva il rischio non è risparmiato neanche all'educatore che, nel comunicare all'educando l'ipotesi interpretativa che egli ritiene più appropriata per spiegare il reale, è chiamato ad auto-esporsi e quindi a rischiarsi. Per questa ragione l'educazione ha una natura eminentemente dialogica. Domanda sempre uno scambio tra l'"io" - l'educatore che propone e si propone - e il "tu" - l'educando che viene introdotto alla realtà totale. E questo scambio avviene, costitutivamente, all'interno della trama di relazioni in cui educatore ed educando sono sempre inseriti. Questo dialogo si realizza solo a condizione che, nel continuo e serrato paragone con il reale, venga messa in gioco la libertà di entrambi. Esso mostra inoltre la natura "drammatica" del compito dell'educatore, il quale, spesso tentato di risparmiare all'educando il negativo, può, anche senza volerlo, giungere fino ad impedirgli di essere irriducibilmente "altro" e quindi integralmente "li- bero". Il rischio (educativo) del possesso può essere battuto in breccia solo da quella che, insieme alla libertà, rappresenta un'altra dimensione costitutiva di ogni impresa educativa: l'amore. L'amore offerto all'educando, e che a sua volta muove l'educando a un appassionato confronto con il mondo che lo circonda, ha due volti. Quello dell'educatore, che offre e comunica tutto se stesso nel testimoniare la verità come quell'ipotesi vitale di interpretazione della realtà che egli ha fatto propria; quello della realtà stessa, che, attestandosi come dono, è ultimamente segno del Mistero che si rivela a tutti gli uomini. E la dinamica con cui la realtà si racconta non si esaurisce mai perché, alla fine, esprime l'amore con cui l'amato (l'uomo) e l'amante (il Mistero) incessantemente si interrogano. Quando l'ipotesi unitaria e vitale di interpretazione della realtà è l'evento di Gesù Cristo che si comunica nella traditio eucaristica della Chiesa, allora essa appare inscindibilmente connessa con la virtù cristiana della carità. San Giovanni Bosco ha ben descritto quale sia il caposaldo dell'educazione: "Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore(...) Ricordatevi che l'educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l'arte, e non ce ne mette in mano la chiave". Queste parole sono nutrite ultimamente dalle relazioni intratrinitarie tra Padre e Figlio e Spirito che, per le missioni del Figlio e dello Spirito, assumono il volto della singolare esperienza del rapporto di Gesù col Padre (cfr. Vangelo di Giovanni) e con lo Spirito. Esse dicono dell'impossibilità di essere padri ed educatori se prima non ci si riconosce figli. Non dico: se non si riconosce di "essere stati figli", bensì proprio di "essere figli", qui e ora, di quel Padre che è fonte di ogni paternità e che in Cristo "ci ha scelti prima della creazione del mondo (...), predestinandoci a essere suoi figli adottivi". Indicati i tratti di una paideia come introduzione di tutta la persona alla realtà totale, possiamo ora domandarci in che misura l'università sia in grado di rispondere a questo compito. A partire dall'epoca moderna l'università in ambito euroatlantico pratica di fatto l'esclusione dei saperi connessi con tutte le questioni ultime, specie se lette nella prospettiva della rivelazione, perché sono ritenute estranee a una rigorosa conoscenza scientifica. "L'umanità preferirà rinunciare ad ogni domanda filosofica piuttosto che accettare una filosofia che trova la sua ultima risposta nella rivelazione di Cristo". Questa pesante emarginazione non si perita più, come un tempo, di mettere in discussione la legittimità delle questioni e delle domande circa le cose ultime (Comte). Piuttosto nega la possibilità che la teologia, e anche la filosofia intesa in senso pieno, possano rispondervi adeguatamente. Oggi sarebbe deputata a farlo, al loro posto, la tecnoscienza, la quale viene da più parti considerata l'unica depositaria della verità, sempre falsificabile (Popper), circa l'uomo e i fattori fondamentali della sua esistenza: l'amore, la nascita, la morte. È evidente come entrino qui in gioco radicali cambiamenti che hanno una stretta connessione con la questione educativa. In questo quadro di rapida e affannosa transizione, come può la formazione universitaria essere pedagogicamente appropriata e non venir meno alla vocazione stessa della uni-versitas, cioè di luogo in cui i saperi vengono ricondotti a un unico principio sintetico di spiegazione della realtà? In passato questo ruolo di sintesi era toccato alla teologia, il cui metodo e i cui risultati facevano da orizzonte per le altre scienze. Nell'epoca moderna, declinato il ruolo della teologia, ridotta al rango di una disciplina fra le altre e in molte parti espulsa dall'università, non decade tuttavia l'istanza di unificazione del reale. Ma oggi il principio che assicuri l'universitas come comunità di ricerca non è più ricavato dall'accordo su un nucleo centrale di questioni ultime - sempre allo stesso tempo filosofiche e religiose - ma poggia sul consenso prodottosi intorno alle procedure di ricerca. La scientificità che accomuna le discipline universitarie non attiene più direttamente all'oggetto della conoscenza, cioè alla verità, ma solo alla metodologia di formulazione del discorso scientifico stesso. Inevitabile conseguenza di questo approccio è che l'università cessa di essere luogo di ricerca e verifica di un'ipotesi veritativa ultima, e perciò di reale paideia, per ridursi unicamente a luogo di trasmissione di competenze che, pur non rinunciando a dire "qualcosa" di sempre provvisorio circa la verità - pensiamo al bìos, o alla "formazione dell'universo" - possiede solo un'utilità strumentale. Ci troviamo qui di fronte ad un concetto di ragione estremamente limitato, che non tiene conto delle articolate modalità in cui si esercita il lògos umano. Possiamo infatti individuare, sulla scorta di quanto già diceva Aristotele, almeno cinque forme, differenziate e irriducibili, di razionalità: teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica). Tutte queste dimensioni dovrebbero essere armonicamente e unitariamente coltivate dall'università. Certo, nell'attuale panorama educativo non si può non tenere nella dovuta considerazione il fatto che il sistema universitario è per sua natura basato su una complessa articolazione di specifici programmi curriculari e di discipline differenziate. Può pertanto apparire irrealistico perseguire in tempi ragionevoli l'individuazione di nuove basi per l'unità dell'oggetto del sapere, tanto più che va mantenuto il legittimo, e anzi necessario, rispetto per lo statuto particolare delle singole discipline secondo il principio popperiano di demarcazione. Tuttavia quella del superamento della frammentarietà dell'oggetto del sapere è un'istanza oggi più sentita che sta conducendo cultori di molte materie a non limitarsi alla pura interdisciplinarietà. A maggior ragione però, di fronte a una tale situazione, una adeguata educazione universitaria non potrà rinunciare da subito alla cura dell'unità del soggetto del sapere. Ma su cosa fondare oggi l'unità del soggetto? Saggezza chiede che, senza confondere il nuovo con l'inedito, anche nel tempo presente si riconosca che essa si realizza a partire dall'assunzione di un'ipotesi esplicativa vitale del reale, che consenta di percepirlo nella sua totalità e di goderne. Non si tratta di un puro esercizio intellettualistico, ma di un'esigenza che si impone ad ogni ricercatore e ad ogni docente e studente che sia lealmente impegnato con la sua materia di ricerca, di insegnamento e di studio. Ogni disciplina, infatti, contiene al fondo una domanda di senso e di significato e perciò prima o poi suscita le irrinunciabili questioni che da sempre agitano il cuore dell'uomo: Chi sono io? Da dove vengo? Quale destino mi aspetta? Chi alla fine mi assicura amandomi definitivamente - oltre la morte stessa? Le possibilità che uno sguardo unitario sul reale è in grado di dischiudere a un intelletto commosso sono ben descritte dalle parole assai attuali del cardinale J.H.Newman: "Non c'è vero allargamento dello spirito se non quando vi è la possibilità di considerare una molteplicità di oggetti da un solo punto di vista e come un tutto; di accordare a ciascuno il suo vero posto in un sistema universale, di comprendere il valore rispettivo di ciascuno e di stabilire i suoi rapporti di differenza nei confronti degli altri(...) L'intelletto che possiede questa illuminazione autentica non considera mai una porzione dell'immenso oggetto del sapere, senza tener presente che essa ne è solo una piccola parte e senza fare i raccordi e stabilire le relazioni che sono necessarie. Esso fa in modo che ogni dato certo conduca a tutti gli altri. Cerca di comunicare ad ogni parte un riflesso del tutto, a tal punto che questo tutto diviene nel pensiero come una forma che si insinua e si inserisce all'interno delle parti che lo costituiscono e dona a ciascuna il suo significato ben definito". Tale punto di vista unitario è offerto secondo il cristianesimo dall'evento di Gesù Cristo, Verbo incarnato e immagine del Dio invisibile, e dalla Sua "pretesa" di svelare, con la sua passione, morte e risurrezione, l'enigma che l'uomo rappresenta per se stesso senza per questo pre-decidere il dramma costitutivo di ogni singolo. Questa "ipotesi" non soffoca il libero esercizio della ragione, anzi ne esalta le facoltà critiche urgendole ad un confronto a 360 con la realtà. La proposta cristiana, infatti, presa nella sua oggettiva integralità, non è un salto nel buio. L'uomo può, al contrario, verificarne tutto lo spessore veritativo nel paragone con le dimensioni della sua esperienza elementare - lavoro, affetti, riposo - e con le irriducibili polarità che attraversano l'unità del proprio io - unità duale propria di ogni essere creato, contingente: anima-corpo, uomo-donna, individuo-comunità. (Card. Angelo Scola, ©L'Osservatore Romano - 28 ottobre 2009)
25 ottobre 2009
«La Ru486 ha ucciso mia figlia, ora fermiamola» -
Holly Patterson aveva appena compiuto 18 anni quando entrò in un consultorio californiano dell’associazione «Planned parenthood» chiedendo una pillola per abortire. In realtà non sappiamo cosa chiese. Sappiamo solo che era spaventata. Era incinta. I suoi genitori non lo sapevano. Voleva che qualcuno l’aiutasse. Holly ricevette una pastiglia da 200 mg di mifepristone che prese al consultorio e un’altra da 800 mg di misoprostol, con l’istruzione di inserirla vaginalmente 24 ore più tardi. Le fu dato un appuntamento una settimana dopo, il 17 settembre 2003, alle due del pomeriggio, per verificare che il feto fosse stato espulso e che «fosse andato tutto bene». Nulla andò bene. Holly morì un’ora prima dell’appuntamento, nel pronto soccorso dell’ospedale di Pleasanton. Suo padre, chiamato d’urgenza, non aveva mai sentito parlare della Ru486 prima che un medico lo informasse che, in seguito a un aborto chimico, sua figlia «non ce l’avrebbe fatta». Ma Monty Patterson continuava a non capire cosa potesse aver trasformato la sua sana, energica ragazza nella creatura pallida e incapace di parlare che lo guardava terrorizzata, poco prima di spirare. Nei mesi successivi Patterson avrebbe imparato molto: a uccidere sua figlia era stata la sepsi provocata da un’infezione dal batterio «clostridium sordellii», indotta dall’assunzione della Ru486. E che la morte poteva essere evitata. Oggi gira gli Usa per spiegare che la Ru486 è un autentico veleno: Patterson ha discusso dei rischi della pillola alla Casa Bianca, in frequenti testimonianze in Congresso, con la Fda, con associazioni di pazienti. In seguito al suo attivismo 70 deputati hanno redatto la “legge di Holly” che chiede la sospensione della Ru486 e la revisione dell’iter che ha portato alla sua approvazione. Ma la legge non è mai stata approvata dal Congresso. D. Signor Patterson, qual è il suo giudizio sulla pillola abortiva? «La mia preoccupazione è la sua sicurezza per le donne. Per me è un problema di salute. Io volevo solo salvare mia figlia, ma non l’ho potuto fare. Tutto quello che mi resta è cercare di informare altre Holly di quello che può succedere loro». D. Che informazioni dovrebbero avere? «Al momento una 18enne come Holly non riceve abbastanza informazioni per prendere una decisione consapevole quando sceglie di terminare chimicamente la sua gravidanza. Nessuno ha interesse a spiegarle cosa le potrebbe succedere. Ma non solo a una 18ennne. Prenda Oriane Shevin. Era avvocato. Sposata, madre di due figli. Ha avuto una terza gravidanza e ha fatto come Holly. È andata in un consultorio, ha preso una pillola. È morta. Aveva ricevuto abbastanza informazioni? No. Quello che si trova su Internet, presso i medici che praticano aborti, sono i dati messi in circolazione dalla società che distribuisce la Ru486 negli Usa, la Danco Laboratories, o da organizzazioni abortiste. Sostengono che il rischio è minimo, che le infezioni sono rare e curabili. Non è vero! Queste donne sono lasciate sole e senza mezzi per difendersi». D. È una delle caratteristiche della pillola abortiva quella di consentire l’aborto "fai da te"... «I fatti mostrano che questa idea dell’aborto nella "privacy della tua casa" pone un fardello enorme sulle spalle delle donne. Le costringe a capire da sole quando qualcosa non va. Holly ha fatto tutto quello che le avevano detto. Dopo tre giorni ha chiamato il consultorio lamentandosi di forti crampi addominali, e le hanno detto di prendere una dose maggiore di antidolorifico. Il giorno dopo è andata al pronto soccorso. Le hanno dato un antidolorifico ancora più forte e l’hanno mandata a casa. Tre giorni più tardi è tornata all’ospedale e nel giro di poche ore è morta. Non aveva febbre, solo dolori. Altre tre donne hanno avuto gli stessi sintomi. E si sono sentite dire che era tutto normale». D. Di chi è la colpa? «I reparti di pronto soccorso non sono preparati a riconoscere i sintomi di infezioni come questa. Spesso le donne che vi si rivolgono non dicono nemmeno di aver assunto la pillola abortiva. Holly lo fece, ma non le fu di nessun aiuto». D. L’ente americano che vigila sui farmaci – la Fda – ha ammesso che l’azienda distributrice della pillola abortiva non ha comunicato tutti i casi di "effetti avversi"... «Sì, perché negli Stati Uniti queste comunicazioni sono volontarie. Sappiamo però che ci sono molte altre donne che hanno rischiato di morire o sono morte per colpa della Ru486, e di cui non è stato detto nulla. L’aborto è una procedura circondata dal segreto, specialmente nel caso di giovani come Holly: a 17 anni è rimasta incinta di un 24enne che non voleva farlo sapere ai genitori. Non possiamo scaricare sulle spalle di queste ragazze la responsabilità di dubitare delle informazioni che ricevono nei consultori o su Internet. Io stesso ho faticato a raccogliere dati affidabili». D. Lei a chi si è rivolto? «A Didier Sicard, professore di medicina all’Università Descartes di Parigi, ex presidente del Comitato bioetico francese che ha dato il via libera alla Ru486. Sua figlia, Oriane Shevin, è morta dopo aver assunto la pillola abortiva. Ora anche lui sostiene che i rischi legati alla Ru486 sono molto più alti di quanto si ammette, e che le informazioni circolanti non sono oggettive. I dati parlano di un rischio di "fallimento" del protocollo del 5-7%. Da dove vengono quei numeri? Dal distributore della pillola. È come chiedere alla volpe di fare la guardia al pollaio. Da quando mia figlia è morta sono stato contattato da decine di donne che mi hanno detto di dover la vita a Holly. Avevano preso la pillola, non stavano bene. Sono andate su Internet, hanno letto la mia storia, e sono corse all’ospedale dicendo che forse avevano un’infezione in atto. In alcuni casi era vero, e hanno ricevuto antibiotici in tempo». D. È una consolazione? «L’unica. Se Holly fosse sopravvissuta, sarebbe la prima a voler raccontare la sua storia per aiutare altre come lei. Non ho potuto proteggere mia figlia, forse posso proteggere le figlie di altri». (Elena Molinari, Avvenire, 14 ottobre 2009)
Eutanasia: l’erroneo senso di pietà
Il dibattito sul suicidio assistito si è riacceso qualche giorno fa in Inghilterra, in seguito al caso di una donna che è morta per aver intenzionalmente bevuto liquido antigelo, impedendo ai medici di intervenire. Secondo un servizio della BBC del 1° ottobre, la donna di 26 anni, Kerrie Wooltorton, aveva preventivamente dichiarato la sua volontà in cui richiedeva l’astensione da ogni intervento nel caso in cui avesse tentato di porre fine alla propria vita. La notizia di questo caso si è diffusa dopo la conclusione della recente inchiesta sulla morte della donna avvenuta nel settembre 2007. Secondo il coroner (l’organo inquirente), i medici del Norwich University Hospital avrebbero rischiato di violare la legge, qualora fossero intervenuti. “La donna aveva la capacità di dare il consenso alle cure, che con ogni probabilità le avrebbero impedito di morire”, ha dichiarato il coroner nelle sue conclusioni. “La donna ha rifiutato le cure in piena consapevolezza delle conseguenze che poi l’hanno portata alla morte”. Successivamente, il Ministro della sanità, Andy Burnham, ha suggerito al Parlamento di rivedere la legge sulla capacità mentale che regola casi come questo, secondo quanto riportato dal quotidiano Telegraph del 4 ottobre. Burnham ha dichiarato che il caso Wooltorton ha portato la legge su un “nuovo terreno”, cosa che a suo avviso non era nelle intenzioni del legislatore. Un portavoce della Conferenza episcopale americana si è espresso a sostegno di una revisione della normativa. “Ciò che ora appare evidente, è che questa parte della legge non è sufficientemente chiara e vincolante”, ha affermato il portavoce. Nonostante i ripetuti fallimenti legislativi in Parlamento, diretti a legalizzare l’eutanasia, le pressioni per un allentamento dei vincoli normativi non diminuiscono. Uno dei principali risvolti concreti della questione riguarda i casi di cittadini britannici che commettono suicidio avvalendosi dell’aiuto della società svizzera “Dignitas”. Coloro che aiutano un’altra persona a servirsi dell’opera di Dignitas sono penalmente perseguibili dalle autorità britanniche. L’estate scorsa, a Debbie Purdy, affetta da sclerosi multipla, è stato riconosciuto il diritto di sapere in quali circostanze suo marito verrebbe posto sotto giudizio se l’accompagnasse alla clinica Dignitas. Come riferito dal quotidiano Daily Mail del 31 luglio, i giudici della Camera dei Lord (istanza di cassazione) hanno disposto che il Direttore della pubblica accusa, che decide quali accuse siano da rinviare a giudizio, specifichi in quali circostanze si procederebbe contro una persona che prestasse aiuto a un amico o parente intenzionato a commettere suicidio all’estero. Secondo l’articolo, Purdy ha in programma di recarsi in Svizzera per commettere suicidio quando il dolore le sarà diventato insopportabile e per tale occasione vorrebbe che suo marito, Omar Puente, la potesse accompagnare. La decisione è stata criticata da Anthony Ozimic, dell’organizzazione pro-life Society for the Protection of Unborn Children: “Il terribile messaggio, per i disabili e i malati gravi, è che la loro vita vale meno di quella degli altri”. Il Direttore della pubblica accusa, Keir Starmer, QC, ha recentemente reso note le linee guida richieste dai giudici della Camera dei Lord, pur avvertendo che queste non costituiscono garanzia per non essere sottoposti a giudizio, secondo quanto riferito dal quotidiano Times del 23 settembre. Tuttavia, Starmer ha ammesso che l’avvio dell’inchiesta sarebbe improbabile fintanto che la persona non incoraggi dolosamente l’atto del suicidio e si limiti ad assistere solo “desideri chiari, definiti e informati” di porre fine alla propria vita. Questo non implica la possibilità di aprire cliniche di suicidio assistito in Gran Bretagna, ha aggiunto. “Il suicidio assistito è reato penale da quasi 50 anni e la mia reggenza non si pone in discontinuità con questo”, ha affermato. Secondo il Times, più di 100 britannici hanno posto fine alla propria vita presso la clinica Dignitas. Le linee guida illustrano 16 elementi in favore del procedimento e 13 elementi contro. La clinica Dignitas è sicuramente rinomata tra gli inglesi, ma le sue attività sono diffusamente criticate. I medici inglesi hanno avvertito che un certo numero di persone che hanno posto fine alla propria vita in questo modo non erano affette da malattie in fase terminale, secondo quanto riferito dal quotidiano Guardian del 21 giugno. Il Guardian ha ottenuto un elenco di 114 persone britanniche che sono andate a morire in quella clinica. Tra queste, alcune erano malate all’addome, altre al fegato, mentre una soffriva di artrite. “Questo elenco mi fa rabbrividire”, ha dichiarato il professor Steve Field, presidente del Royal College of General Practitioners. “La cosa mi preoccupa perché so che molte delle condizioni in cui si trovavano quelle persone sono condizioni con cui si convive e si può convivere per molti anni e continuare ad essere produttivi e a dare senso alla propria vita”. La clinica è stata ulteriormente oggetto di critiche quando un’ex impiegata, Soraya Wernli, ha chiamato in causa il comportamento di alcuni medici. In un articolo pubblicato il 19 luglio sul Sunday Times, Wernli ha descritto Dignitas come un’attività di lucro del proprietario Ludwig Minelli. “È diventata un’industria”, ha detto Wernli, 51 anni, aggiungendo che il prezzo richiesto da Dignitas è salito da 2.000 sterline (3.000 euro) di sette anni fa, a 7.000 sterline (8.000 euro) di oggi. Nell’articolo, Wernli racconta di come persuase una donna inglese malata di cancro a non suicidarsi, convincendola che con le giuste cure poteva ancora avere una vita decente. Più tardi quella donna le scrisse ringraziandola per averle salvato la vita. Secondo un articolo pubblicato il 18 luglio dal Telegraph, le autorità di Zurigo hanno reso note le nuove norme che disciplinano le attività di organizzazioni come Dignitas. La nuova normativa, che entra in vigore nell’autunno di quest’anno, richiede che i pazienti siano sottoposti ad un periodo più lungo presso la clinica per ottenere maggiori consigli, prima di poter commettere suicidio. “I viaggi del suicidio in Svizzera non saranno vietati, ma vi saranno controlli più rigorosi; i cosiddetti ‘suicidi lampo’ per i pazienti stranieri diventeranno illegali”, ha affermato il Ministro della giustizia di Zurigo, Markus Notter. Sebbene l’eutanasia rimanga illegale in Gran Bretagna, vi sono comunque preoccupazioni per come i malati terminali vengono gestiti. Un gruppo di esperti che si occupa di malati terminali ha scritto una lettera al quotidiano Telegraph, pubblicata il 2 settembre, in cui avverte che i pazienti vengono fatti morire prematuramente. Sulla base delle linee guida del Servizio sanitario nazionale, ai pazienti terminali è possibile non somministrare fluidi e farmaci, e molti sono sottoposti a una continua sedazione finché non sopraggiunge la morte. Gli esperti osservano che questi trattamenti possono mascherare eventuali segni di miglioramento nei pazienti. “Le previsioni in tema di morte non sono una scienza esatta”, secondo gli esperti. Di conseguenza, i pazienti vengono definiti come vicini alla morte “senza tenere conto del fatto che la diagnosi potrebbe essere sbagliata”, prosegue la lettera. Precedentemente, in un servizio pubblicato il 12 agosto dalla BBC, si afferma che l’uso continuo di sedazione profonda costituisce una forma lenta di eutanasia. L’articolo cita la ricerca della London School of Medicine and Dentistry, secondo cui questo tipo di sedazione è responsabile di circa un decesso su sei. Secondo l’articolo, il dr. Nigel Sykes, direttore sanitario del St. Christopher's Hospice in Sydenham, avrebbe affermato che solo per una manciata di pazienti ogni anno sarebbe necessaria una sedazione tale da impedire lo stato di veglia al punto di morte. Se tutti avessero accesso a cure palliative di alta qualità, non vi sarebbero casi di suicidio assistito, ha dichiarato Steve Field, presidente del Royal College of General Practitioners, in un articolo d’opinione pubblicato il 22 giugno sul Guardian. Purtroppo, i servizi sanitari e di assistenza sociale non sono adeguati a far fronte alle necessità delle persone che si avvicinano alla fine della propria vita, ha sottolineato Field. In queste condizioni, il suicidio assistito non è la soluzione giusta, ha rimarcato. Da parte sua, in un articolo pubblicato il 16 luglio sul Telegraph, l’Arcivescovo di Westminster, mons. Vincent Nichols, ha sostenuto che la nozione di un diritto alla “buona morte” mina le fondamenta della società. Se riduciamo la vita umana allo status di un prodotto, a una questione di controllo di qualità, allora non abbiamo chiaro il valore della vita umana, ha sostenuto l’Arcivescovo. Se invece ci prendiamo cura della vita umana, dal suo inizio alla sua fine naturale, allora ci eleviamo nella nostra umanità, ha concluso. Parole preziose mentre si continua a discutere su come considerare e gestire la sofferenza. (padre John Flynn, Zenit, 18 ottobre 2009)
Dipinto da El Greco nel 1585 e conservato al Louvre di Parigi, il "San Luigi re di Francia con un paggio" è in mostra fino al prossimo 31 gennaio a Roma, assieme a decine di capolavori di artisti come Van Eyck, Memling, Mantegna, Caravaggio, Tiziano, Veronese, Van Dyck, Murillo, Tiepolo. Re e cristiano esemplare, il "San Luigi" di El Greco raffigura l'incontro – ora felice, ora sofferto – tra la "civitas" e la "ecclesia", tra il potere e la grazia. E proprio questo è il titolo della grande mostra inaugurata il 7 ottobre a Palazzo Venezia dal capo del governo italiano e dal segretario di Stato vaticano: "Il potere e la grazia. I santi patroni d'Europa". Il presidente Silvio Berlusconi ne parlò a Benedetto XVI nell'udienza che ebbe nel giugno 2008. Al papa l'idea piacque. L'iniziativa tornò a chi l'aveva ideata e oggi è divenuta realtà. L'ideatore della mostra è un giovane prete di un remoto villaggio di trecento anime, Illegio, sulle Alpi della Carnia. Il suo nome è Alessio Geretti. La mostra sui santi patroni d'Europa è l'ultima sua creazione, che fa seguito ad altre mostre da lui inventate su temi come l'Apocalisse, la Genesi, gli Apocrifi, stupefacenti per il valore delle opere d'arte esposte e per la ricchezza del messaggio trasmesso. In questo caso, riproporre i santi patroni delle nazioni d'Europa interpretati dai suoi più grandi artisti non è solo offrire una "visione" di ciò che l'Europa è stata in duemila anni di storia profondamente segnati dalla fede cristiana. È anche un messaggio lanciato a un'Europa contemporanea che dimentica le proprie radici ed è refrattaria alle religioni. Dice don Alessio Geretti: "Nell'Europa dei pluralismi e delle democrazie, la santità è la forma più convincente che può assumere una religione. Le vite dei santi avvincono senza costringere. Credo davvero che in quest'epoca – che come diceva Paolo VI non ha bisogno di maestri quanto piuttosto di testimoni – i santi siano ancora il volto di una Chiesa che ha la capacità di parlare al cuore della gente e di mettere in crisi la cultura dominante, smascherandone ogni disumanità". Ma il messaggio della mostra si rivolge anche alla Chiesa. "Una Chiesa – scrive ancora don Geretti nel bellissimo catalogo edito da Skira – il cui rinnovamento postconciliare è stato caratterizzato da una malcelata iconoclastia, che svuotò molte chiese, molta catechesi e predicazione, e qualche casella del calendario di quei riferimenti ai santi e di quelle immagini sacre che per secoli avevano nutrito l'esperienza di fede del popolo cristiano". Col pontificato di Giovanni Paolo II questa tendenza a "purificare" il cattolicesimo dal culto dei santi ebbe una decisa inversione di marcia. Furono più i santi e i beati da lui elevati agli altari di tutti quelli canonizzati e beatificati da tutti i papi suoi predecessori, dal Concilio di Trento in poi. E quali santi! Due nomi su tutti: Padre Pio da Pietrelcina e Madre Teresa di Calcutta. Con Benedetto XVI il rilievo dato ai santi non è minore. Presso la congregazione vaticana che se ne occupa sono in corso più di 2000 cause di beatificazione o canonizzazione. L'ultimo viaggio di papa Joseph Ratzinger fuori d'Italia è culminato il 28 settembre a Stará Boleslav, nel giorno e nel luogo del martirio di san Venceslao, santo patrono della nazione ceca. Una nazione in cui la scristianizzazione dell'Europa è allo stadio più avanzato, con due terzi della popolazione che non si riconosce più in nessuna fede religiosa. In questo stesso spirito Benedetto XVI ha impostato le sue catechesi del mercoledì: raccontando alle folle il "chi è" della Chiesa attraverso i profili dei suoi santi. Ha cominciato con gli apostoli. Ha proseguito con i Padri d'occidente e d'oriente. E ora si sta dedicando ai grandi maestri della teologia medievale. Ecco qui di seguito la lista completa dei santi patroni d'Europa: quelli assegnati all'intero continente da Paolo VI e Giovanni Paolo II, e quelli di ogni singola nazione. Con, subito dopo, i link di riferimento alla mostra e al suo principale ideatore. I santi patroni del Vecchio Continente, secondo la Chiesa cattolica EUROPA: San Benedetto da Norcia, Santi Cirillo e Metodio, Santa Brigida di Svezia, Santa Caterina da Siena Santa Teresa Benedetta della Croce ALBANIA: Maria SS. Madre del Buon Consiglio ANDORRA: San Macario, Maria SS. di Meritxell ARMENIA: San Bartolomeo apostolo, San Gregorio illuminatore AUSTRIA: San Leopoldo, San Colmano, San Floriano, San Severino abate BELGIO: San Villibrordo, Santa Lutgarda BIELORUSSIA: San Michele arcangelo BOSNIA-ERZEGOVINA: Sant’Elia BULGARIA: Santi Cirillo e Metodio, Sant’Ivan di Rila CIPRO: San Barnaba apostolo CITTÀ DEL VATICANO: San Pietro apostolo CROAZIA: San Giuseppe DANIMARCA: Sant’Oscar, San Canuto IV re ESTONIA: San Meinardo FINLANDIA: Sant’Enrico di Uppsala FRANCIA: Maria SS. Assunta, San Martino di Tours, Santa Giovanna d’Arco, Santa Teresa di Lisieux GEORGIA: Santa Nino, San Giorgio GERMANIA: Sant’Oscar, San Bonifacio, San Michele arcangelo GRECIA: San Paolo apostolo, Sant’Andrea, San Nicola di Mira, IRLANDA: San Patrizio, Santa Brigida di Kildare, San Columba di Therryglass ISLANDA: Sant’Oscar, San Thorlak ITALIA: San Francesco d’Assisi, Santa Caterina da Siena LETTONIA : San Meinardo LIECHTENSTEIN: San Lucio di Coira LITUANIA: San Casimiro, San Giorgio, San Giacinto, San Stanislao Kostka, Sant’Adalberto, San Bruno di Colonia, Beata Kinga LUSSEMBURGO: Maria SS. Consolatrice degli Afflitti, San Villibrordo, Santa Cunegonda imperatrice MACEDONIA: Santi Cirillo e Metodio, San Clemente di Ohrid MALTA: San Paolo MOLDAVIA: Maria SS. del Buon Consiglio MONACO: Santa Devota MONTENEGRO: Santi Cirillo e Metodio NORVEGIA: Sant’Olaf, San Magno di Orknei OLANDA: San Villibrordo POLONIA: Maria SS. Regina della Polonia, Sant’Adalberto, San Stanislao vescovo, San Stanislao Kostka, Sant’Andrea Bobola, Beata Kinga PORTOGALLO: Immacolata Concezione, Sant’Antonio di Lisbona, San Francesco Borgia, San Gabriele arcangelo, REGNO UNITO: San Giorgio, Sant’Andrea REPUBBLICA CECA: Sant’Adalberto, San Venceslao, Santi Cirillo e Metodio, San Procopio, San Vito, San Giovanni Nepomuceno, Santa Ludmilla ROMANIA: Sant’Andrea apostolo RUSSIA : Sant’Andrea apostolo, San Basilio Magno, San Nicola di Mira, San Giovanni Crisostomo, San Vladimir, Santi Cirillo e Metodio, San Casimiro, Santi Angeli custodi, Santa Teresa di Lisieux, SAN MARINO: San Marino diacono, Sant’Agata SERBIA: Santo Stefano protomartire, San Saba SLOVACCHIA: Maria SS. Addolorata, San Giovanni Nepomuceno SLOVENIA: Maria SS. Ausiliatrice SPAGNA: Immacolata Concezione, San Giacomo SVEZIA: Santa Brigida, Sant’Eric re SVIZZERA: San Nicola da Flue TURCHIA: San Giovanni apostolo, San Giovanni Crisostomo, San Giorgio, San Rocco UCRAINA: San Vladimir, San Giosafat UNGHERIA: Maria SS. Magna Domina, Santo Stefano re
Le statistiche della Chiesa cattolica
Come ogni anno in occasione della Giornata Missionaria Mondiale, l’Agenzia Fides presenta alcune statistiche scelte in modo da offrire un quadro panoramico della Chiesa missionaria nel mondo. Le tavole sono tratte dall’ultimo «Annuario Statistico della Chiesa» pubblicato (aggiornato al 31 dicembre 2007) e riguardano i membri della Chiesa, le sue strutture pastorali, le attività nel campo sanitario, assistenziale ed educativo. Tra parentesi viene indicata la variazione, aumento (+) o diminuzione (-) rispetto all’anno precedente, secondo il confronto effettuato dall’Agenzia Fides. Popolazione mondiale Al 31 dicembre 2007 la popolazione mondiale era pari a 6.617.097.000 persone, con un aumento di 74.273.000 unità rispetto all’anno precedente. L’aumento globale riguarda tutti i continenti, compresa l’Europa, come già registrato anche per l’anno precedente: Africa + 16.865.000; America + 11.327.000; Asia + 43.304.000; Oceania + 531.000; Europa + 2.246.000. Cattolici Alla stessa data il numero dei cattolici era pari a 1.146.656.000 unità con un aumento complessivo di 15.906.000 unità rispetto all’anno precedente. L’aumento interessa tutti i continenti: Africa + 6.612.000; America + 5.535.000; Asia + 2.428.000; Europa + 1.132.000; Oceania + 199.000. La percentuale dei cattolici è cresciuta globalmente dello 0,05, attestandosi al 17,33%. Riguardo ai continenti, si sono registrati aumenti in Africa + 0,40; Asia + 0,02; Europa + 0,03 e Oceania + 0,17, mentre l’unica diminuzione si registra in America (- 0,17). Abitanti e cattolici per sacerdote Il numero degli abitanti per sacerdote è aumentato anche quest’anno, complessivamente di 140 unità, raggiungendo quota 12.879. La ripartizione per continenti è simile a quella degli ultimi anni: aumenti in America, Europa e Oceania, e diminuzioni in Africa e Asia. Africa - 456; America + 71: Asia - 794; Europa + 53; Oceania + 207. Il numero dei cattolici per sacerdote è aumentato complessivamente di 34 unità, raggiungendo il numero di 2.810. Si registrano aumenti in tutti i continenti, mentre l’unica diminuzione è in Asia: Africa + 30; America + 31; Asia - 20; Europa + 22; Oceania + 65. Vescovi Il numero dei Vescovi nel mondo è aumentato di 48 unità, raggiungendo il numero di 4.946. L’incremento interessa tutti i continenti ad eccezione dell’America (- 2): Africa (+ 19); Asia (+ 12); Europa (+ 13); Oceania (+ 6). Complessivamente aumentano anche quest’anno sia i Vescovi diocesani che quelli religiosi. I Vescovi diocesani sono 3.729 (40 in più rispetto all’anno precedente) mentre i Vescovi religiosi sono 1.217 (con un aumento di 8 unità). L’aumento dei Vescovi diocesani interessa tutti i continenti: Africa (+ 12), Asia (+ 10), Europa (+ 15), Oceania (+ 3) mentre in America la situazione è invariata. Per i Vescovi religiosi si registrano aumenti in Africa (+ 7), Asia (+ 2) e Oceania (+ 3), mentre si registrano flessioni in America (- 2) ed Europa (- 2). Sacerdoti Il numero totale dei sacerdoti nel mondo è aumentato di 762 unità rispetto all’anno precedente, raggiungendo quota 408.024. A segnare una diminuzione sono ancora l’Europa (- 2.260) e l’Oceania (- 55), mentre gli aumenti sono in Africa (+ 1.180), America (+ 376) e Asia (+ 1.521). I sacerdoti diocesani nel mondo sono aumentati globalmente di 1.340 unità, raggiungendo il numero di 272.431, con aumenti in Africa (+ 1.024), America (+ 853) e Asia (+ 864); una lieve diminuzione in Oceania (- 9) e ancora una diminuzione in Europa (- 1.392). I sacerdoti religiosi sono diminuiti di 578 unità e complessivamente sono 135.593. A segnalare un aumento sono, come accaduto negli ultimi anni, l’Asia (+ 657) e l’Africa (+ 156), mentre le diminuzioni interessano America (- 477), Europa (- 868) e Oceania (- 46). Diaconi permanenti I diaconi permanenti nel mondo sono aumentati di 1.422 unità, raggiungendo il numero di 35.942. L’aumento più consistente si conferma ancora una volta in America (+ 898) ed Europa (+ 472), seguite da Africa (+ 24), Asia (+ 20) ed Oceania (+ 8). I diaconi permanenti diocesani sono nel mondo 35.297, con un aumento complessivo di 1.309 unità. Crescono in tutti continenti: Africa (+ 28), America (+ 829), Asia (+ 23), Europa (+ 419) e Oceania (+ 10). I diaconi permanenti religiosi sono 645, aumentati di 133 unità rispetto all’anno precedente, con aumenti in America (+ 69) ed Europa (+ 53), diminuzioni in Africa (- 4), Asia (- 3), Oceania (- 2). Religiosi e religiose I religiosi non sacerdoti sono diminuiti globalmente di 151 unità arrivando al numero di 54.956. Aumenti si registrano in Africa (+ 75), America (+ 111), Asia (+ 36) ed Oceania (+ 19). L’unica diminuzione è in Europa (- 392). La diminuzione globale delle religiose (– 6.586) che sono complessivamente 746.814 è così ripartita: aumenti in Africa (+ 1.178) e Asia (+ 2.838), diminuzioni in Europa (- 5.843), America (– 4.650) e Oceania (– 109). Istituti secolari I membri degli Istituti secolari maschili sono complessivamente 665 con una diminuzione globale di 26 unità. In crescita solo l’Europa (+ 15), mentre l’Oceania è stabile, con 1 solo membro, e diminuiscono Africa (- 17), America (- 6), Asia (- 18). I membri degli Istituti secolari femminili sono invece diminuiti anche quest’anno, complessivamente di 572 unità, per un totale di 26.778 membri. Le diminuzioni riguardano America (- 238), Europa (- 415) ed Oceania (- 2), mentre si registrano aumenti in Africa (+ 18) e Asia (+ 65). Missionari laici e Catechisti Il numero dei Missionari laici nel mondo è pari a 250.464 unità, con un aumento globale di 33.696 unità ed aumenti in America (+ 31.417), Asia (+ 2.552) ed Europa (+ 493). Le diminuzioni si verificano in Africa (- 711) ed Oceania (- 55). I Catechisti nel mondo sono aumentati complessivamente di 6.665 unità raggiungendo quota 2.993.354. Gli aumenti si registrano in Africa (+ 5.896), Asia (+ 14.383) ed Europa (+ 7.403), mentre registrano diminuzioni l’America (- 20.071) e l’Oceania (- 946). Seminaristi maggiori Il numero dei seminaristi maggiori, diocesani e religiosi, anche quest’anno è aumentato, sia pure in misura inferiore rispetto all’anno precedente. Globalmente sono 439 in più i candidati al sacerdozio, che hanno così raggiunto il numero di 115.919. Gli aumenti si registrano in Africa (+ 695), Asia (+ 595) e Oceania (+ 5), mentre diminuiscono America (- 381) ed Europa (- 475). I seminaristi maggiori diocesani sono 71.225 (- 653 rispetto all’anno precedente) e quelli religiosi 44.694 (+ 1.092). Per i seminaristi diocesani gli aumenti interessano solo Africa (+ 136) ed Oceania (+ 5), le diminuzioni sono in America (- 239), Asia (- 74) ed Europa (- 481). I seminaristi religiosi aumentano in Africa (+ 559), Asia (+ 669) ed Europa (+ 6), sono stabili in Oceania (=) e diminuiscono in America (- 142). Seminaristi minori Il numero totale dei seminaristi minori, diocesani e religiosi, è diminuito di 671 unità, raggiungendo il numero di 101.978. Sono aumentati complessivamente in Africa (+ 782), in Europa (+ 13) ed in Oceania (+ 49), mentre sono diminuiti in America (- 684) e Asia (- 831). I seminaristi minori diocesani sono 77.145 (- 1.158) e quelli religiosi 24.833 (+ 487). Per i seminaristi diocesani la diminuzione si registra in tutti i continenti, ad eccezione dell’Oceania (+ 63). I seminaristi religiosi invece sono in diminuzione in America (- 136), Asia (- 241) ed Oceania (- 14), mentre sono in crescita in Africa (+ 815) ed Europa (+ 63). Istituti di istruzione ed educazione Nel campo dell’istruzione e dell’educazione la Chiesa gestisce 67.264 scuole materne frequentate da 6.386.497 alunni; 91.694 scuole primarie per 29.800.338 alunni; 41.210 istituti secondari per 16.778.633 alunni. Inoltre segue 1.894.148 giovani delle scuole superiori e 2.837.370 studenti universitari. Istituti sanitari, di beneficenza e assistenza Gli istituti di beneficenza e assistenza gestiti nel mondo dalla Chiesa comprendono: 5.378 ospedali con le presenze maggiori in America (1.669) ed Europa (1.363); 18.088 dispensari, per la maggior parte in America (5.663), Africa (5.373) e Asia (3.532); 521 lebbrosari distribuiti principalmente in Asia (293) ed Africa (186); 15.448 case per anziani, malati cronici ed handicappati per la maggior parte in Europa (8.271) ed America (3.839); 9.376 orfanotrofi per circa un terzo in Asia (3.367); 11.555 giardini d’infanzia; 13.599 consultori matrimoniali distribuiti per gran parte in Europa (5.919) ed America (4.827); 33.146 centri di educazione o rieducazione sociale e 10.356 istituzioni di altro tipo. (Agenzia Fides, ottobre 2009)
L’onda lunga della Rivoluzione francese
La Rivoluzione francese fu contraddittoria. Dopo aver proclamata la liberta religiosa essa perseguitò la religione Una persecuzione cosi violenta quale non si era più vista nella storia dall’epoca di Diocleziano. Più di ventimila preti, religiosi e religiose e migliaia di laici furono uccisi a causa della loro fede. Quarantamila sacerdoti furono espulsi dalla Francia. Ma gli assassinii e le proscrizioni non rappresentano che un aspetto della violenza esercitata contro la religione. Con l’avvicinarsi del bicentenario della Rivoluzione vale la pena di riprendere questo aspetto della persecuzione rivoluzionaria. È necessario definirne la natura considerandola in tutte le sue dimensioni e, soprattutto, misurandone gli effetti. Tale violenza non fu infatti solamente punitiva. Essa fu piuttosto coercitiva e preventiva. I suoi autori (i membri della Convenzione, i clubs, i comitati di sorveglianza) non vollero colpire solamente i sacerdoti o i laici fedeli a Roma e ribelli alla Chiesa costituzionale scismatica .Essi vollero anche impedire il culto e sopprimere la pratica stessa della religione. Quest’intenzione risulta evidente considerando il tipo di persecuzioni effettuate come la confisca dei beni della Chiesa, la chiusura definitiva o temporanea delle chiese, la pressione sui sacerdoti obbligati a rinnegare il loro stato ed a sposarsi, la sottrazione alle chiese delle campane e la soppressione della domenica sostituita dalle decadi. Concepita per impedire il culto, la persecuzione vi riuscì effettivamente. Per molti mesi e, in alcune località, per molti anni, i francesi furono privati della messa e dei sacramenti e i bambini dell’educazione religiosa. La maggior parte delle chiese di Francia vennero chiuse per la prima volta dal novembre del 1793 al marzo del 1795 e, in grandissimo numero, una seconda volta dal 1798 al 1799, durante il periodo del terrore «fruttidoriano». Questi sono fatti che vale la pena di ricordare. La persecuzione è stata esercitata contro il culto pubblico. Essa ostacolò l’avvicinamento ai sacramenti. In quel periodo fu efficace. Ma quali i suoi frutti nel tempo? È questa la principale domanda che ci si pone. Nel 1801, in occasione del Concordato, Bonaparte ristabilì la pace religiosa. Ma la riapertura delle chiese, la libertà di culto e la scomparsa dello scisma significo anche una perfetta restaurazione del cattolicesimo? Sicuramente no. Innanzitutto il Concordato non riparò tutto. Anzi, tralascio molte cose. La dlstruzione anteriore era stata cosi grande che nessun governo — anche se ben disposto verso la religione — avrebbe potuto effettuare un recupero completo. La Chiesa di Francia era veramente irriconoscibile. «Dopo la distruzione del paganesimo — scrive Lammenais nel 1808 — la storia non offre un altro esempio di una degenerazione cosi generale e completa». La Rivoluzione ha dunque lasciato profonde tracce. Due dei suoi effetti furono temporanei e infatti permasero solo fino al XIX secolo. Mi riferisco alla scomparsa della vita monastica ed alla statalizzazione del clero. Le assemblee rivoluzionarie avevano soppresso tutte le congregazioni religiose. Il concordato del 1801 non ritornerà su queste misure. Nonostante la rapida ricostituzione degli istituti secolari, questi non raggiunsero il grado di importanza dei vecchi ordini monastici. Benedettini, Cistercensi, Premonstratensi, Domenicani e Francescani cominciarono a riprendere vita solo verso il 1830. Il cattolicesimo francese del XIX secolo viene dunque privato per molti decenni della vita monastica, cioè di una parte essenziale di se stesso. L Assemblea costituente aveva poi statalizzato il clero creando una chiesa di Stato con vescovi e sacerdoti regolarmente stipendiati. Se da una parte il Concordato ristabilisce il contatto con Roma, dall’altra esso accetta un clero «statale». Sino alla legge di separazione del 1905 i preti secolari francesi dipendevano economicamente dallo Stato. Ci sia concesso supporre che una tale sottomissione non fosse favorevole alla loro liberta di espressione. Due altri effetti della Rivoluzione si avvertono invece ancor oggi. Mi riferisco innanzitutto alla separazione tra religione e Stato. Sino al 1789 il cattolicesimo era in Francia la religione dominante, la sola religione ufficiale. Essa godeva come tale di uno statuto privilegiato. L’Assemblea costituente, in coerenza con la Dichiarazione dei diritti che aveva appena proclamato, si rifiutò di considerare il cattolicesimo come religione di Stato. Si creò dunque, per la prima volta nella storia, uno Stato senza religione. Ebbene questo Stato esiste ancora oggi. Il secondo aspetto del quale si subiscono le conseguenze è la diminuzione della pratica religiosa. Nel 1789 quasi tutti i francesi — salvo nelle grandi città — erano praticanti, celebravano cioè la Pasqua e assistevano alla messa domenicale. Nel 1801 (lo sappiamo ora con sicurezza grazie a recenti studi di sociologia religiosa) la pratica pasquale e domenicale diminuì mediamente del 50%. Ebbene, questa riduzione non è stata più colmata né nel XIX secolo, né nel XX, che ne ha anzi aggravato la portata. La Rivoluzione non fu senza alcun dubbio l’unica responsabile di questa brutale diminuzione del numero dei praticanti. La filosofia dell’Illuminismo aveva già preparato un terreno propizio alla de cristianizzazione. La conseguenza fu evidente: in due anni di persecuzione continua, multiforme ed efficace, per la prima volta nella storia dell’Europa cristiana, la pratica religiosa diminuì notevolmente. Ma della Rivoluzione è stata data anche un interpretazione positiva. Le prove hanno notevolmente contribuito a fortificare e a rinnovare il cattolicesimo, allontanando il clero dai suoi beni materiali, e gettandolo da un giorno all’altro nella più grande povertà. Molti preti prigionieri o deportati mostrarono allora un distacco eroico. Si conserva ancor oggi il testo delle risoluzioni prese nel 1714 dai preti «refrattari» detenuti in condizioni incredibili. Questi sacerdoti si erano impegnati a non lamentarsi mai e — qualora avessero ritrovato la libertà — a non parlare mai delle loro prove e a «non mostrare alcun rimpianto per i loro possedimenti perduti, non fare alcun tentativo di recuperarli, né dar prova di alcun risentimento verso coloro che li avevano spossessati». Si sviluppò inoltre una accresciuta devozione per i Sacri Cuori di Gesù e di Maria. Devozione già praticata nel XVIII secolo, ma che diviene nel periodo della Rivoluzione la grande devozione della Chiesa clandestina. La diffusione di questa forma di pietà che rinnovava il desiderio della comunione frequente contribuì ad allentare l’influenza del giansenismo. È infine da sottolineare la missione nel campo dell’educazione cristiana dei bambini. Lo spettacolo di una gioventù abbandonata, privata, a causa della chiusura delle scuole e della partenza dei sacerdoti, di qualsiasi educazione religiosa, rinnovò la vocazione all’insegnamento. A tal fine vennero costituiti nuovi istituti religiosi nei quali si realizzarono i progetti concepiti durante la persecuzione: padre De Cloriviere fondò i Figli del Cuore di Maria; Chaminade, la Società di Maria; Sophie Barad, le Dame del Sacro Cuore; madre Des Fontaines, le Dame di Santa Clotilde. Questo spirito missionario si riallaccia alla devozione del Sacro Cuore. Nel 1796 un prete «refrattario», l’abate Delaleu, per incitare delle religiose a diventare educatrici disse loro: «Conoscete forse altro modo di adorare il Cuore di Gesù se non quello di farlo conoscere e di contribuire ad estendere il Suo culto, la Sua adorazione e il Suo amore?». (Jean de Viguerie, © 30Giorni nella Chiesa e nel mondo, n. 1, gennaio 1987, pp. 16-17)
Rendere visibile la fede: arte sacra e cultura architettonica
Quasi cinquanta anni ci dividono dal giorno in cui Giovani XXIII decise di convocare il concilio Vaticano II e una riflessione si impone, al mondo della cultura architettonica, sull'esito di quel lungo processo di innovazione nel campo della architettura religiosa cattolica che ha preso spunto dalla riforma liturgica e si è concretato in migliaia di chiese cattoliche costruite da allora in tutto il mondo. Chi scrive, avendo partecipato fin da principio e con diverse esperienze progettuali e realizzative alla ricerca di un nuovo modello ecclesiale, attribuisce a questa riflessione un valore autocritico e propositivo. La prima delle quattro Costituzioni conciliari, quella promulgata il 4 dicembre 1963, ammoniva che "per conservare la sana tradizione e aprire nondimeno la via a un legittimo progresso non si introducessero innovazioni se non quando lo richiedesse una vera e accertata utilità della Chiesa, con l'avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle esistenti". Parole relative all'innovazione liturgica che potevano però ragionevolmente estendersi anche all'innovazione delle forme e delle tipologie architettoniche. Il clima culturale degli anni Sessanta del secolo scorso, ancora fortemente influenzato dalla fiducia illimitata nelle rivoluzioni, favorì da parte degli architetti, una interpretazione radicale del "legittimo progresso", e una sovrana indifferenza per la "sana tradizione", vista come ostacolo a una radicale palingenesi basata sulla tabula rasa. Anzitutto venne messa in discussione la sacralità dell'edificio religioso affrontando il tema della differenza tra Chiesa spirituale e chiesa costruita, contrapponendo nozioni di cui la tradizione indicava invece la complementarità, come la Domus Ecclesiae e la Domus Dei, la Chiesa come corpo mistico di Cristo e come popolo di Dio, la Chiesa di Dio e la Chiesa degli uomini. Dei poli liturgici tradizionali - l'altare, l'ambone, il tabernacolo, il battistero - venne ridiscussa la collocazione e i rapporti di ciascuno di essi con la comunità dei fedeli ai quali il Concilio richiedeva una partecipazione attiva. Di alcuni problemi, come quello di stabilire un equilibrio tra l'altare e l'ambone vennero proposte soluzioni paradossali, come quella di dividere i fedeli in due schiere contrapposte ponendo altare e ambone agli estremi del corridoio compreso tra i due fronti separati. Gli elementi architettonici mantenutisi nei secoli come invarianti: l'abside, le navate, la struttura cruciforme, il tiburio o la cupola come sorgente di luce, vennero generalmente rifiutati come inutili ai fini della configurazione di un nuovo spazio comunitario accentrato caratterizzato dall'orientamento del sacerdote verso i fedeli. La parola chiesa, come è noto, deriva da ecclesìa, che come scrive san Cirillo di Gerusalemme deriva a sua volta da ekkaleìsthai, chiamare a raccolta. La Chiesa quindi, come realtà spirituale, è etimologicamente l'assemblea di coloro che sono chiamati dal Signore, mentre la chiesa come edificio deriva probabilmente dal greco kyriakòn, che significa semplicemente ciò che è proprio del Signore. Il significato che il termine assemblea aveva assunto negli anni del Concilio, come luogo di accese interminabili discussioni, così come la nozione di partecipazione, simbolo di democrazia diretta, dettero un valore simbolico improprio alla assemblea dei fedeli, chiamati a partecipare attivamente non a una discussione, ma all'azione liturgica in quanto soggetti di un "sacerdozio regale". Nacque così la chiesa-teatro, con platea digradante o la chiesa quadrata priva di orientamento come un'arena da intrattenimento. In tempi recenti la moda del cosiddetto minimalismo ha riportato in auge una specie di iconoclastia, fino a escludere la croce e le immagini sacre e a spogliare l'immagine esterna di ogni residua analogia con le chiese tradizionali. Sotto il profilo urbanistico, la presa d'atto della perdita di centralità dell'edificio, condizionato dalla logica dello zoning, che assegna all'edificio religioso, nei piani territoriali, un lotto spesso residuale, condusse spesso gli architetti a un inane tentativo di imporre la presenza della chiesa, in mezzo ai volumi incombenti della periferia-dormitorio, attraverso una scomposta gestualità scultorea. Accanto agli eccessi non sono certo mancati, negli ultimi cinquanta anni, esempi di notevole valore artistico e religioso, ma non è facile, nella pluralità e diversità delle esperienze, individuare una convergenza di indirizzi che possa preparare un rinnovamento non contraddittorio ma sostanziale, inaugurando nuove tipologie condivise, tali da poter finalmente realizzare l'indicazione conciliare che, a proposito del rinnovamento liturgico auspicava "nuove forme che scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle preesistenti". Alla opportunità di un bilancio che renda possibile una riflessione profonda e un orientamento condiviso spinge oggi l'alta approfondita riflessione che Benedetto XVI ha dedicato a questi temi in una serie di libri, a partire da il Popolo e casa di Dio in sant'Agostino (Milano, Jaca Book, 1978), a La festa delle fede (Milano, Jaca Book, 1984), dalle Cantate al Signore un canto nuovo (Milano, Jaca Book, 1996), all'Introduzione allo spirito della liturgia (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001). Fondamentale l'apporto al confronto tra Chiesa spirituale e chiesa costruita e di conseguenza il chiarimento della differenza tra tempio pagano e chiesa cristiana. "Per la religione pagana - scrive il Papa - il rito visibile costituisce l'intero culto e anche la divinità cui è rivolto non vien concepita come una grandezza dell'al di là, la quale venga effigiata e rappresentata in forme visibili solo come indicazione. Questi dati visibili sono invece proprio il numen cui è diretta la venerazione e il quale si mostra così immediatamente raggiungibile. Con una parola, nel culto pagano (così come Agostino ha imparato a conoscerlo e lo ha inteso) non ci sono simboli, bensì solo realtà. In contrapposto, il culto cristiano, in quanto rito, è un espresso culto simbolico" (Popolo e casa di Dio in sant'Agostino, p. 249). La Chiesa è costruzione spirituale fatta, come scrive san Pietro, di pietre viventi che sono gli stessi fedeli, connessi alla pietra angolare rigettata che "è l'immagine di Colui che ha preso su di sé la sofferenza mortale dell'amore radicale e così è diventato spazio per noi tutti, pietra angolare, che dell'umanità dilacerata fa una dimora vivente, una nuova famiglia" (Cantate al Signore un canto nuovo, p. 199). Riconosciuta l'incolmabile distanza tra Chiesa e chiesa sarebbe giusto, si chiede Benedetto XVI, svalutare la chiesa come un involucro insignificante. "Non dobbiamo forse - scrive in occasione della celebrazione del primo millennio del Duomo di Magonza - anziché festeggiare ancora un edificio in pietra, avviarci audacemente e decisamente fuori dal passato impietrito e costruire la nuova comunità che venera Dio prendendosi cura radicalmente degli uomini? Non ha indicato giustamente la via da prendere quell'autore che ha volutamente intitolato un testo scolastico per l'insegnamento della religione La casa degli uomini, con l'intento di allontanare dalle case di Dio e condurre alla casa degli uomini, costruire la quale sarebbe l'autentico modo di seguire Gesù?" (Cantate al Signore un canto nuovo, p. 106). La risposta a questo interrogativo pone fine all'intento di svalutare l'involucro contrapponendo insensatamente la Chiesa vivente alla chiesa costruita. "Attraverso la passione dei suoi, Dio si costruisce la sua casa vivente e proprio così prende a suo servizio anche la pietra" (ivi, p. 109). La carne di Gesù è il tempio, la tenda, la Shekinah: la carne di Gesù è per Giovanni paradossalmente la verità e lo Spirito che subentrano al posto delle antiche costruzioni. Ma ora nella cristianità diventa viva l'idea che proprio l'incarnazione di Dio è la sua entrata nella materia, l'inizio del grande movimento per cui tutta la materia deve diventare vaso contenitore del Verbo. Ma anche la Parola deve conseguentemente dirsi nella materia, consegnarsi a essa, per poterla trasformare. Per questo sorge ora il piacere di rendere visibile la fede, di innalzare i suoi segni nel mondo della materia. A questo si collega il secondo motivo: l'idea della glorificazione; il tentativo di fare della terra una lode, fin nei suoi sassi, e così anticipare la venuta del mondo futuro. "Le costruzioni in cui la fede si esprime sono per così dire speranza resa presente e affermazione fiduciosa di ciò che essa può divenire già ora nel presente" (ivi, p. 110). Alla luce di questi insegnamenti è ancora possibile attribuire alla chiesa costruita il solo valore di un involucro neutrale? Agostino definisce l'edificio ecclesiale mater ecclesia in quanto rappresenta il popolo di Dio, ne esprime l'identità e come luogo dell'azione liturgica è un appello ai cristiani a far accadere anche nella loro coscienza ciò che vedono e ascoltano nello spazio sacro. "Il tempio è innanzitutto il luogo dove abita Dio, lo spazio della sua presenza nel mondo. È perciò il luogo dell'adunanza, lo spazio in cui il patto di alleanza ha luogo sempre di nuovo. È il luogo dell'incontro di Dio con il suo popolo, il quale così ritrova se stesso. È il luogo da cui promana la parola di Dio, la sede visibile cui è orientato il modello della sua istruzione" (ivi, p. 200). Se le considerazioni qui riportate incoraggiano chi deve progettare una chiesa a impegnarsi in profondità a dar forma allo spazio ecclesiale che può e forse deve rispecchiare il senso e la vita della Chiesa spirituale e rafforzare nei fedeli la coesione e la speranza, "giacché la costruzione degli uomini mira alla durata, alla tranquillità, alla familiarità, alla libertà. È una dichiarazione di guerra contro la morte, contro la solitudine, contro la paura. Per questo la volontà di costruire degli uomini si adempie nella costruzione del tempio, in quella costruzione in cui si invita Dio a entrare" (ivi, p. 100). Altre considerazioni ancora più specifiche del Papa possono chiarire quanto di insoddisfacente è avvenuto negli ultimi decenni segnalando come obbiettive carenze alcuni orientamenti prevalsi sia nelle indicazioni dei liturgisti che nelle concrete operazioni progettuali degli architetti. Tre in particolare queste carenze: la perdita della dimensione cosmica della liturgia, la perdita del suo carattere dinamico, la mancata accettazione della sfida imposta dalla dimensione epocale. La dimensione cosmica era la ragione profonda che suggeriva la preghiera rivolta verso Oriente, luogo di origine della Luce e simbolo del Cristo veniente. L'orientamento dei fedeli verso il sacerdote, non prescritto dal concilio, ma adottato poi come regola, se ha favorito l'auspicata actuosa partecipatio e la comprensione dell'evento liturgico ha però involontariamente messo in ombra che "Il vero spazio e la vera cornice della celebrazione eucaristica è tutto il cosmo" (La festa della fede, p. 112). Il rapporto di avvolgimento da parte dei fedeli nei confronti dell'altare e dell'ambone mettono sacerdote e comunità in un rapporto dialogico che esalta la dimensione comunitaria riferendosi all'interpretazione dell'Eucarestia come rievocazione dell'ultima cena. Una conseguenza negativa è stata però l'aver messo in ombra l'aspetto sacrificale del sacramento. "È troppo poco - scrive il Papa in La festa della fede (p. 120) - definire l'Eucarestia come banchetto della comunità. Essa ha costato la morte del Signore e solo perciò può essere il dono della Resurrezione". Saggiamente il rimedio a queste carenze non viene indicato in una ulteriore rivoluzione liturgica ma in una più consapevole interpretazione dei dettami del concilio al quale il Papa riconosce il merito di aver liberato la liturgia "dai veli in cui l'aveva avvolta la storia" così che "ci si è nuovamente presentata nella sua semplicità e grandezza". Il suggerimento semplice ed essenziale è che nel momento della consacrazione il sacerdote adotti, volgendosi a Oriente, lo stesso orientamento dei fedeli. Principalmente rivolto agli architetti sembra essere l'altra carenza indicata, quella della perdita del valore dinamico della liturgia che chiaramente si esprimeva nel rapporto tra la naos e l'abside come traccia del popolo di Dio in cammino verso la salvezza e il Cristo veniente. Indubbiamente gran parte delle chiese costruite dopo il Concilio negando non solo l'impianto longitudinale ma anche il dinamismo dello spazio processionale a vantaggio di un impianto equilibrato e racchiuso, hanno ridotto la chiesa a luogo di intrattenimento dimenticando due costanti dello sviluppo tipologico che splendidamente si svolse dall'età paleocristiana, al gotico, al rinascimento e al barocco: la profondità prospettica che esprimeva un percorso infinito, l'esodo "dai nostri poveri raggruppamenti per entrare nella grande comunità che abbraccia cielo e terra" (Cantate al Signore un canto nuovo, p. 208) e la vertigine verso l'alto che nelle cupole e nei tiburi in modo così eloquente esprimeva il fatto che come la Chiesa spirituale la chiesa costruita può esprimere "la forza di gravità che spinge verso l'alto esemplificata dal fuoco". Le case degli uomini - si legge in Popolo e casa di Dio in sant'Agostino - le pietre delle quali son trascinate da una spinta interna verso il basso, hanno bisogno di un fondamento che stia in basso e dal basso le sostenga, se non si vuole che tutto traballi e precipiti nell'abisso. Ma cosa avviene nella casa di Dio, nella chiesa? La sua spinta per forza di peso si dirige verso l'alto. Infatti là è il luogo delle sue pietre, gli uomini credenti. Così essa giustamente non ha il suo fondamento sotto di sé, bensì sopra di sé e quindi il suo fondamento è anche il suo capo" (p. 255). L'ultima e la più radicale delle critiche è rivolta agli artisti che credono. "La furia iconoclasta, i cui primi segni in Germania risalgono comunque già agli anni Venti, ha portato ad accantonare molto kitsch e molte opere indegne, ma, in definitiva, si è anche lasciata dietro un vuoto, di cui noi oggi torniamo a percepire con chiarezza tutta la miseria. Come si andrà avanti? Noi, oggi, non sperimentiamo solo una crisi dell'arte sacra, ma una crisi dell'arte in quanto tale, e con un'intensità finora sconosciuta. La crisi dell'arte è un altro sintomo della crisi dell'umanità, che proprio nell'estrema esasperazione del dominio materiale del mondo è precipitata nell'accecamento di fronte alle grandi questioni dell'uomo, a quelle domande sul destino ultimo dell'uomo che vanno oltre la dimensione materiale. Questa situazione può essere certamente definita come un accecamento dello spirito. Alla domanda su come dobbiamo vivere, su come dobbiamo affrontare la morte, se la nostra esistenza abbia un fine e quale, a tutte queste domande non ci sono più risposte comuni. Il positivismo, formulato in nome della serietà scientifica, restringe l'orizzonte a ciò che è dimostrabile, a ciò che può essere verificato nell'esperimento; esso rende il mondo opaco. Contiene ancora la matematica, ma il Lògos, che è il presupposto di questa matematica e della sua applicabilità, non vi compare più. Allora il nostro mondo delle immagini non supera più l'apparenza sensibile e lo scorrere delle immagini che ci circondano significa, allo stesso tempo, anche la fine dell'immagine: oltre ciò che può essere fotografato non c'è più nulla da vedere. A questo punto, però, non è impossibile solamente l'arte delle icone, l'arte sacra, che si fonda su uno sguardo che si apre in profondità; l'arte stessa, che in un primo momento aveva sperimentato nell'impressionismo e nell'espressionismo le possibilità estreme della visione sensibile, resta priva di un oggetto, in senso letterale. L'arte diventa sperimentazione con mondi che si crea da sé, una vuota "creatività", che non percepisce più lo Spirito Creatore. Essa tenta di prendere il suo posto e non riesce a fare altro che produrre l'arbitrario e il vuoto, che rendere l'uomo cosciente dell'assurdità della sua pretesa creatrice" (Introduzione allo spirito della liturgia, pp. 126-127). Con queste parole, dure e precise si chiede, agli artisti che credono, di impegnarsi in una sfida contro quella "vuota creatività" che non percepisce più lo "Spirito Creatore". "La chiesa - si legge nella Costituzione conciliare sulla sacra liturgia - non ha mai avuto come proprio un particolare stile artistico, ma secondo l'indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca". È giusto, sulla base di questa considerazione ineccepibile, accontentarsi di cantare in coro lo "spirito del tempo"? Di un tempo che celebra la "morte di Dio" annunciata da Nietzsche, come un destino universale al quale non ci si può sottrarre? All'alba del cristianesimo quale era lo spirito del tempo? Quello dei martiri e degli apostoli o quello dell'edonismo della Roma imperiale? L'impegno per un'arte sacra del nostro tempo ha precedenti di straordinaria qualità e rigore, da Rouault a Manzù, da Gaudí ad Aalto, da Schwarz a Michelucci. Per chi accetta la sfida c'è una strada maestra su cui procedere in avanti. "Anche oggi - si legge nell'Introduzione allo spirito della liturgia - la gioia in Dio e l'incontro con la sua presenza nella liturgia sono una forza inesauribile di ispirazione. Gli artisti che si sottopongono a questo compito non devono davvero sentirsi come la retroguardia della cultura, la libertà vuota da cui escono diventerà per essi motivo di disgusto. L'umile sottomissione a ciò che li precede è origine della libertà reale e li conduce alla vera altezza della nostra vocazione di uomini". (Paolo Portoghesi, ©L'Osservatore Romano, 19 ottobre 2009)
Cattolicesimo politico al tramonto: l’enigma della segreteria di Stato
Mi sono trovato a sostenere che le apparenze della defenestrazione di Dino Boffo, prodotte da una sceneggiatura inizialmente incomprensibile, avrebbero avvantaggiato le sinistre cattoliche, le diversissime “sinistre” di oggi, omologate dalla sindrome antigovernativa e dall’attesa che si autoavveri la profezia della fine della stagione ruiniana della Chiesa italiana. Il lungo intervento di Gianfranco Brunelli su “Il Regno” di fine settembre, “Cattolicesimo politico al tramonto. La condizione nuova del rapporto Chiesa e politica”, conferma, credo, la mia lettura. Involontariamente Brunelli rappresenta l’ideologia che ha accompagnato la multiforme opposizione all’”Avvenire” di Boffo e le attese suscitate dalle sue dimissioni. Dopo una ricostruzione rituale dell’attacco prodotto dal “Giornale” di Vittorio Feltri come atto di intimidazione da parte del premier e del governo nei confronti della conferenza episcopale e delle voci cattoliche critiche, Brunelli offre questa sua spiegazione dell’attacco: l’ultima vittoria elettorale di Berlusconi avrebbe talmente modificato a suo vantaggio i rapporti di forza con la Chiesa italiana, da rendere meno importante per lui conservare come partner la compagine costruita dal cardinale Camillo Ruini nell’arco di un quindicennio. Tra le numerose interpretazioni della transizione politico-ecclesiastica in corso, questa, che fa del Berlusconi politico un attore principale della crisi del modello Ruini, appare per quanto interessante la meno plausibile. Non si governa infatti un partito di cattolici “sui generis” qual è il Partito delle Libertà senza un confronto costante con i vescovi in quanto singoli e in quanto corpo episcopale. A Brunelli giova, però, sviluppare un paradosso: il centrodestra che si toglie di dosso la tutela della CEI di Ruini sarebbe comunque il segnale di una nuova, positiva, autonomia del sistema politico dalla Chiesa. “Il fatto che le dimissioni di Boffo, provocate dal centrodestra, abbiano rivelato la fine di una linea di politica ecclesiastica somiglia ad una sorta di eterogenesi dei fini”. La diagnosi è che, dopo la sconfitta dei cattolici democratici, con il fallimento del progetto politico di Romano Prodi, si sia anche “smarrita la possibilità della linea clerico-moderata”, vecchia categoria storiografica con cui Brunelli definisce l’incontro tra la “forte presenza pubblica della Chiesa” e la cultura politica liberale e cattolica del centrodestra. L’uscita da questo duplice fallimento o esaurimento di progetti sembra aprire per Brunelli una nuova, creativa, stagione di autonomia del laicato, vecchio miraggio del “cattolicesimo critico”. Ma quel che più colpisce è la misurata simpatia che il vicedirettore del “Regno” non nasconde per le ambizioni della segreteria di Stato vaticana. Non si tratta solo del celebre passo della lettera del 2007 del cardinale Tarcisio Bertone al presidente della CEI cardinale Angelo Bagnasco; Brunelli pensa al ruolo della segreteria di Stato entro e oltre la crisi Boffo. L’articolo sembra sostenere che negli anni i rapporti di una CEI troppo “politica” con i governi si siano oggettivamente trasformati in un affare di “rapporti istituzionali tra Chiesa e Stato”. Molto meglio allora che tali rapporti siano gestiti dalla segreteria di Stato, che ne avrebbe la competenza e lo strumento, il Concordato. Una duplice convergente decisione, del premier e del segretario di Stato vaticano, avrebbe cioè prodotto la fine della stagione di “cattolicesimo politico” di cui Boffo è stato perno importante; a vantaggio di un nuovo, istituzionalmente meglio definito, rapporto di vertice. Insomma, un presunto “ritorno” al pre-Ruini come razionale semplificazione, e recupero di laicità, del quadro politico-religioso italiano. A lucrare dalla crisi di “Avvenire” sono di sicuro, dunque, le astratte diagnosi e speranze dell’intelligencija cattolica. Ma perché anche il segretario di Stato vaticano meriterebbe un’attenzione così riconoscente “da sinistra”? Per capire dobbiamo integrare lo scenario in un primo tempo da noi costruito sulla convinzione che le accuse anonime che hanno affondato Boffo fossero prevalentemente un prodotto anti-ruiniano “da sinistra”. Cosa vediamo, oggi, a biglie ferme? Dietro alle apparenze sulla fine della “dominante politica” nella Chiesa italiana (tema incessantemente divulgato anche da Alberto Melloni), scopriamo in azione una volontà, emergente in organi alti di governo della Chiesa universale, di disciplinamento (non delegittimazione; qui Vittorio Messori sbaglia) delle conferenze episcopali. Estraneo come sono ad ogni “complesso antiromano”, desidero una segreteria di Stato forte. Ma è evidente il rischio che, per realizzare questo disegno di disciplinamento, si distrugga nella Chiesa italiana il meglio, cioè proprio la linea più in sintonia con questo papa e col predecessore, si abbandoni l’episcopato ai suoi conflitti, e infine si perda il polso della stessa situazione politica, che non è riducibile al rapporto con i governi. Vediamo. Sappiamo che la CEI costituisce, ancora oggi, un modello per altre conferenze episcopali decise ad operare e prima ancora ad esistere come qualcosa di più che assemblee “silenziose” o dominate da umori antiromani. Come mi scrive un amico, la conferenza episcopale italiana è proprio “un modello planetario di attaccamento alla sede apostolica. Un modello di quello che penso sia la visione autentica dello stesso Benedetto XVI per quanto riguarda le conferenze episcopali: fedeltà a Roma e capacità di organizzarsi per affermare una presenza pubblica”. La CEI ha fatto propri e implementati gli indirizzi del magistero papale in modo alto, per oltre due decenni. La rilevanza civile di quegli indirizzi (la questione antropologica tocca tutti!) ne faceva materia politica, ma non affari di Stato o tra Stati. Ne faceva fertile materia di contesa, perciò genuinamente politica, per gli attori della sfera pubblica italiana; contesa, lotta per l’influenza sulla decisione pubblica, legittima per i cattolici e i vescovi, non per il “secretarius” istituzionale del papa. Proprio nel caso italiano, l’intervento della segreteria di Stato, che si sospetta rivolto a colpire la linea Ruini, rischia di ottenere effetti opposti a quelli desiderati. Rimuovere, infatti, il disciplinamento ruiniano della CEI equivale a disordinare l’azione dei vescovi, da anni relativamente concertata, offrendo chance a gruppi e partiti ecclesiastici. Equivale ad indebolire la lunga esperienza di responsabilità pubblica della CEI, per un ritorno all’appartatezza “pastorale” e alle retoriche civili di singoli. La stessa oscillante valutazione data al “progetto culturale” – per Brunelli strumento principe dell’azione di Ruini e invece per Giovanni Maria Vian iniziativa evanescente – converge nel negargli, o sottrargli, la funzione di ricostruzione di una cultura cattolica pubblica comune. L’ho già scritto: in numerose diocesi si è agito, a partire dagli anni Settanta, come se la legittimazione “politica” dell’autorità episcopale dovesse venire ai vescovi dall’opinione pubblica, e specialmente dalle culture politiche di opposizione e denuncia. Un’opinione qualificata, anche cattolica, ha confuso questa nuova “political correctness” ecclesiastica nella sfera pubblica con un equilibrio ottimale tra autorità spirituali e politiche, con una conquista di laicità: gli uni non avvertendo, gli altri vedendo bene che invece si realizzava nei fatti e nel costume una impropria “privatizzazione” della peculiare, e irrinunciabile, natura pubblica della Chiesa. Ma se questo vale per singoli vescovi, la CEI ha compensato per anni le loro timidezze e difficoltà, locali, culturali, politiche, a prendere la parola in conformità all’insegnamento di Roma. Decidere improvvisamente oggi, in Italia, che sia la segreteria di Stato vaticana, dal vertice, a salvaguardare obiettivi e contenuti di una politica cattolica, con un episcopato diviso e nuovamente condizionato dalla dimensione locale, e con uno Stato invece “rafforzato” (come sostiene Brunelli) in virtù di un abbandono “pastorale” della sfera pubblica, sarebbe una decisione azzardata. Gli atti di indirizzo delle scelte civili cattolicamente rilevanti – che sono poi la affermazione del diritto naturale cristiano – hanno bisogno, tanto più in contesti pluralistici e “liquidi”, di una cultura locale e nazionale salda e coerente, che non è negli strumenti né nei poteri della segreteria di Stato come tale ottenere. Il modello CEI, retto sapientemente da uomini e istituzioni, era questo, nonostante opposizioni e contrasti. Che si sia pensato di rafforzare il profilo e il legittimo potere di indirizzo del primo ministro vaticano appesantendo ulteriormente l’attacco portato dal “Giornale” contro Boffo, e si sia contribuito così a decostruire un difficile equilibrio politico ed ecclesiastico, appare un serio errore di calcolo e di cultura politica. Specialmente escludendo che la segreteria di Stato sia sensibile alle sirene spiritualistiche del “ritorno della Chiesa alla profezia”. Il “liberi tutti” suggerito ai vescovi rispetto al metodo e al progetto complessivo del cardinale Ruini di fatto rende più difficile all’attuale presidente, il cardinale Bagnasco, un fermo governo della CEI. L’operato della segreteria di Stato vaticana può apparire, ben oltre i confini italiani, come una sconfessione di ogni progetto di milizia ordinaria del popolo cattolico e di esemplarità episcopale forte. Né si tratta di un operare isolato. L’infelice presa di distanza de “L’Osservatore Romano” dalle decisioni dell’arcivescovo di Recife, nel caso della bambina brasiliana madre di due gemelli fatta abortire, è stato un altro segno di uno stile di intervento della segreteria di Stato, tramite il giornale vaticano, irrituale e, sia concesso dirlo, autolesionistico: si può censurare un vescovo, mai se ne indebolisce pubblicamente, da Roma, l’autorità. Proprio come “mutatis mutandis” è accaduto nella vicenda Boffo. La sintomatica gratitudine “a sinistra” e la confusione a destra per la defenestrazione del direttore di “Avvenire” aggraveranno, dunque, tentazioni centrifughe e dissensi negli episcopati, senza accrescere per questo il prestigio né de “L’Osservatore Romano”, né della segreteria di Stato, né infine della Santa Sede. Le citazioni del papa nell’articolo di “Diana Alfieri” sul “Giornale” erano pretestuose. La battaglia contro Boffo, a vantaggio di “purezza e verità”, è stata condotta in maniera troppo strumentale. Nella tradizione cattolica non si procede mai così: con una squalifica pubblica, che danneggia tutti, per sanzionare eventuali vizi privati. Insomma, la segreteria di Stato rischia di avocare a sé molto disordine, ma poco su cui possa influire significativamente e pochissimo su cui possa esercitare il suo desiderato ruolo di guida. Niente di certo, ovviamente; solo scenari ipotetici. Comunque, crediamo, niente di irrimediabile, a condizione di correggere con intelligenza la rotta. (Pietro De Marco, Settimo cielo, 7 ottobre 2009).
Animatori laici “corresponsabili”: un modo nuovo di essere e di vivere la Chiesa.
Ho riletto con particolare attenzione il discorso introduttivo che il santo padre Benedetto XVI il 26 giugno di quest’anno ha rivolto alla chiesa di Dio che è in Roma, in occasione del convegno annuale diocesano. Nel rileggere quelle poche pagine vi ho scoperto dentro alcune novità che in prima lettura non avevo colto nella loro vera portata e nel loro non comune valore. Novità degne di essere attentamente sottolineate e sviluppate, perché non passino come affermazioni risapute e scontale. ma vengano prese in seria considerazione in funzione dei risvolti pratici che ne potranno conseguire. A qualcuno potrà sembrare esagerato definire particolarmente impegnativi gli orientamenti teologicopastorali che il santo padre precisa nella prolusione del suddetto convegno: sono convinto, invece, che debbano essere considerati come punti nodali di una sorta di lectio magistralis in miniatura. Lectio magistralis che, nella sua piccola ma intensa stesura, rivela di fatto lo stile lineare chiaro e stringato tipico dello scrittore, ma che tradisce, nello stesso tempo, l'impianto teologico forte e orientativo del professore Joseph Ratzinger, per lunghi anni docente in passato di materie teologiche nelle facoltà universitarie di Austria e Germania e ora padre, maestro e pastore della chiesa di Dio. Alcuni punti nodali - Ecco i punti nodali che, in maniera evidente, appaiono tra loro strettamente correlati: 1. Benedetto XVI parte col precisare l'unità inscindibile e imprescindibile - base di ogni costruzione cristologia e, di conseguenza, ecclesiologica - che corre tra il concetto di "corpo di Cristo" e "popolo di Dio": "Cristo ci unisce tutti nel sacramento per farci un unico corpo. Quindi, il concetto di "popolo di Dio" e di "corpo di Cristo" si completano: in Cristo diventiamo realmente il popolo di Dio. "Popolo di Dio" significa quindi "tutti": dal papa fino all'ultimo bambino battezzato». 2. Prima imprescindibile precisazione - questa - che ha avuto la sua base di atterraggio e insieme la sua pista di lancio soprattutto in occasione del concilio Vaticano II: “Il concilio Vaticano II, volendo trasmettere pura e integra la dottrina sulla chiesa maturata nel corso di duemila anni, ha dato di essa "una più meditata definizione», illustrandone anzitutto la natura misterica, cioè di "realtà imbevuta di divina presenza, e perciò sempre capace di nuove e più profonde esplorazioni» (Paolo VI, Discorso in apertura della seconda sessione, 29 settembre 1963)”. 3. Il santo padre, a riguardo, coglie anche il momento opportuno per ribadire e chiarire ancora una volta, in maniera sempre più esplicita e categorica, che il concilio non è stato né dev'essere considerato in contrapposizione o in rottura con l'ecclesiologia tradizionale della chiesa ma in continuità: "All'indomani del concilio questa dottrina ecclesiologica ha trovato vasta accoglienza e, grazie a Dio, tanti buoni frutti sono maturati nella comunità cristiana. Dobbiamo però anche ricordare che la recezione di questa dottrina nella prassi e la conseguente assimilazione nel tessuto della coscienza ecclesiale, non sono avvenute sempre e dovunque senza difficoltà e secondo una giusta interpretazione. (...) Posizione, questa, in aperto contrasto con la parola e con lo spirito del concilio, il quale non ha voluto una rottura, un'altra chiesa, ma un vero e profondo rinnovamento, nella continuità dell'unico soggetto chiesa, che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre identico, unico soggetto del popolo di Dio in pellegrinaggio». 4. Le conseguenze e i frutti del concilio non sempre né dappertutto sono stati però abbondanti e arricchenti e ciò non certo per incapacità del concilio ma chiaramente per colpa di noi discepoli del Signore Gesù, membri della chiesa che spesso abbiamo interpretato male o siamo stati incapaci o incoerenti o riduttivi nel coltivare i doni abbondantemente consegnati dallo Spirito: "Va riconosciuto che il risveglio di energie spirituali e pastorali nel corso di questi anni non ha prodotto sempre l'incremento e lo sviluppo desiderati. Si deve in effetti registrare in talune comunità ecclesiali che, ad un periodo di fervore e di iniziativa, è succeduto un tempo di affievolimento dell'impegno, una situazione di stanchezza, talvolta quasi di stalla, anche di resistenza e di contraddizione tra la dottrina conciliare e diversi concetti formulati in nome del concilio». 5. Perché possa verificarsi una vera e propria svolta radicale nel cammino missionario della chiesa nel mondo e quindi nella prassi testimoniale dei cristiani in seno alla società contemporanea, è necessario e urgente - come conditio sine qua non - una vera e propria conversione ecclesiale e una formazione più adeguata per un miglioramento di impostazione pastorale: "Fiduciosi nella grazia dello Spirito, che Cristo risorto ci ha garantito, dobbiamo riprendere con rinnovata lena il cammino... Occorre, in primo luogo, rinnovare lo sforzo per una formazione più attenta e puntuale alla visione di chiesa della quale ho parlato, e questo da parte tanto dei sacerdoti quanto dei religiosi e dei laici. Capire sempre meglio che cosa è questa chiesa, questo popolo di Dio nel corpo di Cristo. E necessario, al tempo stesso, migliorare l'impostazione pastorale, casi che, nel rispetto delle vocazioni e dei ruoli dei consacrati e dei laici, si promuova gradualmente la corresponsabilità dell'insieme di tutti i membri del popolo di Dio». 6. A questo punto il santo padre precisa in maniera categorica e chiara la necessità e l'urgenza della valorizzazione del laicato nella chiesa. Rivolgendosi ai parroci chiede con forza di dare manforte alla presenza e al servizio ministeriale dei laici nella pastorale ecclesiale, precisando che non basta parlare di collaborazione tra clero e laicato, ma che occorre parlare di corresponsabilità: "Ciò esige un cambiamento di mentalità riguardante particolarmente i laici. passando dal considerarli "collaboratori" del clero a riconoscerli realmente "corresponsabili" dell'essere e dell'agire della chiesa. favorendo il consolidarsi di un laicato maturo e impegnato. Questa coscienza comune di tutti i battezzati di essere chiesa non diminuisce la responsabilità dei parroci. Tocca proprio a voi, cari parroci, promuovere la crescita spirituale e apostolica di quanti sono già assidui e impegnati nelle parrocchie: essi sono il nucleo della comunità che farà da fermento per gli altri». 7. Anche a causa di questa carente valorizzazione del laicato la situazione di non poche chiese locali, a partire dalle parrocchie, non appare molto felice. Sono molte le fasce del popolo di Dio che di fatto sono assenti, disperse o comunque passive e indifferenti: "Molta strada tuttavia resta ancora da percorrere. Troppi battezzati non si sentono parte della comunità ecclesiale e vivono ai margini di essa, rivolgendosi alle parrocchie solo in alcune circostanze per ricevere servizi religiosi. Pochi sono ancora i laici, in proporzione al numero degli abitanti di ciascuna parrocchia che, pur professandosi cattolici, sono pronti a rendersi disponibili per lavorare nei diversi campi apostolici». 8. A questo punto il santo padre si chiede - quasi con la preoccupazione del pastore che vede lontano dall'ovile le pecorelle del gregge - cosa fare e come fare per avviare a buona soluzione il problema: Quali vie possiamo percorrere? Alla domanda egli stesso dà una sua particolare risposta: "La crescita spirituale e apostolica della comunità porta poi a promuoverne l'allargamento attraverso una convinta azione missionaria. Prodigatevi. pertanto, di ridar vita in ogni parrocchia, come ai tempi della "missione cittadina", ai piccoli gruppi o centri di ascolto di fedeli che annunciano Cristo e la sua Parola, luoghi dove sia possibile sperimentare la fede, esercitare la carità, organizzare la speranza. Questo articolarsi delle grandi parrocchie urbane attraverso il moltiplicarsi di piccole comunità permette un respiro missionario più largo, che tiene conto della densità della popolazione, della sua fisionomia sociale e culturale, spesso notevolmente diversificata. Sarebbe importante se questo metodo pastorale trovasse efficace applicazione anche nei luoghi di lavoro, oggi da evangelizzare con una pastorale di ambiente ben pensata, poiché per l'elevata mobilità sociale la popolazione vi trascorre gran parte della giornata». Il papa nel suo discorso interpreta fedelmente le preoccupazioni di noi tutti pastori e operatori pastorali impegnati nelle comunità parrocchiali e nei vari ambiti ecclesiali per comunicare il vangelo in un mondo che cambia. Quali le considerazioni più immediate? Riflessioni di commento - Alcune riflessioni a mo' di commento: la prima riguarda il rapporto clero-laicato, la seconda il rapporto chiesa-territorio, la terza il rapporto parrocchia-piccole comunità. Clero-laicato - Quella attuale è una situazione dura a mutare. Si spiega, però, anche se non si giustifica. Affonda le sue radici in un lontano passato, a partire almeno dal quarto, quinto secolo cristiano. Dopo l'Editto di Costantino il laicato, infatti, si trovò a vivere sotto la gestione ecclesiale sempre più rigidamente strutturata e lasciata in mano al clero. Ebbe inizio in tal modo un tempo di pura sottomissione del laicato alla gerarchia della chiesa. Bisogna aspettare l'avvento dell'Azione cattolica per sentir parlare di «collaborazione» del laicato con la gerarchia ecclesiastica (fine dell'800 e inizio del '900). Col concilio e con Paolo VI si passò dalla collaborazione alla partecipazione del laicato all'azione ministeriale della comunità cristiana. Con Giovanni Paolo II (cf. Christifideles laici, n. 15), e adesso con Benedetto XVI, si arriva finalmente al concetto di cui abbiamo parlato sopra, ossia alla corresponsabilità tra clero e laicato. Si tratta però solo di concetto inerente a tale passaggio. Anche su questo versante il vecchio proverbio popolare risulta molto eloquente: tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. La pastorale della chiesa, infatti, purtroppo è ancora in gran parte monopolio del clero. E d'uso dare ogni tanto alla pastorale una pennellata laicale, ma essa in pratica a tutt'oggi continua a rimanere pur sempre pastorale clericale. Il laicato di solito viene incaricato, per non dire usato, per svolgere servizi di supplenza là dove il clero non arriva. Si tratta pur sempre di supplenza - anche se in chiave di aiuto - o per meglio dire quasi di sudditanza e di dipendenza, mentre di per sé i laici sono deputati direttamente dal Signore Gesù a svolgere ministeri legati al triplice munus sacerdotale profetico e regale. Fino a quando non si riesce a scardinare questa situazione di manovalanza laicale di fronte al clero - ancora convinto di essere impresario, detentore esclusivo di incarichi da consegnare ad operai ingaggiati a ore come in una comune azienda umana - la pastorale della chiesa rischia di restare portatrice di handicap, anchilosata, bisognosa di continuo ininterrotto pronto soccorso. Il ruolo del clero consiste nel discernere, riconoscere, formare e guidare i servizi nella chiesa e non nel consegnarli o toglierli ai laici a proprio piacimento. La chiesa, infatti, è come una famiglia ove ogni battezzato dev'essere aiutato a scoprire e a realizzare, in comunione con ogni proprio fratello, ciò che lo Spirito consegna a tutti e a ciascuno per il bene comune. Il compito del clero è simile a quello del direttore d'orchestra che discerne, valorizza e guida il carisma che ogni musicista possiede già in sé per qualità e competenze che gli appartengono. Tutti i membri che fanno parte dell'orchestra - da chi dirige a chi suona gli strumenti: dalla tromba al violino all'oboe... al triangolo - sono chiamati a svolgere un compito proprio, in funzione dell'utilità comune, nel nome e all'insegna della corresponsabilità di tutti, anche se ovviamente in gradi, qualità e modi diversi. Chiesa-territorio - Sono tante, sono molte le categorie del popolo di Dio che si stanno allontanando dalla chiesa. Lo conferma anche il papa nel suo discorso su citato. Bisognerebbe fare come lo struzzo, del resto, per non vedere e non sentire e così mettersi al riparo da ogni responsabilità. Ma se le pecorelle che si disperdono sono diverse (gli studiosi di sociologia pastorale tra cui Franco Garelli e Luca Diotallevi parlano già dell'80%) non dovrebbe essere compito del pastore e degli operatori pastorali andarle a cercare e riportarle all'ovile? Se la gente non va più in chiesa - diceva Paolo VI - dev'essere compito della chiesa andare a trovare la gente. E la gente, da che mondo è mondo, costruisce e vive il suo habitat nel territorio. È stato il Verbo di Dio per primo a capirlo e a dame l'esempio: si è fatto uomo ed è venuto ad abitare (cfr 1Gv 1,14) in mezzo agli uomini. Il territorio - inteso non solo in senso geografico ma anche e soprattutto in senso antropologico e quindi culturale, interculturale, interetnico, interreligioso... - non è un surplus per la chiesa né una scelta opzionale o complementare o aggiuntiva alla sua missione, ma originaria, costituzionale, coessenziale al suo essere e al suo operare. Sicché la chiesa - a partire dalla parrocchia - non è quella che sta dentro il tempio (lo è semmai in minima parte) ma quella che sta fuori del tempio. Di conseguenza, non è tanto il territorio in funzione del tempio, quanto piuttosto il tempio in funzione del territorio. Ecco perché il vero problema di oggi - epoca in cui è tramontata la società cristiana tipica di un tempo per noi credenti in Cristo sta nel riuscire a passare da una pastorale di sacramentalizzazione ad una pastorale di evangelizzazione; da una pastorale di conservazione ad una pastorale di missione. Fino a quando non ci si convince e non ci si adopera per realizzare questo passaggio, la chiesa è destinata a vegetare in un pericoloso, sterile, contraddittorio ortus conclusus. I documenti ultimi della Cei - soprattutto Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia e quello venuto fuori a conclusione del formidabile convegno di Verona - finalmente ribadiscono con chiarezza e fermezza questa svolta missionaria. L'osservazione, anzi la domanda, però nasce spontanea: ma queste urgenze teologico-pastorali sono veramente da tutti recepite, accolte e condivise? O sono ancora lontane anni luce dall'essere fatte proprie dal laicato e dal clero di oggi? Il papa ha perfettamente ragione nell'affermare che occorre urgentemente un cambiamento mentale, una conversione pastorale degli operatori pastorali di oggi, a partire anzitutto dal clero. Se no, tutto rischia di proseguire come prima o, forse, peggio di prima. Parrocchia-piccole comunità - Questa terza considerazione è strettamente legata alla seconda. Sono molte le cause che stanno portando diversi ambienti cristiani alla deriva teologico-pastorale. Il popolo santo di Dio anche in Italia è già fortemente contagiato dalla mentalità materialista che va diffondendosi ormai in tutta la realtà contemporanea. Il rischio più grosso? Quello dell'individualismo edonista misto al relativismo etico. Se poi vi aggiungiamo quell'altro che i vescovi italiani chiamano analfabetismo religioso (cfr. Cei, Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, n. 40), potremo capire meglio la situazione in cui versa la gente delle nostre parrocchie, a partire dalle nuove generazioni. Ora, perché sono in molti ad allontanarsi e a disperdersi, non ci resta altro che uscire dal tempio e dalle nostre consuete abitudini - comprese quelle che magari per decenni sono riuscite in passato a dare buoni risultati - e andare a cercare le pecorelle smarrite e disperse. I tre ambiti tradizionali nei quali da sempre si è costituita la comunità cristiana - la catechesi, la preghiera, la carità - formano e debbono continuare costantemente a formare il quid, ossia la "struttura" portante del cammino dei cristiani. Su questo non si discute. C'è da discutere invece sul quomodo (le modalità) attraverso cui comunicare e portare avanti il quid di sempre (i contenuti). Spesso questi tre ambiti oggi rischiano di essere portati avanti teoricamente e settorialmente. Occorre invece che incrocino le culture locali, dialoghino con i linguaggi culturali del tempo presente, ascoltino le attese degli uomini di oggi in modo tale che l'unità tra vangelo, preghiera e carità avvenga dentro la coscienza di ciascuno, nell'unità della persona, nella vita quotidiana di ogni essere umano (cfr. Cei, «Rigenerati per una speranza viva» (1 Pt 1,3): testimoni del grande "sì" di Dio all'uomo, nota pastorale dopo Verona, n. 22). Il cristianesimo dei primi secoli si diffuse attraverso l'incontro ravvicinato di persone in ambiti comunitari fortemente motivati dall'ascolto della Parola, dalla preghiera e dal servizio fraterno: nelle cosiddette domus ecclesiae. Gli Atti degli apostoli e le Lettere di san Paolo ne danno testimonianza. L'anonimato di massa, la dispersione dei valori, l'individualismo - tipico fenomeno della società contemporanea - invocano il ritorno di questi spazi comunitari, al di là del tempio, nelle case, nelle famiglie, nei quartieri, nei condomini ove la gente vive e cioè là dove è possibile condividere la Parola, pregare, dialogare, vivere insieme il sensus ecclesiae. A queste piccole comunità o chiese domestiche o comunità ecclesiali di base - lievito nel territorio parrocchiale - il pastore-parroco affida la responsabilità pastorale delle strade e dei palazzi. Esse infatti non sono associazioni autonome o gruppi spontanei, ma sono la stessa parrocchia decentrata o per così dire ramificata nel suo territorio. Gli animatori laici, debitamente preparati ad hoc, fanno parte del consiglio pastorale sotto la guida dell'unico parroco-pastore. La pastorale parrocchiale in tal modo viene affidata al laicato. E l'avvento di un nuovo modo di essere chiesa e di vivere la chiesa. In questo senso, la ripresa del concilio, la corresponsabilità tra clero e laicato, le piccole comunità, di cui parla Benedetto XVI, sono da salutarsi con senso di gioia e di speranza. Se messe in pratica, infatti, queste indicazioni del santo padre imprimeranno certamente una vera e propria svolta alla pastorale della chiesa contemporanea. (Antonio Fallico, “Settimana”, 20 settembre 2009)
L'ora di Islam a scuola? Frutto di una ragione politica debole
La proposta di Gianfranco Fini e Massimo D’Alema di introdurre nelle scuole pubbliche l’insegnamento del Corano dice che ormai abbiamo bisogno di un criterio. Prima o dopo qualcuno doveva farla la proposta. Meglio che sia stata fatta, meglio che se ne discuta, ma per arrivare a un criterio che ci orienti per il domani. Perché richieste di questo genere sicuramente si intensificheranno man mano che la società multireligiosa avanza. Non si può affrontarle alla chetichella, bisogna avere un disegno. Io ne propongo uno. Lo strumento che la politica deve adoperare in questi casi non può essere quello religioso. Lo Stato è laico e quindi deve adoperare solo la ragione. Non si può quindi dire no all’insegnamento dell’Islam nelle scuole pubbliche per motivi di “cristianità”. La ragione politica, ossia quella che presiede al dibattito pubblico in ordine alla definizione del bene comune e che mira a costruire un consenso – razionale appunto – su cosa significhi la vita buona per la nostra nazione, non può essere indifferente davanti alle religioni. Non le può considerare tutte uguali. Quindi l’argomento quantitativo qui non trova posto. Si dice: ormai in certe zone 1 su 5 degli alunni delle scuole pubbliche è musulmano. Questo non è un argomento accettabile, perché bisogna chiedersi – con la ragione politica e quindi laicamente – se quella religione rientri nel concetto di bene comune che noi politicamente condividiamo e che è fissato, sempre provvisoriamente ma autorevolmente, nella nostra Costituzione. Se 1 alunno su 5 praticasse i riti woodoo, non avrebbe perciò titolo a pretendere dallo Stato una insegnamento apposito. Non essere politicamente indifferenti vuol dire in pratica esaminare con la ragione politica la capacità delle religioni di costruire il bene comune, di creare socialità come la intendiamo qui in Italia e come è scritto nella Costituzione; di corrispondere costruttivamente alla nostra civiltà, nella consapevolezza che essa non esprime solo una posizione di parte, ma incarna valori universali, come la libertà, l’uguaglianza, lo Stato di diritto, la parità uomo e donna, la famiglia tra un uomo e una donna a fondamento della società e così via. Inclusione non può voler dire spostarsi un po’ per far posto anche all’altro, a qualsiasi altro. Vuol dire costruire con la ragione un quadro di valori umani, una cornice del bene comune e dentro questa cornice far posto a chi la condivide, pur se di religione o di cultura diversa. Senza di ciò non si dà vera inclusione. Questo compito è eminentemente politico e la politica che se ne volesse esimere, limitandosi ad accogliere senza includere, non svolgerebbe il proprio ruolo. La ragione politica esamina quindi le religioni. Ha il dovere di farlo, proprio per il mandato ricevuto dai cittadini di orientare al bene comune, garantendo un pubblico dibattito razionale, nella libertà e nella partecipazione, considerati essi stessi valori appartenenti al bene comune stesso. Questo infatti non riguarda solo cosa si fa, ma anche come lo si fa. Da un simile esame risulta che alcune religioni promuovono l’accoglienza e la dignità umana, valorizzano la libertà e l’uguaglianza, danno garanzie sul rispetto dello Stato di diritto contro ogni forma di integralismo o fanatismo politico. In primo luogo questo è il caso del Cristianesimo, come dimostra il fatto stesso della nostra vita politica attuale, frutto non di una qualsiasi civiltà, ma di una civiltà nata dal cristianesimo. Se oggi ci si trova a discutere se aprire o meno l’insegnamento dell’Islam nelle scuole pubbliche lo si deve anche ai principi di libertà frutto della civiltà cristiana. Nei paesi musulmani non si apre nessun dibattito analogo e speculare. Ma è il caso anche di altre religioni. Ci si chiede se sia il caso dell’Islam. Su questo possiamo almeno dire che la questione è aperta e che meriterebbe un approfondimento che la politica non può esimersi dal fare. L’accoglienza non può consistere nell’includere un corpo estraneo, che rimarrà tale anche se incluso, e che metterà in pericolo la necessaria solidarietà del corpo politico su alcuni fondamentali baluardi della dignità umana. Da questo punto di vista sono da condividere le tesi espresse domenica mattina dal Cardinale Bagnasco in un’intervista al Correre della Sera. La nostra identità, non intesa in senso esclusivista e chiuso ma vista come condivisione matura e razionale di alcuni valori legati alla dignità della persona e ai fondamenti della società, verrebbe compromessa se si accogliesse nella scuola pubblica l’insegnamento dell’Islam. Il discorso di Bagnasco però non deve essere inteso solo in senso storico e culturale. Come quando si disse, a proposito del Concordato, e si dice tuttora per l’ora di Insegnamento della religione cattolica, che senza conoscere il cristianesimo non sarebbero comprensibili la nostra arte o la nostra letteratura. Certo, anche questo, ma non solo questo. La ragione politica deve anche misurarsi con la verità delle religioni e considerare se i loro insegnamenti sono utili al bene comune o meno. Non si tratta di limitare la libertà di religione, ma di vedere se e quando lo Stato possa assumere pubblicamente un rapporto con una religione. Il criterio laico, razionale e politico non può essere che uno: quando quella religione non contraddice i diritti fondamentali dell’uomo, non si oppone su punti qualificanti al bene comune, non predica la violenza o non discrimina la donna. Certo che per fare questo la ragione politica deve concepirsi come “capace di verità”, in grado di fissare dei principi non convenzionali, in altre parole di non essere relativista sul piano dei valori. Perché allora sì varrebbe solo la maggioranza, ma in questo caso anche i praticanti i riti woodoo potrebbero pretendere un riconoscimento pubblico e il loro inserimento negli insegnamenti scolastici. Come si vede, non si tratta delle forza dell’Islam, ma della debolezza della nostra ragione politica. (Stefano Fontana, L'Occidentale, 19 ottobre 2009)
18 ottobre 2009
La legge sull'omofobia è una minaccia alla libertà? Un'eventuale legge italiana contro l'omofobia, in recepimento di una risoluzione del Parlamento Europeo, potrebbe limitare fortemente la libertà delle persone e la libertà religiosa. È stata bocciata alla Camera dei Deputati la proposta di legge C-1658 contro l'omofobia, presentata dal Partito Democratico, a prima firma di Paola Concia. La proposta prevedeva l'inserimento nel Codice Penale di "reati commessi per finalità di discriminazione o di odio fondati sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere". Cerchiamo di capire meglio. L'iniziativa recepisce una risoluzione del Parlamento Europeo del 18 gennaio 2006 in cui l'omofobia è definita "una paura e un'avversione irrazionale nei confronti dell'omosessualità e di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali (GLBT), basata sul pregiudizio". Come "pregiudizio" si intende ogni giudizio morale contrario all'omosessualità e alle deviazioni in campo sessuale. Quando esso si esprime in scritti o discorsi pubblici che non pongano su un piano di assoluta eguaglianza ogni tendenza e orientamento sessuale, può essere considerato come contrario al rispetto dei diritti dell'uomo ed essere oggetto di sanzioni penali. Lo stesso principio è enunciato dall'art. 21 della Carta fondamentale dei Diritti del cittadino di Nizza, resa giuridicamente vincolante dal Trattato europeo di Lisbona. Nel commentare l'iniziativa, il professor Roberto De Mattei ha spiegato in un dettagliato articolo pubblicato su "Radici Cristiane" (n. 48 - Ottobre 2009) che "se questa legge passasse e fosse applicata in modo coerente, sarebbe impossibile, o quanto meno rischioso, criticare l'omosessualità e presentare la famiglia naturale come 'superiore' alle unioni omosessuali. Un'istituzione ecclesiastica non potrebbe rifiutarsi di designare come suo rappresentante una persona che non faccia mistero delle sue tendenze omosessuali. Nessuno Stato, ma anche nessuna Chiesa, potrebbe rifiutare di celebrare un matrimonio di coppie dello stesso sesso. Catechismi e libri sacri che condannano l'omosessualità come peccato 'contro-natura' potrebbero essere ritirati dal commercio". In merito alla possibilità di una legge europea che avrebbe impedito il rifiuto della pratica omosessuale, il 1° aprile 2005 l'allora Cardinale Joseph Ratzinger, in occasione della consegna del "Premio San Benedetto per la promozione della vita e della famiglia in Europa", conferitogli dalla Fondazione Sublacense Vita e Famiglia, ebbe a dire: "Il concetto di discriminazione viene sempre più allargato, e così il divieto di discriminazione può trasformarsi sempre di più in una limitazione della libertà di opinione e della libertà religiosa. Ben presto non si potrà più affermare che l'omosessualità, come insegna la Chiesa cattolica, costituisce un obiettivo disordine nello strutturarsi dell'esistenza umana". "È evidente - spiegava il Cardinale - che questo canone della cultura illuminista, tutt'altro che definitivo, contiene valori importanti dei quali noi, proprio come cristiani, non vogliamo e non possiamo fare a meno; ma è altrettanto evidente che la concezione mal definita o non definita affatto di libertà, che sta alla base di questa cultura, inevitabilmente comporta contraddizioni; ed è evidente che proprio per via del suo uso (un uso che sembra radicale) comporta limitazioni della libertà che una generazione fa non riuscivamo neanche ad immaginarci. Una confusa ideologia della libertà conduce ad un dogmatismo che si sta rivelando sempre più ostile verso la libertà". Il prof. De Mattei ha ricordato che nelle parole del Catechismo di San Pio X l'omosessualità è un peccato che "grida vendetta al cospetto di Dio" e la Sacra Scrittura e i Padri della Chiesa hanno bollato l'omosessualità come un "abominio" (Levitico, 20,13). Secondo il prof. De Mattei, la moda, la televisione, il cinema e la politica stanno diventando ambiti sociali privilegiati della lobby omosessuale. All'ultimo Festival di Venezia, conclusosi lo scorso 12 settembre, il tema ricorrente dei film in rassegna è stato l'omosessualità. Prima della proiezione del film A single man di Tom Ford, che si è aggiudicato il Queer Lion attribuito dalla comunità gay alla migliore opera omo, lesbica o trans, il presidente onorario dell'Arcigay Franco Grillini e alcuni esponenti politici di sinistra hanno tenuto un sit-in contro l'omofobia. Il 29 giugno 2009 il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha ricevuto alla Casa Bianca circa 250 leader e attivisti delle principali organizzazioni gay, lesbiche e transgender in occasione dei 40 anni della nascita del movimento per la difesa dei diritti omosessuali. Lo stesso Obama, in un'intervista pubblicata il 3 luglio da "Avvenire", ha affermato che la comunità gay-lesbica degli Stati Uniti viene "ferita da alcuni insegnamenti della Chiesa cattolica e della dottrina cristiana in generale". Per questi motivi, il prof. De Mattei ha concluso affermando che "se il reato contro l'omofobia fosse varato così com'è, sarebbe uno scandalo e un'occasione di profonda riflessione per l'elettorato cattolico, continuamente tradito dai propri rappresentanti in nome dell'aberrante principio del "politicamente corretto". (Antonio Gaspari, Zenit, 11 ottobre 2009)
Sacra Sindone: “La Repubblica” ha torto, affermazioni false, prive di rigore scientifico Documentarista e grande appassionato di storia, David Rolfe lavora per l’azienda di produzione audiovisiva inglese “Performacefilms” per la quale ha realizzato centinaia di lungometraggi. Nel 1976 girò “The silent fitness”, Il testimone silenzioso. Un documentario che aveva per oggetto la Sacra Sindone di Torino e per il quale è stato insignito del British Academy Award. Nel 2008 ha realizzato un nuovo documentario per la BBC che rimette in discussione le conclusioni del 1988 cui erano giunte le commissioni di studio sulla reliquia. Ecco la sua intervista concessa a “Il Sussidiario.net” in merito alle presunte dichiarazioni di alcuni membri del Cicap che, in un’intervista ospitata sul quotidiano “La Repubblica”, sostengono di essere riusciti a dimostrare come la Sindone altro non sia che un falso medievale D. Dottor Rolfe, che cosa l’ha spinta a realizzare il suo documentario sulla Sindone per la BBC? Fin dalla prima giovinezza ho avuto un profondissimo interesse per tutto quello che circonda la Sacra Sindone. Un interesse che ha potuto concretizzarsi nel lavoro che realizzai nel 1976, quando portai a compimento il mio primo documentario sull’argomento. Si trattò di un lavoro che ebbe riscontri planetari per il quale vinsi il British Academy Award. La mia passione per gli studi sindonologici non è mai cessata. Prendendo contatto con i responsabili del Centro Internazionale degli studi sulla Sindone ho avuto il permesso e la grande fortuna di realizzare un secondo documentario che la BBC è stata a sua volta ben contenta di trasmettere. D. In Italia ha suscitato scalpore un articolo apparso su uno dei maggiori quotidiani nazionali che mette in dubbio l’autenticità della Sindone definendola un manufatto medievale. Per come si conoscono le cose è possibile affermare una cosa simile? Ho avuto anch’io, qui in Inghilterra, la possibilità di dare un’occhiata all’articolo e devo dire che la pretesa di quegli scienziati di aver scoperto un possibile metodo utilizzato dai medievali per creare un falso è totalmente errata. Vorrei dire due cose a riguardo. In primo luogo da quando venne realizzato il famoso esame del C14 in molti si sono sbizzarriti a pensare le più diverse ipotesi sulla creazione della Sindone. Nel tempo l’opinione di molte persone si è fortificata nel convincimento che si tratti di un artefatto medievale. In effetti, alla prova del C14 le possibilità che si trattasse di un reperto del medioevo erano molte. Ma il mio film dimostra come invece ci siano parecchie incoerenze storiche e parecchie prove dell’esistenza della Sindone prima della data riportata dall’esame. La seconda osservazione è che lo stesso professor Christopher Bronk Ramsey dell’università di Oxford che ha condotto il test del carbonio 14 vent’anni fa ha dichiarato che l’argomento deve essere riesaminato per gli innumerevoli fattori chimico fisici che possono aver influenzato la resa del test. D. Il metodo utilizzato dal professor Garlaschelli, del centro CICAP, è consistito nell’utilizzo di un lino, tessuto a spina di pesce, dove è stato disteso un volontario al quale erano state sporcate di ocra le parti del corpo più in rilievo. Per il volto è stato utilizzato un bassorilievo di gesso. Per invecchiare invece il tessuto il lino è stato scaldato per tre ore a una temperatura di 250 °C e lavato in lavatrice con sola acqua. Le sembra un metodo convincente? Lo stesso professor Garlaschelli, inconsapevolmente, ha dimostrato come non possa essere attendibile la procedura utilizzata per la riproduzione dell’immagine del sudario. Per riuscire a fare qualcosa di convincente devi realizzare una reliquia artificiale che abbia tutte le stesse caratteristiche dell’immagine del sudario. Se si legge con attenzione l’articolo si nota che Garlaschelli dice «con tempera liquida sono stati poi aggiunti i segni dei colpi di flagello e le macchie di sangue». Abbiamo capito bene? Dopo aver riprodotto l’immagine hanno piazzato su il sangue. Evidentemente Garlaschelli ignora che nel 1978 è stato scoperto inequivocabilmente che il sangue sulla Sindone si è riversato prima che si creasse l’immagine. È molto facile, una volta che hai l’immagine di un corpo su un tessuto, aggiungere il sangue nei posti giusti, ma è molto difficile, una volta messo prima il sangue, far coincidere un’immagine di quel tipo. Quindi il professore che ha avuto la pretesa di dire di aver creato un’immagine con le stesse caratteristiche della Sindone ha affermato una cosa non corretta perché nella Sindone ci sono caratteristiche che la sua copia non ha. D. Per quale motivo secondo lei l’approccio scientifico alla Sindone è spesso caratterizzato da un pregiudizio negazionista? Il metodo che la scienza persegue molto spesso procede con prove negative, è raro che la scienza porti prove in positivo. Ed è anche giusto, perché sennò c’è il pericolo di fare affermazioni dogmatiche. Quando la Sindone si presentò sotto un profilo scientifico portò con sé un’innumerevole serie di prove a favore della sua autenticità. Quindi schiere di scienziati si presentarono con l’intenzione di smentirle una ad una. Ma c’è un fatto. Chi sostiene un’ipotesi del genere, o vuole iniziare uno studio con un metodo del genere, non considera tutti i fattori rispetto alla Sindone. La Sindone, per essere appieno studiata e compresa, ha bisogno del contributo di molti altri contributi derivanti da diversi campi dello scibile umano. In ballo c’è la storia, la geografia, la storia dell’arte, la chimica, la fisica e molto altro ancora. Pertanto ritengo che sia molto difficile per qualcuno che abbia davvero approfondito tutte queste conoscenze smentire l’autenticità della Sindone. Mentre è molto facile che chiunque si approcci al sudario con poca conoscenza e molti pregiudizi se cerca di trovare una ragione o una scusa scientifica di negarne la validità la trovi. Ma non si troverà nessuno che abbia studiato la Sindone a fondo e che abbia al contempo questo atteggiamento. D. Dopo la realizzazione del suo documentario è andato avanti a investigare sul mistero della Sindone? Sono molto contento di dire che abbiamo fra le mani un altro progetto che speriamo possa essere completato prima dell’ostensione del 2010. Si tratta di un lungometraggio che concluderà il lavoro che abbiamo iniziato nell’ultimo documentario e fornirà una spiegazione del fatto che l’esame del C14 abbia necessità di essere ripetuto. È la cosa a cui sto lavorando più intensamente in questo momento. (Raffaele Castagna, Gabriele Ferré, Il Sussidiario, 7 ottobre 2009)
Edith Stein e la preghiera: La scala di Giacobbe Una delle relatrici del secondo congresso internazionale "Mística y pensamiento contemporáneo", svoltosi ad Ávila e dedicato alla figura di Edith Stein - nel decennale della sua proclamazione a compatrona d'Europa - ha sintetizzato per "L'Osservatore Romano" il suo intervento. L'avventura esistenziale di Edith Stein mostra due volti: conoscitivo, con la sua proiezione sulla scena filosofica, e mistico, nello sviluppo della sua vita interiore; senza luogo di frattura, di dicotomia e neppure di soggezione dell'uno all'altro, evitando lo scoglio di pesanti ricadute dal sapore di rinuncia antropologica. Come vi riuscì? Con la scoperta dell'empatia, dell'Einfühlung. L'aspetto quanto mai intrigante è il reale nesso fra tutto il suo pensiero antropologico e la sua spiritualità carmelitana: abitavano in lei due fonti, la "fonte vitale", il soggetto e il corpo, intesi secondo la scuola di Husserl, e la "fonte nascosta", l'essere dell'anima che vennero ricomponendosi in una sintesi, in cui ciascun elemento acquisì la sua portata e la sua consistenza esatta, un continuum che non conosce frattura fra vita della mente e relazione con Dio, secondo la spiritualità del Carmelo. Per la fenomenologa la riflessione filosofica è "un abbozzo del senso del suo vivere", mentre la relazione personale fra la persona e Dio, cioè la mistica, si trova al vertice di somiglianza e differenza. Stein ha letto, con metodo fenomenologico, Teresa di Gesù e Giovanni della Croce, il loro esperire la relazione con Dio, e vi ha portato chiarezza di pensiero, in sintesi di ragione filosofica, riflettendo sulla figura umana, delineata non come oggetto di leggi deterministiche ma quale fulcro di intersoggettività con se stessa, gli altri e Dio, in un tempo storico e culturale in cui tale ottica si stagliava fra il disorientamento e i frammenti abbandonati che non riuscivano a ricomporsi in un'unità. Chiaramente consapevole della possibile confusione che si potrebbe creare fra ambiti creduti affini; per questa ragione ne definisce i campi. Stein delinea la genesi della sua ricerca sull'empatia e la colloca in un seminario di Husserl sulla natura e lo spirito, in cui il maestro parlava di un'esperienza che definiva Einfühlung, "ma non spiegava in che cosa consistesse". L'empatia però conobbe in lei uno sviluppo ulteriore. Nel corso della fatidica notte di Bad Bergzabern, la filosofa sperimentò Dio come fonte di senso, salvezza nel dolore, nell'angoscia e nell'assurdo, e Gesù Cristo come "la "via" al di fuori della quale nessuno arriva al Padre". Cercava non essendo ancora credente, ma "accolse" il dono di grazia. Da questo momento in poi, Edith Stein esprime due sfaccettature di sé: la vita dello spirito e la vita nel mondo, con la certezza della "strada del cielo". L'esperire l'iniziativa di un Altro è simultanea per lei alla sua percezione di vita carmelitana e quindi della "salita" al senso dell'essere, cioè il cammino dei mistici che intraprese sui due fronti: intellettuale ed esperienziale. È possibile quindi un'affermazione, per certi aspetti audace: "Stein luogo di riflessione filosofica e di esperire mistico", che vuole dedicarsi a una filosofia costruita in modo particolare, una "filosofia della vita". Apre infatti sentieri e riflessioni proprie, illuminando le modalità dell'alterità, quando questa si presenti alla coscienza conoscente, proprio con l'atto empatico, cioè con il "rendersi conto", tuttavia si schiude pure a una conoscenza mistica perché l'incontro postula due persone che si riconoscono. In questa intuizione, Edith Stein traduceva il suo profondo ascolto della vita femminile. Negli scritti posteriori alla conversione di Stein però non troviamo una ricerca specifica di approfondimento sull'empatia; non solo, il termine spesso neppure ricorre. Tuttavia rimane l'impianto preciso dell'empatia che dimostrerà un volto di pienezza diverso, ormai teologico e diventerà l'"atto della relazione personale-esistenziale Io-Tu" e investirà tutta la sfera dell'esperienza religiosa esprimendosi come agape, come dono. Stein vive l'adesione e l'accoglienza interiore, che diventano esperire vitale e oggettivo, e si palesano nella preghiera contemplante, nell'ascoltare e nel gustare, in quella che Giovanni della Croce chiama "avvertenza amorosa"; ormai coglie per via empatica il Signore Presente, non cerca giudizi, ma esperisce immediatamente. Giovane studentessa aveva definita l'empatia lo strumento per la conoscenza di sé nel rapporto con gli altri, ormai carmelitana e studiosa matura, ne Il castello dell'anima, aveva indicato la stessa postura come "la porta del rapporto con gli uomini", senza peraltro servirsi del termine empatia, perché ormai la sua indagine si muoveva in campo prettamente spirituale. Su questa postura si apre, quasi a fioritura, la via della conoscenza di sé attraverso l'unione con Dio. La relazione fra la persona e Dio non è forse un atto personale ed esistenziale di relazione, non è atto empatico? Edith Stein non aveva definito l'empatia "atto fondamentale degli atti", "atto dell'amore", apertura amorosa in cui trovano senso tutti gli atti di un essere umano. La relazione con Dio non si dimostra quindi l'atto fondamentale, l'atto di amore per eccellenza? Se l'empatia è rivolta e sperimentata con tutte le altre persone, perché non si può sperimentare anche con l'Uomo-Dio, con Gesù? Perché Edith Stein, in questo contesto e in tutto il laborioso travaglio della ricerca non si è mai servita del termine empatia, mentre il procedimento si lascia scorgere ed è usato? Perché è la fede ormai a determinare questa scelta optata deliberatamente. La visione del mondo e della persona instauratasi è prettamente teologica e mistica, in questo rapporto l'Io di Dio non è soggetto o oggetto di empatia ma di accoglimento nella fede; nella relazione invece fra Dio e la persona l'empatia è atto fondante e mostra il suo volto di orazione. In questo senso scrive: "La preghiera è la più grande opera di cui lo spirito dell'uomo sia capace. Ma non è solo opera umana. La preghiera è una scala di Giacobbe, su di cui lo spirito dell'uomo sale a Dio e la grazia di Dio scende all'uomo". In Edith Stein, giovane fenomenologa, mancava l'interesse metafisico con il suo fondale che, invece, emergerà quando conoscerà Teresa di Gesù e Il castello interiore, mentre Giovanni della Croce le donerà il centro interiore che lei saprà assumere e declinare fenomenologicamente, diventando così canto di unità dell'intera esperienza vissuta della fenomenologa e dell'esperire della mistica. (Cristiana Dobner, ©L'Osservatore Romano, 15 ottobre 2009)
I religiosi e l'aggiornamento della carità La semplicità divina è la carità, l'amore del Dio tre volte santo. L'autentica riforma della Chiesa passa allora anche nel campo delle sue opere sociali attraverso la via dell'amore: chi intende operare per il rinnovamento delle attività ecclesiali di servizio dovrà anzitutto tornare al primato dell'amore, pronto a vivere un nuovo "esodo da sé senza ritorno" (Emanuel Lévinas) sulla strada esigente e coraggiosa della carità. Sorgente viva di questa carità è Gesù, il Cristo. Nella sua prima Enciclica, la Deus caritas est, Benedetto XVI sintetizza così questa convinzione centrale: "Abbiamo creduto all'amore di Dio - così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva" (n. 1). Gesù Cristo è "l'amore incarnato di Dio" (nn. 12-15): a Lui occorre tornare per essere rigenerati nel dono della carità per gli uomini. La carità nasce dall'incontro d'amore col Cristo e vive di questo incontro sempre nuovo. Rapita dall'amore delle cose celesti, la Chiesa è fatta per vivere questo amore nel lungo intervallo che sta tra la Croce di Cristo e il tempo della gloria, quando il Risorto tornerà circondato dagli angeli e dai santi. Quest'arco temporale può essere evocato nell'immagine del sabato santo, tempo del desiderio e del ricordo, tempo della memoria, della speranza e dell'attesa, ora preziosa della fede custodita da Maria e della carità da Lei vissuta nella compassione, ma anche tempo dell'oscurità e della prova dei discepoli, segnati dalla fatica del vivere e del morire. La Chiesa dell'amore vive la sua carità nel sabato del tempo, frammista alle opere e ai giorni degli uomini: il suo programma non potrà mai essere quello di una fuga mundi, di una ricerca di Dio in extremis, ma dovrà costruirsi nell'obbedienza alla Parola della vita sempre e totalmente nella storia, nel mezzo del villaggio, dove c'è il silenzio delle lacrime, il chiasso del mercato, la festa della lode e la pesante durezza della bestemmia. Il discepolo di Gesù è colui che ha tempo per gli altri, come il suo Dio che ha avuto tempo per lui: vive, cioè, la carità nel sabato del tempo, nella sequela dell'Amato di fronte alle sfide sempre nuove della storia. Tutto questo non è scontato, deve anzi essere sempre di nuovo motivato, attraversando a volte passaggi epocali, vivendo conversioni di mentalità e di stili radicati: e questo risulta necessario soprattutto nelle comunità religiose, spesso tentate dalla conservazione tranquillizzante, sebbene per vocazione chiamate alla riforma coraggiosa e continua, in obbedienza alle esigenze del Vangelo e ai segni dei tempi. Ecco perché occorre motivare l'impegno sociale come forma autentica di fedeltà al Dio, cui si è consacrata la propria vita. Vorrei riflettere sul Vangelo della carità quale sorgente, anima e scopo delle opere della comunità cristiana, attraverso una rilettura evocativa della Costituzione del concilio Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes e alla luce dell'enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI: se la Costituzione conciliare è come un testo fondante del rapporto fra Chiesa e mondo, l'enciclica mette a fuoco l'anima profonda di questo stile di vita e di impegno. "Il programma del cristiano - afferma il Papa - è "un cuore che vede". Questo cuore vede dove c'è bisogno di amore e agisce in modo conseguente" (n. 31). Dobbiamo ascoltare i gemiti dello Spirito dovunque siano presenti nel cuore dell'uomo e nel cuore della storia per aprirci al dono di Dio. È la teologia dei segni dei tempi riscoperta e riproposta dal Vaticano ii e di cui si innerva la seconda parte della Deus caritas est, dedicata all'esercizio concreto dell'amore da parte della Chiesa. Qui risulta particolarmente chiaro che l'atteggiamento del cristiano nel mondo non potrà essere unidirezionale, come di chi pensasse di avere tutto per dare a chi non ha niente, ma deve diventare quello di chi vive la fatica di un rapporto vivo e complesso con l'altro, riassumibile in un triplice compito: non dedurre mai la storia dal Vangelo; non ridurre mai il Vangelo alla storia; mantenere sempre in una tensione feconda il Vangelo e la storia. Se la Chiesa del Vaticano II è l'"Ecclesia semper reformanda", "semper renovanda et purificanda", non di meno sono chiamati a rinnovarsi e riformarsi i religiosi nello spirito dello stesso concilio. Realizzare e gestire le opere della carità non è compito che possa sottrarsi alla fatica di un tale "aggiornamento": e la sola condizione possibile per adempierlo è vivere lo stile del discernimento spirituale e pastorale attento ai segni del tempo, aperto all'ascolto della Parola e capace di coniugare le due fedeltà - a Dio e alla storia - nell'unico amore di carità. Ciò richiede libertà dalla paura del nuovo e dalla nostalgia del passato, disponibilità a mettersi in gioco con coraggio, fiducia nell'azione sempre nuova e fedele dello Spirito nel tempo. Solo così potremo trovare le chiavi che ci aiutino a discernere i tempi che stiamo vivendo e arriveremo a ipotizzare nuovi percorsi di carità, o perlomeno modi nuovi per incarnarla credibilmente nell'oggi. Solo così potremo comprendere se e come nella varietà dei contesti la profezia della vita religiosa dovrà essere più "visibile" o più "anonima", più "istituzionale" o più "di frontiera", più "creativa" o più "gestionale" e "organizzata". Sulla via di un tale ascolto, sincero e docile dello Spirito, potremo trovare - se necessario - il coraggio di lasciare quello che il welfare dello Stato già garantisce per "buttarci" sulla strada, in ascolto dei nuovi poveri e delle nuove povertà, confidando più nella Provvidenza di Dio che sulla previdenza degli uomini. Inoltre, sarà solo un attento discernimento che potrà farci comprendere il ruolo preciso della collaborazione dei laici, interessati in prima persona a capire come coniugare la loro professionalità con la necessità di testimoniare il Vangelo e come aiutare i religiosi del proprio istituto a essere fedeli al carisma del loro fondatore. Nell'enciclica Caritas in veritate Benedetto XVI avanza in proposito un'idea di grande fascino, che appare suffragata dall'esperienza delle varie forme di "finanza etica" e di "economia di comunione" che vanno sviluppandosi nel mondo: la rilevanza del principio di gratuità in economia (n. 34). Il Papa lancia in tal modo un messaggio di estrema attualità: senza regole etico-sociali oggettive lo slancio della solidarietà e l'impresa economica sono a rischio per tutti; senza carità l'economia implode, perché resta priva della forza stessa della verità. Questo "principio di gratuità" dovrebbe essere tenuto sempre presente nella conduzione economica delle nostre opere, sia a livello di programmazione, che di esercizio, che di reinvestimento di eventuali utili. Guai se l'economia delle nostre famiglie religiose fosse guidata da una mera logica garantista o di profitto! (Bruno Forte, ©L'Osservatore Romano, 15 ottobre 2009)
La mentalità antivita e le conseguenze per la famiglia I criteri della cultura della morte rappresentano una minaccia per la società a partire dal suo nucleo fondamentale, la famiglia. Lo ha affermato l'orientatrice familiare Elizabeth Bunster, cofondatrice del Proyecto Esperanza (Progetto Speranza), nell'intervento sul tema “Conseguenze della mentalità antivita all'interno della famiglia”, pronunciato durante l'Incontro Latinoamericano di Azione per la donna, svoltosi all'Università Cattolica di San Paolo di Arequipa (Perù) alla fine di settembre. L'obiettivo principale del Proyecto Esperanza è quello di dare accompagnamento pastorale e psicologico alle donne che hanno abortito perché trovino la riconciliazione nella loro vita. L'entità presta i suoi servizi pastorali in Cile, Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia, Nicaragua, El Salvador e Costa Rica. Secondo Elizabeth Bunster, la famiglia ha subito vari attacchi vedendo disconosciuto il suo ruolo naturale e storico nella vita della società e debilitata “l'indissolubilità del matrimonio, vincolo tra un uomo e una donna”. L'esperta ha definito negativo il fatto che la società modifichi il concetto di famiglia “non fornendo sostegno alle famiglie che desiderano vari figli, e ancor di più proibendo loro di essere numerose o di promuovere la fertilità come se fosse una malattia e i figli un peso”, nonché “respingendo il diritto insostituibile dei genitori di educare e trasmettere i valori autenticamente umani alle nuove generazioni”. “La famiglia è attaccata e messa alle strette in una cultura materialista, molte volte con l'impossibilità di un lavoro degno e stabile, non protetta dai sistemi statali e dalle politiche pubbliche che cercano sempre più la riduzione dei membri di questa istituzione naturale”, ha aggiunto la Bunster. In questo momento, si presentano invece nuove proposte per le famiglie moderne con migliaia di ripercussioni negative a livello familiare. “La sterilizzazione o la promozione delle campagne di controllo demografico sono promosse come un beneficio e una forma di libertà per la donna attraverso la contraccezione, che non tiene conto delle conseguenze per la salute della donna e per i figli”, ha affermato. Queste politiche implicano conseguenze come “il riconoscimento delle coppie di fatto e delle unioni omosessuali, e dell'adozione di bambini da parte di queste”. Tali tendenza mostrano un concetto utilitaristico e una cultura dell'usa e getta”, con idee come “il cosiddetto diritto alla morte degna o eutanasia, il diritto di avere figli sani, di eliminare ogni tipo di violenza contro la donna come una gravidanza forzata”. Ciò porta a una “cultura edonista, cerca il piacere al di sopra della dignità della persona e del valore della vita”. La Bunster ha anche illustrato come i metodi anticoncezionali in varie occasioni possano promuovere il machismo: “C'è una chiara tendenza a usare l'aborto o a recriminare contro la donna perché non usa bene gli anticoncezionali”. Partendo dalla sua esperienza nel Proyecto Esperanza, l'esperta ha sottolineato il profondo contraccolpo morale, psicologico e fisico per la donna, con conseguenze come “un profondo danno all'autostima, incubi, alterazioni del sonno, disaccordi con la famiglia o con gli altri, depressione, perdita del senso della vita, ansia, solitudine, rimorso”. Allo stesso modo, le donne presentano in questi casi “senso di colpa, rabbia, dolore, disturbi alimentari, disturbi della condotta, ricerca di fuga nella droga o nell'alcool, tentativi di suicidio”; “sono tormentante dal peso di sapersi responsabili di una perdita così dolorosa”. (Carmen Elena Villa, Zenit, 14 ottobre 2009)
Omofobia due rischi sventati e un problema Ora qualcuno si avventurerà ad affermare che c’è libertà di aggressione nei confronti degli omosessuali. E qualcun altro, in un impeto di esecrazione, magari si spingerà a sostenere che lo "scellerato" via libera (se non l’incitamento) è venuto addirittura dalla Camera dei deputati, con un voto trasversale che starebbe lì a testimoniare la sostanziale cultura omofobica dei nostri rappresentanti. Si tratta di falsità, dalle quali qui – per quanto ci è possibile – vogliamo mettere in guardia. Proviamo a ricostruire i fatti nella loro nuda verità, e nella consapevolezza che non è assolutamente in discussione la dignità degli omosessuali come persone, e in quanto tali portatrici degli stessi diritti garantiti dalla Costituzione italiana a tutti i cittadini del nostro Paese. Ieri è semplicemente accaduto che alla Camera, con un voto bipartisan, è stata ritenuta fondata la pregiudiziale di costituzionalità sollevata dall’Udc in relazione alla proposta di legge che porta il nome dell’onorevole Paola Concia e che è più nota come legge anti-omofobia. È indiscutibile che la materia sia in queste ore incandescente, a causa di ripetute aggressioni contro coppie di omosessuali, verificatesi soprattutto a Roma. Aggressioni violente e del tutto immotivate che hanno suscitato unanime condanna nel mondo politico, oltre che la riprovazione, senza se e senza ma, dell’opinione pubblica. E se non fosse abbastanza chiaro, anche noi – ancora una volta – esprimiamo una ferma condanna per questa come per ogni altra forma di violenza, tanto più se gratuita, irrazionale o mossa da motivazioni abiette. Ma torniamo al cuore della questione: la legge Concia è stata "stoppata" perché il Parlamento ha ritenuto che contenesse in sé un rischio gravissimo, cioè quello di provocare una discriminazione nei confronti di chi omosessuale non è, proprio in virtù dell’introduzione nel codice penale di un’aggravante specifica, tesa a creare una sorta di super-protezione riconosciuta solo e soltanto alle persone che si dichiarano omosessuali. Il legislatore, insomma, in questa occasione ha saputo guardare lontano. E ha fatto anche di più: ha saputo riconoscere quello che appare come il rischio più elevato per una comunità civile: l’introduzione di un nuovo reato di opinione. Un reato nel quale sarebbe potuto cadere, ad esempio, chi avesse pubblicamente sostenuto la bellezza e la bontà sociale del matrimonio storicamente definito, ovvero fra un uomo e una donna. Con simili norme per i portatori di questa opinione si sarebbe aperta la porta all’imputazione per «discriminazione» nei confronti di quanti, appunto gli omosessuali, non possono accedere al matrimonio fra persone dello stesso sesso. Qualcuno dirà che il legislatore ha visto male. A noi sembra che questa volta il Parlamento si sia accorto della vera posta in gioco: non introdurre una sanzione di legge che già c’è, ma aprire la via, al di là della stessa lettera della legge, alla cosiddetta «cultura di genere» nel nostro ordinamento. Una «cultura» che porta con sé una serie di richieste, a nostro parere, irricevibili: dal matrimonio omosessuale alla procreazione artificiale e all’adozione di bambini da parte di persone delle stesso sesso. Forse non placherà la polemica neppure l’evidenza del fatto che già oggi il nostro ordinamento indica nei cosiddetti «motivi abietti» un’aggravante e che, infatti, la magistratura ha già rigorosamente sanzionato le aggressioni a persone bersagliate per il loro essere omosessuali. Eppure, vogliamo sperare in un soprassalto di saggezza anche in chi, ieri, si è spinto scompostamente a parlare di «vergogna». È opportuno che tutti si facciano carico della prudenza necessaria quando, nella creazione di "nuovi diritti", si vanno a intaccare i pilastri della comune antropologia. E una dose di lucidità in più aiuterebbe tutti noi a collocare il tema della violenza, compresa quella contro gli omosessuali, là dov’è il suo posto elettivo: al centro dell’azione educativa. Non sarà un’aggravante specifica, portatrice di ambigue e pericolose interpretazioni e applicazioni, a strappare la violenza dal cuore dei violenti. E questo resta il problema. (Domenico Delle Foglie, Avvenire, 14 ottobre 2009)
1. «Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace”» (Lc 19:41-42). Oggi queste stesse parole si applicano a Gerusalemme, che vive una situazione di conflitto, di odio e di morte. I leader politici non hanno trovato ancora, fino a oggi, “le vie della pace”. Essi sono riusciti a creare nuove situazioni di fatto, essi sono riusciti a cambiare la demografia e la geografia; ma, in tutto ciò, non si vedono ancora le “vie della pace”. I leader religiosi, da parte loro, riempiono Gerusalemme con riti e preghiere formali. Ma, dentro questi riti formali, lo stesso cuore che rende culto ha dentro la guerra verso il suo prossimo. Esso adora Dio, ma rigetta le creature di Dio, poiché esse sono diverse, sono differenti, per religione e nazionalità. Ma, per quanto riguarda la vita e i valori religiosi, dobbiamo anche ammettere l’esistenza di tante persone pie, in tutte e tre le religioni, che adorano Dio e amano gli altri, pur differenti, perché li vedono come figli di Dio. La loro preghiera è silenziosa, nascosta, conosciuta solo a Dio, lo stesso Dio, che ha radunato tutti i diversi popoli — ebrei, musulmani e cristiani — nella sua stessa città santa. 2. Vivere a Gerusalemme è vivere con problemi di vita quotidiana, con tutti quelli che vivono lí, uomini di fedi e nazionalità differenti, e allo stesso tempo vivere con il mistero di Dio in questa città. I profeti dell’Antico Testamento hanno parlato di Gerusalemme, talvolta con maledizioni per l’infedeltà dei suoi abitanti, talvolta con una visione gloriosa del futuro basata sulla conversione degli uomini, e sulla compassione di Dio che perdona e rinnova più volte la Sua vita fra gli uomini. Dio onnipotente e misericordioso, il Signore della storia, insieme con gli uomini di buona e cattiva volontà, ha fatto la storia di Gerusalemme, con tutte le sue diverse fasi attraverso i secoli: l’alleanza di Dio, la permanente fedeltà di Dio, la fedeltà e l’infedeltà degli uomini, e i vari conquistatori che si sono succeduti a Gerusalemme attraverso i secoli fino a oggi. Tutta quella storia, e tutti quegli attori, sotto l’occhio vigilante di Dio, hanno fatto il nostro presente, oggi, a Gerusalemme: due popoli, israeliano e palestinese, e tre religioni, ebrei, cristiani e musulmani, che sono, allo stesso tempo, in conflitto gli uni con gli altri mentre adorano lo stesso Dio. Gerusalemme è una città di conflitto fra i due popoli che vivono in essa. Nonostante ciò, essa rimane la città di Dio. Perciò, occuparsi di Gerusalemme o dei suoi popoli significa occuparsi del mistero di Dio in essa. Ogni persona che si occupa di Gerusalemme — i leader politici e religiosi in particolare — dovrebbe essere una persona che innanzi tutto adora e prega Dio, chiedendogli ispirazione, luce e sapienza, per conoscere come occuparsi della città e del popolo in essa — siano essi residenti o pellegrini che la visitano — e come trovare le vie giuste di occuparsi del conflitto in corso. 3. Noi cristiani di Gerusalemme e nel mondo guardiamo a Gerusalemme attraverso il mistero di Gesù Cristo, Signore e Dio, che è venuto a salvare il mondo, e a iniziare il regno di Dio sulla terra. La sua predicazione e quella di San Giovanni Battista, il precursore, incominciò con queste parole: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1:15). Per molti questo compimento ebbe luogo, per altri no. Molti vivono, o si sforzano di vivere, nel regno di Dio su questa terra. Altri no. Gerusalemme è la città della redenzione del mondo, una città dove l’umanità è stata riconciliata con Dio. E, con la risurrezione del Signore Gesù Cristo, vale a dire il Suo trionfo sulla morte e sul peccato, anche l’umanità — e ogni singolo uomo — è risorta “dai morti” e resa capace di liberare sé stessa dal peccato, di riconciliarsi con Dio e con il proprio prossimo, qualunque siano le differenze fra vicini, religioni, nazionalità, razze o situazioni di conflitto, come nel caso oggi fra i due popoli che vivono in essa. Una città di redenzione e riconciliazione: questo è per i Cristiani la definizione e la vocazione di Gerusalemme. Essa ha una dimensione universale, rivolta a tutta l’umanità. Questo è un secondo elemento importante della sua definizione. Essere una città santa per tutte e tre le religioni è parte di questo carattere e di questa vocazione che Gerusalemme possiede. 4. Ho vissuto a Gerusalemme per 20 anni come Patriarca di Gerusalemme per i cattolici. La mia prima osservazione sullo stare a Gerusalemme come cristiano è questa: vista la vocazione universale di Gerusalemme, una vocazione di riconciliazione universale, non ci si può rinchiudere nella propria comunità. A Gerusalemme, o si vive con tutti oppure si è fuori della vocazione della città, anche se si vive in essa. Vivere a Gerusalemme da soli, vivere con una visione e un quadro di riferimento ristretti riguardo alla confessione religiosa, rivendicare i propri diritti su Gerusalemme, politici o religiosi, escludendo i diritti degli altri su di essa, è, ancora una volta, vivere contro la missione e la vocazione di Gerusalemme. Escludere l’altro, rifiutare di vedere l’altro, vedere solo sé stessi, non è “ricostruire le mura di Gerusalemme” come dice il Salmo 50. È demolire Gerusalemme ed esporla alla permanente minaccia di guerra, violenza e mali, esattamente l’opposto della sua vocazione di città della redenzione e riconciliazione universali. Perciò la mia prima osservazione sul vivere a Gerusalemme può essere riassunta nel modo seguente: Vivi a Gerusalemme, il che significa che vivi con Dio e con tutti i figli di Dio in essa. Non puoi rimanere chiuso esclusivamente dentro la tua comunità. Vivi con Dio, e così condividi la grazia di Dio con tutti, e condividi le sofferenze e le gioie di tutti. Sebbene può essere difficile vivere all’altezza di questa dimensione universale della città, è un dovere per i cristiani e per ogni credente che rende culto in essa e vuole sinceramente “ricostruire le mura di Gerusalemme” e riportare in essa la gloria che Dio vuole per essa. Perciò sono vissuto a Gerusalemme, con e per la mia piccola comunità cattolica, ma anche con e per tutti i cristiani, come pure con e per i musulmani e gli ebrei. Che cosa ho vissuto e visto? Una città lacerata, piena di conflittualità, cose che fanno soffrire a vederle e a parlarne: un muro che divide le strade principali, facendo un lato israeliano e un lato palestinese; un muro che separa le parti di Gerusalemme, facendo un lato parte di Gerusalemme, e l’altro lato, non più Gerusalemme; ho visto confiscare terre e case, rimpiazzare gli abitanti delle case, creare nuovi quartieri ebraici, limitando allo stesso tempo ogni sforzo di sviluppo palestinese: il che significa diniego dei permessi di costruzione, e perciò costruzioni senza permesso, il che porta alla demolizione di quelle case... e, peggio di tutto, il veleno dell’odio dell’altro, dovuto alla propria cecità che ci rende incapaci di vedere l’altro come una creatura di Dio. Ho visto una città voluta dai due popoli, palestinesi e israeliani, come capitale politica, e dai credenti delle tre religioni come città santa e come città di normale vita quotidiana. Sembra non esserci contraddizione nell’essere città santa per le tre religioni monoteiste. Ognuno rende culto in essa e rispetta la sua santità. Ma la realtà è che i sentimenti religiosi sono così mescolati con la realtà politica che le cose diventano piú complicate, e il culto non rimane semplice culto, ma diventa un atto politico o un segno di appropriazione della città e di esclusione dell’altro. I palestinesi hanno rivendicato e a tutt’oggi rivendicano che Gerusalemme Est è o sarà la capitale eterna della Palestina. È loro diritto, e non è esclusivo, in quanto rivendica solo la Gerusalemme Est araba come capitale della Palestina. Israele rivendica che tutta Gerusalemme, Est e Ovest, è la capitale eterna di Israele, non accettando né una città condivisa con sovranità condivisa, né una città divisa con sovranità divisa: uno status dichiarato “nullo” dalla comunità internazionale, ma ancora valido nei fatti. Quindi i diritti politici dei palestinesi sono esclusi. Quindi gli altri credenti, i palestinesi, siano essi musulmani o cristiani, hanno accesso limitato alla città, a causa delle misure di sicurezza e di una visione di sicurezza. Per coloro che vivono fuori del nuovo muro che circonda Gerusalemme e che la separa dai Territori Palestinesi, l’accesso è soggetto a permessi militari, che sono dati ad alcuni e rifiutati ad altri. E a quei cristiani e musulmani che vivono nei paesi arabi è quasi completamente proibito l’accesso alla città, per la preghiera e per altre ragioni. Questa è la situazione in cui sono vissuto, e vivo fino a oggi. È una situazione straziante. Da una parte, Gerusalemme parla a ogni credente: riconciliazione e pace dentro il proprio cuore, e pace esteriore estesa a tutti. Non più ostilità. D’altra parte, l’ostilità è la realtà quotidiana imposta a tutti. Sì, noi circondiamo Gerusalemme con le nostre preghiere per tutti, scavalcando i muri materiali, come quelli nei cuori. Oltre le preghiere, esistono anche molteplici sforzi di dialogo interreligioso a Gerusalemme, finalizzati a portare gli uomini più vicini a Dio, e gli uni agli altri. Ma la conflittualità rimane la realtà dominante. 5. Avendo Gerusalemme questo carattere santo e questa vocazione universale, deve avere uno statuto speciale che garantisca i diritti di tutti i cittadini in essa come credenti e cittadini, e al tempo stesso garantisca la libertà di accesso a tutti i pellegrini. Qualsiasi potere politico che governi Gerusalemme deve perciò tener conto di questa vocazione universale della città e darle questo statuto speciale che garantisca i diritti dei cittadini, come capitale per lo Stato palestinese, come capitale per lo Stato d’Israele, e come capitale spirituale per l’umanità. Chiunque governi Gerusalemme ha il dovere di tener conto di tutta questa storia passata e universale, oggi viva in tutte le sue fasi nelle comunità viventi. Perciò non deve cadere in una visione ristretta, egoistica, nazionalistica, esclusivistica: una visione che esclude gli altri, insieme con la loro lunga storia, cancellandola, e imponendo oggi una nuova realtà che lavora contro la sopravvivenza di tutte le identità con uguali diritti e doveri a Gerusalemme, e condanna la città a rimanere una fonte di guerra. Un vero credente — ebreo, cristiano o musulmano — deve innalzarsi al livello della santità che Dio vuole per la città, al livello della santità di Dio stesso, il che significa, la capacità di rispettare e accogliere tutti i figli di Dio in essa, dando loro uguali diritti e doveri, senza alcuna discriminazione per motivi religiosi o politici. È nella misura in cui il vero credente può innalzarsi al livello della sua santità, che Gerusalemme può vincere tutte le forze di conflitto e tutto il male della guerra in essa. 6. Esiste a Gerusalemme un Consiglio delle Istituzioni Religiose, un consiglio interreligioso, nel quale il Gran Rabbinato rappresenta la parte ebraica, il Ministro degli Affari Islamici la parte musulmana, e i 13 capi delle Chiese rappresentano la parte cristiana. È un consiglio di dialogo interreligioso. Il dialogo verte sulla vita quotidiana e, di conseguenza, sulla situazione politica che impone questa vita quotidiana. Ci incontriamo per raggiungere una visione comune della Città Santa e della Terra Santa. Ma finora siamo riusciti a metterci d’accordo solo sul fatto basilare che Gerusalemme è una città santa per tutti. Si sta preparando una bozza, e sarà pubblicata in un prossimo futuro, che definisca i punti su cui siamo d’accordo e i punti su cui non lo siamo. Speriamo che un giorno la grazia di Dio e leader politici più saggi permettano alla città di essere un centro di riconciliazione per tutti e una città dove cessino tutte le ostilità. I Patriarchi e i Capi cristiani delle Chiese di Gerusalemme, da parte loro, hanno pubblicato due documenti sullo status di Gerusalemme e il suo significato per i cristiani: il primo nel 1994 e il secondo nel 2006. Concludo questa conferenza citando alcuni passi del secondo documento, del settembre 2006: «Con la costruzione del muro molti dei nostri fedeli sono esclusi dai confini della Città Santa, e secondo i piani pubblicati sulla stampa locale, molti di più lo saranno in futuro. Circondata da muri, Gerusalemme non è più al centro e non è più il cuore della vita come dovrebbe essere. Consideriamo parte del nostro dovere attirare l’attenzione delle autorità locali, come pure la comunità internazionale e le Chiese del mondo, su questa gravissima situazione e invocare uno sforzo concertato a cercare una visione comune sullo statuto di questa Città Santa, basato sulle risoluzioni internazionali e che tenga conto dei diritti dei due popoli e delle tre comunità religiose che vivono in essa. In questa città, in cui Dio scelse di parlare all’umanità e riconciliare i popoli con sé e fra di loro, leviamo le nostre voci per dire che le strade seguite finora non hanno prodotto la pacificazione della città e non hanno assicurato una vita normale per i suoi abitanti. Perciò esse devono essere cambiate. I leader politici devono cercare una nuova visione e nuovi mezzi. Nel disegno di Dio due popoli e tre religioni sonno vissuti insieme in questa città. La nostra visione è che essi dovrebbero continuare a vivere insieme in armonia, rispetto, accettazione reciproca e cooperazione». Conclusione «Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace”» (Lc 19:41-42). Gerusalemme deve essere una città di pace, ma oggi non è così. Oggi la santità è trasformata in contesa e in controversia politica. La persona umana ne è la vittima. La storia ne è la vittima. La religione ne è la vittima, sia essa il Giudaismo, il Cristianesimo o l’Islam: perché nessuna di esse è chiamata, come tale, a essere una fonte di controversia, o a rendere la coesistenza di tutti qualcosa di impossibile. Le “vie della pace” a Gerusalemme sono basate su tre principi: primo, accettare la volontà di Dio come Egli l’ha manifestata attraverso le Sacre Scritture e attraverso la storia. Attraverso le Sacre Scritture e attraverso la storia Dio ci ha riunito tutti a Gerusalemme: ebrei, cristiani e musulmani. Secondo, le Sacre Scritture hanno dato a Gerusalemme una dimensione universale, facendone un luogo da essere condiviso da tutta l’umanità, a cominciare da coloro che vi abitano, israeliani e palestinesi. Terzo: piú importante del luogo santo è Dio, che santifica quel luogo. Il comandamento di Dio è di adorarlo e di amare tutte le sue creature. Nella stessa prospettiva, la persona umana è il tempio vivente di Dio, ed è perciò piú importante di qualunque luogo. Alla luce di questi tre principi: la santità della città, la sua universalità come luogo da condividere, e la priorità dell’essere umano, la questione religiosa e politica di Gerusalemme deve essere risolta. Gerusalemme non può essere una proprietà esclusiva di nessuno; lo stesso vale di Dio stesso, che non può essere proprietà esclusiva di nessuno: Egli è il Dio creatore di tutti. Tutto a Gerusalemme deve riflettere questa vocazione divina e la condivisione è la strada attraverso cui questo può essere raggiunto. Con la condivisione nessuno è sottomesso all’altro. Nessuno dei suoi abitanti è soggetto alla paura, o dominato da essa, o ridotto allo stato di minoranza o di straniero. Tutti sono uguali in dignità, nei diritti e nei doveri religiosi e politici, nel riconoscimento reciproco e nella libertà di religione. Ciascuno godrà Gerusalemme come essa è: una città di Dio, una città di pace, una città in cui ciascuno è riconciliato con Dio e con tutti i suoi fratelli, di tutte le nazioni e religioni. (+ Michel Sabbah, Patriarca emerito, Chapman University chapel - Orange, CA - trad. di Giovanni Scalese, 14 ottobre 2009)
11 ottobre 2009
Il Papa: la difesa della dignità umana richiede il sostegno alla famiglia La difesa della dignità umana da parte dei governi implica il sostegno alla famiglia. È quanto ha detto Benedetto XVI nel ricevere in udienza, a Castel Gandolfo, la baronessa Henriette Johanna Cornelia Maria van Lynden-Leijten, nuovo ambasciatore olandese presso la Santa Sede. Nata nel 1950, madre di tre figlie e impegnata nella diplomazia del suo Paese in Europa e Medio Oriente da quasi trent’anni, la baronessa Henriette Van Lynden Lejten ha in tale occasione presentato le Lettere credenziali del suo Paese. Secondo quanto affermato dal Santo Padre in questi momenti è decisivo sostenere “le famiglie costruite sul fondamento di un matrimonio stabile e fecondo tra un uomo e una donna”, poiché “nulla può uguagliare o sostituire il valore formativo del crescere in un ambiente familiare sicuro”. Nella famiglia, ha spiegato, si impara “a rispettare e a promuovere la dignità personale degli altri, diventando capaci di accoglienza cordiale, incontro e dialogo, disponibilità disinteressata, servizio generoso, solidarietà profonda”. In breve, ha insistito nel suo discorso in inglese, nella famiglia si impara ad amare. “D'altro canto – ha denunciato –, è probabile che una società che incoraggia modelli alternativi di vita domestica per amore di una presunta diversità accumuli conseguenze sociali che non conducono allo sviluppo integrale dell'uomo”. I Paesi Bassi sono stati una delle prime nazioni a riconoscere il cosiddetto “matrimonio” omosessuale e a concedere alle coppie dello stesso sesso la possibilità di adottare dei bambini. Alla luce di ciò, il Vescovo di Roma ha assicurato che la Chiesa cattolica in questo Paese “desidera fare la sua parte nel sostenere e promuovere una vita familiare stabile, come ha affermato la Conferenza episcopale olandese nel suo recente documento sulla cura pastorale dei giovani e della famiglia”. Per questa ragione, ha quindi auspicato vivamente “che il contributo cattolico al dibattito etico venga sentito e ascoltato da tutti i settori della società olandese, affinché la nobile cultura che da secoli contraddistingue il suo Paese possa continuare a essere nota per la sua solidarietà con le persone povere e vulnerabili, per la sua promozione della libertà autentica e per il rispetto della dignità e del valore inestimabile di ogni vita umana”. Nel suo discorso, la baronessa Henriette Van Lynden Lejten aveva sottolineato che “il Governo olandese attribuisce grande importanza ai diritti umani” e “concorda sostanzialmente con la tradizione cattolica romana in cui la dignità umana occupa un posto centrale”. “Una società aperta – aveva sottolineato – è caratterizzata da libertà per tutti, inclusa la libertà di espressione, di religione e di credo, senza pregiudizio per la libertà degli altri e con rispetto per le loro convinzioni”. Dal canto suo il Pontefice ha affermato che la Santa Sede è impegnata in una difesa appassionata della libertà, di una libertà però che “deve essere ancorata alla verità - la verità della natura della persona umana - e deve essere orientata al bene degli individui e della società”. Dei 16 milioni e 700 mila abitanti dei Paesi Bassi, il 30% è di religione cattolica, l'11% appartiene alla Chiesa nazionale Riformata, il 6% è calvinista, il 3% appartiene ad altre denominazione sorte in seno alla Riforma protestante. Nel suo discorso, il Papa ha fatto riferimento all'elevato numero di persone agnostiche o atee (il 42% secondo alcune fonti ufficiali), così come al grande numero di credenti di altre religioni giunti in questo Paese in cerca di un futuro migliore. Oggi il 5,8% degli abitanti dei Paesi Bassi è formato da musulmani, mentre il 2,2% segue altre tradizioni religiose. (Zenit, 2 ottobre 2009)
Il “j’accuse” di Sandro Magister: la politica di Bertone non è in sintonia col Papa Grande è la confusione, almeno in apparenza, nella chiesa italiana. Basta scorrere le cronache delle ultime settimane, e ricordare le circostanze delle dimissioni del direttore di Avvenire, Dino Boffo, per avere, più che l’impressione, la certezza di uno scontro “intraecclesiale” con pochi precedenti nella storia recente. Uno scontro del quale sfuggono ai più i contorni precisi, ma che senza dubbio esiste. Lo conferma al Foglio il vaticanista di lungo corso Sandro Magister. Con il suo sito in quattro lingue www.chiesa.espressonline.it, Magister rappresenta una delle voci più importanti dell’informazione religiosa, non solo italiana, riguardante la chiesa cattolica. “Più che di confusione parlerei di grande disordine. L’impressione complessiva è che ai livelli alti della chiesa confliggano visioni della realtà, in Italia e nel mondo, che non sono facilmente componibili. Anzi, spesso si scontrano, con un’ulteriore aggravante. Chi, all’interno della gerarchia della chiesa, si erge come critico deciso di soluzioni precedenti ritenute non più all’altezza o non più praticabili, non è portatore di una visione convincente, capace di delineare un nuovo corso ai vertici della chiesa stessa”. Scendiamo nei particolari. Si riferisce, per quanto riguarda l’Italia, alla volontà di una parte della gerarchia di dichiarare per sempre conclusa la cosiddetta “era Ruini”? E quali sono gli attori e i progetti che si confrontano in questo passaggio tutt’altro che indolore? Secondo Magister, va fatta una considerazione preliminare: “La battaglia che si combatte nelle gerarchie in Italia è interna a una battaglia più grande, che abbraccia l’intero mondo. Mi spiego. Quando si sostiene – con fondamento – che vi è una differente visione delle cose da parte della Segreteria di stato vaticana e dell’episcopato italiano, non bisogna trascurare che la medesima divergenza esiste tra la stessa Segreteria di stato e molti epsicopati nazionali, e non di secondo conto”. Qualche esempio? “Uno dei più lampanti è quello degli Stati Uniti. Non c’è alcun dubbio sul fatto che la Conferenza episcopale americana, in questi ultimi anni, abbia ridisegnato il proprio modo di confrontarsi con le amministrazioni che si sono succedute, da Bush junior a Obama. Si è delineato, dentro una delle conferenze episcopali più numerose del mondo, un nucleo forte di vescovi e cardinali che hanno svolto un ruolo molto critico nei confronti delle amministrazioni in carica, come si è visto in particolare con Obama. Il leader di questa tendenza non è una figura secondaria, ma è il cardinale più autorevole degli Stati Uniti. Parlo del presidente della Conferenza episcopale, il cardinale Francis George di Chicago, da sempre uno dei più stimati da Papa Ratzinger”. Sulla stessa linea critica rispetto alla presidenza Obama, spiega Magister, “ci sono un’ottantina di vescovi americani su 250. Gli elementi conflittuali sono noti e si richiamano direttamente alla sfera bioetica, primo tra tutti il capitolo dell’aborto. Ebbene, questi elementi non secondari dell’episcopato americano non si sono mai visti sostenuti, ma semmai osteggiati, dalla segreteria di stato vaticana e dall’organo ufficiale della Santa sede, l’Osservatore Romano, che della Segreteria è voce. Basti pensare – prosegue Magister – che sono state elevate fiere proteste da parte di alcuni vescovi americani nei confronti del segretario di stato, nelle quali si è lamentato anche il ruolo dell’Osservatore Romano”. Si tratta, dice Magister, “di fatti noti e sostanzialmente pubblici. Un elemento che fece molto adirare alcuni importanti vescovi americani fu, per esempio, l’editoriale molto positivo, anche sulle questioni della famiglia e della bioetica, che l’Osservatore pubblicò per i cento giorni di Obama alla Casa Bianca. C’è poi stata la laurea ad honorem al neo-presidente da parte dell’Università di Notre Dame, anche in questo caso con forti polemiche, perché a conferire l’onorificenza era un’importante istituzione di studi cattolici. In entrambi i casi, la mobilitazione critica dei vescovi nei confronti della presidenza Obama è stata vista con disfavore dalla Segreteria di stato e dall’Osservatore romano, e ha creato conflitto”. Un conflitto tuttora in atto? “Sì, non è stato in alcun modo sanato. L’altro esempio da non dimenticare è quello della Cina. Anche in questo caso, siamo di fronte a uno scontro di visioni: da una parte, l’estrema cautela, verso il governo cinese, da parte di Segreteria di stato e diplomazia vaticana; dall’altra, il leader di una visione più combattiva, il cardinale Zen. Anche qui, una figura di grande peso e di grande statura, che non ha mai nascosto quella conflittualità. Zen ha scritto in più di un’occasione, anche nel giornale della diocesi di Hong Kong, di cui è vescovo emerito, che Bertone è un freno alla linea inaugurata da Benedetto XVI con la famosa lettera ai cattolici cinesi di due anni fa”. Magister fa l’esempio del Vietnam, “dove è in corso da mesi una grandiosa battaglia fatta con centinaia di migliaia di cattolici in piazza e veglie di preghiera che si susseguono, a fronte di una strategia di contenimento repressivo da parte governativa. Eppure, da parte della Segreteria di stato non c’è mai stato un sostanziale sostegno. Anzi, il cardinale Bertone ha diffuso una lettera ai vescovi del Vietnam con cui, in pratica, consiglia loro di star buoni. Nemmeno l’Osservatore Romano non ha mai dedicato una riga a queste vicende”. Magister vede in tutto ciò una “linea ‘concordataria’, fatta di buon vicinato, di rapporti istituzionali cortesi, utilizzata anche dove i concordati non ci sono proprio. Non mi sembra una linea all’altezza delle linee maestre dei due grandi pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI”. Si può parlare di semplice realismo politico? In fondo non sarebbe una novità assoluta nella vita della chiesa: “Certo, il realismo caratterizza da sempre la diplomazia vaticana. E’ un realismo fatto di calcoli sul possibile, che ha avuto il suo apogeo, forse eccessivamente celebrato, con l’Ostpolitik vaticana degli anni Sessanta e Settanta del cardinale Casaroli, e che continua a essere praticato”. Un realismo, per arrivare alle vicende nazionali, che si applica anche in Italia, dice Magister: “Ieri con Prodi e oggi con Berlusconi. Con risultati anche un po’ paradossali. Tutti possono ricordare che, negli anni del governo Prodi, il cardinale Tarcisio Bertone era il campione della stampa di sinistra, opposto alla gerarchia episcopale italiana, descritta come regressiva e portatrice di intransigenza e fanatismo. Ora l’ottica è rovesciata, sempre sugli stessi giornali. Il cardinal Bertone è diventato il leader ecclesiastico che indebitamente pretende di avere con il governo Berlusconi un rapporto amichevole, e la Cei è esaltata come portatrice di una linea critica”. Fin qui l’analisi a grandi linee della politica della Segreteria di stato negli anni recenti. Quindici anni segnati, per la chiesa italiana, dal cardinale Camillo Ruini alla guida della Cei. Secondo Magister, ruiniano di ferro che non fa mistero di esserlo, “la linea impersonata da Ruini ha faticato a crescere e a imporsi, ha avuto il suo apogeo negli anni tra il 2004 e il 2007, ed è coincisa con lo straordinario momento del referendum sulla legge 40, nel 2005. E’ stata del tutto innovativa, per la chiesa italiana, che ha accettato in pieno l’affermarsi del bipolarismo, così come ha accettato e fatto propria l’indipendenza della chiesa dalle singole forze politiche, e ha chiuso per sempre con la stagione del partito cattolico (o comunque con il nucleo dei politici cattolici che sul terreno partitico si arrogano il compito di rappresentare la chiesa). Ruini ha pensato e agito avendo di fronte a sé la nazione intera, non il mondo cattolico. Con lui, la proposta che partiva dalla chiesa italiana non era motivabile solo alla luce della dottrina e della fede, ma voleva essere accettabile da una platea più vasta di persone, compresi i non credenti”. Vi si può leggere una sintonia con l’idea ratzingeriana della possibilità della ragione ben orientata di arrivare, su certi temi, a conclusioni armoniche con la fede? “Non c’è dubbio, e si tratta di una sintonia straordinaria, tuttora esistente, tra il Papa e il cardinal Ruini. Lo stesso Progetto culturale voluto dal cardinale è qualcosa che riconosce la peculiarità della nazione e del cattolicesimo italiano, visto come espressione di una chiesa di popolo”. Una visione che si scontra con quale altra? “C’è una lettura elitaria, dominante sui media negli ultimi decenni, che guardava e guarda al cattolicesimo italiano in termini di arretratezza, bilanciata dalla presenza di un ceto più colto e più cristianamente ispirato. Un po’ come i fratelli maggiori e i figlioli prodighi. Ma ricordo che fu Arturo Parisi, voce non sospetta, a notare che i cattolici irregolari sono stati quelli meglio capiti dal fenomeno del berlusconismo”. In che senso? “Nel senso che, tra le tante cose che ha fatto, Berlusconi ha anche chiuso la questione cattolica, se la si intende come separatezza, invincibile o quasi, del mondo cattolico rispetto all’agorà politica italiana. L’apparente assenza di cattolici blasonati nel governo e nella sua formazione politica non vuol dire che non esistano i cattolici. Al contrario: è stata colta perfettamente l’esistenza di una presenza molto diffusa dei cattolici ‘normali’ in Italia, sempre troppo trascurata. Si ragiona sempre in termini di cattolici praticanti, assidui, formati secondo curricula particolari, che hanno nei movimenti come le Acli e l’Azione cattolica le loro matrici. In realtà, c’è una massa sterminata che con questo tipo di curricula non c’entra affatto: è l’ossatura del cattolicesimo italiano. Che spiega le cifre impressionanti dell’otto per mille (che tocca il novanta per cento) e dell’insegnamento religioso nelle scuole. Scelta fatta anche da cattolici non praticanti”. Eppure si parla continuamente di “insubordinazione” dei cattolici rispetto ai dettami della chiesa: “Non necessariamente la chiesa cattolica è ascoltata e obbedita nei dettami. Ma contemporaneamente questo tipo di cattolicesimo le riconosce il dovere, più che il diritto, di parlare apertamente, senza reticenze, di ribadire la sua dottrina”. Il progetto del cardinal Ruini, secondo Magister, “riconosceva appieno questa eccezione italiana. Guardata, tra l’altro, con molta invidia da parte di altri episcopati europei. Quello spagnolo si è letteralmente impegnato a seguire la strada aperta durante gli anni della presidenza Ruini. La quale ha capito perfettamente sia la grande identificazione della popolazione italiana con la chiesa cattolica sia l’incipiente sensibilità al tema della vita nascente. Da lì nasce anche l’affermazione nei referendum. E nasce da passi coraggiosi, come l’indicazione di non voto, data con molto anticipo, non appena il Corriere della Sera, che di quella battaglia fu protagonista, aveva dato l’indicazione opposta”. La fine della gestione ruiniana coincide oggi con contrasti inediti in seno alla chiesa e alle sue gerarchie, con manifestazioni mediatiche e interpretazioni che ricordano il peggiore (o migliore, dipende dai punti di vista) Dan Brown, come ha scritto il Foglio. Quali esiti prevede Magister? “Voglio prima di tutto sottolineare che il Progetto culturale, tuttura vivo e attivo, non è portato avanti con la stessa convinzione dalla Conferenza episcopale. La sua attuale presidenza è visibilmente debole, nonostante la continuità, dal punto di vista formale, con la precedente presidenza. Debole dal punto di vista dell’autorità, dell’esercizio della giurisdizione. Voci dissonanti si esprimono in ordine sparso, e la cosa ha avuto delle evidenze sconcertanti durante l’attacco a Dino Boffo. Nei suoi confronti c’è stata una solidarietà graduata, nella gerarchia cattolica e nel clero. Vi sono state anche evidenti manifestazioni di una sorta di utilizzo dell’attacco a Boffo in vista della chiusura dell’era Ruini”. L’obiettivo è stato raggiunto? “E’ una partita aperta. Il Rapporto sull’educazione realizzato nell’ambito del Progetto culturale, stampato dall’editore laico Laterza, rinnova l’impostazione di proposta al paese intero, non ai soli cattolici, da parte della Cei. C’è il convegno su Dio, molto ratzingeriano nell’impostazione, organizzato per dicembre. Il Progetto culturale è vivo e continua a operare. Ma c’è, allo stesso tempo, un’inspiegabile freddezza a livelli anche alti della gerarchia cattolica, rispetto a queste iniziative”. Anche tra i vescovi? “Anche tra loro. Nella stessa prolusione del cardinale Bagnasco ai lavori dell’ultimo consiglio permanente della Cei, le parole ‘Progetto culturale’ non sono state mai pronunciate, nonostante sia noto che proprio il Progetto culturale è uno dei bersagli fondamentali della tumultuosa operazione condotta per defenestrare Boffo. Nessun accenno nemmeno al convegno su Dio, che pure la Cei ha promosso”. Questo che cosa significa? “E’ l’indizio che il presidente della Conferenza episcopale, conoscendo la difformità di opinioni all’interno del consiglio permanente, si è tenuto a un minimo comune denominatore che non sfiorasse i temi più combattuti”. Si può dunque dire che la Cei attraversi una fase di incertezza, che si riflette anche sui temi caldi, come il biotestamento? “Su questo punto una linea ufficiale esiste ed è favorevole alla legge. Ma si alzano voci dissonanti, come il cardinale Martini o come don Verzé. Anche chi ricopre cariche, come il presidente dei medici cattolici di Milano, Giorgio Lambertenghi, si dissocia dalla scelta della Cei”. C’era qualche dissonanza pure all’epoca dei referendum sulla legge 40, specialmente sul tema dell’uso delle staminali embrionali… “Sì, ma ora è tutto più netto. Pensiamo alla vicenda di Eluana Englaro. Enzo Bianchi, priore di Bose, scrisse parole sferzanti contro la difesa, a suo dire fanatica, della vita di Eluana Englaro. Senza dimenticare che quel caso fu sfiorato addirittura da una polemica tra Osservatore Romano e Avvenire”. Quali sono i prossimi passi della guerra intraecclesiale di cui è diventato arduo negare le evidenze? “Molto dipenderà dalle decisioni sulle direzioni, probabilmente scorporate, del giornale, della televisione e della radio dei vescovi. Avvenire, con Boffo, è stato il vero strumento per trasformare il messaggio cristiano in cultura popolare, come ha detto il rettore della Cattolica di Milano, Lorenzo Ornaghi. L’attacco del Giornale di Vittorio Feltri ha ottenuto, in pochi giorni, quello che alcuni gruppi cattolici molto ostili a Boffo, a Ornaghi e a quello che rappresentavano, vale a dire il Progetto culturale della Cei, cercavano da anni di ottenere facendo circolare fogli anonimi e diffamatori. Poi c’è stata una mancanza di leadership chiara da parte della Cei nella gestione, anche su Avvenire, delle polemiche sulla vita privata del premier. Avvenire non ne ha parlato subito, è stato semmai molto prudente, e dei quattro commentatori che ne hanno scritto, solo uno era favorevole a una denuncia pubblica delle nequizie private di Berlusconi. Poi c’è stata la svolta, il 6 luglio, con la predica su santa Maria Goretti del segretario della Cei, monsignor Crociata. Universalmente interpretata, a ragione, come attacco alla vita privata del premier. Crociata stesso aveva voluto che fosse trasmessa in diretta su Sat 2000. E’ stata una cosa meditata, ripresa con grande spazio dai giornali di sinistra. Dopo c’è stato un diluvio di lettere e pressioni su Avvenire, accusato di non aver parlato abbastanza delle vicende private del presidente del Consiglio. Boffo ha fatto opera di contenimento, eppure è passata la vulgata del giornale della Cei sistematicamente contro Berlusconi. Una cosa irreale, che se ci fosse stato Ruini non sarebbe accaduta”. Come andrà a finire? “La battaglia per cambiare le linee maestre nella chiesa italiana, e dunque per seppellire la linea Ruini, è tuttora in corso. Naturalmente si esprime in forme del tutto diverse da quelle dei fogli anonimi, ma non mostra contenuti alternativi chiari e persuasivi”. (Nicoletta Tiliacos, Il Foglio, 23 settembre 2009)
Hegel: svuotamento della fede cristiana e sua trasformazione in gnosi. Due note appaiono caratterizzare il pensiero cattolico nel corso degli ultimi trent’anni. La prima, dominata dall’esigenza di superare il “ghetto” cattolico e una sorta di complesso di inferiorità dei cristiani nei confronti del moderno, conclude, rovesciando il giudizio neoscolastico di tipo ottocentesco, nella compiuta identificazione tra cristianesimo e modernità. Il moderno non costituirebbe un periodo di ostilità verso la fede quanto piuttosto un processo di purificazione della medesima dalle scorie derivanti da altre culture, da quella ellenica in particolare, presenti ancora nella cristianità antica e medievale. La storia del pensiero moderno diviene stona dell’attuazione compiuta dell’idea “cristiana” di Dio. La seconda nota, connessa alla prima, deriva dalla persuasione di vivere una stagione ecclesiale che non ha precedenti nella storia, una vera e propria “età dello Spirito” in cui tutti i precedenti modi e categorie di intendere e praticare la fede, legati a un’immagine troppo “sensibile” del divino, decadono a figure passate della storia cristiana. Ambedue queste caratteristiche costituiscono, di fatto, i punti qualificanti che Hegel offre del rapporto tra cristianesimo e modernità nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia. In tal modo, impercettibilmente, una parte rilevante della sensibilità ecclesiale e del pensiero teologico contemporaneo si è ritrovata nell’orbita di colui che Sören Kierkegaard considerava come il massimo responsabile dello svuotamento idealistico della fede cristiana nel corso dell’Ottocento. Per essa il periodo conciliare ha assunto, nell’immaginario teologico — come De Lubac aveva posto in luce nel suo La posterité spirituelle de Joachim de Flore —, i lineamenti di quell’epoca dello Spirito che, lungo la direttrice Hegel-Lessing-Gioacchino da Fiore, costituisce il pléroma del cristianesimo storico, il superamento del cristianesimo “storico”, “carnale”, della mera lettera, in direzione di un Evangelo spirituale, “eterno”, cui viene meno ogni differenza tra divino ed umano, soprannaturale e naturale, cristianesimo e mondo. Ha assunto cioè i caratteri di quella “seconda Riforma” che Hegel presumeva di poter trarre dal processo di secolarizzazione della forma protestante. Sue conseguenze sono, da un lato, una concezione “interioristica” della fede che, rifiutando ogni responsabilità esterna, si risolve nella mera conferma religiosa dell’eticità dello Stato. Dall’altro, una concezione del divenire storico che, rifiutando ogni possibile contaminazione tra le forme particolari e l’interiorità spirituale, termina in un escatologismo per il quale il cristianesimo non può assumere realtà e manifestarsi come evento storico. Come già nell’Illuminismo tedesco si riattualizzano qui «le due principali correnti di pensiero antagonistiche del protocristianesimo, entrambe curiosamente richiamantesi al nome dell’apostolo Giovanni e condensantisi rispettivamente nell’Apocalisse e nel quarto Vangelo: la tendenza chiliastico-apocalittica (di cui appunto nel pensiero moderno si accoglie l’accentuazione del divenire e la tensione verso il futuro, ma non il postulato del “nuovo cielo” e della “nuova terra”, né la prevalenza quasi esclusiva attribuita all’operare di Dio e del Cristo e del loro ministri angelici, né la valutazione prevalentemente negativa della storia profana e dell’impegno umano nella storia) e la tendenza mistico-interiorizzante» (1). L’incontro tra queste due linee — interiorismo gnostico ed escatologismo radicale — non costituisce di per se una peculiarità del panorama odierno. Già nel 1931 Erich Przywara, di fronte alla situazione del cristianesimo tedesco protestante a lui contemporaneo, osservava come «il contrasto tra gnosticismo fanatico e un radicalismo escatologico è in modo eminente la situazione di oggi». (2) Secondo Przywara, sotto la duplice influenza del filosofi russi dell’emigrazione da un lato (Chestov, Bulgakoff, Berdiaev) e della teologia trinitaria di Karl Barth dall’altro, si era «formata una filosofia e religiosità “pneumatologica” che ha la sua punta particolare in ciò, che “la libertà del pensare e vivere nello Spirito Santo” è contrapposta all’“esteriorità legale” della Chiesa. Questo è quasi letteralmente lo stesso di ciò che dice Hegel contro il cattolicesimo nella Filosofia della storia» (3). Questo risultato, come già nella scuola hegeliana, vede il sorgere di una dialettica tra una “destra” idealistica e una “sinistra” realistica. «Contro il cristianesimo dello “Pneuma” si solleva un cristianesimo della “realtà”, il quale esige che la Chiesa si incanali pienamente nel ritmo dei movimenti sociali ed economici che via via si presentano, sicché la versatilità dell’accordarsi col movimento oscillatorio della vita del mondo vale infine come il regno della Grazia». (4) È quanto accadeva nella “religiosità della realtà” di Friedrich Gogarten o nel socialismo come religione di Paul Tillich. In tal modo, a giudizio di Przywara, «la situazione della Riforma è giunta oggi al culmine, in ciò, che nel contrasto tra gnosticismo pneumatico e realismo socialistico gli elementi fondamentali di ciò che è Riforma sono disgiunti tra di loro: misticismo sfrenato e rivoluzione sociale. Se già Lutero si trovò impotente di fronte a queste due forze, oggi la situazione è definitivamente disperata. Sètte o socialismo sono gli eredi delle chiese territoriali. In ciò l’ombra di Hegel sta misteriosamente grande dietro a tutti» (5). A questo processo disgregatore si opponeva, secondo Przywara, «solo il cattolicesimo se il cattolicesimo tedesco non si lascia abbagliare dal nuovo hegelianismo» (6). Ora rispetto alla situazione degli anni Trenta si può osservare come, al di là dell’auspicio di Przywara, il fascino di Hegel si sia imposto non solo nell’ambito protestante ma anche in quello cattolico. Lo spirito del tempo, a partire dall’ottimismo planetario degli anni Sessanta e dall’utopismo rivoluzionario del post-Sessantotto, ha senz’altro favorito, nell’identificazione della storia con il “divenire di Dio”, l’assimilazione del quadro hegeliano. Il dualismo tra il cristianesimo dello “Pneuma” e il cristianesimo delle “realtà terrestri” identificate con il Regno di Dio ha così attraversato e segnato la storia del cattolicesimo negli ultimi decenni. Così come, in parallelo, il dualismo tra Spirito e istituzione, Chiesa “costantiniana” e Chiesa “carismatica”, ecc. In questa contrapposizione, dominata dalla persuasione di vivere un’epoca nuova, senza precedenti, non solo la Chiesa “antica” appare come premessa della “nuova Chiesa” ma lo stesso Cristo diviene il “Messia dello Spirito”. Come in Gioacchino da Fiore e, poi, nella sua versione secolarizzata in Hegel, il tempo neotestamentario viene a suddividersi in due ère: il tempo di Cristo e quello dello Spirito. Il primo legato alla figura sensibile e storica di Cristo, costituisce l’introduzione al secondo. Il cristianesimo in quanto fede storica diviene il vestibolo, la premessa del cristianesimo eterno, metafisico, il cui tempio è l’interiorità dello spirito. Dal punto di vista teologico questa riduzione è stata favorita tanto dalla “cristologia trascendentale” di derivazione kantiana (Joseph Maréchal, Karl Rahner), quanto, in sede esegetica, dall’uso irriflesso del metodo storico-critico lungo la traiettoria Reimarus-Hegel-Strauss-Bultmann. Per la prima posizione ciò che è determinante, nella fede, non è il Cristo storico, reale, bensì la sua idea che, eterna, e presente nel nostro animo al di là delle sue esemplificazioni storiche. Come già scriveva Kant: «Nella manifestazione fenomenica dell’uomo-Dio il vero e proprio oggetto della fede santificante non è ciò che di esso risulta ai nostri sensi o che può essere conosciuto mediante l’esperienza, bensì il modello ideale insito nella nostra ragione e che noi poniamo a base di tale manifestazione fenomenica». (7) L’Idea Christi è eterna, non è legata a esemplificazioni storiche. «Come idea il Cristo deve essere cercato non fuori di noi, ma dentro di noi e la sua figura storica ne è l’illustrazione che deve servirci da esempio». (8) Per Kant «anche se fosse possibile ed effettivamente si desse un “Cristo storico”, la sua funzione non potrebbe quindi che essere ricondotta a occasione per risvegliare in noi quella sua figura ideale da sempre presente nella nostra ragione e a cui soltanto noi dobbiamo rifarci in modo decisivo». (9) Coerentemente a questa prospettiva l’idealista Fichte potrà scrivere: «Soltanto ciò che è metafisico e non la dimensione storica rende beato; la seconda arreca soltanto erudizione. Se qualcuno si è realmente unito a Dio ed è entrato in lui, è del tutto indifferente per quale via vi sia giunto». (10) In ciò seguito da Hegel, per il quale «alla fede non importa l’accadere sensibile ma ciò che accade eternamente». (11) Conclusione questa che, nel negare ogni rilevanza alla fattualità e ai segni sensibili mediante cui il cristianesimo diviene evento, occasione di incontro, trova il suo epilogo nella teoria del “cristianesimo anonimo” di Karl Rahner che sanziona, di fatto, l’irrilevanza della Chiesa ai fini della salvezza. Per quanto riguarda il metodo storico-critico, anch’esso, nella misura in cui non è consapevole della sua genesi e delle sue premesse filosofiche maturate nel contesto dell’Aufklärung, rischia, paradossalmente, di dissolvere proprio quel “Cristo storico” che pure dovrebbe garantire. Nel postulato, acriticamente accolto, per cui il vero Cristo storico sta “al di là” del Cristo della fede, la fede, separata dal suo oggetto, diviene, idealisticamente, il luogo della produzione del suo contenuto: l’Uomo-Dio. In tal modo non la realtà del Cristo storico, nella sua vicenda di vita-morte-risurrezione e nei segni e miracoli che l’accompagnano, è condizione genetica della fede, della credenza in Lui, bensì, all’inverso, è per la fede che Gesù di Nazareth “appare” come il Dio dei cristiani. In questa inversione, per cui la fede invece di essere fondata sull’oggetto, sulla tradizione ecclesiale che dipende dai testimoni oculari, fonda essa stessa l’oggetto, il cristianesimo entra inevitabilmente nell’orbita hegeliana. È nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia che, seguendo Reimarus e Lessing, Hegel vuol mostrare il processo di idealizzazione dell’Uomo-Dio ad opera della Chiesa primitiva. Qui, come osserva Xavier Tilliette, «la divinità dell’uomo Gesù Cristo rischia di risultare da un husteron proteron; la comunità lo ha dichiarato Dio, e non Lui ha fondato, istruito e illuminato la Chiesa». (12) Il Gesù storico non coincide con il Cristo della fede. È solo la fede, la coscienza “religiosa” che a posteriori crea questa coincidenza. «Il Cristo» scrive Tilliette «considerato nella sua comunità, è oggetto di fede, e tale fede porta all’identità del Figlio di Dio con l’individuo storico Gesù di Nazareth. Noi non conosciamo più il Cristo secondo la carne: questa potrebbe essere l’insegna della cristologia hegeliana. In effetti la fede della comunità trasfigura, trasforma, quest’individuo singolare. La Chiesa decreta che egli è il Figlio di Dio». (13) Lo può fare perché, nella concezione hegeliana, non la fede “esteriore” è determinante, la fede nel Cristo “storico”, bensì la fede interiore la quale dipende dalla coscienza del “Dio” in noi, dell’Assoluto immanente al nostro spirito. Il Cristo Storico non è che l’occasione onde possa emergere nell’animo l’idea del divino, del Cristo ideale, eterno, da sempre presente in forma latente nella nostra mente. In questo senso «la fede esteriore deve dunque essere considerata solo come un mezzo per giungere alla vera fede; in quanto esteriore e sottomessa alla contingenza e lo spirito raggiunge la sua verità non secondo la contingenza, ma secondo la libera testimonianza». (14) La fede interiore supera così la fede esteriore. «Questa prima conferma è un modo esteriore, accidentale, della fede. La fede vera e propria è spirituale, è nello spirito; essa ha per suo fondamento la verità dell’idea». (15) Per Hegel, quindi, «la fede non riposa sull’autorità, su ciò che è stato visto, inteso, bensì sulla natura dello spirito eterno e sostanziale, la quale è giunta a coscienza». (16) Ciò implica, coerentemente, la negazione del valore ostensivo dei segni, dei miracoli, dacché «la fede riposa sulla testimonianza dello spirito non sui miracoli, bensì sulla verità assoluta, sull’idea eterna». (17) I segni “esteriori” appartengono all’“età del Figlio”, al cattolicesimo medievale. Essi perdono di importanza nel cristianesimo moderno, post-riformato, nell’età dello Spirito, dove ormai, al di là dell’unico mediatore, «ognuno ha da compiere in se stesso l’opera della riconciliazione». (18) Nell’interpretazione idealistica del cristianesimo la realtà del contenuto cristiano, la sua presenza sensibile nell’ambito spazio-temporale, il suo essere un avvenimento che si manifesta eminentemente tramite il volto concreto della Chiesa, viene così negata e risolta nell’universale religioso. La conseguenza è che «la figura di Cristo interessa unicamente come figura, come struttura significante ultimamente intellegibile. Non il quis ma il quid di Cristo viene considerato in questa cristologia; il suo essere personale, storico, irrisolvibile, se non è negato, non è neanche decisivo». (19) In questa obliterazione viene meno tanto il cristianesimo come evento quanto, corrispondentemente, la possibilità di “sperimentare” a partire dalle esigenze oggettive dell’umana natura, la verità di tale fatto. Ciò che rimane è una sorta di sublimazione religiosa dell’io che risolve, gnosticamente e simbolicamente, il contenuto concreto della fede quale cifra della propria autoesperienza interna sia essa mistica o sentimentale. In questo vuoto, per cui viene meno l’elemento proprio del cattolicesimo — il suo manifestare la presenza sensibile e attuale del Mistero divino — prende corpo la dialettica tra cristianesimo “pneumatico”, gnostico, e radicalismo escatologico. Se così è merita di essere evidenziata in tutta la sua rilevanza l’annotazione di Peter Henrici secondo cui, in Hegel e nel pensiero idealistico, «tale svuotamento dell’essere storico a favore di una mera struttura significante sembra più temibile — perché più congeniale al discorso filosofico — che non l’altra eresia, forse più propriamente teologica, che nega alla Persona di Gesù la natura divina». (20). (Massimo Borghesi, in AA.VV. «Il cristianesimo invisibile. Attualità di antiche eresie», SEI, Roma 1997) Note (1) G. Cunico, Da Lessing a Kant. La storia in prospettiva escatologica, Genova 1992, p. 56. (2) E. Przywara, Der Hegelianisrnus in Deutschland, in Rivista di Filosofia Neoscolastica, supplemento speciale al vol. XXIII, dicembre 1931, tr. it., Lo hegelianismo in Germania, p. 328. (3) Ivi. (4) Op. cit., p. 332. (5) Op. cit., p. 333. (6) Ivi. (7) I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it., in I. Kant, Scritti morali, Torino 1970, p. 446. (8) G. Riconda, Presentazione, in I. Kant, Scritti di filosofia della religione, Milano 1989, p. 20. (9) G. Ferretti, Immanuel Kant. Dal Cristo “ideale” della perfetta moralità al ritorno del Cristo della fede ai “confini” della ragione, in S. Zucal (a cura di), La figura di Cristo nella filosofia contemporanea, Cinisello Balsamo 1993, p. 59. (10) J. G. Fichte, L’iniziazione alla vita beata ovvero la dottrina della religione, tr. it., in J. G. Fichte, La dottrina della religione, Napoli 1989, p. 320. (11) G.W.F. Hegel, Propedeutica filosofica, tr. it., Firenze 1977, p. 242. (12) X. Tilliette, Sulla filosofia idealista, in Filosofia e teologia, 1989, p. 3. (13) X. Tilliette, Filosofi davanti a Cristo, tr. it., Brescia 1989, p. 163. (14) G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, tr. it., 2 voll., Bologna 1973, vol. I, p. 283. (15) Op. cit., vol. II, pp. 388-389. (16) Op. cit., p. 398. (17) Op. cit., p. 388. (18) G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it., 4 voll., Firenze 1941-1967, vol. IV, p. 150. (19) P. Henrici, Panlogismo o pancristismo?, in (Autori vari) Il Cristo dei filosofi, Brescia 1976, p. 118. (20) Op. cit., p. 113.
Rosemberg: Il nazista che voleva germanizzare Cristo e liberarsi della Chiesa Intervistati sul nazismo, anni dopo la guerra, molti tedeschi ebbero a dire: “Se avessimo letto il libro di Hitler, Mein Kampf...”. Effettivamente quel testo delirante, pieno di assurdità e di manie, non era cosi conosciuto quando Adolf Hitler andò al potere. Molta della sua fortuna editoriale fu successiva. Lo stesso avvenne per un altro scribacchino nazista, Alfred Rosenberg, un tedesco del Baltico nato il 12 gennaio 1893 a Reval, nell’Impero zarista, ed autore del secondo best seller del nazionalsocialismo “Der Mythus des 20. Jahrhunderts”, Il mito del Ventesimo secolo. Rosenberg è un ventunenne molto attivo quando viene assunto, nel dicembre del 1918, da uno dei primi maestri di Hitler, Dietrich Eckart, il finanziatore di organizzazioni “segrete” come il Circolo Fichte di Berlino e la Società Thule di Monaco, oltre che del primo quotidiano nazista. Secondo Thimothy W. Ryback, autore di una interessante analisi, “La biblioteca di Hitler” (Mondadori, 2008), Eckart è colui che inizia veramente all’antisemitismo sia il futuro dittatore che il suo fedele amico, Rosenberg appunto. Rievocando le sue chiacchierate con Hitler, in un dramma intitolato “Il bolscevismo da Mosè a Lenin: un dialogo tra Hitler e me”, Eckart riporta alcune invettive dell’amico Adolf contro la pratica delle indulgenze, le crociate e la chiesa cattolica in generale: “Questo rotolarsi nella sporcizia, questo odio, questa malignità, questa arroganza, questa ipocrisia. questa meschinità, questo incitamento all’inganno e all’omicidio... e questa è una religione? Allora non c’è mai stato nessuno più religioso del demonio stesso. È l’essenza ebraica, il carattere ebraico, punto e basta” (p. 41). E ancora: “Il colpo peggiore mai subito dall’umanità è il cristianesimo. Il bolscevismo è figlio illegittimo del cristianesimo. Tutti e due sono conseguenze dell’ebraismo. Attraverso il cristianesimo il mondo è stato riempito con una consapevole menzogna nelle questioni di religione” (p. 138). Eckart, Hitler e Rosenberg sono un trio di sedicenti intellettuali all’origine del nazionalsocialismo: nei loro discorsi e nelle loro ricostruzioni storiche, ebraismo e cattolicesimo perdono ogni differenza e si confondono, fino ad identificarsi. Quello che di malvagio c’è nell’ebraismo, vi è anche nel cattolicesimo e viceversa. I tre sono profondamente concentrati sull’evento chiave del Novecento: la Rivoluzione bolscevica, vero antefatto e causa remota, insieme alla Prima guerra mondiale, della nascita di fascismo e nazismo. Rosenberg ha addirittura assistito dal vivo alle origini della Rivoluzione, trovandosi a Mosca proprio nel 1917. Nel 1918 ha invece deciso di raggiungere la sua terra promessa, la Germania. Divenuto redattore del primo quotidiano nazista, il Völkischer Beobachter, nel 1921, Rosenberg viene incaricato di dirigere il partito mentre Hitler è in carcere dopo il fallito colpo di stato di Monaco, dal 1923 al 1924. Nel 1930, come si diceva, Rosenberg pubblica la sua opera più importante, “Der Mythus”, destinato a divenire il testo più diffuso del nazismo, dopo il “Mein Kampf’. Alla fine della Seconda guerra mondiale il libro avrebbe venduto oltre due milioni dl copie, nonostante la mole assai ponderosa (più di 700 pagine), divenendo un testo obbligatorio per le scuole secondarie, gli istituti di istruzione superiore e le varie associazioni e scuole di politica naziste. Ben presto Rosenberg viene nominato da Hitler stesso “ideologo capo” e “responsabile del benessere spirituale del popolo tedesco”; a lui verranno attribuite negli anni cariche culturali e politiche molto importanti e nel 1937 il Führer gli conferirà il Premio nazionale tedesco, un riconoscimento con cui il regime sostituisce il premio Nobel conferito dagli svedesi. L’uscita del libro di Rosenberg desta subito preoccupazione nella chiesa cattolica. Nel 1933 il Vaticano protesta formalmente per la sua inclusione nei programmi scolastici, “ma con scarsi risultati”; diversi vescovi si lamentano pubblicamente, nelle loro prediche, di quel libro, e dell’importanza che Hitler concede a Rosenberg all’interno del partito. Il dittatore, che non si sente ancora sufficientemente forte da svelare al suo popolo tutti i suoi piani e le sue idee, risponde molto ipocritamente di non essere d’accordo con quel libro, e contrattacca spiegando che in fondo, a farlo diventare famoso e a moltiplicarne le vendite, sono stati proprio i vescovi, con le loro tirate e le loro polemiche. Hitler non è ancora il padrone assoluto della Germania e gioca con astuzia: in verità condivide le tesi di Rosenberg, anche se non è entusiasta del suo oscuro modo di esprimersi, ma ritiene sia giusto procedere con cautela. Il 7 febbraio del 1934 l’Osservatore Romano pubblica un articolo in cui informa che il libro di Rosenberg è stato messo all’indice, in quanto “mostra disprezzo per tutti i dogmi della chiesa cattolica, cioè i fondamenti stessi della religione cristiana e li respinge completamente. Sostiene la necessità di fondare una nuova religione o una chiesa germanica e proclama il principio: ‘Oggi si sta svegliando una nuova fede, il mito del sangue, la fede nel difendere con il sangue l’essenza divina dell’uomo...”’. Il provvedimento del Sant’Uffizio, a cui Rosenberg risponderà nel 1935 con un testo intitolato “Agli oscurantisti (sic) del nostro tempo. Una risposta agli attacchi contro “Il mito del Ventesimo secolo”, fa seguito, come detto, alle prese di posizione di personaggi autorevoli come il vescovo di Monaco e Frisinga, Faulhaber, che ha iniziato a parlar male del libro di Rosenberg già nel 1930, e che nel 1933, nelle prediche sull’Avvento in cattedrale, ha “respinto esplicitamente l’ideologia nazista e definito ‘fratelli’ gli ebrei tedeschi” (Ryback, p.129). Il 6 novembre del 1936 Faulhaber si presenta addirittura al Berghof per lamentarsi ancora, personalmente, con Hitler per le idee diffuse dal Rosenberg, e per le persecuzioni naziste alla chiesa. L’arcivescovo rammenta a Hitler che “il governo nazista, al di là delle dichiarazioni ufficiali, negli ultimi tre anni aveva dichiarato guerra alla chiesa cattolica. Non solo le varie attività della gioventù nazista venivano cattolica programmate alla domenica mattina per allontanare i giovani dalla comunione, ma nella sola Baviera più di seicento insegnanti di religione avevano perso l’impiego e il numero sarebbe presto arrivato a quasi millesettecento. Peggio ancora, lo stato aveva introdotto politiche che la chiesa non avrebbe mai potuto avallare, come la sterilizzazione dei criminali e degli individui con difetti genetici” (Ryback, p. 131-132). Tornando al nostro Rosenberg, i capisaldi del suo pensiero sono di natura filosofico-teologica, e secondo Robert Cecil sono sostanziati di attacchi contro “le chiese cristiane almeno altrettanto che contro l’ebraismo”. Rosenberg si scaglia contro il cattolicesimo, che riflette una perversione del messaggio originale di Cristo, ad opera dell’ebreo san Paolo. Cristo sarebbe stato in verità, un vincitore e non un vinto; un eroe e non uno sconfitto; un ariano e non un ebreo, e, infine. un uomo che mai si sarebbe dichiarato Dio. Ci sarebbe anzi, addirittura un “Quinto Vangelo”, nascosto dalla chiesa, troppo dedita al potere, contenente il vero messaggio di Gesù. Tesi, come sappiamo oggi, che tornano di tanto in tanto ad opera di persone ben poco istruite, ma molto dotate di fantasia. Soprattutto, per Rosenberg, Paolo avrebbe accentuato la Passione e monte di Cristo, dando a questi eventi in significato inaccettabile. Il crocifisso sarebbe infatti un oggetto disgustoso, di martirio, simboleggiante una religione dell’amore (e non della forza, del valore, della patria), da sostituire dovunque con monumenti ai soldati caduti in guerra perla nazione. Rosenberg contesta anche la dottrina del peccato originale, poiché il popolo tedesco non sarebbe per nulla contaminato da esso; l’unico peccato originale possibile è quello contro il sangue. Contemporaneamente attacca l’idea di una creazione del mondo “dal nulla”: “Contro questo mostruoso principio fondamentale lo spirito germanico è stato da sempre nella più aspra posizione di lotta”. La creazione, infatti, presuppone anche l’alterità tra creatore e creatura, mentre Rosenberg, secondo il tipico panteismo nazista, ritiene che “Se io non fossi, non sarebbe neppure Dio”. Le altre due idee disgregatrici del cattolicesimo, in “perpetuo conflitto con il concetto germanico di razza”, continua Rosenberg, sono l’universalismo e l’individualismo. Rosenberg riconosce giustamente che la teologia cattolica, da un lato affratella gli uomini, tutti figli dello steso Dio, e della stessa coppia originaria, Adamo ed Eva, proponendo quindi un messaggio universale, e non razziale, né etnico, classista o sessista; dall’altro dà una grande importanza all’individuo, al suo essere creatura unica e irripetibile, a immagine e somiglianza di Dio, dotato di un’anima unica e immortale. Rosenberg, commenta Robert Cecil, “dedica particolare attenzione alla decadenza della ‘struttura universale romana’, poiché essa gli permette di illustrare l’influenza esiziale del cristianesimo, che sfrutta da una late l’universalismo già presente nella struttura imperiale, e dall’altro l’individualismo, presente nella dottrina cristiana dell’anima e della sua salvazione. Se tutti i cristiani hanno un’anima, tutti i cristiani sono, almeno potenzialmente, eguali; ma per i nazisti l’eguaglianza in tutti i suoi aspetti era detestabile. “Tutto ciò che era ancora imbevuto di romanità cercò di difendersi dall’ascesa del cristianesimo, tanto più perché il cristianesimo, accanto al proprio insegnamento religioso, rappresentava ma tendenza politica totalmente proletario-nichilistica’. La religione dell’amore e la politica dell’eguaglianza erano entrambi letali per lo stato; il pacifismo del cristianesimo primitivo aveva minato Roma allo stesso modo con cui i disfattisti avevano ostacolato il Reich nella Grande guerra. Da che la ‘struttura universale romana’ era stata conquistata dal cristianesimo, le dottrine antirazziali e universalistiche di questo l’avevano resa implacabilmente ostile agli interessi del popolo tedesco. Benché possa sembrare che la chiesa cattolica sia avversaria del giudaismo, essa è, in effetti, il principale canale attraverso cui le idee ebraiche infettano il corpo sano del pensiero germanico” (Robert Cecil, ‘Il mito della razza nella Germania nazista. Vita di Alfred Rosenberg”, Feltrinelli, 1973, p. 103). Scrive infatti Rosenberg in un passo del “Mythus”: “La nostra anima è stata contaminata dall’ebraismo; i mezzi per fare questo sono stati la Bibbia e la chiesa di Roma. Con il loro aiuto il demone del deserto è diventato il ‘dio’ dell’Europa”. È a ben vedere, questa, un’idea che Rosenberg e altri gerarchi nazisti riescono a diffondere piuttosto bene, se è vero che spesso ai cattolici avversari di Hitler i nazisti imputano la colpa di essere seguaci dell’”ebreo” Gesù Cristo, contro cui scagliano terribili maledizioni. Lo storico di Oxford Michael Burleigh ricorda ad esempio che il vescovo Bornewasser di Treviri venne assalto con l’urlo “Vescovo ebreo! Magnaccia bolscevico”, e che “l’organo delle SS rivolgeva spesso insulti al Papa”, accostando Roma alla Giudea, come in una poesia intitolata ‘Il Rabbino Capo di tutti i cristiani”, in cui si accusava il Pontefice di essere in fondo nient’altro che un rabbino, “vecchio, con la testa confusa, barcollante e malato”, ignorante su tutto ciò che riguarda la Razza, reo di considerare “sia Neri che Bianchi come figli dagli uguali diritti” e i cristiani, “di qualsivoglia colore”, come “spiritualmente giudei” (M. Burleigh, “In nome di Dio”, Rizzoli, 2007, p.214-215). A tal proposito, Rosenberg si scandalizza più volte per l‘avversione al nazionalismo e al razzismo dei cattolici, e per bollare queste idee inventa la solita tirata sui poveri eretici eliminati dalla chiesa “Da ‘Bonifacio’ fino a Ludovico il Pio, che si sforzò di estirpare radicalmente tutto ciò che era germanico, fino ai nove milioni [sic] di eretici trucidati, si sviluppa sino al Concilio Vaticano, sino ad oggi, un unico tentativo di affermare una inesorabile fede unitaria, e di diffondere una forma, un articolo di fede coercitivo, una lingua ed un rito per uomini nordici, levantini, negri, cinesi ed esquimesi (si confronti il Congresso eucaristico di Chicago del 1926, ove vescovi negri celebrarono la Messa). Da duemila anni l’eterno sangue di tutti i popoli e razze si indigna contro di ciò”. E ancora: “E così anche i relatori del Katholikentag, la Giornata dei cattolici tedeschi, del 1923 a Costanza, erano arrivati alla conclusione che la più grande eresia del nostro tempo sarebbe quel “nazionalismo eccessivo”, che avrebbe già provocato i più “terribili disastri e devastazioni” anche nelle teste dei cattolici. Una formula che viene ripetuta ogni mese dai vescovi tedeschi” (molte citazioni letterali dal “Mythus” sono tratte da un lungo saggio di Ermanno Pavesi su Cristianità, n. 325, 2004). In tutto il “Mythus” la chiesa cattolica, ben più di quelle protestanti, si rivela il vero avversario del pensiero nazista. Cosi Rosenberg la accusa di aver ostacolato il cammino della scienza (il nazismo, come il comunismo, come oggi il riduzionismo, si riteneva “scientifico”), si lancia in elogi degli antichi eretici, dai catari ai valdesi, ai luterani, vedendo in essi la reazione nordico-germanica all”ipnosi romano-mediorientale”: “Se non siamo ancora morti, ciò è merito della potenza dell’anima germanica, che ha finora impedito la definitiva vittoria di Roma (e di Gerusalemme). In Meister Eckhart l’anima nordica pervenne per la prima volta alla totale consapevolezza di sé stessa. Nella sua personalità sono già contenuti tutti i nostri successivi grandi uomini. Dalla sua grande anima può - e potrà -, un giorno, nascere la fede tedesca”. Tra gli eretici medievali, il preferito a Rosenberg è senz’altro il domenicano tedesco Johannes Eckhart, noto come Meister Eckhart(1260 ca.-1327), che assurge nel “Mythus” ad incarnazione dell’anima tedesca: “Con la sua religione, la sua etica e la sua critica della conoscenza antiromane, Eckhart si separa coscientemente, anzi bruscamente, da tutti i basilari comandamenti sia della chiesa romana che della successiva chiesa luterana. In luogo della statica anima giudaico-romana, egli pone la dinamica dell’anima nordico-occidentale; in luogo di un violentamento monistico esige il riconoscimento della duplicità di ogni vita; al posto della dottrina della sottomissione e di una felicità da servi egli predica il riconoscimento della libertà dell’anima e del volere; al posto della presunzione ecclesiastica della rappresentanza di Dio mise l’onore e la nobiltà della personalità spirituale; al posto dell’amore estatico, devote e sottomesso, subentra l’idea aristocratica della segregazione personale e della solitudine spirituale; al posto della violenza della natura subentra la sua realizzazione. E tutto ciò significa: al posto della concezione del mondo giudaico-romano subentra la confessione spirituale nordico-occidentale come il lato interiore dell’uomo tedesco-germanico, della razza nordica”. Alla difesa appassionata degli eretici medievali, Rosenberg affianca dure requisitorie contro la chiesa cattolica, che si sarebbe rosa colpevole, riprendendo le cifre esorbitanti e propagandiste dell’illuminista Gottfried Christian Voigt, della morte di ben “nove milioni di streghe”, ree unicamente di avere una “più intima osservazione della natura”! Rosenberg si trova così alleato, in questa battaglia culturale contro l’”oscurantismo” passato, di un uomo per cui non prova eccessiva simpatia, Heinrich Himmler, il capo delle SS. Anche Himmler, come ricorda Michael Hesemann, è convinto che la chiesa sia al servizio degli ebrei e che la caccia alle streghe sia servita ad eliminare gli ultimi rappresentanti delle comunità religiose pagane germaniche. Himmler arriverà addirittura a “conferire al servizio di sicurezza delle SS una ‘Missione speciale H’ (dove H sta per Hexen, streghe)”, incaricata di conteggiare il numero delle streghe uccise dalla chiesa, setacciando tutti gli archivi ecclesiastici e civili del Reich. Alla fine, commenta Hesemann, Himmier non riesce, suo malgrado, a raggiungere la cifra epica di nove milioni, ma arriva “al numero di 25 mila vittime, molto più della metà delle quali nelle regioni protestanti” (e molte delle quali condannate non dall’Inquisizione, ma dai tribunali civili; M. Hesemann, “Contro la Chiesa”, San Paolo, 2009). Tra le varie colpe del cristianesimo paolino, Rosenberg ne rintraccia un’altra, letale per il razzismo magico e la religione del sangue di cui si fa portatore. Il cristianesimo sarebbe la coalizione ribelle e vendicativa di tutti gli “esseri inferiori” contro quelli “superiori”; la religione di coloro che meschinamente si prostrano in ginocchio, rinnegando la dignità divina dell’uomo superiore; di coloro che adorano un Dio dolorante, che patisce, e, con lui, la debolezza, e l’umiltà; di quanti difendono i deboli, i malriusciti, dagli sforzi eugenetici dello stato: “La società europea si è senz’altro ‘sviluppata’ come protettrice di ciò che è deteriore, malato, deforme, marcio e criminale. L’‘Amore’ con l’aggiunta dell’‘Umanità’ è diventato una dottrina disgregatrice di tutti i comandamenti e di tutte le forme vitali di un popolo e di uno stato, e si è quindi ribellata in tal modo contro la Natura che oggi si vendica. Una Nazione, il cui centro rappresentasse l’onore e il dovere, non manterrebbe delinquenti e fannulloni, ma li eliminerebbe. Assumendo queste posizioni Rosenberg si pone sulla scia di Nietzsche, il filosofo della “morte di Dio” che in varie sue speculazioni aveva anticipate idee naziste, presentando l’odiatissimo cristianesimo — frutto a suo dire del risentimento verso la vita dei deboli e dei repressi, difesa dei “malriusciti” che meriterebbero la monte —, come il cavallo di Troia dell’ebraismo e della sua vendicativa “morale degli schiavi”: “Sono stati gli ebrei (conquistando Roma col cristianesimo, ndr) ad aver osato, con una terrificante consequenzialità, stringendolo ben saldo con i denti dell’odio più abissale (l’odio dell’impotenza), il rovesciamento dell’aristocratica equazione di valore (buono=nobile=potente=bello=felice=caro agli dei), ovverosia i miserabili soltanto sono i buoni; solo i poveri, gli impotenti, gli umili sono buoni; i sofferenti, gli indigenti, gli infermi, i deformi sono anche gli unici devoti” (“La genealogia della morale”). E nella stessa opera, parlando di Cristo, dopo averlo presentato come “Redentore arrecante al poveri, agli ammalati, ai peccatori la beatitudine”, aveva concluso: “Israele stesso non ha forse, col giro vizioso di questo Redentore, di questo apparente avversario e dissolvitore d’Israele, raggiunto l’ultimo scopo della sua sublime vendetta? E non appartiene forse a una segreta, tenebrosa arte di una veramente grande politica di vendetta, di una vendetta prelungoveggente, precalcolatrice e sotterranea, che Israele stesso abbia inchiodato sulla croce e calunniato innanzi al mondo qual nemico mortale l’unico strumento della propria vendetta, affinché tutto il mondo, cioè tutti gli avversari di Israele, potessero senza esitazione mordere quell’esca?”. Vendetta contro chi, si chiede sull’Avanti del 13 agosto 1912 Benito Mussolini, socialista materialista ed anticlericale, commentando con simpatia il pensiero di Nietzsche? Vendetta dei deboli sui forti, dei malati sui sani, degli schiavi sui dominatori, dei malriusciti sui riusciti, di Giuda su Roma, del cristianesimo sul paganesimo. Perché, sempre riprendendo Nietzsche, ormai purtroppo “ovunque l’uomo è addomesticato o vuole diventarlo, davanti a tre ebrei e un’ebrea: Gesù di Nazareth, il pescatore Pietro, e Maria, la madre di Gesù” (Ernst Nolte, “Il giovane Mussolini. Marx e Nietzsche in Mussolini socialista”, Sugarco, 1993, pp. 134-136). Vendetta, dunque, che Rosenberg e i nazisti vogliono vendicare. Rosenberg, convinto con l’amico Walter Darré che gli uomini siano da allevare come il bestiame, artificialmente, impedendo agli “inferiori” di riprodursi liberamente, prende posizione contro l’enciclica di Papa Pio XI (1922-1939) “Casti connubii”, sul matrimonio cristiano, del 31 dicembre 1930: “Il Vaticano si è mostrato di nuovo come l’avversario più accanito dell’allevamento di quanto è più valido e come protettore del mantenimento e della riproduzione di quanto vale di meno. In opposizione anche a seri eugenisti cattolici Papa Pio XI dichiara agli inizi del 1931 nella sua enciclica ‘Sul matrimonio cristiano’, che non è legittimo compromettere l’integrità fisica di persone che sono in sé capaci di sposarsi, ma che probabilmente darebbero la vita a una prole minorata. [...] Dunque, chi vuole una Germania sana e spiritualmente forte deve respingere energicamente tanto questa enciclica pontificia, che porta all’allevamento di uomini inferiori, quanto il fondamento del pensiero romano in quanto contro natura e ostile alla vita”. Affinché il cristianesimo, mutandosi, possa sopravvivere, c’è, per Rosenberg, una sola speranza: la morte della chiesa cattolica, la germanizzazione del Cristo attraverso l’eliminazione radicale del Vecchio Testamento ebraico, e “l’eliminazione dal Nuovo Testamento dei racconti evidentemente contraffatti e superstiziosi”. Cosi il nazismo si incontra con le letture eretiche del Vangelo e del Cristo che da sempre cercano di ridurlo ad un uomo, e che Rosenberg ben conosce. A questa concezione si aggiunge il ritorno al passato precristiano, mitizzato e abbracciato come vera identità del popolo tedesco: “Quanto v’era di eroico, di germanico, di precristiano, tutto faceva brodo per Rosenberg, egli trovò il Sepoicro di Widukind il sassone e fece con Himmler un pellegrinaggio alla supposta tomba di Enrico I a Quedlinburg. A Verdun, dove Carlo Magno aveva sconfitto i pagani, Rosenberg auspicò un monumento di 4.500 pietre, una per ogni sassone”. Per lui, come ebbe a dire in un’occasione, “per i tedeschi la Terra santa non è la Palestina... I nostri luoghi santi sono certi castelli sul Reno, il suolo generoso della Bassa Sassonia e la fortezza prussiana di Marienburg” (Cecil, p. 108). Al processo di Norimberga, a guerra finita, Rosenberg è un uomo che non ha abbandonato le sue convinzioni. Non è particolarmente depresso o avvilito, non cerca, come altri gerarchi, la via del suicidio, ma, come ha scritto il tenente colonnello W.H. Dunn. che ha fatto una perizia psichiatrica dell’imputato, rimane “abbarbicato alle proprie teorie in modo fanatico e inflessibile” e sembra “poco impressionato dalla rivelazione, durante il processo delle efferatezze e dei crimini del partito”, cui lui, in verità,ha partecipato, certo, in quanto ideologo, meno come uomo d’azione. Anzi, Rosenberg punta proprio a difendersi sostenendo questa posizione: non si è macchiato di delitti particolarmente efferati, pur avendo, con i suoi libri e le sue riviste convinto milioni di persone della bontà del nazismo. Uno degli accusatori russi, però, contraddice questa tesi e descrive “come Rosenberg autorizzò la deportazione nel Reich nell’estate del 1944, di 40 mila orfani russi senza famiglia”; in verità deve ammutolire quando Rosenberg, che è stato effettivamente uno dei consiglieri più importanti per la politica verso est di Hitler, ricorda che”un egual numero di adulti erano stati deportati in Russia nel 1940 da ciascuno degli stati di Estonia e Lettonia”. Analogamente, quando l’americano Thomas Dodd rinfaccia a Rosenberg di aver perseguitato la religione, l’accusatore sovietico preferisce non proseguire nell’interrogatorio e lasciarlo cadere: “Vi furono molti momenti imbarazzanti del genere prima che il lungo processo avesse termine”, commenta Robert Cecil. Fu proprio perché i russi, che sedevano nel banco del giudici, avevano perseguitato anch’essi, in ogni modo possibile, il cristianesimo e la chiesa, che a Norimberga non si approfondì, in generale, l’avversione nazista per Gesù Cristo e per i suoi seguaci? E se non è per questo, per quale perversione la chiesa cattolica, che i nazisti odiarono e cercarono di distruggere, viene oggi talora chiamata da qualcuno a correo del nazismo stesso? Sia come sia, Rosenberg morirà convinto che il nazionalsocialismo fosse un lodevole “atteggiamento di forza in contrasto con la fede cristiana, che insegna all’uomo ad essere conscio della propria debolezza e della propria soggezione all’errore”, umiliandolo e facendogli così dimenticare la sua natura divina. Al pastore luterano che andrà a trovarlo prima di salire al patibolo, nelle prime ore del mattino del 15 ottobre 1946, Rosenberg, che in un passo del “Mythus” ha descritto come folle e disumana, assolutamente incomprensibile, l’idea che un uomo possa inginocchiarsi, e umiliarsi, davanti a Dio, risponde: “Non ho bisogno del suo aiuto”. Sembra siano state le sue ultime parole. (Francesco Agnoli, © Il Foglio, 25 luglio 2009)
Un presente eterno tra passato e futuro Il mondo cattolico è stato al tempo stesso intransigente nel rifiuto della modernità e transigente nel modificare i suoi costumi nel lungo periodo. Il Sillabo (1864) è una condanna apparentemente irrevocabile della modernità. Ma esiste il definitivo nel fluire storico? Peraltro il cattolicesimo è stato disponibile alla modernità tecnica che facilitava la vita quotidiana e l'economia. Inoltre c'è stato il graduale accoglimento del pensiero politico moderno. La democrazia, avversata nell'Ottocento, nel secolo successivo è stata approvata, rivendicandone l'origine al cristianesimo. Senza cedere però su punti ritenuti essenziali alla propria identità. Infatti la Chiesa cattolica ha appoggiato i partiti democratici d'ispirazione cristiana, ma non è diventata essa stessa una democrazia. Si regge sulla comunione, non sul consenso democratico. Tanto meno la Chiesa cattolica ha assunto le sembianze di un'agenzia umanitaria internazionale. Non ha confuso il suo profilo religioso con messianismi terreni. Si è qualificata come pilastro dell'Occidente mantenendo però una dimensione universale che l'ha immunizzata dal mito del progresso risolutore presente nell'Occidente. Ha conservato formule comunitarie per vivere la fede senza concessioni eccessive all'individualismo. Nel cuore del Novecento Emmanuel Mounier definiva la Chiesa cattolica "personalista e comunitaria" al tempo stesso. Mentre eruditi patrologi dimostravano come la Chiesa antica considerasse la salvezza realtà prettamente comunitaria, connessa non all'individuo isolato, ma all'unità del genere umano, corpo mistico di Cristo, essendo tutti gli uomini costituiti e ordinati a uguale immagine di Dio. Daniele Menozzi vede "contrapposizione tra cattolicesimo e modernità - stemperata da una modernizzazione che, pur estrinsecandosi in una parziale ricezione dei diritti dell'uomo, non si è mai risolta nella piena accettazione dell'autonomia dell'uomo nel fabbricare la sua città". Questa contrapposizione c'è stata. Dalla Rivoluzione francese sino al Vaticano II la Chiesa cattolica si è opposta alla modernità, anche se ne accettava il mero progresso tecnico. Occorre tener presente che la modernità ha tentato di dominare la Chiesa oppure di svuotarla attraverso la secolarizzazione. Roma non ha mai accettato di essere dominata da prìncipi e imperatori. e in anni recenti non ha gradito la supremazia incontrastata degli imperialismi. Che la sua agenda potesse essere dettata dalla modernità la inorridiva. Il conflitto tra cattolicesimo e modernità è stato alimentato da entrambe le parti. L'uno ha difeso gelosamente la Tradizione, comprensiva di un antico monopolio della verità. L'altra ha visto il nemico nella religione. Fino a trent'anni fa, in Occidente, più modernità significava meno religione, e si pensava che la storia andasse verso una universale secolarizzazione. Per altro verso, quanto Menozzi intende come negativo è visto invece come un valore dal cattolicesimo romano non intenzionato a mutare la sua concezione dell'uomo secondo le idee correnti. Il cattolicesimo non accetta che l'uomo moderno sia essenzialmente diverso dall'uomo antico. E non si prefigge di colmare fossati e di recuperare terreni perduti, né di apparire attuale rivendicando, alla maniera dei protestanti, primogeniture nei processi di modernità. Il sensus fidelium non lo permetterebbe. Perché affannarsi quando la modernità è stata anche rivoluzioni distruttive, terrore e violenza, totalitarismi genocidari, razzismo e antisemitismo, stragi d'innocenti, lager e gulag, Cambogia e Ruanda? Aggiornamento sì, secolarismo no: così il concilio Vaticano II che ha comunque rappresentato una cesura, non della continuità della Tradizione ma di un'attitudine di diffidenza verso le realtà terrene per sospingere i cattolici a inedita cordiale simpatia innanzi all'umanesimo contemporaneo e alla città dell'uomo. Come affermava Paolo VI nel discorso di chiusura del Vaticano II: "L'antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (...) ha assorbito l'attenzione del nostro Sinodo". Dopo il concilio Vaticano II, la modernità è accettata dalla Chiesa cattolica. Ma con una doppia riserva. Che non venga ad alterarne la struttura interna e la dottrina. Che sia sottoposta, in ciascuna delle sue manifestazioni, a una verifica etica. Giovanni XXIII citava volentieri un pensiero di Bergson, le corps aggrandi attend un supplément d'âme, trovandolo "bene applicato al progresso della scienza. Questa pone problemi non solo scientifici, ma giuridici, filosofici, morali, religiosi: e se la sua potenza si accresce occorre che il dotto accresca la sua sapientia: quella che è norma di vita, legge morale, e riconoscimento di valori superiori". Analogamente Benedetto XVI: "Penso che il vero problema della nostra situazione storica sia lo squilibrio fra la crescita incredibilmente rapida del nostro potere tecnico, del sapere, del know-how, e quella della nostra capacità morale, che non è cresciuta in modo proporzionale". Papa Ratzinger rileva un senso etico insufficiente "ad usare correttamente la tecnica, che pure ci vuole". Come scrive nella Spe salvi: "È necessaria un'autocritica dell'età moderna (...) Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell'uomo, nella crescita dell'uomo interiore, allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l'uomo e per il mondo". Benedetto XVI non crede nel progresso per se stesso, svincolato dal discernimento etico dell'uomo. Ragione e libertà dell'uomo - pilastri del progresso e della modernità - hanno valore soltanto se conducono a discernere tra il bene e il male: "in caso contrario la situazione dell'uomo, nello squilibrio tra capacità materiale e mancanza di giudizio del cuore, diventa una minaccia per lui e per il creato". La fede nel progresso umano, che connota la modernità, incorrerebbe in un errore fondamentale, quello di scambiare il progresso materiale, addizionabile entro i limiti consentiti dalle leggi fisiche della natura, con il progresso dell'uomo come essere vivente, che non è addizionabile, in quanto connesso all'esercizio di ragione e libertà nelle scelte etiche, le quali sono sempre nuove e sempre fragili. Per la Chiesa cattolica dei nostri giorni è un dato certo: il progresso, il nuovo, la modernità non rivestono a priori un significato positivo e neppure negativo. Non hanno una valenza neutra, possono causare il male, ma possono anche essere orientati al bene. Non producono il paradiso in terra, che è irrealizzabile, ma possono concorrere al bene sulla terra. Certo l'evangelico Regno di Dio è altro. Ma la modernità è oggetto di dialogo da parte della Chiesa. Paolo VI fece del dialogo con la modernità quasi la cifra del suo pontificato, nello spirito del Vaticano II. La Chiesa cattolica resta fedele a una duplice visione della storia. C'è un momento del passato che racchiude già tutta la storia, ed è la passione, morte e resurrezione di Cristo, evento che esaurisce la storia e al tempo stesso la muove e la motiva dinamicamente verso un cosmico atto finale, la Parusia. Così la Chiesa cattolica è a un tempo antimoderna e moderna. Da una parte, la croce e la resurrezione di Cristo sono fissate nel passato ormai remoto. Dall'altra, l'eternità, non il tempo storico, è il destino ultimo dell'uomo. Eppure, la storia ha per i cattolici uno svolgimento, un'intensità ontologica, una valenza salvifica nel presente. Il cristianesimo ha precipuo carattere storico, non è ritualità di gesti e pensieri, non è circolarità di eventi che si ripetono, non è dogma che imprigiona la creatività. E la storia ha un senso, una direzione, oltre che un'imprevedibilità dovuta al libero arbitrio dell'uomo. Si obietterà che il credente tutto vede sub specie aeternitatis, che la preghiera e la contemplazione sono fuga dal secolo e dalle opere della storia, che la fede disprezza le realtà temporali poiché non esiste storia dell'eterno. Henri de Lubac, che definisce la storia "interprete obbligato tra Dio e ciascuno di noi", risponderebbe che "per elevarsi fino all'eterno bisogna necessariamente appoggiarsi sul tempo e lavorare in esso. A questa legge essenziale s'è sottomesso il Verbo di Dio: è venuto per liberarci dal tempo - ma per mezzo del tempo: propter te factus est temporalis, ut tu fias aeternus. Legge d'incarnazione (...) Sull'esempio di Cristo ogni cristiano deve accettare la condizione d'essere impegnato nel tempo; condizione che lo fa solidale di tutta la storia, di maniera che il suo rapporto con l'eterno va di pari passo con un rapporto con un passato che sa immenso e con un avvenire la cui durata gli sfugge". L'idea cattolica è che fede e storia stiano insieme. Ma anche il contrasto tra fede e scienza deriverebbe dall'equivoco che le vuole a competere nella stessa dimensione quando invece i lumi della fede e i lumi della scienza apparterrebbero a ordini diversi. Ma allora le secolari polemiche sull'oscurantismo cattolico? Il caso Galilei e l'atavico timore che la teologia non controlli più la scienza? O che la scienza divenuta autonoma metta in dubbio la teologia? E la condanna del modernismo in cui la teologia chiedeva aiuto alla scienza ormai emancipata? In realtà, la Chiesa cattolica è una complexio oppositorum in cui si va da un estremo all'altro. Per citare Yves Congar: "La grandezza, secondo Pascal, è di tenere gli estremi e di riempire lo spazio tra loro. Il cattolicesimo è gerarchico e si rinnova a partire dalla base; si riversa nel pluralismo e abbonda in mistici; parla di sofferenza e di croce e, gioioso, preconizza lo sviluppo dei più alti valori umani; limita le pretese della ragione e ne rivendica le possibilità (...) Il cattolicesimo sarebbe questa complexio oppositorum (...) Il cattolicesimo è la pienezza, e, così come si è espresso nell'ultimo concilio, sintesi: non il papa senza collegio, non il collegio senza il papa; non la Scrittura senza la Tradizione, non la Tradizione senza la Scrittura". Nell'articolato organismo cattolico l'unità è fatta da Roma, dal papato, che in età contemporanea, da una parte, ha combattuto la modernità in quanto secolarizzazione, e dall'altra parte ha tenuto la modernità in debita considerazione perché rappresentava il presente dell'uomo cui annunciare il kèrygma cristiano. Mai che la modernità metta in discussione il dogma. Ma può esserci l'aggiornamento, la simpatia per la progrediente avventura umana, la valorizzazione dei segni dei tempi. Si vaglia il nuovo, per rigettarlo se insidia identità o dottrina, per sostenerlo se utile a salvare le anime. (Roberto Morozzo della Rocca, L'Osservatore Romano, 3 ottobre 2009)
Don Sturzo scelse sempre di essere un prete Sono stato colpito dall'opportunità che ci viene data di riflettere sulla figura di don Luigi Sturzo, sulla sua vita, il suo pensiero, le sue opere, mentre è in pieno svolgimento l'Anno sacerdotale voluto dal Santo Padre Benedetto XVI, a 150 anni dalla morte di san Giovanni Maria Vianney. A uno sguardo non superficiale, infatti, appare un numero imprevisto di analogie tra il cammino del prete di Caltagirone e quello del curato d'Ars. Davvero una sorpresa: l'amore indefesso per il sacerdozio, la completa dedizione all'eucarestia come sacramento vivificante, l'obbedienza alla Chiesa e ai superiori, la fortezza umana sposata a una infinita umiltà, una salute che faceva penare, il coraggio d'intraprendere cose nuove, il non fermare il proprio ministero sul sagrato dell'edificio di culto... Ma forse stiamo parlando della verità più profonda del ministero ordinato, la stessa verità che troveremmo in ogni prete vero, che dovremmo poter trovare in ogni prete. Una verità, quella del servizio presbiterale, che don Sturzo ha illustrato e che in parte non piccola ha contribuito con la sua vita a scoprire, o almeno a rivelare a una porzione significativa di popolo di Dio. Ci accorgiamo di ciò facilmente se proviamo a guardare al prete con l'aiuto dei documenti del Concilio. Fin dall'inizio della Presbyterorum Ordinis il prete è definito per il suo dedicarsi al servizio della celebrazione, all'annuncio della parola di Dio, al servizio per l'edificazione del popolo santo. Tutto quello che sappiamo della vita di don Luigi Sturzo si snoda come una trama dal principio alla fine unificata dal costante primato accordato alla celebrazione della messa. Egli la visse con una intensità resa possibile da un costante lavoro di distinzione del valore di questa azione sacramentale dal resto delle pratiche di devozione, che non disprezzò ma che seppe dimensionare orientando la propria vita di credente e di prete su ciò che noi oggi, grazie al Concilio, professiamo con rinnovata certezza quale fonte e culmine della vita cristiana. Quando fu posto di fronte all'alternativa tra servizio ministeriale e altri pur meritevoli e preziosi impegni, don Luigi Sturzo fece ciò che richiedeva il restare ciò che era divenuto: un prete. Ci insegnò una strada per far crescere la Chiesa e la fede attraverso il provvidenziale crogiolo della modernità e ci insegnò un sentiero di testimonianza della fede nella polis fino ad allora ignorato, se non ritenuto impossibile o addirittura sbagliato. Se la nostra fede e la nostra Chiesa respirano, se sanno respirare a pieni polmoni della libertà che questi tempi ci consentono e a cui quasi ci obbligano, se la fede non è impaurita dalla coscienza, questo è ancora merito suo. Come Rosmini, come Manzoni, come Montini, don Luigi ci ha aiutato a sondare nuove dimensioni di quella misura alta di umanità che è la santità, come spesso ci ha ricordato Giovanni Paolo II. Ed in più, don Luigi ci ha insegnato quanto sia vero che nella Chiesa si può edificare senza primeggiare, si può fare molto con poco potere. Di quale magistero e di quale edificante testimonianza è stato capace permanendo nel servizio, quello vero e pesante, quello spesso incompreso, non quello che si menziona solo come fosse un soprannome dato a cariche, prestigio, o visibilità! Possiamo chiederci se don Sturzo è stato un modello di prete. È difficile dirlo. Certo non credo sia immaginabile né tanto meno auspicabile nelle odierne circostanze un prete segretario di partito. Ma forse questa domanda non è di particolare utilità. Posto che fu testimone credibile, e che è ancora, e forse più di allora, testimone credibile, che importa se possa essere o meno anche un modello? Non abbiamo, forse oggi più che mai, bisogno di credenti, e di preti, che sappiano vivere la fedeltà nell'immaginazione, nella scelta, piuttosto che nella mera ripetizione? E se ci poniamo in questa prospettiva, ecco che la memoria di don Luigi si rivela feconda per la vita; ecco che l'istanza di fedeltà al vangelo e alla Chiesa, che sta di fronte a ogni battezzato e a ogni prete, si fa più bella. Quella di don Luigi è una testimonianza feconda e di grande ammaestramento non per il grado di ripetibilità della sua esperienza, ma per l'intensità che essa raggiunse in alcune dimensioni, e che raggiunse sempre cercando nella vita soprannaturale la verità e la radice di ogni trama e di ogni istante della nostra vita terrena. Don Luigi ci dà misure d'intensità che ci spronano e ci confortano insieme. Pensiamo alla intensità della sua vita interiore. Soprattutto i giovani dovrebbero essere informati sul regime, sul realismo e sulla qualità evangelica della sua vita di preghiera, per la maggior parte nascosta, non spettacolarizzata. A noi può a volte persino spaventare la durata e la profondità dell'immergersi di don Luigi nel mistero di Dio a partire dalla parola di Dio. Ma non solo a partire dalle Scritture. Come potremmo infatti comprendere don Sturzo se separassimo la sua passione militante per lo studio dalla sua vita di preghiera? Forse proprio questa è una delle grandi sfide che ci troviamo dinanzi nell'atto d'accingerci ad affrontare l'emergenza educativa. Giova alla preghiera cristiana una contrapposizione allo studio? Giova forse allo studio dei credenti una sua contrapposizione alla preghiera? Come per san Tommaso, anche per don Luigi questa contrapposizione non aveva alcuna legittimità, mentre noi, tante volte, ci ostiniamo a costruire tanto devozionalismo e anti-intellettualismo su questa nefasta e fuorviante opposizione! Pensiamo all'intensità con cui don Luigi ha saputo vivere l'obbedienza. Quante carriere, quanta mondanità d'ogni genere don Sturzo ha saputo evitare o lasciare anche per obbedienza! Un'obbedienza non cieca, un'obbedienza non passiva, un'obbedienza forte, un'obbedienza senza adulazione o abiure. Quanto conflitto gli ha generato dentro quella obbedienza. Con la sua vita di libertà mai rinnegata, don Sturzo ci offre una misura d'obbedienza che ci aiuta rendendoci innanzitutto molto, molto umili. Pensiamo ancora alla intensità con cui don Luigi ha vissuto la lotta, l'agonia del sano agonismo. Una lotta interiore e pubblica. Quanta poca ricerca di pace e di consenso a ogni costo nella sua vita spirituale, quale altissima e non infantile idea della comunione ecclesiale, comunione tra persone diverse e libere. Pensiamo - ed è l'ultimo cenno, che però non posso non fare - alla intensità con cui don Luigi ha sempre cercato la via del rinnovamento, personale, ecclesiale, civile. Pensiamo a come è riuscito a farsi aprire la mente e il cuore dagli studi romani, a come è riuscito a farsi mutare dall'esperienza pastorale e socio-politica dei primi anni dopo il ritorno in Sicilia, infine a come ha saputo farsi cambiare dall'esperienza durissima dell'esilio - come non attenerci ancora oggi saldamente alla sua dura denuncia delle tre "male bestie": statalismo assistenzialista, cultura della spesa pubblica, partitocrazia? Forse don Luigi non sarà un modello ripetibile, ma di certo è testimone e sprone a una misura elevatissima d'intensità nella vita interiore, d'intensità nell'obbedienza ecclesiale, di intensità nel coraggio dell'agonismo, e d'intensità nel coraggio del rinnovamento. (Mariano Crociata, L'Osservatore Romano, 4 ottobre 2009)
Quello che i libri di Storia non hanno mai raccontato dell’eroe Garibaldi... Carlo Alberto, il re tentenna. Mazzini, l’apostolo della Patria. Garibaldi l’eroe dei due mondi. Cavour, il gran tessitore. E poi il «grido di dolore», «Obbedisco»!, «Ci siamo e ci resteremo», «Qui si fa l’Italia o si muore», «Roma o morte»! e così via. Abbiamo una storia da operetta: bisogna avere proprio un cuore di pietra per non scoppiare a ridere. Qualche storico ha cominciato a dissipar le nebbie su quel colossale falso storico (e dove era leggenda appaiono spesso grottesche pagliacciate e talvolta imprese criminali). Ma gli eroi del risorgimento restano. Il Mazzini ad esempio. Che dire della descrizione che ne dà il Farini fuori dei canoni ufficiali: «Mediocre uomo in tutto, orgoglio stragrande in sembianza d’umiltà», astratte vacuità...? Garibaldi poi è marmo e bronzo. Lo sceneggiato TV Il Generale di Magni fa di tutto per sfuggire all’enfasi e alla retorica. Ed era ora. Ma la scelta di Franco Nero ha dato un tocco di edulcorata classe holliwoodiana ad un personaggio, il Garibaldi storico, piuttosto rozzo e un tantinello esaltato. Sentiamolo: «Papa e clero disgrazia e cancro d’Italia». Ed ancora: «Il grido d’ogni italiano, dalle fasce alla vecchiezza deve essere: guerra al prete»!. Tale fu la scienza e la classe del nizzardo. Appena sbarca in Sicilia si proclama Dittatore, svuota conventi e monasteri, li saccheggia, confisca, scioglie a forza i Gesuiti, imprigiona, stabilisce bivacchi militari nelle splendide chiese meridionali. Garibaldi era stato iniziato alla Massoneria nel 1842 a Montevideo. A Palermo fonda una quantità di Logge. Nel 1864 viene eletto primo Gran Maestro della massoneria italiana e poi Gran Maestro onorario a vita. (Massoni erano pure Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele, Crispi, Ricasoli e così via). Con lui la massoneria italiana vara una virulenta tradizione anticattolica. Il nostro eroe che mise al suo asino il nome del Papa, che chiamava Pio IX «un metro cubo di letame» (nel 1881 i massoni dettero addirittura l’assalto al funerale del Papa per scaraventarne la salma nel Tevere) fu il caposcuola su cui si formarono quelle generazioni di liberi-pensatori. Fra questi, qualche anno dopo, il mangiapreti romagnolo Mussolini Benito. Siamo appena nel 1904 quando il giovane rivoluzionario di Predappio attacca Papa Sarto «in nome dell’Anticristo che è la ragione, che si ribella al dogma e abbatte Dio». Pochi anni dopo salirà agli onori della cronaca per un libello blasfemo scritto per celebrare l’anniversario della morte di Garibaldi. Ma ancora nel 1918, direttore de Il Popolo d’Italia, sarà a Milano, sotto il monumento a Garibaldi a celebrare la vittoria. «Fin da giovane Mussolini era stato un esponente tipico, quasi caricaturale dell’ideologia massonica» (Vannoni). La pacata e lucida mente di Jemolo vedrà nel Mussolini, ormai Duce d’Italia, «il più diretto erede del garibaldinismo». Del resto il «segreto iniziatico» della dottrina massonica non è proprio l’autodivinizzazione dell’uomo e l’idolatria del Capo/Stato? (Nei catechismi patriottici si celebrava in Garibaldi la Trinità: «Il Padre della patria, il Figlio del popolo, lo Spirito della libertà»). Si potrebbero poi sorprendere i legami del garibaldinismo col fascismo anche attraverso curiosi canali secondari. Il massone, mazziniano, Eduardo Frosini ad esempio, che sedette alla presidenza del I congresso fascista di Firenze (1919), che nel suo giornale La Questione morale (già allora!) per primo propugnò la vocazione imperiale di Roma. Del resto proprio il garibaldino-massone Crispi aveva varato in grande quella politica coloniale imperialista che il Duce si sentirà in dovere di portare a compimento, con la fondazione dell’Impero. Altri generali garibaldini (e massoni) come Nino Bixio, dai massacri di contadini calabresi finiranno i loro anni a mercanteggiare in schiavi cinesi con il Perù. È la singolare epopea dei ‘liberatori’... Lo sceneggiato televisivo di Magni racconta dunque soltanto il biennio ‘60-’61 del nizzardo. Quello sceneggiato dice e non dice: troppo lontana è la verità dalla leggenda. Proviamo allora a oltrepassare il fronte, per capire finalmente come fu visto Garibaldi, in quei due anni, dalle popolazioni ‘liberate’. Spigolature di un documento eccezionale davvero da antologia, e oggi quasi introvabile. È un libello appassionato e infuocato di un intellettuale napoletano, Giacinto de Sivo, pubblicato quasi un secolo fa clandestinamente e anonimo, e nel 1965 ristampato in copia anastatica da un piccolo editore: I Napolitani al cospetto delle nazioni civili. È la stessa storia, ma stavolta scritta dai vinti: il grido di ribellione di un popolo non solo colonizzato e umiliato dai sedicenti ‘liberatori’ ma per di più coperto di menzogne nella storia ufficiale, quella scritta dai vincitori. «Ell’è una trista ironia lo appellar risorgimento questo subissamento del bel paese». Il Regno delle due Sicilie è libero e indipendente fin dal 1734, con un re italianissimo, napoletano. Non è una terra ricca solo di passato (da Cicerone a Orazio, a S. Tommaso a Vico a Tasso...): ha una grande tradizione giuridica, enormi ricchezze artistiche e — si direbbe oggi — ambientali. La statistiche dicono: in proporzione meno poveri che a Parigi e Londra, le tasse più lievi d’Europa, la prima flotta d’Italia, una popolazione cresciuta di 1/3 dal 1800 al 1860, un debito pubblico di appena 500 milioni di Lire per 9 milioni di abitanti, contro il Piemonte che ha più di mille milioni di debito per quattro milioni di abitanti (il sud in sostanza dovrà pagare i debiti del Piemonte, anche. quelli fatti per conquistarlo). Inoltre «erano in cassa 33 milioni di ducati quando il liberatore Garibaldi vi mise su le mani e li fe’ disparire». Il re di Torino, di origini e lingua francese aveva spedito un nizzardo a «liberare dagli stranieri» una terra governata da un re ben più italiano di lui (per di più Napoli era, in confronto a Torino quel che oggi sarebbe Firenze in confronto ad Aosta). Ma il re di Napoli, cattolico e sostenitore del Papa, negli equilibri internazionali era sostanzialmente isolato. Dunque come possono 1000 uomini male armati e peggio vestiti distruggere così un Regno con un esercito di 100.000 uomini? I vincitori rispondono (e hanno scritto): per il gran valore dei garibaldini e l’appoggio delle popolazioni. In realtà Garibaldi poteva esser rigettato in mare fin dallo sbarco. La vera arma vincente che spianò la strada al nostro fu quella della massoneria piemontese e francese che fra burocrati, ufficiali e ministri si era comprato tutto il Palazzo di Francesco II: «La setta corrompe e inventa la storia» scrive De Sivo, «sospinge l’umanità a subire la tirannide o ad esser tiranna». Qualche esempio. A Calatafimi il generate Landi (al prezzo di 18.000 ducati) impedisce ai suoi di sbaragliare i garibaldini già in rotta. Senza alcuna ragione 20.000 soldati vengono fatti uscire da Palermo senza colpo ferire. E poi Milazzo, Messina: migliaia di soldati di Francesco spediti sulle montagne lontane. Il generale Ghio ne disciolse 10.000. Altrettanti il generale Briganti che però viene fucilato sul posto, per alto tradimento dai suoi stessi soldati. E poi altri ufficiali leali al re costretti a disarmare le proprie truppe e a consegnare migliaia di soldati a qualche decina di garibaldini che avevano loro stessi sbaragliato e ridotto alla resa. E infine le sconfitte di Garibaldi sul Volturno e l’incredibile comportamento degli ufficiali di Francesco che avevano ormai Napoli e la vittoria definitiva a portata di mano. Un generale Cialdini, ad esempio che passò con Garibaldi mitragliando le popolazioni insorte contro il suo tradimento (come, anni prima, erano insorte contro Pisacane). Decine dl città «reazionarie», che avevano organizzato la resistenza (da Isernia, a Venosa, a Barile, Monteverde, Cotronei, S. Marco e così via) furono distrutte e bruciate dai Garibaldini. Villaggi, cascine, molini, saccheggiati, contadini massacrati (non solo a Bronte). «Purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda bava del prete» scriveva il traditore generale Pianelli nel febbraio ‘61, passato coi ‘liberatori’. «Napoli non avversa l’Italia» scriveva appassionatamente il nostro De Sivo, «ma combatte la setta, che è anti-italica, com’è anticristiana e anti-sociale, atea e ladra». Da questa ribellione nasce il brigantaggio contro l’occupante piemontese. «Briganti noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni; e galantuomini voi venuti qui a depredar l’altrui?». Il De Sivo si appella ad un’Europa complice e connivente dell’invasore: «La setta» scrive «deruba, distrugge e poi ci impone i suoi maestri piemontesi, le sue leggi, i suoi debiti, il suo vocabolario e gli esempi di laidezze e rapine e irreligione e ferocia». Si ha un bel deprecare, oggi, la proverbiale diffidenza dei popoli del meridione d’Italia verso le istituzioni e lo Stato; e condannar la mafia e cosi via. Del resto proprio gli espropri dei beni della Chiesa nel Sud, con cui a Torino si costituirono te finanze del nascente Stato massonico, sono fra le cause del futuro sottosviluppo del sud, del suo ritardo nei confronti del nord, che ha esportato i debiti e importato le ricchezze. «Il primo frutto dell’unità è l’aumento dei balzelli pubblici... Oh le promesse dei settari! A voi basta il gridar popolo e civiltà per saccheggiare i popoli civili». Ma il parlamento piemontese non ci pensa due volte ad annettersi le provincie meridionali: era un Parlamento eletto da 100 mila persone per 24 milioni di abitanti (al 95% contadini e cattolici). Un parlamento ‘liberale’: «Codesti sedicenti deputati, ignoti al popolo, corifei della setta, eletti da se stessi…». Per salvar la faccia Garibaldi, ad annessione già avvenuta organizzò un plebiscito: era il 21 ottobre 1860. I risultati ufficiali furono proclamati su piazze e strade deserte: 1.313.376 per l’annessione e 10.312 contro. Anche a prender per buone cifre tanto balorde, si deve comunque pensare ad una minoranza sui 9 milioni di abitanti. Ma quel che era accaduto in quei giorni, sui libri dei vincitori non sta scritto. Aggressioni, uccisioni, arresti, intimidazioni. Grandi cartelli dichiaravano «Nemico» chi votava No; il voto peraltro non fu segreto: furono poste due urne palesi e quelle del No «coperte da bande di camorristi». Anche astenersi era colpa di Stato: «Salvar la vita, in quei giorni era pensiero universale». E poi garibaldini — anche stranieri — che votavano anche 10, 20 volte: perfino Garibaldi, Bixio e Sirtori non si vergognarono di votare. E per chi si ribellava era dura. Ad esempio si può ricordare il rapporto del governatore garibaldino della Capitanata: «Insurrezioni nel giorno del plebiscito: si son fatti sforzi eccezionali perche l’insurrezione non sia generale». (segue la richiesta di armi e soldati). O il suo collega di Teramo che proclamava lo stato d’assedio nei comuni della provincia ancora 9 giorni dopo il plebiscito: «I reazionari presi con le armi saran fucilati»!. Agli stati d’assedio, i brogli, le violenze, vanno aggiunte le galere piene di «reazionari», gli esiliati, i fucilati... «Ma alla setta bastava mostrare all’Europa una maggioranza di cifre». Sarà un testimone d’eccezione, Lord Russel in un dispaccio del 24 ottobre a testimoniare che «i voti che ebber luogo in quelle province non han grande valore...». Ma la scuola dei vincitori racconta ben altro: dice che la gran capitale di un Regno, la bellissima Napoli fu entusiasta di diventare una prefettura di Torino. «Lasciate dal vantar plebisciti. Dite che son fatti compiuti; e sì che son compiuti, ma per restar monumenti eterni di vostra nequizia. Voi, gretta minoranza, volete imporre il vostro pensiero ad una nazione, e col pensiero i ceppi... un pugno di tristi vuol comandare a milioni; perciò destituisce, disarma, condanna, pugnala, carcera, esilia, fucila ed incendia. Siete atroci perche pochi; siete costretti a dar terrore, perché vi manca il numero; dovete far seguaci con la corruzione perché non avete il concorso della virtù».(De Sivo). Questa fu l’epopea del ‘liberatore’ Garibaldi raccontata dal popolo ‘liberato’. Sui libri di scuola (la scuola dei vincitori) si trova al capitolo: Risorgimento. (Antonio Socci, Il Sabato, 6 febbraio 1987)
4 ottobre 2009
Il Papa a Praga: «Il Vangelo non è un'ideologia» Ci sono i rettori delle università della Repubblica Ceca, i professori, alcuni studenti. Canta il coro dell'Università Carlo, la più antica dell'Europa centrale, voluta da Papa Clemente VI nel 1347 e fondata dall'Imperatore Carlo IV l'anno successivo. Il rettore Vaclav Hampl guida il corteo di accademici con le toghe bordeaux e nere ornate di ermellino, che precede il «professor» Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI, all'ingresso della sala di Vladislav nel Castello di Praga. Ecco gli intellettuali di Praga, ecco il mondo accademico che fece l'impresa della democrazia ceca, vent'anni fa. La «rivoluzione di velluto» partì dagli studenti e dalle università e fu il movimento degli intellettuali di «Charta 77», che indicò una strada non violenta e accorta per superare 40 anni di regime comunista. Benedetto XVI rende omaggio a quegli avvenimenti, a quei professori e studenti: «I grandi cambiamenti che vent'anni fa trasformarono la società ceca furono causati dai movimenti di riforma che cominciarono nelle università e nei circoli studenteschi». Ma le parole del Papa non sono solo un ricordo del passato. Benedetto XVI sottolinea che «quella ricerca di libertà deve continuare a guidare il lavoro degli studiosi», perché ciò è «indispensabile al benessere di ogni nazione». È un discorso sul ruolo degli intellettuali, quello che il professor Ratzinger ha pronunciato ieri sera nell'incontro con i professori universitari. Premette che «chi vi parla è stato un professore» e dunque sa cosa dice. Sottolinea che non è assolutamente vero che la «fede e l'etica» non hanno posto nell'«ambito della ragione pubblica», anche se qualcuno continua a dirlo. Anzi occorre ampliare il «concetto di ragione» ed evitare quella «frammentazione del sapere», che porta alla divisione tra fede e ragione. Ciò non significa che le istituzioni accademiche non possano essere autonome. Ma un conto è l'autonomia, un altro la responsabilità verso la verità. Il Papa ha ricordato che la «tradizione formativa aperta al trascendente» è stata «sistematicamente sovvertita» in diverse parti dell'Europa, dalla «riduttiva ideologia del materialismo, dalla repressione della religione e dall'oppressione dello spirito umano». Ma nell'89 quel progetto è fallito. Eppure non tutto va bene e oggi vi sono altri rischi, prodotti dalla «massiccia crescita dell'informazione e delle tecnologie» che tentano di «separare la ragione dalla verità». Secondo il Papa si tratta di un «relativismo» che provoca un «camuffamento» dietro a cui «possono nascondersi nuove minacce all'autonomia delle istituzioni accademiche». Le preoccupazioni del Papa sono molto forti e la sua domanda precisa: «Oggi nel mondo l'esercizio della ragione e la ricerca accademica sono costretti, in maniera sottile e a volte nemmeno tanto sottile, a piegarsi alle pressioni di gruppi di interesse ideologici e al richiamo di obiettivi utilitaristici a breve termine e solo pragmatici?». Poi continua: «Cosa potrà accadere se la nostra cultura dovesse costruire se stessa solamente su argomenti alla moda, con scarso riferimento ad una tradizione intellettuale storica genuina o sulle convinzioni che vengono promosse, facendo molto rumore o che sono fortemente finanziate?». Ha posto insomma ancora una volta la questione della verità e delle ragione, come aveva già fatto l'anno scorso al collegio dei Bernardini a Parigi e come fece nel famoso discorso a Ratisbona. I professori lo hanno ascoltato con grande attenzione e il rettore Hampl ha ricordato, salutando il Papa, quando venne qui a Praga nel 1992 per tenere una conversazione proprio all'Università Carlo sul tema della rilevanza pubblica delle religioni. Ieri Benedetto XVI ha rilevato che «una ragione sorda al divino, che relega le religioni nel regno delle subculture, è incapace di entrare in quel dialogo tra la cultura e le fedi di cui il nostro mondo ha urgente bisogno». E alla fine sul libro d'oro dell'Università Carlo ha lasciato scritto in latino una frase del Vangelo, che suona come un ammonimento: «La verità vi farà liberi». Sul ruolo anche politico della verità e dei cristiani Benedetto XVI ha invece parlato nella sala del trono dell'arcivescovado di Praga, davanti a ortodossi, protestanti ed ebrei. Anche qui è tornato all'89, sottolineando che quell'impresa fu possibile anche per l'impegno dei cristiani. Nella Germania comunista il movimento che portò alla caduta del Muro iniziò nelle Chiese evangeliche e qui a Praga furono i cattolici a organizzare una delle prime manifestazioni. Eppure oggi, ha denunciato il Papa, si tende a mettere ai margini il cristianesimo nella vita pubblica «talora con il pretesto che i suoi insegnamenti sono dannosi al benessere della società». Invece il cristianesimo ha «molto da offrire sul piano pratico e morale» e pochi sono coloro che lo «potrebbero contestare». Ma ciò avviene solo se l'Europa ascolta «la sua stessa storia», cioè non nega l'esistenza delle sue radici religiose. Sono «più tenui», ammette il Papa, ma restano indispensabili per assicurare al Continente «il sostegno spirituale e morale» indispensabile per il dialogo con le altre culture. C'è tuttavia una avvertenza, che il Papa rilancia, cioè essere consapevoli che «il Vangelo non è un'ideologia e non pretende di bloccare entro schemi rigidi le realtà socio politiche che si evolvono». Il Vangelo, rimarca Ratzinger, è solo «luce gettata sulla dignità della persona umana in ogni epoca». (Alberto Bobbio, Eco di Bergamo, 28 settembre 2009)
Canto sacro. È tempo di cambiar musica La musica sacra è cambiata. Se nel Medioevo il canto gregoriano era la forma di canto più diffusa, già nel Duecento nacquero i cosiddetti Kyrie eleison, al cui canto si univa il popolo. Attraverso Martin Lutero la musica ebbe ancora una volta un nuovo impulso. Lutero scrisse i testi di diversi inni religiosi e compose personalmente o fece comporre delle melodie. Con gli inni religiosi in tedesco i luterani spinsero molte persone ad accogliere la nuova fede. E ancor oggi la musica sacra ha una grande importanza nelle Chiese riformate. In ambito cattolico in epoca barocca ci furono le numerose messe cantate in latino che videro un apogeo in Joseph Haydn e in Wolfgang Amadeus Mozart. Anche se talvolta, per questo o quel partecipante alla liturgia, l’esecuzione di una messa di Mozart divenne più importante della celebrazione dell’eucaristia, queste composizioni aprirono però il cuore di molte persone al mistero dell’amore di Dio che si celebra sull’altare. Oggi osservo che in ambito cattolico, nel caso di difficoltà finanziarie, la prima cosa a essere tagliata è la musica sacra. Molti responsabili non si sono resi conto che un buon direttore del coro spesso è altrettanto importante di un buon predicatore. Quando il direttore del coro sa entusiasmare i bambini, i ragazzi e gli adulti per i vari cori, dà un grande contributo alla vitalità di una comunità. Se, per esempio, canta il coro dei bambini, vengono anche i genitori. La frequentazione della messa, quindi, spesso dipende più dalla qualità della musica che dalla predica. Se la musica sacra viene trascurata, ciò limita la vita di una comunità nella messa. Una musica sacra di buona qualità non anima soltanto la comunità. Cantare in coro è sia qualcosa di benefico per gli adulti, sia un buon allenamento per bambini e ragazzi a entusiasmarsi per qualcosa di più grande di loro. Per molti il canto è un luogo importante dell’esperienza di Dio. Cantando un testo spirituale, intuiscono qualcosa dell’effetto benefico di quelle parole. Anche molte persone che hanno difficoltà con la Chiesa trovano nel canto il luogo spirituale in cui poter esprimere la loro fede. Una psicologa che, ferita da un’educazione clericale troppo rigida, si è allontanata dalla Chiesa, continua però a cantare nel Bachchor. Dice che cantando in quel contesto entra in contatto con la propria anima. Vi sente i propri aneliti spirituali e può esprimerli con tutto il cuore. La vitalità di una comunità si riconosce dal canto. In passato, in area cattolica, c’erano paesi in cui i fedeli cantavano pieni di entusiasmo, anche se non sempre in maniera molto raffinata. Oggi molti si rifiutano di unirsi ai canti. Non vogliono esprimere i propri sentimenti. Così facendo, però, escludono se stessi dalla partecipazione interiore. In altre comunità c’è la tendenza a cantare nelle tonalità più gravi possibili, in modo da non doversi stancare. Godehard Joppich, per anni direttore del coro a Münsterschwarzach, chiamava una liturgia del genere, dove si canticchia comodamente tra sé e sé, «liturgia dall’angolo del divano». Cantare, però, richiede l’impegno totale della persona. In particolare nelle solennità della chiesa, i canti spronano la gente a esprimere la propria gioia per la festa in tonalità alte. Oggi ci sono molte persone che credono di non saper cantare. Ma se sto in silenzio in una comunità che canta, interiormente mi autoescludo. E questo non fa bene alla mia anima. Nel rinnovamento della comunità, perciò, si dovrebbe dare peso a una buona cultura del canto e a una buona musica sacra. In questo compito deve esserci senz’altro varietà: musica corale classica, inni religiosi dei vari secoli, canti moderni, canti di Taizé, canto gregoriano... E bisogna prestare la massima attenzione affinché i canti siano convincenti sul piano del testo e commuovano i cuori su quello della melodia. Mia madre si arrabbiava sempre quando i canti della messa erano qualcosa di puramente cerebrale, ma non toccavano i cuori delle persone. Per decenni intonò i canti nella messa delle donne della sua comunità. E fu sempre importante per lei che quei canti esprimessero la sua fede e il suo anelito. E naturalmente vi riecheggiavano sempre anche ricordi della sua infanzia e della sua giovinezza, durante le quali alcuni canti le avevano dato sostegno e l’avevano commossa. Cantando entrava in contatto con la fede dei suoi genitori e dei suoi nonni. Ciò rafforzava la sua fede e le dava la sensazione di partecipare, nel canto, della forza della fede dei suoi antenati. E nel canto sentiva il legame con coloro che erano da tempo defunti. Aveva un’intuizione del fatto che qui, con il nostro canto, ci uniamo al canto di lode degli angeli e dei santi. Mentre noi cantiamo qui sulla terra da credenti, coloro che ci hanno preceduto nella morte cantano da contemplanti. Nei 25 anni in cui mi sono occupato del lavoro con i giovani nell’abbazia di Münsterschwarzach, ho sperimentato quanto sia importante il canto per i giovani. Nella notte di San Silvestro celebravamo una liturgia che complessivamente durava quasi sei ore e nella quale i canti avevano un ruolo importante. I canti creavano un legame reciproco tra i ragazzi e li aprivano a Dio. In quel contesto acquistavano importanza determinati canti che si cantavano soltanto nella notte di San Silvestro. Quando ci spostavamo dalla cappella del seminario in chiesa, seguendo l’ostensorio, ci univa il ritornello Geh mit uns auf unserem Weg («Percorri con noi la nostra strada»). E quando, dopo il silenzio a mezzanotte nella grande chiesa abbaziale, tornavamo nella cappella, il canto con il testo di Dietrich Bonhoeffer Von guten Mächten wunderbar geborgen («Da potenze benigne prodigiosamente protetti») ci faceva entrare nello spirito dell’anno nuovo. Durante le nostre camminate nella foresta dello Steigerwald ogni sera celebravamo l’eucaristia. Ci sedevamo per terra e celebravamo la messa con calma. Spesso durava due ore. I ragazzi cantavano volentieri e bene. Quando, così facendo, alcuni canti venivano intonati a più voci, nasceva una comunione davanti a Dio, in cui tutti sapevano di essere sorretti dalla sua forza. Per me era sempre importante che i canti moderni fossero scelti con cura, in modo da essere adeguati alla messa e alla situazione interiore dei ragazzi. Con i canti, però, si può anche manipolare un giovane e farlo cantare fino a raggiungere un entusiasmo che non gli fa più bene. Ci vuole una buona sensibilità affinché la musica apra i ragazzi a Dio e agli altri, senza abusare di loro sul piano emotivo e trascinarli in un mondo immaginario. Sento che molti parroci si lamentano della scarsa partecipazione alla messa. Si danno da fare per organizzare la messa in modo che sia piacevole. Eppure sempre meno persone partecipano alla celebrazione dell’eucaristia. Anche se oggi ci lamentiamo della "cultura dell’evento", non possiamo comportarci semplicemente come se questa non esistesse. Dobbiamo rispondere con creatività e fantasia a tale cultura. E una risposta importante dovrebbe passare per la musica. Le Chiese evangeliche spesso, su questo punto, hanno più fantasia. Se offrono celebrazioni liturgiche incentrate sulle Cantate, vengono persone che altrimenti tendono a non andare in chiesa. Per mezzo della musica raggiungono molte persone sulla via della ricerca spirituale, che non desiderano però vincolarsi alla vita nella comunità. Lo psicoanalista di Norimberga Bernd Deininger ha organizzato con il direttore d’orchestra Ulrich Windfuhr dei concerti spirituali che hanno avuto molti partecipanti. Ha dato voce a importanti temi spirituali e teologici per mezzo di testi, riti e musica lirica. C’è bisogno di fantasia perché torniamo a raggiungere, proprio attraverso la musica, quelle persone che non sono toccate dalla sola liturgia. Alla fine del Settecento, del resto, la situazione era simile. Quando le persone sentivano durante la celebrazione liturgica una messa di Mozart, ciò per loro era parte integrante ed essenziale del modo in cui vivevano la liturgia. Probabilmente anche allora le persone non andavano in chiesa soltanto per il modo in cui il sacerdote celebrava l’eucaristia, ma perché la messa era un’opera d’arte totale, di cui era parte essenziale la buona musica. Considero un compito importante che oggi si torni a rivolgere un’attenzione nuova alla musica sacra. Sarebbe senz’altro una strada importante per aprire le persone a Dio. Nella comunità ci sono persone che sono interessate soprattutto a una buona omelia, altre per le quali contano i riti e altre ancora che si fanno commuovere soprattutto dalla musica e che sono anche disposte di buon grado a fornire il loro impegno per la parte musicale della celebrazione. Se però si scelgono soltanto – e a volte addirittura senza cura – i soliti canti, sempre più persone decideranno di non andare a messa. Ho visto di persona quanto fossero riconoscenti i partecipanti nelle occasioni in cui dei giovani musicisti hanno messo il loro impegno e collaborato alla parte musicale di una celebrazione. Spesso il commento era: «Oggi è stata una bella messa». Per una bella messa c’è bisogno di tutto: di riti celebrati in maniera credibile, della sensibilità per la situazione concreta delle persone, di una buona omelia e di buona musica. Purtroppo vedo che in molte parrocchie la musica non è sufficientemente apprezzata. In questi casi spesso il parroco lotta invano per entusiasmare la gente per la celebrazione eucaristica. La bellezza è un aspetto essenziale del sacro. La bellezza vuole essere contemplata, ma anche ascoltata. La liturgia è un’opera d’arte totale, in cui tutti i sensi vogliono essere toccati, in particolare anche l’udito, affinché, nell’ascoltare, diamo sempre più ascolto a Dio. (Anselm Grün, Avvenire, 28 settembre 2009)
A proposito di «famiglia allargata»: la felicità non è un caos «Il giorno più brutto della mia vita? Quando papà e mamma si sono separati»: la bambina che mi parla così ha 7 anni, dunque siamo arrivati ai tempi in cui una bambina di 7 anni cataloga i giorni brutti della sua vita, e stabilisce qual è il peggiore? E se il giorno in cui papà e mamma si son separati è il più brutto, ci potrà mai essere, in futuro, un giorno ancora più brutto? Sì: «Quando il papà o la mamma avranno un nuovo fidanzato». La bambina è la prima della classe, scrive perfino delle poesie. Senza rima, ma ormai chi usa più la rima? Leggevo, ieri, che ci sono bambini per i quali avere tre o quattro genitori è una festa: si divertono di più. Se poi i nuovi genitori hanno dei bambini, i figli nati dai due-tre matrimoni formano una squadra, giocano sempre, è come se fossero continuamente al parco. Questo leggevo. Ma la mia esperienza non me lo conferma. Ogni tanto la madre della bambina che ho introdotto all’inizio di questo articolo fa qualche viaggio, per stare in pace col nuovo compagno, e per non far sentire l’abbandono alla figlia la chiama col cellulare, e la prima risposta della figlia è: «Dove sei? sei sola? o sei con X?». La piccola ha un’ossessione: che la madre introduca un nuovo marito, e cioè un nuovo padre. Il bambino sente padre-madre come una coppia perfetta, si sente il frutto di una perfezione. Se la coppia si spacca, nel bambino s’infiltra un’autosvalutazione, si sente frutto di un errore. Avevo un amico che era uscito di casa, viveva con un’altra donna, e da queste donna ebbe un nuovo figlio. Il figlio avuto dalla moglie precedente andò a trovarlo, stava al quinto piano, guardò il fratellastro in culla, uscì sul terrazzino e si buttò. Ricordi come questo, di figli finiti male o sbandati perché papà e mamma si son separati, a una certa età si fan numerosi. Leggo che son nati termini nuovi, per indicare i nuovi ruoli introdotti col secondo o terzo matrimonio: "papigno", "mammastra", "cugipote". Non vedo la scia di affettività che questi termini si trascinano dietro. "Papigno" è il maschile di "matrigna", e la matrigna sta nelle favole come l’incarnazione del peggior male che l’inconscio delle bambine teme: è l’anti-madre. So che le matrigne eccellenti non sono poche, ma so che le bambine con questo terrore sono molte. E "papigno" è un neologismo funebre. In genere la matrigna appare quand’è morta la madre, se c’è il papigno vuol dire che non c’è il papà. Il figlio c’è perché c’è la mamma che lo ha voluto. Se c’è la "mammastra" ci sono altri figli che lei ha voluto, non tu. La famiglia allargata è un caos generazionale, ma anche lessicale. Poiché le famiglie allargate son numerose, in Inghilterra han deciso che a scuola non si dica più ai bambini "tua madre" o "tuo padre", perché è possibile che il bambino non viva con loro. Allora si dice: "gli adulti che vivono con te". La parola "madre" è cancellata. La parola è un albero, la lingua una foresta. Se tagli una parola, tagli un albero. Ma dalla parola "mamma" derivano tanti altri alberi, germogliati dalle sue radici: se tagli quella parola, crei una radura vuota nel mezzo della società. Un ministro italiano in carica ha confidato ieri: «Anch’io pensavo che mio figlio, intelligente, non ne risentisse, e mi sono separato. Ma si è destabilizzato. Non è giusto cercare la propria felicità a danno dei figli». È l’intuizione di un concetto profondo che va portato in superficie: se uno vive da solo, insegue una felicità individuale; se si unisce a formare una coppia, entra in un altro concetto di felicità, la felicità di coppia, che comporta anche dei doveri, la felicità dell’altro; se poi forma una famiglia, entra in una felicità di gruppo, e non può rompere impunemente il gruppo, e uccidere la felicità degli altri per chiudersi nella propria. La felicità della famiglia – e il Papa ce lo ha ricordato – non è fatta di tante felicità individuali separate, ma dalla loro fusione e dal loro accordo. (Ferdinando Camon, Avvenire, 27 Settembre 2009)
La Spagna punta all’aborto facile. Anche per le minorenni A quale futuro guarda oggi la Spagna? Certamente a quello legato a una rapida ripresa economica, visto il pesante deficit pagato alla recente disfatta dei mercati finanziari. Non sembra però altrettanto preoccupata a fornire motivi di speranza alla sua storia e alla sua cultura, se è vero che sembra ormai assoggettata a quell’ideologia liberticida e relativistica, che fa delle questioni eticamente sensibili problemi relativi solo all’autogoverno della vita dei suoi singoli. Non sembra perciò dare risposta alle donne, ormai indirizzate a vedere la trasmissione della vita umana come una faccenda essenzialmente fisiologica, offrendo loro una soluzione molecolare, farmaceutica a un problema assai più ampio, in grado di toccare le corde profonde della loro coscienza. È di ieri la notizia che il governo di Madrid ha varato un disegno di legge che di fatto depenalizza totalmente l’aborto, prevedendo la libera scelta della donna fino alla 14ª settimana e concedendo la facoltà anche alle minorenni fra i 16 e i 18 anni di abortire senza la consultazione dei genitori. C’è da sperare che il progetto, trasmesso al Parlamento, possa ricevere delle significative correzioni, visto anche le reazioni accorate del mondo cattolico spagnolo, che si riunirà il 17 ottobre per una grande manifestazione di protesta nella capitale, e la voce fortemente critica di alcuni pastori, come il cardinale Amigo, arcivescovo di Siviglia, che aveva già parlato, dalle pagine di "Religíon Digital", di «inquisizione laica e agnostica, di statolatria e di indottrinamento laico», segnando ancora la distanza tra le politiche iperlibertarie di Zapatero e la voce profetica della Chiesa. Nazione plurilingue e di ricchezza multietnica, questa Spagna sembra voler recidere le radici della sua esperienza storica e religiosa, per gettarsi sulle braccia dell’ideologia relativistica e nichilista, riconducendo tutte le pratiche abortive come faccende private, lasciate alla sola autodeterminazione delle donne. Sono quest’ultime, come si sa, a dover pesantemente portare l’emblema di questa mutazione etico-antropologica, dal momento che queste ulteriori liberalizzazioni dell’aborto, insieme alla paventata libertà e gratuità della pillola del giorno dopo, (per venire incontro alle "difficoltà" delle adolescenti) non sono altro che sostegni legislativi volti alla soppressione culturale della coscienza dell’aborto. Non si tratta soltanto di eliminare il senso di colpa, privatizzando gli interventi atti a procurare la morte dei potenziali bambini, ma di considerare l’embrione non più come il soggetto della trasmissione della vita, ma qualcosa come un tessuto ormono- dipendente, il cui sviluppo e sopravvivenza può essere regolato attraverso antiormoni, come la Ru486 o la pillola del giorno dopo. Ne va dell’idea stessa della vita, quasi che fosse possibile governarla attraverso l’intervento dei viventi, delle donne in particolare, non più custodi di questo bene, ma amministratrici di una risorsa da modellare a seconda delle leggi, dei desideri, delle idee, della conoscenza scientifica. La revisione nichilista della nozione di vita indotta da queste modalità di contraccezione non può che chiudere il futuro di una nazione, privata dall’immane schiera del popolo dei non-nati, orfana di inizi nuovi nella storia, prigioniera delle sue idolatrie. Il 17 ottobre a Madrid ci saremo idealmente tutti ad alzare un grido di rivolta e di riscatto. (Paola Ricci Sindoni, Avvenire, 27 Settembre 2009)
Quando la tv è fatta dai bambini per i bambini: i 50 anni dello Zecchino d’oro. È passato tanto di quel tempo, difficile ricordarselo. Era un uovo gobbo di una gallina zoppa o un uovo zoppo di una gallina gobba? Poco importa. Da lì nacque il pulcino ballerino, ammirato in tutti i pollai e nelle scuole materne d’Italia. Sciogliere il dubbio sarebbe facile. Su YouTube si trova tutto, anche il filmato di quella canzone del 1964. Nel frattempo siamo cresciuti, sappiamo perfino che cosa sia quell’"hully gully" che mamma chioccia insegna al suo pulcino triste perché claudicante, quindi timoroso di essere dileggiato dagli altri pulcini; ma è così che inventa la mossa e lui, diversamente abile, diventa famoso in tutti i pollai, una sorta di Elvis Presley... E soltanto adesso capiamo che quella canzoncina innocente poteva celare una sottilissima satira sociale, inarrivabile per i bimbi, percepibile dai genitori. Lo Zecchino compie mezzo secolo. Resiste Cino Tortorella, e pazienza se sbufferà se lo ricordiamo in calzamaglia, mantello e brillantini in capo: era Mago Zurlì, impareggiabile intervistatore di bambini. Dovrebbero imparare da lui, tutti. È fin troppo facile fare domande a un bimbetto prendendolo bonariamente in giro, senza che lui se ne accorga, per strappar sorrisi ai grandi. Facile, crudele e vigliacco. Mago Zurlì invece no, li prendeva sul serio, lui, i bimbetti, senza mai irridere le loro stravaganze o le amabili gaffe. E come non ricordare i duetti con Topo Gigio «ma-cosa-mi-dici-mai»; o con Richetto, il "bambino" pluriripetente interpretato da Peppino Mazzullo, travolto pure lui dal Sessantotto e dai suoi furori, che non tolleravano ripetenti a vita neanche per scherzo, neanche in funzione rasserenante per dei bambini che vedendo Richetto pensavano: no, io non sono così, me non mi bocciano; come non pensarci? Era una televisione cortese che prendeva sul serio i bambini e si schierava dalla loro parte, non da quella di adulti crudeli che amano ridere alle loro spalle, o gloriarsi per le loro imprese. I bambini cantavano ma a concorrere per lo zecchino erano le canzoni. La giuria era fatta di bambini, giustamente, armati di palette e di voti dal 6 al 10, insufficienze non ammesse. Distanze siderali dalle mostruosità dei "piccoli divi" travestiti da cantanti, ballerini e attori per la gioia, le lacrime, la soddisfazione impudica di genitori sciagurati, messi sotto i riflettori in prima serata con il compito di scimmiottare gli adulti, giovanissima carne da cannone venduta agli sponsor. Lo Zecchino era, ed è, dei bambini e per i bambini. Da mezzo secolo, un’isola ecologica che resiste tenace, non senza qualche difficoltà, all’accerchiamento dello sciocchezzume dilagante. Con gli anni, ai pulcini zoppicanti con un futuro da rockstar subentrarono gatti sindacalisti, toreri assonnati incapaci d’infilzare un’oliva, cosacchi infreddoliti, moscerini danzanti, e tanti altri personaggi felicemente inadeguati eppure felici e, a modo loro, "vincenti", così da far intuire ai bambini che non dovevano temere le proprie inadeguatezze né sentirsene prigionieri. C’era perfino un papà dalla macchina scassatissima – «dai dai dai, dagli una spinta» – a rasserenare i bambini affinché non si vergognassero di fronte agli amichetti ricchi a bordo delle berline luccicanti. Era molto più sfiziosa una 600 scarburata. Anzi, lo è tuttora. Vero, Mago Zurlì? (Umberto Folena, Avvenire, 24 settembre 2009)
Vocazione all’amore: tutti sono chiamati, ma pochi rispondono Qualche anno fa, durante un incontro di Benedetto XVI con alcuni studenti, due di questi gli hanno rivolto una domanda che poteva essere di chiunque, cattolici o non cattolici. Gli hanno chiesto: “Esiste qualcosa o qualcuno, attraverso cui possiamo diventare importanti? Come è possibile sperare, quando la realtà nega ogni sogno di felicita, ogni progetto di vita?”. Io credo che molte persone si sentano rappresentate in queste domande: i poveri, gli anziani, i malati, gli immigrati, la casalinga o i lavoratori. Nessuno vuole essere irrilevante o sentirsi inutile o in gabbia. Purtroppo, però, molte persone si sentono proprio cosi, nei diversi ambiti della loro vita. E credo che sia un sintomo pericoloso e da non trascurare. È sintomatico di una cultura in cui c’è qualcosa di così insalubre da riuscire a far perdere ogni speranza alle persone. Sebbene la domanda dei due studenti appaia del tutto laica, l’unica vera risposta è quella di tornare alla vocazione originaria: la nostra chiamata all’amore. Spesso, quando parliamo dei giovani e del futuro della Chiesa, viene fuori la questione della “crisi delle vocazioni”. Tuttavia, per affrontare questa crisi è essenziale sottolineare la base comune di ogni vocazione. Per quanto diverse possono essere le vocazioni – sacerdozio, matrimonio, vita consacrata – esse hanno tutte il medesimo fine. Sono tutte manifestazioni della vocazione che ci accomuna tutti: la vocazione all’amore. Ogni vocazione richiede il dono totale di sé. Ogni vocazione perdura per tutta la vita. Ognuna costituisce un cammino attraverso il quale diventiamo più somiglianti a Dio che è amore. In ognuna siamo chiamati all’amore per l’altro. Ognuna è manifestazione dell’amore di Dio. Certamente, questa realtà non emerge sempre con chiarezza. Basta considerare lo stato in cui versa il matrimonio cattolico. Se ipotizzassimo che il 23% dei preti abbandona il sacerdozio, saremmo convinti di aver dato loro una formazione inadeguata. Ma se negli Stati Uniti effettivamente il 23% degli adulti risulta essere divorziato, si tratta di un problema di formazione al matrimonio? Se tre matrimoni cattolici falliti su cinque riguardano coniugi cattolici, qual è il senso del matrimonio cattolico? Se il 69% dei cattolici tra i 18 e i 25 anni credono che “il matrimonio è ciò che gli sposi vogliono che sia”, quali ostacoli si saranno frapposti alla loro educazione cattolica? E se sono troppo pochi coloro che si avviano al sacerdozio e alla vita religiosa, ci dobbiamo chiedere: “Qual è il futuro delle nostre vocazioni?”. Questo quadro potrà sembrare come una situazione senza alcuna speranza. Ma rimane il fatto che noi siamo stati creati per amore e che niente – neanche la nostra cultura secolarizzata – è in grado di sradicare la nostra fondamentale chiamata all’amore. Non possiamo limitarci a considerare l’inattitudine all’impegno vocazionale come conseguenza di un’immaturità dilagante. Il problema è dovuto anche ad un senso di rifiuto della gente nei confronti di un tipo di amore che sentono come non autentico Questo amore non autentico ha un nome: ipocrisia. L’ipocrisia parla il linguaggio dell’amore, ma non ne porta il significato. Offre un dono unico e irripetibile, ma poi facilmente se lo riprende. La si può scorgere in un matrimonio in cui non c’è amore e non c’è attenzione, in un prete apatico o egocentrico, in un una suora priva di compassione. La reazione che si ha in chi vede solo questo tipo di amore è quella di convincersi che l’amore vero non appartenga alle strutture create per l’amore. Quando nelle famiglie non c’è amore, allora l’amore è visto come qualcosa che va tenuto scisso dalla famiglia. Quando nella Chiesa non si trova l’amore, allora si deduce che l’amore deve essere cercato al di fuori della Chiesa. Il secondo elemento positivo è che se noi viviamo bene la nostra vocazione, aiuteremo gli altri a vivere la loro. Aiuteremo coloro che già si sono impegnati in una vocazione ad essere fedeli. Aiuteremo coloro che ancora non si sono donati attraverso una particolare vocazione ad essere aperti e ad avere il coraggio di dire di sì alla chiamata. Una vocazione vissuta bene restituisce fiducia nell’amore. La risposta – nelle parole di Papa Benedetto XVI – è di avere “questa consonanza, questa concordia tra ciò che diciamo con le labbra e ciò che pensiamo con il cuore”. Un altro aspetto dell’amore autentico è la perseveranza. La testimonianza che ciascuno di noi può dare è di continuare ad amare, attraverso la propria vocazione, anche nei momenti di aridità spirituale, come ci insegnano Madre Teresa, San Giovanni della Croce e molti altri santi. Questo tipo di esperienza, inoltre, non è solo un passo nel cammino spirituale della vita: è un’esperienza che ci avvicina a tutti coloro che si sentono in qualche modo lontani dall’amore di Dio. Per certi versi, questo tipo di aridità spirituale, questa incapacità di “sentire” la forza dell’amore, è esattamente ciò che molti giovani di oggi provano. Nella perseveranza degli altri, loro possono trovare e vedere la forza dell’amore, la forza di un cuore che non si limita a sentire ma che vede e ama nella verità. Per molti, la prova di questa autenticità è la gioia, e giustamente. E forse il maggiore discredito per ogni vocazione non è lo scandalo ma l’assenza di gioia – lo scandalo dell’assenza di gioia. Per questo, prima di diventare Papa, il cardinale Ratzinger ha affermato che la Chiesa non ha bisogno di riformatori, ma di persone che siano interiormente prese dal Cristianesimo, che lo vivano nella gioia e nella speranza e che si siano trasformate in persone di amore. Questi sono coloro che chiamiamo santi. Ogni vocazione offre una particolare risposta al problema dell’amore autentico. E in questo senso tutte le vocazioni sono necessarie. Inoltre, la trasformazione di Cristo delle vocazioni alla vita matrimoniale o religiosa è resa possibile grazie all’istituzione della Chiesa. Noi tutti siamo parenti non per il nostro sangue ma per il sangue di Cristo. Nel sacrificio di Cristo sulla croce, la famiglia – agli occhi di Dio – è stata ampliata fino a comprendere tutti. Dio ha redento e si è impegnato non solo con un popolo eletto, un popolo definito da legami di sangue, ma per il popolo intero, un popolo definito da una comune origine, il Creatore, colui che ha instillato in noi una comune vocazione: la vocazione all’amore. Come Papa Benedetto XVI ha scritto nella “Sacramentum caritatis”, “La comunione ha sempre ed inseparabilmente una connotazione verticale ed una orizzontale: comunione con Dio e comunione con i fratelli e le sorelle”. Non possiamo essere in comunione con i nostri fratelli se non siamo in comunione con Gesù Cristo. Per questo motivo Ratzinger descrive l’intera storia umana come una storia del sì o no all’amore. E noi possiamo dire sì all’amore solo nel dono totale di noi stessi, anzitutto a Dio e poi al prossimo, ma sempre nell’amore. (Carl Anderson, Zenit, 30 settembre 2009)
Karl Rahner, un cristianesimo senza radici Sappiamo come di recente il Papa, parlando dell'interpretazione degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, ha rilevato l'esistenza di un' “ermeneutica della rottura", da lui giudicata fuorviante, e l'ha contrapposta all'ermeneutica giusta che ha chiamato "della continuità". Il teologo gesuita Karl Rahner (1904-1984), secondo quanto sta apparendo con sempre maggiore chiarezza da uno studio critico di molte delle sue opere condotto ormai da decenni, è forse l'esponente maggiore di tale ermeneutica della rottura, che da quarantenni ha attirato e continua ad attrarre schiere di teologi e pastori in tutto il mondo. L'ermeneutica della rottura è una caratteristica di gran parte della teologia di Rahner, una teologia che enfatizza il nuovo, il moderno assolutizzato, fine a se stesso e senza discernimento, in modo tale da portarlo a una rottura con quel passato nel quale si trovano quelle radici cristiane, dalle quali soltanto può sorgere una sana modernità, che non può essere sana se non in continuità con quelle radici, che contengono valori divini, perenni e immortali. Rahner ha avuto la buona idea di cercare di ammodernare il cristianesimo, di creare un dialogo del cristianesimo con la modernità. Ma ha sbagliato nel concepire il moderno. È rimasto vittima del mito idealista tedesco della "filosofia moderna". Non è sbagliato di per se aspirare a una filosofia moderna, apprezzare una filosofia moderna, perché si suppone che sia meglio informata, più sapiente, più solida e più intelligente dell'antica. Esiste un tomismo moderno certo migliore di quello del Sei o Settecento. L'errore di Rahner è stato quello di optare per una filosofia "moderna", la quale è stata sì moderna nel senso temporale, ma non nel senso qualitativo. Che cosa conta che una filosofia sia temporalmente moderna se poi di fatto ricade in antichi errori pagani, che già erano stati corretti dalla filosofia cristiana medievale, autrice delle radici cristiane dell'Europa? Che "moderno" è quel moderno che distrugge un passato, quale quello delle radici cristiane dell'Europa, legato all'immutabilità della parola di Dio, quella parola della quale Cristo ha detto: «Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno?». Rahner ha concepito il progresso come rottura, come contraddizione col passalo di una tradizione cristiana sacra e perenne, quella che appunto si chiama sacra Tradizione, sorgente della divina rivelazione insieme con la Sacra Scrittura, come da sempre insegna la Chiesa Cattolica. Questa rottura è nata dal fatto che Rahner non si è accorto della perenne validità di tale Tradizione, come condizione di vero progresso. Da che cosa sorge, da quali radici sorge la modernità rahneriana? Da un idealismo come quello che - per sua espressa dichiarazione - trae origine da Cartesio, passa per Kant. Fichte. Schelling ed Hegel e giunge ad Heidegger. Ma la tanto declamata novità cartesiana, come dimostrano gli storici del pensiero, in realtà riprende le fila dell'antico pensiero greco presocratico dei parmenidei, degli eraclitei, dei sofisti e degli scettici. Anche la continuità non è un valore, se è la continuità di un vizio perenne della ragione, come quello che si trascina da Protagora ad Heidegger. Rahner non ha capito qual è la legge dell'evoluzione dogmatica. La vera evoluzione non è rottura, ma esplicitazione nella continuità. Non suppone l'equivocità, ma la continuità analogica. Il dogma di Calcedonia contiene la stessa verità della cristologia del Vaticano II, solo che nel corso di quattordici secoli la Chiesa ha conosciuto meglio (e come diversamente avrebbe dovuto accadere?) quel medesimo mistero di Cristo che già è immutabilmente e definitivamente enunciato dal dogma calcedonese. Rahner ha inteso gli insegnamenti del Concilio come rottura con la Tradizione. Egli distrugge la Tradizione e quindi non opera in nome di una sana modernità, ma di un rinnovato modernismo peggiore di quello dei tempi di san Pio X. Per Rahner la verità cristiana comincia col Vaticano II da lui interpretato peraltro in modo modernistico. Prima c'è la barbarie, il vuoto, il nulla. Nessuna radice. Nessuna sorgente, nessuna base o nessun principio. Ma tutto comincia con Cartesio per finire con Heidegger. L'idealismo tedesco poi si sposa in Rahner con l'influsso luterano. Tuttavia uno potrebbe obbiettare: ma in fin dei conti, anche Rahner ha rispetto per il passato e per la Tradizione, giacché anch'egli, almeno a quanto pare, basa la tua teologia sulla Sacra Scrittura e sulla storia del Cristianesimo e della teologia cattolica. Sì, ma con quale impostazione? Non con l'impostazione del vero cattolico, il quale accoglie docilmente e fiduciosamente tutti i pronunciamenti dottrinali o dogmatici del Magistero della Chiesa e dei concili ecumenici, quali pepite d'oro che appaiono via via nel fiume della storia, ma con l'atteggiamento tipicamente luterano del "libero esame" (con la scusa dell' "esegesi storico-critica''), che di volta in volta, con diversi pretesti, si permette di stabilire in questo preziosissimo e ricchissimo patrimonio della Tradizione, quello che gli garba o non gli garba alla luce di quella che egli chiama "filosofia moderna". Qual è il risultato? Un puro e semplice gnosticismo (come rivelano chiaramente gli studi di don Ennio Innocenti), come è stato quello dell'idealismo tedesco fino ad Heidegger. Dove va finire la fede? Non e più virtù teologale soprannaturale con la quale si accoglie per vero quanto Dio ha rivelato e la Chiesa ci propone a credere, ma la famosa «esperienza trascendentale aprioristica ed atematica», ispirata all'ermetismo, alla teosofia, a Schleiermacher e ad Heidegger. Insomma, un rinnovato gnosticismo, col quale Rahner crede di conoscere Dio e Cristo meglio di quanto gli insegna la Chiesa Cattolica. Rahner non è capace di unire l'immutabile col mutevole sul piano dei concetti. Immutabile e universale è soltanto l’ “esperienza trascendentale", ma essa è ineffabile ("Mistero assoluto") e non concettualizzabile; viceversa il concetto (il "categoriale"), anche quello dogmatico, è privo di universalità e immutabilità. Ne viene la conseguenza incresciosa che la verità teologica esiste, ma è inesprimibile; mentre ciò che può essere espresso appartiene solo al campo del particolare, del mutevole e dell'incerto. L'etica rahneriana. come sempre avviene, è conseguenza logica dei suoi princìpi metafisici, gnoseologici e antropologici. La base fondamentale di tutto, come fu acutamente denunciato a suo tempo da Cornelio Fabro. è l'identificazione dell'essere col pensiero, identificazione che perla verità, è propria solo dell'essenza divina, ma che invece Rahner pone come principio di tutto il reale. Da qui il panteismo in metafisica e l'idealismo in gnoseologia. Da qui viene anche l'identificazione dell'essere con l'agire e col divenire e la tendenza monistica che non distingue più adeguatamente il vero dal falso, il bene dal male, l'eterno dal temporale, il finito dall'infinito. Dio dal mondo. Ciò non gli impedisce peraltro di cadere in dualismi irresolubili, che qui non è il caso di esaminare. Per distinguere egli separa, e per unire, confonde. Da questi principi fondamentali discende la sua concezione del rapporto dell'uomo con Dio: la ragione umana non dimostra l'esistenza di Dio partendo dagli effetti creati, come insegna san Paolo (Rm. 1,20) e il libro biblico della Sapienza (Sap. 13,5), ma possiede originariamente ed atematicamente un'«esperienza preconcettuale dell'essere» (“Vorgriff”). nella quale legge immediatamente la propria autocoscienza e l'esistenza di Dio. Come nella conoscenza divina, non si passa dalle cose a Dio, ma da Dio alle cose. Rahner confonde il sapere umano col sapere divino. L'uomo dunque è già di per sé originariamente, benché "atematicamente". potenzialmente Dio; Dio non è che la piena attuazione dell'uomo (Dio è l' «orizzonte trascendentale dell’autotrascendenza umana»). Dunque nessuna reale distinzione tra natura umana e grazia. L'uomo è per essenza in grazia, la natura umana è definita dalla grazia, senza la grazia è nulla, è pura "astrazione", pura "possibilità" (polemica contro la "natura pura"). La quale grazia poi non è un dono di Dio, o un accidente (qualità) dell'anima, ma è Dio stesso, che così diventa il costitutivo sostanziale dell'uomo ("causa formale" dell'uomo), confondendo così Dio con l'anima umana. La grazia dunque è inammissibile, così come l'uomo non può perdere la sua essenza. Da qui l'estrema difficoltà con la quale Rahner cerca di spiegare l'esistenza del peccato. Da qui la tesi secondo la quale tutti per essenza tendono a Dio, tutti sono sempre in grazia, tutti si salvano ("buonismo"), il peccato diventa impossibile oppure è un costituivo irrilevante della natura perché sempre perdonato da Dio (Lutero), da qui la negazione della redenzione di Cristo come sacrificio espiativo e riparatore del peccato (e quindi la crisi del sacerdozio, della Messa e della Liturgia). Da qui la negazione dì una natura umana oggettiva. universale e immutabile (difetto dell'esistenzialismo), dell'immortalità dell'anima (col rischio del materialismo), della legge naturale (con conseguente relativismo morale), dell'oggettività della conoscenza concettuale-razionale (con la conseguenza del relativismo dogmatico) e del libero arbitrio (con la conseguenza di un'etica spontaneistica, antiascetica e schiava delle passioni: Freud), la negazione della Parusia futura di Cristo (Parusia adesso), dei privilegi mariani (niente verginità), dell'esistenza degli angeli (sono solo "possibili"), di dannati nell'inferno (non c'è nessuno) e la tesi secondo la quale anche l'ateo è credente ("cristianesimo anonimo"). La cristologia è concepita hegelianamente in modo evolutivo-dialettico come passaggio dall'umano al divino e viceversa (riappare l'eresia di Eutiche), sicché Rahner giunge alla conclusione che antropologia, teologia e cristologia sono la stessa cosa (effetto del panteismo). Le tre Persone divine non sono tre relazioni sussistenti ovvero tre sussistenze, ma tre "modi di sussistenza" di un'unica persona-natura-sussistente (modalismo), mentre l'essenza della Trinità si risolve nel suo manifestarsi al mondo («la Trinità immanente è la Trinità economica»). Allora Dio è obbligato a creare? È obbligato a incarnarsi? A manifestarsi all'uomo? Qui si vede l'influsso della fenomenologia di Husserl e viene anche in mente Hegel: «Senza il mondo. Dio non è Dio». In particolare, in morale, la persona appare come soggetto meramente spirituale (cf. la res cogitans di Cartesio), che liberamente (come in Fichte, Gentile e Sartre) pone o progetta la propria essenza e quindi la legge morale, la quale quindi non è posta da Dio nella natura umana, ma il soggetto liberamente la pone da sé onde porre la propria essenza e la propria natura. Salvo poi a porre la persona come emergente dalla materia, per il fatto che viene negata la distinzione fra anima e corpo. La persona non appare come «individua substantia rationalis naturae», ma alla maniera idealistica, come autocoscienza e libertà, come una specie di relazione sussistente in atto, sicché c'è poi da chiedersi come potranno essere persone quei soggetti i quali per vari motivi non possono o non vogliano relazionarsi a Dio ed agli altri. I princìpi di fondo possono riassumersi in una divinizzazione gnostica dell'uomo e in una secolarizzazione del soprannaturale, si fanno sentire in vari modi: nel suo stesso metodo di pensare e di argomentare, dettato spesso da presunzione nei confronti delle massime autorità nel campo della filosofia come della religione, nell'aver sempre ignorato le osservazioni e le critiche che gli sono state fatte per decenni da eccellenti studiosi e teologi, nel sollecitare o suggerire una condotta morale improntata a un esagerato amore per la libertà personale, nel disprezzo dei valori oggettivi, eterni e universali, insomma un'esaltazione dell'io che ben poco ha a che vedere con un sano amore di sé riconosciuto dal cristianesimo, ma assomiglia molto di più al soggettivismo e alla presunzione tipici della religiosità luterana e al limite alla spropositata esaltazione dell'io propria dell’etica fichtiana. Appare l'ombra sinistra di Nietzsche. Siamo ancora nel Cristianesimo? È questa l'interpretazione del Concilio? (Giovanni Cavalcoli, © Radici Cristiane, agosto-settembre 2009)
Mancata notizia dell’approvazione degli Statuti Neocatecumenali Ho ricevuto da un attento lettore la seguente e-mail, che rendo pubblica pensando di far cosa utile per una migliore comprensione dello spirito che anima Kenosis nella stesura della sua rassegna stampa settimanale: «Buongiorno. Visitando il vostro sito "Kenosis" (per il quale vi felicito), sono andato a consultare l'archivio. Mi sono accorto che, per quanto riguarda il Cammino Neocatecumenale l'informazione che date è piuttosto selettiva, nel senso che privilegiate le notizie "contro", censurando quelle "a favore". Questo è flagrante, per esempio, negli archivi aprile 2008 dove c'è una news dal titolo "Tempi lunghi per l'approvazione degli Statuti del Cammino Neocatecumenale" e assolutamente niente (a meno che mi sia sbagliato, anzi che si sia sbagliato il mio computer) sulla notizia dell'approvazione definitiva di tali statuti. Dimenticanza? Francamente non credo, visto la preparazione che lei stesso dichiara di avere. Opterei piuttosto per un'informazione selettiva e indirizzata. Il che, mi permetta, non è indice di onestà intellettuale. Se poi mi sbaglio, sono pronto a porgerle le mie scuse. Sperando di leggerla presto, fratello in Cristo, Roberto B.» E questa è la mia risposta inoltrata anche privatamente al gentile interlocutore: «Egregio Signore. La ringrazio per le sue contestazioni, che penso di interpretare come l'effetto di una sua ricerca di notizie nel sito Kenosis, peraltro mirata e monotematica, rimasta insoddisfacente. Devo prima di tutto farle presente che la riproposizione di notizie, accadimenti, recensioni, commenti e quant’altro, in una parola la “rassegna stampa” di Kenosis, si articola su tre sezioni ben distinte: “News” – “Attualità” – “Approfondimenti”. Il criterio della suddivisione dei testi non risponde a particolari principi selettivi (nel senso che una notizia non è più o meno importante se appare in una pagina anziché nell’altra), ma è chiaro che la sua “visibilità” segue di pari passo quella data dalle rispettive fonti di provenienza, prediligendo testi con una certa compiutezza di esposizione dell’argomento trattato (sono omessi per esempio tutti i flash d’agenzia). Ora, per motivi di spazio e di “pesantezza” – rispondo di ciò ad un server a pagamento – ho riservato alla memoria dell’Archivio solo la raccolta dei pezzi pubblicati sulle pagine “Attualità” e “Approfondimenti”: mentre quelli delle “News”, più brevi e meno culturalmente “impegnativi”, vengono cancellati settimanalmente per far posto al nuovo materiale. Inoltre, nell'arco dell'anno, per ottemperare a lavori di aggiornamento e manutenzione, il sito rimane inattivo per un periodo di circa due mesi (luglio/agosto). Niente di strano quindi che magari parte di un certo materiale, pur di interesse generale e importante, venga omesso perché battuto dalle Agenzie di stampa in quel periodo dell'anno. Nel suo caso però, posso assicurare che la notizia di suo interesse è stata pubblicata sulle “News” del 15 giugno 2008: è un trafiletto ripreso pari pari dall’agenzia di stampa Apcom, che le ripropongo qui di seguito: «Il Papa approva gli Statuti Neocatecumenali: no alla Comunione seduti. Il Papa ha approvato in via definitiva gli Statuti del Cammino Neocatecumenale, approvando quasi integralmente quanto previsto dal dettato di sei anni fa. Unica bocciatura: no alla comunione a sedere. I fedeli, pur rimanendo al proprio posto, dovranno ricevere la comunione in piedi. Concessi invece l'uso del pane azzimo per la comunione, lo spostamento del rito della pace (che avviene dopo la preghiera dei fedeli e prima della consacrazione), la comunione sotto le due specie (pane e vino), le monizioni e le risonanze. L'articolo 13 prevede inoltre che "per quanto concerne la distribuzione della Santa Comunione sotto le due specie, i neocatecumeni la ricevono in piedi, restando al proprio posto". Tra le altre novità, l'approvazione della personalità giuridica pubblica del Cammino Neocatecumenale. "Siamo molto contenti che dopo 40 anni il Signore ci ha concesso questo atto, per noi molto importante", ha detto Kiko Arguello, iniziatore del Cammino, incontrando i giornalisti nella prima storica conferenza stampa dei Neocatecumenali. Si è così concluso questa mattina l'iter giuridico avviato sei anni fa quando venne approvato 'ad experimentum' il testo degli Statuti. 35 articoli e una disposizione transitoria. "Nessun cambiamento fondamentale - scrive monsignor Juan Ignacio Arrieta, segretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi - è stato compiuto in questo nuovo passaggio degli Statuti, e quasi tutti gli articoli sono riproduzione esatta di quelli vecchi. Questi sei anni sono serviti, tuttavia, per fare chiarezza sull'originaria formulazione dei testi e per migliorare la norma sia dal punto di vista tecnico che da quello strutturale". (Apcom, 13 giugno 2008)» Chiaramente, per i motivi che le ho detto, la nota non è stata caricata in “Archivio” e pertanto lei, a posteriori, non ha potuto rilevarla. Questo è quanto successo, in tutta onestà. Nessuna informazione selettiva, dunque, nessuna priorità né favoritismi per notizie “contro” piuttosto che “pro” (“contro” chi, o “pro” che cosa, poi? ). Quindi mi dispiace che gli organi di stampa sull’argomento di suo interesse non siano andati oltre un semplice trafiletto. Che poi la mia scelta redazionale, di dare all’informazione una diversa collocazione nelle pagine del sito, scelta peraltro personale e incontestabile, sia più o meno condivisibile da tutti, posso anche dargliene atto: quando lei prospetta la possibilità di una diversa visibilità data da me a certe notizie, lei coglie nel segno, perché è vero: nel mare magnum di notizie che mi vengono rovesciate addosso quotidianamente dai media in abbonamento, la mia scelta cade su quelle di carattere religioso che ritengo di impatto più immediato e di maggior interesse per la massa dei fruitori del sito: può darsi che tale procedura a volte crei qualche scompenso, soprattutto per i naviganti occasionali, come ritengo debba trattarsi per lei, ma le assicuro che nel suo insieme Kenosis – con tutti i suoi limiti e le sue carenze – cerca di assicurare una panoramica dell’informazione religiosa piuttosto equilibrata anche se assolutamente non esaustiva. Tutto ciò – mi scusi la verbosità – per rispondere alla sua retorica e provocatoria domanda circa la mia onestà intellettuale, della quale, mi perdoni l’immodestia, non mi sembra affatto di fare difetto; penso anzi di averne - di onestà intellettuale - molto di più rispetto a quella preparazione culturale che lei molto generosamente qualifica come “dichiarata”: una preparazione che lei con la sua non troppo velata insinuazione mette aprioristicamente in discussione, ponendo entrambi i termini della questione in contraddittorio: da un lato l'imparzialità e onestà intellettuale con una conseguente comprovata preparazione culturale, dall'altro una informazione parziale e tendenziosa, peraltro colta da lei in flagranza di reato, e conseguentemente una preparazione culturale millantata e deficitaria, comunque non all'altezza della delicatezza del mio lavoro. Da ciò la sua saccente conclusione: "Opterei piuttosto per un'informazione selettiva e indirizzata. Il che, mi permetta, non è indice di onestà intellettuale". A questo punto io penso proprio, caro amico, che tale sua sentenza finale - pur con il condizionale d'obbligo - sia stata influenzata più dai “contenuti” degli articoli sul movimento neocatecumenale da me pubblicati, che dal semplice fatto di non aver trovato, nel materiale obsoleto di archivio, quanto miratamene lei cercava: questo in realtà sarebbe a mio avviso il vero motivo del suo disappunto; altrimenti perché prendere carta e penna per protestare? Io non ho mai dichiarato né preteso per il mio sito la quintessenza e l’universalità del sapere e dell’informazione, al pari di un'Agenzia d'informazione con decine di addetti e foraggiata da denaro pubblico. Non miro a tanto, anzi la cosa proprio non mi interessa. Solo così, caro fratello, mi posso spiegare questa sua levata di scudi, che mi suona tanto di polemica sterile, campanilistica e fuori luogo. Mi dispiace per lei e per le sue convinzioni, che peraltro rispetto pienamente, se non ha trovato nei testi da me pubblicati quanto corrisponde con i suoi convincimenti e quanto forse si aspettava: ma le assicuro che essi rispecchiano fedelmente quanto la maggioranza degli opinionisti e osservatori specializzati hanno scritto in proposito. Questa è l'opinione "corrente" sull'argomento neocatecumenale. Personalmente – pur apprezzando il grande risveglio spirituale apportato nella pastorale dal movimento in questione, non misconoscendo gli innegabili carismi ad esso legati, libero da ogni pregiudizio o condizionamento in proposito – sento di non condividere certa metodologia e certi ritualismi adottati, soprattutto nel campo liturgico, dove il personalismo e l’esibizionismo individuale troppo spesso si sovrappongono a quelle esigenze che ritengo prioritarie in una assemblea Eucaristica. Tutto qui, senza pretendere di esprimere un dogma universale, ma rimanendo umilmente nell’ambito ristretto delle mie personali convinzioni. Del resto, pur nella più stretta fraternità e carità, possono coesistere anche visioni non allineate sul “modo”, non certo sulla “sostanza”, del vivere la nostra fede e il messaggio evangelico. Non le pare? La storia della Chiesa ce lo insegna continuamente e mai, come in questo caso, la storia è “magistra vitae”. Con questo la saluto cordialmente». Mario, il webmaster di Kenosis, 29 settembre 2009
27 settembre 2009
Quella sentenza capovolta per capovolgere la realtà «Attacchi inaccettabili»: così l’Associazione nazionale magistrati amministrativi definiva ieri le critiche arrivate da politici di destra e di sinistra dopo la sentenza del Tar del Lazio sull’atto di indirizzo del ministro del Welfare Maurizio Sacconi, quello cioè che, nato dalla vicenda di Eluana Englaro, vietava di interrompere alimentazione e idratazione ai disabili. Pur ammettendo la possibilità di essere criticati, i giudici hanno invitato a leggere meglio la loro sentenza, che ritengono estranea a pregiudizi ideologici, e tantomeno tesa a condizionare la politica, come invece avevano evidenziato diversi parlamentari. I magistrati sostengono di avere solo applicato le norme vigenti, e soprattutto che «non sono entrati nel merito della controversia». Ma è veramente difficile dar loro ragione dopo aver letto il testo della sentenza, alla luce anche di come la gran parte dei media ha trattato la faccenda, semplicemente ribaltandone l’esito rispetto alla realtà. Come forse si ricorderà, il Movimento difesa del cittadino – associazione di area radicale – aveva fatto ricorso al Tar del Lazio per annullare l’atto di indirizzo firmato da Sacconi durante la vicenda di Eluana. Il Tar ha riconosciuto di non essere legittimato a giudicare: il ricorso dunque risulta respinto, e l’atto di indirizzo resta valido. Ma nell’affrontare la questione è stata usata una modalità inusuale, tanto che gli stessi giudici se ne giustificano nel testo della sentenza: la prassi corrente, spiegano, vorrebbe che «quella attinente la giurisdizione deve precedere ogni altra questione», e cioè che innanzitutto si stabilisca se il tribunale interpellato – in questo caso il Tar – sia legittimato a giudicare. Ma in questo caso i giudici hanno deciso di «seguire un ordine inverso»: affrontare in premessa il merito della controversia, esprimendosi sull’atto di indirizzo, per poi trattare – ma solo alla fine – il problema della legittimità del tribunale a esprimersi. In altre parole: anziché limitarsi a decidere se il Tar avesse titolo per esaminare il caso ed entrare poi eventualmente nel merito, i giudici hanno scelto di discutere l’atto di Sacconi per poi andare a vedere, nelle conclusioni, se era loro compito giudicare. Come dire: prima parlo, poi vedo se potevo farlo. La conclusione è stata una sentenza di tredici cartelle, sostanzialmente a favore del ricorso e contro l’atto di indirizzo, e concluse però con l’inammissibilità del ricorso stesso, che è stato appunto rigettato. I giudici hanno quindi colto l’occasione per mettere nero su bianco la loro opinione, rispettabile ma solo personale: sono cioè entrati impropriamente nel merito della controversia esprimendosi su idratazione e alimentazione, interpretando a rovescio l’articolo 25 della Convenzione Onu sui disabili, quello che vieta di sospendere la nutrizione assistita e che – ricordiamolo – fu introdotto dopo la morte per fame e per sete di Terry Schiavo, la giovane americana in stato vegetativo, proprio per evitare che casi come il suo si ripetessero. Un’intrusione discutibile, quella dei giudici amministrativi, che non poteva che attirarsi critiche per la modalità con cui si è svolta: ci chiediamo cosa avrebbero scritto, se fossero stati legittimati a farlo. Aggiungiamo che la gran parte dei giornali ha riportato, con titoli enfatici, le considerazioni personali dei giudici contro l’atto di indirizzo, "dimenticando" in molti casi di spiegare che il ricorso era stato respinto e che l’atto di Sacconi è ancora valido (ma c’è persino chi ha scritto che il ricorso era stato accolto). Il risultato è un’enorme confusione nell’opinione pubblica, sempre più frastornata da notizie e commenti che dicono tutto e il suo contrario. Vista l’aria che tira negli ultimi mesi, viene da pensare che si stia scambiando la libertà di informazione con l’anarchia: che ognuno scriva pure quel che vuole, quello che gli conviene. Tanto, nessuno paga pegno. Salvo gli italiani, che capiscono sempre meno la vera posta in gioco. (Assuntina Morresi, Avvenire, 21 settembre 2009)
San Leopoldo Mandic: un vero maestro nel sacramento della Riconciliazione Confessarsi da lui era cosa breve. Anzi brevissima. Non si dilungava mai in parole, spiegazioni, discorsi. Aveva imparato dal Catechismo di san Pio X che la brevità è una delle caratteristiche di una buona confessione. Eppure il suo confessionale è stato per più di quarant'anni una specie di porto di mare per le anime. Tanti erano quelli che andavano, che assiduamente lo frequentavano. Padre Leopoldo era sempre lì, dodici, tredici, quindici ore al giorno. Confessava e assolveva oves et boves, cioè tutti. E di quella sua amabile delicatezza, di quell’umiltà semplicissima, fiduciosa nell’infinita misericordia di Dio e nell'azione della grazia che opera attraverso i sacramenti, sono testimoni quanti lo conobbero. La sua celletta confessionale è rimasta com’era, lì dove tuttora si trova, accanto alla chiesa di Santa Croce, nel convento dei frati Cappuccini a Padova. Una piccola stanza con tutte le poche cose che hanno fatto la sua vita: un inginocchiatoio, un crocifisso, un’immagine della Madonna, la stola, la sedia. Neanche la furia dei bombardamenti, che nel maggio del 1944 rasero al suolo la chiesa e il convento, è riuscita a demolirla. Da tanta distruzione solo quel confessionale rimase miracolosamente illeso. Due anni prima della sua morte, avvenuta il 30 luglio 1942, padre Leopoldo, confidandosi con un amico, aveva predetto i bombardamenti che avrebbero colpito Padova. «E questo convento?», chiese quel signore; «padre, anche questo convento sarà colpito?». «Purtroppo, anche il nostro convento sarà duramente colpito» rispose con un filo di voce padre Leopoldo. «... Ma questa celletta no, questa no. Qui il Padrone Iddio ha usato tanta misericordia alle anime... deve restare a monumento della Sua bontà». Leopoldo Mandic è stato proclamato santo il 16 ottobre 1983. Elevato vox populi agli onori degli altari. Dalla morte alla canonizzazione sono trascorsi solo quarantun anni: una delle canonizzazioni più rapide del nostro secolo. Nato nel 1866 in Dalmazia, a Castelnuovo di Cattaro, Adeodato Mandic era di nobile stirpe bosniaca. Prese nome di fra Leopoldo entrando nel seminario dei frati Cappuccini a Bassano del Grappa. A ventiquattro anni è ordinato sacerdote e da questo momento in poi, prima a Venezia, poi a Bassano, Thiene e dal 1909 stabilmente a Padova, non fa altro che attendere al sacramento della penitenza. Per i suoi superiori non poteva fare altro: statura un metro e trentotto, costituzione debolissima, stentato e un po’ goffo nel camminare... Fisicamente era un nulla e per di più anche impacciato nella lingua poiché aveva lo “sdrùcciolo”, cioè mangiava le parole, e questo difetto si sentiva soprattutto quando pregava o doveva ripetere le formule a memoria, tanto che in pubblico non poteva dire neanche un «oremus». Cosa non da poco in un ordine di predicatori qual è quello dei Cappuccini! «Tante volte» ricordò al processo un suo confratello «si meravigliava egli stesso che professori universitari, uomini importanti, persone molto qualificate venissero proprio da lui, “povero frate”; e tutto egli, con grande umiltà, attribuiva alla grazia del Signore che per mezzo suo, “meschino ministro pieno di difetti”, si degnava di fare del bene alle anime». Tutti quelli che lo hanno conosciuto ricordano questa sua umiltà sincera, piena di riconoscenza e gratitudine. A Padova, a tarda sera di un giorno di Pasqua, un giovane sacerdote incontrò padre Leopoldo che quasi non si teneva in piedi dalla stanchezza per le tante ore passate in confessionale. Con tono di filiale compassione gli disse: «Padre, quanto sarà stanco...»; «e quanto contento...», riprese lui con dolcezza. «Ringraziamo il Signore e domandiamogli perdono, perché si è degnato di permettere che la nostra miseria venisse a contatto con i tesori della sua grazia». Davanti alla porticina del suo confessionale ogni giorno un folto gruppo di persone di tutte le classi sociali era lì ad attenderlo. Analfabeti e rozzi contadini, professionisti, sacerdoti e religiosi, magnati dell’industria e professori, tutti aspettavano in silenzio il loro turno e tutti padre Leopoldo accoglieva sempre con la stessa premura, la stessa delicata discrezione, specialmente chi si riavvicinava alla confessione dopo tanto tempo. «Eccomi, entri pure, s’accomodi... l’aspettavo sa... » si sentì dire un signore di Padova che da molti anni non si accostava ai sacramenti. E tanto era impacciato e confuso che, entrato nel confessionale, invece di mettersi in ginocchio andò a sedersi sulla sedia del prete; padre Leopoldo non disse niente, si mise lui in ginocchio al posto del penitente e ascoltò così la sua confessione. Ed era, la sua, una delicatezza attenta a non umiliare inutilmente, comprensiva della fragilità umana: «Non abbia riguardo, veda, anch’io, benché frate e sacerdote, sono tanto misero» disse a un altro. «Se il Padrone Iddio non mi tenesse per la briglia farei peggio degli altri ... Non abbia nessun timore». E a quel tale che aveva grosse colpe da confessare e a cui costava molto vuotare il sacco, dire certe miserie: «Siamo tutti poveri peccatori: Dio abbia pietà di noi...». Glielo diceva con un tono tale che quell'uomo si sentì immediatamente incoraggiato ad accusarsi con sincerità. Spesso ripeteva ai penitenti: «La misericordia di Dio è superiore a ogni aspettativa», «Dio preferisce il difetto che porta all'umiliazione piuttosto che la correttezza orgogliosa». Credendo fermamente nell'efficacia della grazia che il Signore stesso comunica attraverso i sacramenti, padre Leopoldo su di un punto solo fu costantemente irremovibile: la brevità della confessione. Delle volte, è vero, nei giorni di scarso concorso, si intratteneva con una persona magari mezz’ora, o perché s’interessava dei suoi studi o del suo ufficio o per intrattenersi con quei chierici o quelle anime che lo chiedevano come guida spirituale. Ma la confessione, come tale, era sempre breve. E i penitenti testimoniano questa sua brevità e semplicità di parole. Scrive un monsignore di Padova: «La confessione con il padre Leopoldo era ordinariamente brevissima. Egli ascoltava, perdonava, non molte parole, spesso anche in dialetto quando si rivolgeva a persone non istruite, qualche motto, uno sguardo al crocifisso, talvolta un sospiro. Sapeva che in via ordinaria le confessioni lunghe sono a scapito del dolore, e sono, il più delle volte, accontentamento di amor proprio, pertanto sulla modalità della confessione si atteneva a quanto indicato nel catechismo della dottrina cristiana». In una lettera indirizzata a un sacerdote, padre Leopoldo scrive: «Mi perdoni padre, mi perdoni se mi permetto... ma vede, noi, nel confessionale, non dobbiamo fare sfoggio di cultura, non dobbiamo parlare di cose superiori alla capacità delle singole anime, né dobbiamo dilungarci in spiegazioni, altrimenti, con la nostra imprudenza, roviniamo quello che il Signore va in esse operando. È Dio, Dio solo che opera nelle anime! Noi dobbiamo scomparire, limitarci ad aiutare questo divino intervento nelle misteriose vie della loro salvezza e santificazione». Sempre esortava i suoi penitenti ad avere fede, a pregare, ad accostarsi frequentemente ai sacramenti. Ma il piccolo frate, nelle penitenze, inutile dirlo, era magnanimo e diceva a chi gli obiettava di darle facili: «Oh è vero... e bisogna che dopo soddisfi io... ma è sempre meglio il purgatorio che l’inferno. Se chi viene da noi a confessarsi, col dargli poca penitenza deve poi andare in purgatorio, dandogliela grave non c’è pericolo che si disgusti e vada a finire all'inferno?». E così ordinariamente dava tre Ave Maria e tre Gloria Patri. Poco dava ai laici lontani dalla vita della Chiesa e poco dava anche alle anime che per loro vocazione hanno tante preghiere da dire ogni giorno. Un sacerdote un giorno gli chiese se non fosse il caso di assecondare il desiderio di una brava figliola di portare addosso qualche strumento di penitenza. Il buon padre subito rispose che non era affatto un desiderio da assecondare. «Ma scusi, padre, lei non la conosce: non è un’anima qualunque, è un'anima d'oro, seria...». E padre Leopoldo rimaneva ancora più deciso nel rifiuto. E l’altro insisteva. Allora il prudente confessore fece questa domanda: «Mi permetta, mi permetta: lei porta il cilicio?». «No!». «E allora? Caro padre, abituiamo i penitenti a ubbidire ai comandamenti di Dio e al loro dovere. Ce n’è abbastanza, ce n’è abbastanza! E i grilli via!». Magnanimo, padre Leopoldo, lo era anche nell’assoluzione: non la negava davvero a nessuno. E di quelle rarissime volte che l’ebbe fatto si pentì sempre. Alcuni giorni prima di morire un sacerdote gli chiese: «Padre, c’è stata qualche cosa che vi ha procurato tanto dispiacere?». Egli rispose: «Oh! Sì... purtroppo sì. Quando ero giovane, nei primi anni di sacerdozio, ho negato tre o quattro volte l’assoluzione». Tutti lo conoscevano per la sua bontà: el padre Leopoldo, o benedeto! Queo sì ch’el xe bon! L’è un santo diceva la gente. Tanto che quando nel 1923 i superiori lo trasferirono a Fiume, per i padovani fu lutto cittadino. Ma tanto fecero, tanto insistettero che i superiori dovettero ritornare sulle decisioni prese e rimandarlo dopo breve tempo a Padova. Anche i giovani chierici gli volevano bene. Nel 1910, l’anno seguente al suo arrivo a Padova, padre Leopoldo fu infatti nominato direttore dei chierici del seminario maggiore dei Cappuccini. Incarico dal quale fu poi presto esonerato. Racconta un suo confratello: «Per i seminaristi nutriva un grande affetto e si mostrava assai paterno con loro e li incoraggiava sempre sollecitandoli nella speranza. La nostra regola era molto austera. All’una di notte ci si alzava per la recita del mattutino e d'inverno, col freddo rigido, costava assai... E lui pensava a quei giovani poverini... Più di una volta ricordo che padre Leopoldo andava dal padre superiore perché anticipasse la recita del mattutino alla sera: “Superiore, guardi che stanotte farà freddo...”. “Ma padre, la temperatura non è scesa sotto lo zero”. “Oh, ma questa notte lo farà...”. “Lasciamoli dormire”, diceva al superiore, “che riposino... lo farò io per loro”. E si curava che stessero in salute, che mangiassero bene, che non fossero ripresi dai superiori per qualche manchevolezza durante il pranzo, com’era costume fare». Scrive l'allora superiore generale dei Cappuccini: «Sapendo egli quanto bene gli volevo, aveva in me grande confidenza e spesso mi diceva: “Padre provinciale, se mi permette, veda di non gravare la coscienza dei frati, soprattutto dei giovani frati, con prescrizioni che non siano proprio necessarie, perché, vede, poi bisogna osservarle le prescrizioni dei superiori. Se non sono proprio necessarie sono un laccio per i deboli... Mi perdoni sa, mi perdoni...”». Di quanta misericordia, di quanto amore fosse capace il cuore del piccolo frate, anche per coloro che non lo meritavano, lo dice questa dolorosa circostanza che riguarda un chierico espulso bruscamente dal convento per aver compiuto deliberatamente atti gravissimi. A raccontarla è un sacerdote: «Portatomi in convento, incontrai padre Leopoldo che era appena uscito dall'ospedale. Mi chiamò nel suo confessionale e mi scongiurò, in nome di Dio, di accogliere quel “poveretto” e di pregare il superiore della casa di trattarlo bene per salvare in lui almeno la fede. Piangendo mi disse più volte: “Si salvi la fede, si salvi la fede!”. Poi, inceppandosi ogni tanto per l’emozione, continuò: “Dica, dica a quel poveretto che io pregherò per lui. Gli dica che domani nella santa messa mi ricorderò di lui, anzi... anzi gli dirà che la celebrerò tutta proprio per lui e lo benedirò sempre. Gli dirà che padre Leopoldo gli vuol sempre bene!...”. Rimasi commosso anch’io al sentire un cuore così ripieno di evangelica carità. Solo le madri trovano espressioni così accorate quando un figlio degenere si allontana da loro». Ma a qualcuno intanto, questa bontà senza misura, cominciò a sembrare eccessiva accondiscendenza, e iniziò a storcere il naso. Cominciarono così le critiche per la larghezza con cui trattava i penitenti, anche i più recidivi nella colpa, per la generosità del perdono. Lo rimproveravano di essere troppo sbrigativo contentandosi persino di sommaria accusa, tanto da tacciarlo di lassismo di principi morali. Ai chierici venne perciò sconsigliato apertamente di confessarsi da lui. Le critiche giunsero all’orecchio del piccolo frate e un giorno un sacerdote gli disse: «Padre, ma lei è troppo buono... ne renderà conto al Signore!... Non teme che Iddio le chieda ragione di eccessiva larghezza?». E padre Leopoldo indicando il crocifisso: «Ci ha dato l’esempio Lui! Non siamo stati noi a morire per le anime, ma ha sparso Lui il Suo sangue divino. Dobbiamo quindi trattare le anime come ci ha insegnato Lui col Suo esempio. Perché dovremmo noi umiliare maggiormente le anime che vengono a prostrarsi ai nostri piedi? Non sono già abbastanza umiliate? Ha forse Gesù umiliato il pubblicano, l’adultera, la Maddalena?». E allargando le braccia aggiunse: «E se il Signore mi rimproverasse di troppa larghezza potrei dirgli: “Paron benedeto, questo cattivo esempio me l’avete dato voi, morendo sulla croce per le anime, mosso dalla vostra divina carità”». «Mi dicono che sono troppo buono» scrive a un sacerdote suo amico «ma se qualcuno viene a inginocchiarsi davanti a me, non è questa sufficiente prova che vuole avere il perdono di Dio?». Le critiche furono ben presto spazzate via. L’allora canonico teologo di Padova monsignor Guido Bellincini inviò subito una lettera al convento di padre Leopoldo: «Grande larghezza di cuore la vostra, carissimo padre, che non è lassitudine di principi morali, ma comprensione dell’umana fragilità e fiducia negli inesauribili tesori della grazia: che non è acquiescenza o indifferenza alle colpe, ma longanimità concessa al peccatore, perché non disperi delle sue possibilità di ricupero e si rassodi nei buoni propositi. Ringraziamo Iddio che fa le cose giuste: ha voluto che fosse confessore e giudice un semplice uomo e non un Angelo del cielo. Guai a noi se il confessore fosse un Angelo: quanto sarebbe rigoroso e terribile! L’uomo invece capisce l'uomo, e i sacramenti sono per gli uomini!». Nel maggio del ’35 padre Leopoldo festeggia il suo cinquantesimo anno di vita religiosa. Inutile dire quante le manifestazioni di affetto ricevute in quel giorno. Mai si pensava di esser trattato così, lui che era la discrezione in persona. Honor sequitur fugientes! Mai infatti, né in vita né dopo la morte, la diffusa fama di santità suscitò attorno alla sua figura chiassosa pubblicità o fanatismo. E i doni straordinari e le grandi opere che per suo mezzo il Signore si è degnato di compiere, accadevano nel silenzio, senza che quasi nessuno se ne accorgesse. Tanto che molti dei suoi stessi confratelli, come testimoniarono al processo, se ne accorsero solo dopo la morte: «Io stesso non avrei mai creduto, perché durante la sua vita non mi risultava nulla di straordinario. Padre Leopoldo appariva un frate esemplare, ma nulla di più». Per quel «nulla di più» quanti ottennero da lui, anche quando era in vita, grazie e miracoli, quanti “pesci grossi” il pentimento fino al dono delle lacrime, quanti innominati entrarono per quella porticina del suo confessionale... Quanti ricorderanno per tutta la vita quell’abbraccio, quello sguardo... E lui tutti affidava a Maria, colei a cui tutto è stato perdonato in anticipo. Quante ore della notte passò pregando per quelle anime? Quante volte il padre guardiano lo aveva trovato prima dell’alba in ginocchio per terra, nella penombra della cappella davanti alla statua della Madonna? Per lei aveva gesti di tenerezza infantile e la baciava e l’implorava con le lacrime agli occhi, come un bambino. Negli ultimi tempi, malato di cancro all’esofago, le preghiere alla sua «cara Parona celeste» sono ancora più piene di commovente tenerezza: «Ho estremo bisogno» scrive a un amico «che Lei, la mia dolcissima Madre celeste, si degni di avere pietà di me. Il Suo cuore di madre si degni di guardare a questo povero me; si degni di avere pietà di me». E ai suoi confidenti chiedeva che la pregassero perché la sofferenza provocata dal male non fosse d’impedimento per attendere alle confessioni: «E La supplichi», chiedeva «supplichi il Suo cuore di madre ch’io possa servire umilmente Cristo Signore secondo la natura del mio ministero fino alla fine... Tutto, tutto per la salvezza delle anime... Tutto a gloria di Dio!». All’alba di quel 30 luglio volle celebrare la messa ma per la debolezza venne riportato a letto. Sentendo venir meno le sue forze chiese ai suoi confratelli di intonare il Salve Regina. Ai versi finali si sollevò con gli occhi pieni di lacrime... Dulcis Virgo Maria, oh dolce Vergine Maria. Fu questo l’ultimo suo respiro. La sera prima aveva confessato cinquanta persone! L’ultima a mezzanotte. (Stefania Falasca, “È il Signore che opera”, (30Giorni, 4/2009)
L’ipotesi sul «suicidio assistito» è un’aggressione contro il diritto alla vita Corre voce, corre notizia che in Inghilterra sarà depenalizzata nei prossimi giorni l’assistenza al suicidio. Qualche giornale inglese ha già titolato così. Si aggiunge che non sarà una legge a provvedere, non sarà il Parlamento; ci penserà il Crown Prosecution Service, cioè la Procura generale del Regno. Si dice che il suo capo scriverà qualcosa come delle linee-guida, per stabilire che cosa sarà perseguito come delitto e che cosa no. Dirà che cosa la pubblica accusa intende per «assistenza al suicidio»; distinguerà quando un suicidio è stato soltanto assistito o invece è stato organizzato, spinto, incoraggiato, magari su persone «vulnerabili o sensibili alle manipolazioni». Si muoverà «secondo il pubblico interesse». Una rivoluzione? Riflettiamo. Un giurista deve dir subito, per chiarezza, che la Procura del Regno non ha il potere di cambiare le leggi del Regno. Se il proposito è una aggressione contro la legge di protezione della vita, esso nasce morto nel sistema giuridico inglese. La legge inglese punisce l’assistenza al suicidio con il carcere fino a 14 anni, e resta intatta (Suicide Act 1961). Se si vuol fare un raffronto, in Italia è prevista la reclusione fino a 12 anni, per chi determina o rafforza il proposito di suicidio o ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione. Oggi quel che viene esattamente sotto la lente è il concetto di "assistenza", e questo provoca positivamente la coscienza di tutti. Assistere significa letteralmente «stare vicino». Ma stare vicino a chi medita un suicidio che cosa vuol dire? Quale orizzonte giuridico, quale radice etica giudica il fatto di confortarlo, o dissuaderlo, o persuaderlo, o guardarlo passivamente mentre accade la morte, in dissenso disperato o in volontà condivisa? Come catalogare, dentro la legge positiva, partecipazione, indifferenza, sconforto, rafforzo? La cronaca odierna allaccia drammaticamente il proposito di suicidio di una donna (Debbie Purdy) al quesito sul rischio che corre chi l’assiste a morire (il marito). Parliamo allora di questi drammi umani "familiari" che ci scuotono fin nel profondo. Parliamone con dolcezza risoluta; accettiamo l’impatto della soglia dolorosa, sentiamo in noi l’emozione della disabilità estrema e della morte annunciata, spalanchiamo l’orizzonte del cuore. Ma teniamo fermo a ragione che nulla può scalzare il valore della vita e la sua "amabilità", cioè l’esser degna d’amore. Noi non ci rassegneremo mai alla filosofia dell’espulsione. Il rifiuto della vita, nella sua sofferenza, è la protesta violenta di un’assenza. È l’invocazione disperata di una presenza che "assiste", cioè che sta vicino. Qualche anno fa, la Corte europea dei diritti dell’uomo si occupò di una contesa analoga a quella odierna. La causa si chiamava Pretty vs. UK, chiedeva un giudizio sul diritto a morire. La Corte disse che non è giusta, non è legale, non è umana, l’eutanasia. Disse anche che tutti i diritti e le libertà proclamate dalla Convenzione sono illusori, se non si difende il diritto alla vita. Forse il procuratore inglese saprà dirci domani che cos’è per lui un suicidio pulito, assistito in modo pulito come il suicida voleva che fosse fatto; o lasciato morire. Per noi un proposito di suicidio è lo scacco della nostra capacità di amore. E intanto il procuratore generale di Zurigo si indigna per i suicidi assistiti in diretta dentro il sacchetto di plastica all’elio. Tutto si tiene, tutto si spacca, nelle Procure del mondo. Ma è la giustizia della verità, il problema, la giustizia dell’essere insieme, la giustizia della vita. (Giuseppe Anzani, Avvenire, 22 settembre 2009)
Alle Sanaa d’Italia dobbiamo una risposta di civiltà La morte di Sanaa, uccisa dal padre per aver fatto delle libere scelte affettive, ha assunto i caratteri di una tragedia-simbolo della globalizzazione e dell’incontro tra i popoli. Questo incontro è facile quando i popoli si parlano da lontano, ed è necessario per rendere l’umanità una vera famiglia in cui tutti i membri abbiano eguali diritti. Diviene difficile quando i popoli trasmigrano, le tradizioni si confrontano sullo stesso territorio, quando si intrecciano livelli evolutivi diversi. Sanaa è il soggetto innocente e più debole che ha pagato l’egoismo più feroce di chi l’ha colpita, ma anche l’indifferenza di altri, e chiede a tutti noi una presa di coscienza di verità che a volte non vogliamo dirci. Ci sono persone, tradizioni, modi d’intendere le religioni, che al primo posto della scala dei valori non pongono la vita e la dignità della persona, ma restano legate a logiche di sopraffazione, di crudeltà, fino all’esaltazione della violenza estrema. Lo sappiamo e lo vediamo in tutto il mondo, con regimi totalitari che fanno uso quotidiano della violenza contro gruppi etnici e nazionali, con fondamentalismi che alimentano persecuzioni religiose, in modo speciale contro il cristianesimo e i cristiani. A queste tragedie dobbiamo dare una risposta civile e internazionale con il riconoscimento e la difesa dei diritti umani fondamentali per tutti e dovunque. Ma anche con la pratica dei principi cristiani che chiedono rispetto degli altri, amore per il prossimo, amore per la vita, e che portano affinamento spirituale e civile. Ancor più abbiamo il dovere di parlare e di intervenire quando la violenza si manifesta in modo così atroce in casa nostra, nel mondo dell’immigrazione, senza tacere per malcelato timore o sminuire i fatti per sottintesi opportunismi. La straziante tragedia di Sanaa nasconde una realtà di soggezione e subalternità delle donne nelle pieghe dell’immigrazione che non possiamo nascondere o fingere di non vedere, così come le parole della madre di Sanaa che ha giustificato l’uccisione della figlia appaiono terribili e feriscono il cuore di ogni genitore. Il primo compito dello Stato, di tutti noi, è evitare che le comunità dell’immigrazione divengano comunità chiuse, con leggi diverse, con gerarchie interne dispotiche. Anche perciò è giusto chiedere agli esponenti di queste comunità di intervenire, condannare tali gesti, parlare di diritti che non sono comprimibili da nessuno, in nessun momento. Come c’è da sperare che nei prossimi mesi qualche magistrato non giustifichi in qualche modo il gesto omicida con qualche eccezione di multiculturalità, sulla scia di sciagurati precedenti giurisprudenziali. Si è detto che l’uccisione di Sanaa non ha nulla a che vedere con la religione. In parte può essere giusto, ma non è sufficiente a risolvere il problema, bisogna riconoscere anche che la religione islamica è utilizzata da qualcuno per legittimare questo o altri gesti, intollerabili in una società rispettosa della dignità della persona. Quanto accaduto, inoltre, pone allo Stato e alle istituzioni pubbliche la questione centrale dell’integrazione e dei modi per realizzarla. L’integrazione è necessaria, ma è una meta da raggiungere, non è già oggi una realtà per la maggior parte degli immigrati. Questo risultato non lo si raggiunge a parole, o con provvedimenti esclusivamente securitari, ma coinvolgendo le comunità degli immigrati in un processo di incontro, di dialogo, nel quale esse assumano anche precise responsabilità per far progredire costumi, mentalità, comportamenti, in chi viene da lontano, conosce arretratezze, ha sensibilità diverse su problemi cruciali della convivenza civile. Bisogna perciò fare ogni sforzo e dar seguito a ogni impegno, anche in sede istituzionale, perché il processo evolutivo vada avanti. Qui può celarsi il punto di non ritorno di una morte orribile come quella di Sanaa, che chiama in causa i nostri sentimenti, i principi più elementari di una società cristiana, ma chiede anche di coinvolgere la politica e i suoi protagonisti, perché il problema dell’integrazione sia affrontato con intelligenza e coraggio. Senza impegnarsi, tutti insieme, per raggiungere questo obiettivo rischiamo che si creino delle "terre di nessuno" ove valgono leggi aliene e ingiuste, ove avvengono fatti mostruosi, che poi finiscono semplicemente in cronaca. Dobbiamo andare in direzione esattamente opposta. (Carlo Cardia, Avvenire, 23 settembre 2009)
Cosa dire alle giovanissime che pretendono la “pillola killer”? «Hanno tra i 13 e i 17 anni: fino a ieri venivano da noi per l’interruzione volontaria della gravidanza con un decreto di un giudice pur di non confessarlo ai genitori. Domani verranno da noi con lo stesso decreto per farsi prescrivere la Ru 486, ma saranno ancora più sole nell’affrontare questo evento così sconvolgente per un’adolescente » . La dottoressa Angela Lacalamita, psicologa e psicoterapeuta, che fa parte dell’èquipe dell’unità operativa materno- infantile dell’ospedale ' Di Venere' di Bari, parla con rammarico di quel 7% di ragazzine che ogni anno fanno ricorso all’interruzione di gravidanza, collocando la Puglia tra le regioni con il più alto tasso di abortività tra le giovanissime. Il timore è che con l’introduzione della Ru486 nel nostro Paese si apra un « facile ricorso all’aborto da parte delle giovanissime, riducendo la gravidanza a una malattia da prevenire in tempi sempre più rapidi » e di fatto « banalizzando la sessualità e privandola della dimensione affettiva». «Sì, spesso siamo noi psicologi gli unici adulti a cui raccontano il loro vissuto, la gravidanza indesiderata. Ma come vuole che possiamo aiutarle con un solo colloquio preliminare? Queste ragazze andrebbero seguite nel tempo per lenire il loro senso di colpa che certo non sparisce facendo finta di niente. La ferita se non viene elaborata lascia tracce e lo vediamo anni dopo quando, nei casi di infertilità che qui in reparto trattiamo, le stesse pazienti, ormai donne, tornano da noi perchè cercano un figlio che non arriva. Spesso si tratta di cause organiche, ma talvolta è il carico psicologico a farsi sentire » . In sostanza continuano a fare la vita di prima, ma ansia, disturbi del sonno, depressione, scarsa autostima, attacchi di panico sono sintomi che « nell’ 11 per cento dei casi devono venire trattati con psicofarmaci – riprende la psicoterapeuta barese –. Come lo sappiamo? Dai medici di base che li prescrivono alle donne che hanno subito un’interruzione. Purtroppo la frammentarietà degli interventi non permette di avere un quadro d’insieme. La nostra paura è che con la Ru la situazione possa solo peggiorare. Se con l’intervento del chirurgo la donna delegava a una persona terza questo atto, oggi è lasciata sola nella sua decisione ed è come se somministrasse del veleno a se stessa» . «La kill pill – dice ancora – banalizzerà ancora di più l’evento soprattutto tra i giovani. Nel nostro dipartimento puntiamo molto su tre aspetti della sessualità: la creatività, la procreatività e l’aspetto ludico. Quando però è questo a prevalere passa l’idea che tanto poi, se succede un ' pasticcio', basta una pillola e senza nemmeno doverlo dire al fidanzatino o ai genitori si può rimediare. Insomma tutta la sfera delle emozioni viene anestetizzata. E mi viene da dire che 30 anni dopo l’aborto è tornato a essere moralmente indifferente perchè si è perso il significato del senso della vita». Esiste, come suggerisce la dottoressa, una « via pugliese» all’approccio con le ragazzine ma anche con chi non ha più vent’anni, che passerebbe dall’ «agganciarle » attraverso dei controlli prima, durante e dopo, « atti da alcuni specialisti che le seguano perchè non diventi un’abitudine. Del resto non esiste un dato che dica cosa avverrà nello sviluppo psicologico futuro di chi prende, in totale solitudine, una decisione del genere». (Avvenire, 8 Agosto 2009)
14 giugno 2009
Dietro il volto di Agostino Gemelli Per descrivere il legame tra passato e presente un maestro dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Orio Giacchi, era solito ricordare una novella di Cechov (Lo studente): quel sobbalzo, diceva, che, toccato un capo della catena della storia, s'imprime all'altro capo. In questo periodo celebrativo del cinquantesimo anniversario di padre Agostino Gemelli - di cui Giacchi fu collaboratore dapprima presso "Vita e Pensiero" e poi quale autorevole maestro di Diritto canonico ed ecclesiastico nella facoltà di giurisprudenza - la catena della storia sobbalza sino a noi. Un'efficace mostra itinerante, che dopo Milano toccherà altre sedi, ci accompagna nelle riflessioni sulla "grande missione da compiere" di "Edoardo, il ricercatore, che vivrà sempre in Agostino, il frate", secondo l'efficace espressione del curatore, Paolo Biscottini. Fotografie, video, videointerviste, brevi parole consentono di incontrare e scrutare il volto di quel protagonista della cultura e della scienza del Novecento, che fu Gemelli, fondatore della Università Cattolica del Sacro Cuore. Dietro quel volto, sono molti i volti dei cattolici che si mobilitano per avere una loro università contro il monopolio educativo dello Stato, non rassegnandosi alla cultura dominante e anzi sfidandola: dai più famosi, Ludovico Necchi, Ernesto Lombardo, monsignor Francesco Olgiati, a quelli che la storia ufficiale non conosce, uomini e donne generose nel destinare risorse morali e materiali all'"ateneo dei cattolici italiani". La storia della giornata universitaria, che si celebra ogni anno nelle parrocchie, ne è ricca. Nella mia memoria affiorano volti di famiglia: del nonno paterno, rappresentante a Meda - in Brianza, profondamente cattolica - dei popolari di Sturzo e in grande amicizia con Tommaso Zerbi, costituente cattolico e maestro della Ragioneria italiana; della nonna, donna di Azione cattolica, a fianco di Armida Barelli nella faticosa raccolta dei primi fondi. Lo straordinario movimento di popolo, dal quale origina l'ateneo, trova in padre Agostino Gemelli colui che pensa in grande: l'università dei cattolici italiani deve essere "libera", di dimensione nazionale e apertura internazionale. Al suo interno l'eccellenza dei docenti e l'ispirazione cristiana della loro scienza e vita sono le migliori garanzie per la destinazione dei saperi alla costruzione di una società ispirata ai principi cristiani. Il Gemelli rettore è anche il Gemelli presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, che Pio XI costituisce, i vecchi Lincei - nati sulle ginocchia della Chiesa - essendo ormai passati allo Stato. Sin dall'inizio il progetto è grandioso: un'istituzione universitaria all'avanguardia con l'obiettivo, perseguito con grande determinazione, di collaborare alla formazione di leve di cattolici destinati a diventare la nuova classe dirigente, fortemente motivata nell'interpretare i bisogni della società. È imponente la schiera di politici (sin dall'assemblea costituente con Lazzati, Dossetti, Scalfaro), docenti, uomini del grande e piccolo mondo economico, banchieri, magistrati, professionisti, medici, scienziati, dirigenti della pubblica amministrazione, usciti dalla Cattolica. Sin dall'inizio è privilegiata la correlazione con la Sede Apostolica e con l'Istituto Giuseppe Toniolo di studi superiori, costituito già in età liberale nel 1919 con la collaborazione dell'onorevole Filippo Meda ed eretto in ente morale l'anno successivo con decreto di Benedetto Croce. Il "Toniolo" è l'ente fondatore dell'università, riconosciuta dalla Santa Sede con breve di approvazione di Benedetto XV nel 1921 e dallo Stato italiano con decreto del 1924. Con esso non si tratta solo di sottrarre i beni da insidiose manovre politiche; si tratta anzitutto di garantire gli orientamenti dell'università, in stretto collegamento con la Segreteria di Stato, e insieme amministrare il patrimonio, così da consentire all'università di adempiere i compiti educativi e formativi, senza le preoccupazioni legate alla gestione finanziaria. I motivi fondativi non sono venuti meno. Anzi, la presenza di altri atenei di ispirazione cristiana sul territorio nazionale dimostra che la domanda studentesca verso università di tendenza rimane forte. Le cinque sedi, le quattordici facoltà, moltiplicano i volti di chi partecipa a un'avventura tuttora entusiasmante, rispondendo alla domanda di cultura di ispirazione cristiana oggi formulata da ben quarantamila iscritti. A differenza di atenei nati più di recente dall'iniziativa di movimenti ecclesiali e che pertanto ne assecondano gli obiettivi, la Cattolica è chiamata a dialogare con ognuno di loro, senza identificarsi con nessuno, rimanendo da loro indipendente; le famiglie che vediamo presenziare alle discussioni di laurea, spesso di provenienza meridionale, lo reclamano. La sua forza è di essere l'"ateneo dei cattolici italiani", di tutti. Il che non significa affatto ripiegarsi in un confessionismo chiuso e sterile - che padre Gemelli avrebbe aborrito - ma al contrario aprirsi al dialogo ad intra Ecclesiae e al confronto ad extra con culture altre, sia scientifiche che religiose. Né è venuta meno l'opportunità del collegamento con la Segreteria di Stato e l'Istituto Toniolo. "È provvidenziale - ha detto Benedetto XVI il 25 novembre 2005 nella sede romana in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico - che l'Università Cattolica del Sacro Cuore sia strutturalmente legata alla Santa Sede attraverso l'Istituto Toniolo di studi superiori, il cui compito era ed è di garantire il perseguimento dei fini istituzionali dell'ateneo dei cattolici italiani". E ha soggiunto: "Questa impostazione originaria, sempre confermata dai miei predecessori, assicura in modo collegiale un saldo ancoraggio dell'università alla Cattedra di Pietro e al patrimonio di valori lasciato in eredità dai fondatori". Anche la Corte costituzionale italiana, nel ritenere conforme alla costituzione la previsione di un nulla osta della Santa Sede relativamente ai docenti, in una famosa decisione - sentenza numero 195 del 1972 - afferma che, ove l'ordinamento imponesse all'Università Cattolica di avvalersi di docenti non ispirati alla dottrina cristiana, violerebbe "la fondamentale libertà di religione di quanti hanno dato vita o concorrano alla vita della scuola confessionale". Ancora una volta, dunque, dietro il volto di Gemelli, i volti del variegato popolo cattolico che continua a confidare nel suo progetto culturale. Oggi l'ampio processo di internazionalizzazione perseguito dalla Sede Apostolica rimane lo scenario migliore entro il quale collocare un ateneo, che stringa rapporti privilegiati con atenei stranieri d'eccellenza sotto il profilo della ricerca e dello scambio reciproco di docenti e studenti, e insieme si ponga a servizio di popoli in via di sviluppo. Iniziative, in sintonia con la volontà dei fondatori e i messaggi dei Pontefici, non sono certo difficili da elaborare e realizzare: oltre a valorizzare strutture e attività già esistenti a supporto di progetti aventi rilievo diretto nella società in difesa di principi e valori cristiani, sarebbe opportuno promuovere un raccordo interdisciplinare per lo studio dell'antropologia cristiana. Un dialogo con le regioni episcopali (italiane e straniere), la costituzione di borse di studio locali o di collegi regionali in singole città potrebbero inoltre convogliare gli studenti più promettenti presso le nostre sedi, da rendere tutte egualmente efficienti, così che tutte si sentano motivate. Il rafforzamento della funzione della nostra università è tanto più opportuno e necessario in un momento di afasia di altre realtà culturali. Il futuro è legato al rilancio dell'ateneo all'interno dei circuiti internazionali, anche utilizzando tutte le potenzialità del collegamento con la Santa Sede: ancora, come ai tempi di Gemelli, pensando in grande, al servizio delle nuove generazioni e dello sviluppo umano e cristiano della società. (Ombretta Fumagalli Carulli, ©L'Osservatore Romano, 6 giugno 2009)
Bellarmino e il falso mito della «doppia verità» "Se risulta evidentemente vero un asserto della scienza che appare meno conforme alla Sacra Scrittura, bisogna ricercare come si possa interpretare correttamente la Scrittura, così che non contraddica la verità scientifica"; per l'incipit del suo intervento alla tavola rotonda - "Infinitamente grande, scienza e fede in dialogo sull'universo" che si è svolta il 3 giugno scorso a Ginevra - il governatore della Città del Vaticano, il cardinale Giovanni Lajolo, ha scelto una citazione tratta dal Commentarium lovaniense di Roberto Bellarmino, il grande teologo implicato nel processo a Galileo, per ribadire che per la Chiesa non esiste una "doppia verità". "Queste parole del Bellarmino si riferivano in particolare alle questioni astronomiche, allora assai discusse, ma valgono anche per il loro valore di principio nei confronti di ogni asserto scientifico". Un valore di principio di cui è sempre necessario ricordare l'origine teoretica, ha aggiunto Lajolo; il fatto che "la verità è una, e non soffre contraddizione interna; ed è tale perché deriva tutta, sia essa di carattere scientifico o teologico, dalla medesima fonte che è Dio. Questa è una posizione che la Chiesa cattolica difende sia con motivazioni filosofiche che teologiche; ma in se stessa è una verità di ragione" accettando la possibilità di rivedere le sue posizioni se basate su presupposti sbagliati. Per questo - ha ribadito il cardinale - invitato a visitare il Cern (Centro europeo per la ricerca nucleare) dal presidente della fondazione Tera, Ugo Amaldi, insieme a una delegazione composta da monsignor Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede all'Onu di Ginevra, padre José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana ed esperto di storia delle galassie e padre Guy Consolmagno dell'Osservatorio astronomico vaticano, "la scienza non può essere né teista né atea. A motivo dell'oggetto della sua ricerca, come anche del metodo che essa deve impiegare, non potrà mai terminare a Dio. L'oggetto della ricerca della scienza è sempre interno alla realtà sensibile ed il metodo e gli strumenti con cui essa procede sono rivolti a comprendere con tutta la precisione possibile le leggi intrinseche alla realtà sensibile. Per questo la scienza non potrà mai giungere ad una realtà puramente spirituale, e quindi né alla dimostrazione, né alla negazione di Dio. È al di fuori del suo scopo e delle sue possibilità metodologiche e strumentali". Uno studio accurato delle fonti può riservare molte sorprese a chi voglia approfondire il dibattito tra "ateisti" e "teisti", non solo sul caso Galileo. Un esempio tra i molti possibili nella storia del secolo scorso: la celebre frase del cosmonauta russo Yuri Gagarin "sono stato nello spazio ma non ho visto Dio" nasconde un retroscena che la propaganda sovietica ha sempre censurato. Qualche anno fa un ex collega di Gagarin, il colonnello in pensione Valentin Petrov, ha rivelato che quella dichiarazione non fu spontanea; in realtà Gagarin era cristiano ortodosso. Petrov visitò con lui nel 1964 il monastero della Trinità e di San Sergio a Sergiev Posad. Nel museo della città era esposto un modello della cattedrale moscovita del Cristo Salvatore, costruita nel 1837 in memoria delle vittime della guerra napoleonica, poi distrutta per ordine di Stalin e ricostruita solo dopo la caduta del regime comunista. "Valentin, guarda quanta bellezza hanno distrutto!" commentò Gagarin. Qualche tempo dopo, durante una riunione del Comitato centrale del Pcus il cosmonauta propose la ricostruzione della cattedrale. Noi, disse, parliamo tanto di patriottismo, "ma non si può parlare di patriottismo se non si conoscono le proprie radici". Poiché, proseguì, "la cattedrale di Cristo Salvatore era un monumento alla gloria militare, gli uomini che si apprestano a difendere la patria lo devono conoscere". Gagarin evitò a ragion veduta ogni accenno diretto al cristianesimo, ma non servì a molto: la sua proposta venne respinta e condannata alla damnatio memoriae nei resoconti ufficiali. Un Gagarin cristiano non poteva avere diritto di cittadinanza nel pantheon simbolico dell'epopea "ateista" della conquista dello spazio. (Silvia Guidi, ©L'Osservatore Romano - 6 giugno 2009)
Tommaso non mise il dito nella piaga Tutto gira intorno a quel dito: ha toccato oppure no il corpo risorto di Cristo? Perché in effetti, anche se la maggioranza sarebbe disposta a giurarlo, i Vangeli non lo dicono proprio: «Poi Gesù – scrive Giovanni – disse a Tommaso: "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Ma l’apostolo diffidente non ebbe poi bisogno di mettere in pratica l’invito, per esprimere la sua professione di fede: «Mio Signore e mio Dio!», aggiunge infatti il Vangelo. Al che fa seguito la conclusione del Maestro: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». «Perché mi hai veduto»: non «perché mi hai toccato»... E proprio dallo smascheramento dell’equivoco muove Glenn W. Most, professore di Filologia greca alla Normale di Pisa, per seguire Il dito nella piaga, intrigante nel suo indagare tra esegesi, apocrifi e iconografia. Ma è poi così importante sapere se l’apostolo abbia davvero toccato la piaga del costato del Crocifisso, oppure si sia limitato a cedere all’evidenza di un morto resuscitato che stava davanti a lui e gli parlava? Sì, se è vero – come il grecista Most dimostra – che tutto il capitolo 20 di Giovanni (il testo su cui si fonda il mito dell’incredulità di Tommaso) è imbastito intorno a una sottile simmetria contrappositiva tra la prima e la seconda parte, tra una donna che ha creduto subito e un uomo incredulo ad oltranza, tra l’emozione e la ragione, insomma tra la Maddalena cui fu interdetto persino il semplice «toccare» (Noli me tangere...) e Tommaso invitato invece a mettere la mano intera nella ferita. «Giovanni – così sunteggia la sua tesi l’autore – decide di concentrare tutta la complessa questione della fede in Gesù nel rapporto tra vedere e credere»; non per nulla in quel capitolo 20, su 31 versetti sono presenti ben 13 forme del verbo «vedere» e 8 per «credere». Il «toccare» non serve, o meglio così sembra anche leggendo i Vangeli sinottici; nei quali ad esempio – per dare una prova della sua esistenza materiale ai discepoli che non osavano toccarlo – Gesù domanda da mangiare. Solo Tommaso sembra voler andare oltre, chiedendo inizialmente – anzi pretendendo in modo persino blasfemo – di «mettere il dito nel posto dei chiodi». Poi però, giunto al dunque, non lo fa, tanto che per Most «supporre che Tommaso abbia effettivamente toccato Gesù significa non solo fraintendere un particolare del racconto di Giovanni, ma anche il contenuto più profondo e vitale del suo messaggio». Quello cioè che non solo non è indispensabile «toccare per credere», ma non è necessario nemmeno vedere: «Beati quelli che pur non avendo visto...». Dal tatto alla vista, all’udito: ecco la salita che porta allo «status più nobile» della fede. Infatti a chi si deve in primis il travisamento di Tommaso come l’uomo che effettivamente mise il dito nella piaga? Agli «eretici», ovvero gli apocrifi di sapore gnostico (sono almeno 5 quelli intitolati al discepolo il cui nome significa «gemello») per i quali Tommaso rappresenta appunto la perfetta incarnazione di una fede raggiungibile per via razionale – «toccabile» – da una élite di pochi adepti e con un sovrano disprezzo per la materia (il corpo). Si può dunque ipotizzare che fu anche l’intento cattolico di reagire alla spiritualizzazione operata dagli gnostici a sospingere la devozione popolare (ma anche i Padri della Chiesa e la Scolastica, da Tertulliano all’Aquinate, con sporadiche eccezioni) verso il convincimento che Tommaso toccò davvero la carne di Cristo. Ma poi di mezzo ci sono stati soprattutto i pittori, e Caravaggio su tutti; furono loro a veicolare nell’immaginario comune l’idea del dito nella piaga. Tuttavia, se dal IV secolo fino al Rinascimento la trascrizione iconografica dell’episodio ha sempre avuto alcuni canoni fissi (inserimento in un ciclo di altre immagini sacre, rappresentazione dei personaggi a figura intera) che tendono a relativizzare il gesto singolo, con la sua «Incredulità di san Tommaso» il pittore lombardo non solo ha sovvertito i modelli tradizionali – i soggetti sono ripresi infatti in piano americano e l’impianto non è certo devoto –, ma anche trasforma l’atto dell’apostolo in modo brutale, quasi rendendolo un’invasiva ispezione medica, addirittura – sostiene Most – «uno stupro». Quale il motivo? A parte ritrovarne alcuni stilemi nella pittura «protestante» nordica, l’autore sostiene che «il quadro ribadisce risolutamente la fisicità del miracolo di Tommaso contro chi tendeva a dubitarne (per esempio i riformati tedeschi)», ma allo stesso tempo prende atto di una fede – quella Controriformistica – che non sa più credere senza toccare, o almeno vivamente immaginare di toccare. «Tutte queste ferite – scrisse del resto san Carlo Borromeo in un’omelia dedicata appunto a san Tommaso – sono in effetti come molti squarci e il Signore vuole che penetriamo in essi, se vogliamo leggere». Caravaggio avvicina carnalmente il dubbio di Tommaso a noi, ai nostri dubbi; però potrebbe pure indurre a un errore: quello proverbiale dello stolto che si sofferma a fissare il dito mentre il saggio indica la luna. (Roberto Beretta, Avvenire, 6 giugno 2009)
Nuova eugenetica: cure mediche ridotte ai disabili È stato pubblicato in questi giorni in Inghilterra un protocollo dal titolo "Valuing People Now" ("Valorizzare da subito le persone") attraverso il quale il Governo britannico rinnova la strategia per sopperire alle gravi carenze del sistema sanitario nei confronti degli individui con handicap mentale denunciate nel luglio 2008 dal rapporto "Healthcare for All" (Cura della Salute per Tutti). Sulla rivista "Lancet", veniva così sintetizzato il risultato del rapporto: "Il rapporto ha mostrato che le persone con disabilità di apprendimento hanno grande difficoltà ad accedere al Sistema Sanitario Nazionale. Purtroppo, i sanitari e il sistema sanitario ignorano ampiamente questi individui. (...) Il fatto è che le persone con difficoltà di apprendimento sono quasi invisibili al Sistema Sanitario Nazionale" (9 agosto 2008). I risultati della ricerca lasciavano sgomenti sui reali diritti dei disabili in un'epoca in cui la salute è garantita come diritto e le minoranze sono, a parole, tutelate. Il rapporto sosteneva che le persone con ritardo mentale ricevono meno analgesia e meno cure palliative - in particolare se fanno parte di etnie minoritarie - dal momento che i segni di dolore vengono confusi con quelli che sono espressione di malattia mentale. Riportava che in caso di diabete o d'ipertensione ricevono meno test e meno esami degli altri. E la conclusione è shoccante: "Le persone con disabilità di apprendimento sembrano ricevere cure meno efficaci di quello che dovrebbero ricevere. C'è evidenza di un significativo livello di sofferenza evitabile e sembra verosimile che ci siano morti che potrebbero essere evitate". Sono tre i punti del documento che spiegano tale carenza omissiva: in primo luogo la carenza di educazione curriculare per medici e infermieri a trattare e interpretare le necessità e i segnali delle persone con disabilità mentale. Il secondo punto è quello che il documento definisce overshadowing (oscuramento) diagnostico, ovvero la tendenza dei medici a scambiare erroneamente i sintomi di comuni malattie per "atteggiamenti" dovuti al ritardo mentale. Il terzo punto è ancora più inquietante: "talora non viene offerta una cura a persone con disabilità mentale perché si traccia un giudizio sul valore di quella persona. Questo giudizio implica che una vita vissuta con disabilità mentale è una vita di minor valore". Quest'ultima frase ricorda un'indagine fatta tra i medici di numerosi Paesi che in maggioranza affermavano proprio come la vita con disabilità neurologica o fisica sia peggiore della morte ("Journal of the American Medical Association", novembre 2000). L'ultimo punto - ma i primi due sono specchio del terzo - ci riporta a un dato inquietante, così sintetizzato da Didier Sicard, presidente emerito del Comitato Nazionale Francese di Bioetica: l'eugenetica di un tempo si è ora cambiata d'abito, ma scorre ampiamente nella nostra società. Probabilmente è così: non si afferma più che certi esseri umani hanno un "valore inferiore" sulla base di un presunto "bene della Patria" o "della razza"; ma che in fondo è "loro interesse" morire, perché "inevitabilmente soffrono", e perché, se assolutamente dipendenti dagli altri, non avrebbero vita dignitosa; da qui a sostenere che sofferenza e dipendenza facciano perdere la qualità di "persona" il passo è breve. Ma mentre l'inquietante affermazione che nega l'essere "persone" dei disabili trova facile risposta già nella vita di tutti i giorni, attraverso l'amore di tante mamme e mogli che curano con affetto i neonati o i malati gravi, persone a tutti gli effetti, le altre due - riguardanti il dolore "inevitabile" e la "perdita di dignità" - sono affermazioni altrettanto errate, ma che devono essere ben comprese. Vediamo di capire. Varie ricerche mostrano che per una serie di ragioni, tra cui il livello delle cure e l'ambiente familiare, la qualità di vita percepita dai disabili può essere pari a quella della popolazione generale, come mostrano uno studio su ex prematuri tra cui molti con problemi funzionali (Saroj Saigal, in "Pediatrics" del marzo 2006) o un altro su disabili fisici, di cui solo il 18 per cento poteva camminare senza aiuto (Susanna Chow, in "Quality of Life Research", 2005). La discrepanza tra la qualità di vita vista "dall'esterno" e quella percepita dal malato è un fatto ben noto e fu definita disability paradox da Gary Albrecht e Patrick Devlieger che osservarono che inaspettatamente il 54 per cento dei disabili moderati o gravi del loro studio riportavano di percepire una qualità di vita "eccellente" ("Social Science and Medicine", aprile 1999). Questo non significa che la vita con disabilità non sia una vita colma troppo spesso di fatica e dolore, e soprattutto una vita da curare con priorità, ma significa che dolore e fatica non sono per sé in grado di sopraffare la voglia di vivere - a differenza di quanto invece fanno l'abbandono e la solitudine - e dunque non sono l'ultima definizione della vita dei malati che certamente soffrono, ma riescono anche, con tragica forza talora, ad andare oltre la loro stessa sofferenza. Non è neanche vero che la malattia, anche quella estrema, renda la vita (o la morte) non dignitosa: la dignità dell'uomo resta tale anche in condizioni non dignitose: è un paradosso che reclama di cambiare le condizioni, non di mettere fine alla vita. Le persone malate vanno curate e curate bene e la nostra società ancora è indietro rispetto ad una giusta classifica delle priorità. Ma risulta difficile capire come invertire la tendenza in società che guardano il malato con pietismo e non generando un'attiva solidarietà; che accanitamente moltiplicano i fondi per gli screening prenatali per malattie genetiche non curabili (vedi Joyce Carter sul "Brithish Medical Journal" dell'aprile 2009), riempiono i quotidiani con richieste di apertura all'eutanasia, ma il cui accanimento decade quando invece si tratta di spendere per cercare una cura alle malattie genetiche come la sindrome Down o le altre malattie dell'apprendimento. Una tale disparità di attenzioni mostra quanto oggi i disabili siano realmente degli "indesiderati" e come siano neanche troppo velatamente invitati a farsi da parte. La cura delle persone malate, secondo quanto emerge dal rapporto "Healthcare for All" - e da un altro significativamente intitolato "Death by Indifference" ("morte per indifferenza", del 2007) - trova dunque il maggiore ostacolo nel vederle come un "corpo estraneo" della società; magari un "corpo estraneo" da integrare e cui dare medicine, ma pur sempre un "corpo estraneo". Questo scatena una vera e propria "handifobia" - come la chiamano in Francia - cioè l'avversione alla stessa presenza fisica della malattia in sé e negli altri, fino all'avversione verso il malato stesso. E l'handifobia genera discriminazione e cattiva cura, come abbiamo visto; è la base della nuova eugenetica, che nasce da una paura totale di ciò che non è programmabile, centellinabile e ostentabile in sé e negli altri. L'handifobia è pericolosa perché passa subdolamente nei media e nelle scuole, mostrando una visione distorta del malato ridotto solo alla sua malattia, censurando l'umanità, gli sforzi e le conquiste dei disabili e delle loro famiglie, riducendo la disabilità a spettacolo o a stato di cui vergognarsi. L'handifobia è dunque un abuso che, come la violenza fisica, merita una sanzione pubblica verso chi la fomenta e chi la tollera, al pari di quanto previsto per altre forme violente di discriminazione sociale. (Carlo Bellieni, L'Osservatore Romano, 1-2 giugno 2009)
Secolarizzazione e formazione sacerdotale L'Arcivescovo Jean-Louis Bruguès O.P., Segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica, all'annuale incontro dei rettori dei seminari pontifici, ha tenuto un intervento particolarmente interessante. Innanzi tutto, Mons. Bruguès ha fatto un'analisi della situazione della Chiesa europea e americana, rilevando una divisione fra una "corrente di composizione" e una "corrente di contestazione". Nel titolo dell'articolo tali due correnti sono indicate rispettivamente con |