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TESTI ATTUALITÀ

ANNO 2010

 

 

 

 

20 Giugno 2010

 

La chiusura dell'anno sacerdotale è l’inizio del terzo millennio della Chiesa

  

Servirsi di un uomo, nonostante le sue debolezze, per rendere presente Dio a tutti gli uomini, in ogni tempo: sta in questo la grandezza del sacerdozio. E’ il pensiero, che Benedetto XVI ha posto al cuore della celebrazione eucaristica di chiusura dell’Anno Sacerdotale. In una Piazza San Pietro nuovamente gremita da oltre15 mila sacerdoti concelebranti di 97 nazioni, e a poche ore dall’analoga scena durante la veglia di sabato sera, il Papa ha toccato i punti nevralgici della vocazione al sacerdozio soffermandosi ancora una volta con parole di grande umiltà sulla ferita provocata della pedofilia all’interno della Chiesa: “Chiediamo insistentemente perdono a Dio ed alle persone coinvolte” affinché “un tale abuso non possa succedere mai più”. La grande audacia di Dio all’inizio della storia della Chiesa, un’audacia spiazzante: ritenere che un “povero uomo” – limitato, finito – fosse capace di comunicare l’infinito Amore. Come in un grande affresco, e in un’omelia quasi senza eguali per ampiezza, densità di contenuti, intensità emotiva, Benedetto XVI ha dipinto la straordinarietà della vocazione al sacerdozio in tutte le sue sfumature. Lo ha fatto dando pennellate di luce alla radice divina di questa chiamata, ma senza nascondere le ombre che i limiti umani proiettano, talvolta in modo indegno, su di essa: “Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore. Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua – questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola ‘sacerdozio’. Che Dio ci ritenga capaci di questo; che Egli in tal modo chiami uomini al suo servizio e così dal di dentro si leghi ad essi”.

Ecco il senso dell’Anno Sacerdotale, ha ripetuto il Papa alla distesa di presbiteri in talare bianca, che hanno trasformato Piazza San Pietro in un immenso altare a cielo aperto, di fronte al grane arazzo del Santo Curato d’Ars: “Volevamo risvegliare la gioia che Dio ci sia così vicino, e la gratitudine per il fatto che Egli si affidi alla nostra debolezza”. E dire “nuovamente ai giovani che questa vocazione, questa comunione di servizio per Dio e con Dio, esiste – anzi, che Dio è in attesa del nostro ‘sì’”. Dunque, ha constatato il Pontefice: “Era da aspettarsi che al ‘nemico’ questo nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe preferito vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio fosse spinto fuori dal mondo. (applausi) E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti – soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario”. “Se l’Anno Sacerdotale avesse dovuto essere una glorificazione della nostra personale prestazione umana, sarebbe stato distrutto da queste vicende”, ha osservato il Papa. Invece, “consideriamo quanto avvenuto” come “compito di purificazione che ci accompagna verso il futuro”. Mentre al presente, una volta ancora, le parole di Benedetto XVI hanno rivelato la consapevolezza di un male che esige una profondissima solidarietà: “Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio ed alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più”. E poco dopo, commentando un passo del Salmo 23 della liturgia, dove si parla del bastone col quale il pastore difende il gregge “dalle bestie selvatiche” e del vincastro al quale si appoggia per “attraversare i passaggi difficili”, ha aggiunto: “Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia (...) Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore – vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore”. Nel Salmo 23, Benedetto XVI aveva individuato la risposta umana di “gioia e gratitudine” a Dio che, ha detto, attraverso Cristo ha aperto il suo cuore “per noi”: “Dio si prende personalmente cura di me, di noi, dell’umanità. Non sono lasciato solo, smarrito nell’universo ed in una società davanti a cui si rimane sempre più disorientati. Egli si prende cura di me. Non è un Dio lontano, per il quale la mia vita conterebbe troppo poco”.

Un Dio “unico e buono, ma lontano”, ha proseguito, è invece quello considerato dalle religioni del mondo, mentre in passato l’Illuminismo lo aveva ritenuto creatore e poi però disinteressato alla sua stessa creatura e alla sua storia, nella quale, ha affermato, “Dio non interveniva, non poteva intervenire”: “Molti forse non desideravano neppure che Dio si prendesse cura di loro. Non volevano essere disturbati da Dio. Ma laddove la premura e l’amore di Dio vengono percepiti come disturbo, lì l’essere umano è stravolto. È bello e consolante sapere che c’è una persona che mi vuol bene e si prende cura di me. Ma è molto più decisivo che esista quel Dio che mi conosce, mi ama e si preoccupa di me". “Questo pensiero – ha insistito – dovrebbe renderci veramente gioiosi”. Dio “vuole che noi come sacerdoti, in un piccolo punto della storia, condividiamo le sue preoccupazioni per gli uomini”: “Conoscere”, nel significato della Sacra Scrittura, non è mai soltanto un sapere esteriore così come si conosce il numero telefonico di una persona. “Conoscere” significa essere interiormente vicino all’altro. Volergli bene. Noi dovremmo cercare di ‘conoscere’ gli uomini da parte di Dio e in vista di Dio; dovremmo cercare di camminare con loro sulla via dell’amicizia con Dio”.

E se anche è inevitabile che nel corso della vita si debbano percorrere le “valli oscure della tentazione, dello scoraggiamento, della prova, che ogni persona umana deve attraversare”: “Anche in queste valli tenebrose della vita Egli è là. Sì, Signore, nelle oscurità della tentazione, nelle ore dell’oscuramento in cui tutte le luci sembrano spegnersi, mostrami che tu sei là. Aiuta noi sacerdoti, affinché possiamo essere accanto alle persone a noi affidate in tali notti oscure. Affinché possiamo mostrare loro la tua luce”.

Un auspicio che al termine della Messa, Benedetto XVI ha affidato con una preghiera di consacrazione al Cuore Immacolato di Maria, e dall’invito solenne, espresso in sette lingue e rivolto ai 400 mila presbiteri del mondo, a “essere fedeli alle promesse” sacerdotali, nelle Chiese di Oriente e di Occidente, e a “proseguire con rinnovato slancio il cammino di santificazione in questo sacro ministero”. (Papaboys, 12 giugno 2010)

 

 


 

 

La donna che fece incontrare il Papa e l'ebreo

 

"Cara signorina, non vi dimentico, e il progetto di cui abbiamo parlato è sempre bene in mente. La mia intenzione è di realizzarlo all'inizio dell'anno prossimo, se siete d'accordo. Per il momento preparo una conferenza che devo tenere a Parigi, alla Sorbona, il prossimo 15 dicembre".

Chi scrive queste righe, il 28 novembre 1959, è Jules Isaac, storico francese, ebreo la cui famiglia era stata deportata ad Auschwitz nel 1943 - sarebbe ritornato solo il figlio minore Jean-Claude - secondo il teologo Clemens Thoma "uno dei grandi visionari dell'intesa cristiano-ebraica dopo la seconda guerra mondiale", già allievo di Henri Bergson e amico di Charles Péguy, nonché autore di manuali scolastici, ma anche di libri-choc come Jésus et Israel, nel 1948, anno in cui era stato tra i fondatori della prima Amicizia ebraico-cristiana.

La destinataria, invece, è la veneziana Maria Vingiani, instancabile promotrice dell'esperienza del dialogo in Italia, pioniera sin dal 1947 del movimento ecumenico in Italia e fondatrice negli anni del concilio Vaticano II del Segretariato per le attività ecumeniche. È a lei che Jules Isaac ricorda il "progetto", insieme all'annunciata "conferenza" che doveva in qualche modo favorirlo.

Alla Sorbona il professore avrebbe rilanciato il suo appello alla coscienza cristiana e a Roma affinché il Papa prendesse atto della "necessità di raddrizzare l'insegnamento concernente Israele" e - questo il "progetto" - gli concedesse quell'incontro da lui prefigurato già all'indomani dell'elezione di Giovanni XXIII.

Jules Isaac e Maria Vingiani si erano conosciuti a Venezia il 16 settembre 1957. Lui nella laguna per motivi culturali insieme al figlio sopravvissuto alla Shoah, lei giovane assessore alle Belle Arti della "Serenissima". Lui le aveva donato il suo Jésus et Israel - definito "il grido di una coscienza indignata" - l'aveva messa al corrente dei suoi studi sull'antisemitismo, della sua passione per la verità, e della missione che si era dato:  far conoscere Gesù agli ebrei, Israele ai cristiani. Lei gli aveva parlato dei suoi impegni culturali e religiosi, e del patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli, che proprio l'anno prima aveva dedicato la sua lettera pastorale per il quinto centenario della morte di san Lorenzo Giustiniani a un rilancio della conoscenza della Bibbia: "tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento", da rendere "d'uso comune e familiare". Sarà la stessa Vingiani, parecchi anni dopo a dire che, quando Roncalli fu eletto Papa, Jules Isaac avvertì subito che poteva riporre speranza in colui che pochi anni prima, inaugurandosi una linea diretta di navigazione Venezia-Haifa (il patriarca Roncalli lì per una benedizione, la Vingiani al varo come madrina), aveva confidato che si trattava già di una buona cosa, ma che sarebbe stata ancor meglio un'alleanza fra Roma e Gerusalemme.

Ecco allora la richiesta di un'udienza, carica di attese. Chiedendola, Jules Isaac aveva allegato anche un dossier dal titolo eloquente "Della necessità di una riforma dell'insegnamento cristiano nei confronti di Israele", che tuttavia non arrivò sulla scrivania del Papa. In ogni caso l'udienza speciale venne assicurata attraverso l'ambasciata francese e l'anziano storico preparò con cura il suo viaggio, chiedendo ragguagli a tante persone (da François Mauriac ad André Chouraqui, da padre Paul Démann a monsignor Charles-Marie de Provenchères arcivescovo di Aix en Provence, dall'ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, Guy Le Roy de la Tournelle, ad alcuni cardinali).

Se il 15 gennaio 1960 non aveva nascosto alla Vingiani "tutte le difficoltà per portare a termine l'azione" augurandosi "Spero mi sarà possibile venire a Roma (...) Sono persuaso che i nostri scambi di pensieri a Venezia non sono stati inutili e che Lei sta lavorando per abbattere le alte barriere dei pregiudizi", se il 21 maggio seguente poteva informarla con le parole "La questione è a una svolta (...) Ho comunicato all'ambasciatore de la Tournelle che sarò a Roma dall'8 giugno - all'indomani di Pentecoste - e mi dicono che l'udienza potrà essere richiesta a partire dal 10", quando Jules Isaac fu a Roma, l'udienza parve cancellata con il pretesto dei numerosi impegni del Papa (e a sua insaputa).

E così, dopo una telefonata urgente, la Vingiani si precipitò all'hotel Commodore. Lì, trovato nella hall Jules Isaac, che, lacrime sul viso, si lamentava, prontamente lo rassicurò. Consapevole dell'importanza di questo incontro non solo per l'amico, ma anche per il Pontefice, convinta che i due dovessero parlarsi e confrontarsi, riuscì subito "per vie legittime, pur se improprie" - parole poi usate dal segretario del cardinale Bea, padre Schmidt - a rendere possibile l'udienza.

Non era il suo primo incontro con un Papa: nel 1949, a Castel Gandolfo, ne aveva avuto uno brevissimo con Pio XII al quale aveva lasciato i dieci punti fissati dalla Conferenza di cristiani ed ebrei di Seelisberg - una base di partenza per il dialogo fra cristiani ed ebrei - che il Papa non conosceva e che promise di leggere. Era il 16 ottobre, sei anni prima era avvenuta la deportazione degli ebrei dal Ghetto nella capitale. Pio XII - raccontò Isaac - gli era parso "assai emozionato": nulla poi aveva più saputo.

Questa volta però l'udienza avrebbe potuto essere assai più decisiva: Giovanni XXIII aveva già annunciato il concilio. Alle 11 un segretario d'ambasciata si recò a prendere Isaac all'hotel e ad accompagnarlo in Vaticano. Il resto è stato più volte raccontato dallo stesso Isaac. Le guardie svizzere gli resero omaggio. Gli fu comunicato che il Papa era stanco perché al solito, si era alzato presto, perché vi erano numerose udienze, e così via.

Arrivò il momento atteso. Papa Roncalli lo ricevette in piedi, Isaac si inchinò e Giovanni XXIII gli porse la mano invitandolo a sedere accanto a lui - "incarnava la semplicità", "non sembrava affaticato", "una bontà che ispirava confidenza".

Come previsto, il Papa iniziò la conversazione, parlando del suo culto per l'Antico Testamento, i Salmi, i Profeti. Parlò del suo nome scelto pensando anche alla Francia, chiese dove fosse nato e lui lo portò sul suo terreno. Probabilmente il Papa leggeva nel suo interlocutore i versetti 1-3 del Salmo 128 - "Dalla giovinezza, molto mi hanno perseguitato - lo dica Israele - dalla giovinezza molto mi hanno perseguitato, ma non hanno prevalso". Jules Isaac ebbe tempo per esporgli i punti essenziali della sua conferenza alla Sorbona, sottolineò la necessità che il capo della Chiesa cattolica condannasse in modo solenne l'insegnamento del disprezzo e la sua essenza anticristiana, e che del tema si occupasse il concilio.

Alla fine, dopo circa mezz'ora, prima del congedo, chiese: "Posso avere almeno un briciolo di speranza?". E Giovanni XXIII: "Molto più che una speranza, lei ha diritto di avere", aggiungendo: "Sono il Capo, ma devo anche consultarmi, far studiare dagli uffici le questioni sollevate, qui non c'è una monarchia assoluta". La consegna però era avvenuta. Il Papa l'aveva fatta sua.

Anche se i due anziani protagonisti di quell'incontro di cinquant'anni fa, morirono di lì a poco, l'udienza segnò una svolta. Sul diario papale solo un cenno all'incontro di quel 13 giugno 1960 con "il prof. Jules Isaac" definito "interessante", aggettivo che copre tante cose: probabilmente pure il pensiero immediato di una messa a tema del dialogo ebraico-cristiano fra i lavori conciliari.

Fu lo stesso Papa Giovanni a darne incarico al cardinale Agostino Bea, biblista, conoscitore dell'ebraismo. Vi si sarebbe impegnato obbedendo anche a una vocazione personale. Da qui le origini del percorso che, fra molte difficoltà, specie da parte di cristiani-arabi e tradizionalisti, porterà alla dichiarazione conciliare Nostra aetate. Promulgata nel 1965, all'inizio del testo - com'è noto - sottolinea il valore spirituale del vincolo che unisce il popolo del Nuovo Testamento con la stirpe di Abramo. Forse non proprio il testo immaginato da Isaac per le attese particolari in realtà diluite in un documento sulle religioni, e tuttavia un documento importante. Alla base di futuri incontri inimmaginabili: in chiesa e in sinagoga. Alla base di quel rapporto nuovo fra cristiani ed ebrei purificato da pregiudizi e stereotipi che ogni giorno dobbiamo tenere aperto.  (Marco Roncalli, ©L'Osservatore Romano, 15 giugno 2010)

 

 


 

 

Quando in Spagna c'erano troppi conventi

 

Per capire i tragici avvenimenti della Spagna dopo lo scoppio della guerra civile (18 luglio 1936) è necessario conoscere la travagliata storia della Seconda Repubblica, riconosciuta dalla Santa Sede dopo la sua autoproclamazione (14 aprile 1931) - nonostante i dubbi sulla legittimità politica del governo provvisorio - al fine di rispettare l'ordine pubblico e garantire i diritti della Chiesa e dei cattolici. Tuttavia, appena un mese dopo, il 10 e 11 maggio, il nuovo regime mostrò il suo vero volto, con un triste biglietto da visita:  la violenza fu scatenata contro la Chiesa, con la complicità delle autorità.

"Non è certamente facile per chi le ha vissute fare la cronaca delle giornate incendiarie perpetrate nei primi giorni di questa settimana in questa Nazione. Gli occhi vedono tuttora le immense colonne di fumo che nei vari punti della Capitale si alzavano dalle enormi fiammate che avvolgevano chiese e case religiose fra l'imperversare di notizie sempre più gravi che sconvolgevano ogni concetto tradizionale di questa amata Nazione che si era sempre mostrata cattolica per eccellenza. La cronaca, oltre che difficile, sarebbe incompleta. Ma intanto, in attesa di raccogliere le notizie particolari di tutti i luttuosi fatti, mi permetto di unire al presente penosissimo Rapporto le cronache e le fotografie dei numeri di questi giorni dei giornali "Ahora" e "Nuevo Mundo" e che non possono essere tacciati di esagerare i fatti essendo repubblicani. Da esse appare la crudele tragicità dei fatti avvenuti. Ma che sarebbe, se si potesse raccogliere, la storia di tutti i patimenti personali dei poveri religiosi". Con queste parole iniziava il rapporto inviato dal nunzio Federico Tedeschini al cardinale Eugenio Pacelli il 15 maggio 1931.

Ma se per la storia ci si può ridurre alla cronaca riportata dai giornali dell'epoca, è necessario invece fare alcuni rilievi più importanti sull'atteggiamento avuto dal governo in quell'ora così infausta per la Chiesa.

Non si può certamente dire che le autorità avessero provocato il movimento anticattolico; ma è facile dimostrare che non fecero nulla per impedirlo. Quanti assistettero agli incendi della mattina del tragico lunedì 11 maggio, affermarono concordemente che si trattava di non numerosi gruppi di facinorosi per i quali sarebbe bastata una mezza dozzina di guardie che naturalmente avessero fatto il loro dovere. Invece non solo le guardie non fecero nulla per prevenire i disordini, ma rimasero spettatrici inerti degli incendi. I vigili del fuoco, una volta arrivati sul posto, non poterono intervenire perché si videro minacciati dai gruppi incendiari e non furono protetti dalla forza pubblica: anche loro rimasero spettatori fino al momento in cui il fuoco cominciò a minacciare le case. Solo allora fu consentito il loro intervento.

Il governo dichiarò che non poteva difendere tutti i conventi esistenti in Madrid perché troppo numerosi. Si poteva però rispondere molto facilmente a questa osservazione che se ne poteva difendere almeno uno. Inoltre è facile osservare che il movimento incendiario non si sviluppò simultaneamente in diversi luoghi: cominciò la mattina alle 11 e si propagò solo successivamente ai diversi centri. Se le prime manifestazioni incendiarie fossero state represse, il movimento probabilmente non sarebbe continuato.

Il governo accusò dell'accaduto i gruppi monarchici, perché nella sera di domenica 10 maggio un gruppo di loro aveva gridato "viva la monarchia", "viva il re", provocando un conflitto che presto dilagò in una dimostrazione contro il giornale monarchico "Abc". Ma non c'è nessun collegamento tra questi fatti e quelli successivi, tanto più che i conventi religiosi non avevano nulla a che fare né con i monarchici né con altri partiti, né è stato trovato alcun nesso fra il diverbio fra monarchici e repubblicani e la deflagrazione fanaticamente e antireligiosa scoppiata il lunedì 11 e il martedì 12 in altre città della Spagna.

Le autorità, inoltre, accusarono dell'accaduto gruppi estremisti di sinistra, specialmente anarchici e comunisti. La responsabilità però non erano solo loro, ma anche di chi non pose alcun ostacolo alle violenze. Il governo dichiarò poi che le disposizioni date non furono seguite dalla Pubblica Sicurezza. Ma vi erano altri corpi a cui ricorrere. Infatti gli incendi terminarono quando le autorità diedero ordini in proposito all'esercito. Va notato inoltre che dopo l'intervento dell'esercito e la proclamazione dello stato di assedio - alle 14,30 del lunedì 11 - si registrò l'assalto e l'incendio del convento delle Dame del Sacro Cuore nel quartiere madrileno di Chamartín.

Per spiegare l'atteggiamento del governo furono dette molte cose. Alcuni osservarono che a Madrid furono assaltate solo chiese e conventi di religiosi. Questo potrebbe portare a pensare che le autorità avessero voluto preparare una giustificazione per la prevista soppressione di tutti o di alcuni degli ordini religiosi, per sostenere poi che la volontà del popolo si era manifestata in questo senso che a essa doveva dare soddisfazione.

Questo per Madrid. Ma per ciò che riguarda le provincie, la cosa fu di gran lunga peggiore. Dalla periferia giunsero notizie terrificanti. L'Andalucía portò disgraziatamente la palma. In Málaga e in Alicante tra chiese e case gli edifici incendiati furono una ventina, e fra essi il palazzo vescovile della diocesi malacitana, retta dal vescovo, oggi beato Manuel González García. Fatti simili si registrarono a Valencia, Sevilla, Granada, Cádiz, Cartagena, Córdoba e in altri centri minori.

Grande impressione produsse tra la popolazione la dispersione di religiose e religiosi: in abito secolare andavano randagi per le loro provvisorie dimore; la maggior parte tornano alle loro case, con inevitabile pericolo per lo spirito della loro vocazione. Ma non furono solo i religiosi e le religiose a essere ridotti a dover portare abito civile. A Madrid e altrove, anche i sacerdoti furono costretti a togliersi l'abito talare, indossare il quale in luoghi pubblici sarebbe risultato molto pericoloso.

Inoltre il governo chiuse l'unico organo di stampa che poteva farsi portatore del dolore dei cattolici ed emettere qualche misurata protesta. Nell'ambito dei provvedimenti tesi a eliminare tutto ciò che potesse impedire il consolidamento della Repubblica, il governo soppresse il quotidiano cattolico di grande diffusione e autorevolezza "El Debate", diretto dal futuro cardinale Ángel Herrera Oria, il quale, a lode del vero, non aveva mai combattuto la Repubblica, e aveva sempre rettamente interpretato il pensiero della Chiesa, e specialmente le istruzioni della Santa Sede sulle elezioni politiche.

Appena giunsero in Segreteria di Stato le prime notizie su questi gravi fatti, il cardinale Pacelli si affrettò a telegrafare al nunzio Tedeschini pregandolo, il 14 maggio, di comunicare al governo che la Santa Sede altamente deplorava le profanazioni e gli atti di fanatismo antireligiosi verificatisi in quei giorni, chiedendo che cosa le autorità intendessero fare per impedire che tali eccessi potessero ripetersi e esigendo il risarcimento dei danni arrecati a persone e cose sacre.

Ricevuto il messaggio, il nunzio chiese immediatamente udienza al presidente del governo provvisorio della Repubblica, Niceto Alcalá Zamora, che reggeva anche il dicastero degli Esteri, per l'assenza del titolare, Alessandro Lerroux, che si trovava a Ginevra. Al solo vedere il rappresentante pontificio, il presidente comprese che la sua presenza significava l'espressione non solo del suo dolore, ma, quel che più contava, del dolore della Santa Sede per gli orribili fatti che avevano funestato Madrid e altre città della Spagna, e avevano meravigliato e scandalizzato il mondo intero, il quale ben altro poteva e doveva aspettarsi dal governo di una nazione tradizionalmente cattolica.

Tedeschini consegnò al presidente la nota nella quale era contenuta l'energica protesta della Santa Sede. Durante la sua lunga conversazione, questi sostenne che disgraziatamente gli ordini del governo non erano stati eseguiti dalle forze di Pubblica Sicurezza. Il nunzio già aveva saputo da parte del ministro della Gobernación (Interno), Miguel Maura, che la Pubblica Sicurezza si era rifiutata di eseguire gli ordini impartiti dal governo: cosa che motivò le dimissioni di Maura, fatte poi o ritirare o sospendere dai colleghi. Le autorità, fu spiegato, ritennero dunque di non intervenire per non spargere sangue. Ma certamente non c'era bisogno di particolare fermezza per far dileguare i gruppi di incendiari che non erano né numerosi, né valorosi. Infine, il presidente disse al nunzio che "i Conventi di Madrid sono tanti, che anche all'esercito sarebbe stato impossibile difenderli tutti".

Quella del numero di conventi esistenti nella capitale e nelle provincie, osservò ancora il presidente, è una questione che si doveva trattare e risolvere nelle Cortes; ma è opportuno ricordare che parlare del numero eccessivo di fondazioni religiose, era lo stesso che parlare del numero dello opere di cultura e di carità esistenti in Spagna. E poi, nessuno ricordava o nessuno sapeva che se erano molte le fondazioni esistenti la ragione era che il popolo le voleva e le reclamava, e i politici le appoggiavano.

Quanto alla domanda su che cosa il governo intendesse fare per impedire il ripetersi dei deplorati disordini, il presidente sostenne che le misure prese mediante lo spiegamento della forza, e le punizioni inferte a governatori, al direttore generale di Pubblica Sicurezza e ad altri funzionari, oltreché i giudizi che disse essersi istruiti contro alcuni che furono colti in flagrante, provavano la volontà e il proposito del governo di impedire che si ripetessero tali eccessi.

Tedeschini riferì a Pacelli quanto Alcalá Zamora gli disse, ma aggiunse: "Ma chi si fida di promesse per un domani che tutti qui temono come oltremodo minaccioso e fosco?".

Sui risarcimenti infine, il presidente sperava che la Santa Sede si rendesse conto della situazione della finanza spagnola. E poi, quando le Cortes avrebbero discusso la riduzione delle case e dei conventi religiosi, allora si sarebbe potuto affrontare anche il tema del risarcimento di danni e trovare la soluzione più conveniente.
"Ma se debbo dire la impressione mia e di non pochi altri - affermò Tedeschini - pare a me di vedere che la tendenza del governo cammina sempre più verso la vera sinistra: un governo di sempre più marcato carattere radicale socialista mi pare il governo che va a delinearsi e ad affermarsi ogni giorno più, auspice il ministro di Giustizia che è il più settario e il più fanatico".

Nonostante la spiegazioni fornite dal presidente, una delle cause maggiori dei vandalismi incendiari di chiese e case religiose fu l'inattività del governo, riconosciuta pubblicamente dal ministro dell'Interno, Miguel Maura, in un discorso di propaganda elettorale tenuto a Zamora il 14 giugno. Egli, dopo aver deplorato con veementi parole i fatti di quei giorni, dopo accusato anche i cattolici, che non seppero difendere le loro chiese e non fecero altro che contemplare inerti il triste spettacolo, passò risolutamente ad attaccare l'esecutivo di cui faceva parte affermando che "negli ambienti governativi si credette che un regime venuto dal popolo doveva sopportare e consentire gli eccessi di una parte insignificante del popolo, che voleva manifestarsi in quella forma". "Gravissimo errore - disse il ministro - tutto quello che era autorità, rimase inattivo, perché si credeva che così si difendesse meglio la Repubblica. Che errore!".

Questo discorso dimostrò che la non mai abbastanza deplorata politica del governo del lasciar fare e lasciar passare ogni sorta di vandalismo sacrilego non era stata il frutto di un momento di incertezza o di sorpresa, ma era stata determinata da una decisione precisa. Ebbe il coraggio di dirlo il ministro degli Interno, il quale riferì al nunzio che, avuto sentore di quanto si tramava, cercò di impedirlo. Ma i colleghi non gli permisero reagire. Egli allora, alle 9 di mattina del lunedì 11 maggio, vedendosi nella impossibilità di fare il suo dovere, si dimise e rimase sollevato dall'incarico fino alle 11 di sera, quando il governo lo autorizzò a prendere misure di contenimento dei disordini. Solo allora riassunse il potere e nel primo Consiglio di ministri portò una lista di provvedimenti da assumere, come ad esempio la destituzione dei governatori implicati.

È molto importante fissare questo punto delle responsabilità governative negli incendi di maggio, perché l'esecutivo provvisorio dichiarò nella seduta inaugurale delle Corti costituenti:  "Noi veniamo colle mani monde; monde di sangue e monde di cupidigie". Ma, si domandava il rappresentante pontificio:  "E le chiese e conventi distrutti, e le povere Comunità disperse, e la coscienza nazionale ferita, e la Chiesa perseguitata, e la Spagna scattolicizzata, che cosa debbono rispondere?". Un anno dopo, al giungere il luttuoso anniversario dell'11 maggio 1931, il nunzio, debitamente autorizzato dal cardinale Pacelli, preparò la corrispondente protesta, e la consegnò al ministro degli Esteri dicendogli:  "Non le farà maraviglia che in questo tristissimo anniversario la Santa Sede, per la quale il tempo non passa e meno ancora la memoria, si creda nel doloroso dovere di reiterare la protesta, che per così nefandi delitti elevò l'anno scorso, e con la protesta di rinnovare quella domanda di indennizzo e di riparazione, che fece anche allora, e che non è stata soddisfatta neppure a parole".

Intanto, nel corso di quell'anno, da altre parti della Spagna venivano segnalati altri attentati contro chiese ed edifici sacri: anzi, non passava giorno senza che i periodici riportassero simili vandalismi. In uno stesso giorno i quotidiani riferirono due attentati contro chiese:  il primo a Turón, nella diocesi di Oviedo, dove scoppiarono due bombe che causarono gravi danni; l'altro contro la chiesa della consolazione in Doña Mencía, presso Córdoba, che fu incendiata, e della quale rimase in piedi solo la torre campanaria e qualche muro. Si trattava di una chiesa artistica di stile mudéjar. Nella stessa Madrid si ebbe un tentativo di incendio della chiesa del Carmine, situata in una delle più centrali vie della capitale. Numerosi furono questi attentati in ogni parte della Spagna ed è impossibile riferirli tutti.

E non solo la malsana passione incendiaria si sfogava contro chiese e conventi, ma incominciò anche contro i palazzi vescovili. Si trattò insomma di una vera follia incendiaria che, se non sempre raggiungeva i suoi intenti, tuttavia eccitava gli elementi perturbatori che vedevano dinanzi a sé un campo aperto per le proprie tendenze delittuose e sacrileghe. Questo gravissimo pericolo fu compreso anche dalla stampa repubblicana, che fece apparire alcuni articoli di protesta. Gli stessi giornali richiamavano al loro compito di vigilanza e difesa le autorità repubblicane per il decoro della stessa Repubblica.

Il 20 ottobre 1932 ebbe luogo il primo processo contro un incendiario. L'accusato, Antonio Fernández Soto, era stato sorpreso il tragico giorno 11 maggio 1931 mentre dava fuoco alla porta del Convento de las Comendadoras de Santiago a Madrid. Il fatto era più che provato, perché l'accusato era stato colto in flagrante; malgrado questo i giurati non giudicarono l'imputato colpevole e questi fu assolto e scarcerato immediatamente.

Questo verdetto non solo era solo una offesa alla giustizia, al sentimento religioso e alla serietà dei procedimenti penali, ma un precedente per i seguenti processi che servì ad assicurare (non con la presunzione di reato, ma con una prova) l'immunità a incendiari e depredatori di chiese, che proseguirono con maggior tenacia nelle loro imprese. La prova di questo amaro risultato si ebbe a Sevilla dove fu incendiata un'altra chiesa, che oltre a essere un edificio sacro era anche un monumento artistico del XVI secolo. Altri casi del genere si registrarono alla fine del 1932.

I giornali non sempre erano in grado di riferire tutti gli incendi e tutte le devastazioni di chiese. Ma per la loro quotidiana ripetizione, come sottolineava il quotidiano "El Debate", questi fatti passavano alla categoria di abituali. Occorreva quindi elevare ancora una volta il grido d'allarme in nome della religione, dell'arte e della civiltà, e proclamare che era ora che si intervenisse perché non si fosse verificato neppure un altro incendio.

Ma mentre i governanti si mostravano tanto attenti quando si trattava di dettare disposizioni legali lesive dei diritti di proprietà della Chiesa, non si preoccupavano affatto di dettare misure energiche per salvare gli edifici sacri dall'ondata di furore sacrilego; anzi lo stesso potere giudiziario, ultimo baluardo della giustizia almeno sotto l'aspetto della pena da infliggere ai criminali, mostrava di decadere assolvendo e rimandando liberi colpevoli pronti a compiere altre sacrileghe imprese.

La follia incendiaria, che sinistramente illuminò gli inizi della Seconda Repubblica, non cessò negli anni successivi. Se gli incendi non divamparono più così numerosi come nel maggio 1931 - il che non sarebbe stato tollerato neppure dal mondo civile - una coda di violenze serpeggiò in diversi luoghi fra templi ed edifici sacri fino al 1936.  (Vicente Cárcel Ortí, ©L'Osservatore Romano, 15 giugno 2010)

 

 


 

 

Super-uomini o esemplari umani difettosi?

 

«Io vengo a contraddire come mai si è contraddetto, e non di meno sono l’opposto di uno spirito negatore. Io sono un lieto messaggero, quale mai si è visto… solo a partire da me ci sono di nuovo speranze». Con Friedrich Nietzsche, che non a caso rappresenta uno dei pensatori più amati dai giovani d’oggi, si giungerà alla negazione della libertà del volere: l’io è soltanto un contenitore disordinato di impulsi e di motivazioni che riflette tutti i disagi e la crisi dell’epoca contemporanea. L’esperienza tragica sulla quale verte la riflessione del filosofo non sfocerà mai in una soluzione positiva: la Chiesa è, per il pensatore della “morte di Dio”, un simbolo dell’illusione umana e di quei concetti consolatori e poco vitali che impoveriscono la vita.

Anche oggi il denominatore comune della mentalità dominante è il merito attribuito al totale disincanto: il fatto di non credere in niente è ritenuto un segno di coraggio e di forza. L’attenzione dello sguardo non è più così rivolta, com’era in epoca classica, all’esterno, ad Altro, ma si focalizza soltanto sul proprio singolo caso, concorre all’affermazione della propria persona. Nietzsche non maschera questo individualismo, anzi, lo esprime parafrasando il linguaggio del Vangelo ma invertendolo di segno: non bisogna amare il prossimo ma «imparare ad amare se stessi» (Così parlo Zarathustra). Nonostante le sue contraddizioni e il nichilismo di fondo della sua posizione, Nietzsche rimane senza ombra di dubbio un personaggio fuori dal coro: la sua riflessione è profondamente sentita e rappresenta l’espressione della propria esperienza esistenziale. Il vero dramma si verifica quando, a elevare a schema di pensiero le sue posizioni, sono coloro che aderiscono con entusiasmo alla teoria dell’oltreuomo, ma che non percepiscono la tensione tragica che ha spinto il filosofo a formulare tali riflessioni. Manca, nell’uomo postmoderno, la coscienza iniziale di ciò che viene da lui riportato e riproposto al mondo intorno a sé. Emblema dell’autoesaltazione è, ad esempio, Gabriele D’Annunzio, seguace e sostenitore della teoria del superuomo nietzschiano: istante, immediatezza ed esteriorità sono le parole chiave dell’esperienza estetica. Egli coglie soprattutto l’idea del superuomo come affermazione di individualismo, di volontà di potenza. Il vero esteta diviene così colui che è in grado di maneggiare le folle e di distinguersi dalla massa: non possiede nessun legale, è superiore a tutto e a tutti, è padrone di sé e posto “al di là del bene e del male”. Tom Antongini, il segretario personale del poeta, racconta nel suo libro “Vita segreta di D’Annunzio”: «Quando D’Annunzio accenna a tutto quello che la gente fa o dice, usa queste frasi curiose ‘Voi che dite questo…Voi che fate questo…’ oppure ‘Come dite voi…Come fate voi…’. E, intendiamoci, non si rivolge, dicendo così, ai soli italiani, ma al mondo intero. Dal che si dovrebbe dedurre che egli consideri l’umanità come divisa in due sezioni: Gabriele D’Annunzio da una parte e il resto dall’altra. Prova, questa, di una sua persistente aderenza alle teorie di Nietzsche, che arriva al punto di dichiarare che un giorno la storia dell’umanità sarebbe stata divisa in due grandi periodi: quello prima e quello dopo di lui». D’Annunzio coniò la famosa espressione «fare della propria vita come di un’opera d’arte» per indicare questa ricerca continua e quasi ossessiva di nuove sensazioni, spesso anche ai margini dello scandalo. Il vero esteta deve inoltre essere appassionato di arte, la forma suprema del bello. Questo comporta però una perdita di spontaneità, un calcolo minuzioso per ricavare il massimo dalle situazioni, falsità, artificio e attenzione alla preparazione di luoghi e contesti. Ritroviamo qui un altro concetto cardine della “filosofia estetica”: l’enorme disprezzo nei confronti della massa dalla quale D’Annunzio-esteta emerge, ma rispetto alla quale non si isola, anzi, vive sempre al centro della scena per dimostrare di essere diverso e migliore. A questo proposito, la superiorità ostentata lo portò a far attendere Mussolini nella stanza degli ospiti (la Stanza del mascheraio), lasciandolo a contemplare, per due ore, la scritta collocata sopra allo specchio: «Al visitatore: Teco porti lo specchio di Narciso?/ Questo è piombato vetro, o mascheraio./ Aggiusta le tue maschere al tuo viso/ ma pensa che sei vetro contro acciaio».

La visione edonistica che lo scrittore ha del mondo si traduce nelle più svariate forme, ma singolare è l’aspetto della sostituzione Dio – uomo che viene manifestata con decisione in una sua particolare creazione. Infatti, all’interno del Vittoriale, l’enorme dimora in cui lo scrittore trascorre gli ultimi anni della sua vita, vi è la Stanza del Lebbroso, un luogo ascetico e mortuario, allestito per l’esposizione della sua salma (il che avviene nella notte fra l’1 e il 2 marzo 1938). Il Letto del lebbroso è chiamato da D’Annunzio, “Letto delle due età”, «quasi culla e quasi bara», sopra il quale possiamo osservare un dipinto di Guido Cadolin raffigurante San Francesco che abbraccia D’Annunzio lebbroso. Perché il lebbroso, a cui la stanza s’intitola, è proprio lui, il poeta, che così si definisce rinnovando la credenza medievale secondo la quale il lebbroso è toccato da Dio, e quindi sacro. Nella stanza vi è anche un San Sebastiano ligneo del XVI secolo: D’Annunzio ha scritto nella lingua d’oltralpe l’opera Le martyre de Saint Sébastien, ma, nonostante l’interesse dimostrato nei confronti di una tematica religiosa, non è mai stato credente. Ironicamente, ma con molto realismo, Charles Péguy scriverà che «San Sebastiano è il patrono di tutti, tranne che di D’Annunzio».

Una vita spesa per raggiungere fama e successo e per imporre il proprio io al di sopra e al centro di tutto è un cammino volto al godimento in ogni esperienza della vita: non esiste che il presente, ed il presente sganciato da passato e da futuro non comporta nessuna continuità e dunque nessuna responsabilità.

Una bellissima ed acuta testimonianza di ciò che questa tipologia di vita comporta ci è data dalla riflessione di un filosofo dell’800: S. A. Kierkegaard afferma che la forma a priori della vita estetica più raffinata è la disperazione, dovuta alla consapevolezza del proprio stile di vita basato sul nulla dell’esistenza, sull’assenza di un suo valore intrinseco. Scrive infatti: «L’esteta. Riguardo al godimento stai in un atteggiamento di orgoglio assolutamente aristocratico; quello per cui tu sei soddisfatto è l’assoluta insoddisfazione. Io non voglio ora unirmi alle critiche che sento spesso fare sul tuo conto, che sei insaziabile; preferisco dire: in un certo senso hai ragione; nulla di finito, infatti, nemmeno l’intero mondo può soddisfare l’animo umano, che sente il bisogno dell’eterno».

L’elemento commovente del pensiero del filosofo è la scoperta di una positività nella vita estetica: l’esteta, infatti, nel suo desiderio di numerose e sempre nuove sensazioni, cerca una risposta di senso assoluto, vuol dare un senso alla sua vita e per questo si impegna. Pensiamo, ad esempio, all’attivismo politico in D’Annunzio.

Cercando di possedere tutto, però, l’uomo che rifiuta Dio finisce per non scegliere niente: scegliere tutto equivale ad affermare che nulla ha realmente valore. Qual è quindi lo stato d’animo che prevale nella persona che sceglie questo percorso di vita? Continuando a rivolgersi all’esteta, Kierkegaard afferma: «Non credere che io voglia entrare nei tuoi segreti, ma vorrei soltanto farti una domanda; rispondi una buona volta, sinceramente e senza tante digressioni: ridi veramente quando sei solo? […] Verrà un momento in cui si deve una buona volta cominciare a vivere. Allora è molto pericoloso essersi frammentati in modo tale da non potersi quasi più raccogliere e si corre il rischio, nella furia e nella fretta, di non poter prendere tutto con sé. E, come conclusione, invece di diventare una persona eccezionale, si diventa un esemplare umano difettoso». L’uomo che si concentra unicamente su di sé e sulla propria affermazione alla fine si perde, si sente svuotato.

Cristo è per Kierkegaard l’unico interprete della “tragedia assoluta”, poiché ha assunto su di sé responsabilmente non il suo peccato, ma quello del “mondo intero”. La religione supera il tragico e la disperazione in quanto mette al centro Dio: la posizione dell’uomo di fede è liberante poiché non sono più le circostanze a decidere per lui e non è più il caso ad avere l’arbitrio di operare delle scelte. (Irene Bertoglio, Zammeru Maskil, 24 maggio 2010

 

 


 

 

Era massone, ora è cattolico

 

È appena arrivato nelle librerie italiane un libro più affascinante di un romanzo dal titolo “Ero Massone. La mia conversione dalla massoneria alla fede” (Piemme). E’ la storia vera di Maurice Caillet, un medico ginecologo, non battezzato, materialista, abortista e anticattolico.

Coerente con la sua formazione illuminista, il dott. Caillet entra a far parte della Massoneria. Nel giro di 15 anni viene iniziato alla conoscenza di tutti i segreti delle Logge: iniziazioni, riti, giuramenti, trattamenti di favore, facilitazioni nella raccolta di denaro, incarichi di potere e cariche politiche.

Diventa Venerabile Maestro della Loggia di Rennes e fa carriera nel lavoro e in politica, fino a diventare un notabile del Partito Socialista Francese e dirigente del Centro di Esami della Salute di Rennes.

Ma è proprio all’apice della sua carriera politica e professionale che accade l’imprevisto. La moglie Claude si ammala gravemente e lo trascina con sé in un pellegrinaggio a Lourdes.

Mentre lei è nelle piscine, Maurice è intirizzito e si ripara nella cripta posta sotto la grotta delle apparizioni.

Vi stavano celebrando una Messa. Maurice non aveva mai prestato attenzione alla celebrazioni di una messa cattolica. La considerava un rito sorpassato, una sorta di superstizione primitiva, ma quando il sacerdote pronuncia le parole di Gesù “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto…” il suo cuore viene toccato.

“Ero razionalista, massone e ateo – scrive nel libro –. Non ero neanche battezzato, ma mia moglie Claude era malata e decidemmo di andare a Lourdes. Mentre lei era nelle piscine, il freddo mi costrinse a rifugiarmi nella Cripta, dove assistetti con interesse alla prima Messa della mia vita. Quando il sacerdote, leggendo il Vangelo, disse: ‘Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto’, ebbi uno shock tremendo perché avevo sentito questa frase il giorno della mia iniziazione al grado di Apprendista ed ero solito ripeterla quando, già Venerabile, iniziavo i profani”.

“Nel silenzio successivo sentii chiaramente una voce che mi diceva: ‘Bene, chiedi la guarigione di Claude, ma cosa offri?’. Istantaneamente, e sicuro di essere stato interpellato da Dio stesso, pensai che avevo solo me stesso da offrire. Al termine della Messa, andai in sacrestia e chiesi immediatamente il Battesimo al sacerdote. Questi, stupefatto quando gli confessai la mia appartenenza massonica e le mie pratiche occultiste, mi disse di andare dall'Arcivescovo di Rennes. Quello fu l'inizio del mio itinerario spirituale”.

Da allora Maurice Caillet ha lasciato la Massoneria ed ha compiuto un itinerario di conversione e purificazione. L’entusiasmo per la fede trovata gli ha dato la forza di affrontare e superare le tante difficoltà e minacce che il mondo materialista e la Massoneria gli hanno posto di fronte.

E’ stato minacciato di morte, lo hanno licenziato per motivi inesistenti, hanno cercato di impedirgli di continuare la sua attività di medico, gli hanno messo contro parenti e figlie.

A causa delle minacce vive ora sotto protezione in Spagna, ma la sua storia e testimonianza sta sollevando dalle paure tante vittime della Massoneria e sta generando altre conversioni.

Il libro scritto da Caillet è la descrizione più chiara e dettagliata di come funziona la Massoneria che lui ha frequentato per 15 anni. Tutto viene spiegato: riti, iniziazione, ragioni, finalità, metodo di controllo, corruzione, negoziazione di promozioni agli alti vertici delle aziende, distribuzione illegale di appalti per le opere pubbliche, intimidazione ed eliminazione di personaggi scomodi.

Caillet non cede mai al sensazionalismo né alle teorie cospiratorie, con metodo razionale e argomenti che emergono dalla sua esperienza personale, illustra le meschinità, la bramosia di potere, l’ideologia, e l’ipocrisia di gruppi di persone che si nascondono dietro ad un ridicolo ritualismo sincretista e agnostico.

Altro che ideali umanisti, secondo Caillet, dietro ai principi di liberà, uguaglianza e fraternità, si nasconde un gruppo di persone il cui fine è il raggiungimento del potere e del possesso, cancellando il Dio unico dei Cristiani e proponendo l’adorazione di idoli vari.

Per l’ex Venerabile Maestro, “la Massoneria, in tutte le sue obbedienze, sostiene il relativismo, che colloca tutte le religioni su uno stesso piano. Da ciò si deduce un relativismo morale: nessuna norma morale ha in sé un'origine divina e, quindi, definitiva, intangibile. La sua morale evolve in funzione del consenso delle società”.

A questo proposito nel libro il dott. Caillet racconta che la Massoneria francese è stata determinante per l'introduzione dell'aborto libero in Francia nel 1974.

Tra i responsabili di questa legge l’ex Venerabile Maestro indica Jean-Pierre Prouteau, Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, consigliere dell’allora Primo Ministro Jacques Chirac. Il dottor Pierre Simon, Gran Maestro della Grande Loggia di Francia, consigliere di Simone Veil, allora Ministro della Sanità. I politici erano circondati da quelli che venivano chiamati i "Fratelli tre punti", e il disegno di legge sull'aborto venne elaborato rapidamente. I deputati e i senatori massoni di destra e di sinistra votarono all'unanimità.

Secondo Caillet il materialismo e il relativismo morale hanno portato la Massoneria francese a promuovere tutte le leggi che favoriscono il libertinaggio sessuale, il divorzio senza colpa, la contraccezione chimica e meccanica, l’aborto, le unioni civili e omosessuali, la manipolazione degli embrioni, la depenalizzazione delle droghe leggere e la legalizzazione dell’eutanasia.

Nel suo libro “De la vie avant toute autre chose” (Ed. Mazarine) apparso nel 1979 e poi ritirato dalle librerie su indicazione delle autorità massoniche dell’epoca, il Gran Maestro Pierre Simon ha scritto che “è l’intero concetto di famiglia che si sta ribaltando”.

Per la sua storia, l’ex Venerabile Maestro è diventato uno dei maggiori esperti di Massoneria nel mondo cattolico. Nella parte finale del libro, in molte conferenze e nel suo sito (http://www.caillet.com) Maurice spiega che cosa è la Massoneria e perchè è incompatibile con coloro che credono in Gesù Cristo.

Per non aver più paura e per favorire le conversioni Caillet propone una preghiera che recita ogni giorno: “Padre infinitamente buono, tu vedi nel segreto del cuore e delle logge. Tu sai che molti massoni, persi in una filosofia ingannevole, cercano vane verità. Liberali, Signore, dagli spiriti che li traggono in inganno. Che lo Spirito Santo, lo Spirito di verità, investa la loro intelligenza e il loro cuore e riveli loro la Verità iniziale e filiale, l’alfa e l’omega: Tuo Figlio, Gesù il Cristo, la sua Vita, il suo insegnamento: La Buona novella del Tuo Amore”. (Antonio Gaspari, Zenit, 14 giugno 2010)

 

 


 

13 Giugno 2010

 

L’astratto in chiesa: ma chi lo capisce?

 

Il primo compito nell’ordine delle urgenze consiste secondo noi nel ripartire risolutamente dal concilio Vaticano II prendendo finalmente sul serio non solo quanto concerne lo spazio liturgico, l’altare e il mobilio, ma più globalmente l’orientamento indicato in generale alle belle arti nella Costituzione sulla liturgia. Vi si dichiara fra l’altro che «la Chiesa non ha mai fatto suo alcuno stile», ma che accoglie volentieri tutti gli stili nella misura in cui si prestano a servire la liturgia.

Vi si parla anche, forse per la prima volta nella lunga storia dei discorsi della Chiesa sull’arte, del «ministero» di quest’ultima e del suo ruolo potenzialmente teologale, ben al di là del livello puramente funzionale o decorativo in cui si sarebbe talvolta tentati di confinarla, almeno in Occidente. L’importanza di questa dichiarazione non è certamente ancora stata percepita nel suo giusto valore; o se lo è stata, oggi non lo è più. Rari sono i rimandi a questo testo negli scritti relativi all’arte religiosa della nostra epoca.

Alcuni teologi fra gli specialisti (poco numerosi) dell’arte sacra cristiana del XX secolo lasciano tranquillamente intendere che questo testo conciliare è ai loro occhi ampiamente superato e non più degno di vero interesse, in quanto non sarebbe all’altezza delle sfide del momento per non aver saputo valutare il cammino dell’arte nell’ultimo secolo. Mi permetto di essere di parere contrario. La dichiarazione conciliare costituisce un principio dalle molteplici applicazioni e rimane senza equivalenti nella lunga storia dei discorsi magisteriali sull’arte. (...) D’altro lato è chiaro che se i rapporti fra le comunità cristiane e l’arte devono ridiventare toniche ed esigenti, non ci si potrà limitare alla prospettiva generosa ma pur sempre alquanto vaga espressa dal Concilio, che è essenzialmente una prospettiva di accoglienza per quanto, si precisa, condizionale. C’è indubbiamente qualcosa di più e di meglio da fare. «Accoglienza» è diventata la parola magica per una concezione minimalista dei rapporti fra la Chiesa e le arti, a dispetto delle sue arie di apertura e di generosità. La «condizionalità» è una clausola che rischia di applicarsi solo a posteriori: e allora sarebbe troppo tardi. È piuttosto a monte, nei momenti chiave della concezione e della commissione dell’opera destinata a luogo di celebrazione liturgica, che importa che gli artisti e i rappresentanti della Chiesa si incontrino e confrontino i loro punti di vista.

Ciò implica non solo che la Chiesa impari nuovamente a commissionare e a formulare le sue attese invece di limitarsi a dire «io assumo», «io accolgo», «io compero«, ma anche che si accerti che gli artisti suscettibili di lavorare per essa siano capaci di farlo in conoscenza di causa e siano stati sufficientemente formati alla bisogna. Ma quali sono gli artisti che accettano di entrare in tale prospettiva, e quale istituzione è in grado di proporre loro una formazione? La Chiesa cattolica deve imparare nuovamente a spender tempo e denaro per formare dei chierici nel solco degli stretti e complessi legami che per secoli sono esistiti fra essa (la sua liturgia, la sua catechesi, la sua missione) e le arti.

A quando l’inserzione nelle facoltà di teologia di una vera formazione all’iconografia cristiana, e più generalmente alla lettura dell’immagine, che non sia una semplice spolveratura omeopatica? (...) Un altro compito sarebbe prendere in considerazione e pensare teologicamente il venir meno delle figure del Dio cristiano nell’arte moderna e contemporanea. Si tratterebbe di pensare lo svanire del volto nell’arte del XX secolo; di tornare una volta di più sulla questione di sapere quali possono essere ora i rapporti del cristianesimo con la figura. Hans Urs von Balthasar era del parere che «solo quel che comporta una figura può trasportare e tuffare nel rapimento (…) Senza figura l’uomo non può essere afferrato né trasportato.

Ed essere trasportato è l’origine del cristianesimo». Ci si può tuttavia chiedere se il problema è ben posto. Si può pensare che la vera posta in gioco nel mantenimento o nella dimenticanza della figura in generale e del volto in particolare sia altrove piuttosto che nel «rapimento», versione un po’ barocca di una delle tre funzioni tradizionalmente assegnate all’arte religiosa («commuovere, far ricordare, istruire»). Un ulteriore obiettivo sarebbe denunciare il fossato che si va scavando fra l’arte d’avanguardia e la gente (non solo i cristiani). Essa decisamente non capisce più. Anche con la miglior buona volontà, anche quando si sente in dovere di aggiornarsi per avere qualche occasione di capire, non riesce proprio a seguire. Subentra una pesante stanchezza, molto smobilitante: si finisce per abituarsi a non capire, ben presto si cesserà di sentirsi colpevoli o stupidi per questo.

Converrebbe dunque chiedersi perché quanti hanno la responsabilità di decidere, nei musei, nei ministeri o nella Chiesa, con il pretesto frutto di sollecitazione ma fraudolento che è quello che vuole la gente, o con il pretesto che bisogna aprirsi alla modernità, privilegiano tanto e in modo così unilaterale «il rapporto con la cultura» (sottinteso: d’avanguardia) senza tenere in alcun conto la sensibilità reale e le attese della gente e senza rendersi conto che rischiano di accreditare «un bluff gigantesco». Trascurando certe forme culturali che non possono più mostrarsi, ne favoriscono arbitrariamente altre, in particolare «l’arte di Chiesa-Stato» (la separazione ha qui ceduto il posto alla collusione), forme che non hanno alcuna possibilità di ricezione nel popolo di Dio.

È forse un effetto della paura profonda, tanto più imperiosa in quanto incosciente, di «perdere l’autobus», di non riuscire a imbarcarsi nell’ultimo treno culturale in partenza? Checché ne sia, quest’obiettivo implica rendere la parola e una certa visibilità a tutti quegli artisti che lavorano nell’ombra e che pur controcorrente continuano senza provare vergogna e senza nascondersi (ma anche senza ostentarlo) a ispirarsi alla Bibbia, alla liturgia e alla teologia. Sono più numerosi di quanto si pensi. Ma chi si cura di andare incontro a questi soldati semplici dell’arte? Chi sono? Dove sono recensiti? Dove si fa memoria di quanto essi hanno creato dal 1950? Quali sono i luoghi che osano dedicar loro le proprie strutture? Essi non tengono a esser chiamati «pittori religiosi». Non importa: è certamente grazie a loro, lo si scoprirà un giorno, che prosegue, al di là delle rotture annunciate e proclamate, la vasta storia delle forme di cui la Bibbia rimane «il grande codice».

(François Boespflug, Avvenire, 3 giugno 2010)

 

 


 

 

Cacciari, Dio e il mistero del tre

 

Scrivere un libro a quattro mani con Massimo Cacciari, e su un oggetto come il primo comandamento: Io sono il Signore Dio tuo (il Mulino), è stato cogliere l’occasione per proseguire un dialogo di larghi orizzonti che ormai procede da più di vent’anni. A cose fatte, dopo aver letto il saggio scritto dal noto filosofo per questa occasione, mi è spontaneo annotare qualche riflessione e proporre qualche quesito. La prima cosa che mi pare doveroso sottolineare è che ci troviamo tra le mani un saggio significativo e impegnativo. Il filosofo indaga da par suo «le condizioni o ragioni per così dire a priori che rendono possibili» i "diversi destini" del monoteismo: la lotta per preservarne la purezza e assolutezza e insieme la relazione con l’esserci nella sua finitezza. «Tutto muta – egli precisa – se tale relazione è intesa come immanente allo stesso Uno-Dio, o se l’Uno-Dio viene equiparato alla pura sostanza, all’Essere-degli-esseri, o ancora se l’Uno-Dio viene exaltatum sopra ogni determinazione di essenza». In questa prospettiva, Cacciari rimarca che il significato rivoluzionario e universale della rivelazione mosaica non sta nel testimoniare l’irrompere di un Dio in lotta per l’egemonia ma nell’«identificare con questo Unico l’essenza stessa del theion (il divino)».

La questione nasce quando, muovendo da quest’assunto, si cerca «da filosofo» di «dare ragione del Dio vivente biblico». È a indagare questo formidabile problema che è chiamata il logos dell’uomo: si tratti del logos greco e di quello ebraico della diaspora ellenistica prima, di quello cristiano dei secoli fondatori dell’identità ecclesiale poi, di quello infine della modernità. Cacciari esamina e decostruisce, in particolare, le proposte teoretiche di quest’ultima: quella di Spinoza, quella di Hegel e soprattutto quella di Schelling, evidenziandone le rispettive aporie. Non mi soffermo su questa serrata scorribanda teoretica. Vengo subito, piuttosto, al punto di vista guadagnato da Cacciari, che condivido senz’altro come approdo e punto di un nuovo inizio. Si tratta della straordinaria invenzione (nel senso classico del concetto: e cioè come ritrovamento di un dato offerto al pensare nella rivelazione) del Deus Trinitas proposta dai Padri della Chiesa. «Tre ipostasi, una sola sostanza, ousía. Tour de force impossibile, grida la "ragione". Ma non si tratta di un teorema logico, si tratta di corrispondere con la massima esattezza al senso del Revelatum» poiché «è la stessa novitas dell’Annuncio [di Gesù e della Chiesa su di lui] a imporlo». È questa un’affermazione cruciale: la dottrina del Deus Trinitas è la via segnata dall’Annuncio di Gesù alla risoluzione – teoretica e pratica – del "problema" del monoteismo.

Fin qui la consonanza. Ma a questo punto si profila un’ulteriore, e delicata questione: quella di una pertinente intelligenza del Deus Trinitas. A questo riguardo capisco certo la formidabile e inaggirabile istanza cui Cacciari vuol rispondere: occorre salvaguardare, a un tempo – e proprio per rispetto al Revelatum – l’abisso del mistero di Dio e la libertà della relazione che in Dio vive, insieme alla libertà della creatura cui la relazione gratuitamente si rivolge. Ciò, a parere di Cacciari – e una ragione almeno in parte egli ce l’ha, per la negligenza di un certo pensare teologico – non è garantito quando la persona dello Spirito Santo, il terzo tra il Padre e il Figlio, è «ridotto, come si continua sostanzialmente a sostenere, a simbolo della relazione amorosa, reciprocamente accogliente, tra le altre due Persone... Non si comprende la Vita intradivina dell’Unico Dio senza caratterizzare il volto dello Spirito, che ne rappresenta il segreto più intimo». Ma qual è la caratterizzazione pertinente? «Lo Spirito – argomenta Cacciari – è il "volto" della Relatio che mostra "ciò" che la eccede. (...) Nella Relatio l’ipostasi dello Spirito è il fondamento della Persona paradossale che si ri-volge all’arché comune e inattingibile, all’eterno Passato dell’eterno Presente di quell’"Io sono" trasformatosi nell’"Unum sumus"», e cioè nell’«Io e il Padre siamo Uno» di Gesù nel quarto vangelo (cfr. Gv 10,30).

È qui, mi pare, che va posta la questione decisiva: la salvaguardia della relazione in Dio come libertà è collocata con pertinenza quando la si coglie nel riferimento alla differenza smisurata dell’Inizio (in Dio stesso) come libertà? La mia risposta è: penso di no. Lo Spirito non va "sciolto" dalla relazione per garantire la libertà e l’inesauribilità di Dio, ma va piuttosto seguito nel suo guidarci a penetrarne il mistero nel segno dell’amore: quell’amore-agape che è Dio stesso (cfr. 1Gv 4,8.16) rivelato da Gesù Crocifisso e Risorto. Egli, lo Spirito, non è certo, come rischia certa ermeneutica teologica addomesticata di farci fraintendere, il "chiuso" soddisfatto della relazione tra Padre e Figlio, ma è piuttosto il non ritorno su di sé che in essa si esprime – da parte dell’uno e dell’altro – e, per questo, è lo sguardo e il soffio del e verso l’inesauribile di Dio nel segno di ciò che è sempre nuovo e aperto e al di là: nel donarsi e condividersi sempre di nuovo, in una pienezza che è sempre più piena, ma mai definitivamente raggiunta e posseduta dalla creatura.

In consonanza con questa discriminante precisazione, vengo a un ultimo spunto che mi pare del massimo rilievo per la prosecuzione del dialogo. Esso concerne la nozione di Revelatum a partire dalla quale Cacciari muove nella sua ricerca. Tale nozione, intesa così come mi sembra da lui intesa, rischia di pensare la rivelazione solo come un factum, un positum di cui occorre tener conto, indiscutibilmente: ma senza entrarvi dentro, senza prendervi parte. Il che significa, inevitabilmente, esercitare l’intelligenza rispetto al Revelatum senza però essere determinati (gratuitamente e liberamente) dall’evento stesso che la Revelatio è. Prendiamo il detto del Paraclito che troviamo nel Vangelo di Giovanni, nei discorsi della cena: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò cha avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà» (Gv 16,12-15). In questo detto, lo Spirito è presentato come colui che prende tutto ciò che Gesù ha ricevuto dall’Abbà e lo distribuisce con libertà e liberalità in vista della koinonía dei molti nell’Uno. Egli si mostra così come l’intimo di Dio che ne è al contempo l’estremo. È il darsi dell’Abbà nel Logos fatto carne e pane che è offerto dallo Spirito e nello Spirito come dono a chi lo riceve in quanto questi, a sua volta, lo possa comunicare.

Forse, Cacciari mi ribatterebbe citando 1Cor 2,10ss: dove si parla dello Spirito che scruta ogni cosa, anche «le profondità di Dio». Tale Spirito però – precisa subito Paolo – è proprio ciò che Dio ci ha donato per conoscere tutto ciò che da Dio viene, in «parole dello Spirito». È possibile dunque intelligere questo Revelatum senza che esso non stia più semplicemente "di fronte" al pensare, ma entri "nel" pensare stesso? (Piero Coda, Avvenire, 21 Maggio 2010)

 

 


 

 

I cattolici e il '68

 

Può essere molto istruttivo ripercorre gli anni ’60-’70 dalla parte dei cattolici e si scopre che il contributo dato è molto importante, perché hanno permeato e continuano a permeare ‘il genere umano e la sua storia’, rivolgendo la propria parola a tutti gli uomini. Mentre la guerra in Vietnam entra nella fase più critica; mentre in Cecoslovacchia i carri armati sovietici reprimono nel sangue la contestazione non violenta della ‘primavera di Praga’; mentre in Italia Ferruccio Parri denuncia in Parlamento lo spionaggio politico dei servizi segreti guidati dal Generale De Lorenzo e svela i retroscena di un colpo di Stato ("Piano Solo") tentato nel 1964; nel 1967 papa Paolo VI pubblica l’enciclica Populorum Progressio (26 marzo 1967) con una nuova visione mondiale: “Lo sviluppo dei popoli, in modo tutto particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà; una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione verso la meta di un loro pieno rigoglio, è oggetto di attenta osservazione da parte della Chiesa”; e dedica il 1 gennaio 1968 alla Giornata Mondiale della Pace: “La proposta di dedicare alla Pace il primo giorno dell’anno nuovo non intende perciò qualificarsi come esclusivamente nostra, religiosa cioè cattolica; essa vorrebbe incontrare l'adesione di tutti i veri amici della pace, come fosse iniziativa loro propria, ed esprimersi in libere forme, congeniali all'indole particolare di quanti avvertono quanto bella e quanto importante sia la consonanza d'ogni voce nel mondo per l'esaltazione di questo bene primario, che è la pace, nel vario concerto della moderna umanità”, persuaso che la pace “si fonda soggettivamente sopra un nuovo spirito, che deve animare la convivenza dei Popoli, una nuova mentalità circa l'uomo ed i suoi doveri ed i suoi destini” e non su una “falsa retorica di parole”.

Una fase interrotta

Padre Ernesto Balducci ricorda quegli anni: “Si può dire che c’è una fase conciliare aurea, che si interrompe bruscamente negli anni ’67-’68… Vivevamo momenti di euforia basata su molti sintomi. Ad esempio, Paolo VI sembrava orientato ad una radicale riforma della curia. Sembrava che prendesse corpo una figura di chiesa omogenea al primato della comunità di fede, una figura in cui avesse vigore effettivo, sostanziale e formale, la collegialità episcopale…”. Questa nuova prospettiva ecclesiale permette la nascita di alcune associazioni cattoliche ed il riposizionamento di altre. Nel dicembre 1966 durante un pellegrinaggio con i disabili a Loreto don Franco Monterubbianesi ha l’originale idea di fondare la ‘Comunità di Capodarco’. Anche in questo caso fu dura battaglia fra chi intendeva dare l’opportunità ai disabili di vivere una vita ‘normale’ e chi li vedeva solo come ragazzi ‘inutili e da accudire’. Don Monterubbianesi applica con i disabili la metodologia che don Lorenzo Milani applica a Barbiana: fare diventare onesti cittadini, che possono far valere i propri diritti e doveri di fronte allo Stato italiano. Nella Comunità di Capodarco si era instaurato un clima che “dilatava progressivamente gli orizzonti mentali - scrive Angelo Maria Fanucci nel libro ‘La logica dell’utopia’- e permetteva agli emarginati di recuperare in chiave positiva tutto il proprio passato”.  Con lo stesso spirito di ascoltare e mettere in pratica il Vangelo, a Roma, un giovane ventenne - Andrea Riccardi - sente la necessità di riscoprire la Chiesa dei primi Apostoli: con un gruppo di liceali Riccardi iniziò ad andare nella periferia romana, tra le baracche che in quegli anni cingevano Roma e dove vivevano molti poveri, e cominciò un doposcuola pomeridiano (la “Scuola popolare”, oggi “Scuole della pace” in tante parti del mondo) per i bambini.

Dall'incontro con le Scritture, messe al centro della vita, è nata una proposta personale e comune nuova per quei giovani del '68 alla ricerca di una vita più autentica: è l'antico invito a diventare suoi discepoli, che Gesù fa ad ogni generazione. In Sicilia, a Partinico, Danilo Dolci sperimenta il metodo ‘maieutico’, che valorizza la cultura e le competenze locali, il contributo di ogni collettività e ogni persona. Nelle riunioni animate da Dolci, ciascuno si interroga, impara a confrontarsi con gli altri, ad ascoltare e decidere. Ma la terra più feconda alla sperimentazione di una nuova vita cristiana è la Toscana. Nell’anno 1968 a Nomadelfia, comunità di famiglie vicino a Grosseto fondata da don Zeno Saltini nel 1948, nasce la scuola ‘familiare’, quando i genitori hanno ottenuto dal Ministero della Pubblica Istruzione di potere istruire i figli sotto la propria responsabilità, con l'obbligo di presentare i figli come privatisti agli esami di Stato di quinta elementare e terza media. Secondo don Zeno Saltini la peculiarità di questa scuola è ‘vivente’, perché ogni momento della vita è scuola in quanto l'ambiente familiare, sociale e naturale nel quale i ragazzi vivono è di per sé educativo. Non esistono voti e non ci sono né promozioni né bocciature. I programmi sono sviluppati secondo le linee pedagogiche di Nomadelfia. La frequenza scolastica è obbligatoria fino a 18 anni.

Il contributo delle Associazioni

Poco lontano da Grosseto a Loppiano, nel comune di Incisa Val d’Arno (FI), Chiara Lubich, fondatrice nel 1943 del Movimento Focolare, stimola i giovani a partecipare al momento storico in modo originale: attraverso la musica. Loppiano è sempre stato un forte centro di attrazione per migliaia di persone provenienti da tutto il mondo, aderenti al movimento e, fin dall’inizio, si era composto un gruppo che, con canzoni e danze tradizionali di vari popoli, dava il benvenuto ai visitatori. E fu proprio a quella prima formazione artistica che nel Natale del 1966, Chiara Lubich volle regalare una chitarra e una batteria rossa, da cui prese il nome il gruppo, che si chiamò ‘Gen (Generazione Nuova) Rosso’, inserendosi con una nuova musicalità e originalità nei testi, pieni di speranza, la meraviglia nell'ondata di innovazione che ha caratterizzato la musica di quel periodo, la ‘beat generation’. A Firenze nel 1967 è costituita l'Associazione C.G.S. – Cinecircoli Giovanili Socioculturali - dagli enti CNOS e CIOFS (Opera Salesiane e Figlie di Maria Ausiliatrice) con lo scopo di promuovere e diffondere il cinema di qualità, finalizzando una continuativa opera di formazione educativa attraverso i mezzi di comunicazione sociale, nei giovani. In sintonia con il Concilio Ecumenico Vaticano II, la proposta culturale del CGS parte dall'affermazione secondo cui è possibile un rapporto tra fede e cultura che, salvaguardando l'autonomia delle rispettive sfere di azione, respinge sia la riduzione della cultura a fede, sia la riduzione della fede a cultura con l’intento di ‘contribuire alla crescita integrale dei giovani, corrispondendo alla loro domanda educativa e valorizzando le espressioni giovanili della cultura e del tempo libero’

Un’esperienza sovversiva

Ma l’esperienza più importante in quegli anni, in quanto veramente ‘sovversiva’ è condotta da don Lorenzo Milani che nel 1954 nella parrocchia di San Donato sperimenta la prima scuola popolare al servizio dei poveri, senza ricreazione, per far capire ai giovani che la scuola era la loro salvezza. Questa prima esperienza è portata a conclusione attraverso la scuola di Barbiana, da cui scaturirà nel 1967 la ‘Lettera ad una professoressa’, che permetterà un serio cambiamento della scuola pubblica italiana. Don Milani, per pochi ragazzi, semianalfabeti, figli di pecorai e contadini oppure orfani, apre una scuola che inizia alle 8 del mattino e termina alla sera. Una scuola che non conosce vacanze e che rifiuta le metodologie e le tecniche d'insegnamento nozionistico: “La scuola siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. E’ l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio”.

L’impegno nella politica

Però, se da una parte il Concilio Vaticano II, porta i cattolici ad essere presenza animatrice nella società di quegli anni, dall’altra parte non mancano alcune incomprensioni, soprattutto sul piano politico. E’ lo strappo che consumano le ACLI. In un momento di grande sommovimento politico, in cui Aldo Moro sta per essere emarginato all’interno della Democrazia Cristiana, le ACLI maturano la scelta di puntare su un rinnovamento della presenza politica dei cattolici nella Democrazia Cristiana, una presenza che deve incamminarsi sul sentiero delle riforme, attraverso forme di animazione culturale e pressione sociale. Il presidente nazionale delle ACLI, Livio Labor, nel 1967 fa una scelta coraggiosa: spendere il patrimonio culturale delle ACLI per l’unità dei cattolici, auspicando una ‘flessibilità strategica’. Scelta diametralmente opposta la compie in quegli anni l’Azione Cattolica Italiana sotto la presidenza di Vittorio Bachelet. Anche all’Azione Cattolica fu rimproverato di essere ‘collaterale’ alla Democrazia Cristiana. La risposta dell’Azione Cattolica fu la scelta religiosa e la scelta della mediazione culturale e sociale come stella polare dell’impegno cristiano nel mondo. Ciò che Bachelet intende per impegno politico è chiarito da una intervista a "Città nuova" (10 gennaio 1969): "Se per impegno politico si intende fare il galoppino elettorale di qualcuno o di qualche gruppo, l'Azione Cattolica non pensa davvero che questo sia il suo compito. Se invece è l'aiuto e l'invito rispettoso a riferire il proprio impegno e la propria azione alle grandi matrici della ispirazione cristiana, a realizzare l'unità tra fede, vita e azione e ad assumere con coerenza le proprie responsabilità, allora si tratta di quel compito di formazione delle coscienze che ci è proprio". Nel 1968 Gioventù Studentesca cambia nome e assume quello di Comunione e Liberazione, fondata da don Luigi Giussani, che pone al centro dell’agire umano l’esperienza cristiana, in quanto nota una incapacità al giudizio unitario sulla situazione di quel periodo, che tenta di rompere con la tradizione e con la memoria all’interno della Chiesa e della società civile: “Autenticità, esigenza d’autenticità: questo è il valore che è stato nel cuore di allora, della ‘sommossa’ (pensiamo alla nostra presenza nella Chiesa, per esempio: capite che noi siamo trattati da contestatori? Noi, per gli altri, fino a un certo punto, siamo parte del fenomeno del ’68: i contestatori. E, infatti, è un desiderio di autenticità che ci muove nelle parrocchie o nelle diocesi!).

Ma questa autenticità fu perseguita negando il passato, come una eruzione improvvisa, come un’eruzione: il ‘nuovo’ era inteso come eruzione senza nessi antecedenti”. È, inoltre, interessante segnalare la posizione di dialogo assunta in quegli anni dalla ‘Pro Civitate Christiana’, fondata nel 1939 da don Giovanni Rossi ad Assisi come associazione laicale. Essa promuove il Corso Internazionale di Studi Cristiani per l’evangelizzazione della società mediante una nuova presenza della Chiesa nel mondo. I giovani che partecipano ai convegni della ‘Pro Civitate Christiana’, “non chiedevano una Chiesa senza autorità, ma solo un diverso esercizio dell’autorità”, sottolinea padre Giuseppe De Rosa nella prestigiosa rivista gesuitica ‘Civiltà Cattolica’ (n. 2862, 20 settembre 1969), attraverso nuove e più efficienti strutture di comunione che li rendano corresponsabili e partecipi della vita della Chiesa.

Dialogo e comunione che papa Paolo VI, non tenendo conto delle contestazioni che arrivano da ogni parte, cerca di portare avanti onestamente nelle encicliche sociali, quale la ‘Populorum Progressio’ (1967), e nelle encicliche teologiche, quale la ‘Humanae Vitae’ (1968), sostenendo una nuova visione dell’uomo che leggi liberiste e liberticide stanno uccidendo. In entrambe le encicliche si nota una difesa integrale dell’uomo, che lo stesso movimento sessantottesco non ha valutato nelle dovute misure, anzi lo ha aspramente criticato, aprendo le porte ad un liberismo sfrenato (i referendum sul divorzio e sull’aborto sono figli di questa temperie liberista), a cui lo stesso movimento si è adeguato nel tempo, preferendo la lotta armata al posto del dialogo. Infatti gli anni ’70 segnano la fine di un movimento e l’inizio nefasto della lotta armata, in cui caddero tanti onesti cittadini italiani, quali Mario Sossi, Francesco Coco, Carlo Casalegno, Guido Rossa, Roberto Ruffilli, Ezio Tarantelli, Vittorio Bachelet, Aldo Moro, per cui lo stesso papa Paolo VI si spese per la sua liberazione nel Regina Coeli del 23 aprile 1978. A distanza di quaranta anni non si può fare una condanna ‘tout court’ di quel periodo, ma bisogna affermare che, mentre molte utopie (outopos=senza luogo) propagandate sono cadute, finendo nella lotta armata, l’utopia (eutopos=bel luogo), portata avanti dalla Chiesa e dai cattolici, ha prodotto frutti, permettendo di riconoscere oggi il beneficio apportato nella salvaguardia della giustizia, della pace e dei diritti dell’uomo. (Simone Baroncia, Dimensioni Nuove, set 2008)

 

 


 

 

La “Sostanza” del Mistero Eucaristico

 

La ricorrenza della solennità del Corpus Domini sollecita una breve riflessione sulla necessità di una corretta presentazione di quello che è il culmine della divina economia della grazia: culmine che non si può comprendere solamente come evento, come atto salvifico, perché si perpetua nella stabile presenza presso di noi della sostanza di Cristo sotto le specie del pane e del vino.

Questo linguaggio appare oggi meno diffuso, perché l’enfasi corrente sul dipanarsi storico del Mistero tende a far passare in secondo piano l’impiego della categoria di “sostanza” sia nel discorso trinitario sia in quello eucaristico.

La sostanza, vertice “individuo” della densità del reale da Aristotele in poi, suona oggi come qualcosa di fissisticamente opposto alla vita: si tende a pensare la vita come entità totale, come una sorta di flusso al quale tutti parteciperemmo (col rischio di cadere nelle varie forme – più o meno orientaleggianti – di panteismo).

Ma la vita non esiste come totalità. Non è la vita che vive, sono i singoli enti (le singole sostanze) che sussistono e che vivono. E quindi, pur con le necessarie cautele di un linguaggio analogico, anche la categoria di sostanza si applica bene alla teologia e alla predicazione.

Dio non è la totalità della natura. E Cristo non è una sorta di inglobante cosmico (come potrebbe far pensare un’errata immaginazione applicata alla dottrina paolina della ricapitolazione in Cristo): la sua presenza nell’ostia è sostanziale e perciò diversa dalle altre forme di presenza reale nella Chiesa e nel mondo.

Cristo è presente nell’ostia (e solo nell’ostia) come lo è in cielo, in una maniera ontologicamente unica.

È significativo rilevare come uno dei maestri della spiritualità del Novecento, Divo Barsotti, che come pochi altri ha penetrato il Mistero nel suo dispiegarsi storico e liturgico, abbia recisamente affermato che l’aspetto fondamentale del mistero eucaristico è proprio quello della presenza reale.

Ora, questa presenza è veramente e radicalmente reale perché sostanziale. Il ricorso alla nozione di transustanziazione è quindi imprescindibile: ogni altra spiegazione rimane al di qua della radicalità del dono.

Il linguaggio ontologico non contraddice quello economico-salvifico: lo rivela e ne custodisce appieno la pregnanza.

Il confronto con i fratelli separati dell’Oriente cristiano, poi, non esclude affatto questo tipo di impostazione: anche se tra loro è diffuso il più generico termine “metabolè” (cambiamento), una maggioranza di teologi (da Gennadio Scholarios a Pietro Moghila, fino ad Androutsos nel Novecento) fa riferimento alla “metousìosis”: termine che corrisponde alla transustanziazione cattolica e che ricorre negli atti del Concilio di Costantinopoli del 1691, recepiti anche dalla Chiesa ortodossa russa (utili informazioni sul tema si rinvengono in Pier Giorgio Gianazza, “Temi di teologia orientale. 1″, Bologna, EDB, 2010; Karl Christian Felmy, “La teologia ortodossa contemporanea”, Brescia, Queriniana, 1999).

Una sospetta forma di reverenza, unita a un malinteso personalismo filosofico, sembrerebbe voler evitare il rischio di una quasi-cosificazione del Mistero: rischio che peraltro non sussiste se la dottrina della transustanziazione viene compresa nel suo retto significato ontologico (“sostanze” non sono solamente le cose, ma anche le persone).

Rimane, è vero, lo stupefacente nascondimento del Signore sotto le specie del pane e del vino. Nascondimento che tuttavia rivela fino in fondo l’abbassamento condiscendente del Dio cristiano, rivolto alla piena salvezza dell’uomo.

Proprio in questa linea si può comprendere come un dono che fosse meno che sostanziale non sarebbe assoluto e totale, come invece è il dono dell’amore di Dio per noi, nel quale ultimamente consiste l’eucaristia: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). (Francesco Arzillo, Settimo cielo, 7 giugno 2010)

 

 


 

 

John Henry Newman e il sorriso buono di san Filippo

 

Nel pomeriggio di martedì 8 giugno viene presentato a Genova, nell'Oratorio di San Filippo, il libro che raccoglie gli Scritti oratoriani di John Henry Newman in un'edizione curata da Placid Murray (Siena, Cantagalli, 2010, pagine 504, euro 17). All'incontro parteciperà anche il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana. Anticipiamo stralci della relazione del procuratore generale della Confederazione dell'Oratorio e, in basso, dell'intervento del direttore dell'Ufficio per la cultura dell'arcidiocesi di Genova.

di Edoardo Aldo Cerrato

I testi di Newman sull'Oratorio, che l'edizione presenta, mostrano chiaramente quanto la vocazione oratoriana abbia segnato la vita e l'opera del nuovo Beato e quanto profonda sia stata l'appartenenza all'Oratorio di Padre Filippo di colui che pure "appartiene - affermava Paolo vi - a tutti coloro che sono alla ricerca di un preciso orientamento e di una direzione attraverso le incertezze del mondo moderno"; che "appartiene a ogni epoca, luogo e persona", per dirlo con Giovanni Paolo ii; che è il teologo e uomo di Chiesa di cui oggi la Chiesa ha particolarmente bisogno, come ancor recentemente ricordava il Santo Padre Benedetto XVI parlando ai vescovi dell'Inghilterra e del Galles:  "Grandi scrittori e comunicatori della sua statura e della sua integrità sono necessari nella Chiesa oggi".

"Amo un vecchio dal dolce aspetto, - scrisse Newman in riferimento a san Filippo - lo ravviso nel suo pronto sorriso, nell'occhio acuto e profondo, nella parola che infiamma uscendo dal suo labbro quando non è rapito in estasi...".

Newman fu oratoriano con la profondità che caratterizzò ogni scelta della sua vita e ogni opera intrapresa. E lo fu fino alla fine dei suoi giorni, anche rivestito della porpora romana di cui Leone XIII, sfidando il giudizio di altri, lo volle onorare. Giunto a Roma per il Concistoro del 1879, in cui sarebbe stato creato cardinale, Newman scriveva al suo vescovo:  "Il Santo Padre mi ha accolto molto affettuosamente (...). Mi ha chiesto: "Intende continuare a guidare la Casa di Birmingham?". Risposi: "Dipende dal Santo Padre". Egli riprese: "Bene. Desidero che continuiate a dirigerla", e parlò a lungo di questo".

Non sfuggiva a Leone XIII l'importanza della presenza oratoriana iniziata da Newman in Inghilterra, quando vi fece ritorno, dopo l'ordinazione sacerdotale, portando con sé il Breve Magna nobis semper del 1847, con cui il beato Pio IX istituiva l'Oratorio nel Regno Unito e dava a Newman facoltà di propagarlo in quella Nazione; come non gli sfuggiva la triste situazione dell'Oratorio filippino, falcidiato in Italia dalle vicende storiche e politiche del XIX secolo.

"Desidero che continuiate a dirigere (la Casa di Birmingham), e parlò a lungo di questo": quella di Papa Leone non è solo benevola concessione per evitare a un uomo di veneranda età le comprensibili difficoltà di un trasferimento a Roma e i possibili inconvenienti derivanti dal lasciare la congregazione da lui fondata; è la testimonianza che il Papa aveva perfettamente colto ciò che l'Oratorio significava per Newman, il quale gli aveva detto: "Da trent'anni sono vissuto nell'Oratorio, nella pace e nella felicità. Vorrei pregare Vostra Santità di non togliermi a san Filippo, mio padre e patrono, e di lasciarmi morire là dove sono vissuto così a lungo": fervida espressione di amore per la propria vocazione.

L'Oratorio si affacciò sull'orizzonte di John Henry Newman fin dal momento del suo ingresso nella Chiesa cattolica, quando Nicholas Wiseman, vescovo coadiutore del Distretto centrale dell'Inghilterra, lo persuase a ricevere l'ordinazione sacerdotale, suggerendogli pure l'Oratorio di San Filippo Neri come la forma di vita più idonea a lui e ai suoi compagni che lo avevano seguito nel ritiro di Littlemore, mentre Newman, pur esaminando la possibilità di aderire a qualcuno dei grandi ordini religiosi esistenti, abbozzava il progetto di una realtà nuova che tanti elementi possedeva in comune con l'Oratorio filippino.

Sostenuto dalla convinzione che la sua vita doveva svolgersi in una comunità caratterizzata "da un acuto senso della cultura e dal gusto innato per l'umanesimo", accompagnati "dal rispetto verso le persone e dal rifiuto di ogni coazione" - scrive il cardinale Jean Honoré - Newman dedicò un anno abbondante al discernimento sulla propria vocazione.

Giunto a Roma nell'ottobre 1846 con alcuni compagni per frequentare i corsi ecclesiastici in vista dell'ordinazione, questo intenso cammino di ricerca e di riflessione conobbe una illuminazione particolare:  Newman comprese chiaramente che l'esperimento di vita comunitaria già intrapreso e l'esperienza della sua vita passata "potevano offrire un punto di partenza per il futuro", mentre la scelta di uno dei grandi ordini religiosi avrebbe comportato la dispersione del gruppo, oltre a non rispondere pienamente a ciò che si andava cercando.

La visita del gennaio 1847 all'Oratorio Romano in Santa Maria in Vallicella suscitò in Newman un profondo interesse, anche perché gli richiamò l'esperienza dei college universitari inglesi: "i membri - scrisse - conservano i loro beni e la loro abitazione, vi sono poche leggi (...) e una splendida biblioteca". Dal 17 al 25 di quello stesso mese Newman e il fedele amico Ambrose St. John chiesero luce sulla loro vocazione davanti al sepolcro di san Pietro e si dedicarono a studiare le costituzioni e la storia dell'Oratorio. All'inizio di febbraio la decisione era presa: dopo l'ordinazione sarebbero stati iniziati alla vita oratoriana dai padri della Chiesa Nuova.

La figura di san Filippo Neri, di cui già nel periodo anglicano Newman aveva qualche conoscenza, si fece a lui più familiare: "Mi ricorda in molte cose Kable - scrisse alla sorella Jemima - I due condividono la stessa totale avversione all'ipocrisia, il carattere gioviale e quasi eccentrico, un tenero amore agli altri e il rigore con se stessi".

Il 14 febbraio, anche a nome dei compagni, Newman presentava al cardinale Giacomo Filippo Fransoni, prefetto di Propaganda Fide, il progetto del futuro Oratorio inglese: "Abbiamo scoperto - scriveva - un cammino intermedio tra la vita religiosa e una vita completamente secolare; il che si adatta perfettamente a ciò di cui sentiamo il bisogno". E il 21 febbraio, come amabile dono di compleanno per Newman, giungeva l'approvazione di Pio IX al progetto.

I sermoni predicati alla comunità in gennaio e febbraio del 1848 - Newman era giunto a Maryval il 2 febbraio e di lì si sarebbe trasferito a Birmingham l'anno seguente - tracciano, attraverso la ricostruzione storica del cammino della congregazione e la presentazione delle caratteristiche interne dell'Oratorio, una magnifica panoramica della vocazione oratoriana, non superata, in molti aspetti, neppure dalle acquisizioni future e sono il frutto immediato, ma sorprendentemente maturo, delle letture e delle riflessioni romane.

Filippo Neri vi è colto da Newman nella sua originalità di vir prisci temporis, uomo del tempo antico nel quale rivive la "forma primitiva del cristianesimo", caratterizzata dalla semplicità e dalla spontaneità, espressioni privilegiate della carità cristiana che è "vincolo di perfezione" (Colossesi, 3, 14): "dodici preti che lavorano insieme: ecco ciò che desidero - dirà Newman ancora nel 1878, alla vigilia del cardinalato - Un Oratorio è una famiglia e una casa".

San Filippo Neri e l'Oratorio facilitarono, senza dubbio, a Newman la felice sintesi tra pietà e cultura di cui egli trovò altissima espressione nell'"umanesimo devoto" di san Francesco di Sales, fondatore dell'Oratorio di Thonon. Rimarcando la "influenza decisiva" di san Filippo Neri sulla spiritualità di Newman, Jean Honoré arriva a parlare di una "terza conversione" dopo la prima del quindicenne John Henry e la seconda, costituita dall'ingresso nella Chiesa cattolica. Essa si situa particolarmente negli anni oscuri della sua vita di cattolico, quando, al contrario di quanto gli accadeva da anglicano, la sua preghiera era "serena", ma la sua vita "triste". Newman, che nei suoi scritti autobiografici confessava di amare, già nel periodo anglicano, di essere ignorato, come padre Filippo consigliava ai suoi discepoli (ama nesciri), ora chiedeva a Filippo che gli insegnasse a spernere se sperni, a disprezzar d'essere disprezzato.

La "mortificazione della rationale" - tanto insistitamente proposta da padre Filippo ai suoi - non è rifiuto della coltivazione dell'intelligenza, che può estendersi a tutti gli ambiti del sapere, né agli affetti umani, dal momento che è indispensabile l'amicizia tra i membri della Casa, e neppure dei beni temporali:  è la rinuncia alla "voluta propria" al fine di essere liberi ma non indipendenti, e solidali nella comune responsabilità.

Il secolo diciannovesimo aveva bisogno di una sintesi nuova tra "devozione" e "ragione" che solo una intelligenza poderosa e una spiritualità profonda come quelle di Newman potevano conseguire.

L'Oratorio di san Filippo Neri - scrisse l'oratoriano di Francia Louis Bouyer - "nasce dall'incontro, in san Filippo, tra un'anima eccezionalmente interiore e una mente eccezionalmente aperta":  sta qui la vocazione a cui Newman si sentì chiamato e alla quale rispose, per il resto della sua vita, con dedizione generosa e fedeltà creativa. (©L'Osservatore Romano - 9 giugno 2010)

 

 


 

 

Il prete e le sfide pastorali

 

"L'Anno sacerdotale è stato veramente una preziosa grazia per la Chiesa. Dobbiamo ringraziare molto Dio per le tante iniziative in favore del bene spirituale dei presbiteri e del loro ministero che sono state realizzate dappertutto in quest'anno, che adesso si sta per concludere. Tuttavia, conclusione non significa termine ma nuovo inizio, con nuovo ardore e con nuove energie spirituali per i sacerdoti e per la Chiesa nel suo insieme". Con queste parole il cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero, ha tracciato un primo sintetico bilancio dell'Anno sacerdotale che si concluderà il 11 giugno prossimo. L'occasione è stata la messa celebrata al termine del convegno organizzato, nel pomeriggio di martedì 8, presso il Pontificio Ateneo Regina Apostolorum, dal titolo "A immagine del Buon Pastore". Tra i relatori il cardinale prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Antonio Cañizares Llovera, e l'arcivescovo Mons. Rino Fisichella presidente della Pontificia Accademia per la Vita, del cui testo, sul tema "Sfide pastorali odierne nella vita di un sacerdote", presentiamo di seguito ampi stralci.

Quando si parla di sfide pastorali, normalmente, si pensa ad affrontare quanto il mondo pone dinanzi a noi come una provocazione. Questo è vero solo in parte. Le prime sfide che siamo chiamati a comprendere e a cui è necessario dare una risposta provengono direttamente all'interno della Chiesa e del nostro essere sacerdoti. Solo nella misura in cui saremo capaci di accettare e fare nostre queste sfide, solo allora saremo anche in grado di vedere come reali le sfide che il mondo pone e che la cultura di oggi rende sempre più manifeste come espressioni di grandi cambiamenti che richiedono il nostro apporto. La prima sfida, quindi, è nell'ordine della verifica del nostro essere sacerdoti nel mondo di oggi per comprendere a pieno la portata della vocazione di cui siamo stati fatti oggetto. Il sacerdozio, infatti, non è una conquista umana o un diritto individuale, come molti oggi pensano, ma dono che Dio compie a quanti ha deciso di chiamare per restare con lui nel servizio alla sua Chiesa. Perdere di vista questa dimensione vocazionale equivarrebbe a equivocare tutto e fare del sacerdote un impiegato e non un uomo che svolge un ministero nel segno della piena gratuità. Accogliere questa considerazione permette di mettere in relazione il sacerdote, in primo luogo, con la realtà che lo pone in essere:  l'eucaristia. La vera sfida consiste proprio nel comprendere noi stessi in relazione al mistero che celebriamo e che fa di ognuno di noi un sacerdote di Cristo. L'eucaristia permane come un dono inestinguibile che è stato fatto alla Chiesa e a ognuno di noi singolarmente; per questo è dovuto il rispetto e la devozione, senza mai pretendere che possiamo gestire il mistero di cui siamo servi come fossimo dei padroni. Tutto il nostro ministero deve essere caratterizzato dal mettere in primo piano non noi stessi e le nostre opinioni, ma Gesù Cristo. Se nell'azione liturgica - che è l'elemento peculiare del nostro ministero - noi diventassimo i protagonisti, contraddiremmo la nostra stessa identità sacerdotale e renderemmo vano il nostro ministero. Noi siamo "servi" e la nostra opera può essere efficace nella misura in cui rimanda a Cristo e noi veniamo percepiti come docili strumenti nelle sue mani per collaborare con lui alla salvezza.
Vivere del mistero eucaristico porta ad accogliere un'altra sfida, soprattutto se confrontata con il profondo individualismo del mondo contemporaneo, quella della communio che siamo chiamati a vivere tra noi. Formare l'unum presbyterium intorno al vescovo, per vivere di un amore vero e reale che sull'esempio del Maestro si realizza in una donazione piena e totale di sé a tutti, senza nulla chiedere in cambio. Lasciare tutto per vivere insieme al Maestro in un amore celibe che sa riconoscere quanti sono nel bisogno e nella solitudine per andare a tutti incontro. Ma questa comunione che siamo chiamati a vivere ci riporta di nuovo al tema precedente; è, in prima istanza, comunione con il "Corpo di Cristo". La "vita", per usare il termine pregnante dell'evangelista Giovanni (1 Giovanni, 1, 2), si è fatta visibile e ora è posta nelle nostre mani nel segno del pane eucaristico; noi sacerdoti diveniamo per questo capaci di atti che superano la nostra stessa esistenza personale, perché agiamo in persona Christi. In altre parole, deve essere forte in noi la convinzione di esserci "rivestiti di Cristo", e per questo capaci di uno stile di vita nuovo che rende evidente a tutti che viviamo per un Altro e lo vogliamo rendere visibile in noi.

A partire da qui emergono altre sfide, questa volta a livello culturale, che richiedono una preparazione corrispondente per non apparire come incapaci nel saper dare una risposta agli uomini del nostro tempo. L'icona dei discepoli di Emmaus può essere significativa. L'evangelista accenna al fatto che stavano discutendo di quanto era accaduto in quei giorni durante i quali la loro speranza nel compimento della promessa antica sembrava svanita. L'avvicinarsi di Gesù non destò particolare stupore; all'epoca era normale che i viandanti si accostassero per compiere il tragitto insieme e così scambiare qualche chiacchiera per rendere meno faticoso il cammino. I loro occhi, tuttavia, erano incapaci di riconoscere il Risorto e la domanda che questi pone loro su quanto stessero discutendo provoca nei discepoli la reazione conosciuta: "Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?" (Luca, 24, 18). L'espressione può essere facilmente applicabile a quanto si assiste spesso anche ai nostri giorni. La stessa domanda si potrebbe fare a tanti sacerdoti per chiedere loro se realmente sono consapevoli di quanto sta accadendo in questo frangente della storia nella quale siamo chiamati a svolgere il ministero in nome della Chiesa. Figli del nostro tempo, condividiamo le stesse aspirazioni e spesso le medesime forme di indifferenza. È necessario, per questo, avere una conoscenza profonda del proprio tempo e dei movimenti culturali che ne determinano gli stili di vita. Una cosa è costantemente verificabile nei duemila anni del cristianesimo:  l'attenzione permanente che la comunità cristiana ha avuto nei confronti del tempo in cui viveva e del contesto culturale in cui veniva a inserirsi. Una lettura dei testi degli apologeti, dei Padri della Chiesa e dei vari maestri e santi che si sono succeduti nel corso di questi duemila anni mostrerebbe con estrema facilità l'attenzione al mondo circostante e il desiderio di inserirsi in esso per comprenderlo e orientarlo alla verità del Vangelo. Alla base di questa attenzione vi era la convinzione che nessuna forma d'evangelizzazione sarebbe stata efficace se la Parola di Dio non fosse entrata nella vita delle persone, nel loro modo di pensare e d'agire per chiamarle alla conversione.

Ritengo che una prima considerazione verta sul tema del profondo "cambiamento culturale" che stiamo vivendo. A livello d'analisi dei movimenti culturali sappiamo cosa stiamo lasciando alle nostre spalle, ma non sappiamo ancora con chiarezza verso dove stiamo andando. Se il passato si lascia descrivere con qualche sicurezza, anche se non senza difficoltà, il futuro, invece, rimane ancora avvolto nell'oscurità dell'ipotetico. Si conclude l'epoca della modernità che fino a oggi, nonostante tutto, non riusciamo ancora a definire con contorni chiari e stiamo andando verso la postmodernità, che già dal suo nascere porta con sé l'ambiguità del concetto proprio per avere assunto un termine che manca ancora di chiarezza. Ciò a cui stiamo assistendo, di fatto, è un cambiamento epocale che parte dalla trasformazione dei concetti paradigmatici su cui si è costruita un'intera civiltà per millenni. Si dovrebbe riflettere, infatti, sul cambiamento progressivo - che sembra possedere, purtroppo, i tratti dell'inarrestabilità - di alcuni concetti quali: natura, uomo, diritto, giustizia, verità, bellezza, legge... e dobbiamo aggiungere anche quello di "dio". Perso il suo antico referente con l'intangibilità della natura, diventata ormai un laboratorio aperto a ogni forma di sperimentazione, l'uomo contemporaneo ha cambiato il suo modo di porsi dinanzi a essa, modificandone il concetto stesso. La natura viene sempre più interpretata come pura materia manipolabile, soggetta alla sola determinazione e volontà del ricercatore; essa non suscita più timore ma curiosità. La stessa cosa è per gli altri concetti a cui si è fatto riferimento. Se l'uomo stesso è soggetto alla manipolazione genetica e la sperimentazione sulla cellula umana continuerà con l'attuale rincorsa non solo nella giusta ricerca di evitare e poter debellare diverse patologie, ma in una clonazione o selezione eugenetica che già si applica sull'embrione, quale definizione dell'uomo daremo nei prossimi decenni? Il moltiplicarsi delle richieste di nuovi diritti individuali che si vogliono imporre alla società, anche contro la stessa legge naturale, a cosa condurrà nella comprensione del diritto e per conseguenza, della famiglia, della sessualità e della società? Non è escluso da questo processo neppure il concetto per noi intangibile di Dio. In un contesto come quello attuale spesso segnato da un confuso confronto con le religioni a cui, a volte, è sotteso un inevitabile sincretismo, a quale idea di "dio" si farà riferimento nel prossimo futuro?

Un'ulteriore sfida che ritengo debba essere presa in considerazione riguarda il grande tema della verità. Un ministro della Chiesa dovrebbe sempre avere sotto gli occhi l'espressione Romano Guardini:  "Chi parla dica ciò che è, e come lo vede e lo intende. Dunque, che esprima anche con la parola quanto egli reca nel suo intimo. Può essere difficile in alcune circostanze, può provocare fastidi, danni e pericoli; ma la coscienza ci ricorda che la verità obbliga; che essa ha qualcosa di incondizionato, che possiede altezza". La quaestio de veritate non è un trattato di altri tempi né un reperto archeologico da lasciare nei magazzini per la rincorsa a un politically correct che impone di evitare ogni chiarezza - sia essa di carattere teologico o dottrinale - e per appiattire il tutto nella superficialità dei luoghi comuni o dei sentimenti maggiormente diffusi. La verità permane certamente come una quaestio che chiede d'essere sottoposta al vaglio della ragione per portare ancora una ricchezza di sapienza all'interno del vivere personale e sociale. Un primo interrogativo a cui dare risposta, in ogni caso, può essere formulato così:  è proprio necessario, in questi tempi, parlare di verità? Di fatto facciamo esperienza di un tempo di povertà, di disagio, di mancanza di fiducia nella possibilità di accedere alla verità e, a farne le spese è in primo luogo la religione. Sempre meno troviamo forme tese a mostrare la fede come la risposta definitiva alla domanda di senso, mentre si moltiplicano le forme per evidenziare la non assurdità della fede; di rado vediamo presentare la fede come una radicale novità di vita che richiede la conversione, mentre ci si adagia sul fatto di un cristianesimo anonimo che tutti contiene senza nessuno disturbare; insomma, si preferisce sottacere le differenze, lasciare in ombra i conflitti, smussare gli spigoli. In breve, si ha paura di misurarsi fino in fondo con il problema della verità. La paura per la verità pervade spesso i nostri ragionamenti, obbligandoci a una sorta di strabismo:  nella sfera privata conveniamo sulla crisi del tempo presente, mentre in pubblico si preferisce vestire gli abiti più opportuni della tolleranza. Senza verità, però, la vita sarebbe relegata in uno spazio effimero e il rischio di un sopruso del violento sul debole sarebbe sempre all'erta. La verità si inserisce per sua stessa natura all'interno di uno spazio di umanizzazione che crea progresso e permette lo svolgimento coerente dell'esistenza personale. Se anche il sacerdote, malauguratamente, perdesse la passione per la verità, allora la sua azione pastorale come la sua predicazione sarebbero condannate all'insignificanza. (©L'Osservatore Romano - 9 giugno 2010)

 

 


 

6 Giugno 2010

 

«Nigra sum», una devozione mariana europea

 

Un millenario manto di devozione ha avvolto l’icona della Vergine col Bambino. Fino a farla splendere di una bruna bellezza: Nigra sum, sed formosa scandisce il Cantico dei cantici. Così sono nate le Madonne Nere che a centinaia costellano l’Europa guidando, nel corso dei secoli, la vita dei fedeli e il destino dei popoli.

Si è svolto fra il 20 e il 22 maggio a Oropa e a Crea, in Piemonte, un convegno internazionale su «Culti, santuari e immagini delle Madonne Nere d’Europa» con studiosi e rettori di santuari da tutto il continente. Un’occasione preziosa per ricostruire l’origine e le dinamiche di una storia complessa nei suoi aspetti devozionali e teologici, ma anche artistici, culturali, antropologici, e per offrire un primo censimento europeo on line – un work in progress che finora ha identificato 745 fra Madonne «nere» e «brune». Un’occasione, inoltre, per sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni. Il nero è «segno di una lunga devozione» in onore «di una immagine particolarmente miracolosa e quindi amata dai devoti: niente a che vedere né con le leggende esoteriche che sono state mobilitate per spiegare questo colore, né con la ricerca di legami con divinità femminili pagane», ha scritto su L’Osservatore romano di ieri la storica Lucetta Scaraffia, fra i relatori del convegno.

«Quelle che da secoli veneriamo come Madonne Nere in origine erano, di norma, rosate. L’impatto del tempo, delle condizioni ambientali e di conservazione, assieme al flusso dei devoti, hanno portato al successivo annerimento degli incarnati», spiega ad Avvenire Amilcare Barbero, direttore del Centro di documentazione dei Sacri Monti, organizzatore del convegno assieme alla Riserva del Sacro Monte di Oropa, all’Università Cattolica e ai Santuari di Oropa e di Crea.

Il fumo delle candele e delle lampade votive, certo: «ma anche il trattamento con olio di lino o con sostanze minerali. E il fatto che spesso quei simulacri siano rimasti per lungo tempo in luoghi come grotte o piccole cappelle, prima di essere ospitati in veri e propri santuari, sottoposti dunque all’umidità, alla polvere mossa dall’afflusso dei pellegrini e così via», prosegue Barbero. Il tempo e la devozione hanno scurito le Madonne: che con quell’incarnato sono poi rimaste nella devozione, nella memoria, nell’immaginario popolare, nelle copie che hanno replicato e diffuso le immagini.

Al convegno sono stati portati i risultati di un’indagine condotta on line da Emanuele Rolando fra il dicembre 2008 e l’aprile 2009, che ha schedato 740 Madonne Nere. Ulteriori segnalazioni, giunte nei giorni dei lavori a Oropa e Crea, hanno portato il numero a 745 (si veda la mappa a fianco).

«Dati e informazioni che verranno via via aggiornati e pubblicati sul sito www.nigrasum.it», anticipa Barbero. Evidente la grande diffusione continentale delle Madonne Nere, «da Montserrat, in Catalogna, a Loreto, Oropa, Crea, in Italia; da Einsiedeln, in Svizzera, a a Rocamadour in Francia, fino ad Altötting, in Germania, e a Czestochowa, in Polonia: spesso santuari mariani nazionali, sorgenti spirituali per interi popoli e per il loro cammino storico», aggiunge il direttore del Centro di documentazione dei Sacri Monti.

Il convegno internazionale ha permesso di sondare la diffusione del culto delle Madonne Nere europee anche nelle Americhe – si pensi alle Vergini di Czestochowa o di Guadalupe – e il rapporto fra devozione mariana ed emancipazione femminile. Molteplici i significati assegnati al colore nero nel corso dei secoli. «Nigra sum sed formosa: il riferimento biblico era importante ma non così diffuso come oggi – spiega a sua volta Claudio Bernardi, docente dell’Università Cattolica e membro del Comitato scientifico del Centro di documentazione dei Sacri Monti –. Nell’immaginario medievale il nero era il colore del negativo, del diabolico, delle tenebre.

Che la Madre di Dio fosse raffigurata come nera metteva in risalto la libertà e la forza della grazia divina. Il Verbo si fa carne grazie al sì di un essere due volte inferiore, marginale, secondo le categorie umane: una donna, una ragazza del popolo, e per di più "nigra"... Un’altra lettura: il colore scuro si riferisce all’Addolorata. Maria, sotto la croce, viene chiamata dal Figlio agonizzante a essere Madre della Chiesa, di tutti i credenti. Nel momento più tragico e buio la madre "dolente", "la scura", viene chiamata ad una nuova maternità spirituale».

Una maternità che – attingiamo nuovamente all’articolo di Scaraffia – verrà vissuta da tanti devoti nella millenaria storia cristiana come «difesa per i più deboli», che in Maria cercano «quella protezione che la società non garantisce», mentre il colore nero della Madre e del Bimbo dice la loro «alterità» e «umiltà». (Lorenzo Rosoli, Avvenire, 26 Maggio 2010

 

 


 

 

Santiago, via senza tempo

 

Fin dal I secolo d.C. sembra si fossero già affermate le tradizioni del pellegrinaggio cristiano sia a Gerusalemme dove (riprendendo e modificando il pellegrinaggio ebraico, la aliyah) si ricercavano le tracce della vita di Gesù, sia a Roma, ai sepolcri degli apostoli Pietro e Paolo. A queste due fondamentali mete, che subirono nel tempo vari momenti di eclisse in rapporto con le vicende politiche e socioeconomiche degli insicuri secoli V-VIII ma che non vennero mai abbandonate del tutto, le culture romano-barbariche aggiunsero nuovi santuari e nuovi culti. Cominciarono i franchi, con il loro centro sacrale di Tours dedicato a san Martino; seguì un proliferare, dalla fine dell’VIII secolo in poi – e con maggior forza nello scorcio compreso fra i secoli X e XI – di nuovi santuari, di nuovi culti, di nuovi miracoli. Già dai primi dell’VIII secolo abbiamo notizia del culto michelita di Mont-Saint-Michel, in un’isola presso la costa tra Normandia e Bretagna; in seguito a varie "translationes" o a diversi episodi miracolosi si radicarono più tardi quelli della Vergine a Le Puy e a Chartres, del Santo Sangue a Mantova e a Fécamp, di san Michele in Piemonte e sul Gargano in Puglia (in verità forse più antico di Mont-Saint-Michel e modello per esso), di san Marco a Venezia, di santa Maria Maddalena nei centri francesi della Sainte-Baume e di Vézelay, dei santi Pietro e Marcellino a Seligensadt, di san Nicola a Bari, di santa Fede a Conques, della Santa Tunica del Cristo ad Argenteuil, del Santo Sudario a Oviedo nella Spagna settentrionale, mentre si affermava anche il pellegrinaggio alla tomba di Carlomagno in Aquisgrana, che lo stesso imperatore Ottone III avrebbe compiuto nel fatidico Anno Mille.

Ma intanto, nel lontano nord-ovest della penisola iberica – presso la punta di Finisterre, considerata il punto più occidentale in cui il continente europeo si spingeva nelle acque dell’Atlantico oggetto di paurose leggende – un altro misterioso culto era sorto. La penisola iberica era ormai dall’VIII secolo in gran parte soggetta all’invasione arabo-berbera e a una larga islamizzazione. Sopravvivevano tuttavia non solo comunità cristiane locali che avevano adottato l’idioma arabo (i celebri "mozarabi"), ma anche, nella fascia settentrionale (la Navarra, le Asturie, il "paese cantabrico") alcuni piccoli regni cristiani indipendenti d’origine visigota, che resistevano all’invasione e all’egemonia dei "mori".

Il testo che ci tramanda i fondamenti storico-leggendari del pellegrinaggio a Santiago è uno scritto latino redatto all’incirca tra il quarto e l’ottavo decennio del XII secolo e attribuito, senza prove certe, a un "chierico vagante" chiamato Aimery Picaud.

Si tratta del "Liber sancti Iacobi", o "Liber Compostellanus": imponente e complessa testimonianza dello sforzo compiuto dal clero del santuario di san Giacomo Compostella per sostenere e promuovere il culto dell’apostolo ormai da un paio di secoli considerato il patrono della Spagna cristiana e al quale accorrevano – attraverso il Camino de Santiago, la cosiddetta Via Lattea – pellegrini da tutta la Cristianità. Ispiratore di quella raccolta di scritti fu il vescovo di Santiago, Diego Gelmirez, attorno alla metà del secolo XII. Di essa ci restano numerosi manoscritti, fra cui il più antico e noto è senza dubbio il "Codex calixtinus", conservato nella cattedrale compostelana. Il suo nome deriva da papa Callisto II, al quale il vero autore-compilatore del manoscritto ne attribuì la redazione, con l’evidente intento di accrescerne il credito. In realtà, il codice – impreziosito da numerose miniature di scuola anglonormanna – è il risultato di un lungo lavoro di ricerca e di raccolta e sembra essere il risultato della collaborazione tra vari autori-compilatori.

Il "Codex calistinus" è distinto in cinque libri di argomento e di estensione differente: il primo presenta la complessa e speciale liturgia seguita in Santiago in onore di san Giacomo; il secondo narra una raccolta di 22 episodi miracolosi, verificatosi con la mediazione dell’apostolo; il terzo propone varie versioni della narrazione della "translatio" delle reliquie iacopee dalla Terrasanta alla costa galiziana e alcune devozioni religiose popolari in suo onore; il quarto è in realtà una cronaca epica, il cosiddetto "Pseudo-Turpino", vale a dire l’Historia Turpini attribuita a quello che, secondo le leggende epiche, era il celebre vescovo-guerriero "cappellano" della spedizione di Carlomagno in Spagna nel 778, durante la quale appunto il bellicoso prelato sarebbe caduto martire insieme con i paladini Rolando ed Oliviero combattendo i mori (in realtà erano baschi cristiani) al passo pirenaico di Roncisvalle; il quinto è infine la famosa «guida del pellegrino di san Giacomo», autentico testo "classico" della letteratura odoeporica medievale.

Il "Codex calixtinus" è celebre, molto studiato e citato. Ne esiste anche una versione integrale in lingua italiana, che con il titolo di "Codice callistino" è uscita a cura del Centro Italiano di Studi Compostellani diretto dal professor Paolo Caucci von Saucken.

Stando al racconto che il "Codex" ha reso canonico, l’apostolo Giacomo "il Maggiore" avrebbe seguito il comandamento di Gesù di predicare il Vangelo su tutta la terra, scegliendo per sé il più remoto angolo di nord-ovest, la Galizia allora insediata da popolazioni celtiche di questo nome (i "galiziani", affini ai galati dell’Anatolia). Tornato in Palestina, sarebbe stato fatto decapitare – primo tra gli apostoli – dal re di Giudea Erode V Agrippa tra il 42 e il 44 d.C.: ma i discepoli Teodoro e Anastasio, decapitatone il corpo, lo posero in una barca che, arcanamente pilotata da un angelo, giunse fino al porto galiziano di Iria Flavia, estrema propaggine europea sull’Atlantico ("Finis Terrae").

Sepolto in un vicino bosco, dopo secoli di silenzio o addirittura di proibizione di venerarlo, il sepolcro dell’apostolo fu dimenticato fin a quando nell’813 un pastore di nome Pelayo lo scoprì seguendo la luce di una stella che splendeva su una plaga remota, appunto il "Campus Stellae", "Compostella". Teodomiro vescovo di Iria Flavia assisté all’"inventio", la scoperta della reliquia.

Restituito al culto cristiano in un periodo nel quale i regni iberici del nord, restati cristiani, cominciarono a coordinarsi per rispondere all’invasione dei musulmani arabo-berberi che avevano conquistato la penisola iberica un secolo prima, il corpo dell’apostolo venne legittimato come reliquia da papa Leone III su preghiera di Alfonso II "il Casto" re delle Asturie: la vittoria di Clavijo, una località della Rioja (centro-nord della Spagna) dov’ebbe luogo una battaglia durante la quale, il 23 maggio dell’844, san Giacomo apparve a cavallo biancovestito e adorno d’una rossa croce a forma di spada per sgominare i "mori", fu l’inizio del culto di colui che fu appunto chiamato "Santiago Matamoros".

Nel capoluogo di Santiago de Compostela, più volte attaccato e saccheggiato dai "mori", a partire dal 1075 si cominciò a costruire la splendida, immensa cattedrale romanica che, più volte ampliata e rinnovata, ancor oggi si ammira. Da Santiago prese il suo nome anche un celebre Ordine religioso-militare iberico. Il culto di Santiago si diffuse dopo la scoperta del nuovo continente in tutta l’America latina, dove rimane ancor oggi profondamente radicato nelle popolazioni nonostante l’offensiva anticlericale sette novecentesca e, negli ultimi anni, un’impressionante campagna di evangelizzazione protestante che, appoggiata da potenti mezzi economici statunitensi, nel solo Guatemala ha purtroppo sottratto alla Chiesa cattolica circa la metà dei fedeli. (Franco Cardini, Avvenire, 30 Maggio 2010)

 

 


 

 

L'ecclesiologia di “Communio” e il Vaticano II

 

Si è svolta a Venezia la riunione della rivista internazionale di teologia e cultura "Communio" fondata 38 anni fa da Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac e Joseph Ratzinger. L'evento ospitato dal cardinale patriaca di Venezia Angelo Scola si è aperto con un seminario sull'ecclesiologia della comunione. Pubblichiamo stralci di uno degli interventi e un breve resoconto della riunione.

È diventato comune nell'ecclesiologia adottare la formula "ecclesiologia di comunione" come espressione riassuntiva della visione della Chiesa proposta dall'ultimo concilio. Effettivamente la categoria di "comunione" è centrale nel Vaticano II e sintetizza bene il nucleo della sua visione ecclesiologica. Vanno però avanzate almeno tre precisazioni, che permettono di articolare meglio il contenuto di questa "comunione" e soprattutto di legarlo alla "missione".

Disponiamo oggi di due grandi ermeneutiche del Vaticano II, talvolta indicate con l'uso di binomi dialettici, come:  modello evangelizzatore o ritualista, paradigma democratico o autocratico, Chiesa carismatica o istituzionale, linea progressista o conservatrice, e così via. In effetti queste due impostazioni ermeneutiche, imperniate rispettivamente sull'idea della discontinuità e della continuità, presero avvio subito dopo la conclusione dell'assise conciliare, e vantano entrambe nomi  di  rilievo.  Benedetto XVI ha illustrato con chiarezza le due ermeneutiche - da lui definite "della discontinuità e della rottura" e "della riforma, del rinnovamento e della continuità" - nell'importante discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, dove ha preso nettamente posizione in favore della seconda. La prima ermeneutica "rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi:  solo essi rappresenterebbero il vero spirito del concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. In una parola:  occorrerebbe seguire non i testi del concilio, ma il suo spirito".

L'altra ermeneutica non nega affatto che nei grandi temi trattati dal concilio "poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi. E proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma".

L'ecclesiologia di comunione, dunque, ha soppiantato o integrato quella societaria? L'ha senza dubbio integrata. Per il Vaticano II continua a essere vero che la Chiesa è società, ma questo aspetto viene visto sotto la prospettiva della "comunione" e da essa completato e integrato. Infatti, sia la dimensione societaria che quella comunionale/comunitaria sono bene attestate nei documenti conciliari. Una quindicina sono le ricorrenze significative del linguaggio societario nei testi del Vaticano II. Un centinaio di volte viene utilizzato il linguaggio comunionale/comunitario. Tutti questi aspetti della comunione, se si vuole interpretare fedelmente il Vaticano II, vanno letti assieme:  ne deriva che la dimensione societaria fa parte essenziale e non accessoria della comunione così come il concilio l'ha voluta delineare; una comunione però fondata non solo sull'armonia orizzontale tra le componenti della Chiesa, ma sull'azione trinitaria, cristologica e sacramentale nella vita della Chiesa stessa.

La cosiddetta ecclesiologia societaria era già stata ridimensionata e integrata dalla Mystici corporis nella concezione teologicamente più ricca del "corpo mistico di Cristo", dove ritornava a essere posta in primo piano la presenza attuale e vivificante del Signore nella Chiesa. Il Vaticano II operò, a sua volta, un altro ridimensionamento e un'ulteriore integrazione, estendendo le radici teologiche della Chiesa all'intera storia salvifica. La Chiesa, per l'ultimo concilio, non è solo una società e neppure semplicemente il corpo mistico di Cristo, ma è frutto dell'opera trinitaria dalla creazione all'èschaton; la Chiesa è, come afferma la Lumen gentium citando san Cipriano, "un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (4).

La coestensione della Chiesa alla storia salvifica trinitaria si può esprimere con i concetti di mistero e di sacramento. Il primo concetto (Lumen gentium, 1) fa risaltare le dimensioni inimmaginabili della Chiesa, che non può dunque affatto essere guardata come semplice aggregazione umana o addirittura ridotta ad alcune pagine della sua storia; il secondo concetto mette in rilievo la compresenza e coessenzialità nella Chiesa di umano e divino (cfr. Lumen gentium, 8), trascendente e storico:  per cui la Chiesa conciliare non è uno spirito che sorvola la storia e la guarda dall'alto né, inversamente, una semplice società umana che si distingua dalle altre solo per il fatto che si ispira a Cristo. La sacramentalità della Chiesa, poi è continuamente alimentata e nutrita dall'Eucaristia, che la Lumen gentium al capitolo 11 considera come sacramento che "fa" la Chiesa e non solo come sacramento "celebrato" dalla Chiesa. La comunione ecclesiale, lungi dal ridursi ad armonia plico-affettiva, è il radicamento dei battezzati nell'opera trinitaria di raduno della Chiesa:  popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito. È prima di tutto l'adesione all'unica fede nella proclamazione della parola di Dio a rappresentare la radice della comunione ecclesiale (cfr. Dei verbum). Sono i sacramenti, poi, e in special modo l'Eucaristia a rinnovare, nutrire e ricostituire la comunione nella Chiesa (cfr. Sacrosanctum concilium e Lumen gentium, 11). L'assorbimento della categoria di "comunione" nel semplice "andare d'accordo" - molto utile, intendiamoci - ha ridotto la ricchezza teologica dell'ecclesiologia comunionale e ha favorito una prassi cristiana a volte troppo "intimista", rischiando di mettere in sordina l'altra grande dimensione della Chiesa conciliare:  la missione.

Non v'è dubbio che il Vaticano II abbia impostato un'ecclesiologia missionaria, superando decisamente due grandi riduzioni ereditate nel corso degli ultimi secoli. Una prima riduzione riguardava l'assorbimento della missione nelle "missioni", per cui solo chi partiva verso Paesi lontani veniva chiamato "missionario"; una seconda, consisteva nella convinzione che la missionarietà costituisse solo un momento episodico e passeggero della Chiesa che avrebbe avuto termine una volta cristianizzato tutto il mondo. Il Vaticano II supera entrambe le riduzioni, evidenziando la natura missionaria della Chiesa, fondata sulle stesse missioni trinitarie.

È stato proprio l'ultimo concilio a mettere in evidenza come la missione non sia semplicemente una delle attività della Chiesa, ma appartenga alla sua stessa natura. Se, anzi, dovessimo indicare quale delle due costituisca effettivamente la "novità" del concilio, dovremmo scegliere la missione:  l'idea di comunione infatti, pur con fondamenti diversi, strutturava anche l'ecclesiologia della Mystici corporis; ciò che invece rimaneva in sordina era proprio la coscienza di una Chiesa essenzialmente e interamente missionaria, esistente per gli uomini e non per se stessa.

Senza negare dunque l'importanza della comunione nell'ecclesiologia conciliare, si potrebbe però in modo altrettanto pertinente individuare un asse portante attorno al quale ruota tale ecclesiologia nell'idea di missione. Non che le due dimensioni contrastino:  l'una senza l'altra non avrebbe alcun senso, poiché la comunione senza la missione si ripiegherebbe nell'intimismo e la missione senza la comunione sfumerebbe nell'attivismo. La comunione, quindi, più che il "centro" dell'ecclesiologia è uno dei due fuochi dell'ellisse, poiché condivide con la missione la qualifica di asse portante della Chiesa. (Erio Castellucci, ©L'Osservatore Romano, 1 giugno 2010)

 

 


 

 

Gesù, gli uomini e l'Eucaristia: un destino preparato dall'eternità

 

Nell'imminenza della sua morte Gesù rende i suoi apostoli partecipi del suo corpo dato e del suo sangue sparso. Così, mangiando il pane da lui spezzato e bevendo al calice da lui benedetto, entrano già in comunione con il suo sacrificio. Ma quel gesto di Cristo dovrà essere rinnovato come suo memoriale: la cena del Signore (1 Corinzi, 12, 20) è destinata ad accompagnare la vita dei discepoli. Gesù la annette alla Chiesa, designata così a condividere il suo destino consumato sulla croce, e a interiorizzare, e quasi a inghiottire, la sua immolazione.

Leggiamo Paolo: "Il Signore Gesù, nella notte in cui era consegnato, prese del pane e, reso grazie, lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, quello per voi. Fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, prese anche il calice, dopo aver cenato, dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me"" (1 Corinzi, 11, 23-25). E, infatti, da subito i cristiani celebrarono quella cena, nella consapevolezza che essa era per loro irrinunciabile.

Ma qual è la ragione di questa annessione dell'Eucaristia alla Chiesa? Tale ragione appare pienamente alla luce del disegno divino, che include l'eterna predestinazione del Figlio di Dio crocifisso e glorificato. Il sacrificio di Cristo non è un episodio fortuito e inatteso, o ultimamente derivante dalla volontà dell'uomo.

A rimproverare la stoltezza dei discepoli di Emmaus e la lentezza del loro cuore a credere alle profezie è lo stesso Gesù: "Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (Luca, 24, 26-27). Quanto a Pietro, negli Atti degli Apostoli afferma che Gesù di Nazaret è stato consegnato agli uomini d'Israele "secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio", che "lo ha risuscitato" (cfr. 2, 23-24). Nell'eterno piano divino è, dunque, contenuto il Figlio di Dio predestinato redentore.

In verità, noi non sappiamo la ragione di questo progetto che comporta l'umanità crocifissa e gloriosa di Gesù: essa appartiene all'insondabile mistero del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Si dirà che la scelta divina deriva dal peccato dell'uomo e si sa che i teologi si sono chiesti che cosa avrebbe fatto Dio se l'uomo non avesse peccato. Senonché, la domanda è semplicemente improponibile, poiché l'agire di Dio non può in alcun modo dipendere dalla determinazione di una sua creatura.

Possiamo invece riconoscere - evitando di addentrarci nelle sterili vie delle ipotesi - tre cose. La prima: che l'attuale ordine voluto da Dio contiene certamente la dimensione del peccato proveniente dalla libertà dell'uomo (e dell'angelo). La seconda: che questo peccato non solo non fu capace di far fallire il piano divino, ma era, in ogni caso, "preceduto" dall'amore misericordioso. E la terza cosa:  che quell'amore si è sommamente manifestato nel sacrificio di Gesù. Secondo la prima lettera di Pietro noi siamo stati liberati dal "sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia", che "fu predestinato già prima della creazione del mondo" (1 Pietro, 1, 19-20).

Questo amore misericordioso è la ragione assoluta e il "principio" del disegno creativo: Dio crea per rivelarsi come grazia. E la "grazia" originaria è l'umanità risorta e glorificata del Figlio. Detto in altre parole: il motivo della creazione è il Redentore, o il Crocifisso risorto. Non è, allora, a partire dal peccato che si capisce la redenzione; al contrario, è a partire dalla redenzione che si può "comprendere" il peccato, che trova in lui, "preventivamente", la sovrabbondanza del perdono.

Ecco perché Gesù appare segnato dalla predestinazione alla passione. Egli viene tra noi per essere "vittima di espiazione per i nostri peccati" (1 Giovanni, 2, 2). La sua umanità porta iscritta la morte redentiva quale condizione ed espressione della sua riuscita. Questa morte non equivale alla sua disfatta né suggella il fallimento del piano di Dio, ma, paradossalmente, ne costituisce e ne proclama il successo e l'esaltazione. L'"innalzamento" di Gesù avvera la sua gloria e lo pone nel cuore dell'umanità e di tutto l'universo (cfr. Giovanni, 12, 32).

Scrive san Tommaso:  "Dio ama Cristo non solo più di tutto il genere umano, ma anche più di tutte le creature dell'universo. Né l'eccellenza di Cristo venne meno per il fatto che lo abbia destinato alla morte per la salvezza del genere umano. Che anzi, per questo egli è diventato un vincitore glorioso" (Summa Theologiae, i, 20, 4, 1m).

Ora, nel cenacolo Gesù istituisce l'Eucaristia perché in essa incessantemente possiamo ritrovare l'umanità crocifissa e gloriosa del Signore. Essa è, così, il sacramento del destino del Figlio di Dio, o la presenza reale dell'iniziale disegno di Dio, avveratosi sulla croce e nella risurrezione, e incessantemente professato e donato alla memoria e all'accoglienza della Chiesa, "finché egli venga" (1 Corinzi, 11, 26).

Ma l'Eucaristia, proponendo la morte e la risurrezione di Gesù, per ciò stesso disvela il destino di morte e di risurrezione che è incluso in ogni uomo.

L'umanità crocifissa e gloriosa di Gesù è l'archetipo esclusivo e imprescindibile di qualsiasi umanità. Tutto è stato creato "per mezzo" del Risorto da morte, "in lui" e "in vista di lui" (cfr. Colossesi, 1, 16). Da qui l'impronta del Crocifisso glorificato particolarmente nell'uomo.

Il Risorto da morte è stato scelto, "prima della creazione del mondo" (Efesini, 1, 4), quale "Primogenito tra molti fratelli" (Romani, 8, 29). Gli uomini - secondo un'espressione particolarmente felice - sono stati "compredestinati" o "impredestinati" in lui, e perciò con la vocazione a rinnovare in se stessi le vicissitudini del Crocifisso o a portare nella propria esistenza la sua immagine.

A partire dal Signore paziente trova inizio e significato la passione di ogni uomo, come comunione alla sua croce. A partire da lui risorto traspare l'esito e il traguardo di ogni morte. Nessun uomo è ideato da Dio ed è chiamato a vivere, se non perché, bevendo al calice del Figlio, rifulga eternamente di uno splendore simile al suo.

Paolo interpreta il battesimo come un essere "intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte", in vista della "somiglianza della sua risurrezione" (cfr. Romani, 6, 1-11). Il cristiano, in solidarietà con Cristo, è ordinato a condurre un genere di vita che è di con-morte e di con-risurrezione con lui, in cui si rifletta la stessa sorte del Signore, col quale "ci ha risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli" (Efesini, 2, 6). In ogni sofferenza, anche di là dalla coscienza che se ne possa avere, si rinnova e si riproduce oggettivamente il Calvario di Gesù, proteso verso il compimento pasquale: in ogni dolore e morte umana è seminato il germe della gloria del Signore.

In altre parole: l'uomo viene alla luce "nativamente" designato a replicare la condizione di Cristo, e quindi a mettersi assolutamente nelle mani al Padre, come lui, quando, nell'estremo della desolazione, gli "offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime" (Ebrei, 5, 7), puramente e totalmente sostenuto dalla indubitabile speranza che, lo avrebbe esaudito, come avvenne nella risurrezione.

D'altronde, non può sorprendere che questo destino sia ìnsito in ogni uomo, se, come abbiamo visto, l'umanità incondizionatamente eletta da Dio fin dall'eternità è l'umanità del Figlio risorto, la sola riconosciuta e la sola oggetto della sua piena compiacenza.

E ora siamo in grado di comprendere in pienezza la ragione dell'Eucaristia. Essa appare istituita e trasmessa alla Chiesa non soltanto come immagine sacramentale e presenza reale della passione e della morte, cioè della "sorte", di Gesù, ma anche come l'icona della sorte di tutti gli uomini concepiti a similitudine di lui, che estende a essi la sua predestinazione.

Come nell'Eucaristia leggiamo la sorte del Figlio di Dio, così vi decifriamo la nostra vocazione a prender parte alla donazione del corpo e all'effusione del sangue, per diventare "consorti" del Signore.

La Chiesa celebra la Cena del Signore non solo per tenere "fisso lo sguardo su Gesù, che si sottopose alla croce e siede alla destra del trono di Dio" (cfr. Ebrei, 12, 2), ma per percorrere il suo cammino, trasformando la contemplazione in imitazione.

Quello, però, che abbiamo detto sul disegno di Dio, sulla scelta eterna del Redentore, sull'umanità voluta a lui conforme, e sull'Eucaristia sacramento del destino di Cristo e dell'uomo, può essere conosciuto solo alla luce della Rivelazione e quindi unicamente per fede.

La ragione è all'oscuro di tutto questo e infatti rimane allibita e sconcertata di fronte alla passione che segna fatalmente la vita dell'uomo: resta senza parole specialmente di fronte all'interrogativo sulla sorte finale dell'uomo.

Ne consegue l'urgenza per la Chiesa di predicare il "vangelo" o la "buona novella", però osservando che Dio in ogni modo e da sempre si prende cura di ogni uomo, e che nessuno mai fu lasciato in stato di abbandono, privo dall'amore del Padre e sprovveduto della grazia di Cristo. Tutti gli uomini, fin dall'eternità, sono stati voluti in questa grazia e nessuno è mai caduto dalla "memoria" di Dio, che è Gesù Cristo. Certo, lui solo conosce per quali vie ogni uomo incontri il Figlio redentore. (Inos Biffi, ©L'Osservatore Romano, 3 giugno 2010)

 

 


 

 

Cipro: l'isola di Barnaba

 

I cristiani, ancora in età apostolica, in seguito alla persecuzione seguita al martirio di Stefano, si rifugiarono nell'isola di Cipro, dove era una fiorente comunità giudaica (Flavio Giuseppe, Antiquitates Judaicae, 16, 129). Da Cipro proveniva Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa "figlio dell'esortazione", un levita giudeo ed ellenista, appartenente alla famiglia della tribù di Levi, il quale appare, per la prima volta, nello scenario movimentato descritto dagli Atti degli Apostoli (4, 36), in quanto padrone di un campo, che vendette per donare il ricavato agli apostoli.

Le prime gesta di Barnaba sono legate a Paolo, il quale fu accreditato presso gli apostoli, che in un primo tempo lo temevano, proprio dal levita di Cipro, che prese con sé l'apostolo delle genti e lo presentò alla comunità di Gerusalemme, raccontando come, durante il viaggio, che avevano fatto insieme, il Signore gli aveva parlato, come era successo sulla via di Damasco (Atti, 9, 26-27).

Nel primo viaggio missionario, che deve essersi svolto tra il 44 e il 49, Barnaba, in compagnia di Paolo e di Marco, evangelizza proprio l'isola di Cipro, percorrendola da Salamina a Paphos, dove risiedeva il proconsole Sergio Paolo, alla cui presenza si svolse una disputa, narrata dettagliatamente dagli Atti degli Apostoli: "Giunti a Salamina, cominciarono ad annunziare la parola di Dio nelle sinagoghe dei giudei, avendo con loro anche Giovanni come aiutante. Attraversata tutta l'isola fino a Paphos, vi trovarono un tale mago e falso profeta giudeo di nome Bar-Jesus, al seguito del proconsole Sergio Paolo, persona assai saggia, che aveva fatto chiamare a sé Barnaba e Saulo e desiderava ascoltare la parola di Dio. Ma Elimas, il mago - ciò, infatti, significa il suo nome - faceva loro opposizione, cercando di distogliere il proconsole dalla fede. Allora Saulo fissò gli occhi su di lui e disse: "O uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia, figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia, quando cesserai di sconvolgere le vie diritte del Signore? Ecco, la mano del Signore è sopra di te: sarai cieco e per un certo tempo non vedrai il sole". Di colpo piombarono su di lui oscurità e tenebre e, brancolando, cercava chi lo guidasse per mano. Quando vide l'accaduto il proconsole credette" (Atti, 13, 4-12).

In occasione del secondo viaggio paolino, che si svolse tra il 49 e il 52, Barnaba espresse il desiderio di farsi accompagnare da Giovanni Marco, contro il parere di Paolo. Fu così che Barnaba si separò da Paolo, imbarcandosi per Cipro insieme al cugino (Atti, 15, 37). Il distacco deve forse essere legato al cosiddetto "incidente di Antiochia" (Galati, 2, 11-13), da riferire al delicato problema dell'osservanza della circoncisione.

Dopo queste rapide notizie relative all'età apostolica, le certezze storiche diventano più rare, anche se pare probabile che, al tempo di Diocleziano, alcuni cristiani palestinesi furono esiliati a Cipro, mentre è sicuro che i vescovi Cirillo di Paphos, Gelasio di Salamina e Spiridione di Tremithos parteciparono al primo concilio di Nicea del 325. Anche se, quasi vent'anni dopo, al concilio di Sardica, il numero dei vescovi ciprioti sale a dodici, il paganesimo è ancora molto vivace nell'isola, come dimostrano i rinvenimenti archeologici effettuati a Paphos, relativi ad abitazioni riferibili al pieno quarto secolo, con decorazioni pavimentali musive , che accolgono i miti di Dioniso, Apollo, Marsia, Teti e Peleo.

Il presunto passaggio per Cipro di Elena, che tornava dalla Terra Santa, sembra aver innescato un processo di cristianizzazione dell'isola, che, secondo gli studiosi, dovette manifestarsi con la costruzione di un discreto numero di chiese, che si incrementerà per la presenza del vescovo Epifanio di Salamina, che, nel 403, fu sepolto in una basilica ancora incompiuta, con il permesso dell'imperatore Arcadio. La basilica era organizzata in sette navate, munita di atrio ed era lunga oltre sessanta metri; l'arredo, che comportava colonne e capitelli finemente lavorati, fu eseguito in loco da maestranze autoctone e in pietra locale.

Ma la basilica più importante, forse concepita ancora nel quarto secolo, ma definita nel corso del quinto, è quella di Santa Ciriaca Chrysopolitissa a Paphos, che dovette rivestire il ruolo di cattedrale. Anche questo monumentale edificio di culto - dove si fermerà in preghiera il Papa - si sviluppava in sette navate, anche se oggi è stata molto ridimensionata. Gli archeologi e i visitatori possono ancora ammirare i molti materiali dell'arredo liturgico del sontuoso edificio di culto e, segnatamente, le colonne in granito, i capitelli corinzi in marmo, la pavimentazione musiva, che presenta motivi geometrici e zoomorfi, tra i quali emerge il tema battesimale dei cervi al fonte, in riferimento al salmo 42, ma anche un tralcio di vite, commentato dalle parole del vangelo di Giovanni, che recita: "Io sono la vera vite" (15, 1).

Tra il quinto e il sesto secolo fu costruito un importante complesso basilicale a Kourion: si tratta di una chiesa a tre navate, fornita di catechumèneia, diakònikon e palazzo episcopale. La basilica presenta un pavimento in mosaico e in opus sectile, mentre della decorazione parietale rimangono piccoli frammenti musivi relativi a una teoria di santi e di angeli. Il complesso comprendeva anche un battistero monumentale a pianta basilicale, sontuosamente decorato con transenne e plutei marmorei.

L'isola - come si diceva - è costellata di chiese paleocristiane e bizantine: da quella dell'acropoli di Amanthous a quella di Campanopetra a Salamina; da quella di Ayios Yeoryos a Peja presso Paphos a quella di Panaya Angeloktisos a Kiti, che mantiene ancora il mosaico parietale con Maria e il Cristo tra due arcangeli.

Nei musei dell'isola si conservano anche molti materiali archeologici provenienti dai diversi siti paleocristiani, a cominciare da un frammento del bordo di una mensa marmorea istoriata con il sacrificio di Isacco e riferibile a una bottega costantinopolitana attiva in età teodosiana. Preziosissimi risultano gli undici piatti argentei, con marchi che li datano al 613 e al 630, decorati a rilievo con scene ispirate alla vita di Davide.

Tutti questi materiali, ma anche un cospicuo numero di lucerne e di altro vasellame ceramico tardoantico dimostrano il ruolo dell'isola come crocevia di culture, religioni, genti e traffici mercantili. L'incontro delle culture permise, comunque, al cristianesimo di innestarsi naturalmente in un sostrato sociale composito, ma aperto ad accogliere la nuova religione, che produsse un sistema di evangelizzazione precoce, che risale - come abbiamo rilevato in apertura - all'età apostolica, ma che cresce e si sviluppa tra il quarto e il quinto secolo, trovando il suo apice in età bizantina, quando l'isola diverrà una vera e propria nebulosa di edifici basilicali complessi, sontuosamente decorati, estremamente articolati, denunciando l'attività e la presenza di una committenza ecclesiastica e privata elevatissima, sia dal punto di vista culturale, sia per quanto attiene il livello del potenziale economico. (Fabrizio Bisconti, ©L'Osservatore Romano, 3 giugno 2010)

 

 


 

30 Maggio 2010

 

I risvolti negativi della fecondazione in vitro

 

L’opposizione della Chiesa cattolica alla fecondazione in vitro (FIV) è ben nota, ma recentemente alcune di queste pratiche sono oggetto di critiche anche da parte di osservatori laici.

Sul New York Times del 10 maggio è apparso un articolo sulla questione dell’acquisto di ovuli da parte delle coppie. Nell’articolo si cita una recente pubblicazione di una rivista di bioetica, The Hastings Center Report, secondo la quale i pagamenti alle giovani donne avvengono al di là della regolamentazione del settore.

Lo studio, di Aaron Levine, docente di public policy presso il Georgia Institute of Technology, ha rivelato che su 100 annunci di acquisto di ovuli, pubblicati su giornali universitari, 25 andavano oltre il limite dei 10.000 dollari stabilito autonomamente dalla American Society for Reproductive Medicine.

I pagamenti più elevati erano offerti alle donne di università prestigiose e a quelle con curricula accademici superiori alla media. Secondo il New York Times, nel 2006 quasi 10.000 bambini sono nati da ovuli donati: circa il doppio rispetto al 2000.

L’articolo ha anche sollevato preoccupazioni per la salute delle donatrici, soprattutto perché le giovani donne potrebbero non essere consapevoli della gravità di alcuni effetti collaterali.

I rischi per la salute sono stati illustrati in un articolo pubblicato il 3 marzo su LifeNews.com. L’autrice, Jennifer Lahl, presidente del Center for Bioethics and Culture Network, ha invitato le donne a rivedere l’eventuale idea di donare i propri ovuli.

I rischi

Tra i possibili rischi per la salute figurano infarto, danni agli organi, infezione, cancro e perdita di fertilità, sostiene la Lahl.

L’autrice ha anche sostenuto che la donazione di ovuli non è assimilabile alla donazione di organi. In quest’ultima, infatti, il donatore si assume dei rischi al fine di salvare una persona malata o morente. Per contro, il destinatario di una donazione di ovuli non è malato, ma un consumatore che acquista un prodotto.

“La società giustamente condanna la vendita e il pagamento degli organi al fine di prevenire gli abusi e tutelare la vita, mentre il pagamento di ingenti somme come compenso monetario per le donatrici di ovuli le esporrebbe allo sfruttamento a causa della loro necessità di denaro”, ha affermato la Lahl.

Non sono solo le donne universitarie a cui viene proposto l’acquisto degli ovuli.

Lo scorso anno, ad una conferenza sulla fecondazione, la professoressa Naomi Pfeffer ha avvertito del fatto che le donne di Paesi poveri vengono sfruttate in una sorta di prostituzione da parte di occidentali che vogliono disperatamente avere bambini, secondo il quotidiano Times del 19 settembre.

“Il rapporto di scambio è analogo a quello di un cliente con una prostituta”, ha affermato. “È una situazione particolare perché è l’unico caso in cui una donna sfrutta il corpo di un’altra donna”, ha osservato la Pfeffer.

Surrogazione

Un’altra pratica oggetto di critiche è quella delle madri surrogate. L’India è una destinazione rinomata per le coppie occidentali in cerca di donne che possano portare in grembo i loro figli. Un motivo di questa diffusione è la mancanza di leggi che ne regolino le procedure, cosa che è stata evidenziata in un articolo del quotidiano Times of India dell’11 maggio.

L’articolo ha riferito come, per la terza volta nell’ultimo anno e mezzo, i figli nati da madri surrogate indiane abbiano dovuto affrontare ostacoli nel riconoscimento legale nei Paesi di origine dei loro genitori genetici.

I casi precedenti riguardavano quello di un bambino di una coppia giapponese, che ha richiesto sei mesi per risolversi, e quello di una coppia tedesca che ha dovuto attendere mesi per ottenere la cittadinanza del proprio figlio nato da una donna indiana. L’ultimo caso è quello di una coppia omosessuale israeliana che sta cercando di ottenere la cittadinanza per il suo bimbo di due mesi.

L’articolo ha citato esperti, secondo cui tali problemi non sorgerebbero se il disegno di legge che è stato discusso negli ultimi cinque mesi fosse approvato.

La situazione delle madri surrogate indiane è stato esaminato in modo approfondito in un articolo del Sunday Times pubblicato il 9 maggio. Secondo l’articolo, nell'Akanksha Infertility Clinic della città di Anand, gestita dalla dottoressa Navana Patel e dal marito Hitesh, dal 2003 167 donne hanno dato luce a 216 bambini, con altre 50 madri surrogate attualmente in stato di gravidanza.

Le coppie pagano più di 14.000 sterline (16.200 euro), di cui circa un terzo va alle madri surrogate. Le donne provengono spesso da una casta inferiore di un villaggio povero e l’ammontare che ricevono equivale a circa 10 anni di salario, secondo il Sunday Times.

L’articolo ha anche spiegato che alla clinica di Anand, una volta che le madri surrogate sono incinte, devono vivere confinate per l’intera durata della loro gravidanza, potendo allontanarsi solo per i controlli medici. I loro mariti e i figli sono autorizzati a visitarle solo la domenica. Il Sunday Times ha riferito dell’angoscia che le donne provano nell’essere separate dai propri figli e del dolore che devono affrontare al momento di consegnare il loro figlio surrogato.

Il 26 aprile, un articolo pubblicato dal quotidiano Toronto Star ha sollevato alcune questioni relative alla situazione in India. In un caso, una coppia canadese ha pagato una madre surrogata in India, ma quando le autorità canadesi hanno richiesto l’effettuazione di test sul DNA, è risultato che i gemelli erano figli di un’altra coppia sconosciuta. I bambini saranno ora probabilmente assegnati a un orfanotrofio.

Problemi legali

Al di là delle preoccupazioni sullo sfruttamento delle donne, la diffusione della surrogazione sta provocando complessi problemi legali. Il Wall Street Journal ha affrontato alcune di tali questioni in un servizio del 15 gennaio.

Negli Stati Uniti, otto Stati hanno approvato leggi che vietano tutte o alcune delle procedure di surrogazione. In altri Stati i tribunali si sono rifiutati di considerare efficaci i contratti di surrogazione, mentre in 10 Stati sono state approvate leggi che autorizzano questa pratica.

Alcune dispute riguardano visioni diverse sui diritti da riconoscere alla madre surrogata, ha spiegato il Wall Street Journal. In una decisione dello scorso dicembre, il giudice del New Jersey Francis Schultz ha decretato che, nonostante la firma di un accordo di rinuncia dei diritti genitoriali, la madre surrogata Angelina Robinson mantiene comunque tali diritti in relazione al bambino che ha portato in grembo per conto di una coppia omosessuale, Donald Robinson Hollingsworth e Sean Hollingsworth. Peraltro, la Robinson è la sorella di Donald Hollingsworth.

Un'altra complicazione è emersa, poco tempo dopo, da un articolo apparso il 26 gennaio sul New York Times che ha posto la questione se un bambino possa avere tre genitori biologici.

Da recenti esperimenti sulle scimmie, alcuni scienziati ne hanno fatto nascere alcune con un padre e due madri, riuscendo a combinare materiale genetico proveniente dagli ovuli di due femmine. Se questo fosse applicato agli uomini complicherebbe ulteriormente la questione della surrogazione, ha affermato l’articolo.

Vita e amore

L’uso di madri surrogate e di terze persone nella fecondazione in vitro sono oggetto di un documento pubblicato lo scorso novembre dalla Conferenza Episcopale degli Stati Uniti.

Nel documento, dal titolo “Life-Giving Love in an Age of Technology”, i Vescovi simpatizzano con le coppie che soffrono a causa di problemi di fertilità, ma affermano che non tutte le soluzioni rispettano la dignità del rapporto sponsale tra due persone. Il fine non giustifica i mezzi, e alcune tecniche di riproduzione non sono moralmente legittime, affermano.

Occorre resistere alla tentazione di avere un figlio come prodotto della tecnologia, secondo il documento. “Gli stessi figli potrebbero essere visti come prodotti della nostra tecnologia, persino come beni di consumo che i genitori hanno acquistato e che hanno il ‘diritto’ di avere, e non come persone eguali in dignità ai loro genitori e destinate alla felicità eterna in Dio”, sottolineano i Vescovi.

L’introduzione di persone terze attraverso l’uso di ovuli o di sperma di donatori o attraverso la surrogazione, inoltre, viola l’integrità del rapporto sponsale, così come sarebbe violato da relazioni sessuali extramatrimoniali.

“Le cliniche per la fertilità dimostrano disprezzo per le gli uomini e le donne, trattandoli come materia prima, quando gli offrono ingenti somme di denaro per il loro sperma o per i loro ovuli, in funzione delle loro specifiche caratteristiche intellettuali, fisiche o caratteriali”, aggiunge il documento.

I Vescovi osservano inoltre che questi incentivi pecuniari possono indurre le donne a mettere a rischio la propria salute attraverso le procedure di estrazione degli ovuli. Esistono quindi molte buone ragioni per nutrire seri dubbi sulla fecondazione in vitro. (padre John Flynn, L.C., Zenit, 23 maggio 2010)

 

 


 

 

La "rivoluzione" di Benedetto che cambia il volto della Chiesa

 

«Il vero nemico da temere e da combattere - ha detto Benedetto XVI - è il peccato, il male spirituale, che a volte, purtroppo, contagia anche i membri della Chiesa». Lo aveva detto anche in Portogallo.

Sì, ma c’è il rischio che non capiamo la preoccupazione del Papa. Vale anche per quelli che sono più sensibili e più affezionati alla sua persona, e mi riferisco all’editoriale di Giuliano Ferrara sul Foglio, in cui ha detto - con «autoironia» e affetto - che il Papa è «fuori linea». Dal suo punto di vista ha ragione, perché di fronte alla vicenda drammatica della pedofilia Benedetto XVI non si è messo a difendere la Chiesa dagli attacchi, anche se noi tutti avremmo avuto buoni argomenti per farlo.

Allora cos’è secondo lei che rischia di sfuggirci?

Il Papa non si è messo a denunciare il complotto. Anzi: Benedetto XVI è convinto che gli attacchi della stampa siano stati quasi una via usata da Dio per purificare il suo popolo. Ha cercato e sta cercando di far capire che la Chiesa non è un partito che ha bisogno di aver ragione, un’associazione umana che tiene innanzitutto a provare la bontà dei suoi membri. Quella del Papa è un’umiltà che difficilmente qualcun altro, dopo un secolo di orrori umani e politici, si può permettere come lui.

Cosa c’è alla base di questo atteggiamento di Benedetto XVI?

Questo Papa, proprio come Giovanni Paolo II, ha potuto chiedere perdono perché ha fede. Lo ha fatto capire nello scandalo pedofilia. La Chiesa non è una cosca mafiosa che ha bisogno di omertà: bisogna dire la verità sempre, anche quando è scomoda, imbarazzante o addirittura umiliante. Anche se ci fosse stato un solo caso di pedofilia, Benedetto XVI avrebbe pianto con le vittime e avrebbe confessato la verità.

Una scelta, insomma, in cui certo mondo cattolico (o simpatizzante) vede una resa delle armi.

La sfida si gioca non fuori, ma dentro il mondo cattolico. La condotta di certi vescovi su vicende di pedofilia negli anni passati, in cui hanno agito con buona intenzione ma decidendo di lavare i panni sporchi in famiglia, il Papa l’ha stigmatizzata. Non soltanto perché non è giusto nei confronti delle vittime, ma anche perché denota una concezione della Chiesa che manca di fede: sembra che la Chiesa per stare in piedi abbia bisogno della nostra menzogna. Ma Dio - ci fa capire il Papa - è più grande del cumulo di peccati che noi portiamo dentro la Chiesa. Dio non ha bisogno delle nostre menzogne, ma del nostro attaccamento alla verità e della nostra conversione. Con questa umiltà il Papa ha vinto gli attacchi e anche giornali che lo hanno attaccato, come il New York Times, lo hanno riconosciuto.

Il viaggio in Portogallo e gli scandali hanno riproposto in modo inevitabile il problema dell’interpretazione del terzo segreto di Fatima. La profezia, ha detto il Papa, non si riferisce al passato: essa non è conclusa. Che cosa implica questo per il modo di concepire la fede?

Non direi che il collegamento era inevitabile. È stato il Papa, dopo questi mesi di sofferenza, a decidere di andare a Fatima per affidare la Chiesa nelle mani della Madonna. Ed è stato molto importante che in uno dei suoi principali discorsi abbia criticato l’eccesso di attenzione che c’è nella Chiesa per le strutture, l’organizzazione, il fare. Conta non il fare ma la fede, e riaffermarlo è sempre una rivoluzione perché da decenni viviamo in un mondo cattolico tutto ripiegato sui piani pastorali. Viene meno, di conseguenza, la percezione che è un Altro che fa la storia. Il Papa ha riorientato lo sguardo che dovremmo avere noi cristiani, soprattutto nel momento delle prove più difficili che ci vengono e che ci verranno richieste.

La Chiesa deve «ri-imparare la penitenza» e «accettare la purificazione», ha detto Benedetto XVI, aggiungendo che «il perdono non sostituisce la giustizia». Cosa vuol dire questo oggi per la Chiesa?

Il Papa ha corretto senza indugio quello che è stato un atteggiamento di moltissimi vescovi per decenni, che ha finito per non dare giustizia alle vittime e per esporre altri giovani agli abusi. Chi si macchia di questi delitti deve risponderne davanti alla giustizia di Dio e davanti a quella degli uomini. Ma la rivoluzione del Papa sta in una profonda de-clericalizzazione della Chiesa.

Il centro della Chiesa cioè non e il clero, ma Gesù Cristo.

Sì. E chi è chiamato ad un ministero nella Chiesa è un servo. Il Papa ha di mira l’atteggiamento tipico di un’ampia parte del ceto ecclesiastico, troppo incline a «proteggere» se stesso convinto - così facendo - di mettere al riparo il messaggio cristiano. È una difesa che troppo spesso non si vede scattare quando sono messe in discussione le verità di fede... Il clericalismo purtroppo è una malattia vistosa nella Chiesa cattolica odierna ed è trasversale, da «destra» a «sinistra».

A proposito della crisi europea Benedetto XVI ha accusato «un dualismo falso», quello di un positivismo economico che pensa di potersi realizzare senza la componente etica, che invece è «interna alla razionalità e al pragmatismo economico». Che ne pensa?

Da cardinale, Joseph Ratzinger aveva pubblicato un saggio in cui diceva che il principio di Adam Smith per cui ognuno perseguendo il proprio egoistico interesse automaticamente fa il bene comune, era altrettanto ideologico dell’ideologia marxista, perché lega il bene comune ad un meccanismo e non alla libertà. Il disastro finanziario del 2008 e le sue conseguenze di oggi confermano in modo drammatico quello che il Papa aveva previsto, cioè che il positivismo economico in qualche modo può essere accostato al disastro del comunismo. Della libertà umana, con il suo dramma di bene e di male, non si può fare a meno.

Secondo un recente rapporto Demos «il 62 per cento degli italiani considera inadeguata la risposta della Chiesa di fronte agli episodi di pedofilia» e scende ai minimi la fiducia nel Papa, colpito da un «calo di credibilità». Lo ha scritto lunedì su Repubblica Ilvo Diamanti.

Non mi pare che si debba dare troppa importanza a questo tipo di sondaggi. A dire il vero poi il Regina coeli di domenica sembra dimostrare il contrario. I veri fattori in gioco sono un Papa che ha dato una risposta sorprendente, sia per gli avversari ma anche all’interno della Chiesa, dove si fa fatica a capire che l’umiltà e la debolezza sono in realtà una forza. Il problema è sempre la fede: quando essa è affievolita, si ha bisogno di garantirsi delle certezze storiche in maniera diversa. Ecco perché molta gente comune secondo me è rimasta disorientata. (Antonio Socci, Il sussidiario.net, 19 maggio 2010)

 

 


 

 

Hanno fatto un abile «puzzle» e lo chiamano nuova vita

 

Non è una sfida a Dio l’ultimo risultato ottenuto da Craig Venter e dalla sua équipe, ma una sofisticata operazione tecnologica, un “copia, incolla e metti la firma”: non è una creazione dal nulla, piuttosto sono state sapientemente assemblate sequenze di Dna già esistenti in natura, e riprodotte in laboratorio, insieme a qualche sequenza disegnata per “marcare” il genoma ottenuto e distinguerlo dall’originale naturale, una specie di “firma” degli scienziati inserita nel Dna stesso. Il Dna così prodotto in laboratorio è stato poi sostituito a quello di una cellula naturale, che è stata in grado di replicarsi grazie al nuovo patrimonio genetico, cioè seguendo gli “ordini” del Dna sintetico.

Per produrre il genoma in laboratorio non sono stati utilizzati nuovi aminoacidi. I “mattoni” con cui è stato costruito questo Dna sono quelli di sempre, e quindi parlare di «creazione di una nuova vita artificiale» è quanto meno ambiguo, visto che il cromosoma è copiato da quello naturale, e che anche la cellula che ha ospitato il Dna è naturale. D’altra parte ogni organismo geneticamente modificato può essere considerato una «nuova vita artificiale» che si affaccia sul pianeta, con un patrimonio genetico diverso da quelli già esistenti.

In altre parole, i ricercatori del gruppo di Venter hanno composto con grande abilità un enorme puzzle, utilizzando i pezzi già messi a disposizione dalla natura, per realizzare un disegno pressoché identico a quello già tracciato naturalmente. Non sappiamo ancora a quali risultati porterà la nuova procedura tecnica messa a punto: la produzione di biocarburanti piuttosto che importanti applicazioni biomediche. Lo vedremo nel tempo. Per ora, i problemi che pone sono analoghi a quelli di ogni ogm: la valutazione dell’eventuale impatto con l’ambiente naturale, le possibili ripercussioni sulla regolamentazione dei brevetti e sul mercato biotecnologico.

Nell’articolo scientifico pubblicato è evidente la profonda capacità manipolatoria raggiunta dagli scienziati, che li fa parlare addirittura di “design” di cromosomi sintetici, e che indica la necessità di una vigilanza molto attenta per il futuro. La stessa richiesta del capo della Casa Bianca Barack Obama alla Commissione bioetica presidenziale di approfondire le questioni sollevate dall’esperimento è un segnale in tal senso. Ma ad inquietare per ora non è tanto l’esperimento in sé, quanto i toni con cui se ne parla.

È ben noto che Craig Venter è innanzitutto un bravissimo imprenditore di se stesso: sono già stati annunciati per i prossimi giorni documentari in anteprima mondiale su questo studio, a dimostrazione dell’accuratissima preparazione mediatica del lancio della notizia, organizzata su scala planetaria. Una sapiente e spregiudicata strategia di marketing industriale per un mercato enorme come quello che gira intorno alle biotecnologie, nel quale troppo spesso ad annunci trionfali non seguono i risultati promessi.

Fa riflettere, poi, l’enfasi con cui la notizia è rimbalzata sulle prime pagine di tutti i giornali, con evocazioni di immagini bibliche, tipo «assaggiare il frutto dell’albero della vita», o «l’uomo ha creato la vita», o con affermazioni come «progettare una biologia che faccia quel che vogliamo noi», e potremmo continuare con le citazioni.

Che la sfida della conoscenza debba sempre essere presentata come mettersi in arrogante gara con Dio, non rende ragione alla scienza stessa. Il mestiere dello scienziato è quello di cercare di comprendere sempre più a fondo la struttura intima della materia e della vita, ed è frutto di intelligenza – quella stessa che ieri il cardinal Bagnasco ci ha ricordato essere «dono di Dio» – , curiosità e, soprattutto, di umiltà. Significa essere consapevoli di stare di fronte ad un mistero che mentre si fa esplorare ci suggerisce nuove domande, altre questioni da affrontare e conoscenze da mettere a fuoco. Un mistero che svelandosi si mostra infinito.

(Assuntina Morresi, Avvenire, 22 maggio 2010)

 

 


 

23 Maggio 2010

 

La lezione del Papa? La sofferenza della Chiesa alla luce di Fatima

 

Con il suo viaggio in Portogallo, Benedetto XVI ha insegnato alla Chiesa ad analizzare le difficoltà attuali alla luce del messaggio di Maria a Fatima, ovvero con gli occhi di Dio, ha detto il portavoce vaticano.

Nel tracciare un bilancio della recente visita apostolica in Portogallo, svoltasi dall'11 al 14 maggio, padre Federico Lombardi S.I., direttore della Sala Stampa della Santa Sede, ha spiegato come interpretare le parole del Papa sulla profezia di Fatima non ancora conclusa.

Il Papa vuol dire “che non dobbiamo più aspettarci da parte di Fatima e quindi di quanto è stato detto dai pastorelli, dai veggenti, delle profezie nel senso di annuncio di eventi concreti per quanto riguarda i prossimi anni o il prossimo secolo. Questo non è in questione”, ha sottolineato padre Lombardi ai microfoni della “Radio Vaticana”.

“La profezia di Fatima, nella prospettiva del Papa, che deve essere poi la nostra prospettiva – ha aggiunto –, significa aver imparato a leggere gli avvenimenti della nostra storia, il cammino della Chiesa con le sue difficoltà e le sue speranze nella luce della fede e cioè sotto lo sguardo di Dio, che segue la Chiesa e l’umanità in cammino, opera con la sua grazia per accompagnare coloro che si rivolgono a Lui e ci invita ad impegnarci in questa storia a partire dalla conversione di noi stessi proprio per agire secondo i criteri del Vangelo”.

“La profezia intesa come lettura della realtà umana e della storia umana, questo è caratteristico di Fatima, ci ha insegnato a guardare non solo alla nostra vita personale, ma alla vita della Chiesa e dell’umanità nel contesto della storia, sotto la luce di Dio, del suo amore e con l’impegno a convertirci, a renderci dei testimoni sempre più fedeli dell’amore di Dio nel mondo in cui viviamo e nella nostra storia”.

“Questo è un messaggio profetico che continua ad essere di grande attualità e lo sarà in futuro”, ha detto il portavoce vaticano.

Tra le frasi del Papa che sono rimaste maggiormente impresse da questo viaggio spiccano le dichiarazioni rilasciate ai giornalisti durane il volo per Lisbona, quando ha assicurato che la grande persecuzione della Chiesa non viene da nemici esterni, ma dal peccato all’interno stesso della Chiesa.

Benedetto XVI, ha continuato, “ha fatto capire che le sofferenze, le difficoltà che la Chiesa incontra, anche con evidente riferimento alla situazione dei mesi recenti o di questi anni, in cui la Chiesa ha tante difficoltà in conseguenza dei peccati dei suoi membri – si riferisce proprio agli abusi sessuali – sono qualcosa che la Chiesa porta in sé: porta in sé purtroppo anche la realtà del peccato. Ed è proprio per questo che il messaggio di Fatima è estremamente attuale e importante, perché ci parla di conversione, ci parla di penitenza, per rinnovarci in modo tale che la nostra testimonianza sia coerente”.

“Quindi, nel contesto di una lettura ampia del significato dell’evento di Fatima, da un punto di vista spirituale, non bisogna pensare solo alle persecuzioni che vengono dall’esterno, che certamente hanno avuto una gran parte nelle sofferenze e nelle difficoltà della Chiesa, per esempio nel corso del secolo passato, e che anche adesso continuano e continueranno ad esserci, ma il Papa ha fatto notare che le sofferenze e le difficoltà della Chiesa vengono anche, in particolare, dal nostro interno, cioè dal nostro essere peccatori, e per questo il messaggio di conversione e di penitenza ha una particolare attualità e importanza”.

“Questo mi è sembrato veramente molto bello – ha detto padre Lombardi –, molto importante, cioè come il Papa sia stato capace di inserire la tematica che ci affligge in questi ultimi mesi a proposito degli abusi sessuali in una prospettiva spirituale molto ampia. Quindi, riconoscendone la gravità, ma inserendola nella condizione della Chiesa nel mondo, della Chiesa davanti a Dio e del suo cammino, che deve essere sempre di purificazione, di rinnovamento”.

“E questo l’ha inserito con molta naturalezza direi, proprio nella condizione della Chiesa pellegrinante, e ha quindi dato occasione a tutti coloro che erano a Fatima, ma anche a tutta la Chiesa, di pregare intensamente, di coltivare uno spirito di rinnovamento e di conversione proprio per essere testimone più limpida e più efficace per il mondo di oggi e di domani”.

Per padre Federico Lombardi il bilancio di questa visita è “superiore all’attesa”.

“Possiamo dire – ha dichiarato – che è stato un viaggio che è andato benissimo e possiamo anche dire che è stato un viaggio meraviglioso. L’accoglienza è stata vastissima, è stata calorosa, è stata anche superiore alle attese degli organizzatori. Il Papa ne è rimasto molto colpito, molto contento e confortato”.

“Ha potuto vivere questo viaggio nelle condizioni migliori e come momento anche di grande esperienza spirituale di preghiera con il Popolo di Dio nel punto culminante, che è stato evidentemente quello delle celebrazioni a Fatima. Il Papa ha potuto dare i grandi messaggi che gli erano stati anche - in un certo senso - richiesti e che erano attesi dalla Chiesa portoghese”.

“L’incontro con il mondo della cultura, l’incontro con il mondo dell’impegno sociale, l’incontro con i sacerdoti erano incontri di importanza strategica per la presenza della Chiesa in Portogallo e, per cui, c’era una grandissima attesa. Mi confermavano i vescovi, ieri, che la presenza del mondo della cultura nell’incontro a Lisbona era veramente totale”.

“E’ stato, quindi, un incontro di grandissimo significato, direi di significato storico e che dice la volontà della Chiesa di dialogare in modo costruttivo con tutti coloro che cercano, che si impegnano nel mondo del pensiero, della ricerca, dell’arte, della creatività. Sono cose, queste, che rimarranno certamente a lungo per la Chiesa portoghese”.

“Soprattutto con il momento di Fatima – ha sottolineato il gesuita –, lo sguardo si è anche un po’ allargato sull’Europa e sul mondo, perché Fatima è un luogo che ha assunto realmente un significato per la Chiesa universale, come momento di incontro e – in un certo senso – di comunicazione fra il cielo e la terra, fra la presenza di Dio nella nostra storia e la domanda di salvezza del popolo e il desiderio di impegno nella storia da parte della Chiesa sulla base di conversione, di penitenza, di preghiera, di rinnovamento spirituale”.

“Questo è un discorso che naturalmente vale per tutti e che è stato colto anche molto al di là dei confini del Portogallo”, ha poi concluso. (Zenit, 16 maggio 2010)

 

 


 

 

Il principio e la sua applicazione

 

In occasione dei cento anni dalla fondazione della rivista "Recherches de Science Religieuse", si tiene il 19 maggio all'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede un convegno sul tema "Vaticano II ieri e oggi". Ai lavori prendono parte tra gli altri il padre gesuita direttore e redattore capo della rivista, Christoph Theobald, e il cardinale teologo emerito della Casa Pontificia, che ha sintetizzato  per  noi  gli  argomenti trattati.

di Georges Cottier

"Vaticano II ieri e oggi" è il tema di un dibattito, che si svolge il 19 maggio, nella residenza dell'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. Il punto di partenza è uno studio del padre gesuita Christoph Theobald, che propone una nuova chiave di lettura del concilio.

Come affermare la differenza cristiana di fronte al mondo contemporaneo? Nei testi conciliari, padre Theobald individua due modi giustapposti per rispondere alla domanda, senza che si veda una loro possibile sintesi. Qual è dunque il nostro rapporto rispetto alla società e alla cultura? Questa è la domanda centrale.

In relazione alla fede come accoglienza della Parola divina che è parola di vita, come concepire "l'immagine che ci facciamo di Cristo e la nostra relazione con Dio"? Cristo stesso, immagine del Padre, è assieme rivelatore e oggetto della rivelazione, datoci nella fede. La ricchezza e la trascendenza del suo mistero richiedono una pluralità d'espressioni trasmesse per la maggior parte dalla Scrittura o dal Magistero. Queste espressioni non sono esclusive, ma s'integrano  nel mistero, che il credente  vive quasi spontaneamente partecipando alla vita liturgica della Chiesa.

Giustamente, padre Theobald rileva che l'enciclica di Leone XIII Rerum novarum (1891) ha significato una svolta nell'atteggiamento della Chiesa di fronte al mondo moderno. La prima reazione era stata di timore:  il declino della cristianità era percepito come una minaccia per la Chiesa stessa. Leone XIII apre una via di collaborazione, in contrasto con il rigetto totale anteriore.

Ma il mondo "moderno", ha anch'esso la sua storia e le sue ambiguità. È condizionato dall'esperienza delle guerre di religione. Una delle espressioni più caratteristiche dell'illuminismo è il deismo, nel quale s'iscrive il trattato di Locke sulla tolleranza, che mette in causa l'idea stessa di verità e la natura dei nostri doveri di fronte a essa. Questa teoria ha fornito le premesse alle prime affermazioni sulla libertà religiosa, a tal punto che non si percepiva più la possibilità di scindere le "conclusioni" da queste premesse. Così si spiega la prima reazione, d'indole pastorale, del Magistero. La giustificazione della libertà di coscienza e della libertà religiosa dovuta alla Dignitatis humanae non è riducibile alle teorie dell'illuminismo. È veramente innovatrice, in consonanza con il Vangelo.

Poco più di vent'anni separano la Rerum novarum dal concilio Vaticano i che ha trattato dei rapporti fra conoscenza di fede e conoscenza naturale, distinte ma chiamate a entrare in simbiosi. Questa considerazione s'iscrive nel prolungamento della dottrina tradizionale della grazia, la quale guarisce la natura ferita dal peccato, la eleva alla partecipazione alla vita divina, la conduce alla sua perfezione.

La formula è trascritta in Lumen gentium (n. 17), che padre Theobald cita. È la chiave d'interpretazione del decreto sulle missioni Ad gentes e della dichiarazione Nostra aetate.

La missione della Chiesa deve essere considerata nella sua totalità. Ma in questa totalità c'è un ordine prioritario dal principio alla conseguenza. La missione principale della Chiesa è l'annuncio della salvezza portata da Gesù Cristo morto per i nostri peccati e risorto nella gloria. Questo messaggio è universale. Ma l'annuncio del Regno al quale tutti sono chiamati non significa indifferenza per la città degli uomini. Al contrario, appartiene al messaggio evangelico di animare e ispirare l'impegno dei cristiani nella città terrestre.

Il merito di padre Theobald è quello di attirare la nostra attenzione sui grandi cambiamenti intervenuti nella città occidentale di fronte al cristianesimo e alla Chiesa. La conseguenza è che un principio, sempre valido, quello dell'ispirazione del temporale dalle energie evangeliche, è suscettibile, secondo le circostanze storiche, di rivestire forme assai differenziate. Una cosa è il principio, un'altra cosa è la sua forma "intransigente, integrale, utopica" caratteristica di alcuni movimenti degli anni Trenta del Novecento.

La distinzione è sempre stata rispettata? Riferendosi a Paolo VI, padre Theobald parla d'identificazione allorché il Papa scrive "alleanza".

Sarebbe necessario d'altronde procedere a un'analisi dei concetti di moderno e di post-moderno, dati come scontati, a partire dalle loro fonti intellettuali.

Inoltre, la rilettura del concilio non può non tener conto del contesto storico stesso dell'avvenimento. Quando i padri parlano d'ateismo, hanno in mente la Chiesa del silenzio e l'ateismo di Stato con il dominio assoluto dell'educazione e dell'informazione e il fatto che molti vescovi dell'est furono impossibilitati ad andare a Roma. Più radicalmente, il numero 21 di Gaudium et spes che tratta del tema, si conclude con l'affermazione di Agostino, nelle Confessioni, Fecisti nos ad te (Domine) et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te. Abbiamo qui una traduzione diretta della visione biblica dell'uomo.

Se questo è vero, come lo è, l'esistenza secolarizzata non può rappresentare una forma compiuta d'umanesimo.

Lo studio di Dignitatis humanae conduce a distinguere nell'insegnamento conciliare un'altra maniera di considerare la relazione con la cultura contemporanea: la "via evangelica" di Gesù, caratterizzata da un "rispetto assoluto dell'interlocutore". Questo rispetto dell'alterità e dell'unicità della coscienza altrui ha portato il Signore ad accettare la croce piuttosto d'imporre con la forza la verità ai suoi interlocutori.

Padre Theobald ha certamente ragione d'insistere sulle esigenze evangeliche della qualità dei mezzi di trasmissione del messaggio. Ma applicata alle vie pastorali proposte dal concilio, ci si può chiedere se l'alternativa croce e violenza, dell'autore, sia pertinente. Il progetto qualificato di "riconquista" era necessariamente una pressione sulle coscienze, una violenza? L'applicazione non mi pare adeguata quando si tratta di esperienze come quelle dell'Azione Cattolica. Un'analisi più sottile della storia del movimento, mi sembra necessaria. Lo studio di padre Theobald merita comunque attenzione per il tema centrale che egli tratta.  (©L'Osservatore Romano, 19 maggio 2010)

 

 


 

 

San Vincenzo Pallotti e la formazione dei presbiteri

 

L'intensità del servizio pastorale al popolo di Dio dipende dalla formazione dei sacerdoti. A volte si sente dire che i preti di oggi non rispondono alle sfide del tempo, non sono aggiornati sugli attuali problemi del mondo, non esercitano i loro uffici pastorali in modo professionale. Le cause possono risiedere in una carente e non aggiornata formazione sacerdotale. La celebrazione dell'Anno sacerdotale 2009-2010 offre l'occasione per ribadire la necessità della formazione sacerdotale e cercare i modelli adeguati per renderla spiritualmente ricca ed efficace. Ciò che ha sottolineato Benedetto XVI nell'omelia per l'apertura dell'Anno sacerdotale:  "Per essere ministri al servizio del Vangelo - ha detto il Papa - è certamente utile e necessario lo studio con una accurata e permanente formazione teologica e pastorale, ma è ancor più necessaria quella "scienza dell'amore" che si apprende solo nel "cuore a cuore" con Cristo".

A tal riguardo, è fonte di ispirazione la figura e il pensiero di san Vincenzo Pallotti (1795-1850), ordinato sacerdote nella basilica di San Giovanni in Laterano il 16 maggio 1818. Apparteneva al clero di Roma. Era quindi un prete romano che nella prima metà dell'Ottocento si è distinto tra i sacerdoti per la sua formazione intellettuale e spirituale. Era un modello di sacerdote buon pastore che guidava e difendeva i credenti nel tempo dell'indebolimento della fede. Ma, soprattutto, si è iscritto nella storia della Chiesa con le sue iniziative per promuovere la formazione spirituale e pastorale dei sacerdoti romani.

Vincenzo Pallotti aveva un'ampia conoscenza della vita sacerdotale. Egli era convinto che il fondamento della santità dei sacerdoti e del loro impegno pastorale fosse la buona formazione. Perciò fin dall'inizio della sua attività sacerdotale si notò la sua grande premura per il continuo rinnovamento della vita del clero. Ciò è confermato dal suo testo degli anni 1823-1829 (il periodo del pontificato di Leone XII), intitolato:  "Vari punti di riforma pel Clero" (cfr. Opere complete v, pp. 544-557). In questo testo, che contiene le proposte per il rinnovamento della vita sacerdotale, il Pallotti sollecita a promuovere tutto ciò che contribuisce alla formazione dei perfetti servi di Cristo. I sacerdoti, i confessori devono essere ben preparati e condurre una vita santa. I predicatori devono distinguersi per la loro dottrina e integrità morale. Dalla santità, scienza e vigilanza dei pastori dipende in gran parte la pace della cristianità e la salvezza eterna delle anime. Inoltre, il Pallotti ebbe dal 1827 la direzione spirituale del Seminario Romano, poi quella del Collegio Inglese e Irlandese e, dal 1833, quella del Collegio Urbano di Propaganda Fide.

L'esercizio dell'incarico di direttore spirituale accresceva la sua convinzione della necessità di una profonda formazione sacerdotale, soprattutto di quella missionaria. Quale dovesse essere il tenore della formazione spirituale lo dice questo appunto: "Per disporre gli alunni ad essere veri missionari tra gli infedeli è necessario formarli nella pratica indicata da Gesù Cristo: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Matteo, 16, 24)" (Opere complete XI, p. 449). Negli scritti di Vincenzo Pallotti ricorre continuamente il pensiero che l'ecclesiastico deve impegnarsi personalmente a crescere lungo tutto il cammino della sua vita. Il Pallotti era convinto che esiste un legame intrinseco tra la crescita spirituale, lo studio e l'impegno apostolico. Riguardo a ciò merita attenzione il suo testo sull'obbligo di tutti i sacerdoti "di crescere nella santità e d'istruirsi" (cfr. ibidem II, pp. 81-86). E il Pallotti enumerava i campi in cui ci si deve istruire e cercare di impegnarsi continuamente: la Sacra Scrittura, la storia ecclesiastica, la teologia dogmatica e fondamentale, la teologia dei sacramenti, la liturgia e la teologia morale. Di conseguenza, lo scopo fondamentale di questa continua istruzione è espressa dal Pallotti in questi termini:  "Per non tornare indietro e per vivere sempre nella più perfetta imitazione della vita del nostro Signore Gesù Cristo; onde efficacemente cooperare alle opere della sua maggiore gloria, e della maggiore santificazione delle anime" (ibidem VII, pp. 63-64).

Vincenzo Pallotti iniziò nel 1839 a celebrare nella chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani, a via Giulia, nel mese di maggio, con i sacerdoti romani, sia diocesani che religiosi. All'origine c'erano la sua devozione mariana e l'intento di arrivare più profondamente all'animo di tutti i fedeli. A tal riguardo si deve ricordare che nel 1833 il Pallotti compose il testo del mese mariano in tre versioni (per i consacrati, i fedeli e gli ecclesiastici). I sacerdoti romani risposero con un'attiva partecipazione all'invito del Pallotti di celebrare insieme il mese mariano nella chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani. I presbiteri espressero il desiderio di radunarsi nello stesso luogo periodicamente nel corso dell'anno. Così nacque l'idea delle conferenze settimanali per i sacerdoti, che ebbero luogo nella chiesa fin dal 1839.

La prima conferenza settimanale per i sacerdoti ebbe luogo il 6 giugno 1839, primo giovedì del mese. Da quel giorno il clero romano cominciò a radunarsi ogni giovedì pomeriggio nella chiesa dello Spirito Santo in via Giulia. Vi parteciparono presbiteri diocesani e regolari, monsignori, teologi, consultori dei dicasteri pontifici e anche alcuni vescovi. Le conferenze, grazie a Vincenzo Pallotti, erano indirizzate a rinnovare la vita spirituale e all'aggiornamento pastorale. Nell'intraprendere quest'iniziativa, il Pallotti si ispirò all'idea di san Vincenzo de' Paoli di promuovere adunanze periodiche di ecclesiastici per la loro preparazione pastorale. In questi raduni si proponeva un caso di morale o di liturgia, lo si analizzava e si davano le soluzioni.

Vincenzo Pallotti era profondamente convinto che ogni sacerdote doveva sentirsi responsabile della propria formazione ed essere aperto ad accogliere i suggerimenti degli altri. Il presbitero per crescere ha bisogno di formarsi. Inoltre, il progresso delle scienze e i cambiamenti nel mondo esigono un aggiornamento continuo del nostro sapere per poter operare in modo efficace. È una necessità di vita. Ma ciò che sorprende nel pensiero del Pallotti è la sua motivazione spirituale: dobbiamo istruirci per imitare Gesù Cristo. Ciò costituisce un fondamento cristologico solido della formazione sacerdotale.

Il secondo punto emerge dal significato più profondo delle conferenze settimanali per i sacerdoti. Il Pallotti le ha istituite e promosse non da solo, ma in collaborazione con gli altri sacerdoti, coinvolgendo tutti i partecipanti. A questo si unisce un altro fattore molto significativo per le conferenze settimanali: esse non si limitarono solo alla formazione, ma furono anche un forum di azione. Il 13 gennaio 1847 Pio IX visitò la chiesa di Sant'Andrea della Valle per la conclusione dell'Ottavario dell'Epifania organizzato dal Pallotti. In quell'occasione il Papa fece una fervente predica, invitando tutti al rinnovamento della vita cristiana. Il Pallotti si sentì personalmente interpellato e il giorno seguente scrisse quanto segue: "Nel dì 14 gennaio 1847 i sacerdoti delle Conferenze ecclesiastiche settimanali, che si promuovono dalla Congregazione dei Sacerdoti della detta pia Società nel S. Ritiro del SS. Salvatore in Onda, considerando che siamo tutti obbligati ad eseguire efficacemente, e stabilmente la detta missione a tal fine ha giudicato necessaria e opportuna la istituzione di una pia Unione (...) per promuovere la maggiore glorificazione dei Nomi di Dio, di Gesù Cristo, di Maria Santissima, degli Angeli e dei Santi, e per estirpare l'orrendo vizio della bestemmia, per conservare la purità dell'anima e del corpo e per distruggere il vizio della disonestà e di ogni impurità (cfr. Opere complete III, pp. 392-393)".  (Jan Kupka, ©L'Osservatore Romano, 19 maggio 2010)

 

 


 

 

Missionari credibili per rievangelizzare

 

Per essere missionari credibili bisogna sapere bene che cosa annunciare, così come per testimoniare la propria fede bisogna prima viverla. Non usa giri di parole il cardinale Cláudio Hummes, che, come inviato speciale del Papa, ha concluso, il 16 maggio, il sedicesimo Congresso eucaristico brasiliano. "Ciascuno, secondo il suo stato e la sua professione, deve fare la propria parte nella missione di annunciare il Vangelo all'uomo di oggi" ha detto il porporato davanti a migliaia di persone riunite a Brasilia per i tre giorni del Congresso eucaristico nazionale sul tema "Eucaristia, pane dell'unità dei discepoli missionari".

Sarà il tempo a stabilire se è stato raggiunto l'obiettivo del Congresso "di rinnovare in tutti i cattolici del Brasile l'identità di discepoli di Gesù e, a partire da questa esperienza e pratica costante, divenire suoi missionari". Intanto, per il cardinale, bisogna riaccendere quanto prima un'opera missionaria che ha tutti per "destinatari", anche se il primo posto spetta ai "più poveri". Infatti, "la gente povera delle periferie urbane e delle campagne ha più che mai bisogno di sentire la vicinanza della Chiesa, sia nell'aiuto per le necessità più urgenti, sia nella difesa dei suoi diritti e nella promozione comune di una società fondata sulla giustizia e sulla pace". Erano poveri anche i martiri brasiliani, uccisi nel 1645 proprio mentre partecipavano alla messa domenicale: il cardinale li ha indicati perché "non appartengono al passato ma andrebbero conosciuti meglio proprio perché ci aiuterebbero a comprendere e valorizzare la domenica cristiana".

Secondo l'inviato del Papa, "il Congresso ha confermato ancora una volta che l'Eucaristia è fonte e centro della vita della Chiesa e di ogni cristiano. In questi giorni, partecipando all'Eucaristia e all'adorazione eucaristica in modo più intenso, abbiamo chiesto a Cristo di sviluppare in ognuno di noi la consapevolezza di essere suoi discepoli, per essere anche suoi missionari. Di fatto, l'Eucaristia è la forza del discepolo e della nostra azione nella società". E ha anche ricordato che per i cristiani "una domenica senza messa non è una domenica completa".

La Chiesa è sempre in stato di missione, "ma oggi si manifesta una nuova urgenza. E questa nuova missione ha come destinatari persone e popoli che ancora non sono cristiani, ma anche i battezzati che non partecipano più alla vita delle loro comunità o che sono passati ad altri credi o persino alla totale miscredenza".

Dunque, davanti a questa nuova "urgenza missionaria per essere buoni missionari bisogna essere buoni discepoli. E il discepolo si forma solo nell'incontro personale e comunitario con Cristo". È questa la base per una missione che è rivolta a tutti e non esclude nessuno. "A volte si sente dire che l'importante non è la quantità ma la qualità delle nostre comunità. Sbagliato! È vero che le comunità devono essere sempre più preparate, vive e coerenti nella fede, ma questo non basta. Occorre portare il Vangelo a tutti e non basta conservare le comunità che abbiamo, anche se ciò è importante".

Nella veste di prefetto della Congregazione per il Clero, ha esortato i sacerdoti a essere fedeli alla loro specifica missione. "In questo Anno sacerdotale - ha detto - è bene ricordare anche quanto i presbiteri siano indispensabili e insostituibili in questo nuovo impegno missionario. È chiaro che tutti i cristiani devono essere missionari, ma i sacerdoti hanno un ruolo speciale, dando vita alla missione nel territorio della propria parrocchia, scegliendo un gruppo di laici e laiche e formandoli per evangelizzare, visitando le famiglie". Rivolgendosi direttamente ai sacerdoti brasiliani, ha detto che "la Chiesa si aspetta molto da ciascuno in questa urgente missione. Potete però anche essere certi che la missione vi aiuterà a sentirvi più sacerdoti, a comprendere meglio la vostra identità e a essere più felici nel ministero. La missione ha bisogno di tutti voi. Senza di voi, poco o nulla accadrà".

Il cardinale Hummes ha quindi messo in guardia dal considerare il Congresso eucaristico un bell'evento fine a se stesso, da riporre presto negli archivi. Invece, proprio la grande partecipazione popolare, con in prima fila un laicato sempre più consapevole e partecipe, deve costituire un trampolino di lancio per una rinnovata e capillare azione missionaria. "Proprio a partire dall'Eucaristia conclusiva di questo congresso - ha affermato - vogliamo risolutamente andare in missione. Allo stesso tempo siamo però consapevoli di non poter fare nulla senza Gesù Cristo. Questa consapevolezza ha una risonanza particolare in questo momento in cui la Chiesa sta vivendo una difficile crisi". Ma c'è anche la consapevolezza che "tutto nella Chiesa si ordina per l'Eucaristia e attorno all'Eucaristia. Occorre perciò riprendere di slancio l'opera apostolica per cercare di condurre tante altre persone a Cristo".  (©L'Osservatore Romano, 19 maggio 2010)

 

 


 

 

C’è del marcio negli intellettuali

 

Con una bella riflessione sulle pagine della cultura del "Corriere della Sera" del 16 maggio scorso, Pierluigi Battista torna su un tema classico, forse mai veramente scandagliato, relativo al "lato oscuro" di molti intellettuali e grandi personalità, che emerge quando si conoscono alcune loro meschinità, bassezze, vere e proprie efferatezze. Gli esempi che porta sono tanti, alcuni già conosciuti, altri ignoti ai più, che vanno dall’ipocrisia a scelte di vita privata, fino ad atti tremendi compiuti verso persone amiche, causandone la condanna ingiusta, persino la morte fisica. Si tratta di un tema ricorrente, già discusso da storici come Paul Johnson con il suo Gli intellettuali, processo ai mostri sacri della cultura moderna (1993), da Raymond Aron in L’oppio degli intellettuali (2008), dal premio Nobel John M. Coetzee in Tempo d’estate (2010).

Battista ricorda Martin Heidegger che denuncia il filosofo Eduard Baumgarten, suo allievo ed amico, perché «assiduo frequentatore dell’ebreo Eduard Fraenkel», Robert Brasillach che esorta le autorità di Vichy a non risparmiare nessun ebreo, e Arthur Koestler che segnala e consegna alla polizia politica sovietica (Gpu) la fidanzata russa sulla base di un banale sospetto. Evoca poi grandi ipocrisie, di Bertolt Brecht che approva cinicamente le fucilazioni staliniane degli innocenti e conserva ricchezze in Svizzera, di Pablo Neruda che elogia smodatamente Vyšinskij, il procuratore generale dei processi di Mosca degli anni ’30 del Novecento, di Sigmund Freud e della sua relazione segreta con la cognata, altre ancora più che scivolano più nel privato.

Battista non tralascia neanche Theodor Wiesengrund Adorno che boicotta con ogni mezzo la pubblicazione degli scritti inediti di Walter Benjamin, morto suicida al confine franco-spagnolo in fuga dai nazisti. La dissacrazione, se così può dirsi, prosegue con Thomas Mann, Jean-Jacques Rousseau, Karl Marx, Jean Paul Sartre, Pasolini, infine Martin Buber che rinnega la paternità nei confronti di Margarete Buber-Neumann consegnata dai sovietici ai nazisti per onorare le clausole del patto tra Hitler e Stalin del 1939.

Con l’esperienza più recente, potremmo aggiungere altri contrasti tra la dimensione pubblica osannante di grandi personaggi e i loro vizi anche repellenti, o tra la professione religiosa e la vita gravemente peccaminosa di uomini di Chiesa, ma resterebbe il quesito essenziale che Battista pone. Come mai questo divario tra la sfera creativa (e l’immagine pubblica) che porta in alto, per opere che tutti apprezziamo e ammiriamo, e la dimensione esistenziale più vile e colpevole, e come mai quando si scava inizia la discesa verso il basso, nel grigiore dell’umano, della piccineria, dell’avidità, del forsennato egocentrismo che apre le porte al male, fa vittime, scopre il lato oscuro, o mostruoso, di alcuni.

Insieme ad alcune considerazioni condivisibili, Battista conclude che non ci si può aspettare che gli intellettuali siano dei santi, e le loro biografie immacolate, perché la condizione umana non garantisce la coerenza tra la purezza dell’opera prodotta e la santità della vita condotta.

In una prospettiva del tutto orizzontale, non c’è dubbio che le contraddizioni sono laceranti, e colpiscono chi non riesce a conciliare la grandezza dell’opera e le bassezze della vita, si sente lacerato tra l’ammirazione e la delusione, l’omaggio e la condanna. Tutto può cambiare, invece, in una prospettiva verticale nel quale l’uomo è visto nella sua complessità, coscienziale e insieme storica, in un rapporto con il male che la cultura moderna spesso dimentica, quasi a voler esorcizzare una realtà che non comprende e che però si ripresenta poi come durissima realtà.

Non è un caso che molte "colpe" che Battista attribuisce ai grandi pensatori ed intellettuali siano collegati con le ideologie del Novecento che, inutile negarlo, hanno incarnato nelle loro punte estreme il male assoluto, con il disprezzo per ogni regola morale, elevando a nuovi idoli lo Stato, la razza, il partito, o altro ancora, ed hanno per ciò stesso pervertito la mente dell’uomo (uomo semplice, scrittore, artista, filosofo, che sia) che, pur senza macchiarsi direttamente ha elogiato, esaltato, osannato, i più efferati delitti.

Ma il male esiste anche nella coscienza individuale, in quella parte più nascosta e profonda, che solo l’uomo e Dio conoscono, e non sempre coincidono con le opere dell’intelletto, con l’ingegno individuale, con i movimenti collettivi di ammirazione che seguono strade diverse.

Già Seneca nella Vita felice risponde a chi rimprovera i filosofi, e lui stesso, per il contrasto tra la loro vita e le loro parole e gli chiede: «Perché le tue parole sono più virtuose della tua vita?». Perché sei ricco, ami il lusso ed il superfluo, sei attento all’immagine più che all’agire bene, mentre predichi il contrario? Seneca risponde che il filosofo predica come si dovrebbe vivere, non come vive lui, e gli altri devono imparare dalle sue parole non dalle sue azioni. E che infine, i filosofi provano a condurre una vita buona, ma non ci riescono sempre.

La risposta di Seneca è umana, ma con il passare del tempo non convince più, soprattutto se l’incoerenza raggiunge i vertici dell’abominio. E non convince più da quando la grande lezione giudaico-cristiana che nel frattempo veniva da Gerusalemme mise in scena la lotta del bene contro il male, non come frutto del fato, ma come una lotta che si svolge nella coscienza dell’uomo, che diviene protagonista del proprio destino. Gli empi, dice il salmista «parlano di pace al loro prossimo, ma hanno la malizia nel cuore» (Salmi, 27,3), e il profeta aggiunge che usano parole belle però «il loro cuore è falso» (Osea, 10,2). Dall’obbligo di scegliere fra il bene e il male non sono esenti i letterati o i filosofi, i ricchi o i potenti, che pure ammaliano gli umili con il loro sfarzo intellettuale o materiale. L’incantesimo, però, non dura a lungo, perché se ogni cosa è caduca, il fascino del male lo è ancor meno.

Si può fare ancora un passo in avanti se si tiene presente che una delle tentazioni più forti dell’uomo è quella di farsi grande, insuperbire per l’intelligenza e le capacità, dimenticando che il profeta prevede «guai (per) coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti» (Isaia, 5,21). Tutti, anche la persona più semplice, verifica ogni giorno quante volte un pizzico di potere (vero o presunto) cambia l’uomo, lo fa inorgoglire, sin sulla soglia dell’onnipotenza, lo fa sentire libero da ogni regola, lo induce ad atti di cui, ad un certo punto, non sente più nemmeno la colpa o l’imbarazzo. Quando questa metamorfosi colpisce, sono rovesciati tutti i valori, l’uomo si sente elevato in alto, guarda agli altri uomini quasi con disprezzo, e a quel punto tutto è possibile, anche ciò che a noi sembra grave, contraddittorio, assurdo. Questo senso di onnipotenza stravolge il cuore, soltanto la coscienza del nostro essere creature chiamate al bene può riproporre il senso della fragilità e della grandezza dell’uomo, e può rifondare un umanesimo che si è andato erodendo e frantumando. (Carlo Cardia, Avvenire, 17 maggio 2010)

 

 


 

9 Maggio 2010

 

Una nuova apologetica per rispondere alla domanda su Dio

 

Dopo un periodo di forte crisi seguito al Concilio Vaticano II, oggi si avverte sempre più il bisogno di dare nuova linfa a un’apologetica che, pur rimanendo nel solco della tradizione, sia capace di rispondere più direttamente ai quesiti degli uomini del nostro tempo.

E' quanto è emerso in sintesi dal Congresso internazionale dal titolo “Una nuova apologetica per un nuovo millennio”, tenutosi a Roma il 29 e 30 aprile, presso l’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”, in cui sono stati approfonditi quei motivi di credibilità della fede cattolica che permettono di proclamare in maniera convincente ed esporre i contenuti della rivelazione con un linguaggio comprensibile per i contemporanei.

Il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Card. William Levada, intervenendo al Convegno, ha sottolineato la necessità di una nuova apologetica che includa un approccio alla creazione, all'opera caritativa e al dialogo interreligioso.

Nel suo discorso, su "L'urgenza di una nuova apologetica per la Chiesa nel 21° secolo", il porporato ha sottolineato che questo argomento "è intimamente legato alla chiamata a una nuova evangelizzazione, che il Servo di Dio Papa Giovanni Paolo II ha presentato alla Chiesa come compito principale della sua missione all'inizio del terzo millennio della cristianità".

"Il compito di oggi", ha affermato, "richiede una coerenza ancor maggiore tra fede e vita da parte di chi 'dà una spiegazione o una difesa' del suo credo e della sua speranza in Cristo".

"Una nuova apologetica per il nuovo millennio dovrebbe concentrarsi sulla bellezza della creazione di Dio", ha affermato.

"Perché questa apologetica sia credibile, dobbiamo porre più attenzione al mistero e alla bellezza dell'adorazione cattolica, di una visione sacramentale del mondo che ci porta a riconoscere e a valorizzare la bellezza della creazione come presagio dei cieli nuovi e della terra nuova".

Il Cardinal Levada ha aggiunto che "la testimonianza della nostra vita come credenti che mettono in pratica la fede lavorando per la giustizia e la carità come seguaci che imitano Gesù, nostro Maestro, è una dimensione importante della nostra credibilità come partner di dialogo in un momento di nuova apologetica". "La nostra solidarietà con i nostri concittadini, il cui senso di responsabilità può essere parziale ma reale - espresso in cause per l'ambiente, per i poveri, per la giustizia economica -, è importante", ha dichiarato. Allo stesso tempo, "la nostra capacità di articolare la piena visione della verità, della giustizia e della carità è essenziale per assicurare che questa testimonianza e questa azione non siano solo una fase passeggera, ma possano dare un contributo durevole alla creazione di una civiltà dell'amore".

"Un dialogo sul significato e lo scopo della libertà umana è essenziale nella cultura odierna", ha aggiunto. "Se la libertà è volta a rafforzare l'individualismo di una cultura egoista", "non realizzerà mai il potenziale offerto da Colui che ci ha creati a sua immagine e somiglianza come liberi di rispondere al grande dono dell'amore divino".

Il Cardinal Levada ha poi sottolineato la "necessità di perseguire il dialogo con la scienza e la tecnologia". "Molti scienziati parlano della loro fede personale - ha osservato -, ma l'aspetto pubblico della scienza è risolutamente agnostico". "E' un campo fertile e necessario per il dialogo".

Per il Cardinal Levada, "il nuovo millennio offrirà sicuramente nuove opportunità di espandere questa dimensione chiave del dialogo tra fede e ragione", "e tra le domande che richiedono oggi più attenzione c'è quella sull'evoluzione in relazione alla dottrina della creazione". Parlando del libro "Mere Christianity" ("Puro cristianesimo") di C.S. Lewis, ha sottolineato un altro "tema centrale per l'apologetica: l'aspirazione al bene, e i temi correlati di una legge morale naturale e della validità della ragione umana comune a tutta l'umanità".

"Per Lewis, come per l'apologetica di oggi, un sottotema importante era una giusta comprensione della sessualità umana". Allo stesso modo, ha proseguito, "una nuova apologetica deve tener conto del contesto ecumenico e interreligioso di qualsiasi dialogo sulla fede religiosa in un mondo secolare". "Le questioni di spirito e fede impegnano tutte le grandi tradizioni religiose e devono essere affrontate con un'apertura al dialogo interreligioso". "La nostra apologetica sarà solo rafforzata dalla testimonianza comune e insieme ai nostri confratelli cristiani sull'obiettivo della rivelazione di Dio in Cristo, per la nostra vita e per il mondo in cui viviamo". Per il porporato, "la chiamata a una nuova apologetica per il 21° secolo non rappresenta una 'missione impossibile'". "Dopotutto, dovrebbe essere possibile trovare la verità della mente e del cuore in un dialogo simile, in cui emerge ciò che i cristiani hanno imparato che costituisce la mente e la forza e il cuore e l'anima del Vangelo rivelato in Gesù: che Dio è amore, e che la nostra creazione a immagine e somiglianza rende tutta l'umanità capace di amare Dio al di sopra di tutte le cose e di amare il nostro prossimo come noi stessi".

Nel saluto al convegno padre Pedro Barrajón, L.C., Rettore dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, ha detto che “oggi l’oppositore alla fede non ha un volto preciso. È piuttosto una corrente difficile da definire e da precisare che si ispira a correnti relativiste e laiciste”.

“La fede – ha continuato – è messa in questione non solo con argomentazioni di ragione ma soprattutto con la presentazione parziale di fatti storici che hanno conquistato ampi spazi culturali e mediatici dove si evidenziano gli errori degli uomini di Chiesa”.

Tuttavia, ancora oggi, la domanda su Dio e quindi sul senso della vita rimane “la più grande sfida dell’uomo contemporaneo”. E infatti “il fenomeno religioso non solo sopravvive a chi voleva ucciderlo, ma sembra più dinamico, operativo e influente nella vita sociale, culturale, economico e addirittura politica”.

Allo stesso tempo, però, si assiste a “un revival delle diverse forme di religiosità, un fenomeno per alcuni imprevisto, per altri inquietante”, soprattutto negli antichi paesi di ispirazione cristiana dove “l’offuscamento della fede convive con forme di ricerca appassionata di una verità che sazi pienamente il desiderio dell’uomo di luce e di amore”.

Nel suo intervento mons. Giuseppe Lorizio, docente ordinario di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università Lateranense e l'Istituto Superiore di Scienze Religiose "Ecclesia Mater", ha parlato dell'urgenza di restaurare l’armonia tra fede e ragione.

“Oggi – ha detto – si può con sollievo prendere atto di un generalizzato, anche se forse non ancora unanime, consenso dei teologi fondamentali intorno alla necessità di riprendere, accanto alla dimensione dogmatica della propria area disciplinare, la riflessione relativa alla dimensione apologetica della stessa”.

Per recuperare una rinnovata armonia tra fede e ragione, però, occorre “partire dal carattere prismatico dell’atto di fede, dove è possibile all’interno di ciascuna delle sue dimensioni fondamentali (affettività, volontà libera e conoscenza) attivare percorsi che siano in grado di recuperare l’integralità dell’atto stesso, superando ogni riduzionismo tendente ad enfatizzare ed assolutizzare ciascuno di questi aspetti”.

“L’urgenza del recupero di tale armonia – ha continuato – è determinata dalla necessità di porre al riparo la fede stessa da ogni possibile deriva fondamentalista e dalla altrettanto perniciosa esclusione del credere dalla vita pubblica e dalla convivenza civile di popoli e nazioni”.

Mons. Lorizio ha quindi incoraggiato a “raccogliere la sfida di chi ha recente­mente definito la fede una 'pubblica virtù' (Michael Walzer), con la consapevolezza che, quando ciò accade, non esprime il tutto della fede”.

“Essa resta in effetti – ha spiegato – una realtà complessa e al tempo stesso misteriosa”, soprattuto nel suo carattere di dono che non va disgiunto dall'aspetto “della scelta, del coinvolgimento affettivo e dell’esercizio della ragione”.

Nel prendere la parola il prof. Corrado Gnerre, docente di Storia delle Dottrine teologiche all’Università Europea di Roma, ha illustrato il modello di apologetica indicato da Benedetto XVI con una celebre espressione che da Cardinale pronunciò a Subiaco, il 1° aprile 2005, a pochi giorni dalla sua elezione al Soglio pontificio.

In quell'occasione disse: “Dovremmo (…) capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita ‘ veluti si Deus daretur’, ‘come se Dio ci fosse’.”

L’affermazione del Papa, ha spiegato il prof. Gnerre, “non si presenta come una sorta di opzione fra le tante (ma più conveniente) nel senso esclusivamente pascaliano; bensì un’affermazione che non esclude ma completa l’evidenza razionale di Dio: Dio esiste ed è dimostrabile (Sapienza 13,1)…inoltre è conveniente sul piano esistenziale credere in Lui. Insomma: credendo in Dio l’uomo non solo rispetta la recta ratio ma è anche più felice, vive anche meglio”.

L’intuizione di Benedetto XVI, ha commentato, cioè quella di voler “ricostruire la struttura fondamentale del rapporto uomo-reale, partendo dall’imprescindibilità della presenza di Dio” è tutt’altro che un’espressione “morbida” sul piano metafisico.

Nel suo intervento, invece, Giacomo Samek Lodovici, docente di Storia delle dottrine morali e Ricercatore in filosofia morale all’Università Cattolica di Milano, ha tratteggiato i lineamenti fondamentali di alcune delle principali correnti filosofiche in contrasto con il cristianesimo: il nichilismo, il relativismo, lo scientismo ed il consequenzialismo.

Il nichilismo, ha spiegato, sostiene che Dio non esiste però “non formula una prova filosofica convincente dell’inesistenza di Dio. Infatti, i discorsi sull’origine del concetto di Dio (di Marx, Freud e Nietzsche) non dimostrano che Dio non esiste: quand’anche fosse esatta, l’analisi sull’origine di un concetto è diversa dall’analisi sulla verità o falsità del concetto stesso”.

“Se poi la dimostrazione dell’inesistenza di Dio viene individuata nel suicidio – ha aggiunto –, come ritiene Kirillov (ne I demoni di Dostoevskij), si può rispondere che Dio non asseconda le sfide dell’uomo e lo lascia a tal punto libero da consentirgli di suicidarsi”.

Per il relativismo, invece, la verità non esiste ed è inconoscibile, ma così facendo cade in contraddizione” perché “proprio mentre dice: tutto è soggettivo pretende di dire qualcosa di oggettivo, cioè che: 'tutto è soggettivo'” e “proprio mentre dice: 'tutto è relativo', pretende di dire qualcosa di assoluto, cioè che: 'tutto è relativo'”.

“E se l’affermazione relativista presenta se stessa come un’interpretazione che non pretende di essere vera, allora si cade in un regresso all’infinito – ha spiegato il docente –. Ma un’infinità di interpretazioni comporta almeno una conoscenza vera: se infinitamente interpretiamo di interpretare è vero (perlomeno) che stiamo interpretando”.

Per lo scientismo, “solo la scienza può conoscere la verità, solo gli enunciati scientifici hanno un valore conoscitivo” pertanto “l’etica, la religione, la filosofia, l’estetica, ecc. sono squalificate e l’uomo non può indagare sulle grandi domande esistenziali, su Dio, sull’immortalità dell’anima, sul bene/male, sulla libertà, ecc”.

“Un enunciato è scientifico solo se il suo oggetto è suscettibile di una quantificazione-misurazione – ha detto il docente –. Tuttavia, l’affermazione: 'un enunciato è scientifico solo se il suo oggetto è quantificabile-misurabile non ha un oggetto quantificabile e misurabile, perciò (mantenendo i presupposti dello scientismo) non ha portata conoscitiva, non può dire la verità e dunque lo scientismo si autosqualifica”.

Nel consequenzialismo, poi, “la moralità degli atti va giudicata esclusivamente in base alle loro conseguenze, dunque non esistono atti intrinsecamente e sempre malvagi, né una dignità intangibile dell'essere umano”.

“Ora, però, le conseguenze di un atto non sono quasi mai definitive, bensì sono gravide di altre conseguenze, le quali producono ulteriori conseguenze e così via all’infinito. Pertanto, è impossibile calcolare le conseguenze dell’agire, dato che l’uomo non può conoscere il futuro”.

“In questo modo, tutto diventa lecito e permesso, dato che non esistono né il bene né il male, in quanto gli atti umani non sono né buoni né malvagi”, ha concluso.

Dal canto suo don Pietro Cantoni, docente di Metafisica ed Ecclesiologia presso lo Studio Teologico Interdiocesano “Mons. Enrico Bartoletti” di Camaiore (LU), ha affermato che i temi della nuova apologetica, pur potendo inserirsi nella sequenza divenuta classica di demonstratio religiosa, demonstratio christiana, demonstratio catholica secondo i tre soggetti fondamentali - Dio, Gesù Cristo e la Chiesa –, devono tuttavia adattarsi ai diversi interlocutori e al contesto in cui si trovano.

Ad esempio, ha osservato, il tema “'Chiesa cattolica', alla luce di un ecumenismo malinteso e frainteso” è “rimasto un po’ troppo in ombra. All’interno della Chiesa cattolica esistono infatti delle tensioni che, pur essendo 'interne' hanno un evidente significato apologetico. Una di queste si polarizza attorno al Concilio Ecumenico Vaticano II”, e sul suo valore di rottura o di continuità.

A questo proposito, ha spiegato, “la Chiesa è una realtà vivente” e che “per una non debole analogia, si identifica con Cristo stesso. Ne è infatti il Corpo. Si tratta quindi di una realtà viva, che nella storia è soggetta a sviluppo. Uno sviluppo non 'tranquillo' e scontato, 'meccanico', ma, ad immagine di Cristo, travagliato, combattuto e spesso 'crocifisso'”.

“Una metodologia corretta sia teologicamente che apologeticamente – ha continuato –, non si affanna a 'dimostrare' direttamente la continuità. Per due fondamentali ragioni: il contenuto è il mistero di Cristo e il mistero non si dimostra, ma se ne mostra piuttosto la credibilità, mettendo in luce la sua armonia interna, sia sincronica che diacronica e confutando le obiezioni che vorrebbero evidenziarne le distonie e le rotture”.

“Non si dimostra – ha precisato – anche perché la continuità è presupposta, come il dato da cui si parte: l’onere di provare che essa non sussiste sta tutto dalla parte di chi la mette in discussione”. (Zenit, 30 aprile 2010)

 

 


 

 

La grande "scommessa". Come rifondare da capo la Legione

 

Il comunicato emesso due giorni fa dalla Santa Sede a proposito dei Legionari di Cristo è di portata notevolissima. È riprodotto integralmente più sotto e va letto dalla prima riga all'ultima. Ma per essere capito a fondo esige qualche nota esplicativa.

La genesi del comunicato

I cinque vescovi che hanno compiuto la visita apostolica nella Legione – tutti di primo piano nei rispettivi paesi – hanno consegnato i loro rapporti alle autorità vaticane alla metà dello scorso mese di marzo, dopo sette mesi di indagini nelle rispettive aree geografiche.

Sulla base dei loro rapporti e citandoli ampiamente, la segreteria di Stato vaticana ha predisposto un documento di lavoro.

Richiamati in Vaticano alla fine di aprile, i cinque visitatori hanno lavorato intensamente, per tutta la giornata di venerdì 30 aprile e la mattina di sabato 1 maggio, sulla traccia del documento. L'hanno fatto sotto la presidenza del cardinale Tarcisio Bertone e assieme al cardinale William J. Levada, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, al cardinale Franc Rodé, prefetto della congregazione per i religiosi, e all'arcivescovo Fernando Filoni, sostituto della segreteria di Stato.

La stesura del comunicato finale è stata anch'essa parte dei lavori.

Il ruolo del papa Benedetto XVI ha assistito per un'ora e mezza, in silenzio, ai lavori del gruppo, la mattina di venerdì 30 aprile. Prima di lasciarli, ha incoraggiato i presenti a presentargli proposte concrete, sulle quali egli avrebbe preso le sue decisioni.

Ma questo è stato solo l'ennesimo atto di un ruolo da assoluto protagonista svolto da Joseph Ratzinger nel caso dei Legionari di Cristo. Alla fine del 2004 fu lui a ordinare un'indagine sul loro fondatore, Marcial Maciel Degollado, contro la generale convinzione innocentista di tutta la curia dell'epoca e dello stesso papa Giovanni Paolo II. Fu lui, da papa, a emettere nel maggio del 2006 la sentenza di condanna di Maciel. Fu lui nell'estate del 2009 a ordinare la visita apostolica nella Legione.

Il giudizio su Maciel

Il comunicato esplicita per la prima volta in un documento vaticano ufficiale le colpe del fondatore dei Legionari, colpe che nemmeno la condanna del 2006 aveva formulato.

Esse vengono identificate in "comportamenti gravissimi e obiettivamente immorali" e talora in "veri delitti", atti a configurare "una vita priva di scrupoli e di autentico sentimento religioso".

La complicità dei capi

Severissimo e senza precedenti è anche il giudizio che il comunicato emette sul "sistema di relazioni" costruito attorno a Maciel, sul "silenzio dei circostanti", sul "meccanismo di difesa" della sua vita indegna.

Scrivendo che "di tale vita era all’oscuro gran parte dei Legionari", il comunicato afferma implicitamente che altri invece sapevano.

Non ci sarà quindi nessuna indulgenza per il "sistema di potere" che ha fatto blocco attorno a Maciel prima e dopo la sua morte, cioè per gli attuali capi centrali e territoriali della Legione.

In particolare, è del tutto illusorio che la scure possa risparmiare i due capi supremi, il direttore generale Álvaro Corcuera e il vicario generale Luís Garza Medina.

Quest'ultimo, fino ad oggi il vero numero uno della Legione sotto il profilo finanziario, ha fatto di tutto in queste ultime settimane per configurarsi come un nuovo Talleyrand, capace di restare in sella anche nel Termidoro dopo aver assecondato il Terrore.

Ma anche Maciel appariva "inattaccabile" – come ricorda il comunicato – e alla fine è sprofondato.

La "scommessa" sul futuro

Con molto realismo, il documento di lavoro su cui si è discusso non dava per sicuro il buon esito dell'opera di ricostruzione che la Legione dovrà compiere. Circa il futuro, usava la parola "scommessa".

Un elemento di fiducia – a detta del comunicato – è dato dal "gran numero di religiosi esemplari" incontrati dai visitatori, animati da "zelo autentico per la diffusione del Regno di Dio".

Ma degli 800 sacerdoti della Legione sono all'incirca solo 100, oggi, quelli che già agiscono consapevolmente per un "cammino di profonda revisione". La maggior parte sono tuttora smarriti, traumatizzati dalle rivelazioni sul fondatore, sottomessi all'autorità dei capi in cui vedono l'unico loro ancoraggio.

La prossima agenda

Oltre alla nomina di un commissario, le autorità vaticane annunciano nel comunicato due altri provvedimenti.

Il primo era già previsto e sarà una visita apostolica supplementare relativa al Regnum Christi, l'associazione laicale che affianca i Legionari, anch'essa fondata da Maciel.

Il secondo provvedimento è invece nato dalla discussione dei giorni scorsi. Sarà costituita una commissione indipendente di studio sulle costituzioni della Legione, in particolare per "rivedere l’esercizio dell’autorità".

Chi sarà il commissario

Quanto al commissario, o meglio, al "delegato" papale che assumerà i pieni poteri nella fase di ricostruzione della Legione, si prevede che Benedetto XVI lo nominerà prima dell'estate.

Nella riunione se ne è discusso. Se ne sono descritte le qualità auspicabili. E si è fatto un nome, uno solo finora: quello del cardinale messicano Juan Sandoval Íñiguez, arcivescovo di Guadalajara.

Il cardinale Sandoval conosce bene la Legione, che ha in Messico la sua patria storica. È anche titolare, a Roma, della chiesa di Nostra Signora di Guadalupe, di proprietà dei Legionari. Ma non si è mai mescolato a loro e alle loro trame, né con Maciel né con gli attuali capi. Ha 77 anni ed è in procinto di lasciare la guida della diocesi per superati limiti di età: potrà quindi dedicarsi a tempio pieno alla causa. In Vaticano è membro della congregazione per i religiosi, di quella per l'educazione cattolica e della prefettura per gli affari economici della Santa Sede. Inoltre, fa parte della commissione cardinalizia di vigilanza dell'Istituto per le Opere di Religione. È persona giudicata molto risoluta e di sicura affidabilità.

Una svolta comunicativa

Un'ultima notazione. Con questo comunicato, la Santa Sede ha rovesciato lo schema dominante in questi tempi nei media sulla pedofilia. Invece che farsi dettare l'agenda dai giornali, invece che rispondere caso per caso al martellamento delle accuse, la Santa Sede ha questa volta preso essa l'iniziativa.

Nel caso dei Legionari, sono i media che devono inseguire le decisioni delle autorità vaticane, in primo luogo del papa. E sono decisioni difficilmente contestabili. Decisioni tipicamente di Chiesa, che nessun tribunale terreno può surrogare. Decisioni atte non solo a punire, ma soprattutto a sanare, confortare, purificare, ricostruire. In quell'ordine della grazia di cui la Chiesa è depositaria e custode.

Comunicato ufficiale della Santa Sede (1 Maggio 2010)

1. Nei giorni 30 aprile e 1 maggio il Cardinale Segretario di Stato ha presieduto in Vaticano una riunione con i cinque Vescovi incaricati della Visita Apostolica alla Congregazione dei Legionari di Cristo (mons. Ricardo Blázquez Pérez, Arcivescovo di Valladolid; mons. Charles Joseph Chaput, OFM Cap., Arcivescovo di Denver; mons. Ricardo Ezzati Andrello SDB, Arcivescovo di Concepción; mons. Giuseppe Versaldi, Vescovo di Alessandria; mons. Ricardo Watty Urquidi, M.Sp.S., Vescovo di Tepic). Ad essa hanno preso parte i Prefetti della Congregazione per la Dottrina della Fede e della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica e il Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato.

Una delle sessioni si è svolta alla presenza del Santo Padre, al quale i Visitatori hanno presentato una sintesi delle loro Relazioni, già anteriormente inviate.

Nel corso della Visita sono stati incontrati personalmente più di 1.000 Legionari e sono state vagliate diverse centinaia di testimonianze scritte. I Visitatori si sono recati in quasi tutte le case religiose e in molte delle opere di apostolato dirette dalla Congregazione. Hanno ascoltato, a voce o per iscritto, il giudizio di molti Vescovi Diocesani dei Paesi in cui la Congregazione opera. I Visitatori hanno anche incontrato numerosi membri del Movimento "Regnum Christi", benché esso non fosse oggetto della Visita, in particolare uomini e donne consacrate. Hanno ricevuto anche notevole corrispondenza da parte di laici impegnati e di familiari di aderenti al Movimento.

I cinque Visitatori hanno testimoniato l’accoglienza sincera loro riservata e lo spirito di fattiva collaborazione mostrato dalla Congregazione e dai singoli religiosi. Pur avendo agito indipendentemente, sono giunti ad una valutazione ampiamente convergente e ad un giudizio condiviso. Essi hanno attestato di avere incontrato un gran numero di religiosi esemplari, onesti, pieni di talento, molti dei quali giovani, che cercano Cristo con zelo autentico e che offrono l’intera loro esistenza per la diffusione del Regno di Dio.

2. La Visita Apostolica ha potuto appurare che la condotta di P. Marcial Maciel Degollado ha causato serie conseguenze nella vita e nella struttura della Legione, tali da richiedere un cammino di profonda revisione.

I gravissimi e obiettivamente immorali comportamenti di P. Maciel, confermati da testimonianze incontrovertibili, si configurano, talora, in veri delitti e manifestano una vita priva di scrupoli e di autentico sentimento religioso. Di tale vita era all’oscuro gran parte dei Legionari, soprattutto a motivo del sistema di relazioni costruito da P. Maciel, che abilmente aveva saputo crearsi alibi, ottenere fiducia, confidenza e silenzio dai circostanti e rafforzare il proprio ruolo di fondatore carismatico.

Non di rado un lamentevole discredito e allontanamento di quanti dubitavano del suo retto comportamento, nonché l’errata convinzione di non voler nuocere al bene che la Legione stava compiendo, avevano creato attorno a lui un meccanismo di difesa che lo ha reso per molto tempo inattaccabile, rendendo di conseguenza assai difficile la conoscenza della sua vera vita.

3. Lo zelo sincero della maggioranza dei Legionari, emerso anche nelle visite alle case della Congregazione e a molte loro opere, non da pochi assai apprezzate, ha portato molti in passato a ritenere che le accuse, via via divenute più insistenti e lanciate qua e là, non potessero essere che calunnie.

Perciò la scoperta e la conoscenza della verità circa il fondatore ha provocato, nei membri della Legione, sorpresa, sconcerto e profondo dolore, distintamente evidenziati dai Visitatori.

4. Dai risultati della Visita Apostolica sono emerse con chiarezza, tra gli altri elementi:

a) la necessità di ridefinire il carisma della Congregazione dei Legionari di Cristo, preservando il nucleo vero, quello della "militia Christi", che contraddistingue l’azione apostolica e missionaria della Chiesa e che non si identifica con l’efficientismo a qualsiasi costo;

b) la necessità di rivedere l’esercizio dell’autorità, che deve essere congiunta alla verità, per rispettare la coscienza e svilupparsi alla luce del Vangelo come autentico servizio ecclesiale;

c) la necessità di preservare l’entusiasmo della fede dei giovani, lo zelo missionario, il dinamismo apostolico, per mezzo di un’adeguata formazione. Infatti, la delusione circa il fondatore potrebbe mettere in questione la vocazione e quel nucleo di carisma che appartiene ai Legionari di Cristo ed è loro proprio.

5. Il Santo Padre intende rassicurare tutti i Legionari e i membri del Movimento "Regnum Christi" che non saranno lasciati soli: la Chiesa ha la ferma volontà di accompagnarli e di aiutarli nel cammino di purificazione che li attende. Esso comporterà anche un confronto sincero con quanti, dentro e fuori la Legione, sono stati vittime degli abusi sessuali e del sistema di potere messo in atto dal fondatore: ad essi va in questo momento il pensiero e la preghiera del Santo Padre, insieme alla gratitudine per quanti di loro, pur in mezzo a grandi difficoltà, hanno avuto il coraggio e la costanza di esigere la verità.

6. Il Santo Padre, nel ringraziare i Visitatori per il delicato lavoro da essi svolto con competenza, generosità e profonda sensibilità pastorale, si è riservato di indicare prossimamente le modalità di questo accompagnamento, a cominciare dalla nomina di un suo Delegato e di una Commissione di studio sulle Costituzioni.

Ai membri consacrati del Movimento "Regnum Christi", che lo hanno richiesto con insistenza, il Santo Padre invierà un Visitatore.

7. Infine, il Papa rinnova a tutti i Legionari di Cristo, alle loro famiglie, ai laici impegnati nel movimento "Regnum Christi", il suo incoraggiamento, in questo momento difficile per la Congregazione e per ciascuno di loro. Li esorta a non perdere di vista che la loro vocazione, scaturita dalla chiamata di Cristo e animata dall’ideale di testimoniare al mondo il suo amore, è un autentico dono di Dio, una ricchezza per la Chiesa, il fondamento indistruttibile su cui costruire il futuro personale e quello della Legione. (Sandro Magister, www.chiesa, 3 maggio 2010)

 

 


 

 

La questione cattolica nell'Italia che cambia

 

Introdotto dal presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo metropolita di Genova, il 3 maggio si è svolto nella città ligure il seminario di studio "L'unità nazionale: memoria condivisa, futuro da condividere" organizzato in vista della celebrazione della prossima settimana sociale dei cattolici italiani che si terrà a Reggio Calabria a ottobre. Pubblichiamo ampi stralci della relazione inaugurale:

«La riflessione non può non partire dal famoso discorso che Giovanni Battista Montini tenne in Campidoglio il 10 ottobre 1962, alla vigilia dell'apertura del concilio Vaticano ii e un anno dopo la celebrazione del centenario dell'unità d'Italia. Con quel periodare che gli era caratteristico, che nella elaborata complessità delle espressioni quasi rifletteva la complessità dei problemi in discussione, l'arcivescovo di Milano, che meno di un anno dopo sarebbe diventato Papa, sostenne che il 20 settembre del 1870 la "Provvidenza" aveva ingannato tutti, credenti e non credenti.

Aveva ingannato i credenti, che dalla fine del potere temporale temevano il crollo dell'istituzione ecclesiastica, e aveva ingannato i non credenti, che dopo la presa di Roma quel crollo desideravano e attendevano. Accadde infatti, osservò Montini, che perduta "l'autorità temporale", ma acquistata "la suprema autorità nella Chiesa", il papato riprese "con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo". Non avvenne, dunque, il disastro annunciato - temuto o sperato che fosse - ma si schiuse al Papato una stagione di ritrovata credibilità e alla Chiesa tutta un capitolo di profondo rinnovamento.

Chi vi sta parlando - cioè uno studioso laico, che è abituato a ragionare laicamente - non può far ricorso alla parola Provvidenza come categoria interpretativa dei fatti storici. E si trova quindi spiazzato davanti all'evidente paradossalità di quanto accadde un secolo e mezzo fa. Da un evento che la Chiesa del tempo, sia pure con significative eccezioni, visse come catastrofico, e che alimentò una drammatica e annosa rottura con lo Stato italiano, nacque una stagione di vitalità cattolica e di prestigio per il papato indubbiamente più felice e rigogliosa di quella che ci si era lasciati alle spalle. Un caso esemplare, potremmo dire, di eterogenesi dei fini. C'è dunque un risultato positivo del 20 settembre, che va ricordato. Il papato si liberò dell'ingombrante fardello del potere temporale ed entrò nella modernità finalmente libero da un impaccio che rendeva la Chiesa, in piena epoca liberale, un'anacronistica sopravvivenza dell'ancien régime prerivoluzionario.

Ma ricordando questo risultato, non possiamo fare a meno di riflettere sul fatto che a produrlo fu la pressione degli eventi italiani, cioè un fattore esterno e contrapposto alla Chiesa, e non un'autonoma scelta ecclesiastica. Né possiamo ignorare che ciò che Montini chiamerà evento provvidenziale e liberatorio, la Chiesa del tempo lo visse in tutt'altro modo: come un dramma di proporzioni apocalittiche che alimentò una frattura politica e sociale le cui conseguenze non si sono ancora, a ben guardare, del tutto e totalmente rimarginate. Non possiamo fare a meno di notare, insomma, negli eventi che accompagnarono il compimento dell'unificazione, un aspetto contraddittorio che fatichiamo anche oggi, a distanza di quasi un secolo e mezzo, a comprendere.

È vero, potremmo aggiungere, che alla dimensione statuale la Santa Sede non ha mai rinunciato, e l'ha riottenuta con gli accordi del 1929 e la conserva tuttora saldamente. Ma è evidente che ciò non può essere in alcun modo una giustificazione a posteriori della grande rottura ottocentesca. Tra lo Stato pontificio anteriore al 1870 e quello Stato reale ed effettivo, ma territorialmente simbolico e sostanzialmente privo del potere civile che è l'odierna Città del Vaticano, corre una differenza immensa, che a nessuno può sfuggire.

Perché, dunque - questa, credo, è la domanda che un secolo e mezzo dopo non possiamo non porci, portando a conclusione il ragionamento del cardinale Montini - perché la Chiesa del tempo subì anziché provocare essa stessa un mutamento che, alla lunga, si rivelò un guadagno? Perché non rinunciò essa stessa allo Stato temporale che già in occasione della guerra federale del 1848 era apparso un peso e una contraddizione?

Non ho risposte da dare a questo interrogativo, che ripropone, in tutta la sua drammatica e irrisolta complessità, il nodo difficile e sempre riaffiorante del rapporto della Chiesa con il tempo e la storia, una storia che essa vorrebbe dominare e dalla quale invece, non infrequentemente, è dominata, e non sempre, aggiungo, ricevendone un danno.

Il pensiero corre quasi per forza agli eventi tristi di queste ultime settimane. Anche oggi è la pressione esterna, probabilmente tutt'altro che disinteressata, che ha fatto emergere la piaga della corruzione morale di una parte del clero e ha costretto l'istituzione a voltar pagina. Oggi però a capo della Chiesa c'è un Pontefice il quale, anziché subire gli eventi, quasi li precorre, imponendo alla Chiesa universale una linea di condotta, non di arroccamento attorno alla propria giurisdizione ma di totale rispetto e adeguamento alle giurisdizioni pubbliche e civili. La svolta che Benedetto XVI sta oggi imprimendo all'istituzione ecclesiastica costituisce una rivoluzione di portata epocale, una svolta che non tutti hanno ancora compreso, né dentro né fuori della Chiesa. Una rivoluzione che suggerisce qualche interrogativo circa l'esito che avrebbero potuto avere gli eventi risorgimentali se anche un secolo e mezzo si fossero anticipati i fatti anziché subirli. Interrogativo naturalmente senza risposta, ma che serve a farci capire come una memoria condivisa del nostro passato debba necessariamente passare attraverso un serio ripensamento critico, anche da parte cattolica, dei fatti che accompagnarono l'unificazione nazionale.

Ripensamento critico che se dovesse coinvolgere anche l'altro dei due contendenti di allora, cioè lo Stato, non potrebbe tralasciare di affrontare il nodo rappresentato dalla guerra alla Chiesa che si volle ingaggiare allora. Guerra che produsse l'effetto di demolire l'unico sentimento che accomunava gli italiani, a qualsiasi ceto sociale appartenessero e in qualunque degli Stati preunitari vivessero:  il sentimento religioso, il senso di appartenenza alla Chiesa. A me pare che il vuoto, anche civile, che si è aperto allora, non sia stato ancora colmato.

E ripensando i fatti di allora c'è un secondo problema sul quale vale la pena di soffermarsi. L'arroccamento attorno alla protesta del papato isolò il cattolicesimo italiano, quasi lo staccò dal flusso degli eventi nazionali, lo rinchiuse dentro le proprie istituzioni. All'ombra della cultura intransigente nacquero in Italia giornali, scuole, istituti di credito ed enti con finalità sociali, nuove congregazioni religiose e inedite proiezioni missionarie, mentre le vecchie forme religiose cambiavano e si rinnovavano in profondità. La parrocchia, da luogo di culto devozionale divenne un centro propulsore di molteplici attività e il sacerdote, per così dire, scese dall'altare entrando nel vivo delle questioni del tempo.

I cattolici si abituarono a pensarsi come una realtà civile e politica distinta e separata dal resto del Paese, protetti e riparati dalle proprie istituzioni, dalla propria ideologia, da una cultura dell'assedio che dava forza ma limitava inesorabilmente gli orizzonti. E dalla separazione alla contrapposizione il passo fu breve. Fu una grande trasformazione, che riceverà ulteriori impulsi quando l'enciclica Rerum novarum, nel 1891, aprirà all'azione del cattolicesimo organizzato gli spazi sterminati della questione sociale.

Il risultato di tutto ciò fu una generale politicizzazione dei cattolici i quali, loro malgrado, si trovarono a essere un partito, cioè una parte rispetto al tutto della nazione, inevitabilmente contrapposta alle altre, e una parte che scendendo nell'agone politico diventava antagonista e competitrice nella lotta per il potere.

La trasformazione fu colta perfettamente da Luigi Sturzo nel celebre discorso che pronunciò a Caltagirone nel 1905, ben prima della fondazione del popolarismo, allorché affermò:  "Io suppongo i cattolici non come congregazione religiosa (...) né come l'autorità religiosa (...) né come la turba dei fedeli (...) né come un partito clericale (...), ma come una ragione di vita civile informata ai principi cristiani nella morale pubblica, nella ragione sociologica, nello sviluppo del pensiero fecondatore, nel concreto della vita pubblica". E aggiunse che i cattolici erano ormai "i rappresentanti di una tendenza popolare nazionale nello sviluppo del vivere civile". Erano diventati cioè un partito, che attendeva solo il momento opportuno per costituirsi come tale e scendere nell'agone parlamentare. Ciò avverrà, come sappiamo, dopo la Prima guerra mondiale, evento che aprì una fase nuova, interrotta dall'irruzione del fascismo e ripresa alla caduta del regime per durare fin quasi alla fine del secolo scorso.

Anche questa quasi secolare vicenda - una vicenda definitivamente conclusa o solo interrotta? propongo un interrogativo che credo non sia privo di qualche aspetto di interesse - si presta a diverse letture, a un ripensamento critico che finora è stato troppo condizionato dalla conclusione ingloriosa in seguito alle ben note vicende di Tangentopoli. L'esperienza partitica dei cattolici presenta indubbiamente un bilancio positivo che è doveroso ricordare, a partire dal giudizio che un grande storico, Federico Chabod, diede della nascita del popolarismo:  "L'avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo".

Perché quel giudizio è ancora valido, benché pronunciato mezzo secolo fa? Per dirla in breve:  perché allora si sanò una frattura drammatica; perché si ricompose il rapporto fra corpo sociale e rappresentanza politica, cioè fra Paese legale e Paese reale, come si diceva nell'Ottocento, significando con tale espressione come una parte cospicua del Paese vero, quello che vive concretamente la vita d'ogni giorno, dall'Unità fino al 1919 fosse rimasta esclusiva, priva di rappresentanza e di voce; perché furono immesse nel circuito politico idee destinate a fare molta strada. Ricorderò le principali: la riforma agraria e la necessità di creare la piccola proprietà contadina; l'adozione della proporzionale in luogo del maggioritario; il decentramento amministrativo e la valorizzazione dell'ente locale, inclusa la regione; la riforma tributaria fondata sulla progressività delle imposte; il superamento del nazionalismo e l'avvio di un ordinamento internazionale capace di imbrigliare gli stati-nazione.

Poche di queste idee si realizzarono allora. Bisognerà attendere il secondo dopoguerra e l'assunzione del governo da parte della Democrazia Cristiana, alla fine del 1945, per vedere attuato più largamente quel programma. Io credo che a questo partito, del quale oggi, con poca equanimità, si ricordano le infelici circostanze della morte più che la lunga vita, tutto sommato operosa e positiva, si debbano riconoscere almeno due meriti.

Il primo è quello di aver reso la democrazia costume diffuso, pratica accettata e condivisa, di aver superato quella cultura politica delle separazioni e delle contrapposizioni - di classe, di ceto, di interessi, di ideologie - che aveva segnato la storia nazionale tanto nel periodo liberale quanto nel tragico quadriennio prefascista quanto poi nel ventennio del fascismo.

Per più di ottant'anni c'erano state due Italie che si erano contrapposte, quella del potere e quella dell'antipotere, democratico, mazziniano, garibaldino, cattolico, socialista, fascista o antifascista che fosse. Il sogno di un'Italia diversa ha alimentato la fantasia di generazioni di italiani. Con i giudizi dei delusi e degli sconfitti - giudizi critici, sprezzanti, frustrati, dolenti, arrabbiati - si potrebbe riempire un'antologia, da Alberto Mario, il vecchio garibaldino repubblicano, uno dei padri del Risorgimento, secondo il quale (siamo nel 1880) "sussistono più relazioni tra la luna e la terra che fra Montecitorio e l'Italia, perché alla luce del pensiero nazionale non riesce mai di penetrare nell'atmosfera che avvolge Montecitorio", a Giovanni Amendola, che su La Voce, la rivista di Prezzolini, sentenziava lapidario nel 1910, un anno prima delle celebrazioni cinquantenarie:  "L'Italia come è oggi non ci piace", aggiungendo che "la nazione è poco più di un mito che tramonta e di una speranza che sorge". Insomma:  un mito infranto e una vaga speranza nel futuro. Perché stupirci allora dello scarso entusiasmo che suscitano le prossime celebrazioni centocinquantenarie? È una vecchia storia che si ripete.

Se vogliamo parlare concretamente e non astrattamente della memoria storica che ha costruito la nostra identità non possiamo prescindere dal ricordare questa secolare divisione fra le due Italie, né dobbiamo stupirci davanti al fatto che anche oggi essa riaffiori». (Gianpaolo Romanato, ©L'Osservatore Romano, 4 maggio 2010)

 

 


 

 

Cause e rimedio dei mali odierni della Chiesa

 

Nel 1985 apparve un libro che fece scalpore: il Rapporto sulla fede del cardinale Joseph Ratzinger, in cui, l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, sotto forma di intervista a Vittorio Messori, metteva in luce la crisi religiosa seguita al Concilio Vaticano II. «È incontestabile – diceva il cardinale Ratzinger – che gli ultimi vent’anni sono stati decisamente  sfavorevoli per la Chiesa Cattolica. I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti, a cominciare da quelle di Giovanni XXIII e di Paolo VI».

Passarono altri vent’anni e lo stesso cardinale Ratzinger, il Venerdì santo del 2005, alla vigilia della sua elezione al pontificato, fece un’altra affermazione che colpì per la sua forza: «Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! [Gesù]».

Oggi, nella sua Lettera ai cattolici di Irlanda del 19 marzo 2010, Benedetto XVI è ancora più esplicito: ricorda che negli anni Sessanta del Novecento fu «determinante (…) la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo. Il programma di rinnovamento del Concilio Vaticano fu a volte frainteso» e vi fu «una tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, ad evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari». «È in questo contesto generale» di «indebolimento della fede» e di «perdita del rispetto per la Chiesa e per i suoi insegnamenti (…) che dobbiamo cercare di comprendere lo sconcertante problema dell’abuso sessuale dei ragazzi».

La visione degli scandali morali che emerge da queste parole è esattamente antitetica a quella che affiora dalla stampa progressista internazionale. Chi oggi mette sotto accusa il Papa e le gerarchie ecclesiastiche pretende che la causa degli abusi dei sacerdoti stia nell’istituzione del celibato e nella “repressione” cattolica della sessualità. Ma i fatti sotto i nostri occhi dimostrano esattamente il contrario: la decadenza morale del clero ha avuto origine, negli anni del post-concilio, proprio quando la “nuova teologia” rifiutò la morale tradizionale per far propria la mitologia della “Rivoluzione sessuale”.

Occorre ricordare infatti che, durante i lavori del Vaticano II prese forma l’idea di una Chiesa non più militante, ma peregrinante, in ascolto dei segni dei tempi, pronta a rinunziare alla verginità della sua dottrina, per lasciarsi fecondare dai valori del mondo. Offrirsi ai valori del mondo significava rinunziare ai propri valori, a cominciare da quello che è più intrinseco al Cristianesimo: l’idea del Sacrificio, che dal mistero della Croce discende in ogni aspetto della vita ecclesiale, fino alla dottrina morale, che un tempo ispirava la vita di ogni battezzato, chierico o laico che fosse.

Il Concilio impose ai vescovi, come un dovere, la “sociologia pastorale”, raccomandando di aprirsi alle scienze del mondo, dalla sociologia alla psicanalisi. In quegli anni era stato riscoperto lo psicanalista austriaco Wilhelm Reich, morto quasi del tutto dimenticato in un manicomio americano nel 1957. Herbert Marcuse ed Eric Fromm ne seguirono la musica. Nel suo libro-manifesto La Rivoluzione sessuale, Reich aveva sostituito alle categorie della borghesia e del proletariato quelle di repressione e di liberazione, intendendo con questo ultimo termine la pienezza della libertà sessuale. Ciò implicava la riduzione dell’uomo a un insieme di bisogni fisici e, in ultima analisi, ad energia sessuale. La famiglia, fondata sul matrimonio monogamico indissolubile tra un uomo e una donna, era vista come l’istituto sociale repressivo per eccellenza: nessuna considerazione sociologica poteva autorizzarne la sopravvivenza.

Una nuova morale, basata sull’esaltazione del piacere, avrebbe presto spazzato via la morale tradizionale cristiana, che attribuiva un valore positivo all’idea di sacrificio e di sofferenza.

La nuova teologia, spinta dal suo abbraccio ecumenico ai valori del mondo, cercò l’impossibile dialogo tra la morale cristiana e i suoi nemici. I corifei della “nuova morale”, definiti da qualcuno “pornoteologi”, sostituivano alla oggettività della legge naturale, la “persona”, intesa come volontà progettante, sciolta da ogni vincolo normativo e immersa nel contesto storico-culturale, ovvero nell’“etica della situazione”. E poiché il sesso costituisce parte integrante della persona, rivendicavano il ruolo positivo della sessualità, anche perché, a dir loro, il Concilio insegnava che solo nel rapporto dialogico con l’altro, la persona umana si realizza.

Citavano a questo proposito il concetto secondo cui «ho bisogno dell’altro per essere me stesso», fondato sul n. 24 della Gaudium et Spes, “magna charta” del progressismo postconciliare. Basta purtroppo entrare in qualsiasi libreria cattolica per trovare sugli scaffali i libri di questi pseudo-moralisti stampati dalle principale case editrici cattoliche.

Oggi però registriamo il fallimento della “porno-teologia” e la necessità di ritornare agli insegnamenti della morale tradizionale, riscoprendo i valori della penitenza e del sacrificio. Va ribadito dunque che, malgrado i peccati di tanti suoi figli, la Chiesa Cattolica non è mai “peccatrice”, ma resta sempre santa e immacolata nella sua natura e nella sua essenza.

La ragione di questa santità integrale della Chiesa è la santità stessa di Dio, Uno e Trino, e di Gesù Cristo Capo e fondatore del Corpo Mistico. Santo è il Vangelo della Chiesa, santa la sua verità, santi e salvifici sono i suoi sacramenti. Le colpe morali dei membri della Chiesa non ne distruggono la santità morale, perché le mancanze dipendono dall’abuso del libero arbitrio degli uomini, non dall’insufficienza dei suoi mezzi di salvezza.

Anche nei periodi di crisi morale registrati nella sua storia, la dottrina e la legge della Chiesa rimangono identiche nella loro intrinseca santità, operando nelle anime di buona volontà gli stessi benefici effetti  dei tempi di splendore.

L’unica soluzione alla gravissima crisi morale dei nostri tempi sta nello spirito di vera riforma della Chiesa indicato da Benedetto XVI nella Lettera ai cattolici di Irlanda. Il richiamo alla penitenza che costituisce il filo conduttore del documento non è mai disgiunto dall’appello «agli ideali di santità, di carità e di sapienza trascendente» che nel passato resero grande l’Irlanda e l’Europa e che ancora oggi possono rifondarla (n. 3). L’invito ai fedeli irlandesi «ad aspirare ad alti ideali di santità, di carità e di verità e a trarre ispirazione dalle ricchezze di una grande tradizione religiosa e culturale» (n. 12) suona come un appello a tutti i cattolici e agli uomini di buona volontà per ritrovare l’unico fondamento della ricostruzione morale e sociale in Gesù Cristo, «che è lo stesso ieri, oggi e sempre» come in Eb 13,8. (Roberto de Mattei, Radici Cristiane, maggio 2010)

 

 


 

 

È spirituale la madre di tutte le crisi

 

«Il mondo moderno ha perduto il senso del peccato». Lo affermava Papa Pio XII all’indomani della Seconda Guerra mondiale. Lo ribadiamo anche noi, con la medesima convinzione, all’inizio di un nuovo millennio. Affrancando la ragione dallo spirito, distaccando l’intelletto umano dalla sapienza divina, si è progressivamente perduto il concetto del peccato, del male, della morte. S. Agostino scriveva: «Chi è l’uomo felice? Chi ha la misura di se stesso, cioè la saggezza». Il miglior antidoto alla paura è nella saggezza liberante che discende dal conoscere e assecondare il bene, senza ammiccamenti interiori e mentali al male, specie quando le sue conseguenze sono significate.

La rottura del rapporto con Dio, la frantumazione della speranza nelle relazioni sociali, lo svilimento dell’amore nei processi generazionali sono come una triste metafora dell’incoerenza umana: “il male non esiste”, eppure tutto va male e l’uomo soffre; “l’uomo è libero e liberamente deve decidere il suo destino”, eppure è sempre più infelice e prigioniero di mille e mille paure che ottenebrano il suo destino. Ritorna da lontano la voce del nostro progenitore Adamo che, chiamato da Dio, risponde: «Ho udito il tuo passo nel giardino, ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gn 3,10). Benché la paura del “passo di Dio” non si sia mai arrestata, l’uomo di ogni tempo continua a procedere incurante, nascondendo il suo segreto bisogno, spesso inconfessabile, di trovare nella sapienza divina la guarigione di tutte le paure che non fanno avanzare la storia.

Chi non crede di dovere dare alla propria vita una “misura alta”, entro cui esperimentare l’esercizio della propria libertà e il rispetto di quella altrui, si ritrova presto drammaticamente solo, cade dinanzi all’impossibilità di procurarsi una felicità senza Dio. Ed ecco la paura di vivere, di soffrire, di morire, del mistero di Dio; in fondo, sono queste le vere malattie spirituali del nostro tempo, dimentico dello spirito cristiano. Non facciamoci illusioni e non tentenniamo dinanzi ai molti benpensanti che invocano una teologia buonista dinanzi al male: da quando «il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (cfr Gv 1,14), è iniziato un combattimento spirituale tremendo, in cui è lo «Spirito di verità che libera dalla schiavitù della paura e regala all’uomo libertà» (cfr. Rm 8,15). Ora, è chiesta la nostra cooperazione affinché siano messe a nudo le concupiscenze umane e le falsità che albergano nel cuore dell’uomo, il peccato strutturale che regna nel mondo e il piano antiumano delle nostre società.

La storia dell’incarnazione del Verbo è la storia della vittoria su ogni male, su ogni peccato, sulla morte. Se questa visione non è chiara ne consegue il cambiamento della percezione delle relazioni, la separazione del senso morale dal valore dell’esistere, la perdita della tensione alle virtù, lo smarrimento della passione per la conversione personale e comunitaria, per il senso del dovere, del sacrificio, delle responsabilità.

C’è, talvolta, tra noi, una sorta di complesso d’inferiorità dinanzi al male che si accanisce sulla storia, un’inquietudine che ci assale dinanzi al tentativo corrente di privare il cristianesimo di ogni rilievo pubblico e di anestetizzare le coscienze. Si vorrebbe una sorta di cristianesimo diluito, anonimo, una «chiesuola in cui riparare per trovare protezione», come affermava don Luigi Sturzo. Ebbene, per dirla con Dietrich Bonhoeffer, «noi cristiani dobbiamo tornare all’aria aperta del confronto spirituale con il mondo». La sfida, dunque, è dare cittadinanza a livello culturale, educativo, formativo, sociale, politico ad una nuova dimensione spirituale dell’uomo. La madre di tutte le crisi del nostro tempo è spirituale! Abbiamo trascurato la dimensione interiore dell’uomo - permettendo l’esteriorizzazione, fino alla violenza, dei suoi più intimi sentimenti - perché ritenuta anacronistica. Oggi questo bisogno si fa percepire con nuovi segnali, con fenomeni che vanno considerati attentamente. Urge una cultura dell`interiorità, che sia autentica ricerca della verità interiore, vissuta con lucidità, consapevolezza e senso critico. (Salvatore Martinez, Piùvoce.net, 5 maggio 2010)

 

 


 

 

Romano Guardini. Sguardo cattolico sul mondo

 

Esce nell’Opera Omnia del pensatore italo-tedesco l’epistolario con l’amico di una vita: Josef Weiger. Sono 223 lettere scritte nell’arco di cinquant’anni: un documento prezioso per comprendere la visione cristiana del mondo di un uomo che ha influenzato una generazione di teologi.

Non c’è un Romano Guardini «pubblico» – quello delle lezioni, dei saggi, delle conferenze – e un Romano Guardini «privato» – quello degli appunti autobiografici, del diario, delle lettere. Così come non c’è «l’uomo Guardini» e «l’uomo di Guardini»: perché non c’è distanza fra la parabola umana e spirituale del pensatore italiano per nascita, tedesco per formazione, europeo per vocazione, e la sua visione generale sull’essere vivente in relazione con l’Assoluto. Insomma vale bene per lui la tesi cara a Teilhard de Chardin: la verità dell’Uomo è la verità dell’Universo per l’Uomo, creato e redento dal Logos, cioè semplicemente, la Verità.

Non solo. Se è vero che la presenza dell’uomo reale nella sua tensione verso la Verità ingombra il pensiero del nostro, la stessa tensione ha segnato il percorso di Guardini sin dal suo donarsi alla Chiesa per condividerne la ricerca di Verità. Ne offre ripetuta conferma ogni nuovo volume di quell’Opera Omnia da anni in corso di pubblicazione presso l’editrice Morcelliana, che, pur dividendone la produzione in scritti filosofici, teologici, spirituali, liturgici, di interpretazione biblica, o in saggi dedicati a figure, oppure in scritti autobiografici ed epistolari, finisce per dar risalto alla coerenza dell’originalità del suo discorso sull’uomo e su Dio, ma anche alla fedeltà di una testimonianza brillata nel secolo breve. Se ne ha la riprova anche nel volume appena uscito Lettere a Josef Weiger 1908-1962 (a cura di Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, pp. 528, 40 euro), che presenta 223 lettere inedite inviate da Guardini a quello che è stato forse il suo miglior amico (almeno dopo la morte del compagno di studi ordinato sacerdote con lui, Karl Neundörfer, «la perdita più dolorosa di tutta la vita»).

Un epistolario lungo appunto oltre cinquant’anni, dal 1908 al 1962, custodito nell’archivio della canonica di Mooshausen, un borgo nell’Algovia sveva, a metà strada fra Monaco e Lindau, dove Weiger era parroco. Lui l’interlocutore fidato «estremamente aperto e umanamente ricco», chiamato a condividere riflessioni fra unitarietà di pensiero e strutture spirituali, nella consapevolezza che «la verità è polifonica» e che occorre «distinguere per unire». Lui a condividere oltre cinque decenni di comunione di pensiero, di affetto, soprattutto negli anni giovanili degli studi guardiniani, del dottorato a Friburgo e dell’abilitazione a Bonn (1908-1922), del periodo di Guardini a Berlino (1923-1943), soprattutto quelli sulla cattedra di «Weltanschauung cattolica» dove le lezioni – che di fatto continuavano nelle omelie dal pulpito «come una cosa sola» – spiegavano la visione del mondo in prospettiva cristiana: agli occhi del filosofo-teologo, la più abilitante per questo abbraccio visivo della realtà, quello in grado di assumere lo sguardo di Cristo.

«Lo sguardo della Weltanschauung è lo sguardo di Cristo... Lo sguardo sul mondo è una prerogativa di colui che davvero crede in forza della sua fede, anche se il suo livello spirituale, quanto al resto, possa essere modesto. Nel credente si ripete, per quanto in misura minima, l’atteggiamento del Cristo. Ogni vero e reale credente è un vivo giudizio sul mondo»: così Guardini si esprimeva in uno scritto del ’23, nella certezza di una Chiesa cattolica «portatrice dello sguardo di Cristo sul mondo».

«Lei dovrebbe fare ciò che dice il termine Weltanschauung, ossia considerare il mondo, le cose, l’uomo, le opere, ma fare tutto ciò come un cristiano cosciente delle sue responsabilità, dicendo ciò che vede in termini scientifici», gli aveva consigliato Max Scheler. Cosa che il nostro continuò a fare anche dopo la cacciata dall’Università. Guardini, infatti, fu destituito dalla sua cattedra dai nazisti già dal gennaio ’39, decidendosi ad abbandonare Berlino per l’accogliente canonica dell’amico Weiger solo dall’estate del ’43.

Nel rifugio di Mooshausen rimase sino al ’45. Lì cominciò a scrivere le sue pagine autobiografiche (Berichte über mein Leben) per riprendere il suo insegnamento dopo la guerra a Tubinga dal ’45 al ’48 e a Monaco dal ’48 al ’62. Sono tappe che Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, eminente studiosa della filosofia del XX secolo ha ben raccontato nella sua biografia, pure edita in Italia dalla Morcelliana 12 anni fa intitolata Romano Guardini. La vita e l’opera, tappe che nell’epistolario con Weiger possono essere lette cogliendo in filigrana l’evoluzione del pensiero guardiniano anche nei passaggi progressivi da posizioni vicine a tesi liberali (si veda l’inedito nel riquadro, ndr) ad altre più tradizionali. Questo ci dicono le missive, documenti ancor più preziosi se si pensa che gran parte della corrispondenza del pensatore italo-tedesco ancora attende di vedere la luce (se ne conoscono schegge valorizzate nelle biografie, gli scambi epistolari con il fenomenologo Frederik J.J. Buytendijk, con i benedettini dell’abbazia Maria Laach, Ildefons Herwegen e Odo Casel, e non molto altro).

Ma torniamo al rapporto con Weiger. Guardini lo aveva conosciuto nel collegio Wilhelmsstift di Tubinga nel novembre 1906 e pochi mesi dopo Josef lo accompagnava all’abbazia di Beuron facendogli scoprire la sua liturgia e quel «mondo completamente nuovo». È alla comunità di Beuron che Guardini deve l’ispirazione della sua prima opera geniale: Lo spirito della liturgia, del 1918, e all’influsso di alcuni benedettini di questo centro nell’Alta valle del Danubio – Anselm Manser, Odilo Wolff, Placidus Pflumm – si accompagnerà poi quello della cerchia degli amici di Tubinga: Philipp Funk, Herman Hefele, Karl Neundörfer. A quest’ultimo, Guardini, nel 1925, subito dopo la prematura scomparsa dedicherà una delle sue opere più importanti benché meno comprese, L’opposizione polare. Saggio di una filosofia del concreto-vivente.

Ed eccola una delle parole-chiave guardiniane: «polare». Secondo il pensatore, il cristiano vede nel mondo una «complexio oppositorum», una polarità di opposizioni, assumendosi le conseguenti responsabilità e leggendo gli eventi a partire dalla Croce di Cristo. È questo il senso anche delle pagine raccolte sotto titoli come L’essenza del cristianesimo, Il Signore, Mondo e persona, tutti volumi dove Guardini ci appare uno dei maggiori interpreti della scelta esistenziale di vita cristiana, anticipatore di tanti dibattiti sulla postmodernità nel suo pensare il Cristo e le sfide della modernità, nel suo immaginare il futuro della fede senza orpelli.

Sono argomenti, questi, toccati anche nelle lettere a Weiger, affrontati con lui nel soggiorno a Mooshausen, dove Guardini avrebbe continuato a vivere anche fra il ’45 e il ’48 nei periodi liberi dall’insegnamento come associato alla Facoltà di filosofia all’Università di Tubinga, prima di passare alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco, la città elettiva dei suoi ultimi vent’anni, fra il ’48 e il ’68, tornando spesso anche negli anni successivi per «pause ristoratrici» in quella che considerò la vera casa della sua vita. Una vita piena, ridisegnata in queste lettere che inanellano riflessioni che spaziano dall’arte alla musica, dalla pedagogia alla liturgia, dall’antropologia all’etica, parlandoci di fede e devozione, rivelazione e speranza, tenendo il riflettore puntato sul mysterium Christi, perno di quella Weltanschauung cattolica a lungo insegnata.

È comunque il legame costruito e alimentato sulla fede come incontro a balzare agli occhi: «Devi trovare la comunione con gli uomini. Dare loro non un cameratismo esteriore, bensì le cose più importanti, quelle che vengono da dentro. E puoi farlo solo se le capisci, se tu stesso diventi "di tutti"...», scriveva Guardini a Weiger il 10 febbraio 1911, convinto come scrive poi il 31 dicembre 1912 che «la virtù umana per eccellenza, status viatoris, più semplicemente il lato pratico della fede» è «l’ottimismo cristiano».

Tali legami si leggono in filigrana dietro le tante descrizioni di rapporti con amici, conoscenti, familiari, luoghi, autori conosciuti «de visu» o attraverso le loro opere. Che sovente generano entusiasmo. Come accade davanti a Charakter und Christus del pedagogista Friedrich Wilhelm Foerster (del quale scrive a Weiger il 15 febbraio 1914 «l’ho sempre sul tavolo; e gli devo molto»). O come succede dopo aver ascoltato per due domeniche successive il Parsifal di Wagner (nella stessa lettera scrive: «Entrambe le volte mi ha fatto stare meglio, mi ha fatto pregare. Se mi riesce, voglio mettere per iscritto ciò che ho colto, e poi te lo mando. Non posso farci niente: è un vero e profondo cristianesimo»). Odavanti alle opere di Newman («senz’altro il santo del XIX secolo, ma per il suo sguardo nel futuro», così il 6 gennaio 1930).

E, a proposito di autori, ecco Nietzsche: «L’autore con cui dobbiamo confrontarci nel modo più amaro», confida all’amico nell’aprile 1922, aggiungendo: «Sai, vedo più precisamente quale sarà la decisione dei tempi futuri: cristianesimo o paganesimo, cioè un paganesimo determinato, ricco e bello, che ha nel sangue la libertà prodotta da 2 mila anni di cristianesimo». Ma c’è spazio anche per l’Aquinate e Dante, Brentano e Goethe, Leopardi, Bremond, Lucie Christine... Per la filosofia, la letteratura, la poesia... E per i maestri delle arti figurative: Emil Nolde, Gebhard Fugel, Karl Otto Speth, Karl Caspar...

Soprattutto, c’è tanto spazio per riflettere sulla fede. In una lettera del 19 novembre 1924 si legge: «È proprio così: bisogna credere per poter giudicare le cose della fede. Sembra un paradosso, ma è la più semplice delle verità. Proprio come il fatto che bisogna vedere i colori per poterli giudicare. Ed è questo che rese così risoluti tutti gli "oppositori della dialettica", e la loro serie va da Paolo, passando per Epifanio, e i monaci egizi, fino a Bernardo, Tommaso da Kempen, Lutero, Kierkegaard...: l’evidenza che anche con tutta la forza della natura e l’arte delle cose che superano la natura non si vede e non si padroneggia niente. – Vero! Ma esageriamo l’idea dell’"autonomia del cristiano"; rifiutiamo tutto quello che proviene dalla ragione e dai criteri della natura – non la consegniamo a un "arbitrio cristiano"? All’inizio c’è "la fede", presto però ecco cadiamo in nuovi presupposti psicologici, vale a dire l’atteggiamento "esclusivamente religioso", con il suo risentimento anticulturale, anti-naturale? E non è così terribile che si preferisca accettare ogni razionalismo liberale per poter respirare di nuovo? Scilla e Cariddi! E la vera vita cristiana procede, davvero, non in una via di mezzo dorata! Vorrei vedere quelli che tessono le lodi di questo ordinamento borghese così ben ordinato tenersi in equilibrio qui. Ma è un sentiero molto stretto, molto instabile! – qui non ci sono più teorie che aiutano, ma solo un senso della misura che Dio ci possa donare!».

Da queste poche righe si può scorgere un atteggiamento di spoliazione di ogni volontà di autoaffermazione e il rimando all’ascolto di Gesù di Nazaret. Non è forse lo stesso atto di fede e umiltà richiesto alla Chiesa? Non torna la metafora dello sguardo oltre ogni soggettività, fuori di sé, diretto alla verità delle cose, dell’altro che ci è prossimo e dell’Altro trascendente? Alla scuola di grandi maestri, da Platone all’evangelista Giovanni, da Agostino a Tommaso, da Bonaventura e a Dante – come ha scritto Bruno Forte – «Guardini sviluppa una tesi decisiva come fondazione dell’intero: il primato del logos sull’ethos, dove con logos s’intende l’ultimo fondamento della realtà, che non richiede né una fondazione, né un riconoscimento per essere vero». Ed è qui, aggiunge il vescovo teologo, «che si comprende l’importanza che il pensiero di Guardini ha per la visione del mondo di Joseph Ratzinger: al di là del pur notevole riferimento al Guardini del senso teologico della liturgia, il futuro Papa converge con questa esigenza radicale dell’opera guardiniana, e proprio testimoniando continuamente la fiducia nella forza unificante e liberante del logos dimostra quanto grande e significativa sia l’eredità di Romano Guardini per il mondo uscito dalla crisi della modernità e alla ricerca di orizzonti affidabili di senso in questa inquieta post-modernità. Il magistero di Benedetto XVI è, in questo senso, il riconoscimento più alto che potesse essere fatto alla voce profetica del Novecento, che è stato Romano Guardini». (Marco Roncalli, Jesus, maggio 2010)

 

 


 

2 Maggio 2010

 

Resistenza, comunisti «contro» cattolici?

 

Anche senza riprendere la ormai citatissima tripartizione proposta da Claudio Pavone tra guerra patriottica, guerra civile e guerra di classe e ferme restando tutte le inevitabili frizioni provocate dai diversi obiettivi finali («soltanto» la liberazione dell’Italia dai tedeschi o anche e «soprattutto» l’avvio di un processo rivoluzionario per il superamento del sistema socio-economico capitalistico?), va ricordato che i comunisti puntavano ad allargare il più possibile la partecipazione popolare alla lotta patriottica, imprimendole un carattere di inflessibile durezza, allo scopo di finire al più presto la guerra, mentre al contrario i cattolici e in genere i moderati ricercavano una rigida selezione degli effettivi partigiani e ponevano dei limiti all’attività ribellistica.

Essi si sentivano inoltre – come gli azionisti e gli autonomi – più vicini alle logiche e alle forme tradizionali dell’esercito che non a quelle di un popolo chiamato alla rivoluzione. Uno dei protagonisti cattolici della repubblica di Montefiorino, Ermanno Gorrieri, ha ben colto queste differenze: «In sostanza, da parte comunista […] si tendeva a condurre la guerra partigiana senza esclusione di colpi, accettando senza esitare il carattere violento e spietato imposto alla lotta dai fascisti e dai nazisti […] Da parte democristiana l’aspirazione invece era quella di "umanizzare" la lotta, evitando gli spargimenti di sangue che non fossero necessari e limitando le occasioni di rappresaglie e di sofferenze per le popolazioni inermi. Nessun dubbio sulla maggiore efficacia del tipo di lotta sostenuto dai comunisti mentre dal punto di vista del costo umano è certo che esso fu più elevato». L’impostazione cattolica appariva certamente coerente con la visione della vita e della persona che scaturiva dalla religione, ma – sul piano pratico – si doveva comunque fare i conti con le argomentazioni addotte dai comunisti, anch’esse finalizzate a contenere le perdite umane, seppure seguendo un percorso diretto.

A costo di apparire salomonici, si potrebbe dire che entrambe le strade presentavano vantaggi e svantaggi. Ma ciò che conta è che quelle due diverse strade erano divergenti o, meglio, continuamente si incrociavano per poi tornare a dividersi. E che gli incroci ci fossero è fuori dubbio. È bene allora ricordare che i momenti di unità ci furono e che per la prima volta nella storia italiana forze tanto radicalmente contrapposte lavorarono insieme. Ci si conobbe: non più da una parte e dall’altra si pensava a marionette o figure astratte, ma si conoscevano ora dal vivo i volti, la voce, il coraggio o le debolezze del nuovo compagno di avventura.

Va aggiunto che anche sulla presenza del prete in mezzo alle formazioni partigiane – pur non mancando episodi di rifiuto o quantomeno di diffidente freddezza – si trovarono forme nuove di intesa. Vari comandanti comunisti richiesero infatti la presenza di cappellani militari e tra questi fu il celebre Moscatelli, che nel luglio 1944 ottenne dal vescovo di Novara il permesso di aggregare alle sue formazioni un ufficiale cappellano, annunciando poi con grande solennità la decisione e componendo, lui ateo, persino una preghiera dei garibaldini, con tanto di «santino» di san Michele. Non vanno sottovalutati questi incontri al momento di riflettere poi sullo spirito e sullo sforzo unitari compiuti da cattolici, comunisti, socialisti e azionisti nel periodo dell’Assemblea Costituente. Come detto, però, le differenze esistevano e talora portavano a duri scontri, anche armati, al momento di prendere decisioni gravi, specialmente nel caso di esecuzioni.

Don Rino Cristiani, cappellano garibaldino nella divisione «Aliotta» nell’Oltrepò pavese, tentò invano di impedire la fucilazione di prigionieri fascisti. Emblematico è il suo colloquio con «Piero» (il comunista reggiano Orfeo Landini), alla fine del novembre 1944, allorché il prete tentò di impedire la fucilazione di 12 fascisti a Cencerate. Secondo don Rino il breve dialogo si svolse così: «Con questo gesto, non salvi l’Italia e rischi di farci perdere tutto. Torna sulle tue decisioni». «Hai fatto la tua parte? – rispose seccato [Piero]  – Allora levati di mezzo». Le divergenze portarono anche all’uso delle armi. È questo uno dei capitoli più segreti e dolorosi della storia della Resistenza e sarebbe ormai tempo – recuperando eventuali tanti episodi dimenticati o chiarendo i fatti controversi – di arrivare a una sintesi e a una valutazione complessiva del fenomeno dei partigiani uccisi da altri partigiani. In pratica è entrato nella storia più conosciuta solo l’episodio avvenuto in Friuli a Porzûs il 7 febbraio 1945, allorché un battaglione di garibaldini attaccò e uccise 19 partigiani appartenenti alla Brigata Osoppo. Non si trattò solo di quello.

Cito tra i tanti il colonnello Raffaele Menici, catturato in seguito a un accordo tra alcune Fiamme Verdi e i tedeschi, e ucciso per mano partigiana il 17 novembre: sul fatto – ancora controverso – il principale animatore della Resistenza camuna, don Carlo Comensoli, espresse a suo tempo un durissimo giudizio. Per quanto riguarda l’Emilia limitiamoci qui a richiamare solamente tre vittime significative, una per ciascuna delle province centrali della regione, anche perché due di loro sono state recentemente studiate. Anzitutto clamoroso risulta essere il caso di Dante Castellucci «Facio», già amico e stretto collaboratore dei Cervi, poi comandante del battaglione Guido Picelli sull’Appennino parmense, giustiziato da un plotone d’esecuzione partigiano il 22 luglio 1944, dopo un processo farsa orchestrato dal comunista Antonio Cabrelli.

Ma ciò che è più incredibile è il «dopo»: non solo per i falliti tentativi di ottenere giustizia, condotti anche dalla compagna di Facio, Laura Seghettini, ma soprattutto per la falsificazione operata al momento di motivare la concessione della medaglia d’argento alla memoria a Castellucci: la sua morte fu presentata ufficialmente come procurata dal nemico dopo uno strenuo combattimento e il rifiuto della resa. Nel Reggiano, invece, la storia di Mario Simonazzi «Azor» (e poi «Salardi») è emblematica; scomparso il 21 marzo 1945, il suo corpo sarà casualmente ritrovato nell’agosto successivo. Su «Azor» cadrà malgrado tutto una coltre di silenzio e anche la stampa locale si guarderà bene dal riprenderne il ricordo, fino all’ultimo «insulto» (ci si permetta di chiamarlo così) di inserirlo nelle liste dei caduti della Rsi!

Infine non va dimenticato, nel Modenese, l’analogo caso di Giovanni Rossi, il capo partigiano ucciso dai comunisti a Monterotondo, perché non intendeva adeguarsi alle direttive del Pci e rivendicava piena libertà d’azione. Subito dopo la Liberazione incontri e scontri tra le varie anime della Resistenza si giocarono anzitutto sul persistente ricorso alla violenza. Da parte cattolica la denuncia delle esecuzioni sommarie fu serrata, a partire dai vescovi per arrivare ai parroci che in varie circostanze tentarono di impedire le esecuzioni e, quando ciò non risultava possibile, almeno di assicurare i conforti religiosi ai condannati.

Ma ci si incontrò e scontrò anche in relazione al giudizio da dare sul «trasformismo». La politica comunista, di aprire le porte del partito anche agli ex-fascisti, i quali – come spesso succede – si mostrarono presto più rigidi e fanatici di chi già da tempo era antifascista, non fu condivisa da tutti. L’amarezza di molti partigiani autentici si manifestò anche al momento delle celebrazioni ufficiali della Liberazione, quando essi si accorsero del consistente numero di arruolati dell’ultima ora, capaci magari di arrivare a porsi in prima fila. Don Aurelio Giussani, che era stato uno degli animatori dell’Oscar, rete di soccorso per ebrei e ricercati, e che poi era dovuto fuggire da Milano sull’Appennino parmense divenendo cappellano partigiano, descrisse con queste parole la sfilata del 6 maggio 1945 a Milano: «A dire la verità, fra tante divise, bandiere, decorazioni, mi trovo come sperso; mi pare di trovarmi trascinato in una carnevalata organizzata in tutta fretta a gara di velocità dai vari partiti che si contendono la gloria dell’eroismo e della libertà conquistata. Tra tanto esibizionismo resto quasi stomacato; tra tutta quella gente che all’ultimo momento ha saputo cambiare casacca non mi trovo affatto. Tutte le volte che, braccato, con la polizia alle calcagna, sono sceso a Milano, non ho avuto la sensazione di avere tanti amici e collaboratori nella guerra; al contrario si era troppo pochi ed isolati fra tante spie, fra tanti paurosi e tra gente abile solo nel doppio gioco. In testa a tutti in questa corsa è il Partito Comunista».

Trarre da queste citazioni la conclusione che solo il Pci imbarcò ex fascisti e convertiti dell’ultima ora sarebbe falso e ingiusto, così come sarebbe forzata una riduzione della politica di «conciliazione», voluta da Togliatti e culminata nell’amnistia del giugno 1946, a operazione puramente strumentale. Tutte le forze politiche, in misura maggiore o minore furono toccate dal fenomeno del trasformismo, che del resto è purtroppo usuale in ogni momento di transizione politica e di cambiamento del potere. Semmai il vero problema era di stabilire in base a quale criterio attribuire la qualifica di «vero» o di «falso» partigiano. E qui si torna ai nodi centrali sopra ricordati, sui modi di conduzione della lotta e sui criteri di selezione dei combattenti e poi degli iscritti ai partiti democratici, oltre che alle vivaci e pluridecennali polemiche sul cosiddetto «attendismo».

Anche la partecipazione di centinaia e centinaia di preti alla Resistenza si giocò infatti in tante forme diverse, dall’aiuto a ebrei e perseguitati all’incitamento ai giovani ad andare in montagna, dal sostegno alla lotta armata stando nelle retrovie alla diretta presenza nelle bande armate e persino in alcuni casi capeggiando militarmente le bande stesse o ponendosi a capo dei Cln locali. Questo fatto indiscutibile non può però essere assunto in modo totalizzante, quasi che tutta la Chiesa e tutto il clero si siano comportati così: tra i preti italiani non mancarono – qui sì – attendismi, paure, vigliaccherie e seppure in modo nettamente minoritario anche adesioni alla Rsi.

Va peraltro osservato che nel successivo clima della guerra fredda il ricordo di questa Resistenza dei preti si affievolì e venne – sembra di poter dire – volutamente attenuato. La memoria dei preti partigiani fu fatta rapidamente svanire e fin qui si può anche comprendere in un certo qual modo l’imbarazzo di esaltare persone che – pur consacrate – avevano comandato formazioni armate, diretto operazioni militari, magari portato personalmente le armi, come nei casi del bergamasco don Antonio Milesi «Dami» e del bresciano don Vittorio Bonomelli «Platone». Caddero però nell’oblio anche quei preti che non avevano direttamente partecipato alle azioni militari, ma che ugualmente si erano «compromessi» con la Resistenza o avevano dovuto prendere la via della deportazione e del Lager. La Chiesa cattolica italiana ha smarrito la memoria di tutti questi uomini che, per di più, tendevano a rifuggire dalle celebrazioni e in più di un caso si «riconvertirono» ad azioni di tipo sociale o di volontariato di frontiera. È sintomatico dunque il fatto che il «Martirologio del clero italiano» metta insieme alla rinfusa tutti i preti morti nel periodo della guerra e dell’immediato dopoguerra, senza distinguere tra quanti furono uccisi da tedeschi e fascisti e chi cadde per mano partigiana; anzi, a loro vengono mescolati i cappellani militari caduti al fronte, le vittime dei bombardamenti aerei e pure coloro che avevano perso la vita in seguito a incidenti più o meno banali. Qualcosa di analogo è avvenuto pure a Reggio Emilia, dove il vescovo Socche e la Chiesa locale elencarono insieme, senza distinzioni, i preti uccisi per motivi e per mani diverse.

L’intento di tutto ciò è abbastanza evidente: da un lato si puntava a ridurre la portata della collaborazione – pur problematica – attuatasi nel 1943-1945 tra preti, cattolici e comunisti; dall’altro si voleva sottolineare l’identità tra la violenza «nera» e quella «rossa», quest’ultima semmai giudicata ben più attuale e pericolosa. Una pur sommaria sintesi storica deve invece distinguere tra loro i diversi episodi, ferma restando ovviamente la netta condanna di tutti gli omicidi, a prescindere dalle motivazioni e dagli esecutori o dai mandanti. In un primo gruppo vanno considerati ovviamente quanti furono uccisi dai nazifascisti: anzitutto don Pasquino Borghi, fucilato a Reggio Emilia il 30 gennaio 1944, e poi don Battista Pigozzi, parroco di Cervarolo, fucilato dai tedeschi con 23 parrocchiani il 20 marzo 1944 e don Giuseppe Donadelli, parroco di Vallisnera, ammazzato dai fascisti con due parrocchiani il 2 luglio 1944. In un secondo gruppo compaiono quei preti morti per mano partigiana e a causa delle proprie vere o presunte compromissioni con Salò: don Luigi Manfredi, parroco di Budrio di Correggio, ucciso perché ingiustamente ritenuto responsabile di aver favorito proprio la cattura di don Pasquino Borghi (14 dicembre 1944), don Dante Mattioli, parroco di Cogruzzo, sospetto collaborazionista (11 aprile 1945) e don Carlo Terenziani, parroco a Ca’ de’ Caroli, prelevato a Reggio Emilia e ucciso poco dopo (29 aprile 1945). In quest’ultimo caso siamo di fronte al caso politicamente più evidente, visto il passato della vittima come cappellano della Milizia fascista.

Vi è infine il gruppo di preti sul cui comportamento durante la Resistenza nulla si poteva obiettare, ma che vennero uccisi per mano comunista in quanto non era gradita la loro netta presa di distanze dalle violenze più estreme e ingiustificate compiute da taluni esponenti della Resistenza. Ricorrono qui i nomi noti di don Giuseppe Iemmi, curato di Felina, ucciso il 19 aprile 1945 e di don Umberto Pessina, parroco di San Martino in Piccolo di Correggio, ucciso il 18 giugno 1946. Mi sembra rimangano ancora nella penombra i reali motivi dell’uccisione di don Luigi Ilariucci, parroco di Garfagnolo presso Castelnuovo ne’ Monti (19 agosto 1944), don Sperindio Bolognesi, parroco di Nismozza, morto a causa di un ordigno (25 ottobre 1944), don Aldemiro Corsi, parroco di Grassano (22 novembre 1944). A questi uomini viene solitamente affiancato il seminarista quattordicenne Rolando Rivi, ucciso il 13 aprile 1945 alle Piane di Monchio, per il quale è stato di recente avviato il processo canonico di beatificazione.

La dolorosa vicenda di don Pessina fu alle origini di un importante scritto di don Primo Mazzolari, su sollecitazione di don Emanuele Rabitti, parroco proprio di San Martino Piccolo di Correggio, nell’ambito di un più vasto progetto finalizzato a onorare don Pessina e con lui tutti i preti uccisi tra guerra e dopoguerra. Nacque così «I preti sanno morire. La Via Crucis continua», un testo con il quale don Mazzolari riuscì a spostarsi su un piano di meditazione spirituale e a sottrarsi di conseguenza ai rischi di nuove strumentalizzazioni polemiche. Si potrebbe aggiungere che sul piano degli studi andrebbe colmato il divario che tuttora resiste tra quanti si sono dedicati al compito di tutelare la memoria di questi preti e gli storici di professione, al punto che il ricordo di queste vittime rimane affidato a una lunga serie di studi locali, di volumetti o opuscoli dalle più diverse finalità.

Per tanti e vari motivi, dunque, la storia della Resistenza è ancora ben lungi dall’essere scritta in modo definitivo e convincente. Applicarsi a questo tipo di ricerche con grande libertà di spirito e ampi orizzonti nella ricerca di fonti e testimonianze significa oggi compiere non solo un’attività scientificamente necessaria, ma anche un’operazione di evidente rilievo culturale e civile, convinti che quella stagione, pur tra errori, complicità e deformazioni di ogni genere abbia comunque rappresentato uno dei momenti più alti della nostra storia nazionale. E convinti che mettere in evidenza il «male» della Resistenza sia il modo migliore per farne risaltare il «bene» di fronte a ogni interessata demolizione. (Giorgio Vecchio, Avvenire, 24 aprile 2010)

 

 


 

 

L'esistenza del demonio nell'Antico e Nuovo Testamento

 

L’intelligenza umana non riuscirà mai a provare se tutto ciò che la Sacra Scrittura ci dice circa il diavolo sia realtà, mera immaginazione profetica o errata interpretazione di metafore. Tutti coloro che dichiarano la sua inesistenza semplicemente perché la scienza non riesce a raccoglie documentazione in merito, oltre a dimostrarsi estremamente superficiali, indirettamente giacciono sotto l’influenza e la guida spirituale del demonio; sono eretici. La scienza, come ben sappiamo, approva tutto ciò che può essere sperimentabile, ma per quanto concerne le possessioni demoniache, le vessazioni, le infestazioni, ecc. essa non riuscirà mai a dare delle giustificazioni concrete, quindi, ritiene opportuno ridurre il tutto alla psiche, ai suoi ignoti meccanismi od a fenomeni magnetici, ecc.

Noi crediamo che il diavolo esista ancora oggi, perché lo stesso Gesù ce lo ha rivelato e ci ha messo in guardia fino alla fine dei tempi.

Nell’Antico Testamento non si trovano molti testi che parlano del diavolo. Lo stesso Mosè, sembra nascondere intenzionalmente al popolo ebraico l’esistenza di questo essere potentissimo, perché egli aveva la convinzione che ne avrebbero sicuramente fatto un altro idolo. Non bisogna, difatti dimenticare, che i giudei, come tutte le popolazioni dell’epoca, erano molto superstiziosi ed avrebbero sicuramente finito con l’adorare anche Lucifero ed i suoi “compari”.

Nel libro di Giobbe è evidenziato il racconto in cui l’astuto avversario si cimenta nel vano tentativo di allontanare definitivamente l’uomo da Dio.

“Un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro. Il Signore chiese a Satana: “Da dove vieni?”. Satana rispose al Signore: “Da un giro sulla terra, che ho percorsa”.  Il Signore disse a Satana: “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male”. Satana rispose al Signore e disse: “Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda di terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!”. Il Signore disse a Satana: “Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stender la mano su di lui”. Satana si allontanò dal Signore” (Gb 1,6-12).

Una pericope molto rilevante la ritroviamo nel Libro di Zaccaria quando, mediante una visione, si riesce a smascherare la figura del diavolo e della sua interminabile azione di eterno accusatore.

“Poi mi fece vedere il sommo sacerdote Giosuè, ritto davanti all'angelo del Signore, e Satana era alla sua destra per accusarlo. L'angelo del Signore disse a Satana: “Ti rimprovera il Signore, o Satana! Ti rimprovera il Signore che si è eletto Gerusalemme!” (Zc 3,1-2).

Cari amici, non pensate che quanto sta scritto nella Sacra Scrittura sia frutto di fantasie e di superstizioni, ricordate che la parola di Dio è sempre attuale. Leggiamo insieme le seguenti citazioni bibliche:

“Sì, Dio ha creato l'uomo per l'immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono” (Sap 2,23-24);

“Nello stesso giorno capitò a Sara figlia di Raguele, abitante di Ecbàtana, nella Media, di sentire insulti da parte di una serva di suo padre. Bisogna sapere che essa era stata data in moglie a sette uomini e che Asmodeo, il cattivo demonio, glieli aveva uccisi, prima che potessero unirsi con lei come si fa con le mogli” (Tobia 3, 7-8);

“Allora il ragazzo rivolse all'angelo questa domanda: “Azaria, fratello, che rimedio può esserci nel cuore, nel fegato e nel fiele del pesce?”. Gli rispose: “Quanto al cuore e al fegato, ne puoi fare suffumigi in presenza di una persona, uomo o donna, invasata dal demonio o da uno spirito cattivo e cesserà in essa ogni vessazione e non ne resterà più traccia alcuna” (Tb 6,7-8);

“Ho sentito inoltre dire che un demonio le uccide i mariti. Per questo ho paura: il demonio è geloso di lei, a lei non fa del male, ma se qualcuno le si vuole accostare, egli lo uccide” (Tb 6,14-15);

“Satana insorse contro Israele. Egli spinse Davide a censire gli Israeliti. Davide disse a Ioab e i capi del popolo: Andate, contate gli Israeliti da Bersabea a Dan; quindi portatemene il conto sì che io conosca il loro numero” (1Cr 21,1-2);

“Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell'aurora? Come mai sei stato steso a terra,  signore di popoli?Eppure tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio  innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell'assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all'Altissimo.  E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell'abisso!” (Is 14,12-15);

Nel Nuovo Testamento possiamo rilevare circa trecento citazioni in cui viene menzionato il demonio e le sue opere, nondimeno, però, negli stessi passi, è ovvia la vittoria di Cristo e la volontà della Salvezza. Gesù stesso ha parlato del diavolo in molte occasioni, e ci esorta a non abbassare mai la guardia.

“Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal Maligno” (Mt 5,37);

“Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal Maligno” (Mt 6,11-13);

“Voi dunque intendete la parabola del seminatore: tutte le volte che uno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada” (Mt 13,18-19);

“Siete usciti con spade e bastoni come contro un brigante? Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre” (Lc 22,53);

“E quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me;  quanto alla giustizia, perché vado dal Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato” (Gv 16,8-11).

Gesù dimorò in mezzo a noi con il preciso intento di dimostrare all’uomo che il regno di Satana è corruttibile, si può annientare; Egli lo ha fatto.

“Chi commette il peccato viene dal diavolo, perché il diavolo è peccatore fin dal principio. Ora il Figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo” (1Gv 3,8).

Egli è venuto sulla terra per stabilire il suo Regno e per debellare il potere del Maligno.

“In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea, dicendo: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!” (Mt 3,1-2);

“Gli rispose Gesù: “In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio” (Gv 3,5);

“Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini” (Rm 14,17-18).

La definitiva vittoria di Cristo su Satana è stata sigillata principalmente e definitivamente con la sua morte in croce per noi.

“Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch'egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14-15).

“Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi” (1Pt 5,8-9). La Sacra Scrittura è molto chiara a riguardo. L’esistenza del diavolo è una realtà. (Carlo Di Pietro, Pontifex, 23 aprile 2010)

 

 


 

 

Pio XI: soluzioni coraggiose a problemi senza precedenti

 

Non è facile delineare con pochi tratti tutta la complessità di un pontificato (6 febbraio 1922 - 10 febbraio 1939) che coincise pressoché totalmente con il periodo tra le due guerre mondiali. In un mondo fortemente segnato dalle decisioni prese a Versailles, caratterizzato da derive nazionaliste e da opposti totalitarismi, Pio XI scelse come motto del suo pontificato Pax Christi in Regno Christi. Era il segno della sua volontà di improntare alla pace ogni decisione; a tale fiducia non erano certo estranee le sue origini brianzole di cui conservava gelosamente i caratteri, una religiosità antica e profonda assorbita attraverso la figura materna. A tali insegnamenti avrebbe ispirato tutto il suo operato:  dagli incarichi ricoperti prima nella Biblioteca Ambrosiana di Milano e poi in quella Vaticana, alla inaspettata missione in Polonia e Lituania affidatagli da Benedetto xv al termine della prima guerra mondiale, fino al magistero pontificio.

Oggi gli studi su Pio XI hanno conosciuto un nuovo slancio e l'apertura nel 2006 degli Archivi Vaticani alla consultazione dei fondi del pontificato di Achille Ratti ha offerto ai ricercatori gli strumenti necessari per meglio ricostruire gli eventi e l'ambiente religioso e sociale del ventennio tra le due guerre. Si tratta di fatti per molti aspetti già noti attraverso l'esame di materiali coevi, che ora possono essere arricchiti grazie all'analisi del "ragionamento interno" che li ha determinati. È possibile insomma per usare le parole dello studioso francese Jean-Dominique Durand "definire lo stile e il metodo di governo di un Pontefice costretto a confrontarsi con problemi senza precedenti".

Un valido e importante risultato in tal senso è il volume La sollecitudine ecclesiale di Pio XI. Alla luce delle nuove fonti archivistiche (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 490, euro 40) curato da Cosimo Semeraro, segretario del Pontificio Comitato di Scienze Storiche. Il volume raccoglie gli atti del convegno internazionale di studi organizzato dallo stesso Pontificio Comitato nella Sala del Collegio teutonico (Città del Vaticano) dal 26 al 28 febbraio 2009. Si tratta della presentazione dei primi esiti delle ricerche sul pontificato di Pio XI condotte dopo il 2006 negli Archivi Vaticani il cui patrimonio documentario relativo al solo pontificato rattiano è di tale rilevanza da aver richiesto un decennio di lavoro per essere preparato alla consultazione degli studiosi. Il volume è aperto da una prolusione del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone sul pastore di una Chiesa che, lasciandosi alle spalle forme di organizzazione legate a un modello temporale ottocentesco, si muove da protagonista sul piano internazionale. Sul piano pastorale tale azione doveva tradursi nella promozione del clero e degli episcopati indigeni, in una rinnovata attenzione verso la Russia e l'Oriente cristiano, in uno sguardo attento ai mutamenti sociali.

Monsignor Sergio Pagano, prefetto dell'Archivio Vaticano, offre agli studiosi una importante ricostruzione relativa al funzionamento dei dicasteri e uffici curiali di Pio xi ma anche del metodo di lavoro del Pontefice. Il ricco archivio della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, invece, ha consentito a Roberto Regoli di rintracciare il funzionamento interno e l'evoluzione della sua struttura voluta dallo stesso Papa Ratti in rapporto con la Segreteria di Stato. Dai verbali della Congregazione è possibile ricavare il pensiero del Pontefice, rilevare il suo costante "interventismo", ma anche il coinvolgimento dei suoi collaboratori, dai segretari di Stato Gasparri e Pacelli, agli altri cardinali la cui scelta risponde non solo a un sentimento di fiducia e di certezza della loro lealtà ma anche di competenza e di esperienza. I taccuini su cui l'allora segretario di Stato Pacelli a partire dal 10 agosto 1930 andò prendendo nota delle udienze quasi quotidiane del Papa hanno suscitato grande interesse e la loro prossima pubblicazione costituirà un ulteriore e importante strumento di comprensione delle pratiche pontificie e dell'atteggiamento verso realtà che Papa Ratti aveva avuto modo di conoscere di persona nella breve ma intensa esperienza di delegato apostolico e poi nunzio a Varsavia. Gli erano ben noti i difficili rapporti tra polacchi, lituani e bielorussi in Lituania e all'avversione nei confronti del comunismo si dice che non fosse del tutto estranea l'avanzata dei bolscevichi fermata sulla Vistola alle porte di una Varsavia abbandonata da tutti ma non da lui, unico "rappresentante diplomatico" che si era rifiutato nella sua fermezza e dignità brianzola di abbandonare la città in un momento così grave. È importante ricordare anche che Pio XI appoggia moralmente e finanziariamente la fondazione dell'Università Cattolica di Milano voluta da Agostino Gemelli, un'istituzione che rispondeva a pieno al suo disegno di "ricomposizione, attorno a Roma, della cattolicità" e dà vita nel 1936 all'Accademia Pontificia delle scienze, un passo verso l'apertura pratica e teorica alle scienze profane in anni di grandi dibattiti scientifici, tema questo trattato da Régis Ladous. È utile ricordare che, in anni in cui radio e cinema erano ancora percepiti come strumenti di diffusione di una visione pagana dell'esistenza, Papa Ratti aveva voluto la Radio Vaticana, inaugurata il 12 febbraio 1931 alla presenza di Guglielmo Marconi e al cinema aveva consacrato un'enciclica, la Vigilanti cura.

La ricerca condotta sulle nuove fonti archivistiche certamente non poteva non toccare temi caldi su cui la storiografia ha offerto interpretazioni diverse. Sono le questioni relative ai rapporti con il fascismo, alla liquidazione del partito popolare analizzate da Francesco Malgeri che riportarono, "forzatamente ad un livello prepolitico l'impegno dei cattolici" secondo una linea che agli occhi della storiografia italiana è conservatrice, ma che secondo Philippe Levillain è stata invece letta in modo totalmente opposto dalla storiografia grazie alla condanna dell'Action Française e alla rinascita del cattolicesimo in Francia. (Rita Tolomeo, L'Osservatore Romano, 17 aprile 2010)

 

 


 

 

Il vincitore ha il volto del Padre

 

"Questa infatti è la volontà del Padre: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna" (Gv, 6,40). Ecco, nelle parole dello stesso Gesù, il motivo per cui, questa volta come altre volte, da prima mattina a notte fonda i pellegrini sfilano davanti alla Santa Sindone (...) È infatti la volontà del Padre che chiunque vede il Figlio e crede in lui viva in eterno. I pellegrini, tra cui anche persone anziane vicine alla morte, desiderando la vita vengono qui, e siamo venuti anche noi, perché nell'uomo torturato e ucciso la cui forma è impressa nel telo è possibile contemplare Cristo, vedere il quale con fede dà la vita eterna. Certezza assoluta che sia proprio lui non c'è, è vero, ma ciò è secondario. Colui che, nell'ultimo giorno - a quanti non l'avranno mai visto ma in qualche circostanza avranno sfamato un povero - dirà: "Quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Mt, 25,40), ecco, quello si fa vedere come vuole, anche in altri, anche nell'uomo della Sindone.

Il desiderio di vederlo però - proprio lui - rimane, acutizzato dagli scritti sacri giudeo-cristiani che caratterizzano l'anelito umano verso Dio soprattutto in termini di visio. "Mostrami la tua gloria!", Mosè chiese a Jahvè, rimanendo tuttavia deluso quando Questi gli rispose:  "Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restar vivo" (Es, 33,18-20). La brama dell'uomo di vedere Dio verrà finalmente soddisfatta nella persona di Cristo, e il vangelo di Giovanni, all'affermazione "il Verbo si fece carne e venne a abitare in mezzo a noi", aggiunge subito:  "e noi "vedemmo" la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità" (Gv, 1,14).

A scanso di equivoci, l'evangelista rimanda all'antico divieto, ricordando che mentre "la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo", e insiste:  "Dio nessuno l'ha mai visto:  proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv, 1,17-18). Lo stesso quarto vangelo narra l'assicurazione data da Cristo ai suoi discepoli, che "chi vede me vede Colui che mi ha mandato" e "chi ha visto me ha visto il Padre" (Gv, 12,45 e 14,9), e un altro scritto giovanneo afferma che in lui, Cristo, "la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi" (1Gv, 1,2) - visibilità, questa, sintetizzata in un testo paolino che asserisce che Cristo "è l'immagine del Dio invisibile" (Col, 1,15). Nelle ostensioni della Sindone come già in quelle della Veronica i pellegrini non cercano solo l'uomo ma Dio, il cui amore è visibile nelle sofferenze di Gesù Cristo.

Il senso dell'arte nella vita della comunità credente va compreso all'interno di questa ricerca. Un padre della Chiesa, san Giovanni Damasceno, infatti spiega l'uso cristiano delle immagini affermando che "un tempo, non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico (...) ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini, così che è lecito fare un'immagine di quanto è stato visto di Dio". Scrivendo nel contesto dell'interdizione delle immagini da parte dell'imperatore di Bisanzio, l'iconoclasta Leone iii nell'anno 730, questo autore - nato cristiano in una Damasco già allora sotto controllo musulmano - vedeva un nesso tra il dogma teologico dell'Incarnazione e l'uso ecclesiastico di immagini, soprattutto quelle raffiguranti Gesù stesso.

È per questo motivo che, nell'occasione della presente ostensione della Sindone, è stata allestita una mostra di dipinti, sculture e opere d'oreficeria alla reggia di Venaria Reale: "Gesù. Il corpo, il volto nell'arte" (...) Al centro della mostra è la grande sezione intitolata "Un corpo dato per amore", che invita a scoprire l'identità di Cristo nel mistero della sua passione, morte e sepoltura. È la sezione più estesa, occupando più di un terzo dello spazio a disposizione 50 metri lineari delle monumentali scuderie juvarriane. È suddivisa in più parti, corrispondenti agli eventi portanti alla crocifissione; alla crocifissione stessa; e alla deposizione dalla croce, al compianto e alla sepoltura. Corpo e volto insieme ora, drammaticamente eloquenti, rivelano la personalità dell'uomo che si offre: nell'opera con cui la sezione apre, la Orazione nell'orto di Simone Peterzano, dove Gesù accetta di bere il calice della sofferenza; nel superbo Gesù incoronato di spine di Correggio; nello straordinario volto del Salvatore di Giorgione nel dipinto Gesù e il manigoldo; e nel dolcissimo Gesù portacroce del Garofalo, che sembra chiedere la nostra comprensione, compartecipazione, compassione. È collocata in questa sezione la celebre Narratio passionis di Hans Memling, prestata dalla Sabauda.

Al centro del percorso espositivo una foresta di croci e crocifissi grandi e piccoli invita a capire l'impatto del corpo di Gesù dato per amore sull'idea della persona che l'arte occidentale ha articolata - un'idea non solo di fragilità e vulnerabilità, ma anche di dignità, di libertà, di donatività. Nell'Europa che oggi contesta questo segno, crocifissi romanici e gotici francesi, tedeschi, italiani e catalani; crocifissi rinascimentali di Donatello e di Antonello Gaggini, e la monumentale croce d'argento di Antonio Pollaiuolo del Battistero di Firenze; raffinati corpora Christi manieristici di Guglielmo della Porta e di Giambologna. E all'epicentro assoluto, oltre questa "foresta", il crocifisso che Michelangelo Buonarroti realizzò per la basilica di Santo Spirito a Firenze, allestito com'era in origine su un altare, in una luce che evoca quella diurna della chiesa brunelleschiana. Delle sedute ai piedi di questo altare permettono al visitatore di fermarsi, di raccogliersi, e di contemplare l'opera "di sott'insù" - dall'angolazione cioè che Michelangelo doveva aver in mente quando scolpì questa figura per la comunità agostiniana che si radunava nel coro intorno all'altar maggiore della loro chiesa. Le splendide fotografie realizzate per l'occasione da Aurelio Amendola colgono l'interesse dell'opera, al contempo spirituale e sensuale: non l'austero Christus patiens del Medioevo, ma un giovane dal corpo efebico in cui albeggia già la Pasqua.

Secondo i vangeli, Gesù non rimase infatti prigioniero della morte ma, liberandosi della sindone, risuscitò il mattino di Pasqua. La mostra prosegue quindi con la sezione "Il corpo risorto", introdotta da una grande tela di Rubens in cui, seduto sulla tomba e ancora avvolto nella sindone, vediamo un Gesù dalla corporatura iperbolica, immaginato come "trionfatore", vincitore di una battaglia epica. Mors et vita duello, conflixere mirando.

Alcuni dipinti in questa sezione esplorano le sue relazioni dopo la risurrezione con i discepoli: il rapporto particolare con Maria Maddalena, per esempio, che emerge nel lussureggiante Noli me tangere di Federigo Barocci, dove la prossimità dei due corpi allude a una sponsalità trasfigurata in senso pasquale. Altre opere suggeriscono la salita del Risorto al Padre: raffigurazioni della Santissima Trinità in cui il corpo risorto di Gesù appare sovrapposto all'Eterno, come per illustrare la sua affermazione: "Chi ha visto me, ha visto il Padre". In un dipinto eseguito da Lorenzo Lotto, Gesù risorto ascende verso un Padre invisibile, la cui sagoma appare larvata dietro a lui; e mentre le mani del Padre sono alzate, come per accogliere il Figlio che sale, quelle di Gesù, con le ferite ben visibili, sono stese verso la terra rinnovata dal suo sangue; e in una piccola tavola del maestro trecentesco Nicoletto Semitecolo, il senso spirituale del sacrificio corporeo di Gesù emerge dal fatto che l'artista lo fa vedere vivo e con gli occhi aperti, crocifisso non al patibolo di legno, ma direttamente alle mani del Padre.

Le ultime due sezioni della mostra, "Il corpo mistico" e "Il corpo sacramentale", offrono le chiavi ermeneutiche di tutto il resto. Illustrano il concetto corporeo che la comunità credente ha di se stessa - la nostra convinzione di essere "corpo" di Gesù; e suggeriscono lo strumento mediante il quale tale collettiva "identità corporea" viene plasmata, nutrita, irrobustita nei secoli: il sacramento eucaristico per la cui celebrazione la maggior parte delle opere in mostra sono state realizzate. L'asserto di una mistica identità corporea con Gesù viene tradotta in immagine anche in modo piuttosto fisico, come suggerisce l'opera che introduce nella sezione sei, la Mater misericordiae da Gradara, dove la Vergine incinta - con Gesù ben visibile nel suo grembo - accoglie sotto il manto esteso un gruppo di donne e uomini in preghiera. Maria, figura della Chiesa, viene presentata cioè come madre di Gesù e madre di quanti credono in lui: dal suo corpo nasce sia il corpo fisico del figlio, sia quello mistico comunitario.

A questa "comunione" dei santi con Gesù alludono molte formule iconografiche cristiane: l'assemblea dei beati intorno al trono di Cristo in cielo; il martirio di un santo raffigurato sopra l'altare eucaristico; immagini di santi che, mentre contemplano Gesù crocifisso, fanno penitenza corporea; raffigurazioni di mistica comunione, come la visione in cui san Bernardo di Chiaravalle viene invitato a bere dal costato del Crocifisso; e reliquiari antropomorfi contenenti parti di corpi dei santi, tipicamente collocati in prossimità ad altari eucaristici.

L'ultima sezione della mostra esplicita queste idee con immagini che collegano la fede eucaristica di santi e di credenti comuni al corpo di Gesù. L'opera introduttiva, una pala di Moretto da Brescia in cui i santi Bartolomeo e Rocco, contemplando l'Eucaristia sull'altare, vedono in cielo il corpo fisico di Gesù, illustra la chiarezza ma anche la complessità del tema. Vista dai fedeli durante la messa celebrata davanti a essa, l'immagine invitava ad associarsi all'identificazione dei martiri e santi sofferenti con il Cristo sofferente e risorto, del cui corpo sono "membra" quanti ne mangiano nel pane eucaristico. Tra le altre pale d'altare esposte qui vi è quella di Charles Dauphin prestata da questa vostra cattedrale, La mistica comunione di sant'Ireneo, in cui è lo stesso Salvatore risorto a dare al santo il pane della vita eterna.

L'uso di immagini sacre e di splendide suppellettili nel contesto della liturgia è servito nei secoli a manifestare il particolare rapporto che, grazie all'Incarnazione di Cristo, sussiste tra "segno" e "realtà" all'interno dell'economia sacramentale della Chiesa - un rapporto la cui dinamica è conosciuta non solo dai dotti ma anche dai semplici. Tale rapporto, invero, traspare in tutto che l'uomo associa al culto divino: dai vasi sacri e tessuti alle più monumentali costruzioni architettoniche. L'uso delle "cose" nella liturgia della Chiesa rivela e attualizza la vocazione del mondo infraumano, chiamato insieme all'uomo e per mezzo dell'uomo a rendere gloria a Dio.

Per un processo misterioso e nel contempo semplice, questa "rivelazione" diventa poi parte della fede vissuta, specialmente nell'ambito del culto eucaristico:  trovando Dio presente nella materia, il credente è portato a cogliere la nuova dignità di ogni cosa materiale, diventata ormai - almeno tendenzialmente - "ostensorio", come ogni "vedere" umano è ormai chiamato a farsi adorante contemplazione del Salvatore crocifisso e risorto.

Tuttavia il soggetto dell'esperienza estetica, come dell'esperienza cultuale, rimane l'uomo: è a lui e alla sua corporeità che parlano i colori e le forme, il fruscio della seta, lo scintillio dell'oro, lo spazio "mistico" o "razionale" dell'architettura sacra. L'arte che fa vedere Cristo, insieme a veri "specchi del suo Vangelo" quale la Sindone, invitano a contemplare Cristo che prende forma in noi, speranza di gloria, bellezza di vita eterna. "Adesso [lo] vediamo in modo confuso, come [appunto] in uno specchio; allora invece [- nel regno dove ci ha preceduti e dove ci attende - lo] vedremo faccia a faccia" (1Cor, 13,12).

E in lui visto e conosciuto e amato comprenderemo finalmente che il senso della nostra vita anche corporea, della nostra carne, degli affetti, dei ricordi, e del sangue, suo e nostro, di ogni persona umana tradita, sacrificata, uccisa. Il poco sangue della Sindone (di Gesù? O di un altro crocifisso?) si rivelerà allora un oceano, un "Mare rosso" attraverso cui Cristo ci conduce alla terra promessa, come in uno straordinario dipinto mistico di Guillaume Courtois nell'ultima sezione della mostra. In quest'opera il Salvatore, come un nuovo Mosè stende sul peccato umano non un bastone, ma il legno della croce, che apre nel mare della nostra sofferenza una strada verso il Padre; offrendosi, diventa egli stesso "via", e a raccogliere il suo sangue è la Madre, la Chiesa figurata in Maria, colei da cui Cristo prese il corpo offerto, il sangue versato - la Chiesa che, durante il loro esodo, nutre i figli con il Corpo e il Sangue del Figlio di Dio. (Timothy Verdon, ©L'Osservatore Romano, 27 aprile 2010)

 

 


 

 

Il diritto paterno dei preti a sondare il peccato in segreto

 

Siccome il diavolo non fa i coperchi, la pentola è scoperchiata. Ad aprirla è stato il cardinale Darío Castrillón Hoyos, conservatore, capo del clero sotto Giovanni Paolo II. Dopo aver subìto una dura reprimenda pubblica da parte del portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, il cardinale non si è tirato indietro e ai microfoni della Cnn ha detto quello che molti in Vaticano pensano in silenzio: la chiesa non ha niente da rimproverarsi per come ha trattato, con discrezione e riservatezza, i casi di pedofilia tra i preti. Altro che rimorso.

La tesi di Castrillón è diametralmente opposta a quella sostenuta due settimane fa dall’arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schönborn, e non collima di certo con la sostanza della lettera pastorale del Papa al clero irlandese. Per Schönborn nella curia romana ai tempi di Wojtyla c’era chi lavorava per coprire i casi riguardanti preti accusati di pedofilia, tra questi quello del suo predecessore Hans Hermann Groër. Per Castrillón nessuno insabbiava. La prassi era quella di trattare ogni caso con discrezione, il più possibile al riparo dai media.

Dice al Foglio un presule che negli ultimi anni di pontificato di Wojtyla ha avuto un ruolo di responsabilità nella curia romana: “Ha ragione Castrillón. Tutti in curia erano convinti, e secondo me lo sono ancora, che la discrezione sia l’arma migliore per affrontare casi delicati. La giustizia della chiesa si muove su un altro livello rispetto alla giustizia ordinaria. E non sempre i due livelli possono combaciare. Anzi, in certi casi, è opportuno lasciarli distinti, anche per il bene delle vittime. I giornali vorrebbero imporre una ‘totale trasparenza’. Vorrebbero obbligare la chiesa a denunciare alle pubbliche autorità ogni reato i suoi preti commettano. E’ una richiesta subdola. Perché presuppone senza provarlo che fino a oggi la chiesa abbia lavorato per occultare chissà che cosa. Ed è ingannevole perché afferma che soltanto la denuncia alle autorità civili sia la strada legittima tramite la quale la chiesa può trattare questi casi. Si dimentica che la chiesa ha verso i suoi preti una paternità spirituale che nessun tribunale può offrire. Certo, se un tribunale decide di indagare su di un prete nessuno nella chiesa lo ostacolerà. Ma obbligare la chiesa a denunciare i suoi sacerdoti ai tribunali non ha senso. E’ un diritto umano (e non ecclesiastico) che un padre decida di non consegnare un suo figlio all’autorità civile nel momento in cui una terza persona muove un’accusa contro di lui. E’ un diritto che soltanto un rozzo furore giustizialista non riesce ad accettare. La chiesa tratta questi casi con criteri diversi da quelli del mondo e sa che esistono la pietà e la misericordia. Che tra un crimine e una debolezza umana c’è un’enorme differenza. E che esistono il pentimento e il proposito di non peccare più. E che, ancora, esiste il processo canonico le cui pene, se il delitto è accertato, sono per la chiesa ben più importanti degli anni di prigione che un tribunale civile può sentenziare nei confronti di un colpevole”.

Ma Ratzinger nel 2003, all’interno delle linee applicative del Motu proprio “Sacramentorum sanctitatis tutela” pubblicato nel 2001, nel quale avocava alla Dottrina della fede la competenza di tutti i casi di abusi su minori commessi da preti, non aveva scritto che “va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte?”. Risponde il presule: “Certo. Ma un conto è chiedere che si seguano le leggi. Un altro è obbligare i vescovi a denunciare. Questo obbligo non c’è in moltissime leggi civili. Né Benedetto XVI ne ha mai parlato”.

Darío Castrillón Hoyos non è un cardinale qualunque. Ha guidato il clero per otto anni. Per nove è stato a capo dell’Ecclesia Dei mediando con i lefebvriani per un finale rientro nella comunione con Roma. Oggi è un porporato ancora molto attivo: gira il mondo a celebrare messe col rito antico suscitando, anche nella chiesa, sentimenti opposti. Domani, ad esempio, avrebbe dovuto essere al Santuario Nazionale dell’Immacolata Concezione di Washington per celebrare una messa antica. Ma le recenti sue dichiarazioni sulla pedofilia nel clero hanno provocato le proteste di un gruppo di vittime di abusi sessuali da parte di preti e così ha dovuto declinare. Prima del 2001 era Castrillón che fungeva da punto di riferimento per i vescovi che nelle proprie diocesi avevano a che fare con casi di pedofilia del clero. E oggi è lui a sollevare un tema divenuto, nelle ultime settimane, tabù.

Tutto comincia pochi giorni fa. Il sito cattolico-progressista francese Golias pubblica la fotocopia di una lettera scritta l’8 settembre 2001 da Castrillón. La lettera è indirizzata al vescovo francese Pierre Pican, oggi a riposo, il quale è stato poco tempo prima condannato a tre mesi con la condizionale per aver rifiutato di denunciare alle autorità civili un suo sacerdote, René Bissey, condannato nell’ottobre del 2000 per abusi sessuali su minori compiuti tra il 1989 e il 1996. Castrillón si congratula con il vescovo francese e gli scrive: “Lei ha agito bene, mi rallegro di avere un confratello nell’episcopato che, agli occhi della storia e di tutti gli altri vescovi del mondo, ha preferito la prigione piuttosto che denunciare un prete della sua diocesi”. Castrillón ricorda che anche san Paolo fu messo in catene. E comunica che la Congregazione del clero “per incoraggiare i fratelli nell’episcopato in una materia così delicata, trasmetterà copia di questa missiva a tutti i vescovi”.

Grazie a Castrillón, Pican viene indicato come esempio per tutti. Pican, il vescovo che non denunciò alle autorità civili un prete accusato di aver abusato di minorenni, viene lodato da uno dei principali collaboratori di Wojtyla. E viene lodato tramite l’invio di una lettera a tutti i vescovi e, dunque, con il placet di Giovanni Paolo II. Il 15 aprile scorso, alla lettera inviata da Castrillón a Pican e pubblicata dal sito Golias, risponde padre Federico Lombardi. In un comunicato sconfessa l’operato di Castrillón: “Questo documento è una riprova di quanto fosse opportuna l’unificazione della trattazione dei casi di abusi sessuali di minori da parte di membri del clero sotto la competenza della Congregazione per la dottrina della fede, per garantirne una conduzione rigorosa e coerente, come avvenne infatti con i documenti approvati dal Papa nel 2001”. Ma Castrillón reagisce. E poche ore dopo ai microfoni della Cnn rivendica la giustezza del proprio agire. E insieme porta alla luce un tema che in queste settimane nessuno nella chiesa osa toccare: la trasparenza come il mondo la intende non fa parte del dna della chiesa. Questa non vuole nascondere nulla. Ma nello stesso non dimentica che l’uomo è peccatore. E che il peccato si combatte in modi diversi.

Dice Castrillón: “Se un vescovo sposta un prete responsabile di abusi su minori da una parrocchia a un’altra, non significa che lo sta coprendo ma semmai che gli sta comminando una giusta punizione”. E, pur rilevando che se il prete è colpevole di abusi occorre procedere immediatamente col processo canonico e la sospensione da ogni incarico, spiega: “Quando una persona commette un errore, che molte volte è stato un errore minimo, e questa persona viene accusata e confessa il suo delitto, il vescovo la punisce secondo quanto può fare per il diritto, la sospende o la manda in un’altra parrocchia. Questo significa punirla, non significa che la si vuole lasciare impunita. Questa non è copertura, ma è rispettare la legge, come fa la società civile, come fanno medici e avvocati, che non perdono per sempre il diritto di esercitare la propria professione”.

Benny Lai scrive di cose vaticane dai tempi di Pio XII. Dice: “I vescovi hanno sempre trattato i preti come dei loro figli. Il loro atteggiamento è sempre stato paterno, di correzione ma anche di comprensione e per questo motivo guardano ancora oggi con un certo sospetto la chiamata alla trasparenza totale fatta dai giornali e dall’intellighenzia laica del mondo. Il loro è un rapporto filiale e non giustizialista verso i sacerdoti. Se necessario puniscono i propri preti, li sospendono o nei casi più gravi tolgono loro l’abito, ma senza mai dimenticarsi di aver pietà di loro e dei loro errori. Sanno, insomma, che il peccato è di ogni uomo e diffidano di quelli che, pur criticando quotidianamente la chiesa, la vogliono immacolata esigendo che siano dei tribunali civili a certificarne il grado. Certo, se un prete ha davvero commesso abusi su minori deve essere punito dalla chiesa come anche dall’autorità civile. Ma ciò non cambia la sostanza: la trasparenza non è il modo con cui la chiesa agisce”.

Gabriella Sartori, storica, biblista, già vicepresidente del Movimento per la Vita del Friuli Venezia Giulia, sorride quando le si parla delle richieste di maggiore trasparenza fatte in questi giorni alla chiesa. Dice: “Sento in continuazione personalità del mondo laico chiedere alla chiesa di fare pulizia, di essere più trasparente. Non credo che la chiesa possa prendere lezioni da questa gente che mentre non fa nulla per tutelare i minori decide di stracciarsi le vesti contro la chiesa”. Tonino Cantelmi è presidente dell’Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici (Aippc) e insegna psicopatologia presso la Pontificia università gregoriana. Racconta: “Quando si chiede più trasparenza si chiede una cosa giusta, sebbene nessuno nella chiesa intenda nascondere nulla. Però occorre sapere bene di cosa si parla. I casi di pedofilia nel clero sono pochissimi. La maggior parte degli abusi sono casi di efebofilia e cioè riguardano minori post puberali. La pedofilia è l’attrazione verso bambini pre puberali. Questa si divide in due tipologie. Quella segnata da profondi sensi di colpa. In questi casi il soggetto rivolge le sue attenzioni, spesso soltanto a livello di fantasia, verso gli adolescenti e una corretta terapia può portare dei risultati nel tempo. L’altra è la pedofilia antisociale, priva di sensi di colpa, caratterizzata da un narcisismo maligno. Questo secondo tipo di pedofilia ritengo non possa essere curato. Per questo secondo tipo di patologia occorre puntare al contenimento sociale. E così la chiesa ha sempre cercato di agire. Tra l’altro, in tutta Italia ci sono centri dove queste persone, se davvero hanno problemi, vengono curate”.

Una cosa è la malattia. Un’altra è il peccato. Quest’ultimo la chiesa l’ha “gestito” sempre in forma comunionale. Coi suoi metodi e i suoi mezzi. Perché ogni situazione è diversa dall’altra. E anche perché, per lei, il peccato è una cosa seria. Dice Giorgio Carbone, domenicano, docente di Bioetica e teologia morale presso la facoltà di Teologia di Bologna: “Esiste il sacramento della riconciliazione, volgarmente chiamato confessione. Il sacramento prende il nome dall’azione che Dio compie. Il penitente si confessa e si pente. Dio, invece, riconcilia. Ovvero risana, guarisce. E’ una ‘terapia’ che nessun tribunale civile può dare”. Una terapia sulla quale la chiesa ha sempre imposto il segreto. Perché? “Confessarsi è già di per sé una penitenza. E’ un sacrificio. Il segreto è stato imposto per non rendere ulteriormente odioso questo sacramento. Il confessore non può dire nulla, assolutamente nulla, di quanto viene a sapere nel confessionale. Nemmeno può svelare particolari irrilevanti e che nulla hanno a che fare con i peccati confessati se questi particolari vengono esposti durante il sacramento. E nessun giornale, nessun giudice, potrà esigere la violazione di questo segreto. La pena, del resto, è terribile: per il confessore scatta la scomunica latae sententiae. Nella chiesa Dio agisce. E il mondo non accetta, o probabilmente non capisce, questa azione”.

In fin dei conti questo sembra volere il mondo quando esige una chiesa luogo dell’assoluta trasparenza: il tribunale civile al posto del confessionale. La sentenza al posto della remissione dei peccati. La condanna al posto della penitenza e del perdono. Fu Joseph Ratzinger a scrivere in proposito una pagina memorabile nel 1990. Tenne una conferenza intitolata “Una chiesa sempre riformanda”. Un capitolo lo dedicò alla morale, al perdono e all’espiazione: categorie spesso non comprese dal mondo, non accettate. Categorie che invece Ratzinger ha indicate come l’unico vero centro di effettiva riforma della chiesa: la chiesa che si rigenera grazie alla misericordia e al perdono concessi a chi sbaglia. Nessuna trasparenza. Nessuna democraticità. Solo l’azione di Dio che dall’alto rifà la sua chiesa rigenerandola quando questa si riconosce peccatrice.

“Penitenza”, non a caso, è una parola spesso ripetuta da Benedetto XVI in questi giorni difficili. Disse Ratzinger nel 1990: “Là dove il perdono, il vero perdono pieno di efficacia, non viene riconosciuto o non vi si crede, la morale deve venir tratteggiata in modo tale che le condizioni del peccare per il singolo uomo non possano mai propriamente verificarsi. A grandi linee si può dire che l’odierna discussione morale tende a liberare gli uomini dalla colpa, facendo sì che non subentrino mai le condizioni della sua possibilità. Viene in mente la mordace frase di Pascal: ‘Ecce patres, qui tollunt peccata mundi!’. Ecco i padri, che tolgono i peccati del mondo. Secondo questi ‘moralisti’, non c’è semplicemente più alcuna colpa. Naturalmente, tuttavia, questa maniera di liberare il mondo dalla colpa è troppo a buon mercato. Dentro di loro, gli uomini così liberati sanno assai bene che tutto questo non è vero, che il peccato c’è, che essi stessi sono peccatori e che deve pur esserci una maniera effettiva di superare il peccato. Anche Gesù stesso non chiama infatti coloro che si sono già liberati da sé e che perciò, come essi ritengono, non hanno bisogno di lui, ma chiama invece coloro che si sanno peccatori e che perciò hanno bisogno di lui. La morale conserva la sua serietà solamente se c’è il perdono, un perdono reale, efficace; altrimenti essa ricade nel puro e vuoto condizionale. Ma il vero perdono c’è solo se c’è il ‘prezzo d’acquisto’, l’‘equivalente nello scambio’, se la colpa è stata espiata, se esiste l’espiazione. La circolarità che esiste tra ‘morale – perdono – espiazione’ non può essere spezzata; se manca un elemento cade anche tutto il resto”. Morale, perdono, espiazione: tre fasi per rinascere davanti a Dio e lontano dagli occhi del mondo. E’ questa la giustizia della chiesa. (Il Foglio, 23 aprile 2010)

 

 


 

 

Chiesa locale e vita consacrata

 

Sul tema “La Vita Consacrata [VC] nella chiesa locale: risorsa preziosa per un'ecclesiologia di comunione”, si è svolto a Roma, dal 1° al 3 marzo 2010, il seminario di studio promosso dalla Commissione mista della Cei. Era forse la prima volta che, alla presenza di 120 partecipanti - fra cui una decina di vescovi delegati regionali, una cinquantina di vicari o delegati episcopali diocesani per la VC, una decina di religiosi, una ventina di religiose e quasi una trentina di membri di istituti secolari - si è provato a riflettere a fondo sulla necessità di una più effettiva collaborazione fra tutti questi organismi ecclesiali. Le relazioni di Giovanni Dal Piaz, di Maria Rosa Zamboni, di mons. Gianfranco Gardin, di Pierluigi Nava, sono state integrate da una tavola rotonda, moderata da Lorenzo Prezzi, e da alcuni gruppi di studio. Mentre il titolo del seminario stimolava a guardare la VC nella chiesa locale come una risorsa preziosa per una vita di comunione, un po' tutti i relatori vi vedevano più un auspicio che non la conferma di un dato di fatto. Il titolo, infatti, come ha affermato Dal Piaz, introducendo il suo discorso sull'analisi dei dati pervenuti dalle singole diocesi in preparazione del seminario, «anche senza volerlo, orienta, verso una lettura fin troppo positiva della VC di oggi». A •uno sguardo più lucido e sereno, però, insieme ai tratti di vitalità, non possono sfuggire anche «i punti di debolezza, a incominciare dalle non proprio numerose risposte pervenute» (73 su 224 diocesi).

 

Un cammino faticoso, ma possibile

Per quanto limitato, il campione aiuta comunque a comprendere «se e in quale misura la VC sia una presenza significativa nella realtà diocesana». Guardando l'insieme della VC italiana, i dati statistici più aggiornati ci parlano di quasi 111.000 consacrati.

Rapportata alla situazione mondiale ed europea, la VC, nel nostro paese, continua a essere una presenza importante. Anche se le vocazioni non mancano, però, analogamente a quanto sta avvenendo a proposito del clero diocesano, «risultano insufficienti a mantenere e dare continuità all'attuale modello di presenza sul territorio».

È però ancora più preoccupante la scarsa e frammentaria conoscenza della VC da parte dei sacerdoti e dei laici. Non c'è da stupirsi se, ad esempio, in un'area tradizionalmente religiosa come il Veneto, tra i ventenni «ci sia un 45% che dichiara di non aver mai avuto modo di avvicinare un religioso, mentre l'89% afferma di conoscere solo in modo generico la VC». Il fatto che ci si trovi spesso a ragionare più sulla chiusura e il ridimensionamento delle opere che non sulla progettazione di presenze qualitativamente più significative, «contribuisce a costruire e trasmettere l'immagine di una realtà di VC ripiegata su se stessa, affaticata, poco dinamica».

Oggi «siamo tutti più deboli». Il vecchio modello di relazioni istituzionali tra istituti religiosi e diocesi, «non funziona più». Il crescente individualismo istituzionale, sia da una parte che dall'altra, rende sempre più problematica una «relazionalità aperta e collaborativa con tutti gli attori presenti nella realtà ecclesiale». Ancora nel 1981, in occasione della prima (e unica) assemblea congiunta Usmi-Cism, padre Cabra aveva osservato che «il cammino verso la comunione ecclesiale è lento, faticoso, esige umiltà e pazienza, perché coinvolge una somma di atteggiamenti che presuppongono ed esprimono una reale conversione a Dio e ai fratelli». Il grande scoglio contro il quale hanno finora fatto naufragio le conclusioni di tanti convegni, progetti e buoni propositi, è quello del cambiamento di mentalità. Se le comunità religiose sono deboli, invecchiate, poco incisive sul piano vocazionale e culturale, le parrocchie non stanno sicuramente meglio. In una società il cui valore centrale è quello della mobilità, della flessibilità, del pluralismo culturale, dalle risposte ai questionari, invece, emerge «una società sostanzialmente stabile, culturalmente omogenea, fondata su relazioni interpersonali caratterizzate da fedeltà, durata, prevedibilità dei comportamenti». Si fa fatica anche solo a vedere i nuovi soggetti pastorali, dai movimenti, alle associazioni di fedeli, alle nuove forme di VC. Il punto di riferimento è sempre il passato per un verso (il carisma, l'impegno apostolico, il radicamento delle opere) e il presente per un altro verso (l'invecchiamento, la scarsità delle vocazioni, il ridimensionamento delle opere). E il futuro? «È incerto», risponde Dal Piaz, non perché proiettato verso forme nuove e inedite di testimonianza, ma più semplicemente perché «non sappiamo quali case dovremo chiudere e fino a che punto si riuscirà a restare sulla breccia». Non si riesce, cioè, a uscire dal «perimetro mentale di un modello organizzativo in declino». Questo spiega come mai le proposte operative non vadano molto al di là della richiesta di inserire nei seminari corsi di teologia della VC o di prevedere la presenza dei consacrati in tutti gli organismi di comunione ecclesiale. Ciò che traspare con chiarezza dai questionari è purtroppo «lo scarso senso di appartenenza alla chiesa locale che si riscontra tra i consacrati». In maniera quasi simmetrica, il clero diocesano, mentre apprezza il servizio efficace ed efficiente delle comunità religiose, di fatto poi «ne ignora o trascura o sottovaluta le motivazioni spirituali e carismatiche sottese all'azione dei religiosi». Una vera e propria collaborazione «non pare esistere ancora». Ognuno continua a pensare e ad agire in ordine sparso. È impressionante, poi, conclude Dal Piaz, il silenzio assordante che emerge dai questionari: «manca la voce di laici, il che non è certo un bel segno di comunione». Vi si accenna, qua e là, solo quando è in gioco la gestione delle opere. Però «non abbiamo il punto di vista dei laici sull'apporto che la VC può dare alla comunione nella chiesa locale».

 

Alcuni aspetti fondanti degli istituti secolari

Anche Maria Rosa Zamboni, integrando il discorso di Dal Piaz, ha osservato che quando si parla di ecclesiologia di comunione, «i principi e le premesse sono fuori discussione». In merito, invece, a una loro concreta espressione operativa, per far interagire «intensità di vita nei consacrati e annuncio evangelizzante da parte di tutta la chiesa locale», c'è ancora un lungo cammino da compiere. Se già la VC è poco conosciuta e viene comunque troppo spesso identificata con la vita religiosa, gli istituti secolari sono ancora meno conosciuti «sia da parte di laici e sacerdoti, sia dagli stessi religiosi». Si fa una grande fatica anche solo a conoscere gli elementi fondanti della secolarità consacrata: la sua forma stabile di vita testimoniata nel mondo, la specificità del suo carisma fatta di azione, di contemplazione, di riserbo, il suo costante cammino di formazione, la sua presenza in tutti gli organismi ecclesiali di partecipazione, una piena sintonia con la propria chiesa locale, una presenza missionaria nei punti più critici di raccordo tra la Chiesa e il mondo, la capacità di arrivare facilmente alla mente e al cuore degli uomini e delle donne di oggi. Il disagio degli istituti secolari, sempre più di fatto connotati al femminile, è in buona parte condiviso anche dalle religiose, quasi del tutto assenti dai ruoli decisionali diocesani. Malgrado tutte le affermazioni teoriche, «è facile constatare che nella società, e ancor di più nella Chiesa, la parola delle donne ha un peso diverso da quella degli uomini». Se nelle chiese locali si parla poco, in genere, della VC, ancora meno si parla di consacrazione femminile. Perché stupirsi allora se di fronte all'inevitabile chiusura di opere «alcune religiose hanno la percezione di essere diventate inutili, perdono smalto, creatività ed entusiasmo?». Il rischio per le consacrate, in questi casi, è quello di non essere «mai pronte a percepire tutte le povertà invisibili a cui nessuno risponde: dal bisogno di senso, di relazione, di essere amati per ciò che si è, al bisogno di superamento della solitudine, al bisogno di trascendenza». Non si tratta affatto di svalutare le opere, ma semmai di cogliere l'esigenza di una risposta creativa attraverso la conversione delle opere e il rinnovamento delle persone. Zamboni ha concluso auspicandosi che, dopo questo seminario, nelle chiese locali si «continui (o inizi) una riflessione seria e sistematica su questo aspetto, nel confronto e nel dialogo con gli altri organismi ecclesiali», nella speranza di arrivare poi concretamente a delle proposte praticabili.

 

Dal campanile...alla Piazza San Pietro

Anche per mons. Gianfranco Gardin - ex segretario del dicastero vaticano per la VC e ora vescovo di Treviso - a proposito di ecclesiologia di comunione, si dovrebbe sempre opportunamente distinguere l'ideale dal reale. Gli stessi documenti del Magistero sulla VC, infatti, mentre riaffermano, da una parte, l'importanza dell'ecclesiologia di comunione, dall'altra non nascondono le difficoltà di una sua concreta realizzazione.

Mentre da una parte, tra il prima e il dopo concilio, certi cambiamenti in meglio, anche a questo riguardo, sono sotto gli occhi di tutti, dall'altra va anche onestamente riconosciuto che «non dovunque è così». L'ideale di una piena comunione tra chiesa locale e VC prospettato in tanti documenti, deve fare i conti con «le fatiche di una comunione reale dentro la storia».

Proprio per questo si dovrà continuare ad approfondire i nuovi fondamenti teologici della propria identità. Non si può continuare a operare ognuno per conto proprio. Purtroppo la consapevolezza del significato ecclesiale e della ricchezza teologica degli uni nei confronti degli altri, non è sempre stata ai più alti livelli. In certi documenti episcopali la VC o è del tutto assente, oppure vi si accenna in maniera del tutto strumentale. E lo stesso atteggiamento che si può facilmente riscontrare in tanti documenti post-capitolari degli istituti religiosi nei confronti della chiesa locale.

Senza sottovalutare il cammino fatto, ripete mons. Gardin, non si dovrebbe lasciar nulla d'intentato per aprire altri percorsi, passando dalla diffidenza all'accoglienza, dalla competizione alla collaborazione. Se è impensabile per dei consacrati ignorare i progetti pastorali della propria chiesa locale, così questa dovrebbe, in qualche modo, imparare dai consacrati ad ampliare i propri orizzonti apostolici ben al di là dei confini diocesani. In un contesto di apostasia silenziosa, di fronte al numero crescente dei ricomincianti, la pastorale della spiritualità non è un dovere solo delle chiese locali. Al di là di ogni competizione, dovrebbe diventare un proprium dei religiosi.

Con un'immagine molto suggestiva, mons. Gardin ha concluso il suo discorso parlando di un doveroso passaggio dal campanile (parrocchiale), alla cattedrale (diocesana), alla Piazza San Pietro (Chiesa universale). Da parte di tutti non si dovrebbe aver paura ad allargare i propri orizzonti. Forse i religiosi, da questo punto di vista, possono vantare una missionarietà più esplicita e consolidata. Occuparsi, da parte loro, di ambiti dai quali tanti altri fuggono, non significa per questo fuggire dalla chiesa locale. Questa non potrà mai essere veramente tale fino a quando non ci sarà, da parte di tutti, la volontà di creare incessantemente comunione. Anche Pierluigi Nava - monfortano, della presidenza Cism - raccogliendo le idee emergenti dell'incontro, ha osservato che una progressiva presa di coscienza dell'ecclesiologia di comunione tra chiesa locale e VC, anche se ancora lungi dal decollare, è oggi «una strada di non ritorno». Se ci si deciderà a percorrere questa strada, la chiesa locale potrebbe diventare un importante laboratorio di sperimentazione di nuovi rapporti a tutto vantaggio sia della chiesa locale che della VC. Grazie a una reale apertura mentale, è urgente elaborare progetti comuni efficaci e sostenibili, pensando alla propria presenza «a partire dal punto di vista della Chiesa e non solo dal nostro esclusivo punto di osservazione». Solo in questo modo sarà più evidente a tutti «il senso della vocazione all'universale della VC e dei suoi carismi, nella poliedrica varietà della chiesa locale».

 

Alcune Proposte operative

Continuità.

Dare continuità allo spirito, alla forma e ai contenuti di questo incontro, attivando da subito un tavolo di lavoro su cui raccogliere e rilanciare le suggestioni di questi giorni. Fare del seminario un ottimo punto di partenza e non solo di arrivo. Assicurare una rete interattiva e di condivisione, a tutti i livelli (nazionale, regionale, diocesano), di quanto è stato detto e proposto. Ipotizzare un analogo incontro fra due anni.

Conoscenza reciproca.

Essere consapevoli che la crisi d'identità non riguarda solo i consacrati, ma anche il clero diocesano, con reciproche ripercussioni negative. Approfondire la reciproca conoscenza tra chiesa locale e VC fin dagli anni della formazione. Prevedere incontri di formazione permanente congiunta per il clero diocesano e i consacrati. Passare realmente dalle mute alle mutue relazioni. Interrogarsi, da parte dei consacrati, sul come ripensare la propria presenza carismatica nel territorio. Condividere non solo tutte le potenzialità, ma anche i problemi e le proprie povertà. Favorire una reciproca conoscenza dei piani pastorali diocesani da una parte e la specificità carismatica e apostolica dei consacrati dall'altra. Trovare il tempo e la gioia per stare insieme, superando tutti i possibili pregiudizi, individualismi, mutismi.

Ecclesiologia di comunione.

Non dare mai per scontata la piena acquisizione dell'ecclesiologia conciliare di comunione. Sforzarsi di superare tutte le forme storiche conflittuali tra chiesa locale e VC. Partendo dal presupposto che l'unica missione è quella di Cristo, valorizzare pienamente tutte le energie evangeliche ed evangelizzatrici di ogni soggetto ecclesiale. Approfondire, anche a livello teologico ed ecclesiologico, la dimensione diocesana della VC, pensando soprattutto alle nuove forme di VC. Pensare e parlare della Chiesa non solo in una prospettiva gerarca e ministeriale, ma anche di piena apertura alla realtà della VC. Se la comunione ecclesiale, come ha detto esplicitamente un vescovo, appartiene al DNA della VC, perché quando in una chiesa particolare ci sono motivi di conflitto e di divisione, i religiosi, insieme al vescovo, non si attivano per il superamento di questi conflitti e di queste divisioni?

Collaborazione pastorale.

Non lasciar nulla di intentato per una sempre più profonda sinergia tra chiesa locale e VC. Valorizzare i consacrati in forza del loro carisma, prima ancora che per la loro collaborazione sul piano pastorale. Saper offrire, da parte dei consacrati, il contributo della propria ricchezza carismatica nell'elaborazione dei progetti pastorali della chiesa locale. All'interno di una diocesi, sapersi far percepire - da parte dei consacrati - come una risorsa e non come un problema. Individuare obiettivi comuni tra chiesa locale e VC, ben sapendo che la presenza carismatica dei consacrati dev'essere, per sua natura, attenta anche ai problemi che possono andare oltre i confini della diocesi. Favorire gruppi di studio in comune e inserirsi attivamente nelle unità pastorali e nella pastorale integrata. Crescere nella comunione, creando spazi per il dialogo e per un comune impegno nel campo dell'evangelizzazione. Non trascurare - da parte dei superiori maggiori dei consacrati, solitamente attenti alla dimensione interdiocesana e internazionale del proprio istituto - le esigenze pastorali delle singole chiese locali.

Organismi di partecipazione.

Favorire tutte le possibili e auspicabili occasioni di incontro, di ascolto e di dialogo tra consacrati e clero diocesano. Garantire la presenza qualificata, e non puramente simbolica, dei consacrati in tutti gli organismi di partecipazione ecclesiale, dai consigli pastorali parrocchiali e diocesani a quelli presbiterali, alle diverse commissioni di pastorale giovanile, vocazionale, missionaria, scolastica, sanitaria ecc. Evitare che un vescovo non sappia dove e quanti sono i consacrati presenti nella sua diocesi. Favorire un costante e reciproco rispetto fra superiori e comunità religiose e il parroco del luogo.

Vicario episcopale.

Riconoscere l'importanza del vicario episcopale o delegato diocesano per la VC per una sempre più reale comunione ecclesiale tra i diversi carismi della VC e la Chiesa locale. Chiarire insieme al vescovo il ruolo del vicario episcopale e quello degli organismi diocesani (Cism, Usmi, Istituti secolari) per una più effettiva collaborazione nei campi della rappresentanza, della trasmissione, della partecipazione. Sollecitare il vescovo ad essere realmente il custode di tutti i carismi, anche di quelli della VC, presenti e operanti nella sua chiesa particolare. (Angelo Arrighini, Testimoni, 7/2010, pp. 1-4)

 

 


 

25 Aprile 2010

 

Il pensiero sociale e politico di Benedetto XVI

 

Siamo abituati a considerare i Papi solo come guide spirituali e teologiche, ma un recente libro mette in evidenza l’attuale importanza e influenza del pensiero sociale e politico di Benedetto XVI.

Nel libro “The Social and Political Thought of Benedict XVI”, l’autore Thomas R. Rourke prende in esame il pensiero sociale e politico del Papa, sia prima, che dopo, la sua elezione alla Cattedra di Pietro. Rourke insegna presso il dipartimento di scienze politiche della Clarion University di Pennsylvania.

Secondo Rourke, sebbene sia noto più come teologo, Benedetto XVI è anche un profondo pensatore politico, e il suo pensiero sociale merita maggiore attenzione rispetto a quanto fatto finora.

L’autore considera anzitutto le fondamenta antropologiche del pensiero del Papa. Nel libro “In cammino verso Gesù Cristo”, l’allora cardinale Ratzinger esamina lo sviluppo del concetto di persona.

Rispetto all’impostazione della filosofia greca, i testi sacri e il pensiero cristiano hanno permesso di arricchirne notevolmente l’impostazione, soprattutto nell’aspetto della persona come essere relazionale. Da ciò deriva il concetto di spiritualità di comunione, che secondo Rourke è alla base della concezione di Benedetto XVI sulla dottrina sociale.

Nella comunità divina delle persone della Trinità, scopriamo infatti le radici spirituali della comunità degli uomini. Il pensiero antropologico del Papa quindi non considera le persone come individui che solo in un secondo momento entrano in relazione tra loro. Per il Pontefice l’elemento relazionale costituisce invece il cuore della natura stessa della persona.

Questo tipo di fratellanza tra le persone si fonda sulla comune paternità di Dio e si differenzia sostanzialmente dalla visione secolare della fratellanza, come quella sposata dalla Rivoluzione francese.

A ciò si aggiunge la dimensione della creazione. La vita umana, in quanto creata a immagine di Dio, possiede una dignità inviolabile, che secondo il Papa è inconciliabile con un’interpretazione utilitaristica della persona umana.

Sebbene questa antropologia possa sembrare troppo astratta, essa costituisce il fondamento necessario di ogni filosofia politica, spiega Rourke. La nostra visione politica di come debba svolgersi la vita comune, è necessariamente fondata sulla nostra concezione di cosa sia la persona e di cosa sia la comunità.

Secondo Rourke, Benedetto XVI considera la politica come un esercizio della ragione, ma di una ragione plasmata dalla fede. Di conseguenza, il Cristianesimo non considera l’apprendimento come la mera acquisizione di conoscenza, ma come un processo che deve essere guidato da valori fondamentali come la verità, la bellezza e la bontà.

Quando la ragione viene separata da un chiaro intendimento del fine della vita umana, stabilito dalla Creazione e affermato nei Dieci Comandamenti, allora essa perde il suo punto di riferimento necessario per esprimere un giudizio morale. Quando questo avviene, si apre la strada al consequenzialismo, che nega che una cosa possa essere in se stessa buona o cattiva.

Un altro interessante filone di pensiero, presente negli scritti del cardinale Ratzinger, è la separazione tra Chiesa e Stato, osserva Rourke. Con questa separazione, prefigurata nelle parole di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, il Cristianesimo ha distrutto l’idea di uno Stato divino.

Prima del Cristianesimo, l’unione tra Chiesa e Stato era la pratica normale e così era anche nell’Antico Testamento. E questo fu anche il motivo della persecuzione dei cristiani da parte dell’Impero romano, poiché essi si rifiutavano di accettarne la religione di Stato.

La separazione introdotta da Gesù ha recato beneficio allo Stato, liberandolo dal dovere di rispondere all’aspettativa della perfezione divina, secondo il cardinale Ratzinger. Questa nuova prospettiva cristiana ha così aperto le porte ad una politica fondata sulla ragione.

D’altra parte, quando si vuole tornare ad una concezione precristiana della politica, si finisce per eliminarne i limiti morali, come è avvenuto nella Germania nazista e negli Stati comunisti, secondo il futuro Pontefice.

Nel mondo di oggi, le concezioni mitiche del progresso, della scienza e della libertà rappresentano un pericolo. Il loro elemento comune è quello di tendere allo sviluppo di una politica irrazionale che pone la ricerca del potere al di sopra della verità.

Una volta diventato Papa, egli riprende questo tema nella seconda enciclica sulla speranza, avvertendo che ciò che noi speriamo come cristiani non deve essere confuso con ciò che possiamo raggiungere attraverso l’azione politica.

Tornando a ciò che il cardinale Ratzinger scrive nel suo libro “Chiesa, ecumenismo e politica”, Rourke aggiunge che la separazione tra Chiesa e Stato è diventata più confusa negli ultimi tempi, essendo interpretata come cessione dell’intera dimensione pubblica allo Stato.

Quando questo viene accettato, la democrazia si riduce ad un insieme di procedure, priva di qualunque valore fondamentale. Il futuro Papa, invece, afferma la necessità della presenza di un sistema di valori che risalga ai principi originari, quali il divieto di sopprimere la vita umana innocente o l’unione permanente tra un uomo e una donna come fondamento della famiglia.

Tra i molti altri argomenti esaminati da Rourke vi è quello relativo alla coscienza. Se a prima vista potrebbe sembrare poco pertinente alle questioni politiche, la coscienza si rivela invece avere un ruolo fondamentale.

È infatti nel cuore della nostra coscienza che noi custodiamo le norme fondamentali su cui si fonda l’ordine sociale. La coscienza rappresenta anche una limitazione al potere dello Stato, in quanto lo Stato non ha una autorità che lo legittima a violare tali norme. È quindi la coscienza che è in grado di circoscrivere l’azione di governo.

La distruzione della coscienza è invece il prerequisito del governo totalitario, come spiegò l’allora arcivescovo Ratzinger in una lezione del 1972: “Dove prevale la coscienza, esiste un limite al dominio dell’autorità umana e della scelta umana, un qualcosa di sacro che deve rimanere inviolato e che nella sua sovranità, elude ogni controllo, sia quello altrui, sia quello proprio”.

Rourke chiarisce che con queste parole il futuro Papa non sminuisce il valore dei limiti costituzionali o istituzionali del potere. Il punto è più profondo: che nessuna istituzione o struttura può preservare le persone dall’ingiustizia, quando coloro che hanno l’autorità abusano del proprio potere. In questa situazione, è il potere della coscienza, brandito dalla gente, che può proteggere la società.

La coscienza, a sua volta, si collega alla fede, che ne è la principale formatrice. La fede diventa quindi una forza politica nello stesso modo in cui lo è stato Gesù diventando testimone della verità nella coscienza. “Il potere della coscienza si trova nella sofferenza; è il potere della Croce”, spiega Rourke sintetizzando la lezione del 1972.

“Il Cristianesimo inizia”, secondo l’arcivescovo Ratzinger, “non con un rivoluzionario, ma con un martire”.

Lo studio di Rourke comprende anche un’appendice contenente un’analisi dell’ultima enciclica di Benedetto XVI sui temi sociali: “Caritas in veritate”, pubblicata quando egli aveva quasi finito di scrivere il suo libro. L’autore sottolinea al riguardo la piena continuità tra l’ultima enciclica e i precedenti scritti del Papa.

Secondo Rourke, questa continuità è evidente già nell’introduzione, in cui il Papa lega la verità all’amore e all’idea di una verità oggettiva, contrariamente alla tendenza relativistica.

L’enciclica conclude poi con la ricorrente idea del Pontefice che in Cristo troviamo ciò che è più autenticamente umano, che Egli ci porta a scoprire la pienezza della nostra umanità. Questo umanesimo cristiano è ciò che Benedetto XVI vede come il contributo più grande che possiamo dare allo sviluppo. Un obiettivo avvincente e incoraggiante, per cui vale la pena impegnarsi. (padre John Flynn, Zenit, 18 aprile 2010)

 

 


 

 

Benedetto XVI a Malta. L'approdo che salva dal naufragio

 

L'atto simbolico più forte del suo viaggio a Malta, Benedetto XVI l'ha compiuto al riparo dai media. È stato il suo pianto con otto vittime di abusi sessuali ad opera di sacerdoti, abusi compiuti su di loro quand'erano in giovanissima età.

Il papa li ha incontrati a porte chiuse, nella nunziatura, poco dopo la messa di domenica 18 aprile. È stato uno degli otto, Lawrence Grech, 35 anni, a riferire del pianto del papa. E anche della propria commozione e del riaccendersi in lui della fede.

Il comunicato ufficiale vaticano ha così descritto l'incontro: "Il Santo Padre era profondamente commosso dai loro racconti ed ha espresso la sua vergogna e dolore per ciò che le vittime e le loro famiglie hanno sofferto. Ha pregato con loro ed ha assicurato loro che la Chiesa sta facendo e continuerà a fare tutto ciò che è nelle sue possibilità per accertare le accuse, per portare di fronte alla giustizia i responsabili degli abusi e per mettere in pratica misure efficaci finalizzate alla salvaguardia dei giovani nel futuro. Nello spirito della sua recente lettera ai cattolici dell'Irlanda, ha pregato affinché tutte le vittime di abusi possano sperimentare guarigione e riconciliazione, che diano loro la forza per proseguire il cammino con rinnovata speranza".

In effetti, il viaggio a Malta è stato compiuto da papa Joseph Ratzinger sotto una pressione mediatica internazionale fortissima, che esigeva da lui dei gesti e delle parole per lo scandalo della pedofilia.

E lui non vi si è sottratto. Ma l'ha fatto con lo stile che gli è proprio.

Non ha mai parlato esplicitamente, in pubblico, della questione della pedofilia. Ha ascoltato, piuttosto, ciò che altri gli hanno detto in proposito: il vescovo della Valletta all'inizio della messa e, nel pomeriggio, un giovane omosessuale, durante l'incontro con i giovani sulla banchina del porto. Quest'ultimo intervento, in particolare, è stato un j'accuse tagliente e circostanziato contro le pecche della Chiesa.

In almeno due occasioni, però, papa Benedetto ha fornito in pubblico la sua chiave di lettura della crisi che ha colpito la Chiesa con lo scandalo della pedofilia.

La prima volta è stata sabato pomeriggio, quando ha brevemente parlato ai giornalisti sull'aereo diretto a Malta.

Per spiegare i motivi del suo viaggio, Benedetto XVI ha ricordato il naufragio di san Paolo a Malta nell'anno 60: "Penso che il motivo del naufragio parla per noi. Dal naufragio, per Malta è nata la fortuna di avere la fede; così possiamo pensare anche noi che i naufragi della vita possono fare il progetto di Dio per noi e possono anche essere utili per nuovi inizi nella nostra vita".

E poco oltre ha aggiunto: "So che Malta ama Cristo e ama la sua Chiesa che è il suo Corpo e sa che, anche se questo Corpo è ferito dai nostri peccati, il Signore tuttavia ama questa Chiesa, e il suo Vangelo è la vera forza che purifica e guarisce".

La seconda volta è stata domenica pomeriggio, col discorso ai giovani sul molo del porto della Valletta.

Ha detto il papa, in questo discorso: "San Paolo, da giovane, ha avuto un’esperienza che lo ha cambiato per sempre. Come sapete, un tempo egli era nemico della Chiesa ed ha fatto di tutto per distruggerla. Mentre era in viaggio verso Damasco, con l’intento di eliminare ogni cristiano che vi avesse trovato, gli apparve il Signore in visione. Una luce accecante brillò attorno a lui ed egli udì una voce dirgli: 'Perché mi perseguiti? Io sono Gesù, che tu perseguiti' (Atti 9, 4-5). Paolo venne completamente sopraffatto da questo incontro con il Signore e tutta la sua vita venne trasformata. Divenne un discepolo fino ad essere un grande apostolo e missionario. [...] "Ogni incontro personale con Gesù è un’esperienza travolgente d’amore. Dapprima, come Paolo stesso ammette, aveva 'perseguitato ferocemente la Chiesa di Dio e cercato di distruggerla' (cfr. Galati 1, 13). Ma l'odio e la rabbia espresse in quelle parole furono completamente spazzate via dalla potenza dell'amore di Cristo. Per il resto della sua vita, Paolo ha avuto l’ardente desiderio di portare l’annuncio di questo amore fino ai confini della terra.

"Forse qualcuno di voi mi dirà che San Paolo è stato spesso severo nei suoi scritti. Come posso affermare che egli ha diffuso un messaggio d’amore? "La mia risposta è questa. Dio ama ognuno di noi con una profondità e intensità che non possiamo neppure immaginare. Egli ci conosce intimamente, conosce ogni nostra capacità ed ogni nostro errore. Poiché egli ci ama così tanto, egli desidera purificarci dai nostri errori e rafforzare le nostre virtù così che possiamo avere vita in abbondanza. Quando ci richiama perché qualche cosa nelle nostre vite dispiace a lui, non ci rifiuta, ma ci chiede di cambiare e divenire più perfetti. Questo è quanto ha chiesto a San Paolo sulla via di Damasco. Dio non rifiuta nessuno. E la Chiesa non rifiuta nessuno. Tuttavia, nel suo grande amore, Dio sfida ciascuno di noi a cambiare e diventare più perfetti.

"San Giovanni ci dice che questo amore perfetto scaccia il timore (cfr. 1 Giovanni 4, 18). E perciò dico a tutti voi 'Non abbiate paura!'. Quante volte ascoltiamo queste parole nelle Scritture! Sono state indirizzate dall’angelo a Maria nell’Annunciazione, da Gesù a Pietro, quando lo ha chiamato ad essere un discepolo, e dall’angelo a Paolo la vigilia del suo naufragio. A quanti di voi desiderano seguire Cristo, come coppie sposate, genitori, sacerdoti, religiosi e fedeli laici che portano il messaggio del Vangelo al mondo, dico: non abbiate paura! Certamente incontrerete opposizione al messaggio del Vangelo. La cultura odierna, come ogni cultura, promuove idee e valori che sono talvolta in contrasto con quelle vissute e predicate da nostro Signore Gesù Cristo. Spesso sono presentate con un grande potere persuasivo, rinforzato dai media e dalla pressione sociale da gruppi ostili alla fede cristiana. È facile, quando si è giovani e impressionabili, essere influenzati dai coetanei ad accettare idee e valori che sappiamo non sono ciò che il Signore davvero vuole da noi. Ecco perché dico a voi: non abbiate paura, ma rallegratevi del suo amore per voi; fidatevi di lui, rispondete al suo invito ad essere discepoli, trovate nutrimento e aiuto spirituale nei sacramenti della Chiesa.

"Qui a Malta vivete in una società che è segnata dalla fede e dai valori cristiani. Dovreste essere orgogliosi che il vostro Paese difenda sia il bambino non ancora nato, come pure promuova la stabilità della vita di famiglia dicendo no all'aborto e al divorzio. Vi esorto a mantenere questa coraggiosa testimonianza alla santità della vita e alla centralità del matrimonio e della vita famigliare per una società sana. A Malta e a Gozo le famiglie sanno come valorizzare e prendersi cura dei loro membri anziani ed infermi, ed accolgono i bambini come doni di Dio. Altre nazioni possono imparare dal vostro esempio cristiano. Nel contesto della società europea, i valori evangelici ancora una volta stanno diventando una contro-cultura, proprio come lo erano al tempo di San Paolo.

"In quest’Anno Sacerdotale, vi chiedo di essere aperti alla possibilità che il Signore possa chiamare alcuni di voi a darsi totalmente al servizio del suo popolo nel sacerdozio e nella vita consacrata. Il vostro paese ha dato molti eccellenti sacerdoti e religiosi alla chiesa. Siate ispirati dal loro esempio e riconoscete la profonda gioia che proviene nel dedicare la propria vita all’annuncio del messaggio dell’amore di Dio per tutti, senza eccezione".

Naufragio e ferite, odio e volontà di distruggere... Ma per papa Benedetto davvero tutto è grazia e promessa di guarigione, "anche gli attacchi del mondo ai nostri peccati". Possono essere la mano di Dio che "desidera purificarci dai nostri errori e rafforzare le nostre virtù, così che possiamo avere vita in abbondanza". (Sandro Magister, www.chiesa, 19 aprile 2010)

 

 


 

 

Il Papa ci insegna un nuovo modo di vedere

 

Leggere Benedetto XVI significa incontrare un uomo del tutto a suo agio nella tradizione intellettuale cattolica dell'oriente e dell'occidente cristiani. Non solo Agostino, Bonaventura e Tommaso d'Aquino, ma anche Ireneo, Atanasio e Gregorio di Nissa sono infatti intimi del suo pensiero, della sua predicazione, della sua preghiera.

Tuttavia, chi ha letto i suoi scritti sa bene che l'impegno del Papa per il mondo intellettuale va oltre le epoche patristica e medievale. Fra i suoi interlocutori vi sono infatti Kant e Marx, Nietzsche e Adorno, tutti citati nelle sue encicliche. Sostenere che è profondamente immerso nel mondo delle idee non suscita quindi grande stupore. Quel che forse colpisce di più del Papa è quanto sia importante per lui l'immagine. L'immagine infatti stimola le nostre emozioni e concentra la nostra attenzione.

L'ormai classico libro del giovane Joseph Ratzinger Introduzione al cristianesimo comincia con la scena, tratta da Claudel, di un uomo aggrappato a una tavola di legno in mezzo all'oceano. Questa è l'immagine del cristiano contemporaneo, la cui unica certezza sta nell'unione con Cristo sulla croce nella speranza della resurrezione. In molti modi, tutto il libro descrive il dispiegarsi di quell'immagine straordinaria.

Le splendide omelie del Papa mostrano particolare sensibilità per l'importanza dell'immagine. Spesso traggono ispirazione dalle opere d'arte dei luoghi dove egli celebra la liturgia. In essa le immagini hanno una funzione esplicitamente mistagogica:  incarnano la bellezza e la verità e, andando oltre, indicano come realizzarle. Come egli scrive in Lo spirito della liturgia, esse "servono a condurci al di là di ciò che si può apprendere a livello meramente materiale, a risvegliare in noi nuove sensazioni, a insegnarci un nuovo modo di vedere, che percepisce l'invisibile nel visibile".

Può sembrare paradossale, ma è proprio il riferimento del Papa all'immagine a porre una sfida radicale alla nostra cultura satura di immagini. Infatti, sebbene guardiamo, troppo spesso non riusciamo a vedere, e sebbene fotografiamo senza posa, dimentichiamo di contemplare. Il risultato è l'atrofia progressiva dei nostri sensi spirituali. E Benedetto fa lo sforzo di insegnarci "un nuovo modo di vedere".

Delle molte immagini della Bibbia, forse nessuna ha catturato tanto la sensibilità teologica e spirituale di Joseph Ratzinger quanto quella contenuta nel vangelo di san Giovanni (19, 33-35). Il Papa vi fa riferimento nei suoi scritti e, in particolare, nella sua prima enciclica Deus caritas est.

È la scena della crocifissione e i soldati vogliono controllare che i condannati siano davvero morti. Spezzano le gambe dei due crocifissi accanto a Gesù. "Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua". Per l'evangelista questo fatto è così significativo che letteralmente esclama: "Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero perché anche voi crediate".

Benedetto XVI in questi cinque anni ha di continuo reso testimonianza a questa verità. Egli volge lo sguardo contemplativo della Chiesa al fianco trafitto del crocifisso dal quale fluiscono i sacramenti donatori di vita del battesimo e dell'eucaristia. E anche noi confessiamo con l'evangelista (21, 24): "sappiamo che la sua testimonianza è vera!".

Forse la rappresentazione artistica più raffinata di questa scena giovannea è il mosaico dell'abside nella basilica romana di San Clemente, che offre un'immagine sublime di questa realtà inesauribile:  la croce di Cristo come albero della vita.

In una sua meditazione su questa opera d'arte Joseph Ratzinger scrive: "Se ci soffermiamo a guardare il mosaico, osserviamo che questa Croce è veramente un albero, da cui nascono quattro sorgenti d'acqua". E dall'albero "un grande tralcio si dirama in ampi movimenti circolari" e contiene nei suoi rami fecondi tutti i tipi di creature, umane e animali, "tutta la diversità dell'esistenza", che trae vita dalla croce del crocifisso risorto. Tuttavia, per percepire veramente questo, dobbiamo permettere all'immagine che contempliamo di purificare il nostro sguardo, di espandere il nostro spirito.

Tuttavia il mosaico, per quanto magnifico, non è che lo sfondo di ciò che è ancor più miracoloso:  l'altare su cui si celebra il sacrificio eucaristico di Cristo. Così Benedetto riflette:  "nell'Eucaristia il tralcio di Cristo si estende per tutta l'ampiezza della terra" e "l'immagine stessa mostra la via della realtà" perché "mostra il modo in cui l'Eucaristia attraversa il mondo e lo trasforma".

Catturati sia dall'immagine sia dalla realtà, siamo sfidati a condividere la preghiera sincera di Papa Benedetto: "Signore, mantieni le tue promesse. Fai crescere il tuo tralcio per tutta la terra e lascia che divenga un luogo di amore riconciliato per tutti noi. Disintossica questo mondo con le acque di vita, con il vino del tuo amore". (Robert P. Imbelli, ©L'Osservatore Romano, 21 aprile 2010)

 

 


 

 

Perché le chiese moderne sono brutte

 

Le chiese moderne non persuadono. Visitandole si percepisce la difficoltà dei contemporanei di esprimere il trascendente nelle opere d’arte sacra. I fedeli sono condannati a frequentare chiese che assomigliano spesso a palestre, garage, supermercati, scuole, o addirittura piscine. Forse chi le ha disegnate intendeva riprodurre le situazioni della vita quotidiana nei luoghi demandati all’incontro con la Trinità. Eppure in questi ambienti stranianti non si riesce a instaurare alcun rapporto né con Dio né con gli uomini. A volte si avverte la solitudine come in nessun altro spazio. E pensare che la chiesa, ormai, non è più il luogo dove si prega, ma dove si fa l’assemblea, proprio come avviene nelle aule di culto protestanti.

Si dice che le chiese moderne siano brutte. Al giorno d’oggi un’affermazione del genere rischia di essere priva di senso, persino quando capita che alcuni stilisti decidono di rendere il brutto alla moda nei capi di vestiario. Cos’è mai il bello? Come può attribuire un valore universale all’oggetto della percezione estetica chi professa il relativismo più dogmatico?

L’architettura moderna del Novecento ha prodotto opere d’arte anche in questo ambito. Il guaio è che sono un monumento che l’architetto fa a se stesso, come il santuario di Ronchamp, di Le Corbusier, o le chiese di Alvar Aalto. Da questo punto di vista non sono architetture riuscite, perché le si potrebbe utilizzare per altri scopi, operazione che risulterebbe impossibile nel caso della cattedrale di Chartres o di S. Carlino alle Quattro Fontane.

È comprensibile l’insoddisfazione che dette origine più di venticinque anni fa a movimenti come quello dell’”Architettura tradizionale”, una corrente artistica che propugna un ritorno alle forme del passato. Ma il rimedio è peggiore del male, poiché è piuttosto irragionevole riproporre in cemento armato stilemi nati in altre epoche, in altre culture, con altri materiali e differenti soluzioni tecnologiche.

L’Architettura tradizionale, il cui esponente di maggiore spicco è Léon Krier1, è assai diffusa nei paesi anglosassoni, dove conta molti seguaci fra gli architetti di chiese. Questi ultimi rendono un pessimo servizio a tutta la Chiesa cattolica, oltre che ai loro clienti, appartenenti a gruppi nostalgici del Concilio di Trento. Dimenticano che la modernità secolarizzata è figlia – per quanto degenere – della religione cattolica, l’unica che ha sempre valorizzato pienamente la ragione. È proprio vero, il tradizionalismo è la fede morta dei vivi, la Tradizione autentica è la fede viva dei morti. Il rinnovato dialogo tra fede e arte passa necessariamente attraverso la cura dei focolai d’infezione che hanno condizionato negativamente lo sviluppo della civiltà occidentale.
Alle radici del disagio

Da dove ripartire, allora? Da un lato occorre che gli edifici per il culto siano belli, dall’altro bisogna che assolvano adeguatamente alla funzione per la quale sono progettati. Le due esigenze sono strettamente collegate.

Consideriamo innanzitutto le difficoltà in ambito estetico. Dalla sintassi dell’architettura moderna è stato escluso per principio il decoro, componente indispensabile per progettare le chiese cattoliche. È questa la ragione essenziale per cui le chiese moderne sono spoglie, quasi fossero sottoposte a una furia iconoclasta preventiva. La concezione di Dio dell’architetto, di solito astratta, viene espressa con una magniloquenza dei volumi ingiustificata. Un edificio non è una scultura. Fare irrompere sulla scena urbana una chiesa a forma di barca o di tenda non contribuisce a mettere ordine in un paesaggio caotico né a organizzare l’aula di culto. Il tempio cattolico è affatto diverso dal tempio greco, giacché lo spazio interno è più importante del volume esterno e va studiato con enorme cura.

Alle nude pareti vengono addossate immagini spaesate delle Tre Persone divine, della Madonna e dei santi, che potrebbero essere rimosse o spostate senza modificare l’effetto dell’insieme. Si entra in ambienti anodini, senza sapere dove dirigersi, dato che non c’è un motivo particolare perché il crocifisso o il tabernacolo stiano in un posto anziché in un altro.

La liturgia cattolica ha bisogno dell’ornamento simbolico perché i segni evocano e attualizzano eventi storici. Inoltre la Rivelazione attribuisce un grande valore al corpo e alla materia. L’arte moderna non ha le risorse per esprimere queste verità, fra l’altro perché si rivolge a un’élite di intellettuali e non a una variegata comunità di fedeli comuni. Chi volesse imboccare nuovi percorsi di sviluppo dell’architettura e delle arti figurative dovrebbe entrare nel merito delle ragioni che hanno spinto le avanguardie a rifiutare la rappresentazione del corpo. È questo il problema centrale, non quello delle tecniche, considerato che il programma iconografico dello spazio liturgico si presta a complesse installazioni, molto attuali. Non è indispensabile ricominciare ad affrescare le pareti (tecnica peraltro sconosciuta alla maggior parte degli artisti contemporanei). Si potrebbe tentare per esempio la strada dei video, purché aiuti a descrivere nella sua integrità il mistero cristiano.

Criteri eterodossi

Esaminiamo in secondo luogo le insufficienze funzionali. Progettare una chiesa richiede la comprensione dei luoghi della celebrazione, in particolare la tribuna per la lettura della Parola di Dio e l’ara su cui si rinnova il sacrificio del Calvario. Il progetto dovrebbe partire dall’altare, non dall’involucro. Da questo punto di vista le maggiori responsabilità della inadeguatezza delle chiese moderne ricadono sui committenti.

Nel 1960 ebbe notevole risonanza in Inghilterra e Irlanda la pubblicazione di un libro di Peter Hammond, Liturgy and Architecture. Sebbene scritta da un anglicano, l’opera ebbe una grande influenza sulla progettazione delle chiese cattoliche. L’autore sostiene che la chiesa è la “Casa del popolo di Dio” (domus ecclesiae) piuttosto che un edificio dedicato all’adorazione di Dio (“Casa di Dio” o domus Dei). Non ci sarebbe nulla da eccepire a questa definizione classica, se non fosse che il senso originale viene stravolto: Dio è considerato tanto immanente al suo popolo da sparire del tutto. Ponendo l’accento su un funzionalismo radicale, egli propone uno spazio idoneo a radunare l’assemblea attorno all’altare, enfatizzando l’azione stessa del radunarsi.

Vengono così rigettati il valore centrale dell’Eucaristia e la natura gerarchica della Chiesa, che trae origine dal sacrificio dell’altare. L’edificio per il culto è sì considerato simile agli organismi viventi, ma di tipo elementare, come l’ameba o il paramecio2. Sarebbero questi i nuovi termini di paragone per disegnare una chiesa, non più il corpo umano, come si vede invece nei trattati di architettura del Rinascimento. Non è affatto banale che i manualisti inseriscano la figura umana, indicata da Vitruvio come «misura di tutte le cose», all’interno della pianta di chiese a croce latina, in un gioco di rimandi simbolici fra le membra vive del Corpo Mistico e le parti dell’organismo architettonico.

La riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II è stata attuata da liturgisti e teologi che ne hanno frainteso i principi ecclesiologici. È nota l’interpretazione neomodernista di documenti del Concilio, quali la Sacrosanctum concilium e la Lumen gentium. Va ricordato che quei documenti non parlano soltanto della Chiesa come Popolo nuovo di Dio – Popolo con la P maiuscola, società soprannaturale organizzata dal Fondatore divino, non folla anarchica animata da un dio ignoto –, ma anche come Corpo Mistico di Cristo e Tempio dello Spirito Santo. È a queste definizioni trinitarie che bisogna fare riferimento per progettare i luoghi in cui la Chiesa locale si riunisce per celebrare i sacramenti. Si tratta infatti delle idee centrali a partire dalle quali la Chiesa conosce se stessa e i cristiani conoscono sé stessi come membri della Chiesa. Il venir meno di questa comprensione è uno dei motivi per cui l’architettura per il culto è priva di un “linguaggio sacramentale”.

Quanti liturgisti hanno oggi un senso “sacramentale” della liturgia? Quanti hanno fede nell’efficacia soprannaturale della grazia? Non sarà che per loro il segno ha valore a prescindere dalla realtà significata? La Messa è una partecipazione profonda alle realtà spirituali attraverso una complessa struttura simbolica (le disposizioni della chiesa, i ministeri, i paramenti, le suppellettili, le parole, le preghiere, i movimenti, i gesti). Quanti liturgisti si basano su una comprensione reale della persona umana per definire gli spazi e i momenti della celebrazione? Occorre tener conto del modo in cui l’uomo si rapporta allo spirito attraverso la materia, tramite memoria, immaginazione, percezione estetica, sensi, emozioni e pensieri: tutte le potenze irrorate da una vita di preghiera genuina.

Un fenomeno senza precedenti

Di chiese brutte si può parlare a partire dai primi esperimenti del Movimento liturgico, nato nella prima metà dell’Ottocento nell’abbazia benedettina di Solesmes. Semplice coincidenza?

Qualcuno ha detto che la Chiesa ha interrotto il dialogo con gli artisti da almeno due secoli a questa parte. A ben guardare una simile affermazione non convince, perché il Movimento liturgico provocò sin dall’inizio la ricerca di nuove forme artistiche. Il guaio è che lo fece in nome di un egualitarismo troppo spinto, elaborando una concezione di “spazio universale”, dove tutti i partecipanti e tutti i luoghi dell’azione rituale hanno lo stesso peso, che precede con largo anticipo le riflessioni di Hammond. Il teologo Romano Guardini (1885-1968) ebbe un continuo e fecondo scambio di idee con Rudolf Schwarz (1897-1961), vale a dire con un raffinato architetto e pensatore cattolico. Non era un dilettante di architettura sacra quale si è dimostrato Richard Meier nella “chiesa del Duemila”, quella di Roma intitolata a Dio Padre misericordioso, costata oltre 15 milioni di euro. Eppure le chiese di Schwarz sono desolanti scatole di cemento, glaciali come la punta di un iceberg che rivela la presenza di un corposo pensiero razionalista3.

Non era mai avvenuto in passato che l’architettura sacra fosse frutto dell’incontro di liturgisti temerari, le cui legittime aspirazioni per una migliore partecipazione dei fedeli superassero il limite dell’ortodossia, con artisti che non riescono a fare a meno di impiegare linguaggi tipici di un mondo secolarizzato. Fino al XIX secolo si era registrato nell’architettura per il culto un rapporto continuo tra l’evoluzione omogenea del dogma, la fede viva dei costruttori e la loro abilità costruttiva (sviluppata nell’alveo di una cultura realista). E le chiese erano esempi spesso insuperati di bellezza, che hanno resistito alle prove del tempo.

Nella prima fase della diffusione del cristianesimo si passò dalle domus ecclesiae alle chiese siriane (mutuate dal modello della sinagoga) e alle basiliche romane. Vennero perfezionati alcuni tipi molto chiari nella loro partizione (area dei catecumeni, luoghi del battesimo, della parola, dell’eucaristia, cattedra,...) e idonei al dinamismo dell’azione liturgica. Sembra che i fedeli si muovessero molto durante la celebrazione: uomini e donne entravano da porte differenti, si disponevano attorno agli amboni, poi si spostavano verso l’altare, si giravano a oriente durante la consacrazione, ecc.

Alla vivacità della liturgia corrispondeva una grande libertà creativa, maggiore di quanto non sia dato comprendere a chi visita oggi i monumenti paleocristiani o bizantini, manomessi dall’uso più recente o dai restauri. Ripristinare una ipotetica sistemazione originaria è molto difficile nelle chiese antiche, perché gli adeguamenti liturgici apportati nei secoli sono stati a volte brutali. Sono state disperse parti di amboni dal sottile valore simbolico (l’ambone non era un semplice leggio, era il sepolcro vuoto dal quale veniva dato l’annuncio della Risurrezione). Più di recente sono stati smembrati altari del Santissimo Sacramento di splendida fattura artigianale.

I primi cristiani avevano una profonda consapevolezza della chiamata universale alla santità, che si è affievolita con la grande evangelizzazione di massa dei barbari. La loro fedeltà al messaggio evangelico costituiva il solido fondamento della libertà di spirito con cui modellavano lo spazio fisico, impiegavano le arti figurative, componevano la musica, ecc.

La liturgia mantenne la spinta creativa anche nei secoli del romanico e del gotico. Fintantoché la Chiesa non ebbe il problema di affrontare i gravi errori dottrinali dei protestanti, la varietà di espressioni dell’azione liturgica fu molto ampia. Soltanto dopo il Concilio di Trento la celebrazione venne costretta entro forme molto rigide, giustificate dalla necessità pastorale di difendere la retta dottrina. Era necessario, in particolare, sottolineare la presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia. Borromeo imbrigliò con prescrizioni minuziose la ricerca di soluzioni nuove che permettessero di considerare ancora la liturgia una sorta di opera d’arte totale4.

Chiese “drive in”

L’introduzione graduale dei banchi (le cui origini remote risalgono all’autunno del Medioevo) aveva ridotto nel frattempo la possibilità di movimento dei fedeli durante la celebrazione.

«Storicamente il banco appare piuttosto tardi […]. Prima di allora i laici stavano in piedi o in ginocchio secondo le prescrizioni, dato che non c’erano posti a sedere. Fino a quell’epoca, è interessante notare, uomini e donne erano spesso separati durante i riti. Nell’Oriente cristiano le donne a volte stavano in piedi in una galleria superiore della navata detta gynaikon. […] Per i medievali, che immaginavano l’Inferno ad ovest e ritenevano il nord la terra del paganesimo, questa sistemazione conferiva alle donne della comunità il compito di proteggere i meno santi e meno forti dalla tentazione più grande! Come si vede nelle Istruzioni di san Carlo Borromeo, questa distribuzione era ancora rinvenibile nel XVI secolo. […] A partire dal XIII secolo alcune chiese furono dotate di panche senza schienale. I banchi veri e propri furono adottati per primi dai protestanti, per consentire di rimanere seduti durante sermoni che duravano ore. In modo simile essi divennero più comuni tra i cattolici allorché la Controriforma attribuì una grande importanza liturgica alla proclamazione della Parola. Verso il tardo XVI secolo le panche divennero più grandi e fisse, con inginocchiatoi e alti schienali, e spesso con pannelli scolpiti finemente.

«Nei recenti adeguamenti delle chiese spesso sono stati rimossi i banchi per sostituirli con sedie monoposto non fisse. Ciò comporta sia vantaggi che inconvenienti. I posti mobili hanno l’indubbio pregio di rompere la staticità della navata e di offrire un’immagine più organica dell’assemblea. Sebbene le sedie esprimano meglio il ruolo della singola persona nella comunità, esse hanno anche un effetto meno familiare dei banchi. Forse la giustificazione più banale è che esse permettono pure facilmente di cambiare la sistemazione delle chiese: un simbolismo piuttosto dubbio, dato che le chiese dovrebbero parlare dell’eterno piuttosto che dell’effimero. L’altro difetto delle sedie è che i posti individuali possono ricordarci i posti a sedere dei teatri. Possono suggerire una relazione da spettatore e quindi non incoraggiare la vera partecipazione. […] È spiacevole che la rimozione dei banchi in molte chiese, specialmente in America, abbia comportato l’eliminazione degli inginocchiatoi e anche della pratica dell’inginocchiarsi»5.

Il Concilio Vaticano II ha promosso in vari modi la partecipazione piena, consapevole, devota e attiva dei fedeli. Eppure essi si sono notevolmente impigriti, tant’è che frequentano più numerosi le parrocchie in cui sono previste maggiori comodità per attirarli. Si ha l’impressione che converrebbe progettare chiese “drive in”, dove si possa entrare in automobile.

Alcuni sacerdoti rischiano di mettere tra parentesi il ruolo di maestra della Chiesa per inseguire le mode del momento, coltivando l’illusione di attrarre e coinvolgere i fedeli. Ne sono esempi sia la consuetudine inappropriata di cambiare o abbreviare a proprio piacere i testi liturgici, sia quella di introdurre nella celebrazione canzoni ispirate a tradizioni musicali poco consone a elevare lo spirito.

La riforma liturgica è nata dal desiderio di porre l’Eucaristia al centro e al culmine della vita di tutti i cristiani, laici compresi. Essa però è stata interpretata scorrettamente come un invito a trasformare i riti in uno “spettacolo” di matrice protestante, senza un reale coinvolgimento dei fedeli, se non negli aspetti più superficiali. La celebrazione dei sacramenti è divenuta una forma di intrattenimento, con appelli a sensi ed emozioni e addirittura con applausi (il chiasso melenso provocato da alcuni sacerdoti è un silenzio tombale per le orecchie degli architetti: essendo ingiustificato, non offre alcuna indicazione utile al progetto). Il sacerdote è diventato l’attore pressoché solitario di una recita all’interno di un teatro molto statico, in cui gli spettatori sono bloccati ai loro posti con gli occhi fissi su di lui.

Le difficoltà non sono superate neanche dalla distribuzione “avvolgente” dei posti a sedere, tanto cara ad alcuni liturgisti, che del resto non è neppure rispettosa del modello dell’Ultima cena nel cenacolo. Sembra quasi che la riforma liturgica si sia arenata prima del guado, senza raggiungere le mete nevralgiche della participatio actuosa dei fedeli. Non è certo facendo leggere un laico o intonare qualche altro che si ottiene questo risultato.

Progettare con la luce

Uno dei materiali essenziali per la composizione architettonica è l’energia luminosa. Nel caso delle chiese essa possiede una precisa carica simbolica. Lo spiegava liricamente Giovanni Paolo II un po’ di tempo fa: «È un’irradiazione del suo mistero trascendente ma che si comunica all’umanità: la luce, infatti, è fuori di noi, non la possiamo afferrare o fermare; eppure essa ci avvolge, illumina e riscalda. Così è Dio, lontano e vicino, inafferrabile eppure accanto a noi, anzi pronto ad essere con noi e in noi. Allo svelarsi della sua maestà risponde dalla terra un coro di lode: è la risposta cosmica, una sorta di preghiera a cui l’uomo dà voce.

«La tradizione cristiana ha vissuto questa esperienza interiore non soltanto all’interno della spiritualità personale, ma anche in ardite creazioni artistiche. Tralasciando le maestose cattedrali del medioevo, menzioniamo soprattutto l’arte dell’oriente cristiano con le sue mirabili icone e con le geniali architetture delle sue chiese e dei suoi monasteri.

La chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli rimane a questo proposito come una sorta di archetipo per quanto concerne la delimitazione dello spazio della preghiera cristiana, in cui la presenza e l’inafferrabilità della luce permettono di avvertire sia l’intimità sia la trascendenza della realtà divina. Essa penetra l’intera comunità orante fin nel midollo delle ossa e insieme l’invita a superare se stessa per immergersi tutta nell’ineffabilità del mistero. Altrettanto significative le proposte artistiche e spirituali, che caratterizzano i monasteri di quella tradizione cristiana. In quei veri e propri spazi sacri – e il pensiero vola immediatamente al Monte Athos – il tempo contiene in sé un segno dell’eternità. Il mistero di Dio si manifesta e si nasconde in quegli spazi attraverso la preghiera continua dei monaci e degli eremiti da sempre ritenuti simili agli angeli».

Quando vennero diffuse queste parole del Papa, alcuni architetti reagirono con arroganza indispettita, asserendo che nessuno meglio dei progettisti odierni è mai stato capace nella storia di modellare lo spazio con la luce. Sarà vero? Dal Crystal Palace di Londra7 al progetto del grattacielo che sostituirà le Twin Towers, c’è stata una corsa ininterrotta all’edificio più trasparente. Il rapporto tra queste enormi superfici vetrate e il conseguente spreco di energia suscita più di una perplessità, senza contare l’indifferenza al contesto di queste architetture. In ogni caso non è eliminando il confine tra interno ed esterno che si ottiene una buona chiesa.

Con buona pace degli strenui difensori della superiorità dell’architettura contemporanea, bisogna ammettere che gli architetti bizantini seppero servire la liturgia più adeguatamente di chiunque altro, e con sorprendente audacia, tant’è che la prima cupola di Santa Sofia crollò e fu necessario ricostruirla con maggiore attenzione.

Una sfida per gli architetti

In Italia la Chiesa cattolica è rimasta l’unica committenza che abbia fiducia e interesse per il lavoro degli architetti. Non esistono una classe politica, una dirigenza o un ceto di mecenati che vogliano la qualità. Esistono casi isolati di incarichi che dimostrano il desiderio di apparire e un discreto complesso di inferiorità nei confronti dei progettisti di grido, ma sono eccezioni che non aiutano a uscire dal vicolo cieco.

La progettazione dello spazio sacro costituisce una sfida intrigante non solo per gli architetti, ma anche per artisti, artigiani e liturgisti. Paradossalmente le risorse finanziarie ci sono, quelle che mancano sono le idee. Per trovare la strada giusta servono anche i contributi dei filosofi, degli storici, degli archeologi, dei teologi. Perché non dare vita a un ampio dibattito su questo tema? Magari, mettendo da parte una buona volta i luoghi comuni triti e ritriti sull’argomento e le ipotesi ermeneutiche prive di fondamento.

Uno degli equivoci più diffusi è l’obbligo morale di ruotare l’altare verso i fedeli. «Il Liber Pontificalis ci dice che, due secoli dopo Gregorio, il papa Pasquale I, a Santa Maria Maggiore, aveva sempre il suo seggio in mezzo alla navata, avendo in tal modo gli uomini davanti a sé e le donne dietro, mentre l’altare restava in fondo. Anche in questo caso, ciò che gli fece spostare il trono pontificale per trasferirlo nell’abside fu, ci vien detto, il suo disappunto nel sentire le donne far commenti su ciò che egli diceva ai suoi diaconi. Tutti questi fatti – e sono questi i fatti che noi abbiamo circa l’origine dell’altare “rivolto al popolo” – mostrano che la disposizione resa celebre da S. Pietro a Roma, e dalla maggior parte delle altre basiliche romane che ne hanno seguito l’esempio, risale indubbiamente a un’epoca molto antica e si avvale di una lunga pratica da parte dei papi. Ma mostrano altrettanto chiaramente che vi si è arrivati attraverso tutta una serie di evoluzioni che corrispondono ben poco a ciò che tanti amano immaginare al giorno d’oggi. Quel che è più importante è che l’origine dell’altare “rivolto al popolo” ha poco o nulla a che vedere con il senso che gli si è attribuito nei tempi moderni.

«Lungi dall’essere primitivo, l’uso di un altare “rivolto al popolo” è anzitutto il risultato relativamente recente (non è anteriore al VI secolo) di un’evoluzione piuttosto complessa. Tutto ciò che noi sappiamo della celebrazione primitiva o della celebrazione che si è strutturata in epoca costantiniana indica un altare situato o in fondo all’edificio o in mezzo alla navata. Nel primo caso, nessuno poteva trovarsi di fronte al celebrante. Nel secondo caso, solo una parte dei presenti si trovava di fronte a lui, e pare che fosse composta unicamente dalle donne.

«L’idea che una celebrazione di fronte al popolo abbia potuto essere una celebrazione primitiva, e in particolare quella della cena eucaristica, non ha altro fondamento se non un’errata concezione di ciò che poteva essere un pasto nell’antichità, cristiano o no che fosse. In nessun pasto dell’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea di commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, o distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma, oppure di una tavola che aveva all’incirca la forma di un ferro di cavallo. Da nessuna parte dunque, nell’antichità cristiana, sarebbe potuta venire l’idea di mettersi di fronte al popolo per presiedere un pasto. […] Bisogna aggiungere inoltre che la descrizione del tardo altare romano come di un altare “rivolto al popolo” è puramente moderna. L’espressione non è mai stata usata nell’antichità cristiana. È sconosciuta anche al medioevo».

Stat Crux dum volvitur orbis. La Messa è una celebrazione dinamica per essenza. Essa rinnova e ripropone il sacrificio del Calvario, riassumendo tutto il prima e il poi della storia dell’umanità. Il Redentore rimane inchiodato sulla croce fino alla fine del mondo, offrendo un sostegno misterioso a ogni essere umano che naufraga nel vortice di una vita all’apparenza senza senso. Occorre rappresentare nelle chiese il ruotare del cosmo e della storia attorno al loro asse effettivo, fino a quando esso si manifesterà diafano nella Gerusalemme celeste. L’architettura deve favorire questo movimento, risultato che non si ottiene con la superficiale disposizione delle sedie attorno all’altare, anche perché i luoghi della celebrazione sono molteplici. A tal uopo può essere utile ricuperare il rapporto fisico con il punto cardinale da cui sorge il sole.

«Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso. Essa non è più – nella sua forma – aperta in avanti e verso l’alto, ma si chiude su se stessa. L’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era “celebrazione verso la parete”, non significava che il sacerdote “volgeva le spalle al popolo”: egli non era poi considerato così importante. Difatti, come nella sinagoga si guardava tutti insieme verso Gerusalemme, così qui ci si rivolgeva insieme “verso il Signore”. Per usare l’espressione di uno dei padri della costituzione liturgica del Concilio Vaticano II, J. A. Jungmann, si tratta piuttosto di uno stesso orientamento del sacerdote e del popolo, che sapevano di camminare insieme verso il Signore. Essi non si chiudono in cerchio, non si guardano reciprocamente, ma, come popolo di Dio in cammino, sono in partenza verso l’oriente, verso il Cristo che avanza e ci viene incontro». (Ciro Lomonte, Il Domenicale, aprile 2006)

 

 


 

 

Abili e informati tra le onde dell'era crossmediale

 

Antenne, cavi, satelliti, connessioni perpetue, archivi sterminati, con i fili e senza fili, possibilità di ascoltare chiunque e parlare con chiunque in qualsiasi momento, annullando il tempo e lo spazio. E poi informazioni, una valanga di informazioni… un’ondata da cavalcare, se sei abbastanza abile. Una valanga che ti può travolgere e soffocare, se non lo sei. L’era crossmediale è questo e molto altro. È un quotidiano che transita da un sito internet e vola nella tv sbriciolandosi in un ipad per ritornare carta stampata e ri-sbriciolarsi in mille archivi. È la sensazione di ebbrezza di trovarti al centro del mondo, dei fatti e delle idee anche se fisicamente sei in periferia, nella tua stanza in una metropoli come su un remoto prato alpino, ma con la connessione attiva. L’era crossmediale la senti respirare in infiniti modi: dalle chiacchiere a vuoto del rompiscatole che urla i fatti suoi sul tram affollato di umanità già stressata di per sé o sulla poltrona del Frecciarossa tra manager in giacca e cravatta, ciascuno armato di pc e cuffie; ai teneri scambi di sms tra due adolescenti che giocano all’antichissimo gioco del corteggiamento, o tra amici che si mettono d’accordo per la serata; e soprattutto nell’ultimo marchingegno in mano a chi se l’è appena conquistato, e gli occhi gli brillano perché ha la sensazione di essere più alla moda, quindi rispettato e perfino temuto, e più al centro del mondo, più libero e forte perché questo suggerisce la tecnologia a chi docile la asseconda, di stare in prima fila, non in coda al gruppo.

La cultura – i modelli di pensiero, gli stili di vita – transita sempre più da questi incroci. La crossmedialità fa circolare la cultura, e nello stesso tempo la plasma, la trasforma, la alimenta. Mai come oggi è vera la profezia di MacLuhan: sì, il medium è il messaggio. E mai come oggi c’è bisogno di gente libera e consapevole, capace di orientarsi agli incroci, decidendo lei dove andare, senza farsi travolgere dal traffico. C’è bisogno di abilità critica.

Non c’è bisogno solo di una élite genialoide che pensi al posto degli altri. Abbiamo bisogno di un intero popolo che scopre il gusto, la fatica, il divertimento, la passione dell’abilità critica, un popolo capace di scegliere e non di essere scelto.

Anche questo è Progetto culturale? Crediamo di sì. E se i cattolici – capofila di ogni italiano dal cervello sveglio – vogliono avere qualche speranza di continuare a saper pensare liberamente per dire parole libere, ossia pensieri e giudizi e progetti cristianamente ispirati, bisognerà che afferrino per le corna la crossmedialità, servendosene senza farsene servi.

Di questo, e di molto altri, si parlerà da oggi pomeriggio a sabato mattina a Roma, al convegno "Testimoni digitali", in continuità con "Parabole mediatiche" di otto anni fa. L’obiettivo è che gli animatori della comunicazione e della cultura aumentino nel mondo cattolico di numero e in competenza. Che ogni comunità si domandi: siamo abili criticamente? Siamo alfabetizzati? Secondo Tullio De Mauro, soltanto tre italiani su dieci sanno scrivere in modo comprensibile e leggere un testo capendone il senso. Eppure i rimanenti sette non sembrano preoccuparsene, forse perché possono accedere alla crossmedialità, inebriati dagli apparenti superpoteri conferiti dalla tecnologia della comunicazione. Si illudono di comunicare, ma sono soltanto consumatori di comunicazione.

Senza abilità critica ogni parola risuona nel vuoto. Con l’abilità critica, anche la parola più minuscola può risultare fragorosa. (Umberto Folena, Avvenire, 22 aprile 2010)

 

 


 

 

L'Apostolo delle genti in un affresco della Cappella Paolina

 

La recente visita del Papa a Malta mi ha fatto venire in mente un affresco della Cappella Paolina di recente restaurata. Quel luogo sacro piccolo e privato, escluso dai percorsi turistici perché riservato all'esposizione del Santissimo Sacramento e al servizio liturgico per la Famiglia Pontificia, è celebre nel mondo perché ospita gli ultimi capolavori pittorici del vecchio Michelangelo. Sono gli affreschi con la Caduta di Saulo sulla via di Damasco e la Crocifissione di san Pietro, dipinti negli anni Quaranta del XVI secolo regnando Paolo III Farnese, il grande Papa che inaugurò il Giudizio Universale in Sistina il giorno di Ognissanti del 1541 e aprì, quattro anni dopo, il concilio di Trento. La Cappella Paolina si chiama così in omaggio al nome di Papa Farnese che la edificò e la volle decorata con le storie degli apostoli Pietro e Paolo. Era ed è destinata, come si è detto, a ospitare il Santissimo Sacramento e ad accogliere le liturgie e le preghiere del Papa. Le storie dei Principi degli apostoli sono quindi iconograficamente giustificate e anzi necessarie.

All'interno della cappella in ginocchio di fronte al Santissimo Sacramento, il Pontefice era (ed è) nella pienezza del suo ruolo ministeriale: custode del Corpus Christi, successore del Vicario (le Storie dell'apostolo Pietro), difensore e garante dell'ortodossia (le Storie di san Paolo).

Paolo III Farnese morì nel 1549. Michelangelo che era legato a quel Papa da speciali vincoli di amicizia e di gratitudine e che era inoltre assai avanti con gli anni e in cattiva salute, non volle continuare la decorazione pittorica della Cappella Paolina. Le ultime energie che gli restavano intendeva dedicarle alla progettazione della cupola. Avvenne così che il cantiere, lasciato interrotto dal Buonarroti, rimase deserto per più di venti anni. Fino a quando Gregorio xIII Boncompagni non ordinò ai pittori Lorenzo Sabatini e Federico Zuccari di concludere il ciclo in affresco con le restanti storie dei santi Pietro e Paolo. Ed ecco la Cappella Paolina così come la vediamo oggi, dopo l'ultimo restauro inaugurato da Benedetto XVI il 4 luglio dell'anno scorso.

Seguendo scrupolosamente il testo degli Atti degli Apostoli Sabatini e Zuccari rappresentarono nelle pareti e nella volta gli episodi salienti della vita di san Pietro e di san Paolo:  la Disputa di Simon Mago, la Liberazione di Pietro dal carcere, l'Incontro con il centurione Cornelio, la Lapidazione di santo Stefano e così via.

Fra gli altri episodi (ecco il collegamento con il recentissimo viaggio del Papa) c'è, affidato al pennello di Federico Zuccari, l'episodio del Naufragio a Malta di san Paolo. Fra i fatti della vita dell'apostolo non è dei più conosciuti e dei più rappresentati. Eppure grande è il suo significato simbolico. Ce lo ricordava Benedetto XVI in uno dei suoi discorsi maltesi: "Da quel naufragio è nata per Malta la fortuna di avere la fede e anche noi possiamo pensare che i naufragi della nostra vita facciano parte del progetto di Dio e possono essere utili per un nuovo inizio".

Il "nuovo inizio", per Paolo, è stato l'approdo a Roma con quello che questo ha significato per il futuro del cristianesimo, per la storia della nostra cultura e della nostra civiltà.

Il naufragio a Malta fu un incidente accaduto, diremmo oggi, durante un viaggio di "traduzione giudiziaria". Tutto comincia a Gerusalemme dove la predicazione di Paolo aveva scatenato le ire degli Ebrei che lo volevano morto. L'amministrazione romana era, come è noto, tollerante e cinica. Lasciava volentieri che i sudditi delle province sottomesse risolvessero fra di loro le loro questioni. Non però in questo caso. Perché Paolo era cittadino romano e aveva diritto di appellarsi a Cesare. Nella patria del corpus iuris, nell'impero governato dalla legge, la procedura penale era una cosa seria. I governatori delle province avevano potestà istruttoria e giudicante fino alla sentenza capitale. Il processo a Gesù insegna. Non l'avevano però sui cittadini romani. Per questi ultimi lo ius gladii era prerogativa esclusiva di Cesare e cioè della magistratura romana. Queste cose Paolo le sapeva benissimo. Si dichiarò cittadino romano e si appellò all'imperatore garantendosi così una provvisoria impunità. In seguito, dopo essere stato trattenuto agli arresti domiciliari a Cesarea, venne trasferito per nave, con tanto di scorta armata, a Roma.

Fu un viaggio disastroso, funestato da tempeste e da venti contrari fino al naufragio di Malta. A questo punto lasciamo parlare gli Atti degli Apostoli. "Una volta in salvo venimmo a sapere che l'isola si chiamava Malta. Gli abitanti ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti intorno a un fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di rami secchi e lo gettava sul fuoco, una vipera saltò fuori a causa del calore e lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli abitanti dicevano fra di loro:  "certamente costui è un assassino perché, sebbene scampato dal mare, la dea della giustizia non lo ha lasciato vivere". Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non patì alcun male. Quelli si aspettavano di vederlo gonfiare o cadere morto sul colpo ma, dopo aver molto atteso e vedendo che non gli succedeva nulla di straordinario, cambiarono parere e dicevano che egli era un dio" (28, 1-10).

Nell'affresco in Cappella Paolina Federico Zuccari fornisce una traduzione figurativa pressoché letterale del testo. L'apostolo si è messo al riparo in una grotta (sullo sfondo si vede la nave incagliata e sfasciata) lo circondano i compagni di sventura e gli isolani di cui gli Atti ricordano la "rara umanità" (complimento più bello non si può fare a un popolo e a una nazione) mentre si verifica il fatto della vipera.

C'è la catasta di legna secca, c'è il fuoco acceso e noi vediamo la serpe attaccata alla mano di Paolo. Mentre sgomento e orrore attraversano i volti degli astanti.

Il lieto fine lo conosciamo. Vale la pena di notare che il passo degli Atti degli Apostoli dedicato al naufragio maltese (venticinque righe in tutto) si conclude con un ulteriore elogio della umanità e generosità degli isolani. Il governatore Publio accolse Paolo e i suoi compagni "con benevolenza", i maltesi li "colmarono di molti onori" e al momento della partenza per Roma li "rifornirono del necessario". È quasi una prefigurazione della generosità e del calore con i quali l'isola di Malta ha ospitato, nei giorni scorsi, Papa Benedetto XVI. (Antonio Paolucci, ©L'Osservatore Romano, 22 aprile 2010)

 

 


 

 

Il convegno storico "Da Roma alla Terza Roma"

 

"Imperi e migrazioni. Leggi e continuità. Da Roma a Costantinopoli a Mosca" è il tema del convegno internazionale di studi storici Da Roma alla Terza Roma che si è aperto mercoledì 21 aprile in Campidoglio con i saluti introduttivi di Luigi Frati, rettore magnifico dell'università di Roma La Sapienza; di Umberto Croppi, assessore alle Politiche culturali del Comune di Roma; di Roberto de Mattei, vicepresidente del Consiglio nazionale delle Ricerche (Cnr); di Jurij S. Osipov, presidente dell'Accademia delle Scienze di Russia. Pubblichiamo qui quasi integralmente il contributo del cardinale archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa.

“Eusebio di Cesarea: Il "vescovo" che sconfisse Massenzio”. Eusebio esprime le sue idee sulla Chiesa in quasi tutte le opere, in modo particolare e più ampio nel Commento a Isaia e nel Commento ai Salmi. Egli non tratta del laicato, come tale, dei "laici" ma dà largo spazio a quello che egli chiama il popolo, "i popoli della Chiesa" (òi tès ekklesìas laòi), il "gregge", il "coro", e così via.

La Chiesa, secondo Eusebio, è distinta in gerarchia e popolo. Il popolo, i fedeli, a loro volta, si distinguono in "illuminati in Cristo" e in quelli che sono "ammessi all'iniziazione". La gerarchia sale dai diaconi - e qui sta il primo grado di distinzione tra gerarchia e popolo - ai presbiteri, ai vescovi.

La Chiesa, "fecondata dal fiume che è il Lògos, genera la moltitudine del popolo di Cristo".

Eusebio distingue il popolo dalla Chiesa. Sembra che questa sia più che una distinzione verbale. Eusebio esprime questa distinzione, descrivendo il rapporto Chiesa-popolo come rapporto tra contenente e contenuto, isole e suoi abitatori; oppure come rapporto tra madre e figli o come rapporto tra comunità (koinonìa) e singoli che la compongono. Eusebio, come vedremo più avanti, distingue la Chiesa come istituzione, cioè la Chiesa come "città di Dio", dalla Chiesa come popolo.

Da chi è formato il popolo della Chiesa?

Il popolo della Chiesa è costituito dal "resto d'Israele", apostoli e discepoli di Cristo costituenti il nucleo giudaico della Chiesa primitiva, e inoltre dal popolo dei gentili. Quest'ultimo v'entra in prevalenza: la Chiesa viene detta perciò "Chiesa dalle genti", "Chiesa delle genti".

Il popolo della Chiesa così come si distingue assolutamente dal popolo della sinagoga si distingue pure dal popolo delle genti come tali, dai gentili o elleni, dai quali pure esso proviene. Questa distinzione è detta con l'espressione "Chiesa nelle genti".

Dalle genti sono venuti nella Chiesa quelli che ne difendono la dottrina (i vescovi) e gl'imperatori che respingono coloro che le preparano insidie. Un flusso continuo di genti nella Chiesa vi porta il fior fiore degli scienziati e sapienti, che ne saranno il decoro e la gloria; vi porta le persone che prima la bestemmiavano.

Anche se la Chiesa è perfetta, senza macchia, il popolo della Chiesa è fatto di buoni e cattivi. I giusti (dìkaioi) si rassomigliano contemporaneamente alla palma, che ha una espansione verticale verso il cielo, verso Dio, e al cedro, che ha un moltiplicazione orizzontale d'influsso e di salvezza sul prossimo. I non-perfetti (òi atelèsteroi) sono coloro che non attuano in sé completamente la doppia immagine della palma e del cedro, pur trovando anche essi posto nella Chiesa.

Il popolo della Chiesa dunque è il popolo nuovo piantato nella Chiesa terrena, in cui vi sono buoni e cattivi, per fiorire poi nella Chiesa celeste, perfetta e senza macchia.

La Chiesa terrena non è dunque definitiva, perché serve a uno scopo, raggiunto il quale, essa non ha più ragioni di esistere.

In conclusione:  il popolo della Chiesa si distingue dalla Chiesa stessa come istituzione terrena e questa, a sua volta, si distingue dalla Chiesa celeste.

La "città di Dio" o "Gerusalemme celeste" è il tempio in cui Dio abita. I suoi cittadini sono i santi, i quali posseggono finalmente il Lògos. Essi sono detti "re", in quanto hanno conseguito nella "città di Dio" il Regno dei cieli e in quanto in essa regnano con Cristo; sono detti "sacerdoti", in quanto, sotto la guida di Cristo, principe dei sacerdoti, offrono doni a Dio in quel tempio celeste.

La "città di Dio celeste" è il Regno di Cristo in atto in cielo, il Regno dei cieli, il Regno del Padre.

La Chiesa invece, città di Dio terrena, è detta "Regno" in quanto è preparazione al "Regno dei cieli".

Eusebio applica questa dottrina della Chiesa come immagine del Regno dei cieli in tre modi:  1) Cristo è capo e Re della Chiesa, il novello Ciro che ha edificato la nuova Gerusalemme. 2) I cristiani, suoi sudditi, sono, oltre che in cielo, anche nella Chiesa. Essi sono singolarmente immagine di Lui e collettivamente immagine del suo Regno in cielo. Essi sono il popolo regale, la corona e il diadema che il Padre ha posto sul capo del Figlio. Essi sono i soldati di Cristo Re vittorioso ai quali Egli ha dato come bottino il genere umano. 3) La Chiesa conserva i simboli del regno di Dio la croce cioè, strumento della conquista del Regno e le norme di vita secondo il Vangelo e l'eusebèia degli antichi cristiani, dei patriarchi.

Nella descrizione delle due città, quella celeste e quella terrena, gli abitanti di essa, i cristiani, i fedeli, hanno caratteristiche regali e sacerdotali, che derivano loro dalla comune partecipazione al sacerdozio regale del Lògos-Cristo (come si esprime Eusebio). Mentre degli abitanti celesti, per dir così, si sottolinea il carattere "sacerdotale", di quelli terreni se ne mette in rilievo piuttosto quello "regale".

La concezione della Chiesa e conseguentemente del popolo e della gerarchia di essa, così come emerge dal Commento ai Salmi e dal Commento ad Isaia di Eusebio - pur riferita a confronto con le altre opere del cesariense - non è del tutto in linea con il resto del pensiero eusebiano, soprattutto quello delle opere panegiristiche in onore dell'imperatore Costantino. Di ciò non si ha una spiegazione soddisfacente, a parte la considerazione sulla natura, l'indole e i destinatari, nonché i modelli cui fanno riferimento le due categorie di opere totalmente diverse.

È necessario dunque dire una brevissima parola sulla posizione che Eusebio ha teorizzato per il più eminente dei fedeli - usare la parola laico è qui fuor di luogo - prima simpatizzante, poi "ammesso all 'iniziazione" e quindi "illuminato", per usare le espressioni sopra citate. Voglio dire di Costantino.

È nota la controversa affermazione, riferita da Eusebio, rivolta dall'imperatore a dei vescovi, in occasione di un convito, quando dice loro: "Voi siete vescovi di quelli (o per gli affari) che sono dentro la Chiesa, io invece sono vescovo di coloro (o per gli affari) che sono fuori della Chiesa".

Prescindiamo qui dalla storicità del pronunciamento e dal pensiero dell'imperatore in esso contenuto.

Il compito di Costantino come epìskopos tòn ektòs si riferisce al campo statale-politico, dentro il quale il "vescovo" imperiale riesce a imporre comandamenti e concezioni di fede cristiana. Ai vescovi infatti e alla Chiesa mancano i mezzi legali e potenziali per trasformare questo ambiente statale-politico. L'imperatore quindi è "vescovo" non solo di quei sudditi dell'impero che stanno al di fuori della Chiesa, ma anche di quegli altri che come membri della Chiesa nello stesso tempo sono anche membri dello Stato romano e sudditi dell'imperatore, e perciò anche come cristiani sottomessi agli ordini e leggi statali.

Epìskopos tòn ektòs non è una formula sanzionante la libertà della Chiesa. L'imperatore è sì "vescovo" costituito da Dio per ciò che è al di fuori della Chiesa; ma non nel senso, secondo concezioni moderne, di una progettata divisione di poteri tra Stato e Chiesa, nella quale divisione lo Stato sarebbe una potestà ordinatrice puramente secolare, separata dalla Chiesa. La pretesa è quella di una posizione di padrone non profana, fuori della Chiesa - parallela a quella dei vescovi dentro la Chiesa - un "ufficio di vescovo cristiano" per l'ambito che è fuori della Chiesa. L'imperatore, cristiano ante litteram, non-battezzato e non-ordinato è chiamato da Dio, secondo Eusebio, a coprire nel campo statale compiti cristiani e compiti vescovili:  penetrare lo Stato dello spirito cristiano, dare una mano al cristianesimo per la vittoria sui culti pagani e far valere i comandamenti della fede cristiana su tutti i sudditi dell'impero. Poiché a far questo non sono capaci gli epìskopoi tòn èiso e la Chiesa ha bisogno dell'epìskopos tòn ektòs. (Raffaele Farina, ©L'Osservatore Romano, 22 aprile 2010)

 

 


 

18 Aprile 2010

 

Liturgia tra arte e committenza

 

«Penso a Israele, al tempo dei profeti: il popolo è depositario e custode della tradizione... ma si lascia anche offuscare da idoli seduttori, da facili chimere...». Andrea Dall’Asta, gesuita, direttore della Galleria San Fedele di Milano, riflette sul rapporto tra committente e artista. Perché nel vuoto lasciato dalla scomparsa di orizzonti comuni e nello sconcerto di un’estetica che ha attraversato il territorio della dissacrazione, da più parti ci si chiede dove stia la via maestra per ritrovare un orientamento, e si va facendo strada sempre più chiaramente l’idea che sia fondamentale la committenza, cioè la relazione che si instaura tra chi richiede l’opera (artistica o architettonica) e chi tale opera esegue. In che modo può meglio essere gestita la committenza oggi? il committente deve essere come in passato il singolo prelato o è meglio che coinvolga più soggetti, in certi casi intere comunità? Lo stato di ripulsa che si è registrato recentemente a fronte di opere importanti, come alcune nuove chiese, è dovuto a carenze culturali dei fedeli incapaci di comprendere il linguaggio attuale in cui si esprime l’estro creativo, a incapacità interpretativa dei progettisti o degli artisti, o a una committenza carente?

Dall’Asta punta il dito sulla preparazione del committente: «Nel passato era abitato da una profonda spiritualità oltre che da una grande cultura. E aveva la capacità di creare una rete di molteplici interlocutori: artisti, teologi, maestranze... Oggi si muove per lo più da solo e senza particolari competenze: lo vediamo dalla scarsa qualità di molte opere. Credo inoltre che manchi una seria riflessione sull’immagine. Spesso l’immagine sacra, invece di indurre a riflettere sul senso profondo della vita e sulla rivelazione di un Dio che si fa presente nella storia, è attraversata da un freddo estetismo, da un vacuo e sterile pietismo, da figurazioni banali e scontate: da una drammatica assenza di contenuti. Troppo spesso nelle manifestazioni di arte sacra troviamo immagini che vivono fuori dalla storia, offrendo troppo facili rassicurazioni».

Ma che c’è di sbagliato nella ricerca di una rassicurazione? «Penso sia importante distinguere tra ciò che è consolatorio e ciò che consola. Consolatorio è un po’ come dare una pacca sulle spalle mentre ci si volta dall’altra parte, limitarsi a un atteggiamento che non aiuta ad assumere la responsabilità etica della propria vita. Fa vivere in un mondo altro, senza chiedere al fedele di incarnarsi veramente in "questo" mondo per cambiarlo e trasformarlo. Penso a tante immagini mielose, dolciastre, senza presa sulla vita e sulla storia. Consolatore è invece l’atteggiamento di chi, mosso da un vero incontro con l’altro, si rivolge al mondo con uno sguardo di misericordia, per abitarlo e cambiarlo dall’interno. Oggi, mi sembra che il committente sia impreparato a cogliere il significato di questa sfida e non riesca a interrogasi sul senso profondo di quanto si deve chiedere all’artista: "quale esperienza spirituale desideri comunicare? In che modo l’immagine mi aiuta a vivere un’esperienza di preghiera, di relazione con Dio e con gli altri?"».

Una committenza allargata a più voci può sopperire? «Sulla base delle procedure vigenti e delle attuali problematiche è fuori di dubbio che la committenza ecclesiastica è rappresentata dal vescovo diocesano o da un suo delegato - specifica Francesco Buranelli, segretario della Pontificia Commissione Beni Culturali della Chiesa - ma forse non è sbagliato che vi sia un più ampio coinvolgimento di professionisti e fedeli, così da evitare che vi siano manifestazioni di insoddisfazione o dissenso dopo che l’opera è stata eseguita. Nella storia il rapporto tra committente e artista è sempre stato diretto, immediato ma non sono mancati casi problematici. Tra i tanti, ricordo quello riguardante l’intervento di Caravaggio nella Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo a Roma: morto il committente, gli eredi non accettarono l’opera per il suo eccessivo realismo e il pittore preparò nuove tele. Oggi la situazione è differente: Paolo VI, nel suo celebre discorso agli artisti, ha riconosciuto l’autonomia espressiva degli artisti rispetto al committente. Il problema diventa quindi più complesso e articolato; per quel che riguarda le opere con finalità liturgica bisognerà raggiungere una condivisione di obiettivi basata su una approfondita conoscenza delle fonti, pur nel rispetto dell’autonomia espressiva dell’artista. Committente e artista devono compiere un cammino comune: personalmente ho sperimentato questa procedura quando, ero direttore dei Musei vaticani, curai la sistemazione della nuova entrata. Il risultato è stato molto positivo; con l’artista o l’architetto si devono discutere a fondo tutti gli aspetti dell’opera, sul piano tecnico,  teologico, filologico ed estetico. Senza evitare il sereno confronto; anche il rapporto tra Giulio II e Michelangelo ha avuto momenti di conflittualità, ma l’esito è stata la Cappella Sistina».

Che sia anzitutto "la committenza a fare l’architettura" è un fatto assodato secondo l’architetto Domenico Bagliani, docente al Politecnico di Torino e da trent’anni membro della Commissione liturgica dell’arcidiocesi piemontese: «Troppo spesso la Chiesa e l’architetto o l’artista non parlano la stessa lingua. E il discorso interrotto tra Chiesa e cultura moderna ha lasciato un vuoto in cui si sono inserite progettazioni mediocri», per cause spesso banali: «committenti mai sfiorati dal dubbio chiamano i professionisti più comodi, o perché più prossimi, o perché rispondenti al proprio gusto e alla propria cultura, a volte modesta». Allargare il dialogo a più soggetti può aiutare? «Dipende. A me è capitato negli anni ’70 di realizzare (con i colleghi Bellezza, Corsico e Roncarolo), grazie al sostegno di un parroco sensibile e nel clima del fermento post conciliare, un’importante opera nella neobarocca chiesa di San Giovanni Batista di Savigliano (Cn): abbiamo ruotato la disposizione dell’assemblea di 90°, così che potesse farsi fisicamente prossima all’altare, e posto un tabernacolo molto ben disegnato al posto del vecchio altare. Il parroco ha dovuto faticare molto per far capire ai fedeli il significato dell’opera che, cambiato il parroco, è stata negletta. Si vive un clima di smarrimento, beninteso, favorito anche dall’atteggiamento degli artisti».

«Non v’è dubbio che il progetto e la realizzazione di una nuova chiesa per una comunità parrocchiale debba vedere un adeguato e costante coinvolgimento della comunità - sostiene monsignor Giuseppe Russo, direttore del Servizio nazionale per l’edilizia di culto della Conferenza Episcopale Italiana -  sin dall’inizio, anche prima di affidare l’incarico di progettazione. Occorre che si stabilisca un vero e proprio dialogo tra comunità, parroco, vescovo e gli esperti che dovranno interagire nella progettazione: liturgista, architetto e artisti. Così la scelta dell’impianto liturgico e della linea architettonica della chiesa sarà il punto di arrivo di un fecondo confronto tra le diverse componenti coinvolte, nel rispetto, da un lato delle aspettative e delle indicazioni della committenza, dall’altro della competenza, della professionalità e della creatività dell’équipe di progettazione». (Leonardo Servadio, Avvenire, 7 aprile 2010)

 

 


 

 

Smarrimento di identità della cultura cristiana

 

Tra le principali cause dell'attuale smarrimento di identità della cultura cristiana si deve collocare la comparsa, poco prima della seconda guerra mondiale, di un corpo di idee nuove, promosse dal filosofo cattolico francese Jacques Maritain.

Costui, convertitosi nel 1905 dall'ateismo rivoluzionario al cattolicesimo, aveva in un primo tempo scritto opere antirivoluzionarie (come Antimoderno e i tre riformatori), e si era in seguito distinto per un efficace ammodernamento del tomismo, per il quale gli siamo debitori ancora oggi. Aveva insomma molto bene meritato nel campo della cultura cattolica, e glien'erano venuti ampi riconoscimenti e una straordinaria autorità. Per farsi un'idea della grande autorità acquisita da Maritain tra le due guerre e nel dopoguerra, si pensi a quella - nello stesso periodo di tempo - di Benedetto Croce nella cultura laica italiana: con la differenza che l'autorità di Maritain non si limitava all'ambito francese, ma si estendeva alla cultura cattolica del mondo intero.

Prima della guerra, però, Maritain aveva formulato un suo grande progetto di "nuova cristianità", che si staccava non poco dall'insegnamento perenne della Chiesa, e l'aveva diffuso mediante un volume che divenne notissimo; Umanesimo integrale (uscito in Francia nel 1936, tradotto in italiano nel 1946). L'opera si caratterizzava per la ricerca delle verità e virtù, e valori cristiani "impazziti" - cioè delle verità e virtù, e valori cristiani "prigionieri dell'errore" ma pur sempre cristiani - che si trovano nel patrimonio culturale di determinati gruppi avversi alla Chiesa, segnatamente dei comunisti e dei laicisti radicali. Di questi gruppi Maritain prospettava l'inclusione nella "nuova cristianità", appunto sulla base di tale patrimonio comune.

Le sue idee vennero severamente confutate dalla rivista dei gesuiti "Civiltà cattolica" (anno 1956, v. III, pagg. 449-463) in un importante articolo del direttore padre A. Messineo, considerato allora portavoce di papa Pio XII: detto articolo si conclude con le parole: "L'umanesimo integrale non è l'umanesimo dell'uomo rigenerato dalla grazia... Nella sua sostanza l'umanesimo integrale è un naturalismo integrale".

Malgrado questo, le idee di Maritain incontrarono sempre maggior credito e adesione tra i cristiani: qui in Italia il successo si fece un po' alla volta addirittura travolgente, favorito anche dagli stessi avversari, i quali, mentre non intendevano certo farsi inquadrare dai cristiani, vedevano però in quel progetto un'occasione d'incontro che bloccasse l'avanzata allora in atto dei cristiani su piano nazionale.

Va detto, per amore di verità, che diversi dei primi portatori delle idee di Maritain, e del suo discepolo e braccio destro in politica Mounier, erano persone colte, disinteressate e per più aspetti esemplari. Tali, del resto, erano gli stessi Maritain e Mounier; così qui in Italia Dossetti, Lazzati, La Pira e parecchi altri fino a Martinazzoli. Tuttavia il chiudere troppo a lungo gli occhi sulla realtà delle cose, il fare - anche se in buona fede - spazio all'errore, può comportare sbocchi molto gravi. Paradigmatico fu il caso di La Pira che, a quanto sembra, allorchè nel 1956 venne richiesto da Crusciov - col quale aveva notoriamente scambio di corrispondenza - di far conoscere in Occidente il suo famoso "rapporto segreto" al XX Congresso, in cui si denunciava e demoliva lo stalinismo, non ne volle sapere. La Pira cioè non avrebbe accettato di collaborare al ristabilimento di una verità comportante la liberazione dalla schiavitù per centinaia di milioni d'esseri umani; evidentemente perchè, se avesse accettato, avrebbe con ciò stesso implicitamente riconosciuto di avere costruita la propria testimonianza anche su una colossale menzogna. Viene spontaneo chiedersi fino a che punto si debba a questa omissione di La Pira - e ad altre consimili di personaggi "esemplari" come lui il fatto che tra i cattolici italiani l'enormità negativa dell'esperimento storico comunista venne recepita in modo del tutto inadeguato. Tanto che, al pari degli altri italiani, i cattolici vivono ancora oggi in uno stato di semi menzogna.

Dice il Vangelo: "riconoscerete i falsi profeti dai loro frutti". Dai frutti, cioè dai fatti.

Cos'è derivato nei fatti dall'apertura che tanti cattolici finirono col fare non soltanto al mondo contemporaneo in generale, ma specificamente al comunismo, al laicismo, e ad ogni genere di modernismo? Per cominciare, una spaccatura nella cultura cattolica che ha portato alla sua paralisi. Poi limitandoci ai soli accadimenti maggiori una cessazione, nell'ambito delle società più avanzate, delle conversioni al cattolicesimo, che prima si contavano ogni anno a centinaia di migliaia. Inoltre una crescente perdita della nostra identità, con conseguente caduta delle vocazioni religiose: nel giro di appena una decina d'anni i chierici nei seminari si ridussero alla metà, e in qualche diocesi addirittura a un quinto o a un sesto. Negli ordini religiosi si ebbero colossali defezioni: tra i gesuiti diecimila padri su trentaseimila abbandonarono lo stato religioso, tra i domenicani (altro ordine culturalmente avanzato) la percentuale delle defezioni fu ancora più elevata (si fa presto a dirlo: ma quando mai nella storia millenaria della Chiesa si era assistito a qualcosa di simile?). In pari tempo, l'Azione Cattolica italiana ha visto il numero dei propri membri precipitare da tre milioni a seicentomila.

È ben noto il lamento di papa Paolo VI già nel giugno 1972: "Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio... Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una "giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio". E la sua precisazione (18.9.74): "Grande parte di essi mali non assale la Chiesa dal di fuori, ma l'affligge, l'indebolisce, la snerva dal di dentro. Il cuore si riempie di amarezza".

Contemporaneamente, ha avuto luogo sul piano storico una nuova, tumultuosa avanzata della società secolarizzata, che si è affermata rapidamente nel costume (paganesimo sessuale, droga, scristianizzazione crescente del popolo), nonchè nell'ambito delle leggi (divorzio, aborto ed altre).

Quanto a Jacques Maritain va ricordato che più tardi si è spaventato e ricreduto. Nel suo ultimo libro importante infatti, Il contadino della Garonna (1966; traduzione italiana ritardata al 1969), Maritain ha parlato, riprovandolo, di un "neo-modernismo" inaspettatamente scatenatosi nella Chiesa, confronto al quale quello che a principio secolo preoccupava tanto non fu che "un modesto raffreddore da fieno".

Ma ormai il danno era fatto. I suoi seguaci non sono più tornati indietro: anzi, dopo che si è arrivati alla spaccatura del partito politico cristiano, essi si sono subordinati agli eredi del comunismo, dandogli modo di prendere la guida del governo.

Che fare oggi, in tale situazione? Ci richiamiamo a un'altra affermazione di papa Paolo VI: "Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all'interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all'interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia". Il Papa aggiunge: "Ciò che manca in questo momento al cattolicesimo è la coerenza".

Ecco: i cattolici che non si sono messi al seguito degli atei devono conservarsi coerenti, e conservare gelosamente la propria identità. Consci di quella promessa che è pegno di vittoria, fatta da Cristo ai suoi: "Io sarò con voi sino alla fine". Dobbiamo anche ricordare quel severo ammonimento del Vangelo: "Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il suo sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini" (Mt 5,13).

Bibliografia: Eugenio Corti, Le responsabilità della cultura occidentale nelle grandi stragi del nostro secolo, Mimep-Docete, Pessano (Ml) 1998. Eugenio Corti, Breve storia della Democrazia Cristiana, con particolare riguardo ai suoi errori, Mimep-Docete, Pessano (Ml) 1995. Giovanni Cantoni, La "lezione italiana", Cristianità, Piacenza 1980. (Eugenio Corti, © Il Timone, n. 6 Marzo/Aprile 2010)

 

 


 

 

Sindone: le prove della resurrezione

 

“Tutta la terra desidera il tuo volto”. In questa frase della liturgia sta il segreto della Sindone che continua ad attrarre milioni di persone. E’ l’attrazione per colui che la Bibbia definiva “il più bello tra i figli dell’uomo”. E che qui è “fotografato” come un uomo macellato con ferocia.

La Sindone non è solo “una” notizia oggi, perché inizia la sua ostensione. E’ “la” notizia sempre. Perché documenta – direi scientificamente – la sola notizia che – dalla notte dei tempi alla fine del mondo – sia veramente importante: la morte del Figlio di Dio e la sua resurrezione cioè la sconfitta della morte stessa.

Sì, avete letto bene. Perché la sindone non illustra soltanto la feroce macellazione che Gesù subì, quel 7 aprile dell’anno 30, con tutti i minimi dettagli perfettamente coincidenti con il resoconto dei vangeli, ma documenta anche la sua resurrezione: il fatto storico più importante di tutti i tempi, avvenuta la mattina del 9 aprile dell’anno 30 in quel sepolcro appena fuori le mura di Gerusalemme.

Che Gesù sia veramente vivo lo si può sperimentare – da duemila anni – nell’esperienza cristiana. Attraverso mille segni e una vita nuova. Ma la sindone porta traccia proprio dell’evento della sua resurrezione.

Ce lo dicono la medicina legale e le scoperte scientifiche fatte con lo studio dettagliato del lenzuolo per mezzo di sofisticate apparecchiature. Cosicché questo misterioso lino diventa una speciale “lettera” inviata soprattutto agli uomini della nostra generazione, perché è per la prima volta oggi, grazie alla moderna tecnologia, che è possibile scoprire le prove di tutto questo.

Cosa hanno potuto appurare infatti gli specialisti? In sintesi tre cose.

Primo. Che questo lenzuolo – la cui fattura rimanda al Medio oriente del I secolo e in particolare a tessitori ebrei (perché non c’è commistione del lino con tessuti di origine animale, secondo i dettami del Deuteronomio) – ha sicuramente avvolto il corpo di un trentenne ucciso (morto tramite il supplizio della crocifissione con un supplemento di tormenti che è documentato solo per Gesù di Nazareth).

Che ha avvolto un cadavere ce lo dicono con certezza il “rigor mortis” del corpo, le tracce di sangue del costato (sangue di morto) e la ferita stessa del costato che ha aperto il cuore.

Secondo. Sappiamo con eguale certezza che questo corpo morto non è stato avvolto nel lenzuolo per più di 36-40 ore perché, al microscopio, non risulta vi sia, sulla sindone, alcuna traccia di putrefazione (la quale comincia appunto dopo quel termine): in effetti Gesù – secondo i Vangeli – è rimasto nel sepolcro dalle 18 circa del venerdì, all’aurora della domenica. Circa 35 ore.

Terza acquisizione certa, la più impressionante. Quel corpo – dopo quelle 36 ore – si è sottratto alla fasciatura della sindone, ma questo è avvenuto senza alcun movimento fisico del corpo stesso, che non è stato mosso da alcuno né si è mosso: è come se fosse letteralmente passato attraverso il lenzuolo.

Come fa la sindone a provare questo? Semplice. Lo dice l’osservazione al microscopio dei coaguli di sangue.

Scrive Barbara Frale in un suo libro recente: “enormi fiotti di sangue erano penetrati nelle fibre del lino in vari punti, formando tanti grossi coaguli, e una volta secchi tutti questi coaguli erano diventati grossi grumi di un materiale duro, ma anche molto fragile, che incollava la carne al tessuto proprio come farebbero dei sigilli di ceralacca. Nessuno di questi coaguli risulta spezzato e la loro forma è integra proprio come se la carne incollata al lino fosse rimasta esattamente al suo posto”.

Lo studio dei coaguli al microscopio rivela che quel corpo si è sottratto al lenzuolo senza alcun movimento, come passandogli attraverso. Ma questa non è una qualità fisica dei corpi naturali: corrisponde alle caratteristiche fisiche di un solo caso storico, ancora una volta quello documentato nei Vangeli.

In essi infatti si riferisce che il corpo di Gesù che appare dopo la resurrezione è il suo stesso corpo, che ha ancora le ferite delle mani e dei piedi, è un corpo di carne tanto che Gesù, per convincere i suoi che non è un fantasma, mangia con loro del pesce, solo che il suo corpo ha acquisito qualità fisiche nuove, non più definite dal tempo e dallo spazio.

Può apparire e scomparire quando e dove vuole, può passare attraverso i muri: è il corpo glorificato, come saranno anche i nostri corpi divinizzati dopo la resurrezione.

Si tratta quindi di un caso molto diverso dalla resurrezione di Lazzaro che Gesù semplicemente riportò in vita. La resurrezione di Gesù – com’è riferita dai Vangeli e documentata dalla sindone – è la glorificazione della carne non più sottoposta ai limiti fisici delle tre dimensioni, l’inizio di “cieli nuovi e terra nuova”.

La “prova” sperimentale di questa presenza misteriosa di Gesù è propriamente l’esperienza cristiana: Gesù continua a manifestare la sua presenza fra i suoi continuando a compiere i prodigi che compiva duemila anni fa e facendone pure di più grandi.

Ma la sindone documenta in modo scientificamente accertabile l’unico caso di morto che – anziché andare in putrefazione – torna in vita sottraendosi alla fasciatura senza movimento, grazie all’acquisizione di qualità fisiche nuove e misteriose, che gli permettono di smaterializzarsi improvvisamente e oltrepassare le barriere fisiche (come quella del lenzuolo stesso).

E’ esattamente ciò che si riferisce nel vangelo di Giovanni: quando Pietro e Giovanni entrano nel sepolcro dove erano corsi per le notizie arrivate dalle donne, si rendono conto che è accaduto qualcosa di enorme proprio perché trovano il lenzuolo esattamente com’era, legato attorno al corpo, ma come afflosciato su di sé perché il corpo dentro non c’era più.

Più tardi, aprendo quel lenzuolo, scopriranno un’altra cosa misteriosa: quell’immagine. Ancora oggi, dopo duemila anni, la scienza e la tecnica non sanno dirci come abbia potuto formarsi. E non sanno riprodurla.

Infatti non c’è traccia di colore o pigmento, è la bruciatura superficiale del lino, ma sembra derivare dallo sprigionarsi istantaneo di una formidabile e sconosciuta fonte di luce proveniente dal corpo stesso, in ortogonale rispetto al lenzuolo (fatto anch’esso inspiegabile).

La “non direzionalità” dell’immagine esclude che si siano applicate sostanze con pennelli o altro che implichi un gesto direzionale. E ci svela che l’irradiazione è stata trasmessa da tutto il corpo (tuttavia il volto ha valori più alti di luminanza, come se avesse sprigionato più energia o più luce).

Quello che è successo non è un fenomeno naturale e non è riproducibile. Non deriva dal contatto perché altrimenti non sarebbe tridimensionale e non si sarebbe formata l’immagine anche in zone del corpo che sicuramente non erano in contatto col telo (come la zona fra la guancia e il naso).

Oggi poi i computer hanno permesso di rintracciare altri dettagli racchiusi nella sindone che tutti portano a lui: Gesù di Nazareth.

Dai 77 pollini, alcuni dei quali tipici dell’area di Gerusalemme (quello dello Zygophillum dumosum, si trova esclusivamente nei dintorni di Gerusalemme e al Sinai), alle tracce (sul ginocchio, il calcagno e il naso) di un terriccio tipico anch’esso di Gerusalemme. Ai segni di aloe e mirra usate dagli ebrei per le sepolture.

Infine le tracce di scritte in greco, latino ed ebraico impresse per sovrapposizione sul lenzuolo.

Barbara Frale ha dedicato un libro al loro studio, “La sindone di Gesù Nazareno”. Da quelle lettere emerge il nome di Gesù, la parola Nazareno, l’espressione latina “innecem” relativa ai condannati a morte e pure il mese in cui il corpo poteva essere restituito alla famiglia.

La Frale, dopo accuratissimi esami, mostra che doveva trattarsi dei documenti burocratici dell’esecuzione e della sepoltura di Gesù di Nazareth. Un fatto storico. Un avvenimento accaduto che ha cambiato tutto. (Antonio Socci, Libero, 11 aprile 2010)

 

 


 

 

Lezioni su Gesù di Nazareth

 

Se si può dire che, nei quarant’anni trascorsi dall’Introduzione al cristianesimo alla prima parte di Gesù di Nazaret non è sostanzialmente cambiata la prospettiva di fondo di Benedetto XVI nel presentare il «Dio di Gesù Cristo», la sua figura e il suo messaggio, è chiaro che oggi, dalla cattedra di Pietro, per Benedetto XVI non solo la responsabilità di trasmettere la fede della Chiesa assume un peso più grande e una portata più vasta, ma diventa primaria la preoccupazione di individuare il modo più efficace «di proclamare al mondo intero la presenza viva di Cristo». Se di fronte a lui, infatti, ci sono sempre i lontani a cui far giungere la propria voce; i credenti da confermare nella fede, i fratelli di altre fedi con cui pazientemente costruire un dialogo fecondo, si sono aggravati e dilatati i problemi posti nella società di oggi dalla drammatica frattura fra vangelo e cultura.

Il Papa è ben consapevole delle ardue sfide che deve affrontare. Filosofie e idee, comportamenti e stili di vita si scontrano oggi, non solo con l’insegnamento della dottrina cristiana, ma anche con i valori etici e sociali del cristianesimo, che dovrebbero invece rappresentare la via maestra verso uno sviluppo autenticamente umano. Questa situazione è stata determinata da varie cause, ma, fra di esse, sembra preminente quel falso concetto di libertà che ha generato una cultura dell’arbitrio, di cui individualismo e relativismo sono diventati i pilastri di sostegno. Una libertà, infatti, che si specchia soltanto in se stessa, escludendo Dio e perdendo ogni legame con la verità e il bene, si snatura e finisce col separare anche l’etica pubblica dal suo humus di riferimento che le dà significato e pienezza. Il decadimento del senso della vita, così intimamente legato alla persona e alla sua speranza di futuro; l’esplosione della violenza e delle sopraffazioni; la perdita del concetto di autorità; lo svuotamento dell’idea stessa di «bene comune» sono alcune delle conseguenze che si possono collocare all’interno di questa cornice, che ha favorito anche il progressivo disgregarsi della coscienza e delle responsabilità etica.

La scristianizzazione della società continua ad andare di pari passo con la sua secolarizzazione: un fenomeno che si manifesta subdolamente in varie forme anche nella vita della Chiesa e nell’esperienza personale dei credenti, sia come fenomeno generale di assimilazione dello «spirito dei tempi», sia come fenomeno specifico di «deviazione» sul piano teologico o pastorale. Per raccogliere in un quadro di sintesi le riflessioni e le preoccupazioni di Benedetto XVI, basterebbe ricordare l’omologazione a certe mentalità e comportamenti, improntati soprattutto a un diffuso clima di soggettività e materialismo, che trovano minori resistenze in una fede diventata più debole e insieme in una maggiore fragilità psicologica e affettiva delle persone, anche del clero; la tolleranza verso atteggiamenti e linguaggi in sé condannabili, ma talmente diffusi da esser considerati acquisiti e tali, perciò, da far ritenere che il combatterli sia una battaglia inutile, già persa in partenza; l’adattamento o l’«aggiornamento» a esigenze o semplicemente a mode del momento, che allontanano dal cuore dell’annuncio cristiano e, subordinandolo ad istanze puramente umane, lo deformano e lo impoveriscono; lo sbilanciamento sulle cose dell’oggi, col risultato di restringere la visione cristiana a una dimensione funzionale e contingente, dimenticando le sue radici antiche e i suoi orizzonti lontani.

Si aggiunga, sul piano specifico, il pericolo sempre in agguato di razionalizzare e relativizzare le verità di fede, rischiando così di deformare, immiserire e oscurare l’essenza stessa del mistero cristiano; l’appannamento del concetto di autorità, magistero e obbedienza, che determina teorie o atteggiamenti contrari all’insegnamento o alla disciplina della Chiesa; il sincretismo religioso, parallelo alla diffusione di nuove forme di spiritualità, ma soprattutto alla perdita o all’affievolirsi della coscienza della verità identificativa del cristianesimo; una certa «filantropizzazione» della pastorale, nella misura in cui essa tende a privilegiare le urgenze caritative e sociali rispetto all’impegno dell’annuncio di Gesù Cristo, morto e risorto; la personalizzazione in senso utilitaristico della fede, con conseguente relativizzazione degli insegnamenti del magistero e smarrimento del senso di appartenenza ecclesiale; il decadimento del senso del peccato, che diventa una strada aperta al soggettivismo nell’ambito della morale, specialmente quella familiare e sessuale; il distacco o lo scollamento profondo tra le proprie credenze e le posizioni non coerenti assunte nell’ambito delle scelte politiche su questioni di fondamentale rilevanza antropologica, etica e sociale.

Sotto un altro aspetto, non si possono dimenticare le ricorrenti deformazioni polemiche relative all’eredità del Concilio Vaticano II, ossia la confusione generata da una sua falsa o parziale interpretazione: quella che Benedetto XVI chiama «l’ermeneutica della discontinuità e della rottura», contrapposta a una lettura corretta e completa dei testi, «l’ermeneutica della riforma», che avvia di volta in volta nuove riflessioni per rispondere più adeguatamente a istanze antiche e nuove, ma tenendo ben salda la fedeltà e la continuità dei principi, certi e immutabili, del «deposito della fede». Né si può sottacere la tendenza in molti a separare «vangelo e istituzione», nel senso di intendere il vangelo una realtà puramente spirituale e l’istituzione una struttura esteriore, mentre invece sono due entità inseparabili, perché «il vangelo ha un corpo, il Signore ha un corpo in questo nostro tempo. Perciò, le questioni che a prima vista appaiono quasi soltanto istituzionali, sono in realtà questioni teologiche e questioni centrali, perché vi si tratta della realizzazione e concretizzazione del vangelo nel nostro tempo». In questo sforzo di spiegare e approfondire, precisare e correggere si coglie in Benedetto XVI tutto l’impegno di spendersi per il vangelo, come vicario di Cristo che parla e agisce, «non per imporre la fede», ma per «sollecitare il coraggio per la verità». (Giuliano Vigini, Avvenire, 14 aprile 2010)

 

 


 

 

Mark Twain, guerra alle false notizie

 

«Tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain, Huckleberry Finn. Tutti gli scritti americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza». Questo è stato Mark Twain per un altro gigante della letteratura americana come Ernest Hemingway.

E quale migliore presentazione per commemorare i cento anni dalla morte di Twain, avvenuta il 21 aprile 1910. Una, nessuna, centomila vite, quelle del narratore-reporter avventuriero, dallo sguardo rapace, sempre pronto a cogliere e a rimettere in pagina ogni dettaglio per un racconto, ogni volto per una biografia, ogni fatto degno di un articolo o una semplice breve, della società del suo tempo. Un continuo rimescolamento della personalità, complessa, votato a diventare il personaggio più famoso dell’America in cui visse e in cui fece sentire forte le sue idee che andavano in direzione ostinata e contraria.

Un abisso di interessi e conoscenze che si rintracciano già nel suo pseudonimo "mark twain" (il suo vero nome era Samuel Langhorne Clemens), unità di misura della profondità di sicurezza delle «due tese» (3,7 metri), ben nota ai navigatori dei battelli che solcano il fiume Mississippi. Una delle tante esperienze di gioventù riposte nella valigia dello scrittore e rintracciabile nello splendido racconto Vita sul Mississippi. Ma prima era stato cercatore d’oro e minatore. E poi ancora giornalista e padre putativo della nobile famiglia degli inviati di razza.

Un viaggiatore instancabile che passando dall’Africa alla Francia sbarcò anche in Italia, come narra nel suo libro Gli innocenti all’estero. All’apice del successo giornalistico e letterario – alcuni dei suoi libri sfiorarono anche il mezzo milione di copie vendute – , arrivarono anche i lauti guadagni. Poi il lento affondare nel dolore dei lutti famigliari (la morte della moglie Olivia e delle figlie Susan e Jane) fino alla dissipazione totale che gli fece rasentare la miseria, dalla quale si salvò con l’appoggio di alcuni amici filantropi e il mestierato dell’abile conferenziere. Colpa di imprese editoriali sbagliate, come la biografia invenduta su Leone XIII, ma anche, con l’andare del tempo, per la perdita della vena morbida della sua narrativa che si faceva ancora leggere e ammirare in Tom Sawyer, altro caposaldo dell’educazione letteraria dei giovani americani di fine ’800. Di fondo, c’è da fare i conti con la realtà dell’onesto intellettuale, quindi molto scomodo in quell’America rampante e dalle tante libertà e nessuna davvero coltivata, dell’inizio del secolo scorso. Una nazione già devota alla mistificazione della verità che invece è stato il simulacro al quale Twain ha sacrificato tutta la sua esistenza.

La testimonianza più forte si ritrova in quel piccolo scrigno saggistico che è Libertà di stampa, sottotitolo: «I giornalisti onesti ci sono. Soltanto costano di più» (Piano B Edizioni). Un pamphlet di un’attualità sconvolgente, come gran parte degli scritti di Twain. Affondi politici irriverenti, a cominciare dal capitolo The war prayer, «Pregare in tempi di guerra», in cui nel 1905 Twain fa il quadro crudo del conflitto filippino-americano. Un testo rimasto inedito fino al 1923 e scampato al rogo insieme ad altri testi di ordine politico e religioso, compiuto per mano dei familiari dello scrittore che li consideravano lesivi. La sua pietistica assoluzione al gesto del parentato del resto l’aveva già messa in calce: «Un uomo non è indipendente, e non può permettersi di avere delle idee che potrebbero compromettere il modo in cui si guadagna il pane. Se vuole prosperare deve seguire la maggioranza… Altrimenti subirà danni alla sua posizione sociale e ai guadagni negli affari».

Pur avendo avuto tutto, grazie al mestiere di scrivere, ha sempre messo in guardia il suo lettore dalla stampa: «È ormai diventato un proverbio sarcastico sostenere che una cosa deve essere vera se la si è letta sul giornale. Questa è la sintesi dell’opinione che hanno le persone intelligenti a proposito di questo mezzo bugiardo. Ma il guaio è che gli stupidi che costituiscono la stragrande maggioranza di questa e di tutte le altre nazioni, ci credono davvero e sono formati e convinti da ciò che leggono sul giornale, ed è li che sta il danno». L’eroe della carta stampata, ormai anziano e in preda agli stenti, si ritrovò incartato dal "mostro" che aveva sempre combattuto: la mediocrità che indottrinava il popolo con la falsa informazione. «Una bugia detta bene è immortale», ammoniva, ed è quella che spesso partorisce il conformismo. «Conformarci è nella nostra natura. È una forza alla quale pochi riescono a resistere», scrive Twain. La vera resistenza per lui era dunque sfuggire al conformismo, ma la maggior parte del popolo è da sempre vittima dell’opinione pubblica. «Non facciamo altro che sentire, e l’abbiamo confuso col pensare. E da tutto ciò non si ottiene che un aggregato che consideriamo una benedizione. Il suo nome è Opinione Pubblica. Risolve tutto. Alcuni credono che sia la voce di Dio».

E invece nell’America di Twain, non era alto che il prodotto degradato di «un’orda di sempliciotti ignoranti e compiaciuti che hanno fallito come sterratori e calzolai, e che hanno intrapreso il giornalismo lungo il loro cammino verso l’ospizio per poveri». Il potere dei governanti ammaestra dunque il giornalismo e a sua volta chi informa può facilmente ammaestrare il popolo con messaggi preselezionati e deprivati della verità: «L’ammaestramento fa cose meravigliose… Può trasformare i cattivi principi in buoni e i buoni in cattivi; può annientare ogni principio e ricrearlo». Da giornalista e direttore dei quotidiani più strampalati del suo tempo, Twain stilava la sua temeraria accusa alla "casta": «Esistono leggi per proteggere la libertà di stampa, ma nessuna che faccia qualcosa per proteggere le persone della stampa». Rileggendolo, viene da chiedersi con preoccupazione: quanto è cambiato lo scenario in questi cento anni prima del suo addio? «Sono arrivato con la cometa di Halley nel 1835. Torna l’anno prossimo e penso di andarmene con lei», fu la sua ultima profezia. E nella dimensione in cui si trova adesso, Twain non ci ha ancora inviato la smentita alla sua tesi finale sulla libertà di stampa: «Solo ai morti è permesso di dire la verità». (Massimiliano Castellani, Avvenire, 14 aprile 2010)

 

 


 

 

Schizofrenici contro la Chiesa

 

Nel secolo scorso, in una sua lettera enciclica famosa, così ad un certo punto un Papa si rivolgeva ai giovani: “Vi parlano delle fragilità umane nella storia della Chiesa: ma perché vi nascondono le grandi gesta che l’accompagnarono attraverso i secoli, i Santi che essa produsse, il vantaggio che provenne alla cultura occidentale dall’unione vitale tra questa Chiesa e il vostro popolo?”. Era il 1937. Il Papa era Pio XI. I giovani cui si rivolgeva erano tedeschi. La lettera enciclica era la “Mit brennender sorge”.

Niente di nuovo sotto il sole, viene da dire. Per combattere un pericoloso ed irriducibile avversario, Hitler ed il suo regime screditavano davanti all’opinione pubblica, e in particolare davanti agli occhi dei giovani, la Chiesa cattolica, enfatizzandone colpe e responsabilità storiche. Noi oggi sappiamo da che parte stava il torto e la ragione, ma allora le cose dovevano apparire ben diverse.

L’esempio è illuminante, getta luce sulle vicende attuali. Siamo arrivati addirittura alle scritte oscene sulla casa natale di Benedetto XVI. C’è in giro (sulla stampa, soprattutto, ma anche nella società e perfino in molta parte del popolo cristiano) di nuovo quello strano prurito di vedere umiliata, degradata, se possibile distrutta la Chiesa cattolica. Non altre, perché solo la Chiesa cattolica è oggi rimasta a difendere nel mondo una certa visione dell’uomo, della storia, del potere, dell’economia. Oggi come ieri, c’è solo la Chiesa a costituirsi come avversario irriducibile nell’Occidente nichilista, edonista, consumista. Oggi come ieri, solo la Chiesa è il piccolo Davide che osa sfidare il nuovo gigante Golia.

Del resto colpire la Chiesa non è nemmeno difficile. Perché, essendo fatta da uomini, ha un volto dove la luce e l’ombra sono compresenti. Pio XI aveva ragione: c’è molta luce in quel volto, tanto che proprio per quella grande luce (e non per altro) la Chiesa splende e vive ancora, unica istituzione, dopo duemila lunghi e difficili anni di storia. Ma c’è anche l’ombra, come in ogni realtà umana. Su quel volto raggiante l’ombra copre solo delle piccole zone, che però possono diventare grandi, smisurate se ci si concentra solo su di esse. E’ quello che sta accadendo, a tutti i livelli. Si vuol dare della Chiesa l’immagine di una sorta di associazione a delinquere, condotta da uomini corrotti e maligni, che occultano la verità e le loro nefandezze. Se ne parla al cinema (Il nome della rosa, Il codice da Vinci...), sui giornali, nella pubblicistica. Entrate in una qualunque libreria commerciale e resterete stupiti nel notare quanti contributi di sedicenti studiosi sono stati editati ultimamente per “svelare” veri o presunti segreti e misfatti della Chiesa.

Ne ho uno in libreria, s’intitola “La santa casta della Chiesa”, di un certo Claudio Rendina (Edizioni Newton Compton), che reca il seguente sottotitolo: “duemila anni di intrighi, delitti, lussuria, inganni e mercimonio, tra papi, vescovi, sacerdoti e cardinali”. E’ tutto un programma. Devo dire che il libro non risponde alle attese che crea il titolo. Su più di 350 pagine dedicate a 2000 anni di storia, a pagina 80 siamo già in epoca napoleonica, l’autore si è già bruciato 1800 anni! Poi comincia l’inchiesta sul contemporaneo, con fonti storiche di prim’ordine, quali il quotidiano La Repubblica. Da pag. 237 al termine c’è un noiosissimo elenco di tutte le varie strutture che fanno capo al Sommo Pontefice. Elenco noioso, ma istruttivo, perché fa vedere quanta e quale sia l’attività della Chiesa cattolica in tutti i settori della vita umana e della società. Paradossalmente è una sorta di boomerang. La copertina è spettacolare: in un chiostro medievale da romanzo gotico anglosassone, si vede l’inquietante sagoma scura di un monaco, su uno sfondo nebbioso, crepuscolare.

Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Il regime di turno mira a screditare la Chiesa cattolica mettendo sotto il riflettore le povertà e anche la malvagità di certi suoi figli.

Venendo all’attualità, c’è però una forma di strana schizofrenia in questi paladini del vero e del morale, che va messa in luce. Si accusano gli uomini di chiesa di gravi reati sessuali. Ma l’accusa viene da un pulpito che non è credibile. Chi può prestare fede ad accusatori che sono i profeti di un nichilismo gaio, della ricerca del piacere fine a se stesso, di un edonismo sfrenato e senza regole?

Scriveva Oscar Wilde nel suo De profundis, dal carcere nel quale si trovava: “Sarei restato re se non mi fossi lasciato sedurre dal mondo imperfetto delle passioni rozze e incomplete, dell’appetito che non fa distinzioni, del desiderio che non ha limiti, della bramosia che non ha forma”. Prendete ogni singolo elemento dell’elenco e meditatelo a lungo. Troverete tutto quello che viene proposto e predicato oggi nella globalizzazione culturale. Per la quale, del resto, proprio Wilde è un’icona, quasi un modello da imitare. Il Wilde versione dandy, ovviamente, quello che per sua stessa ammissione non aveva capito niente.

I cantori, gli estimatori di questo modo di vivere si possono permettere di mettere sul banco degli accusati alcuni uomini di chiesa? La società di oggi può permettersi di scagliare la prima pietra? E, se la scaglia, perché lo fa? Per cambiare vita? Per rivedere i propri costumi, la propria morale? Per migliorarsi? Per prendere decisamente le distanze da un certo modo d’intendere il sesso, il piacere erotico, il “desiderio che non ha limiti”? Ci sia concesso di dubitarne. (Gianluca Zappa, La Cittadella, 14 aprile 2010)

 

 


 

 

Il prete che io cerco

 

“Esistenza sacerdotale” è il titolo del volume di Hans Urs von Balthasar (Brescia, Queriniana, 2010, pagine 118, euro 10) che raccoglie una selezione di testi sulla spiritualità presbiterale del grande teologo svizzero morto nel 1988 poco prima di ricevere la porpora da Giovanni Paolo II. Pubblichiamo ampi stralci del capitolo intitolato "Il prete che io cerco".

«Chi è malato va dal medico, chi fa testamento si rivolge al notaio, allo specialista. C'è uno specialista della relazione di Dio con me? Nella sua libera donazione a un essere umano, Dio non è legato ad alcuna legge; in questo campo né il sociologo né lo psicologo hanno nulla a che fare, perché oggetto della loro scienza sono al massimo le relazioni religiose medie della "specie uomo" con un cosiddetto assoluto. Ma, anche in questo caso, questo essere unico che io sono, a cui il Dio unico si rivolge, non dovrebbe essere soggetto ad alcuna legge generale.

Nessuna legge socio-psicologica regola il comportamento di Gesù o delle persone alle quali egli si rivolge, essendo queste vincolate alla sua libera e irripetibile chiamata. Coloro che sono chiamati commettono una scorrettezza se obbediscono alle leggi normali del comportamento umano - prendere congedo, seppellire il padre, eccetera; in tal caso essi "non sono degni di lui". Non posso pianificare insieme la Parola di Dio e la famosa "situazione concreta", così che da ambedue risulti un parallelogramma delle forze.

Gesù, la Parola di Dio per me, mi viene incontro nella Chiesa, la quale custodisce la sua Parola, sempre attualmente viva, nella predicazione e nel sacramento. Nella Chiesa, nella sua comunione, io devo ricevere la sicurezza che la Parola di Dio non mi raggiunge come un'eco da un lontano passato, bensì mi risuona vicina, palpabile e chiara così come la mia esistenza è concreta nel tempo e nello spazio. Ma in questo caso la Chiesa non si trasforma forse a sua volta in legge generale che, nella sua interpretazione dell'irripetibile volontà di Dio nei miei riguardi, si frappone tra me e Dio, forte di un'esperienza socio-psicologica di secoli forse a essa specifica?

Tuttavia, se la Chiesa come Ecclesia è la comunità dei chiamati, se a essa sono state consegnate la Parola di Dio e le chiavi del regno dei cieli, se a essa è stato donato da Dio e da Gesù Cristo lo Spirito Santo che, essendo Dio, è irripetibile al pari del Padre e del Figlio e può spiegarci alla fonte la volontà di Dio in Gesù Cristo: se questa è la realtà, come potrei io fare a meno della Chiesa, nell'ipotesi che io voglia assoggettare la mia vita alla verità del Dio vivente? Ma quale Chiesa, chi nella Chiesa, può aiutarmi? Io pure sono un membro della Chiesa, ma né posso rivendicare per me lo Spirito Santo nella sua pienezza ecclesiale, né definirmi a testa alta un "buon cristiano" che vive vicino al cuore della Chiesa e comunica per osmosi con la sua più profonda comprensione. So invece benissimo, se sono onesto e sincero, quanto sono lontano dal soddisfare le richieste di Dio e quanto volentieri vorrei ridurre tali richieste al mio livello di medioborghese e di decaduto a causa del peccato, dando l'ultima parola alla sociologia religiosa, contro la mia stessa coscienza: "Che farci, gli uomini sono così". "Tutto sommato, e considerato il mio carattere, non mi si può chiedere di più".

Ciò ci aiuta a capire quanto difficile e complicata sia la condizione di chi va in cerca d'aiuto. La richiesta che io avanzo può essere soddisfatta da un uomo? Egli dovrebbe farmi da tramite nei miei rapporti irripetibili con Dio, senza però dissolverli nelle generalità di questo mondo. Egli dovrebbe pertanto sapere, basandosi sul proprio irripetibile rapporto con Dio, che cosa sia tale irripetibilità, e simultaneamente essere provvisto del mandato e dell'autorità di saperlo, nello Spirito Santo, anche per gli altri, per poter dare loro le adeguate indicazioni. Mandato e autorità da Dio, uniti con l'esperienza nello Spirito: ciò lo autorizzerebbe a richiedere da me - non per sé, ma per Dio e per me - ciò che io non ho il coraggio di chiedere a me stesso.

Questa è la prima qualità che dovrebbe possedere il prete che io cerco. Infatti il sacerdote dovrebbe essere colui che è delegato e dotato di autorità dall'alto, cioè da Cristo, per presentarmi la Parola incarnata di Dio, così che io sia sicuro di non ridurla ai miei scopi, di non averla anticipatamente svigorita con una mia interpretazione psicologica, esegetica e demitizzante, tanto da renderla impotente a generare in me ciò che le è proprio; così che io non possa sfuggire alle sue richieste, perché si presentano a me nella concretezza dell'autorità ecclesiastica, la quale nel ministero attualizza la concretezza dell'autorità divina. Non è però sufficiente che qualcuno mi metta impietosamente di fronte alle richieste della Parola, per poi lasciare che mi fermi: forse sono già giunto da solo a pormi di fronte a quelle. Egli deve anche aiutarmi a perseverare, a non fuggire, stando costantemente accanto a me, con amore inesorabile. Tale uomo è simile, in certi momenti, all'angelo del monte degli Ulivi, che infonde forza quando si è soli con Dio. La forza con cui tale uomo fa questo deriva certamente dalla sua missione (che possiede in se stessa la forza e l'inesorabilità di Dio) ma allo stesso tempo dal suo stesso vigore che lo star con Dio in solitudine gli conferisce.

Se gli manca l'esperienza, non potrebbe proclamare credibilmente la Parola di Dio neppure dal pulpito; tutt'al più potrebbe essere una eco morta di quello che, della Parola di Dio, altri - per esempio Paolo - predicarono con la loro esistenza. Tanto meno sarebbe capace di accompagnare, e di sostenere, un credente nel confronto esistenziale con la Parola di Dio. "Se gli manca l'esperienza...": subito si affaccia, ma deve essere immediatamente respinta, la parola "specialista". Nell'assoluto irripetibile non possono infatti esistere né "specializzazioni" né classificazioni. La stessa parola "scienza" va evitata, potendosi al massimo parlare di una certa "saggezza" che lo Spirito Santo concede a coloro che hanno familiarità con il suo "spirare dove egli vuole". Anche se sono state proposte "regole per il discernimento degli spiriti" e si è parlato di una "scienza dei santi", tali regole, se autentiche e utilizzabili, vengono però sempre date per esperienza personale e comprovate dall'esperienza personale nell'ambito della Chiesa; quella "scienza", poi, si identifica con uno dei sette doni dello Spirito Santo, per cui può essere concessa soltanto a coloro - e da quelli soltanto può essere capita - che con la preghiera e con la pratica della vita si sforzano di penetrare il centro dello Spirito.

A colui che nella Chiesa si assume la missione di predicare ufficialmente e di proporre a ciascuno in particolare la Parola di Dio, che è Cristo, non rimane altra alternativa che quella di tradurla in atto e di perseverarvi con coerenza, di dedicare totalmente a essa la propria esistenza. Egli deve identificarsi con la sua missione; questo fecero gli apostoli per comando di Gesù, allorché abbandonarono tutto per seguirlo:  non soltanto gli averi e la casa paterna, ma anche la moglie e i figli. Ovviamente, la rinuncia materiale per dedicare la vita alla Parola di Dio rimane soltanto il punto di partenza; essa diventa un criterio per giudicare il "prete che io cerco" soltanto se questo primo passo si trasforma in stile costante di vita. Da un punto di vista terreno, questo stile di vita è e rimane privo di senso, non trovando una collocazione in nessuna condizione sociologica; e ogni iniziativa che, partendo dal paganesimo o dal giudaismo, tentò di dargli un sostegno ecclesiologico suscitò sempre perplessità. Il prete deve continuamente prospettarsi l'eventualità di essere nuovamente escluso dall'organizzazione della società. Qui più che mai è valida l'affermazione di Agostino, secondo cui chi poggia la propria vita su Cristo non sta in piedi, ma sta appeso o "sta oltre se stesso". E unicamente Dio in Cristo può garantire che "chi per amore mio e del Vangelo abbandona tutto" non cadrà nel vuoto senza trovare un punto d'appoggio, ma sarà sorretto (appeso) per tutta la sua esistenza.

Umiltà e zelo crescono dalla medesima radice. Il prete umile non sarà tentato di propormi qualcosa che non sia la Parola di Dio diretta a me; quello zelante non sopporterà che io mi sottragga a essa. Egli mi tiene alle redini, per cui posso rimproverargli di essere importuno; per la verità, importuna e insistente è soltanto la Parola di Dio. Nel caso io trovi il prete che cerco, non posso rimproverargli d'accostarsi a me con una sicurezza che nessun uomo può pretendere, quasi che egli debba limitarsi a indicarmi vagamente in quale direzione il mio cammino verso Dio forse si muove, quasi sia obbligato a lasciare a me e alla mia coscienza di giudicare, accettare o respingere le sue indicazioni generiche. Premesso che egli abbia identificato la sua esistenza con la sua autorità, assorbendola in questa, la sua missione non gli consente nessuna falsa modestia; altrimenti rappresenterà soltanto parzialmente e confusamente l'autorità nella Chiesa. Se l'unione con Dio nella preghiera e l'umiltà della mediazione pervengono alla trasparenza e al dono totale, allora può anche avverarsi il miracolo che da Dio giunga - nello Spirito Santo che è nella Chiesa - un'autentica direttiva che, per quanto scomoda, io non posso fingere di non udire. Soltanto chi sa scomparire senza finzione può ricevere la grazia della sicurezza. Egli può permettersi di gioire con chi è felice, di piangere con gli afflitti; mai però gli è permesso, per solidarietà, di tentennare con chi esiti nell'incertezza.

Abbiamo parlato di miracolo. La riuscita di un prete è sempre un miracolo della grazia. Il miracolo atteso sarebbe semplicemente la santità:  quella di un uomo che in Dio ha perso talmente la coscienza di se stesso da stimare Dio come unica realtà importante. Egli non si preoccupa più della propria identità. Perciò è abituale e nutriente come una pagnotta da cui chiunque può strappare un boccone. Il modo in cui egli si distribuisce viene a identificarsi con quello adottato dalla Parola di Dio per distribuirsi in pane e vino. Egli conosce anche il modo di spezzare e d'interpretare la Parola di Dio. Contrariamente ai predicatori di oggi, egli non mi richiamerà dal deserto provvedendomi di un indigesto viatico di parole sull'apertura della Chiesa al mondo. Che cosa devo porgere agli affamati che mi circondano, se non pane? Ma dove lo prendo, se non mi viene porto? Come può la Chiesa uscire all'esterno se non ha più alcuna interiorità da porgere? Oppure si deve dire che essa scaccia da sé l'incertezza della propria identità perché non ha più alcuna esperienza di ciò che è il suo intimo? Non è essa stessa tale interiorità - la Chiesa non può riflettere se stessa - bensì Cristo, suo capo e anima, mediante il quale il Dio trino s'impossessa di essa.

Una volta c'erano i monaci, sia in Oriente che in Occidente, sull'Athos, a Clairvaux e al Ranft, a Kiev e Optina. I monaci erano anche chiamati "spirituali" (in greco, pneumatikói, coloro che possiedono lo Spirito); tale è tuttora la denominazione corrente dei sacerdoti nei Paesi di lingua tedesca. Per secoli, nell'ortodossia, i candidati ai gradi più elevati delle gerarchie sono stati forniti dai monaci. Sono spirituali quelle persone che hanno esperienza dello Spirito Santo e, grazie a essa, sono capaci di riconoscere e di accendere in noi, in me, lo Spirito nascosto, incognito, imprigionato. Quanto raro è diventato questo tipo di uomo. Dobbiamo forse accontentarci di un surrogato dello Spirito? Tale surrogato ci è fornito soprattutto dalla psicologia - il che non significa che un buono e umile psicologo non possa essere permeabile allo Spirito Santo; ma il suo oggetto è rappresentato dalle leggi generali della psiche umana. Lo Spirito, invece, è sempre irripetibile. L'uomo spirituale deve permettere allo Spirito Santo irripetibile d'intervenire su di lui in modo da riuscire a soddisfare il bisogno di quest'uomo irripetibile che gli sta di fronte: non facendo intervenire forze mediatrici, ma nell'apertura alla grazia del Dio vivente, il quale liberamente rivolge a me la sua Parola amorosa, dolce ed esigente - mediante il prete che io cerco». (©L'Osservatore Romano - 9 aprile 2010)

 

 


 

 

Santità, mai come oggi c’è bisogno di fermezza.

 

Riportiamo il testo di questa Lettera aperta scritta da un sacerdote al Santo Padre Benedetto XVI, poiché ci sembra che colga bene le cause dell’attuale crisi nella Chiesa.

"Il Vicario di mio Figlio dovrà soffrire molto, poiché per un certo tempo la Chiesa sarà data a grandi persecuzioni; e questo sarà il tempo delle tenebre; la Chiesa subirà una crisi spaventosa. La santa fede di Dio essendo dimenticata, ogni individuo vorrà guidarsi da solo ed essere superiore ai suoi simili. Saranno aboliti i poteri civili ed ecclesiastici, ogni ordine ed ogni giustizia saranno calpestati; non si vedrà che omicidi, odio, gelosia, menzogna, discordia, senza amore per la patria né per la famiglia" (Maria SS. a La Salette).

«Santità, mi rivolgo a Voi, Dolce Cristo in terra, in quest’ora di dolore e di confusione, come l’ultimo e il più indegno dei vostri figli.

Ancora una volta la Barca di Pietro è sballottata dalle tempeste della menzogna, del peccato e dell’odio. Imploro dal Signore che vi tenga saldo e fermo al suo timone perché possiate condurci al porto sicuro della Verità che è Cristo Signore.

Con dolore e sgomento assistiamo alla situazione, a dir poco disastrosa, del Clero in questi giorni.

Certamente, un’occasione unica per chi non aspettava altro che poter sparare nel mucchio... E quale occasione migliore dell’aver finalmente “scoperto” il sommerso mondo dell’immoralità dei chierici?

La terribile piaga della pedofilia che flagella il mondo, e che non ha sicuramente risparmiato la Chiesa, diventa un’occasione d’oro per chi vuol gridare, ad ogni piè sospinto, che essa, la Sposa di Cristo, giace impunita con il peccato, e che la sua casa, altro non è, se non un covo di perversi e fucina di ogni genere di malvagità.

Un boccone ghiotto e prelibato per chi, da tempo e in ogni modo, si adopera per strappare definitivamente l’Europa (e il mondo intero) da quella madre che l’ha nutrita, l’ha cresciuta, e che come unico baluardo, continua a difenderla dalle ondate nichiliste, relativiste, e laiciste di un potere che sembra voler giustizia, ma in realtà vuole solo far prevalere le sue ideologie! E che, -eliminata la Chiesa- rivestito come paladino di una nobile causa, finalmente avrà campo libero di imperversare in ogni modo!

Ma la realtà è ben altra da quella che sembra apparire e che ci vogliono far credere: “la pedofilia è un fenomeno di massa nella Chiesa…”, “tutti i preti sono pedofili...”, “non dobbiamo ascoltarla, né seguirla, ma bisogna diffidarne...”, “i nostri figli sono in pericolo...”.

Noi sappiamo, Santità, e conosciamo quella schiera silenziosa di sacerdoti, religiosi, religiose, che ogni giorno per le strade del mondo, o nel silenzio dei monasteri, offrono la loro vita per Cristo e per il bene delle anime. Ma il mondo non li conosce, e non li accoglie, perché non riesce a soggiogarli al suo potere e alle sue lusinghe, li odia: “...se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi...ma abbiate fede, Io ho vinto il mondo...”. E per questo, tutto ciò che sta accadendo in questi giorni, in fondo non ci stupisce, anche se ci addolora, e per tanti aspetti, “il cor s’impaura”.

Basta tenere i piedi per terra, e non farsi travolgere dalla melma di ipocriti giudizi, per rendersi conto di quanta falsità, di quanto odio, e di quanta sete di distruzione si annida nel tumulto “giustizialista” di questi giorni.

Certo, con dolore, Santità, guardiamo il rumoroso dilagare e il viscido strisciare del male e della menzogna, della calunnia e anche dell'indifferente ignavia di coloro che più dovrebbero stringersi a Pietro per non lasciarlo solo in mezzo ai lupi, ma sappiamo anche riconoscere il Bene e la Verità, che fa molto meno rumore, e nel contempo è presente, opera, dà i suoi frutti e alla fine trionferà.

Ma è giunta l’ora, Padre santo, di guardare in faccia il male con lo stesso coraggio con cui la Santità Vostra ha deciso di affermare che non solo i responsabili degli abominevoli crimini ai danni dell'infanzia vanno consegnati alla giustizia civile perché criminali oltre che peccatori, ma anche che i Vescovi omertosi devono collaborare con le autorità civili nell'affrontare i tremendi autori dei suddetti crimini. Anche se fa paura, e appare invincibile e inattaccabile, è giunta l'ora di iniziare a sferrare una vera e propria battaglia per estirparne le radici e fare in modo che il male, come un veleno, non si diffonda dappertutto! Certo, ce lo ha ricordato lei Santità, pochi giorni fà: tanta indulgenza verso il peccatore, ma nessuna per il peccato e le sue strutture.

Nello stesso tempo, però, sono in molti i fedeli ed ancor più i sacerdoti a domandarsi come sia stato possibile nel passato che la Chiesa proteggesse criminali conclamati lasciando loro per anni la possibilità di unire al proprio vizioso agire criminale l'esercizio del sacerdozio? Come ha potuto la Chiesa lasciare che quelle mani impure dei suoi indegni ministri accogliessero il Corpo e il Sangue di Nostro Signore?

Queste domande accorano i fedeli e noi sacerdoti incapaci di trovare ragionevoli e cristiane risposte! Ma Voi conoscete bene, Santità, la vastità della sporcizia che è dentro la Chiesa e Voi sapete bene quanta devastazione in questi ultimi sessant’anni ha causato quest’esasperato progressismo non solo nella morale, ma anche nell’ortodossia della fede.

Mentre buona parte della Chiesa si nutriva di un certo “buonismo”o “spirito di comprensione”, si trastullava nel “dialogo” o negli “equilibri da rispettare”, si schermiva dietro la “discrezionalità diplomatica” o gli “scandali da evitare”, la piaga si è aggravata sempre di più, diffondendosi e devastando senza sosta!

Il popolo assiste oggi attonito e confuso, e chiede, più di ogni altra cosa, a noi i pastori, e ancor più a Vescovi e Cardinali e a Voi, Santità, Pastore grande delle pecore - che mai come in questo momento siamo chiamati a custodire e proteggere - Fermezza!

Quella sana fermezza della Chiesa - ritenuta come un male di altri tempi da certi teologi e intellettuali - che non cedeva a compromessi, né verso l’immoralità, né verso gli attentati alla sana dottrina; quella santa fermezza, Santità, invocata da santi e sapienti cristiani, e che tante volte nella storia ha salvato la barca di Pietro da terribili derive e catastrofici naufragi.

Si la fermezza, Padre Santo.

Un argine, che se non altro, permetteva di controllare al massimo certi fenomeni e che sicuramente non assicurava vita facile e lunga a persone e idee, ad intra o ad extra, miranti a trascinare la Sposa di Cristo nel fango, disseminando confusione e odio.

Dov’è finita, Santità, la sapienza e la prudenza dei pastori?

Dov’è finita la fermezza, la prudenza e il sano discernimento nei Seminari- tanto in questioni “de fide” quanto “de moribus” – che portava agli Ordini Sacri candidati di solida formazione e di retta spiritualità. Certo, il male e la fragilità umana è stata, è, e sarà una realtà con cui bisognerà sempre fare i conti, ma non prima di aver certezza davanti a Dio, si dovrebbero poter proclamare quelle solenni e gravi parole contenute nel Rituale per le Ordinazioni agli Ordini sacri: «Quantum humana fragilitas nosse sinit, et scio et testificor illos dignos esse» («Per quanto l’umana fragilità permette di sapere, so e testimonio che sono degni»).

Una certa carità ci ha spinti a doverci mettere in ascolto del mondo, ad aprici ad esso, dimenticando che noi non gli apparteniamo, e che la nostra Patria è nei cieli; confondendo così la terra con il cielo e il cielo con la terra, ci siamo persi in esso, e non ci riconosciamo più.

Abbiamo preteso di poter fare a meno della sapienza della Chiesa, dei suoi Santi, della sua spiritualità, dei suoi insegnamenti, della sua Tradizione; li abbiamo ritenuti superati: il mondo non ci capiva più, ci ripetevamo preoccupati.

Così nei Seminari, nei Conventi, e negli stessi Monasteri si è cominciato a rinunciare alla disciplina, e si è iniziato a sostituire lo spirito di penitenza e di mortificazione con uno spirito gaio e festaiolo, nel nome di una presunta gioia della fede.

Il clero, sia secolare che regolare, ha iniziato a trasformarsi in una sorta di categoria sindacale senza volto e senza identità, tutta protesa verso un umanitarismo sociale e filantropico; e ci faceva piacere, Santità, perché il mondo ci applaudiva.

“A che serve pregare?” –  ci dicevano –  “bisogna operare, fare, costruire, combattere. La vita interiore? …Un inutile spiritualismo... La pratica della penitenza?...Cose medievali, d’altri tempi...!”.

Era sorta una nuova primavera, quella dei nuovi tempi inaugurata dall’era conciliare, e per queste cose non c’era più spazio; finalmente, più liberi e più moderni!

E ....il risultato? È sotto gli occhi di tutti!

La disciplina, la regola, il rigore, erano armi indispensabili per il raccoglimento interiore e per irrobustire la vita di fede, - e Lei, Santità, e i suoi Predecessori lo sapete bene -, lo spirito di mortificazione era un’esigenza per chi aveva deciso di rinunciare al mondo per seguire e consegnarsi totalmente a Cristo, umile, casto e povero.
Ma si è voluto semplicemente “cambiare pagina”, e senza queste armi il vizio ha spalancato le porte alla menzogna in ogni sua forma.

In Seminario - lo ricordo ancora con tristezza - se si tentava di vivere con una certa serietà gli studi e la formazione al Sacerdozio (che di fatto è inesistente e, in un certo senso, bisognava cercarsela) nella fedeltà al magistero e al Santo Padre, richiedendo un certo rigore e rimproverando un certo lassismo formativo e dottrinale, si veniva subito classificati come squilibrati, derisi dai Superiori e, molti, venivano allontanati e costretti ad abbandonare la vocazione. Per costoro i provvedimenti dell’Autorità non tardavano a giungere, implacabili!

Ma la cosa che ricordo ancora con più dolore e tristezza, Santità, è che per quanti nei corridoi del Seminario si rincorrevano gai, chiamandosi con nomignoli femminili e atteggiandosi con fare altrettanto ambiguo, viceversa, tutto era perdonato, compreso, non considerato come un problema, nonostante le chiare indicazioni della Chiesa in merito.

E allora, Santità: fermezza. Essa è la forma più alta della Carità!

I Pastori tornino a fare ciò per cui sono stati investiti dalla Sapienza Divina: custodi saggi e forti della fede del gregge e, in modo particolare, dei loro sacerdoti, senza cedimenti e senza compromessi, e in vera e totale comunione e obbedienza alla Santità Vostra e al Vostro Magistero. Meno parole, ragionamenti vani, convegni sociali e pastoralismi inutili! Più attenzione nei luoghi di formazione, più giudizi che partono dalla fede e non da ordini del giorno dettati dal mondo!

Allora, prima di rivolgersi ad extra, è ora, Padre Santo, di fare un’operazione ad intra e ripulire Atenei Pontifici, Seminari, Conventi, Curie e Sacri Palazzi da quella congerie di immondi personaggi che fanno scempio della dottrina e della morale cattolica, e che abusano delle loro cattedre o della loro funzione per demolire la Chiesa, assecondare i propri vizi o ricercare l’approvazione del secolo.

Perdonatemi, Padre Santo, se oso ricordare alla Santità vostra - in realtà intendo ricordarlo anche tutti quei Vescovi che sembrano ignorare le Vostre parole, i Vostri insegnamenti, le Vostre esortazioni, con cinica quanto poco cristiana indifferenza e ignavia - quanto già in tempi non meno confusi per la Chiesa, S. Caterina da Siena ripeteva ai vostri Predecessori: “...Pare, santissimo Padre, che questa Verità eterna voglia fare di voi un altro Lui; e si perché siete suo vicario di Cristo in terra, e si perché nell’amaritudine e nel sostenere vuole che riformiate la dolce Sposa sua e vostra, che tanto tempo è stata impallidita (…). Ora è venuto il tempo che Egli vuole che per voi, suo strumento, sostenendo le molte pene e persecuzioni, la Sposa sia tutta rinnovata. Di questa pena e tribolazione ella nascerà come fanciulla purissima…" (Lett. N. 346).

Si, Santità, come allora ancor più oggi, c’è bisogno di un rinnovamento soprattutto interiore, e su questo non si può più indugiare, e certo: “... Voi non potete di primo colpo levare i difetti delle creature, ma potete lavare il ventre della santa Chiesa, cioè procurare a quelli che vi sono presso e intorno a voi, spazzarlo dal fracidume, e ponervi quelli che attendono all’onore di Dio e vostro, e bene della santa Chiesa; coloro che non si lascino contaminare dalle lusinghe o dai denari. Se reformate questo ventre della sposa vostra, tutto il corpo agevolmente si riformerà; e così sarà onore a Dio, utilità a voi, santità delle membra e si spegnerà l’eresia.." (Lett. N. 364).

Verrà la persecuzione, ovviamente, anzi è già iniziata!

Ma senza salire al Calvario, Padre Santo, questa massa di Prelati e non, accecati dal mondo e dalle sue pompe, “...posti a nutrirsi al petto della Santa Chiesa...”, non potrà mai ambire ad esser parte del Corpo mistico di Cristo; se non saprà affrontare anch’essa la Croce, non meriterà di seguire Cristo nella gloria.

La Chiesa, Padre Santo, ha qualcosa di infinitamente più grande dei suoi limiti da offrire al mondo e che abbraccia le stesse vittime di tanta barbarie: l’abbraccio di Cristo e la sua promessa: “non praevalebunt”. Senza di questo non avremmo più scampo, e allora sì che il male prevarrebbe, e noi saremmo veramente perduti. Ci sentiamo un po', come in quella notte, quando la tempesta imperversava su quel lago, e la povera barca sembrava sprofondare...e Lui a poppa dormiva....: “Maestro svegliati, non t’importa che periamo?...”, e Lui sgridò la tempesta: “...Taci, calmati...” e a quegli uomini, umanamente impauriti, con una tenerezza infinita disse: “...Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?...”.

É il suo metodo, ci mette alla prova, tutti, perché ci abbandoniamo a Lui con coraggio; perché comprendiamo che senza di Lui non possiamo far nulla e tutto sarebbe irrimediabilmente perso; ma, soprattutto, vuol dirci di non temere perché c’è Lui, nella Chiesa c’è Lui, e voi Padre Santo, di questo siete il segno grande e luminoso.

Che Dio abbia misericordia di me, Padre Santo, se qualche germe di orgoglio dovesse nascondersi anche solo dietro una di queste mie povere parole.

L’ultimo dei vostri figli, mentre conferma alla santità Vostra il suo filiale rispetto e incondizionata obbedienza, chiede indegnamente la sua Apostolica Benedizione. Don M.D.M. (Fides et forma, 31 marzo 2010)

 

 


 

4 Aprile 2010

 

 

Contro la Chiesa perché smetta di essere Chiesa

 

Dal punto di vista del New York Times, probabilmente, c’è un solo modo per uscirne: la Chiesa smetta di essere Chiesa. Era quello che chiedeva già nel 2002, quando lo scandalo dei crimini sessuali commessi da sacerdoti esplose negli Stati Uniti e gli editorialisti del Nyt iniziarono a gareggiare con i colleghi di altre prestigiose testate Usa nella spregiudicata arte dell’equivoco. Le parole d’ordine, oggi come allora, sono sempre le stesse: fire e cover up, «licenziare» e «insabbiare». La Chiesa cattolica deve disfarsi ferocemente dei preti colpevoli, altrimenti rischia l’accusa di favoreggiamento. Detto altrimenti, la Chiesa rinunci a essere eccezione rispetto al mondo, rinunci a sanzionare e al tempo stesso a lavorare perché «nessuno vada perduto» neanche il più disperato e abbrutito degli esseri umani, e si conformi, in tutto, alle regole del mondo. È una pretesa che travalica di molto la sacrosanta richiesta di giustizia e che, di conseguenza, nessun comportamento della Chiesa riesce a soddisfare.

Nel 2002 la risposta di Giovanni Paolo II fu chiara e severa, gli errori e gli orrori nel clero statunitense furono affrontati senza sconti di sorta, figure autorevoli dell’episcopato pagarono di persona un comportamento ritenuto inadeguato. La volontà di moralizzare la Chiesa dal suo interno, rimuovendo ogni deposito di "sporcizia", ha poi caratterizzato fin dal principio la missione di Benedetto XVI, portando nelle ultime settimane alla pubblicazione della Lettera ai cattolici d’Irlanda, uno dei Paesi in cui la piaga dei reati di pedofilia compiuti da consacrati si è rivelata purulenta. Il contenuto del documento è noto a tutti: una condanna inappellabile, un’applicazione intransigente del principio di trasparenza, una collaborazione piena e incondizionata con le istanze della giustizia ordinaria, una chiamata al pentimento. Eppure, a quanto pare, ancora non basta. Negli ultimi giorni il New York Times ha alzato ripetutamente il tiro, cercando di colpire direttamente lo stesso Pontefice. Ieri, nella fattispecie, è toccato di nuovo al caso del "sacerdote H", reintegrato nei suoi compiti pastorali nell’arcidiocesi di Monaco nonostante si fosse già macchiato di crimini sessuali. La Sala stampa vaticana ha smentito seccamente il coinvolgimento dell’allora arcivescovo Joseph Ratzinger, ricordando come il vicario generale dell’epoca, monsignor Gerhard Gruber, abbia già ammesso la piena responsabilità al riguardo. Ma la campagna andrà avanti, c’è da scommetterci, se davvero la posta in gioco non è più soltanto la tutela delle vittime, ma lo statuto stesso della Chiesa.

Ieri come oggi, si sono azzardate interpretazioni al limite del complotto: un certo establishment Usa avrebbe voluto colpire i cattolici per la loro eccessiva vicinanza all’amministrazione Bush oppure per le critiche che una consistente parte dell’episcopato ha mosso ai contenuti della recente riforma sanitaria varata dal presidente Obama. Di sicuro c’è soltanto che il clima di diffidenza contro la Chiesa è stato l’elemento decisivo per il successo spropositato di un mediocre thriller compilato da un oscuro docente di storia dell’arte. Insomma, a guadagnarci finora è stato soltanto Dan Brown con il suo Codice Da Vinci. Per il resto stanno perdendo tutti, a partire da un’opinione pubblica globalizzata bombardata allo scopo di oscurare la sofferenza e l’intima grandezza che accompagnano l’impegno di purificazione assunto da Benedetto XVI e di rovesciare sulla Chiesa che richiama a una moralità superiore l’accusa della più bassa immoralità. Probabilmente non c’è bisogno di invocare alcun complotto per comprendere che cosa sta accadendo.

Agli occhi dei suoi detrattori la Chiesa ha l’imperdonabile difetto di rendere evidente ciò che la cultura contemporanea, al contrario, cerca con ogni mezzo di nascondere, e cioè l’esistenza di un ordine gerarchico e morale connaturato alla realtà, così come connaturata all’umano è la materia oscura del peccato. Tutto questo risulta inaccettabile per certa mentalità e certi circoli ed è per questo che la Chiesa dev’essere "licenziata", per questo il suo messaggio va "insabbiato". Fire, cover up. A meno che, finalmente, la Chiesa non smetta di essere Chiesa. A quel punto, forse, e soltanto a quel punto, perfino il New York Times potrà ritenersi soddisfatto. Ma non accadrà. (Alessandro Zaccuri, Avvenire, 27 marzo 2010)

 

 


 

 

Il processo giudaico e romano a Gesù di Nazareth

 

Una sentenza da impugnare.

"Ponzio, ti ricordi di Gesù il Nazareno che fu crocifisso non so più per quale delitto? Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia, si portò la mano alla fronte come chi vuole ritrovare un ricordo. Poi, dopo qualche istante di silenzio: Gesù - mormorò -, Gesù il Nazareno? No, non ricordo". Così Anatole France nel racconto Il procuratore della Giudea (1902) fa reagire un Pilato, ormai pensionato, alle sollecitazioni dell'ex collega governatore di Siria. Nella sua memoria si era spenta l'eco di quel processo che anche Tacito aveva evocato in poche righe del libro xv dei suoi Annali: "I Crestiani (...) prendevano nome da Cristo che era stato condannato al supplizio ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l'impero di Tiberio" (44, 2-5). Anche uno storico conterraneo e di poco posteriore a Gesù, Giuseppe Flavio, ci ha lasciato nel XVIii libro della sua opera, Antichità giudaiche, una significativa menzione di Cristo, se mettiamo tra parentesi le probabili glosse cristiane posteriori che quel paragrafo ha ricevuto:  "In quello stesso tempo visse Gesù, uomo saggio se pure conviene chiamarlo uomo. Egli compiva opere straordinarie, insegnava a coloro che desideravano accogliere con gioia la verità e convinse molti giudei e greci. Egli era il Cristo. Dopo che Pilato, dietro accusa dei capi del nostro popolo, lo condannò alla croce, coloro che lo avevano amato non vennero meno. Egli apparve loro il terzo giorno di nuovo vivo, avendo i divini profeti detto queste cose su di lui e moltissime altre meraviglie. E ancora fino ad oggi non si è estinta la tribù dei cristiani che da lui prende nome" (63-64).

Né Pilato, né Giuseppe Flavio o Tacito avrebbero immaginato che quell'atto processuale, celebrato in una sperduta provincia dell'Impero romano, avrebbe segnato indelebilmente la storia dell'umanità. Come ha scritto lo studioso inglese Samuel S. G. Brandon nel suo Processo a Gesù (1968), quella sentenza fu "la più importante della storia dell'umanità. Nessuna azione giudiziaria intentata contro una persona è conosciuta da un numero altrettanto grande di persone. Gli effetti del processo di Gesù nella storia umana sono incalcolabili". I più celebri casi giudiziari, come quello contro Socrate svoltosi ad Atene nel 399 prima dell'era cristiana o quello che nel 1431 mandò al rogo Giovanna d'Arco o quello aperto dall'Inquisizione contro Galileo nel 1633, impallidiscono di fronte alle due sbrigative sessioni processuali, durate meno di 24 ore e celebrate davanti al Sinedrio e al procuratore romano, che mandarono alla pena capitale quel predicatore ambulante di Galilea di nome Gesù di Nazaret attorno agli inizi degli anni 30.

Quelle ore si sono iscritte non solo nella storia, ma anche nella fede di milioni di persone e ancor oggi rivisitarle è un'avventura rischiosa perché in esse si intrecciano questioni storiche, problemi teologici, emozioni spirituali e persino degenerazioni secolari. Non possiamo, infatti, ignorare che per secoli il processo di Gesù è stato l'occasione per bollare di "deicidio" i "perfidi giudei" e scatenare gli eccessi dell'antisemitismo più infame. I misteri medievali sulla passione di Cristo mettevano in scena gli ebrei del Sinedrio vestiti come gli ebrei dei ghetti di allora, lasciando così talora via libera a violenti sfoghi e a incursioni antigiudaiche. C'è voluto il concilio Vaticano ii, con la sua "Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane" (Nostra aetate), per avere il coraggio di affrontare questa storia spinosa in modo nuovo:  "Sebbene autorità ebraiche coi propri seguaci si siano adoperati per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo" (n. 4).

La ricostruzione che ora noi tentiamo non può essere che schematica. Si pensi che un importante esegeta americano come Raymond E. Brown, nella sua opera La morte del Messia (Queriniana 1999), dedica all'analisi storico-critica del racconto evangelico del processo a Gesù qualcosa come 615 fittissime pagine! Il testo-base da cui dobbiamo partire è ovviamente quello delle quattro relazioni evangeliche che, però, non sono né una cronaca giudiziaria, né la registrazione di atti processuali, né un dossier documentario in senso stretto. Gli evangelisti non ci offrono una storia asettica, ma interpretata e illuminata dalla fede nel Cristo glorioso della Pasqua. Ci offrono, tuttavia, un racconto di eventi storici, selezionati però anche secondo le istanze della Chiesa delle origini e dei suoi rapporti con i romani e soprattutto con gli ebrei. Non stupiscono, perciò, certe divergenze nei particolari o certe rielaborazioni o introduzioni di scene. Non devono meravigliare neppure le diverse ricostruzioni che gli studiosi moderni hanno compiuto del processo basandosi sulle quattro pagine di Marco (14, 53-15, 20), di Matteo (26, 57-27-31), di Luca (22, 63-23, 25) e di Giovanni (18, 12-19, 16), né devono stupire le diverse attribuzioni di responsabilità per la condanna di Gesù.

Così per alcuni la responsabilità primaria è da addossare alle autorità giudaiche che, dopo un procedimento penale davanti al tribunale supremo del Sinedrio e dopo una sentenza a motivazione religiosa, hanno demandato il caso al governatore romano solo perché era l'unico che poteva emettere condanne a morte nella Palestina occupata. Il risvolto politico nella sentenza è introdotto solo per rendere accettabile la richiesta presso il potere imperiale. È questo il risultato raggiunto, per esempio, da un noto studio sul processo di Gesù, quello del tedesco Josef Blinzler (1951). Naturalmente questa interpretazione non ha niente a che vedere con il tradizionale antisemitismo per il quale l'Israele di ieri e di oggi sarebbe "in solido" responsabile di quella operazione giudiziaria.

Per altri, invece, la responsabilità primaria della condanna a morte di Gesù cade sull'autorità romana, l'unica competente in materia di pena capitale. Il Sinedrio, in questi casi, poteva solo istruire la causa ed emettere una sentenza che esigeva però assolutamente la convalida del governatore romano. Ora, l'imputazione formulata dal Sinedrio contro Gesù dopo la fase istruttoria sarebbe stata quella di concorso in banda armata (con gli zeloti, partigiani antiromani) contro la sicurezza dello Stato imperiale. Questa interpretazione parte dalla convinzione che la risonanza avuta dalla predicazione di Gesù era stata prevalentemente politica, o almeno così era stata vista dal Sinedrio. Fu il tedesco Hermann S. Reimarus a proporre per primo questa tesi nel 1778. Essa fu ripresa da molti altri storici ed esegeti e, in particolare, dal citato Brandon. Non è mancato neanche il tentativo di uno storico ebreo, Chaim Cohn (1968), di scagionare il Sinedrio sino al punto di sostenere che il tribunale giudaico avrebbe in realtà fatto col suo dibattimento processuale un estremo sforzo per salvare l'ostinato Gesù dalle mani del potere romano, cercando di fargli ritrattare le sue pericolose pretese messianico-politiche.

Nella ricostruzione di quegli avvenimenti è, quindi, difficile restare neutrali. Noi ora ci accontentiamo di una presentazione essenziale e divulgativa della sostanza di quell'evento. Gesù è arrestato di notte nel podere detto Getsemani ("frantoio per olive") ai piedi del monte degli Ulivi ed è trasferito sotto scorta dinanzi all'ex sommo sacerdote Anna per un primo interrogatorio informale. Lo strapotere di Anna (il nome è un diminutivo ebraico di "Giovanni"), sommo sacerdote dal 6 al 15 dell'era cristiana, è comprensibile solo se si pensa che in quella carica suprema dell'ebraismo egli riuscirà a piazzare dopo di sé ben cinque suoi figli e il genero Caifa, che resse il Sinedrio dal 18 al 36, succedendo al primo figlio di Anna. Dal punto di vista storico le difficoltà riguardo ai dati evangelici sul processo giudaico di Gesù iniziano, invece, col trasferimento dell'imputato presso Caifa per una seduta notturna del Sinedrio. Infatti, il trattato sul Sinedrio della Mishnah, la grande collezione delle tradizioni rabbiniche, afferma che i processi capitali potevano essere celebrati solo di giorno e nella sede ufficiale del Sinedrio, la cosiddetta "aula della pietra squadrata" che si trovava presso il tempio e che forse gli archeologi sono riusciti a identificare. La seduta di quella notte sarebbe, perciò, illegale e la sentenza invalida.

Il termine greco Sinedrio - trascritto in ebraico Sanhedrin - significa "consesso" e indica l'unico organo politico-religioso riconosciuto dal potere romano, responsabile dell'amministrazione autonoma giudaica, entro limiti ben precisi codificati da Roma. Composto da settanta membri a cui si aggiungeva il presidente, ossia il sommo sacerdote in carica - la cui dipendenza dall'autorità romana era simbolicamente attestata dal fatto che il suo solenne abito da cerimonia era custodito nella Fortezza Antonia (la sede del procuratore) - il Sinedrio era articolato in tre settori. Il primo era il concistoro degli ex sommi sacerdoti e degli altri sacerdoti di alto rango: tra loro si sceglieva il "sovrintendente del tempio", destinato a comandare la polizia giudaica in servizio al tempio. La seconda area era rappresentata dagli "anziani", vale a dire dai membri dell'aristocrazia laica e terriera, appartenenti - come i sacerdoti - al partito conservatore del Sadducei. Al terzo livello c'erano gli "scribi", cioè gli intellettuali (teologi e giuristi) di estrazione borghese e di orientamento "progressista" e per questo appartenenti al fariseismo, la linea politico-religiosa più aperta, nonostante l'impressione contraria che si può ricavare dai Vangeli. Gesù, secondo Matteo e Marco, fu convocato da questo consesso in stato d'arresto durante una seduta notturna.

Ma, come dicevamo, una simile seduta del Sinedrio, per di più nella residenza privata del sommo sacerdote, non era illegale? La risposta non è tanto da cercare nel fatto che le autorità giudaiche avevano pochi scrupoli legali nei confronti di un personaggio diventato troppo scomodo, quanto piuttosto nella relazione offerta da Luca su quegli eventi (22,66-71). Il terzo evangelista, infatti, forse più attento alla precisa sequenza storica della vicenda, pone l'interrogatorio vero e proprio di Gesù non nella notte, bensì "appena fu giorno... davanti al Sinedrio". Anche Matteo e Marco conoscono questa riunione mattutina, ma la considerano solo come la siglatura formale di quella notturna. Potremmo, allora, ricostruire così il processo giudaico contro Gesù. Nella notte dell'arresto Gesù è trasferito nel palazzo dei sommi sacerdoti Anna e Caifa per essere sottoposto a un primo interrogatorio informale. L'indomani, all'alba, si formalizza con una seduta vera e propria quell'abbozzo di istruttoria con un interrogatorio e con una sentenza.

Entriamo, ora, all'interno dell'aula sinedrale per seguire il dibattimento. Si inizia con l'escussione dei testimoni, almeno due secondo la normativa biblica. La loro deposizione riguarda le dichiarazioni poco rispettose di Gesù sul tempio, il cuore della spiritualità giudaica: "Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni". Sappiamo che in realtà Gesù in quell'occasione aveva usato il tempio come simbolo del nuovo culto che egli voleva inaugurare nel suo corpo glorioso. Gesù a queste accuse oppone uno strano silenzio. Per indirizzare l'interrogatorio verso uno sbocco meno vago, il sommo sacerdote formula una precisa domanda messianica, a cui Gesù replica con una risposta altrettanto precisa. Eccola nella redazione di Marco: "Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?". Gesù rispose: "Io lo sono! E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo!" (14, 61-62). Naturalmente gli evangelisti hanno trascritto domanda e risposta tenendo ben presente tutta la loro conoscenza del mistero di Gesù Cristo. Le parole di Caifa volevano provocare Gesù a una semplice dichiarazione messianica, grave ma non blasfema, perché il Messia in Israele era considerato una creatura umana. Gesù, invece, risponde fondendo insieme due testi messianici di diverso valore e applicandoli a sé.

Il primo testo è tratto dal Salmo 110 ed è riconducibile all'orizzonte del Messia terreno, atteso da Israele lungo la linea dinastica davidica. Ma il secondo testo, tratto dal capitolo 7 di Daniele, aveva nel giudaismo un valore più misterioso perché presentava un "Figlio dell'uomo" messianico diverso: egli "veniva sulle nubi del cielo", partecipava quindi dell'orizzonte stesso di Dio. Gesù agli occhi di Caifa non si arroga solo il titolo messianico davidico, ma anche quella misteriosa qualità trascendente, fondendoli insieme nella sua persona e facendo così scattare il presidente del Sinedrio: "Ha bestemmiato!". Col gesto rituale dello "stracciarsi le vesti" in segno di lutto e di profonda emozione davanti a uno scandalo o a un'ignominia, Caifa sollecita l'approvazione della sentenza: "Che ve ne pare?". E l'assemblea ratifica: "È reo di morte!".

Si apre, così, il secondo atto di quel giorno, il più lungo della storia. Gesù è trasferito al "pretorio" del procuratore romano. Sulla collocazione topografica di questo palazzo esiste un'annosa controversia archeologica. Durante l'anno i procuratori risiedevano a Cesarea Marittima, stupenda città romana costruita da Erode sulle rive del Mediterraneo. Come gli altri procuratori, anche "Ponzio Pilato, prefetto di Giudea" - titolo che si legge nella celebre iscrizione su un basamento scoperto a Cesarea negli anni 1959-64 - veniva a Gerusalemme in occasione delle solennità ebraiche per ragioni di rappresentanza e di ordine pubblico e risiedeva nella Fortezza Antonia. Quattro torri e quattro ali racchiudevano un cortile lastricato. Ebbene, Giovanni ricorda questo particolare: "Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette nel tribunale, nel luogo detto Litostroto, in ebraico Gabbatà" (19, 13). Se Gabbatà in aramaico significa "altura", il greco Lithòstroton rimanda a un cortile "lastricato con pietre". A causa della complessità e delle dispute tra gli studiosi sulla collocazione del pretorio romano in Gerusalemme, noi mettiamo tra parentesi la sua identificazione topografica e seguiamo le ore trascorse da Gesù e le vicende del processo presso il governatore di Roma. Il capo d'imputazione avanzato dal Sinedrio è ora di tipo politico, per poter essere accolto dal tribunale romano: "Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re" (Luca, 23, 2). Pilato, procuratore di Giudea dal 26 al 36, interroga l'imputato con distacco ottenendo risposte reticenti ("Tu l'hai detto") o il silenzio. Comprendendo di essere di fronte a un caso carico di sottintesi, di ambiguità e di sfumature proprie di un popolo molto sensibile e permaloso, Pilato non ratifica subito l'accusa giudaica, ma apre un supplemento di istruttoria.

D'altra parte, dallo storico giudeo Giuseppe Flavio sappiamo che Pilato non brillava per tatto e abilità diplomatica nei confronti di un popolo così indomito e duro. Nei primi anni della sua amministrazione aveva quasi preso gusto a provocare gli ebrei. Aveva fatto introdurre nel tempio i medaglioni dell'imperatore sui labari dell'esercito, causando una violenta reazione degli ebrei che consideravano quel gesto un sacrilegio. E Pilato, dopo una brutale repressione, era stato costretto a cedere, ritirando quelle insegne. Ma la cosa si era ripetuta con gli "scudi dorati" recanti un'iscrizione in onore dell'imperatore, creando altre reazioni e repressioni. Anche Luca menziona uno di questi atti brutali di Pilato: "Si presentarono alcuni a riferire a Gesù circa quei galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici" (13, 1). Il filosofo giudeo di Alessandria d'Egitto Filone dipinge Pilato come "uomo per natura inflessibile, e in aggiunta alla sua arroganza, duro, capace solo di concussioni, di violenze, rapine, brutalità, torture, esecuzioni senza processo e crudeltà spaventose e illimitate".

Con l'usuale diffidenza e con un filo di provocazione Pilato cerca di dirottare il processo verso uno sbocco sgradito al Sinedrio. Il solo Luca ci informa che Pilato ricorre anche a una sorta di diversivo all'interno dello stesso procedimento giudiziario. Demanda l'imputato a Erode Antipa, il figlio di Erode il Grande che aveva giurisdizione sulla Galilea, la regione in cui Gesù aveva iniziato la sua "pericolosa" attività. Fallito questo espediente, ricorre all'applicazione del "privilegio pasquale", un atto di clemenza di cui però non abbiamo altre attestazioni precise: "Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. Pilato disse loro: Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?" (Matteo, 27, 15-17). Ma anche questo tentativo fallisce e di fronte alla netta resistenza delle autorità giudaiche, che coinvolgono anche la cittadinanza di Gerusalemme nella richiesta di condanna capitale, Pilato fa marcia indietro.

C'è all'interno della relazione evangelica, che ora abbiamo ricostruito per sommi capi, una precisa sottolineatura che riflette certamente lo stato dei rapporti tra la Chiesa delle origini e il giudaismo. Questa insistenza dà l'avvio a una vera e propria tradizione che passerà anche attraverso i successivi Vangeli apocrifi. Le pagine evangeliche sul processo di Gesù ci offrono un ritratto benevolo di Pilato. Per tre volte egli replica ai giudei: "Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte". Da un lato si ha l'accanimento dei sacerdoti e della folla: Matteo giunge al punto di mettere in scena "tutto il popolo" con una dichiarazione di totale e ufficiale responsabilità ("Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli!", 27, 25). D'altro canto, invece, Pilato ricorre alle tattiche alternative sopra descritte, dialoga con Gesù sul suo "regno" e sulla "verità" in una scena riferita solo da Giovanni e divenuta giustamente celebre. "Disse Gesù: Io sono nato e venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce. Gli dice Pilato: Che cos'è la verità?" (18, 37-38).

Ma Pilato è presentato con simpatia soprattutto da Matteo, che ci offre due episodi ignoti agli altri evangelisti. Il primo è quello della moglie del procuratore, che la tradizione successiva delle Chiese orientali santificherà col nome di Procla o Claudia Procula. "Non toccare quell'uomo giusto perché oggi fui molto turbata in sogno per causa sua" (27,19), dice la donna, allegando, quindi, una specie di rivelazione celeste. Il secondo episodio è in finale di processo, quando Pilato compie quel gesto che sarebbe poi divenuto famoso, anche se con una connotazione un po' negativa di indifferenza: "Pilato, presa dell'acqua, si lavò le mani davanti alla folla: Io sono innocente - disse - di questo sangue; vedetevela voi!" (27,24). Il gesto è tipicamente biblico e non romano, come biblico è il linguaggio usato dal procuratore. È probabile, perciò, che Matteo più che darci una cronaca di quei momenti abbia voluto opporre la buona disposizione del pagano romano all'ostilità dei connazionali.

Anche la successiva tradizione cristiana è stata incline ad attenuare le responsabilità di Pilato nella condanna di Gesù e ad accentuare quelle giudaiche. Significativi sono i discorsi di Pietro negli Atti degli apostoli: "Uomini d'Israele, Gesù di Nazaret fu consegnato a voi e voi l'avete inchiodato sulla croce per mano degli empi e l'avete ucciso... Sappia dunque con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso! Voi avete consegnato e rinnegato Gesù di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo, e avete chiesto che fosse graziato un assassino" (2,23-26; 3,13-14).

Questa idea passa anche negli apocrifi come, per esempio, nel Vangelo di Pietro, che è stato definito "il più antico racconto non canonico della passione", scritto attorno al 100 e ritrovato solo nel 1887 in Alto Egitto nella tomba di un monaco. Il testo a noi giunto inizia così: "Nessuno degli ebrei, però, si lavò le mani, né Erode, né alcuni dei suoi giudici. Poiché essi non volevano lavarsi, Pilato si alzò". Dobbiamo, tuttavia, ripetere che questa interpretazione non può minimamente giustificare alcuna teoria antisemita. Non si tratta, infatti, di un giudizio razziale, ma solo storico (su alcuni precisi responsabili, soprattutto dell'alta classe sacerdotale) e teologico. Pietro, nel citato discorso degli Atti, parla esplicitamente del misterioso "disegno prestabilito da Dio e della sua prescienza" (2, 23).

In appendice e del tutto a margine della nostra ricostruzione essenziale del processo di Gesù, riserviamo un cenno anche alla pittoresca tradizione apocrifa riguardante Pilato. Lo scrittore martire Giustino verso il 155 menzionava l'esistenza degli Atti di Pilato, un testo che in realtà è giunto a noi in greco, copto e latino sotto il nome di Vangelo (o Memorie) di Nicodemo. Esso contiene una colorita e folcloristica sceneggiatura del processo di Gesù. Le accuse avanzate dai giudei contro Gesù sono di due tipi: la sua nascita impura da fornicazione e la violazione della legge, soprattutto sul riposo sabbatico. Ma lasciamo la parola all'antico narratore. "Pilato chiamò un cursore e gli disse: Mi sia condotto qui Gesù ma con gentilezza! Il cursore uscì fuori e quando riconobbe Gesù, lo adorò, stese a terra il sudario che aveva in mano e gli disse:  Signore, cammina qui sopra e vieni perché il governatore ti chiama... Allorché Gesù entrò, le immagini che i vessilliferi portavano sulle insegne si inchinarono da sole e adorarono Gesù". Sfilano poi i testimoni a discarico: sono ciechi, paralitici, un gobbo, l'emorroissa, guariti da Gesù, e Nicodemo. Ma la resistenza ebraica è implacabile e allora: "Pilato ordinò che fosse tirato il velo davanti alla sedia curule e disse a Gesù: Il tuo popolo ti accusa di prendere il titolo di re. Perciò ho decretato che, in ossequio alla legge dei pii imperatori, sia prima flagellato e poi sospeso sulla croce del giardino dove tu sei stato preso. Disma e Gesta, entrambi malfattori, siano crocifissi con te".

Accanto a questi Atti di Pilato fioriscono in ambito cristiano altri scritti quasi sempre favorevoli al procuratore. Ci è giunta, così, una relazione apocrifa di Pilato agli imperatori Tiberio e Claudio con le relative risposte; è stata inventata anche una lettera di Pilato a Erode e si è persino pensato di raccogliere la Paradosi di Pilato, cioè un'ipotetica "tradizione" sulla sua vita successiva. Lo storico cristiano Eusebio di Cesarea si lamentava che l'imperatore persecutore Massimino nel 311 aveva fatto distribuire nelle scuole delle false Memorie di Pilato "piene di empietà contro il Cristo" e aveva ordinato di farle imparare a memoria ai ragazzi per istigarli all'odio contro il cristianesimo. Ma sarà soprattutto sulla morte di Pilato che gli apocrifi cristiani si accaniranno con un gusto talora macabro. La morte più usata è quella della decapitazione per ordine di Tiberio: Cristo, però, accoglie in cielo il procuratore e sua moglie. Non per nulla la Chiesa etiopica venera Pilato come santo e l'ha inserito nel suo calendario liturgico.

Più casuale è la morte di Pilato secondo la citata Paradosi che la colloca durante una partita di caccia con l'imperatore. "Un giorno Tiberio, andato a caccia, stava inseguendo una gazzella; ma quando questa giunse davanti alla porta della caverna, si fermò. Pilato si spinse a vedere. Cesare lanciò subito una freccia per colpire l'animale, ma essa attraversò l'ingresso della caverna e ammazzò Pilato". Più tragica è la fine narrata da un altro testo e divenuta popolare nel Medioevo. Pilato morì suicida a Roma col pugnale prezioso che portava con sé. Gettato con un peso nel Tevere, il cadavere dovette essere estratto perché attirava tutti gli spiriti maligni rendendo pericolosa la navigazione sul fiume. Traslato a Vienne in Francia e immerso nel Rodano, dovette essere ripescato per la stessa ragione e sepolto a Losanna. Ma anche qui, a causa del suo corpo infestato di demoni, lo si dovette riesumare e scaraventare in un pozzo naturale in alta montagna.

Sulla scomoda sedia curule della Giudea erano passati e sarebbero passati altri procuratori, alcuni dei quali migliori di Pilato, altri certamente peggiori. Nessuno di costoro è restato così potentemente inciso nella storia come Ponzio Pilato, che pure era stato sospeso dal suo incarico per ordine del suo diretto superiore, il legato di Siria Vitellio. Il nome di questo funzionario romano risuona, infatti, ancora oggi, ogni domenica, sotto le volte delle nostre chiese: "fu crocifisso sotto Ponzio Pilato". E questo perché la sua vita si era un giorno incrociata con quella di un (apparentemente) modesto suddito della potenza imperiale romana, Gesù di Nazaret. (Gianfranco Ravasi, ©L'Osservatore Romano, 28 marzo 2010)

 

 


 

 

La dimensione psicologica nelle psico-sette

 

Se nella originaria visione psicoanalitica freudiana classica ogni conflitto morale risulta, in ultima analisi, di origine nevrotica, ed ogni credenza religiosa di tipo metafisico tout court illusoria se non delirante, tutta la critica successiva, a partire da Jung [1] ne ha evidenziato l'eccessivo riduzionismo semplificatorio, mettendo in luce il possibile connubio tra sviluppo di una struttura psichica matura e adesione religiosa, fino a chi è arrivato ad individuare, al contrario, il comportamento ateistico stesso come frutto di processi nevrotici [2]

Per quanto riguarda, in particolare, il punto di vista della psicologia della religione, va specificato che essa studia, nello specifico, il corrispettivo psichico individuale dell'esperienza religiosa, a prescindere dalle caratteristiche della religione di appartenenza, nel rispetto di una sorta di "distanza critica" e di agnosticismo metodologico [3]. Evitando i due estremi costituiti sia dalla tentazione riduzionistica, che riduce cioè la religione a mera costruzione psichica, sulla scia peraltro del filone filosofico costituito dai cosiddetti "maestri del sospetto", sia da quella apologetica, che vorrebbe ricercare conferme bio-psicologiche alla necessità e validità universale della religione e del cosiddetto "bisogno religioso" in senso stretto. A. Vergote, in particolare, nel tentativo di superare la diatriba sulla valutazione dell'essenza della religione [4] limita il campo della psicologia della religione all'identificazione dei processi psichici che consentono al singolo individuo di aderire al sistema simbolico proprio della religione incontrata nel suo ambiente culturale. Ciò non gli impedisce, comunque, di operare una distinzione, basata esclusivamente su tali presupposti metodologici, tra religioni autentiche e pseudo-religioni. [5]

Va inoltre tenuto conto che l'ambito della religiosità, in particolare quella intrinseca, distinta da quella estrinseca, (funzionale, cioè a bisogni esterni, quali sicurezza, difesa, ecc,) che comporta accettazione di sé e motivazione disinteressata, non è paragonabile ad un fattore secondario e contingente, (quale può essere la professione o un hobby), ma rappresenta una dimensione unificante della vita e totalizzante della personalità, una sorta di spinta motivante e significante ogni azione vitale [6]. Continuando lungo la scia logica di tale interpretazione (che, ribadiamo, concerne esclusivamente la cornice psichica del fenomeno), e trasferendola all'ambito più specifico di nostro interesse dei movimenti religiosi alternativi, si potrebbe affermare che l'adesione ad essi, specialmente quando si verifica nel corso della vita come conversione da una concezione precedente, sarebbe la conseguenza, in ultima analisi, di una mancata corrispondenza di quest'ultima con il proprio sistema simbolico e psichico, che verrebbe invece a coincidere meglio con l'offerta spirituale proposta dai movimenti stessi.

Inoltre, specialmente nel caso di adesione a movimenti sincretistici e del vasto milieu new age, si assisterebbe ad una sorta di capovolgimento di tale meccanismo, fatta salva la natura prettamente psicologica della teoria: in molti gruppi di questo tipo si assiste, infatti, ad una sorta di assemblaggio fai-da-te di elementi spiritualisti e religiosi, non in funzione della loro organicità e coerenza intrinseca, ma della loro soddisfazione e conformazione ai propri bisogni e desideri (meccanismi psichici).

Questo spiegherebbe, tra l'altro, la grande eterogeneità degli elementi scelti, la loro diversa provenienza storico-culturale nonché la loro frequente apparente incompatibilità ed incoerenza, secondo gli schemi della teologia e delle religioni tradizionali. Essi, infatti, in tale quadro ermeneutico, non sarebbero che il frutto di altrettante risposte di adattamento funzionali ai propri svariati ed incontrollabili bisogni e sistemi psichici [7]. Sarebbe un po' come, per usare un paragone banale ma efficace, voler andare a sagomare i bordi della cornice di un puzzle modellandoli in funzione della forma dei pezzi a nostra disposizione e non, come si fa normalmente, cercare di farli combaciare secondo le curvature e le convessità preesistenti.

In ogni caso, gli aspetti "patologici" individuali legati al vissuto religioso o comunque spirituale, prescindono dalla identità del movimento di appartenenza, in quanto nessuno ne può essere immune a priori, anche se è evidente che i gruppi settari e distruttivi in particolare, come ampiamente descritto nei capitoli precedenti, tenderanno più facilmente ad accentuare aspetti di fragilità psicologica latenti. Ciò esattamente al contrario di un vissuto religioso autentico in una personalità matura, che, anche solo dal punto di vista intrapsichico, ed a prescindere da qualsiasi considerazione valoriale, di norma dovrebbe agire in modo completativo ed integrativo, seguendo di pari passo le dinamiche evolutive della personalità, e non puramente compensativo di disagi o sofferenze psicologiche, come ampiamente dimostrato da numerosi studi [8].

Nella misura in cui, infatti, una conversione a qualsivoglia organizzazione religiosa, sia appartenente alle religioni tradizionali che ai cosiddetti movimenti religiosi alternativi, rappresenti un tentativo meramente funzionale di risposta a bisogni non strettamente religiosi [9] ma altri (psicologici, patologici in genere, sociali, di convenienza, economici, affettivi, ecc.), non si può parlare di autentica conversione religiosa; si tratterà, piuttosto, di risposte "mascherate" di religiosità ma, in ultima analisi, funzionali a bisogni diversi; dei quali spesso, peraltro, la religione rischia di diventare una sorta di paravento legittimante; peraltro estremamente fragile e in balìa di ogni evento o condizionamento esterno.

Varie sono peraltro le interpretazioni della conversione religiosa in genere, secondo le categorie psicodinamiche: dai meccanismi di compensazione o di rappresentazione simbolica dei vissuti intrapsichici individuali, alla "sostituzione di complessi" (S. De Sanctis) infantili, o ancora , alla loro sublimazione. [10] Merita menzione, infine, la recente teoria dell'attaccamento [11] recentemente emersa nell'ambito della psicologia della religione, in quanto, pur trattandosi di una teoria ancora in fase di iniziale ricerca e riferita universalmente alle religioni in generale, trova nei gruppi settari più ideologizzati l'esempio emblematico per una analisi del vissuto da attaccamento " patologico". In essi, infatti, l'individuo mostra una accentuata dipendenza regressiva nei confronti del leader-guru, interpretabile psicologicamente come il retaggio del mancato superamento del legame simbiotico con la madre (Abgrall).

Nel corso degli anni '80 si è registrato un acceso dibattito, in ambito nordamericano, con relative prese di posizione giudiziarie, tra associazioni, sociologi e accademici critici e favorevoli nei confronti delle sette, o meglio sulla correttezza e validità scientifica dell'uso di tecniche di condizionamento ed ingannevoli da parte di alcune di queste. A seguito di alterne vicende e svariate ricerche, l'Associazione Psicologica Americana (APA), pur in presenza di un controverso rapporto fortemente critico [12], giunge sostanzialmente ad una conclusione di non pronunciamento per mancanza di informazioni complete e documentate, ma comunque non di rifiuto esplicito, come talora impropriamente riportato [13]. Per restare nell'ambito della realizzazione sociale di teorie psicologiche alternative, va ricordato anche lo sviluppo di certe scuole di pensiero, a partire dagli anni '60 e '70, legate per esempio alla cosiddetta terapia provocativa, oltre alla successiva variegata diffusione delle offerte di teorie e prassi applicative sulla formazione e il cosiddetto "sviluppo personale" che si rifanno (fedelmente o liberamente) alle teorie della Programmazione Neurolinguistica (PNL) [14].

Fondamentale è operare un non sempre agevole discernimento, in merito, tra quanto avviene nelle numerose associazioni psico spiritualiste di formazione e sviluppo personale della cosiddetta religione dei seminari, suscettibile di comportamenti settari, e le scuole di pensiero accreditate scientificamente, opportunamente trattate anche in corsi universitari (Psicologia del Benessere), che rispettano le linee guida accreditate in ambito deontologico professionale, astenendosi rigorosamente sia da ogni giudizio critico sulle persone sia da qualsiasi forma di contatto fisico o, peggio, di violenza fisica, agita o comunque tollerata [15]. Per non parlare di altri aspetti fortemente critici riscontrabili in gruppi controversi quali l'uso di pseudo tecniche mono-proposta (panacea di ogni problema personale) da parte di personale non sempre accreditato, la creazione di un clima di segretezza ed intimorimento al punto da creare forme di dipendenza (anche economica per i costi spesso elevati dei corsi), fino all'uso di tecniche di controllo mentale con conseguente tendenza alla sopravalutazione personale (ipertrofia dell'io) e all'inaridimento affettivo e familiare.

Per quanto riguarda, infine, lo studio della psicologia dei gruppi, merita menzione la cosiddetta sindrome gruppale, [16] sviluppatasi nell'ambito della psicologia sociale, anche per la significativa coincidenza con le caratteristiche idealtipiche individuate in questa sede per i gruppi settari: essa infatti è caratterizzata da tendenza all'uniformizzazione forzata attraverso l'autocensura e la soppressione del dissenso; sopravalutazione perfezionista; chiusura cognitiva con rimozione o demonizzazione stereotipata degli avversari. (Da "Le Sette Svelate" di Antonio Fasol)

NOTE

1. Per il quale la rigida separazione tra male e bene, propria delle concezioni religiose tradizionali e occidentali in particolare, impedirebbe di sperimentare l'inesplorata zona grigia (d'ombra), dove gli opposti si fondono in una rappresentazione meno nevrotica della realtà.

2. E' il caso di L. Ancona, citato in Mario Aletti, Psicologia, psicoanalisi e religione, studi e ricerche, EDB, Bologna 1992, p. 14.

3. Cf. . Mario Aletti, Psicologia, op. cit., pp. 47-52. Per un superamento, poi, della presunta neutralità ideale dello psicologo, cf. Paolo Ciotti - Massimo Diana, Psicologia e religione-Modelli problemi prospettive, EDB, 2005, pp.187-194. ; Antoine Vergote parla di "neutralità benevola" in Antoine Vergote, Psicologia religiosa, op. cit., p. 20 e ss.

4. Cf. lo storico dibattito tra una definizione sostantiva ed una funzionale di religione, dove la prima (A.Vergote) tendeva a sottolineare il fondamento e la priorità della categoria religiosa (ed in particolare quella cristiana rivelata) rispetto all'interpretazione psicologica, mentre la seconda (V.Der Lans) tendeva a sottolinearne l'origine speculativa propria della mente umana. Jacob A. Belzen contribuirà pure a trovare una sintesi tra le due posizioni, sottolineando il concetto più universale di "spiritualità" e la funzione morfopoietica dell'ambiente culturale e ambientale; cf. Paolo Ciotti - Massimo Diana, op.cit. pp. 87 e ss.; in senso più ampio, si veda anche la funzione condizionante del "mondo vitale"(Lebenwelt) ampiamente elaborato da Jurgen Habermas.

5 Cf. Antoine Vergote, op.cit., p.25.

6. Vd. Allport, L'individuo e la sua religione, pp. 274-276 o Psicologia della personalità, p 256 e ss.

7. Secondo il paradigma rappresentato dal passaggio dalla religione "trovata" alla religione "creata" (Vergote)

8. Per una descrizione articolata della religiosità come fattore integrante e promovente la personalità, vd. G. Sovernigo, Religione e persona: Psicologia dell'esperienza religiosa, EDB, Bologna, 1993; per una analisi critica del presunto rapporto biunivoco tra salute mentale, maturità umana e salute mentale, cf. Mario Aletti, op. cit., pp. 45-47; vd. anche Allport.

9. Secondo alcuni autori, più che di "bisogni religiosi" sarebbe più corretto parlare di "disponibilità religiosa", cioè la capacità di dare connotazione religiosa a vicende riguardanti la maturazione della personalità umana, senza svilirne lo sviluppo naturale (cf. G. Sovernigo, op. cit. p. 66 )

10. Cf. Antoine Vergote, op. cit, pp. 228 e ss.

11. A partire dagli studi di Lee Kirkpatrick e Pehr Granqvist

12. Si tratta del rapporto denominato DIMPAC

13. Per un'ampia e documentata trattazione della controversia interpretativa, risalente alla fine degli anni '80, ed un tentativo di ricomposizione, tra allora esponenti del GRIS e CESNUR, cf. Massimo Introvigne, Il lavaggio del cervello, op. cit. pp. 92-101

14. Particolare sistema di sviluppo personale attraverso il "modellamento" del comportamento, ideata da Richard Bandler e John Grinder, che integra in un sistema singolare psicologia, linguistica e cibernetica

15. Per una trattazione critica e documentata sui danni provocati di quelle che vengono emblematicamente definite "Psicoterapie folli" cf. Margareth Singer, J.Lalich, "Psicoterapie Folli", Ed. Erickson, 2000 comprese le fondamentali regole deontologiche contenute nella presentazione all'edizione italiana curata dal Dott. Paolo Michielin, nonché le linee-guida europee in tema di deontologia psicoterapeutica elaborate dall'Efpa e dall' Eap.

16. Vd I.L. Janis, citato in M.L. Miniscalco, op. cit. p. 118

 

 


 

 

Padre Cavalcoli: esistono davvero inferno e paradiso?

 

All’Inferno molti non credono, altri sostengono che non può essere eterno ed altri ancora che sia vuoto. Lo stesso dicasi dell’angelo caduto e del peccato.

Per molti si tratta di invenzioni della Chiesa cattolica e comunque in tanti vivono come se Dio non esistesse, e Inferno e Paradiso sarebbero solo illusioni.

Per cercare di spiegare come può un Dio buono come quello cristiano permettere la rivolta degli angeli, la diffusione del male, l’esistenza dell’Inferno e del Paradiso, padre Giovanni Cavalcoli, dell’Ordine Domenicano, ha scritto e pubblicato il libro “L'Inferno esiste. La verità negata” (edizioni Fede & Cultura, 96 pagine, 9,50 euro). Padre Cavalcoli è docente di Metafisica presso lo Studio Filosofico Domenicano di Bologna e di Teologia sistematica alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna. Officiale della Segreteria di Stato dal 1982 al 1990, è Accademico pontificio dal 1992. Autore di innumerevoli libri e saggi, svolge una intensa opera di formazione. Zenit lo ha intervistato.

D. Per il mondo secolarizzato ed anche per alcuni credenti l’Inferno non esiste. Si tratterebbe di una invenzione. Qual è il suo parere in proposito?

Cavalcoli: Il mondo secolarizzato ha perso la fede nell’Aldilà, si tratti del Paradiso o si tratti dell’Inferno. E una certa misura di secolarismo purtroppo si è insinuata anche tra alcuni credenti, i quali, anche se ammettono un Aldilà, questo è soltanto il Paradiso. E’ questa la mentalità cosiddetta buonista, per cui non c’è da stupirsi che, secondo queste tendenze, l’Inferno è un’invenzione.

In realtà, come ho dimostrato nel mio libro, l'Inferno non è affatto un’invenzione, ma è una verità di fede insegnata da Nostro Signore Gesù Cristo, dal Nuovo Testamento, dalla Sacra Tradizione e da alcuni Concili. Quindi si tratta di un dato della divina Rivelazione, che la Chiesa ha il compito di custodire e di insegnare.

D. Sulla base di quali argomenti sostiene che l’Inferno esista?

Cavalcoli: La dottrina dell’Inferno è una dottrina teologica. Ora, gli argomenti della teologia non sono di tipo empirico, ma sono le Parole di Gesù Cristo, le quali possono essere accettate solo sulla base della fede in Gesù Cristo e nella Chiesa che ci media le Parole di Cristo.

Da questo punto di vista, gli argomenti sono molti. Mi limiterò qui a citarne uno solo (cfr. p.33 del mio libro sull’Inferno), che mi sembra particolarmente efficace, perché lo troviamo nel Concilio Vaticano II (LG n.48) e nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC n.1034). Si tratta del passo di Matteo 25, 31-46 dove Gesù Cristo non si limita ad annunciare la semplice possibilità della dannazione, ma semplicemente prevede il fatto dell’esistenza dei dannati.

D. Dove e quando è nato l’Inferno?

Cavalcoli: Per rispondere a questa domanda, dobbiamo tener presente che cosa è esattamente l’Inferno. Esso, per quanto riguarda gli uomini, consiste nel rifiuto irrevocabile della misericordia che ci è offerta dal Padre per mezzo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. In questo senso, possiamo dire che la dannazione infernale ha cominciato ad esistere con la venuta di Cristo. Invece, se consideriamo il peccato degli angeli all’inizio della creazione, l’Inferno esiste per loro sin da quel momento (Mt 25,41; 2Pt 2,4).

Dove è nato l’Inferno? Per quanto riguarda gli angeli peccatori, siccome si trovavano prima in cielo, si può dire che è nato in cielo, da cui furono precipitati (Ap 12,8). Per quanto riguarda gli uomini, l’Inferno è nato in questo mondo nel momento in cui Gesù è stato rifiutato.

D. Esiste nell’Aldilà o è presente anche sulla Terra?

Cavalcoli: Secondo una certa tesi del cristianesimo secolaristico-buonista, se si può parlare di “Inferno”, questo esiste solo su questa terra, nel senso che il castigo per i malvagi c’è solo quaggiù e poi c’è il Paradiso per tutti. Esiste poi un’altra tesi, del tutto pagana, secondo la quale l’Inferno sarebbe quella condizione di sofferenza che colpisce anche gli innocenti oppressi dai prepotenti.

Mentre in questo secondo caso la parola “Inferno” viene usata in un senso improprio, nel primo caso c’è una parte di verità, in quanto lo stato di peccato mortale è già in un certo senso l’Inferno. Ma questa tesi trascura il fatto che la pienezza irrevocabile della condizione infernale per l’uomo è solo dopo la morte. Tuttavia, ogni uomo, prima della morte si può pentire, può riacquistare lo stato di grazia di Cristo, per cui, se persevera in questo stato fino alla morte, può evitare l’Inferno.

D. Cosa dicono le Sacre Scritture in merito?

Cavalcoli: La voce più autorevole è quella di Nostro Signore Gesù Cristo. Di essa ne troviamo un’eco negli altri Libri del Nuovo Testamento, e in particolare nell’Apocalisse, nella quale abbiamo una grandiosa visione del trionfo finale di Cristo su tutte le potenze del male, le quali saranno messe in condizione di non più nuocere agli eletti.

D. La descrizione mirabile dell’Inferno della Divina Commedia è credibile?

Cavalcoli: Certamente nella sua sostanza è credibile, perché, come si sa, Dante non solo era cattolico, ma aveva acquistato una notevole cultura teologica di stampo tomistico frequentando il convento domenicano di Santa Maria Novella di Firenze.

Nel contempo Dante, da grande poeta qual era, si è permesso delle cosiddette licenze poetiche, per cui ha creato ambienti, eventi e personaggi che evidentemente esulano da quanto ci viene insegnato dalla Rivelazione cristiana, anche se nel contempo, nel complesso, non le sono contrari.

Una cosa curiosa che potremmo notare al riguardo e che non è un dato della fede cristiana, è la condizione dei cosiddetti “ignavi”, i quali vissero “sanza fama e sanza lodo” e pertanto vengono collocati da Dante non nell’Inferno, ma in un luogo a parte.

D. Ammettere l’esistenza dell’Inferno presuppone temere il diavolo. In che modo l’angelo caduto e l’Inferno si collocano nel disegno divino?

Cavalcoli: Il cristiano deve avere un certo timore del diavolo, così come noi possiamo avere un ragionevole timore di prenderci una malattia o di cadere in un qualche peccato. Da qui il dovere del cristiano di guardarsi dai pericoli morali che possono venire dalle tentazioni diaboliche, evitando atteggiamenti di eccessiva sicurezza.

Detto questo, tuttavia, il cristiano fondamentalmente non ha paura del diavolo, perché il cristiano che vive in Cristo gode della stessa forza di Cristo, il quale ha vinto Satana. Anzi, da questo punto di vista, si può dire che è il demonio che ha paura del cristiano. Come dice infatti Santa Caterina da Siena, noi siamo vinti dal demonio solo se lo vogliamo, commettendo o amando il peccato.

Il demonio e l’Inferno si collocano nel disegno divino in quanto costituiscono un deterrente che ci aiuta ad evitare il peccato. In secondo luogo, per quanto riguarda il demonio, anch’egli va visto come uno strumento della divina Provvidenza per due finalità: per rafforzarci nella virtù e per richiamarci paternamente quando commettiamo il male. Il diavolo di per sé vorrebbe solo il nostro male, solo che la Provvidenza divina lo utilizza secondo i suoi sapientissimi disegni per il nostro bene.

D. Perché Dio permette all’angelo di ribellarsi?

Cavalcoli: Perché ha un grande rispetto per il libero arbitrio della creatura. Ora, appunto, l’angelo ribelle è una creatura dotata di libero arbitrio. Allora, a questo punto, si può dire che Dio, pur di rispettare questo libero arbitrio, accetta di essere respinto da quella creatura che in realtà potrebbe trovare solo in Lui la sua piena felicità. Questo discorso vale analogicamente anche per la vicenda umana.

Inoltre si può dire che Dio ha permesso la disobbedienza dell’angelo, perché dall’eternità aveva progettato l’Incarnazione del Verbo, grazie alla quale l’umanità, salvata da Cristo, avrebbe in Cristo vinto Satana e raggiunta una condizione di vita – quella di figli di Dio – superiore a quella che ci sarebbe stata se l’angelo non avesse peccato.

D. Che relazione c’è tra il male e l’Inferno?

Cavalcoli: Possiamo dire che l’Inferno è una vittoria sul male morale, ovvero sul peccato, anche se resta il male di pena, cioè la sofferenza dei dannati. Qui però si tratta di una giusta pena, per cui, da questo punto di vista si può dire che è bene che ci sia questo male, per cui noi vediamo che, dal punto di vista escatologico, tutto si risolve nel bene.

C’è inoltre da precisare con tutta chiarezza che sarebbe blasfemo incolpare Dio di questo male, del quale invece è responsabile soltanto la creatura angelica o umana, mentre d’altra parte l’esistenza del male di pena manifesta semplicemente la giustizia divina, la quale peraltro è sempre mitigata dalla misericordia.

D. Cosa devono fare le persone per sfuggire l’Inferno e guadagnare il Paradiso?

Cavalcoli: Praticamente si tratta di mettere in opera tutti i precetti della vita cristiana, a cominciare dall’odio per il peccato, dalla consapevolezza delle sue conseguenze, per passare al dovere di obbedire con tutte le nostre forze ai comandi del Signore, di vivere in grazia, nella pratica continua della conversione e della vita cristiana, in una illimitata fiducia nella misericordia divina, frequentando i sacramenti nella comunione con la Chiesa, nella devozione ai Santi e soprattutto alla Santa Vergine Maria, coltivando un forte desiderio del Paradiso e della santità e combattendo coraggiosamente giorno per giorno contro le insidie del tentatore, sotto la protezione di San Michele Arcangelo. In casi di eccezionale aggressività da parte del diavolo, esiste la pratica dell’esorcismo.

Queste raccomandazioni naturalmente valgono per i cattolici, però siccome tutti gli uomini sono chiamati alla salvezza e quindi sono chiamati ad evitare l’Inferno e a guadagnare il Paradiso, il loro dovere è quello di seguire la loro retta coscienza, nella misura in cui conoscono le esigenze del bene e coltivando, con l’aiuto della grazia, una fede almeno implicita in Dio come rimuneratore di buoni e giudice dei malvagi. (Antonio Gaspari, © Zenit, 29 marzo 2010)

 

 


 

28 Marzo 2010

 

Maritain, il filosofo del «mare nostrum»

 

Jacques Maritain (1882-1973) è generalmente riconosciuto come uno dei maggiori pensatori del XX secolo, anche se l’articolazione scolastica della sua opera ha allontanato molti tra i suoi potenziali estimatori. Ricorrendo ad un tomismo duttile ed aperto ha affrontato i maggiori problemi teorici del suo tempo nei campi più diversi: nella metafisica, nell’epistemologia, nella filosofia della natura e in quella della cultura, dell’estetica e dell’educazione ed anche nella politica, conducendo una battaglia per la liberazione dell’intelligenza e un ritorno al realismo, nella prospettiva di dare un fondamento alla nozione di persona.

Specialmente in Umanesimo integrale, Maritain analizza i rapporti tra persona e società e afferma che l’uomo non si esaurisce nel sociale, anche se è portato ad una «comunione sociale»: la società è per le persone e non le persone per la società. Il bene comune non consiste allora solo in una redistribuzione del benessere materiale, ma soprattutto nell’edificazione di una società che favorisca la promozione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Per dirla sinteticamente, la filosofia di Maritain è un umanesimo personalista.

La sua filosofia politica si sviluppa già nelle sue opere degli anni Venti, partendo dall’idea di persona presente in San Tommaso, ma da lui approfondita nella sua dimensione storica e relazionale. Maritain, in particolare, teorizzerà quella corrente filosofica, il personalismo, cui appartengono, per molti versi, autori come Mounier, Lévinas, Ricoeur, Buber, Scheler, Guardini, il giovane Bobbio, Olivetti, Pareyson … e tanti altri che, da un lato, rifiutano l’atomizzazione della società liberale e, dall’altro, il collettivismo delle società comuniste (oltre ai fascismi emergenti).

Da qui il disegno di una società pluralista, personalista e comunitaria il cui fondamento non è né l’individuo né lo Stato, ma la persona. Con questa prospettiva si può dire che Maritain ha veramente attraversato i grandi problemi del Novecento e non in modo disincantato (basti ricordare le sue numerose battaglie per la fondazione dei diritti umani, il suo impegno per la fine della guerra civile in Spagna, i Manifesti firmati con altri intellettuali francesi ed europei…), ma come pensatore di movimento, «filosofo nella città», intellettuale impegnato a servizio della verità e della giustizia.

Durante la guerra Maritain, rifugiatosi negli Stati Uniti a causa del suo antinazismo, approfondirà il suo pensiero politico nel contesto americano. Nel 1949 Maritain, allora filosofo cattolico molto conosciuto, veniva invitato all’Università di Chicago con Leo Strauss, Eric Voegelin e Yves Simon ad offrire un contributo per una nuova filosofia della democrazia e dei diritti umani ritenuta necessaria per una ricostruzione solida dello spirito e delle istituzioni democratiche, a livello nazionale e internazionale, dopo la catastrofe delle due guerre mondiali.

Erano gli anni movimentati del dopoguerra e da molti era avvertita la necessità di approfondire la ragioni del «vivere assieme», anche se la guerra fredda e la minaccia nucleare aveva spento molte speranze di trovare un camino pacifico per i paesi del pianeta dopo la firma della carta dell’Onu a San Francisco nel 1945 e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo nel 1948. L’idea era quella di un ordine (nazionale ed internazionale) fondato sulla persona umana ed i suoi diritti e doveri, un’idea cui Maritain aveva già dato un contributo importante alla cultura del tempo e, in particolare, durante la stesura della Dichiarazione Universale del 1948. Uomo e lo Stato, che raccoglie le conferenze di Chicago, si rivelò non solo il capolavoro della sua filosofia politica, ma fu considerato uno dei libri che coglievano con più profondità lo spirito dei tempi e disegnavano prospettive concrete, anche se difficili, per l’edificazione di un mondo pacifico.

La triade persona umana e suoi diritti – società civile (Maritain usava il termine «corpo politico» ancor più carico di significato in quanto assorbiva l’idea di Stato) – democrazia, costituisce per il pensatore tomista la base su cui costruire un mondo nuovo che avrebbe dovuto sostituire il "désordre radical" che aveva dilaniato il Novecento, con la triade individuo (individualismo) – nazione – Stato. La centralità della democrazia è, insomma, il tema dominante di L’uomo e lo Stato.

Una vera democrazia – politica, economica, sociale e culturale – espressione reale di un «corpo politico» maturo, è il sistema migliore con cui gli uomini possono autoregolarsi e limitare l’idea che sia lo Stato a permettere i diritti umani, mentre a lui non spetta che riconoscerli come inerenti alla natura umana; e solo un mondo formato da democrazie sul piano nazionale può dar vita ad un’autentica democrazia internazionale e ad una globalizzazione guidata non solo da imprese transnazionali, ma da un’«autorità politica mondiale» espressione autentica di un «corpo politico» mondiale (oggi diremmo «società transnazionale»). L’idea di persona e di democrazia si sono sviluppate nell’ambito del Mediterraneo in un intreccio tra religioni (là Dio è entrato in contatto con l’umanità), culture (è sempre stato un crocevia tra Oriente e Occidente) e politica in situazioni di conflitto, ma anche di reciproca collaborazione.

In un momento difficile come quello attuale, le analisi sottili di Maritain (già presenti in Religione e cultura) su ebraismo, cristianesimo e islam, ci aiutano a comprendere tutte le valenze del «mare nostrum» che ha offerto al mondo il pensiero per autocomprendersi attraverso l’incontro con l’altro e tessere trame di collaborazione messe spesso alla prova, ma che hanno resistito e si sono rinnovate nei secoli. Anche se accade che la violenza reciproca ci faccia velo, non possiamo dimenticare che esiste un umanesimo mediterraneo (personalista). Maritain, filosofo della persona, come molti autori ebrei, cristiani e musulmani, ne era cosciente. (Roberto Papini, Avvenire, 18 marzo 2010)

 

 


 

 

L’intelligenza viene da Dio e dà vita alla scienza

 

Parlo di intelligenza, un vocabolo generico che assomma diverse operazioni della stessa facoltà: intelletto, ragionevolezza, memoria, consapevolezza, coscienza, e altre ancora. Intelligenza da inter-lego (en lego = raccolgo per scegliere); in italiano lo tradurrei in facoltà di apprendere per ragionare. \ Si può anche dire che l’intelligenza è intelletto, in quanto percepisce i principi immediatamente senza processo razionale. Per esempio, «tutto ciò che si muove è mosso da altri». Di solito per intelligere si intende anche immaginare, credere, capire e soprattutto ragionare. Preferisco la definizione di «apprendere per ragionare», perché l’apprendere per ragionare è proprio della specie umana, mentre il solo apprendere è proprio anche del genere animale. Come l’animale anche l’uomo apprende, ma l’uomo apprende per razionalmente elaborare. Ciò rende l’uomo un individuo o essere inconfondibile con altri esseri, né da essi derivabile se non per creazione apposita da parte di chi ha un’insuperabile pienezza intellettuale senza spazio e senza tempo.

Nessun dubbio che l’uomo sia essere pensante. Né alcun dubbio che la sua identità e, quindi, il suo pensare l’abbia avuto dal Genio Assoluto. Per sinaptogenesi? Un modo di creare dal nulla se non da sé increato e inesauribile. Dubitarlo? È come pensare che l’intelligenza detta, impropriamente, artificiale alla quale si pensa di dare una sua autonomia, non sia creazione dell’uomo intelligente che in qualche modo la comunica dal suo sé mediandola con la filosofia metodica, con la linguistica, con la psicologia cognitiva e l’informatica. Ma il potere intellettivo, a ben pensarci, è non solo componente dell’identità uomo, ma anche - per dirla in latino barbarico - il suo ipsismo, quello, cioè, che è lui stesso e non il simile, ma quello unico e irripetibile.

Ora, però, parliamo di intelletto e, quindi, di potere intellettivo dell’uomo in quanto sostanzialmente e non evolutivamente proprio dell’uomo. Ciò, non per negare che l’intelletto nella sua espressività non possa, anzi non debba, evolversi, ma la sua potenzialità, il principio da cui tutto il suo derivato emana, è realtà indivisibile dal corpo e dall’anima, di sua natura invariabile come l’io, che né con l’età né con le contingenze può mutare.

È, cioè, quell’identità-uomo che Aristotele chiama sinolo, cioè materia e forma in un unum. Corpo-intelligenza-anima: un sinolo, dunque, di tre componenti tra loro inseparabili, pena la nullità di uomo. Ma quale la funzione dell’intelligenza tra le altre due componenti del sinolo? Oso dire che l’intelletto è cerniera o albero di trasmissione simultanea tra corpo-materia e anima-forma o sostanza. L’intelligenza imbevuta nell’amore è nel corpo e nell’anima, come entità identificante dell’uno e dell’altra. Ho detto intelligenza imbevuta d’amore perché l’intelligenza, come la fede, senza amore cade «come corpo morto cade». Corpo, intelligenza e anima sono genoma-uomo in senso di specie e di individualità. Non può non essere così, pena il mio non essere io. È proprio la mia intelligenza che lo percepisce e lo pretende, lo cognitivizza e lo spende a diversi livelli: la logica, l’empirica, la metafisica.

Platone ci insegnò a penetrare, anzitutto, nei cieli della metafisica senza alcuna obiezione aprioristica di tipo «criticistico kantiano». Conoscenza per intuizione. Egli navigava nel divino delle idee quale innato principio, primo nell’ordine logico, senza cui nulla è intellettualmente conoscibile. La concezione platonica anticipa il teismo e la soprannaturalità cristiana, arricchita dalla rivelazione. Direi che a fronte di quella, il concretismo si smarrisce come in un’atmosfera non respirabile.

Aristotele è anch’egli un aristocratico della cultura. Per la conoscenza segue, peraltro, la via apodittica (apodeiknymi = dimostrare) e, cioè, deduce da un’evidenza la conoscenza per dimostrazione logica. La prima è la via agostiniana, la seconda è la tomistica. Ambedue confluiscono nella verità rivelata anch’essa modalità e argomento del conoscere, sempre proprietà dell’intelletto. L’intelletto, quindi, è capacità dell’apprendere per ragionare. Anche l’high-tech ne è il prodotto, come tutti i media elettronici. Il raziocinio, infatti, è la facoltà di valutazione tra concetti sulla base della logica e dell’evidenza. Ma l’intelligenza è nata dall’intelligenza di Dio e in Dio converge.

Faccio un doppio raziocinio in un esempio unico: 1) Albert Einstein, un sommo matematico e fisico, ha scoperto la relatività studiando la gravitazione, l’atomo, o molecola materiale, la teoria dei calori specifici e quella dei quanti e, perciò, dei fotoni. Si può dire che palleggiava la metafisica e la fisica quasi sua innata facoltà, con metodo induttivo, statistico ed equazionale. Alla luce di ciò, il suo rigore logico lo portò alla fissione nucleare. Ne fu sgomento e argomentò: la scienza senza Dio e storpia e pericolosissima. 2) Ed ecco il secondo raziocinio: se un uomo come Einstein alla luce del suo dedotto scientifico ha dovuto sconfinare in Dio e se come lui innumerevoli altri, infinitamente più acuti di me in svariate discipline, hanno raggiunto una tale deduzione, anch’io posso credere, avendone oltretutto anche le mie buone ragioni personali. Ne cito una: se la mia intelligenza, per niente eccezionale, si spinge come quella di molti altri vicino a Dio, volendolo anche toccare, non è giusto che anche l’intelligenza di Dio si pieghi verso la mia sì da toccarmi? La risposta è l’Incarnazione di Dio quale Cristo ha dimostrata in sé.

Fin qui parliamo del come conoscere, oggi reso più facile anche in termini di che cosa conoscere. Com’è chiaro, il come si conosce è argomento di psicologia, di dialettica, di logica, di criterio logico ecc. Qui, però, si vuol dissertare del conoscere come sua fonte e potenza, cioè dell’intelletto che, pur nell’evoluzione dei metodi, dell’ambiente, delle conquiste, rimane sempre una potenzialità formidabile, inconfondibile con il suo obiettivo e le sue conquiste. Parliamo, dunque, della macchina in sé, non della strada o della meta. Quella potenza che mentre cammini vola, che mentre leggi, in continuità pensa. Perfino quando preghi, disperde energia in mille direzioni a danno della verticalità.

Ricordo di aver letto nell’autobiografia di Teresa di Lisieux che prima di centrare il concetto di Padre nostro, lo doveva ripetere moltissime volte «Padre nostro, Padre nostro...» e poi, coerentemente procedeva. La conoscenza, quindi, è il prodotto dell’intelletto che accoglie le informazioni, le metabolizza, le processa, ne deduce e perciò le moltiplica sino a farne un sapere senza fine che crea sapere e progresso, che investe sempre meglio la potenza dell’intelletto con la fiducia spesso accanita, quasi indomabile istanza del sapere. Lo ritengo effetto di quel «possidete eam» che il Creatore, agli inizi della nostra specie dotata di innata intelligenza, ci iniettò consegnandoci l’universo. Da qui la cognitivizzazione che il potere dell’intelletto può spingersi anche oltre ogni limite sferico, anzi è la sua istanza naturale.

Platone ce l’ha detto. Aristostele lo convalidò partendo dall’empirismo. Andare, cioè, verso là donde l’intelletto è emanato. Il dito del Creatore nella Sistina di Michelangelo ce l’ha evidenziato. Molti filosofi ci sono arrivati a toccarlo con il dito. Pochissimi hanno bucato questa sfera intravedendovi l’aura soprannaturale. È la logica, più l’amore, che vi ci «conduce». Innegabilmente Dante e sommi asceti, come Paolo di Tarso, lo sperimentarono e ve ne rimasero contagiati sì da calcare con il tacco le cose di quaggiù non in senso spregiativo, ma nel senso che l’intelligenza pretende molto di più. L’idea della caverna in Platone non era spregio dell’essere corpo, ma tensione della sua eccezionale intelligenza che sapeva d’esser molto di più che solo corpo.

Intelletto: un potere, quindi, rapidissimo anzi fulmineo in linea orizzontale senza limite circolare, in linea verticale, perpendicolare a Dio stesso che ne rivela l’obbligatoria derivazione creazionale dal Sé di Lui stesso. Infatti, quando la mia intelligenza o, più semplicemente, il mio pensiero tenta di toccare Dio con spontaneità, lo bacia e poi se ne ritrae come da un amabile evidente, ma impossibile. Quando però ci si vuol impegnare a capire Dio, ci si perde come nella sfera stellare e l’intelligere diventa semi-contemplazione per la quale il tempo è sempre stretto. L’intelligenza totale pretende l’eternità.

Lo so, altri preferiscono la pigrizia della rinuncia e si auto-definiscono atei, ma trattasi di un ignavo velo rinunciatario alla propria intellettualità. Come esce il pensiero dall’apparato neurotico cerebrale? Ma esce da lì? A pensarci bene me ne pullulano serissimi dubbi. Riservo a me la consapevolezza psicocognitiva che l’intelligenza è componente imprescindibile e inseparabile del mio io, che in se stesso non è materialmente quantizzabile. Solo la sua applicazione e il suo prodotto lo possono essere. L’intelligenza non è anatomizzabile perché non è fatta di parti come non lo è lo spirito. Quindi, l’intelligenza è eterna e proviene dall’Eterno. La sua attività, in quanto io, inizia nel tempo in uno con la morfologia del corpo e con l’infusione dell’anima.

Se dal cerebro anatomico esce il pensiero, il come, il quanto, il numero, la velocità, la locazione dei neuroni del lobo frontale o parietale, od occipitale, e loro funzione, quali siano nella massa cinerea o corticale, dove stiano i neuroni-specchio, quelli cioè che facilitano la conoscenza del mio prossimo, se interfacciati da onde elettriche, se e come sia utilizzabile meccanicamente la funzione della corteccia cerebrale, se il cervello nasce con l’innata «grammatica generativa», come suppone Noam Chomsky, di tutto ciò non ho competenza per disquisire. So, però, che la scienza e un prodotto dell’intelligenza. La sapienza? È un sovra-sapere impregnato di sapore divino. Questo io capisco mediante la logica. (Il Giornale, 22 marzo 2010)

 

 


 

 

Come pilotare la Chiesa nella tempesta. Una lezione

 

Pochi l'hanno notato, ma in un momento della bufera che ha investito la Chiesa cattolica sull'onda dello scandalo dato ai "piccoli" da alcuni suoi sacerdoti, Joseph Ratzinger ha fronteggiato la sfida in un modo tutto suo. Con una audace lezione di teologia della storia, non priva di rimandi alla propria biografia di teologo e di papa.

La lezione l'ha rivolta ai pellegrini che gremivano l'aula delle udienze generali, la mattina di mercoledì 10 marzo.

Più volte il papa ha alzato gli occhi dal testo scritto e ha improvvisato. La trascrizione integrale è riprodotta più sotto e va riletta da cima a fondo. Ma alcuni suoi tratti vanno rimarcati da subito.

Al centro della lezione si staglia san Bonaventura da Bagnoregio, dottore della Chiesa, uno dei primi successori di san Francesco alla testa dell'ordine da lui fondato.

E questo è il primo dei tratti autobiografici. Perché è proprio sulla teologia della storia di san Bonaventura che il giovane Joseph Ratzinger pubblicò nel 1959 la sua tesi per la libera docenza in teologia, di recente ristampata.

La novità di quella sua tesi giovanile fu d'aver messo a confronto per la prima volta la teologia della storia di san Bonaventura con quella influentissima di Gioacchino da Fiore.

L'influsso di Gioacchino da Fiore sul pensiero di quel secolo e dei secoli seguenti, sia cristiano che ateo, è stato grandioso, fino ai giorni nostri. Ad esso il teologo Henri De Lubac ha dedicato trent'anni fa un memorabile saggio in due tomi dal titolo: "La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore".

Quando oggi, come reazione allo scandalo di taluni preti, ancora una volta si invoca una purificazione epocale e radicale della Chiesa, un nuovo Concilio che sia "nuovo inizio e rottura", un cristianesimo spirituale fatto di nudo Vangelo senza più gerarchie né precetti né dogmi, che cos'altro si invoca se non l'età dello Spirito annunciata da Gioacchino da Fiore?

Nella sua lezione del 10 marzo scorso, Benedetto XVI ha descritto e attualizzato con rara chiarezza la contrapposizione tra Gioacchino e Bonaventura. Ha mostrato come l'utopia di Gioacchino ha trovato nel Concilio Vaticano II un terreno fertile per riprodursi di nuovo, vittoriosamente contrastata, però, dai "timonieri saggi della barca di Pietro", dai papi che seppero difendere la novità del Concilio e nello stesso tempo la continuità della Chiesa.

Dallo spiritualismo all'anarchia il passo è breve, ha ammonito Benedetto XVI. Era così nel secolo di san Bonaventura ed è così oggi. Per essere governata la Chiesa necessita di strutture gerarchiche, ma a queste deve essere dato un fondamento teologico evidente. È ciò che fece san Bonaventura nel governare l'ordine francescano. Per lui "governare non era semplicemente un fare, ma era soprattutto pensare e pregare. Alla base del suo governo troviamo sempre la preghiera e il pensiero; tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero illuminato dalla preghiera".

Lo stesso – ha detto il papa – deve avvenire oggi nel governo della Chiesa universale: "governare, cioè, non solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime, orientando a Cristo".

È questo il secondo, decisivo, tratto autobiografico della lezione del 10 marzo. In essa Benedetto XVI ha detto come lui intende governare la Chiesa. L'ha detto con la mite umiltà che gli è propria, ponendosi all'ombra di un santo.

Come per san Bonaventura gli scritti teologici e mistici erano "l'anima del governo", così è per l'attuale papa. L'anima del suo governare sono le omelie liturgiche, l'insegnamento ai fedeli e al mondo, il libro su Gesù, insomma, il "pensiero illuminato dalla preghiera". È lì che la struttura gerarchica della Chiesa romana e i suoi atti di governo trovano fondamento e nutrimento. È lì che la Chiesa di papa Benedetto attinge la guarigione dei peccati dei suoi figli e la risposta agli attacchi – non innocenti – che le arrivano da fuori e da dentro.

Ma lasciamo a lui la parola. Ecco qui di seguito la sua catechesi all'udienza generale di mercoledì 10 marzo 2010:

"Non c’è un altro Vangelo più alto, non c’è un'altra Chiesa da aspettare..."

Cari fratelli e sorelle, [...] san Bonaventura, tra i vari meriti, ha avuto quello di interpretare autenticamente e fedelmente la figura di san Francesco d’Assisi, da lui venerato e studiato con grande amore.

In particolar modo, ai tempi di san Bonaventura una corrente di frati minori, detti “spirituali”, sosteneva che con san Francesco era stata inaugurata una fase totalmente nuova della storia, sarebbe apparso il “Vangelo eterno”, del quale parla l’Apocalisse, che sostituiva il Nuovo Testamento.

Questo gruppo affermava che la Chiesa aveva ormai esaurito il proprio ruolo storico, e al suo posto subentrava una comunità carismatica di uomini liberi guidati interiormente dallo Spirito, cioè i “francescani spirituali”.

Alla base delle idee di tale gruppo vi erano gli scritti di un abate cistercense, Gioacchino da Fiore, morto nel 1202. Nelle sue opere, egli affermava un ritmo trinitario della storia. Considerava l’Antico Testamento come età del Padre, seguita dal tempo del Figlio, il tempo della Chiesa. Vi sarebbe stata ancora da aspettare la terza età, quella dello Spirito Santo.

Tutta la storia andava così interpretata come una storia di progresso: dalla severità dell’Antico Testamento alla relativa libertà del tempo del Figlio, nella Chiesa, fino alla piena libertà dei Figli di Dio, nel periodo dello Spirito Santo, che sarebbe stato anche, finalmente, il periodo della pace tra gli uomini, della riconciliazione dei popoli e delle religioni.

Gioacchino da Fiore aveva suscitato la speranza che l’inizio del nuovo tempo sarebbe venuto da un nuovo monachesimo. Così è comprensibile che un gruppo di francescani pensasse di riconoscere in san Francesco d’Assisi l’iniziatore del tempo nuovo e nel suo Ordine la comunità del periodo nuovo: la comunità del tempo dello Spirito Santo, che lasciava dietro di sé la Chiesa gerarchica, per iniziare la nuova Chiesa dello Spirito, non più legata alle vecchie strutture.

Vi era dunque il rischio di un gravissimo fraintendimento del messaggio di san Francesco, della sua umile fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, e tale equivoco comportava una visione erronea del cristianesimo nel suo insieme.

San Bonaventura, che nel 1257 divenne ministro generale dell’ordine francescano, si trovò di fronte ad una grave tensione all’interno del suo stesso ordine a causa appunto di chi sosteneva la menzionata corrente dei “francescani spirituali”, che si rifaceva a Gioacchino da Fiore. Proprio per rispondere a questo gruppo e ridare unità all’ordine, san Bonaventura studiò con cura gli scritti autentici di Gioacchino da Fiore e quelli a lui attribuiti e, tenendo conto della necessità di presentare correttamente la figura e il messaggio del suo amato san Francesco, volle esporre una giusta visione della teologia della storia.

San Bonaventura affrontò il problema proprio nell’ultima sua opera, una raccolta di conferenze ai monaci dello studio parigino, rimasta incompiuta e giuntaci attraverso le trascrizioni degli uditori, intitolata "Hexaemeron", cioè una spiegazione allegorica dei sei giorni della creazione.

I Padri della Chiesa consideravano i sei o sette giorni del racconto sulla creazione come profezia della storia del mondo, dell’umanità. I setti giorni rappresentavano per loro sette periodi della storia, più tardi interpretati anche come sette millenni. Con Cristo saremmo entrati nell’ultimo, cioè il sesto periodo della storia, al quale seguirebbe poi il grande sabato di Dio. San Bonaventura suppone questa interpretazione storica del rapporto dei giorni della creazione, ma in un modo molto libero ed innovativo.

Per lui, due fenomeni del suo tempo rendono necessaria una nuova interpretazione del corso della storia.

Il primo: la figura di san Francesco, l’uomo totalmente unito a Cristo fino alla comunione delle stimmate, quasi un "alter Christus", e con san Francesco la nuova comunità da lui creata, diversa dal monachesimo finora conosciuto. Questo fenomeno esigeva una nuova interpretazione, come novità di Dio apparsa in quel momento.
Il secondo: la posizione di Gioacchino da Fiore, che annunziava un nuovo monachesimo ed un periodo totalmente nuovo della storia, andando oltre la rivelazione del Nuovo Testamento, esigeva una risposta.

Da ministro generale dell’ordine dei francescani, san Bonaventura aveva visto subito che con la concezione spiritualistica, ispirata da Gioacchino da Fiore, l’ordine non era governabile, ma andava logicamente verso l’anarchia.

Due erano per lui le conseguenze.

La prima: la necessità pratica di strutture e di inserimento nella realtà della Chiesa gerarchica, della Chiesa reale, aveva bisogno di un fondamento teologico, anche perché gli altri, quelli che seguivano la concezione spiritualista, mostravano un apparente fondamento teologico.

La seconda: pur tenendo conto del realismo necessario, non bisognava perdere la novità della figura di san Francesco.
Come ha risposto san Bonaventura all’esigenza pratica e teorica? Della sua risposta posso dare qui solo un riassunto molto schematico ed incompleto in alcuni punti.

San Bonaventura respinge l’idea del ritmo trinitario della storia. Dio è uno per tutta la storia e non si divide in tre divinità. Di conseguenza, la storia è una, anche se è un cammino e – secondo san Bonaventura – un cammino di progresso.

Gesù Cristo è l’ultima parola di Dio, in Lui Dio ha detto tutto, donando e dicendo se stesso. Più che se stesso, Dio non può dire, né dare. Lo Spirito Santo è Spirito del Padre e del Figlio. Cristo stesso dice dello Spirito Santo: “Vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Giovanni 14, 26), “prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà” (Giovanni 16, 15).

Quindi non c’è un altro Vangelo più alto, non c’è un'altra Chiesa da aspettare. Perciò anche l’ordine di san Francesco deve inserirsi in questa Chiesa, nella sua fede, nel suo ordinamento gerarchico.

Questo non significa che la Chiesa sia immobile, fissa nel passato e non possa esserci novità in essa. “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt”, le opere di Cristo non vanno indietro, non vengono meno, ma progrediscono, dice il santo nella lettera "De tribus quaestionibus".

Così san Bonaventura formula esplicitamente l’idea del progresso, e questa è una novità in confronto ai Padri della Chiesa e a gran parte dei suoi contemporanei. Per san Bonaventura Cristo non è più, come era per i Padri della Chiesa, la fine, ma il centro della storia; con Cristo la storia non finisce, ma comincia un nuovo periodo.

Un'altra conseguenza è la seguente: fino a quel momento dominava l’idea che i Padri della Chiesa fossero stati il vertice assoluto della teologia, tutte le generazioni seguenti potevano solo essere loro discepole. Anche san Bonaventura riconosce i Padri come maestri per sempre, ma il fenomeno di san Francesco gli dà la certezza che la ricchezza della parola di Cristo è inesauribile e che anche nelle nuove generazioni possono apparire nuove luci. L’unicità di Cristo garantisce anche novità e rinnovamento in tutti i periodi della storia.

Certo, l’ordine francescano – così sottolinea – appartiene alla Chiesa di Gesù Cristo, alla Chiesa apostolica e non può costruirsi in uno spiritualismo utopico. Ma, allo stesso tempo, è valida la novità di tale ordine nei confronti del monachesimo classico, e san Bonaventura [...] ha difeso questa novità contro gli attacchi del clero secolare di Parigi: i francescani non hanno un monastero fisso, possono essere presenti dappertutto per annunziare il Vangelo. Proprio la rottura con la stabilità, caratteristica del monachesimo, a favore di una nuova flessibilità, restituì alla Chiesa il dinamismo missionario.

A questo punto forse è utile dire che anche oggi esistono visioni secondo le quali tutta la storia della Chiesa nel secondo millennio sarebbe stata un declino permanente; alcuni vedono il declino già subito dopo il Nuovo Testamento.

In realtà, “opera Christi non deficiunt, sed proficiunt”, le opere di Cristo non vanno indietro, ma progrediscono. Che cosa sarebbe la Chiesa senza la nuova spiritualità dei cistercensi, dei francescani e domenicani, della spiritualità di santa Teresa d’Avila e di san Giovanni della Croce, e così via?

Anche oggi vale questa affermazione: “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt”, vanno avanti. San Bonaventura ci insegna l’insieme del necessario discernimento, anche severo, del realismo sobrio e dell’apertura a nuovi carismi donati da Cristo, nello Spirito Santo, alla sua Chiesa.

E mentre si ripete questa idea del declino, c’è anche l’altra idea, questo “utopismo spiritualistico”, che si ripete. Sappiamo, infatti, come dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa preconciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente “altra”. Un utopismo anarchico! E grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro, papa Paolo VI e papa Giovanni Paolo II, da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall’altra, nello stesso tempo, hanno difeso l’unicità e la continuità della Chiesa, che è sempre Chiesa di peccatori e sempre luogo di grazia.

In questo senso, san Bonaventura, come ministro generale dei francescani, prese una linea di governo nella quale era ben chiaro che il nuovo ordine non poteva, come comunità, vivere alla stessa “altezza escatologica” di san Francesco, nel quale egli vede anticipato il mondo futuro, ma – guidato, allo stesso tempo, da sano realismo e dal coraggio spirituale – doveva avvicinarsi il più possibile alla realizzazione massima del sermone della montagna, che per san Francesco fu la regola, pur tenendo conto dei limiti dell’uomo, segnato dal peccato originale.

Vediamo così che per san Bonaventura governare non era semplicemente un fare, ma era soprattutto pensare e pregare. Alla base del suo governo troviamo sempre la preghiera e il pensiero; tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero illuminato dalla preghiera. Il suo contatto intimo con Cristo ha accompagnato sempre il suo lavoro di ministro generale e perciò ha composto una serie di scritti teologico-mistici, che esprimono l’animo del suo governo e manifestano l’intenzione di guidare interiormente l’ordine, di governare, cioè, non solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime, orientando a Cristo.

Di questi suoi scritti, che sono l’anima del suo governo e che mostrano la strada da percorrere sia al singolo che alla comunità, vorrei menzionarne solo uno, il suo capolavoro, l’"Itinerarium mentis in Deum", che è un “manuale” di contemplazione mistica.

Questo libro fu concepito in un luogo di profonda spiritualità: il monte della Verna, dove san Francesco aveva ricevuto le stigmate. Nell’introduzione l’autore illustra le circostanze che diedero origine a questo suo scritto: “Mentre meditavo sulle possibilità dell’anima di ascendere a Dio, mi si presentò, tra l’altro, quell’evento mirabile occorso in quel luogo al beato Francesco, cioè la visione del Serafino alato in forma di Crocifisso. E su ciò meditando, subito mi avvidi che tale visione mi offriva l’estasi contemplativa del medesimo padre Francesco e insieme la via che ad esso conduce” ("Itinerario della mente in Dio", Prologo, 2, in "Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici", 1, Roma 1993, p. 499).

Le sei ali del Serafino diventano così il simbolo di sei tappe che conducono progressivamente l’uomo dalla conoscenza di Dio attraverso l’osservazione del mondo e delle creature e attraverso l’esplorazione dell’anima stessa con le sue facoltà, fino all’unione appagante con la Trinità per mezzo di Cristo, a imitazione di san Francesco d’Assisi.

Le ultime parole dell’"Itinerarium" di san Bonaventura, che rispondono alla domanda su come si possa raggiungere questa comunione mistica con Dio, andrebbero fatte scendere nel profondo del cuore: “Se ora brami sapere come ciò (la comunione mistica con Dio) avvenga, interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l’intelletto; il gemito della preghiera, non lo studio della lettera; lo sposo, non il maestro; Dio, non l’uomo; la caligine, non la chiarezza; non la luce, ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio con le forti unzioni e gli ardentissimi affetti... Entriamo dunque nella caligine, tacitiamo gli affanni, le passioni e i fantasmi; passiamo con Cristo Crocifisso da questo mondo al Padre, affinché, dopo averlo visto, diciamo con Filippo: ciò mi basta” (ivi, VII, 6).

Cari amici, accogliamo l’invito rivoltoci da san Bonaventura, il Dottore Serafico, e mettiamoci alla scuola del Maestro divino: ascoltiamo la sua Parola di vita e di verità, che risuona nell’intimo della nostra anima. Purifichiamo i nostri pensieri e le nostre azioni, affinché Egli possa abitare in noi, e noi possiamo intendere la sua voce divina, che ci attrae verso la vera felicità. (Sandro Magister, www.chiesa, 18 marzo 2010)

 

 


 

 

Cosa c'è dietro gli scandali?

 

Si ritorna a parlare di preti pedofili, con voci e accuse che si riferiscono insistentemente alla Germania e tentativi di coinvolgimento di persone vicine al Papa, e credo che anche la sociologia abbia molto da dire e che non debba tacere per il timore di scontentare qualcuno. La discussione attuale sui preti pedofili – considerata dal punto di vista del sociologo – rappresenta un esempio tipico di «panico morale». Il concetto è nato negli anni 1970 per spiegare come alcuni problemi siano oggetto di una «ipercostruzione sociale».

Più precisamente, i «panici morali» sono stati definiti come problemi socialmente costruiti, e caratterizzati da una amplificazione sistematica dei dati reali, sia nella rappresentazione mediatica sia nella discussione politica. Altre due caratteristiche sono state citate come tipiche dei «panici morali». In primo luogo, problemi sociali che esistono da decenni sono ricostruiti nelle narrative mediatiche e politiche come «nuovi», o come oggetto di una presunta e drammatica crescita recente. In secondo luogo, la loro incidenza è esagerata da statistiche folkloriche che, benché non confermate da studi accademici, sono ripetute da un mezzo di comunicazione all’altro e possono ispirare campagne mediatiche persistenti.

Philip Jenkins ha sottolineato il ruolo nella creazione e gestione dei panici di «imprenditori morali» le cui agende non sono sempre dichiarate. I «panici morali» non fanno bene a nessuno. Distorcono la percezione dei problemi e compromettono l’efficacia delle misure che dovrebbero risolverli. A una cattiva analisi non può che seguire un cattivo intervento. Intendiamoci: i «panici morali» hanno ai loro inizi condizioni obiettive e pericoli reali. Non inventano l’esistenza di un problema, ma ne esagerano le dimensioni statistiche. In una serie di pregevoli studi lo stesso Jenkins ha mostrato come la questione dei preti pedofili sia forse l’esempio più tipico di un «panico morale». Sono presenti infatti i due elementi caratteristici: un dato reale di partenza, e un’esagerazione di questo dato ad opera di ambigui «imprenditori morali».

Anzitutto, il dato reale di partenza. Esistono preti pedofili. Alcuni casi sono insieme sconvolgenti e disgustosi, hanno portato a condanne definitive e gli stessi accusati non si sono mai proclamati innocenti. Questi casi – negli Stati Uniti, in Irlanda, in Australia – spiegano le severe parole del Papa e la sua richiesta di perdono alle vittime. Anche se i casi fossero solo due – e purtroppo sono di più – sarebbero sempre due casi di troppo. Dal momento però che chiedere perdono – per quanto sia nobile e opportuno – non basta, ma occorre evitare che i casi si ripetano, non è indifferente sapere se i casi sono due, duecento o ventimila. E non è neppure irrilevante sapere se il numero di casi è più o meno numeroso tra i sacerdoti e i religiosi cattolici di quanto sia in altre categorie di persone. I sociologi sono spesso accusati di lavorare sui freddi numeri dimenticando che dietro ogni numero c’è un caso umano.

Ma i numeri, per quanto non siano sufficienti, sono necessari. Sono il presupposto di ogni analisi adeguata. Per capire come da un dato tragicamente reale si sia passati a un «panico morale» è allora necessario chiedersi quanti siano i preti pedofili. I dati più completi sono stati raccolti negli Stati Uniti, dove nel 2004 la Conferenza episcopale ha commissionato uno studio indipendente al John Jay College of Criminal Justice della City University of New York, che non è un’università cattolica ed è unanimemente riconosciuta come la più autorevole istituzione accademica degli Stati Uniti in materia di criminologia.

Questo studio ci dice che, dal 1950 al 2002, 4392 sacerdoti americani (su oltre 109.000) sono stati accusati di relazioni sessuali con minorenni. Di questi poco più di un centinaio sono stati condannati da tribunali civili. Il basso numero di condanne da parte dello Stato deriva da diversi fattori. In alcuni casi le vere o presunte vittime hanno denunciato sacerdoti già defunti, o erano scattati i termini della prescrizione. In altri, all’accusa e anche alla condanna canonica non corrisponde la violazione di alcuna legge civile: è il caso, per esempio, in diversi Stati americani del sacerdote che abbia una relazione con una – o anche un – minorenne oltre i 16 anni e consenziente.

Ma ci sono anche stati molti casi clamorosi di sacerdoti innocenti accusati. Questi casi si sono anzi moltiplicati negli anni 1990, quando alcuni studi legali hanno capito di poter strappare transazioni milionarie anche sulla base di semplici sospetti. Gli appelli alla «tolleranza zero» sono giustificati, ma non ci dovrebbe essere nessuna tolleranza neanche per chi calunnia sacerdoti innocenti. Aggiungo che per gli Stati Uniti le cifre non cambierebbero in modo significativo se si aggiungesse il periodo 2002-2010, perché già lo studio del John Jay College notava il «declino notevolissimo» dei casi negli anni 2000.

Le nuove inchieste sono state poche, e le condanne pochissime, a causa di misure rigorose introdotte sia dai vescovi statunitensi sia dalla Santa Sede. Lo studio del John Jay College dice forse, come si legge spesso, che il 4% dei sacerdoti americani sono «pedofili»? Niente affatto. Secondo quella ricerca il 78,2% delle accuse si riferisce a minorenni che hanno superato la pubertà. Avere rapporti sessuali con una diciassettenne non è certamente una bella cosa, tanto meno per un prete: ma non si tratta di pedofilia. Dunque i sacerdoti accusati di effettiva pedofilia negli Stati Uniti sono 958 in 42 anni, 18 all’anno.

Le condanne sono state 54, poco più di una all’anno. Il numero di condanne penali di sacerdoti e religiosi in altri Paesi è simile a quello degli Stati Uniti, anche se per nessun Paese si dispone di uno studio completo come quello del John Jay College. Si citano spesso una serie di rapporti governativi in Irlanda che definiscono «endemica» la presenza di abusi nei collegi e negli orfanotrofi (maschili) gestiti da alcune diocesi e ordini religiosi, e non vi è dubbio che casi di abusi sessuali su minori anche molto gravi in questo Paese vi siano stati. Lo spoglio sistematico di questi rapporti mostra peraltro come molte accuse riguardino l’uso di mezzi di correzione eccessivi o violenti. Il cosiddetto Rapporto Ryan del 2009 – che usa un linguaggio molto duro nei confronti della Chiesa cattolica – su 25.000 allievi di collegi, riformatori e orfanotrofi nel periodo che esamina riporta 253 accuse di abusi sessuali da parte di ragazzi e 128 da parte di ragazze, non tutte attribuite a sacerdoti, religiosi o religiose, di diversa natura e gravità, raramente riferite a bambini prepuberi e che ancor più raramente hanno condotto a condanne.

Le polemiche di queste ultime settimane riguardanti situazioni sorte in Germania e Austria mostrano una caratteristica tipica dei «panici morali»: si presentano come «nuovi» fatti risalenti a molti anni or sono, in alcuni casi addirittura a oltre trent’anni fa, e in parte già noti. Il fatto che – con una particolare insistenza su quanto tocca l’area geografica bavarese, da cui proviene il Papa – siano presentati sulle prime pagine dei giornali avvenimenti degli anni 1980 come se fossero avvenuti ieri, e ne nascano capziose polemiche, nella forma di un attacco concentrico che ogni giorno annuncia in stile urlato nuove «scoperte», mostra bene come il «panico morale» sia promosso da «imprenditori morali» in modo organizzato e sistematico.

Il caso che – come alcuni giornali hanno titolato – «coinvolge il Papa» è a suo modo da manuale. Si riferisce a un episodio in cui un sacerdote di Essen, già colpevole di abusi, fu accolto nell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga, di cui era arcivescovo l’attuale Pontefice, risale infatti al 1980. Il caso è emerso nel 1985 ed è stato giudicato da un tribunale tedesco nel 1986, accertando tra l’altro che la decisione di accogliere nell’arcidiocesi il sacerdote in questione non era stata presa dal cardinale Ratzinger e non gli era neppure nota, il che non è strano in una grande diocesi con una complessa burocrazia.

Perché oggi un quotidiano tedesco decida di riesumare il caso, e sbatterlo in prima pagina 24 anni dopo la sentenza, dovrebbe essere messo in questione. Una domanda sgradevole – perché il semplice porla sembra difensivo, e non consola le vittime – ma importante è se essere un prete cattolico sia una condizione che comporta un rischio di diventare pedofilo o di abusare sessualmente di minori – le due cose, come si è visto, non coincidono perché chi abusa di una sedicenne non è un pedofilo – più elevato rispetto al resto della popolazione.

Rispondere a questa domanda è fondamentale per scoprire le cause del fenomeno e quindi per prevenirlo. Secondo gli studi di Jenkins, se si paragona la Chiesa cattolica degli Stati Uniti alle principali denominazioni protestanti si scopre che la presenza di pedofili è – a seconda delle denominazioni – da due a 10 volte più alta tra i pastori protestanti rispetto ai preti cattolici. La questione è rilevante perché mostra che il problema non è il celibato: la maggior parte dei pastori protestanti è sposata. Nello stesso periodo in cui un centinaio di sacerdoti americani era condannato per abusi sessuali su minori, il numero di professori di ginnastica e allenatori di squadre sportive giovanili – anche questi in grande maggioranza sposati – giudicato colpevole dello stesso reato dai tribunali statunitensi sfiorava i seimila.

Gli esempi potrebbero continuare, e non solo negli Stati Uniti. Soprattutto, stando ai periodici rapporti del governo americano, due terzi circa delle molestie sessuali su minori non vengono da estranei o da educatori – preti e pastori protestanti compresi – ma da familiari: patrigni, zii, cugini, fratelli e purtroppo anche genitori. Dati simili esistono per numerosi altri Paesi. Per quanto sia poco politicamente corretto dirlo, c’è un dato che è assai più significativo: per oltre l’80% i pedofili sono omosessuali, maschi che abusano di altri maschi. E – per citare ancora una volta Jenkins – oltre il 90% dei sacerdoti cattolici condannati per abusi sessuali su minori e pedofilia è omosessuale. Se nella Chiesa cattolica può esserci stato effettivamente un problema, questo non riguarda il celibato ma una certa tolleranza dell’omosessualità, in particolare nei seminari negli anni Settanta, quando veniva ordinata la grande maggioranza di sacerdoti poi condannati per gli abusi. È un problema che Benedetto XVI sta vigorosamente correggendo.

Più in generale il ritorno alla morale, alla disciplina ascetica, alla meditazione sulla vera, grande natura del sacerdozio sono l’antidoto ultimo alle tragedie vere della pedofilia. Anche a questo deve servire l’Anno sacerdotale. Rispetto al 2006 – quando la Bbc mandò in onda il documentario-spazzatura del parlamentare irlandese e attivista omosessuale Colm O’Gorman – e al 2007 – quando Santoro ne propose la versione italiana su Annozero – non c’è, in realtà, molto di nuovo, fatta salva l’accresciuta severità e vigilanza della Chiesa.

I casi dolorosi di cui più si parla in queste settimane non sono sempre inventati, ma risalgono appunto a venti o anche a trent’anni fa. O, forse, qualche cosa di nuovo c’è. Perché riesumare nel 2010 casi vecchi o molto spesso già noti, al ritmo di uno al giorno, attaccando sempre più direttamente il Papa – un attacco, per di più, paradossale se si considera la grandissima severità del cardinale Ratzinger prima e di Benedetto XVI poi su questo tema? Gli «imprenditori morali» che organizzano il panico hanno un’agenda che emerge sempre più chiaramente, e che non ha veramente al suo centro la protezione dei bambini. La lettura di certi articoli ci mostra come lobby molto potenti cercano di squalificare preventivamente la voce della Chiesa con l’accusa più infamante e oggi purtroppo anche più facile, quella di favorire o tollerare la pedofilia. (Massimo Introvigne, Avvenire 18 Marzo 2010)

 

 


 

 

E morto Dio… vennero gli dei

 

«Un più alto spirito mandato dal cielo deve fondare fra noi questa nuova religione, l’ultima e più grande opera dell’umanità» scrivevano i giovani Hegel, Schelling, Hölderlin, in una sorta di programma filosofico-politico steso nel 1796, all’indomani della crisi degli ideali illuministici che il corso della rivoluzione in Francia aveva provocato negli animi di quasi tutta Europa. Essi auspicavano il sorgere di una «nuova mitologia» capace, dopo il declino della fede tradizionale, di accordare nuovamente tra loro intellettuali e popolo. Pochi anni dopo Friedrich Schlegel facendo eco a questo imperativo profetico affermava che una mitologia «siamo prossimi ad averla, o, piuttosto, s’avvicina il momento nel quale dobbiamo seriamente adoprarci a crearne una».
L’epoca dei miti è l’epoca del declino del cristianesimo dalla scena europea. Dagli inizi dell’800 sino a tutto il nostro secolo una schiera di pensatori, di artisti, di poeti viene vagheggiando una nuova fede, che non è semplicemente quella illuministico-rivoluzionaria (e poi marxista) animata dall’idea di progresso e volta verso il futuro di un’umanità redenta, bensì mossa dal desiderio di far rivivere gli dei dopo la «morte di Dio». Dalla mitologia germanica di Wagner (sia pure mitigata da elementi cristiani), al Dioniso di Nietzsche, a «Il mito del XX secolo» di Rosenberg, il filosofo del nazismo, è tutto un proliferare di immagini, di richiami, dal sapere vedico a quello celtico, che hanno un valore «sostitutivo». Quella che possiamo chiamare la variante di destra dell’«epoca della secolarizzazione» non si accontenta infatti della scomparsa del Dio cristiano, che pure combatte; ne vuole superare il vuoto che rimane conservando il senso del «sacro», della sacralità del mondo: di qui la funzione del mito. Esso «sostituisce» la fede cristiana impedendone la rinascita e bloccando al contempo l’esito necessario del processo di secolarizzazione verso il nichilismo. La realizzazione massima della capacità persuasiva ed ottundente del mito la si è avuta senza dubbio nella Germania dei dodici anni nazionalsocialisti. Qui nel suo coniugarsi con la politica, in quella che G. Mosse ha chiamato «l’estetica della politica», il mito si è fatto liturgia — nelle incredibili adunate nello stadio di Norimberga —, culto attorno all’unico Capo. La sconfitta del Reich e la fine della guerra hanno segnato in Europa l’emergenza della variante di sinistra dell’epoca della secolarizzazione, dal neoillumismo al marxismo, una mentalità de-mitizzante che privilegia l’utopia volta al futuro e relativamente povera di immagini. La crisi di questo pensiero nel periodo che segue al ‘68 coincide con una ripresa dell’opera di Nietzsche, quale profeta del «nichilismo», e di Heidegger per il quale il nichilismo occidentale concludendosi lascia ormai intravedere un nuovo spazio per il sacro come tale. E in questo clima, di declino del messianesimo marxista, di crisi del cristianesimo e di esigenza di nuove fedi che si inquadra il fenomeno di rinascita di una «Nouvelle Droite» in Francia. Come ha scritto J.-M. Domenach: «Tutto si svolge come se questi europei, dopo aver riposto le proprie speranze nel cielo (religioni verticali) e poi nella terra (religioni orizzontali), ritornassero alle religioni telluriche, al culto degli eroi morti e delle tradizioni sepolte». Questo avvenimento di cui recentemente, a partire dal 1979, si è occupata anche la stampa francese ed italiana è inquietante per almeno due fattori: per la diversità rappresentata rispetto alla destra tradizionale e classica, per il rapporto con il cristianesimo. Nei riguardi di quest’ultimo è certo che esso, più ancora che le ideologie di sinistra, viene rappresentato come il nemico principale. Già ai tempi della rivista «Europe-Action» (1963-66), uno dei periodici che costituiranno la fucina della nuova destra, gli argomenti anticristiani sono presenti. Questa tendenza si radicalizza con la fondazione del Grece (Groupment de Recherche d’etudes pour la Civilisation Européenne) nel 1969. Così la casa editrice dell’associazione — Copernic — edita opere anticristiane come L. Rougier, Celse contre les chrétiens; Id., Le conflit du christianisme primitif et de la civilisation antique; E. Renan, Judaism et Christianisme. Sulle consuetudini e tradizioni precristiane esce nel 1975 Les Solstices. Histoire et actualité di Jean Mabire e Pierre Vial sulle pratiche solstiziali europee; nel 1983 Alain di Benoist e Pierre Vial pubblicano il volume La mort. Tradition populaires / Histoire et actualité. In Italia d’altra parte la «nuova destra» italiana gli fa eco e la casa editrice AR dedica una collana («Paganitas») ai polemisti anticristiani antichi (Giuliano Imperatore, Celso, Porfirio) unitamente agli scritti di J. Evola sulla romanità tra cui L’imperialismo pagano. Se il filone italiano dipende nella sua critica al cristianesimo proprio da Evola quello francese è più direttamente influenzato da Nietzsche. Qui il vero e proprio organizzatore e ideologo del movimento è sicuramente Alain de Benoist, nato a Parigi nel 1942, collaboratore del «Figaro Magazine», autore di numerose opere tra cui ultimamente Comment peut-on être païen?, Paris 1981 («Come si può essere pagani?», tr. it., Basaia ed., Roma 1984) riguarda direttamente il nostro tema.

«Per chi considera con Nietzsche che la cristianizzazione dell’Europa [...] fu uno degli avvenimenti più disastrosi di tutta la storia fino ai nostri giorni — una catastrofe nel senso proprio del termine — che può significare oggi la parola “paganesimo”?» (p. 11). Questa domanda costituisce come la premessa all’intero scritto. Questo, che nell’insieme sta sotto la manifesta influenza di Nietzsche citato copiosamente, si prefigge di chiarire il senso di un paganesimo dopo il cristianesimo, di un paganesimo cioè che al di là di ogni intenzione non può più ripresentarsi nella sua immediatezza ma deve giocoforza assumere una nuova veste. Come avverte l’Autore poiché il «ritorno all’anteriore» è «impraticabile» ne consegue che «un nuovo paganesimo deve essere veramente nuovo» (p. 192). Per de Benoist ormai «non v’è bisogno di “credere” in Giove o in Wotan — [...] — per essere pagani. Il paganesimo oggi non consiste nell’innalzare altari ad Apollo o nel resuscitare il culto di Odino. Implica, invece il ricercare dietro la religione» l’«universo interiore cui essa rinvia». In «breve, implica il considerare gli dei come “centri di valori”», gli «dei e le credenze passano, ma i valori permangono» (pp. 23-24). La fede pagana ê allora una fede in divinità ridotte a simboli, una fede che richiama quella di tipo ellenistico cui il testo non a caso rinvia come possibile modello (pp. 193-195).

Qual è l’essenza di questo paganesimo per il quale gli dei, post-cristianamente, non possono più essere reali? Per de Benoist essa consiste nella sacralizzazione del mondo mediante i miti. Il paganesimo cioè, nei confronti del cristianesimo accusato di aver desacralizzato e demitizzato il mondo, si presenta come un’«altra spiritualità» più forte e più intensa: per essa il mondo non è separato da Dio ma è esso stesso divino. Qui sta secondo l’ideologo francese il vero punto di separazione tra paganesimo e cristianesimo, nel «dualismo» che caratterizza la posizione cristiana circa i rapporti Dio-mondo, per la differenza qualitativa che frappone tra uomo e Dio, differenza che viene invece a togliersi nella mitologia pagana per la quale il divino non è altro che la proiezione sublimata dell’umano. Il mondo paganamente inteso, come ciò che in se stesso è divino, è allora eterno, non ha né inizio né fine, è l’assoluta presenza dell’essere parmenideo. Questa sacralità del mondo non è però intesa da de Benoist alla maniera ad es. di Goethe o di Hölderlin, come splendore che promana dall’essere, bensì, dopo Nietzsche, come opera mitologizzante da parte dell’uomo, come creazione-trasfigurazione della volontà di potenza. La realtà infatti in sé non è che vuoto caos di fronte a cui si erge, sartrianamente e nietzschianamente, la libertà come assoluto creatore di forme, come energia che plasma il mondo secondo la misura del proprio volere. L’idea di un «cosmo», di un ordine in senso classico che la ragione e chiamata a «riconoscere», è qui definitivamente perduta.

In effetti il paganesimo di de Benoist è molto più la ripetizione del neopaganesimo nietzschiano che non quella del mondo precristiano, è un paganesimo cioè che si costituisce dialetticamente, mediante l’antitesi al cristianesimo e non già per forma propria ed originale. In ciò d’altra parte risiede la caratteristica propria del mito in senso moderno, nella sua volontà di superamento del cristianesimo senza però poter esser creduto nella sua verità: il mito nell’epoca post-cristiana è inevitabilmente ideologia. «Il paganesimo dell’avvenire — annunciato dal leader della “Nouvelle Droite” — sarà un paganesimo faustiano» (p. 192). Faust e, molto prima di lui, Caino, sono i prototipi di questa nuova umanità che trova il suo fondamento nella «volontà della volontà», nella volontà che vuole solo se stessa e che si afferma al di là di ogni norma, al di là del bene e del male. Il cuore del paganesimo starebbe infatti, Secondo l’Autore, nel senso della innocenza del mondo, nell’ignoranza felice di una colpa originaria, nel rifiuto della distinzione morale bene-male a favore di quella per cui è bene ciò che accresce la potenza e male ciò che la diminuisce. Nel campo della politica ciò significa, in accordo all’«ideologia del paganesimo indo-europeo» la fine dell’«antagonismo biblico tra la morale o il diritto e la sovranità politica» (p. 161). Qui le relazioni che dominano la scena sono «organiche» all’interno dello Stato e, come vuole Carl Schmitt, basate sul rapporto amico-nemico all’esterno. Nel campo della potenza la conflittualità è la norma. Le torbide immagini nietzschiane sull’uomo guerriero ed eraclitee sulla guerra madre di tutte le cose tornano enfaticamente in de Benoist. Di contro al «monoteismo giudeo-cristiano» il quale esige «l’estinzione dei conflitti, senza rendersi conto che la struttura conflittuale è quella stessa del vivente e che la sua estinzione implica l’entropia e la morte, il paganesimo europeo poggia su di un pluralismo antagonista di valori» (p. 164). Il paganesimo sacralizzerebbe così la lotta poiché «la contraddizione è il motore stesso della vita, il desiderio di farla sparire è un desiderio di morte» (p. 163). In questa concezione agonale che fa della lotta l’essenza stessa della vita risiede anche il tragico. Questi non muove però alla compassione o allo scoramento: «Il tragico implica una volontà di misurarsi col tempo, ben sapendo che questo alla fine vincerà, senza mai trovare nella certezza della caduta finale — la morte — il minimo pretesto per rinunciare» (p. 179). Questo «pessimismo della forza», che caratterizza la destra europea dopo Nietzsche, non è casuale ma emerge in rapporto al problema dell’ateismo. Mentre il pensiero pessimistico precedente a Nietzsche (Leopardi, Schopenhauer), apre in una qualche misura ad una prospettiva religiosa, la volontà nietzschiana di trarre ogni possibile conseguenza dall’opzione atea, impedisce, coniugando assieme pessimismo ed attivismo, un simile sbocco.

Quest’uomo, «esserci-per-la-morte» in senso heideggeriano, pura misura di se stesso, non ha un’«essenza» universale. Il paganesimo come politeismo diventa nella sua forma concettuale moderna sinonimo di nominalismo. La «svolta nominalista», cui era dedicato il numero dell’agosto ‘79 di «Nouvelle Ecole», la rivista teorica del gruppo, rappresenta anch’essa una logica conseguenza della posizione nietzschiana. Se non esiste più una verità obiettiva ma fondamento di tutto è la volontà di potenza, allora i concetti non sono che vuoti nomi con cui plasmiamo a piacere il mondo, essi non decifrano più nulla poiché nulla v’è da decifrare (con ciò la «NouveIle Droite» si separa anche dalla destra tradizionale, dallo stesso Evola, nella misura in cui questa conserva l’idea di una verità eterna). Lo stesso termine «uomo» non rimanderà più a nulla, non esiste più l’uomo come «immagine di Dio», ma solo una molteplicità di atomi in perenne lotta tra di loro. Viene meno così l’idea di universali diritti dell’uomo, cui l’Autore ha dedicato un saggio critico (A. de Benoist - G. Faye, La religion des droits de l’homme, in «Elements», gennaio-marzo 1981), nonché l’idea di uguaglianza, fondata sul presupposto che tutti gli uomini siano eguali di fronte a Dio. L’apologia della diversità e della differenza copre qui l’esaltazione dei più dotati, intellettualmente e fisicamente, di una «aristocrazia» che coincide perfettamente con l’ideale del superuomo nietzschiano. L’uomo — si afferma in Come si può essere pagani? — deve ambire «a diventare come gli dei», l’uomo «non deve soltanto essere se stesso, essere conforme alla propria “natura”, deve anche cercare di darsi una “supernatura”, di acquistare una sovrumanità» (p. 203). L’interesse per le scienze, coltivato dalla «Nouvelle Droite», dalla genetica, alla biologia (J. Monod), sociobiologia (E.O. Wilson), etologia (K. Lorenz), è finalizzato proprio, mediante la dimostrazione delle diversità innate e costitutive degli individui, a fondare questa «elite» antropologica. Il nuovo paganesimo appare così molto vicino a quello passato, nazionalsocialista, il cui capo non a caso viene esaltato da de Benoist come «l’ultimo rappresentante della grande politica classica». Il fascino vuoto e cupo che da esso promana non ha tratto lezione dal dramma immane che ha insanguinato l’Europa e il mondo negli anni ‘40. Il nuovo «mito del XX secolo» riemerge inquietante all’insegna del disprezzo di Abele e dell’esaltazione di Caino come una delle due fedi secolari, affatto estinta, dello spirito europeo nell’epoca della secolarizzazione. (Massimo Borghesi, «30Giorni», anno II, n. 7, luglio 1984)

 

 

 


 

21 Marzo 2010

 

Messaggi mediatici a sfondo sessuale, pericolosi per i giovani

 

I messaggi e le immagini nei media, di natura sessuale e che incitano a comportamenti licenziosi, costituiscono una minaccia per i giovani, sostiene un rapporto pubblicato dal Ministero dell’Interno del Regno Unito.

L'Home Office britannico ha incaricato una psicologa indipendente, la dottoressa Linda Papadopoulos, di esaminare l’impatto derivante da una cultura altamente sessualizzata. L’iniziativa rientra nell’ambito della politica del Governo diretta a contenere i fenomeni di violenza contro le donne.

“Per cambiare i comportamenti ci vuole del tempo, ma è fondamentale se vogliamo arrestare la violenza contro le donne e le ragazze”, ha osservato il Ministro dell’Interno Alan Johnson nel comunicato stampa del 26 febbraio che accompagna il rapporto.

Sia il Partito laburista al Governo che il principale partito di opposizione, quello conservatore, sono preoccupati per l’impatto che la cultura contemporanea esercita sui giovani. Prima della pubblicazione del rapporto, il leader del Partito conservatore, David Cameron, si era detto favorevole ad una stretta sulle pubblicità irresponsabili destinate ai minori, secondo quanto riferito dalla BBC il 26 febbraio.

Nel rapporto, intitolato “Sexualization of Young People: Review”, la dottoressa Papadopoulos ha spiegato che la sua ricerca rientra nell’ambito di una consultazione finalizzata ad accrescere la consapevolezza sui problemi della violenza contro le donne e le ragazze. In particolare, la sua ricerca riguarda la questione del nesso tra una cultura sessualizzata e la violenza.

“Le donne sono apprezzate – e premiate – per i loro attributi fisici e, sia le ragazze, che i ragazzi, sin da un’età sempre più precoce, sono spinti a emulare gli stereotipi sessuali estremizzati”, osserva il rapporto.

Nello studio, la sessualizzazione è definita come “l’imposizione di una sessualità adulta sui bambini e sui giovani, prima che questi siano diventati capaci di gestirla, mentalmente, emotivamente o fisicamente”.

L’uso di immagini sessuali nei media non è certamente un fenomeno recente, ammette il rapporto. Tuttavia, negli ultimi anni abbiamo assistito a un inedito incremento nella loro frequenza. Inoltre, i bambini vengono oggi descritti più spesso secondo criteri adulti, mentre le donne vengono infantilizzate.

“Questo porta a un offuscamento del confine tra maturità e immaturità sessuale, con la conseguenza di una legittimazione dell’idea secondo cui i bambini possono essere considerati come oggetti sessuali”, sottolinea il testo.

Per quanto riguarda i bambini, una preoccupazione evidenziata nel rapporto è che a un’età precoce, le capacità cognitive necessarie a gestire adeguatamente le incalzanti immagini mediatiche non sono ancora sviluppate. In aggiunta a questa incapacità di gestire tali immagini, la natura pervasiva di una cultura sessualizzata implica che i bambini siano frequentemente esposti a contenuti che non sono appropriati per la loro età.

Il rapporto osserva che uno dei temi dominanti, nelle riviste più diffuse, è che le ragazze devono presentarsi in modo sessualmente attraente per essere apprezzate dai ragazzi. Questo è vero anche per i bambini, che vengono incoraggiati a vestirsi in modo da attirare l’attenzione su attributi sessuali che peraltro ancora non possiedono.

Per esempio, le bambole sono presentate in modo notevolmente sessualizzato. Oggetti come astucci per le matite o quaderni riportano il logo di Playboy. La biancheria intima opportunamente imbottita viene commercializzata e venduta anche a bambini di otto anni.

Per quanto riguarda i ragazzi, il messaggio predominante è che devono essere sessualmente dominanti e trattare il corpo femminile come un oggetto.

Nella televisione, nel cinema e nella musica, oltre che nella carta stampata, tutto dipinge i giovani secondo questo messaggio ipersessualizzato, osserva il rapporto.

Una delle conseguenze che può derivare dalle continue pressioni sui giovani per conformarsi a tali immagini stereotipate è quella di una permanente insoddisfazione nei confronti del proprio corpo e di una scarsa autostima. A sua volta, questo può ingenerare forme di depressione e di disordine alimentare come l’anoressia. Ma le giovani donne stanno anche ricorrendo sempre più spesso alla chirurgia estetica, spinte dalla pressione a conformarsi a un immagine idealizzata.

I bambini e gli adolescenti sono esposti anche a un ingente volume di contenuti mediatici di natura esplicitamente sessuale o persino pornografica, aggiunge Papadopoulos. La facilità di accedere a Internet e di ricevere materiali via e-mail o sui telefoni cellulari, rende difficile contenere questo afflusso.

D’altra parte l’industria del sesso è ormai entrata nella grande diffusione ed è diventata parte integrante della cultura quotidiana, osserva il rapporto. Gli annunci di lavoro regolarmente comprendono anche quelli di agenzie di escort, di club di lap dance, di luoghi di prostituzione e di canali televisivi sessuali.

“Il fatto che, sia nella cultura popolare, che in quella delle celebrità, le donne sono normalmente apprezzate e celebrate per il loro sex appeal e il loro aspetto – con scarsi riferimento al loro intelletto o alle loro capacità – costituisce un potente messaggio per i giovani su cosa considerare di valore e su cosa doversi concentrare”, osserva il rapporto.

Come conseguenza di questo, molti giovani pubblicano nelle proprie pagine Web, foto esplicitamente sessuali di se stessi e usano spesso con i loro coetanei un linguaggio sprezzante e degradante, afferma il rapporto.

La sessualizzazione delle ragazze contribuisce anche ad alimentare il mercato della pedofilia, secondo il rapporto. Molte ragazze si espongono in evidenti pose sessualmente provocanti per farsi vedere dai propri coetanei attraverso i social network, le e-mail o i cellulari.

“Sono gli stessi giovani ora a produrre e a far circolare ciò che in effetti è ‘pornografia minorile’ – un fatto che emerge dal crescente numero di adolescenti condannati per possesso di questi materiali”, osserva il rapporto.

Per quanto riguarda la correlazione tra sessualizzazione e violenza contro le donne, il rapporto cita una ricerca da cui risulta che gli adulti che fruiscono di immagini di donne trattate come oggetti sessuali sono più propensi ad accettare la violenza.

“Gli elementi raccolti in questo studio evidenziano un chiaro nesso tra il consumo di immagini sessuali, la tendenza a fruire di immagini di donne-oggetto e l’accettazione di atteggiamenti e comportamenti aggressivi come normali”, aggiunge il rapporto.

La dottoressa Papadopoulos richiama anche un recente sondaggio che mostra come, per molti giovani, la violenza all’interno di un rapporto è normale. Nel gruppo di età tra i 13 e i 17 anni, una ragazza su tre era stata costretta ad atti sessuali non voluti, nell’ambito di una relazione, mentre una su quattro aveva subito violenza fisica.

Dalla ricerca citata nel rapporto risulta anche che le pubblicità, nell’incoraggiare i maschi a considerare le donne principalmente come esseri sessuali, promuovono una mentalità in cui le donne sono considerate come subordinate e quindi come possibili obiettivi di violenza sessuale.

“L’immagine continuamente riproposta, dell’uomo dominante e aggressivo e della donna subordinata e degradata, verosimilmente continua ad alimentare le violenze contro le donne”, afferma il rapporto.

Il rapporto conclude facendo appello alle persone, perché prendano coscienza del fatto che la sessualizzazione è una questione di grande importanza, con pesanti conseguenze per gli individui, le famiglie e la società. Studi analoghi, svolti negli Stati Uniti e in Australia, sono giunti alle stesse conclusioni, sottolinea il rapporto, pur auspicando maggiori ricerche su questo fenomeno. Il rapporto termina con un elenco di 36 raccomandazioni su come gestire la sessualizzazione.

Oltre che in rapporti come questo, pubblicato di recente dal Ministero dell’Interno britannico, l’opposizione alla sessualizzazione della cultura contemporanea sta crescendo anche tra la gente comune.

Un esempio in questo senso viene dall’Australia, dove il sito Internet Collective Shout offre una piattaforma interattiva per persone o gruppi che vogliono adoperarsi contro le aziende e i media che promuovono la donna-oggetto e la sessualizzazione delle ragazze per vendere i loro prodotti e servizi.

In definitiva, la maggiore regolamentazione forse non serve a risolvere problemi come lo svilimento della sessualità. Ciò che sarebbe veramente necessario è un cambiamento nell’opinione pubblica, su larga scala, innescato da una rivolta contro lo sfruttamento della donna, da parte delle molte persone che sono stufe di dover accettare la continua degradazione della dignità umana. (John Flynn, Zenit, 15 marzo 2010)

 

 


 

 

La televisione è uno strumento neutro?

 

La televisione è uno strumento neutro? Proprio no! E’ bene uscire dal dubbio: non si tratta di un giudizio religioso o filosofico, ma di difendere il diritto alla privacy. Sembra un assurdo: la privacy è in pericolo quando qualcuno ti spia, come avveniva nel famoso 1984 di G Orwell o in Fahreneit 451 di R Bradbury, e la TV non ci spia di certo, tant’è che “Il grande fratello” oggi è un format inoffensivo, e non l’occhio che penetra nelle case a frugare i pensieri dei cittadini.

Ma è proprio così? In realtà la televisione ha un unico difetto: c’è. Sta lì. E’ una parte dell’arredamento del salotto e di tante altre stanze. E’ indispensabile. Non è indispensabile come strumento di informazione o di svago. E’ indispensabile come oggetto. Ognuno sa dov’è in casa propria, spesso con maggior certezza che dove si trova un certo tavolo o un certo quadro. E’ il centro dell’attività della casa, perché spesso ne è il sottofondo sonoro, è quello che i bambini guardano appena si svegliano e hanno gli occhi ancora semichiusi, o quello con cui tanti adulti si addormentano.

E’ una compagnia per tante persone sole, e una baby-sitter perfetta. Ma è ipnotica; dà crisi d’astinenza, influenza l’attività elettrica del cervello. Ha una capacità di attrazione tale da non far sentire il dolore di una puntura, cosa che abbiamo noi stessi dimostrato scientificamente pochi anni or sono. E soprattutto: c’è. E’ lì. E’ una certezza. Telefilm grossolani e violenza gratuita non sono nulla in confronto a questo starci, a questo campeggiare come un trofeo o un’urna di un santo.

“E allora?”, qualcuno dirà “Ma qual è il problema?” Risposta: semplicemente che c’è lei e non c’è altro. La TV sarebbe neutra in un mondo ideale, dove i genitori fanno i genitori, sono presenti; dove quando i bambini si svegliano possono guardare il sole che sorge o la nebbia o fare quattro chiacchiere; dove quando si torna a casa c’è un tavolo intorno cui fare una partita a tressette o un bar dove parlare di caccia, pesca e figli. Ma tutto questo non c’è. E la televisione campeggia col flusso di parole di cui non possiamo far a meno pur non ascoltandole e non scegliendole.

Ascoltiamo e vediamo tutto: la prima cosa che capita pur di “rilassarci”. E anche le trasmissioni “intelligenti” e “utili” crollano d’intelligenza e perdono d’utilità proprio perché sfruttano la nostra resa. E’ forte la TV, altro che dire: “Tanto comando io perché ho il telecomando!”. Non è vero: la TV lo strappa di mano, con i colori forti e le musiche caotiche, con i TG strillati e la sensualità ostentata. Noi non scegliamo niente: è la TV che sceglie, anzi “scioglie” noi.

Se è sera, provate a fare il conto di quante trasmissioni o tratti di trasmissioni avete visto senza che aveste programmato di vederle: tante. E nemmeno ci ricordiamo quante e quali fossero, perché passano via come l’acqua del torrente sui ciottoli della nostra stanchezza; ma come l’acqua non passano senza lasciare traccia: smussano e arrotondano i nostri riflessi e le nostre forze. Distruggendo anche le dighe forti: i linguaggi dialettali, le idee politiche, la diffidenza verso il mondo dei consumi.

La TV ci fa sembrare indispensabile quello che ieri nemmeno sapevamo che esisteva, ci fa vedere e rivedere i volti dei politici, i gol dei calciatori o le scatole di cioccolatini e ce ne droga. Ma è anche paritaria: la censura sull’apparire di disabili in TV ci fa pensare proprio di no! In Inghilterra ci hanno provato con una giornalista senza un braccio e le “brave e pie mamme” si sono ribellate perché “poteva spaventare i bambini”.

La TV è politicamente corretta: annienta il nemico, appiattisce tutto. E sta lì. Al centro. Non ci guarda, come pensava Orwell, ma noi ci sentiamo osservati e frugati. E facciamo, mangiamo, compriamo, amiamo quello che vuole lei. Quanti di noi conoscono più le note delle pubblicità televisive che le parole del proprio inno nazionale? Quanti bambini restano affascinati a sentire pubblicità impossibili di famiglie che passano il loro tempo a parlare di quanti cereali ci sono nei loro biscotti o di quanta tenerezza c’è nella loro carta igienica o nei loro assorbenti intimi? Ma, lo ripeto, non si tratta di quello che trasmette, ma del fatto che c’è, che è un must. Insomma, non possiamo non dirci teleutenti. (Carlo Bellieni, Zenit, 15 marzo 2010)

 

 


 

 

La voce laica di Ferrara in difesa dei valori non negoziabili

 

Nel loro cammino nella conoscenza della Verità, della Giustizia e della Bellezza, i cattolici si stanno accorgendo di avere numerosi inaspettati compagni di strada. Uno di questi è Giuliano Ferrara, direttore de “Il Foglio”, intellettuale laico di cui sono note le convergenze verso le posizioni del Magistero di Benedetto XVI. Ferrara è stato ospite della Fondazione Lepanto lo scorso 2 marzo, nell’ambito di una conferenza dal titolo “Una voce laica in difesa dei valori non negoziabili”.

Ad introdurre l’ospite è stato il presidente della Fondazione Lepanto, Roberto de Mattei. Ferrara ha descritto la propria «conversione» come una scelta motivata dalla «testa» quanto dal «cuore», dalla «riflessione» quanto dalla «sensibilità». «Di temperamento e di cultura – ha spiegato il giornalista – rimango legato alla modernità nella quale sono cresciuto e che non rinnego. Non potrei certo vivere nella teocrazia!». «Tuttavia, come ha riconosciuto Leo Strauss, la modernità è progredita fino a diventare un problema. Espellere il Cristianesimo dalla nostra storia, dalla nostra vita è diventato problematico, fino a cadere nel totalitarismo ideologico e nell’esclusione sprezzante di tutto ciò che lo contraddice», ha puntualizzato Ferrara. Il risultato di tale dittatura del “politicamente corretto” sono «le cattive argomentazioni, i conformismi, una forma spuria di religiosità capovolta».

Ne consegue che l’intellettuale, ovvero la persona che, in forza del proprio ruolo, dovrebbe esercitare la propria libertà di critica verso tutti i sistemi di potere, ricade nella «schiavitù intellettuale dell’era moderna che, per ragioni di conformità induce a pensare soltanto in un determinato modo». Si pensi a una corrente di pensiero come il darwinismo che, ad avviso di Ferrara, «pur contenendo elementi di straordinario interesse, è diventato una bandiera, un ABC, un prontuario di idee utili alla diffusione dell’ateismo e della critica della religione in tutti i suoi presupposti». Più in generale il conformismo laicista «è la negazione dello spirito critico dietro la parvenza della critica alla tradizione».

«Quando sento parlare di “oscurantismo” – ha proseguito Ferrara – mi rendo conto che le ragioni del dialogo stanno dalla parte degli “oscurantisti”». In fin dei conti il secolo che abbiamo alle spalle «si è caratterizzato per i totalitarismi atei, non certo per le crociate». Al pari di papa Ratzinger, Ferrara, pur non essendo credente, è un sostenitore del dialogo tra scienza e fede. «Qualunque uso intelligente della ragione – ha spiegato il direttore de “Il Foglio” – non può non comprendere il limite della ragione. Una cultura che parte da basi razionali non può che essere in armonia con la fede».

Sui temi della sacralità della vita Ferrara da tempo esprime un pensiero in linea con quello cattolico. Tuttavia «stiamo messi male – ha chiosato il giornalista – se i bambini diventano un prodotto prefabbricato, la famiglia una realtà puramente convenzionale e slegata dalla procreazione, mentre la morte è vista solo nel suo significato biologico e non metabiologico». Rievocando il caso di Eluana Englaro, per la cui salvezza “Il Foglio” portò avanti una campagna a mezzo stampa, Ferrara ha descritto la battaglia del padre Beppino come «una crociata laica che ha sancito la vittoria della norma convenzionale sulla legge naturale».

Il piano dei laicisti anticristiani è, in ultima analisi «un progetto antiumano non solo sul piano storico ma anche sul piano concettuale». Parlando infine del cristianesimo come vero bastione della nostra civiltà, Ferrara ne ha ricordato la natura di «religione» ma anche di «politica», in quanto «sceglie Roma come sua capitale, fa i conti con il diritto, ha connotati di universalità». (Corrispondenza Romana, 13 marzo 2010)

 

 


 

 

Postfemminismo e verità della natura

 

Cosa è cambiato nella cultura d’oggi per le donne? E’ vero che è in corso un ritorno ai valori tradizionali, ma a quali condizioni? Davvero le figlie delle femministe di un tempo stanno rinunciando alle conquiste delle loro madri? La verità forse è che le donne non hanno più voglia di imitare gli uomini, di battersi come Erinni sul mondo del lavoro e abbandonare la loro singolarità, come succedeva quarant’anni fa, ma preferiscono fare un passo indietro, perché hanno riscoperto la femminilità e l’importanza del corpo, oltre al rispetto per la natura e il gusto delle differenze di genere; anche se c’è chi pensa che sia la crisi finanziaria ad aver messo in crisi l’ideologia delle pari opportunità, spingendo le donne a lasciare il mondo del lavoro per ritornare a casa e occuparsi dei figli.

In effetti, se in Italia il proliferare delle escort sembra un fenomeno di massa e la cultura delle veline imperversa ormai come un sogno interclassista, tant’è che persino le adolescenti della buona borghesia aspirano indistintamente a sgambettare seminude in tv oppure a sedere in Parlamento come deputato, le ultime statistiche dell’Eurobarometro promosse dalla Commissione dell’Unione Europa, rivelano che l’ineguaglianza di genere preoccupa il 62 per cento dei cittadini europei, e il 69 per cento degli italiani, anche se in Italia, paese ritenuto quanto mai sessista, tradizionalista e retrogrado, la diversità salariale tra uomo e donna sarebbe solo del 5 per cento, mentre in Paesi d’Europa, considerati più avanzanti, come l’Austria, sale al 27 per cento.

Eppure, al di là delle statistiche, la stessa univocità non regna sul piano delle idee. Ne è prova, la polemica che da qualche tempo imperversa in Francia, assai rivelatrice del cambiamento in atto in tutta Europa. Elisabeth Badinter, la storica femminista che trent’anni fa annunciò che l’istinto materno non esiste in natura, ma è solo un artificio culturale, legato al variare dei costumi e soggetto alla moda, è tornata all’assalto con un nuovo pamphlet, “Le Conflit” (Flammarion) dove denuncia l’ideologia del naturalismo, vale a dire il ricorso alla natura come criterio del bene e del giusto, e i suoi effetti socialmente regressivi.

Incalzate dalla crisi, questa la tesi della Badinter, le donne di oggi stanno rinunciando alle conquiste delle loro madri, abbandonano la battaglia per le pari opportunità, perché sognano solo di accasarsi, e stare a casa per occuparsi dei figli. A favorire l’inversione di tendenza, secondo la scrittrice, sarebbe anche l’iniziativa di organismi internazionali, come l’Organizzazione mondiale della Sanità e l’Unicef, che incoraggiano le nazioni ad abbandonare la distribuzione gratuita di latte artificiale nei reparti di maternità degli ospedali pubblici, per favorire invece l’allattamento dei neonati al seno materno, possibilmente su richiesta, indice per la Badinter di un intollerabile ritorno al passato, e di una volontà di assoggettare le donne alla loro natura, e dunque alla dipendenza dai bisogni dei figli poppanti.

Quel che è peggio, agli occhi della Badinter, è di toccare con mano l’irradiazione di idee nate in America a metà degli anni Cinquanta e sostenute dal movimento neoconservatore della “Leche League”, grazie al quale in pochi anni il numero di donne che allattano al seno si è moltiplicato. E’ questo l’indice di regressione che più sembra preoccupare Elisabeth Badinter, che da esponente dell’intellighenzia laica e progressista – nipote di Edouard Vaillant, che fu un socialista famoso ai tempi della Comune, figlia del fondatore di Publicis, oggi quarto gruppo mondiale sul mercato della comunicazione, e moglie del ministro della Giustizia che all’inizio della presidenza Mitterrand decretò l’abolizione della pena di morte – resta legata alla cultura illuministica dei diritti, come universalismo astratto e radicale.

Eppure, a giudicare dalle reazioni, le sue idee sembrano aver fatto il loro tempo. “La Badinter sta sbagliando battaglia”, ha replicato per esempio l’ex sottosegretario all’Ambiente e oggi Ministro per l’innovazione del governo Fillon, Nathalie Kosciusko Morizet, perfetta incarnazione della postfemminista emancipata, ma consapevole della sua irriducibile singolarità di genere. Chiamata in causa dalla Badinter come l’artefice di una misura punitiva per l’emancipazione femminile – e cioè tassare i pannolini di plastica altamente inquinanti, per incoraggiare invece l’uso di quelli lavabili – la Kosciusko Morizet, che della Badinter potrebbe essere la figlia ed è una che nemmeno al vertice delle sue responsabilità di potere ha voluto rinunciato alla maternità, le ha risposto per le rime: per noi donne i problemi veri sono altri: la discriminazione sul posto di lavoro, la disparità di retribuzione, la persistente esclusione dai posti di comando. Ma sulle verità della natura, che sono la gioia della procreazione, l’amore materno e il piacere dell’allattamento, il ministro non ha avuto nemmeno bisogno di argomentare, tanto il consenso e la comune opinione sembrano ormai stare dalla sua parte. (Marina Valensise, Piùvoce.net, 8 marzo 2010)

 

 


 

 

Storie di conversioni: il conte Grigorij Suvalov

 

"Ci sono - scrive Roberto Ugo Benson - mille e mille strade che conducono alla città. Uno sarà guidato dal suono dell'organo, un altro dal profumo dell'incenso, uno se ne andrà tenendo una Bibbia in mano; questi è uno storico, quegli un mistico, il terzo un filantropo; questi è il peccatore che implora il perdono; quell'altro un uomo semplice che vuol essere illuminato, quello infine è un santo che reclama l'unione con Dio; uno è condotto dalla mano della madre, l'altro si strappa agli amici per seguire Cristo. Così se ne vanno, questi mille e mille, seguendo ciascuno la propria strada, ciascuno mosso da una potenza che gli resta misteriosa, ma tutti finiscono per incontrarsi davanti alla stessa porta, quella porta di cui si parla nell'Apocalisse, che tutti devono varcare e che è fatta di una sola perla".

Se ogni itinerario spirituale, da sant'Agostino al cardinal Newman, è sempre un dramma che si svolge nell'intimo della coscienza, poche conversioni sono state così dolorose come quella del conte russo Grigorij Suvalov, diventato padre Agostino barnabita. Nato nella Chiesa ortodossa, ma cresciuto nell'indifferentismo religioso, attraversò, si può dire, tutte le strade prima di giungere, di chiarezza in chiarezza, alla luce della verità. La dirittura morale, l'anima sincera e naturaliter christiana, lo spirito vivo e penetrante, sensibile e appassionato per tutto ciò che è puro e nobile, l'inquietudine che lo tormentava nella ricerca della felicità; soprattutto la scuola del dolore e il culto dell'amicizia lo accompagnarono costantemente e aprirono nel suo cuore la via alla grazia, alla fede, alla pace sognata.

Suvalov apparteneva a una famiglia aristocratica, benemerita della patria, delle arti e della cultura. Uno zio, generale dell'esercito, ebbe l'incarico di accompagnare Napoleone sconfitto all'isola d'Elba, un altro suo antenato aveva fondato l'università di Mosca.

A Pietroburgo, dov'era nato il 25 ottobre 1804, il piccolo Grigorij compì i primi studi nella scuola dei gesuiti. Rimasto orfano di padre, su consiglio dello stesso imperatore, fu collocato in un collegio protestante vicino a Berna in Svizzera. Qui studiò letteratura e poesia e si diede agli sport. Si trasferì poi a Pisa dove apprese la lingua italiana così bene da poterla maneggiare con scioltezza sorprendente. Il risveglio critico della giovinezza lo portò a una breve avventura sentimentale e lo immerse nelle teorie filosofiche del nichilismo assorbito da un poemetto di Friedrich Schiller che lo accompagnerà per lungo tempo.

A 18 anni Grigorij è un giovane esuberante e pieno di baldanza e l'imperatore Alessandro i lo nomina capitano degli ussari. Torna in patria e alla corte degli zar conosce la futura moglie: Sofia Soltikov, una creatura tenera e nobile, profondamente religiosa che morirà nel fior degli anni tra continue sofferenze, ortodossa ma "cattolica nell'anima e nel cuore". Da essa avrà due figli: Pietro e Elena.

La morte di Sofia spinse Suvalov a studiare la religione. Leggendo la Bibbia rimase colpito dal testo giovanneo che riporta la preghiera-testamento di Gesù: ut unum sint. Scrive nelle sue memorie: "Pareva deciso che quella parte del vangelo di san Giovanni dovesse convertirmi (...) Per la prima volta compresi che la verità è "una", perciò non vi può essere che "una" fede, "una" dottrina e che se il Cristianesimo è verità, non vi può essere che "una" Chiesa".

Dapprima si orientò verso la Chiesa greca ed ebbe colloqui con un sacerdote ortodosso. Costui, animato da retta intenzione, ammetteva come "buonissima" la Chiesa di Roma e diceva: "Sono due sorelle, perché non vivere in pace l'una accanto all'altra?". Suvalov ebbe anche simpatie verso il protestantesimo, ma presto se ne ritrasse.

Un giorno si imbatté nelle Confessioni di sant'Agostino: fu una rivelazione! "Lo leggevo incessantemente, ne copiavo intere pagine, ne stendevo lunghi estratti. La sua filosofia mi riempiva di buoni desideri e di amore. Con quale trasporto di contentezza trovai in quel grand'uomo sentimenti e pensieri che fino allora avevano dormito nell'anima e che quella lettura ridestava".

Fu il classico colpo di fulmine che gli svelava nuovi orizzonti: si innamorò per sempre del santo: "Ho trovato in lui le mie follie, i miei dolori e la mia speranza. Desideravo, chiedevo, invidiavo il suo amore, il suo fervore, la sua fede". Il libro provvidenziale era stato un dono del gesuita Minini. Una sera, dopo aver ascoltato una predica del dotto religioso, Suvalov gli si era avvicinato per dirgli con abbandono confidenziale: "Voglio diventare veramente cristiano, ma non immaginate, padre, che mi voglia far cattolico". "Prima di tutto - rispose il padre - si tratta di entrare in casa; poi sceglierete la stanza".

Leggeva con avidità altri capolavori di apologetica. In modo tutto speciale si appassionò alla lettura dei padri dei primi quattro secoli della Chiesa, verso i quali nutriva una straordinaria venerazione. Memore delle parole di Tommaso da Kempis, prese i libri nelle sue mani "come il giusto Simeone prese il Bambino Gesù fra le braccia per reggerlo e baciarlo". Dalla lettura passò spontaneamente alla preghiera. Pregava dal profondo del cuore, invocando "la fede e la forza", mentre si sentiva spinto a inginocchiarsi a un confessionale. In certi momenti s'immaginava ritto presso un altare, in una chiesa cattolica, nell'atto di celebrare la messa. Era un presentimento? Fu a Parigi che la Provvidenza lo attendeva per indicargli il porto sicuro dove approdare dopo lo smarrimento e la crisi. Ogni sera si recava in Notre-Dame per ascoltare i sermoni quaresimali del gesuita Di Ravignan, che diventerà lo strumento principale della grazia, il padre, la guida, il confidente di questo ricercatore della verità.

Fu un mattino della Settimana Santa del 1842 che, sotto le volte della cattedrale parigina, le due grandi anime si incontrarono e si compresero a fondo. Incoraggiato da amici suoi connazionali quali madame Swetchine, il principe Galitzin e il principe Gagarin convertiti; confortato da insigni ecclesiastici come il Bautin e Dupanloup, il conte Suvalov coronò la sua lenta ma sicura conversione alla fede cattolica. L'abate Pététot dell'Oratorio gli aprì le braccia, lo istruì e ne raccolse la confessione generale. Così preparato, il 6 gennaio 1843 veniva accolto nella Chiesa cattolica.

Lo attiravano i giovani, l'apostolato della carità e delle opere di misericordia, le amicizie sante: tre campi nei quali profuse il meglio delle sue energie spirituali e affettive. "Assisteva i malati come una suora di carità"! Gli orfani e i poveri trovavano nel "signor Gregorio" un padre tenerissimo. Distinte personalità lo avevano saggio consigliere. Era, insomma, un apostolo laico col prestigio del nome, della cultura, della bontà.

Nel periodo cruciale del 1848 Suvalov è a Roma, dove partecipa alle riunioni dei circoli liberali. La sete di libertà e l'amor di patria non lo lasciarono insensibile. Per mezzo di un giovane patriota, Emilio Dandolo, conosciuto per caso in treno, venne a contatto col padre Piantoni, rettore del collegio Longone dei Barnabiti a Milano:  una conoscenza che sarà decisiva per il suo futuro.

Nell'estate del 1855 progetta di stabilirsi sulle rive del lago di Como, sognando di ritirarsi in un piccolo Tuscolo cristiano, ma il fascino della metropoli lombarda lo attira irresistibilmente. Ogni mattina assiste alla Messa si comunicava nelle mani del padre Piantoni nella cappella del collegio Longone, dove qualche decennio prima, passarono i giovinetti Alessandro Manzoni, Federico Confalonieri, Tullio Dandolo e altre figure del risorgimento italiano.

L'8 settembre 1856 il conte Suvalov incontra un alunno diciassettenne in procinto di entrare fra i barnabiti: era Cesare Tondini e sarebbe stato suo confratello di ideali ed erede del suo spirito. Al momento di comunicarsi ebbe una folgorazione: "Questa sera sarò anch'io barnabita". Finita la messa si recò dal padre Piantoni: "Mi volete nel vostro ordine?". "No, è troppo presto", fu la risposta gelida. Chiese se poteva fare con loro un corso di esercizi spirituali. Gli fu negato! Anzi il padre Piantoni gli suggerì di entrare nel clero secolare. Cercò lumi e conforti a Torino e a Chambéry. Finalmente, il 1° gennaio 1857 veniva accolto nel noviziato dei barnabiti a Monza. Qui trovò un ambiente di altissima spiritualità. Scriveva al padre Ravignan: "Mi credo in Paradiso. I miei padri sono altrettanti santi, i novizi altrettanti angeli". Tra essi Tondini. Nel giorno della Vestizione religiosa, mutò il nome di battesimo Gregorio in quello di Agostino Maria.

Uomo già maturo e dalle varie esperienze, si fece piccolo e umile nell'osservanza delle regole monastiche, dell'obbedienza e della povertà, nella carità fraterna, nella gioia e nella pace interiore. In quell'ambiente di fervida pietà maturò nel suo spirito l'idea di una crociata di preghiere alla Vergine Immacolata per "il ritorno della Russia all'unità cristiana". Sarà proprio il Tondini a lavorare per tradurre in realtà l'ideale sognato dal nobile russo. Il 2 marzo 1857 don Agostino pronunciava esultante i voti religiosi e qualche giorno dopo riceveva a Milano gli ordini minori e partiva per Roma per dedicarsi agli studi di teologia.

Nello studentato dei barnabiti fu accolto con grande affetto "da padri venerandi e giovani fratelli"; fu ricevuto in udienza da Pio IX che gli parlò della Russia con tali accenti di fede da lasciarlo sbalordito e commosso; benedisse i suoi propositi e gli suggerì di offrire tre volte al giorno la vita al Crocifisso. Il Sabato santo ricevette il suddiaconato con una schiera di circa 250 ordinandi nella basilica lateranense. Tornato a Milano fu ordinato sacerdote il 19 settembre da monsignor Ramazzotti, futuro patriarca di Venezia. Impossibile descrivere i sentimenti che si agitavano nel suo cuore e che gli strapparono dalla penna pagine stupende sulla dignità sacerdotale, "la più sublime e la più alta di tutte le magistrature". Celebrò la prima Messa assistito dal padre Piantoni e servita dal Tondini.

Destinato in Francia, Parigi fu campo del suo apostolato e della sua immolazione: si prodigò instancabilmente conquistò innumerevoli anime lontane e, proprio alla vigilia della morte, terminò di scrivere la mirabile autobiografia Ma conversion et ma vocation (Paris, 1859), poi tradotta in italiano, in tedesco e in inglese. È il suo testamento spirituale, giudicato un capolavoro di apologetica da Montalembert e da molti altri autori. Con lucidità profetica Suvalov, coetaneo di Gogol e di Dostoevskj, scrisse: "I russi hanno conservato, fra i tesori della loro fede, il culto di Maria, Lei invocano e credono nel suo immacolato concepimento. (...) Maria sarà legame che unirà le due Chiese e farà di tutti coloro che l'amano un popolo di fratelli sotto la paterna autorità del Vicario di Gesù di Cristo".

Nel fervore dell'azione lo raggiunse, non inattesa, la morte, il 2 aprile 1859. La sua salma fu subito onorata con medaglie e corone, come quella di un santo. Il suo messaggio è la stessa sua vita. Come Alioscia ne I fratelli Karamazov, il Nostro si è spogliato dei suoi beni per servire Dio: "Non posso dare due rubli invece di dare tutto". (Andrea Maria Erba, ©L'Osservatore Romano, 16 marzo 2010)

 

 


 

14 Marzo 2010

 

Socrate: Il pensiero alla ricerca del Bene

 

Come sappiamo tutti, i due uomini che hanno contribuito in modo decisivo alla costruzione della cultura europea, Gesù e Socrate, non hanno mai scritto una riga; li conosciamo entrambi solo da quanto riferito da altri. Le fonti per la conoscenza di Socrate sono, naturalmente, i dialoghi di Platone e, in misura minore, gli scritti di Senofonte; ancora oggi non si cessa di dibattere su che cosa Socrate pensasse effettivamente e che cosa invece gli abbia messo in bocca Platone. Non saprei inserirmi in questo dibattito, vorrei solo sollevare una questione che appare nei primi dialoghi, quelli che, più verosimilmente, tramandano il pensiero di Socrate.

Socrate l’Ateniese non è il primo dei grandi spiriti che conosciamo, ma è stato forse il più grande architetto della cultura europea, apparendo tale anche agli occhi di chi non condivide per nulla la sua filosofia. Se è il nostro maestro, il maestro dell’Europa, non lo è tanto per una particolare dottrina da lui enunciata, quanto piuttosto per il metodo con cui aspirava a scoprire la verità. Ma quale verità? Da giovane si applicava allo studio della natura, ma poi abbandonò queste indagini, ritenendo che ci si dovesse occupare di ciò che è immutabile e non della realtà fisica, in cui tutto si trasforma e alla fine muore. E che cosa è immutabile? Immutabili sono le idee fondamentali, soprattutto quelle che hanno un significato morale.

Voleva sapere che cosa fossero la giustizia o la virtù, il coraggio, l’uguaglianza; quello che gl’interessava non era come queste parole fossero usate comunemente dagli uomini, bensì che cosa fossero in se stesse, che cosa fossero davvero realtà come la giustizia o l’uguaglianza. Come perveniamo a tali verità? Ponendo incessanti, martellanti e perentorie domande. Filosofo che vaga per la strada, Socrate interrogava i suoi interlocutori costringendoli a spingersi sempre oltre, addentrandosi più profondamente in queste domande.

Talvolta ci pare che Socrate si limiti a fingere di non sapere, di non conoscere la risposta (è sua l’asserzione «so di non sapere nulla»), in tal modo obbligando l’interlocutore al dialogo perché giunga da solo a una verità o corregga proprie convinzioni poco intelligenti. Voleva essere una levatrice, come sua madre, voleva portare allo scoperto una verità che era già esistente, ma ancora non pervenuta alla coscienza. Non ambiva ad essere originale (nessuno dei grandi filosofi coltivava tale ambizione, che lo avrebbe emarginato dalla cultura), ma solo a cogliere la verità e a capire come servire il bene, perché gli interessava sempre una verità che aiutasse la vita.

Viveva in accordo col proprio insegnamento: conduceva un’esistenza ascetica, ci raccomandava di non curarci dei beni terreni e dei piaceri del corpo, e non se ne curava egli stesso; a differenza dei sofisti, non riceveva denaro per il suo insegnamento, viveva in povertà senza lamentarsi; era valoroso nel fronteggiare i nemici, in guerra o negli scontri verbali. L’oracolo di Delfi decretò che non v’era alcun uomo più sapiente di Socrate, e lui stesso non mancò dì ricordarlo nel suo discorso in tribunale, sapendo per certo che queste parole lo avrebbero compromesso ancora di più agli occhi dei giudici, come pure l’affermazione di essere stato mandato da Dio ad Atene per essere come un tafano che col suo pungiglione stimola un cavallo pigro a muoversi. Diceva anche di ascoltare un "demone", una voce interiore che lo distoglieva dal male. Che cosa fosse questo daimonion non lo sappiamo, ma possiamo immaginare che non si trattasse di una sua "creatura" (in questo caso non avrebbe potuto essere un’autorità), bensì di una forza morale di origine divina.

Se però Socrate pensava di riuscire con le sue domande a condurre alla verità gli ascoltatori, era perché credeva che la verità fosse già dentro di noi, anche se il più delle volte inconsapevole, avendola mutuata dalla nostra precedente incarnazione; per questo, non impariamo veramente, ma semplicemente ricordiamo una conoscenza dimenticata. Per conoscere tutto ciò che è importante abbiamo la Ragione, che ci consente di distinguere il male dal bene. Nietzsche odiava Socrate proprio per il fatto che questi venerava la Ragione, identificava la Ragione con la virtù e la virtù con la felicità e l’utile, il vero utile, quello che vivifica le anime. Nietzsche affermava che gli spiriti veramente grandi, nobili eletti del destino, agivano in base all’istinto, mentre la Ragione socratica, fredda e sicura di sé, che si opponeva agli istinti, era segno di decadenza; in qualche modo Socrate aveva condotto lo spirito greco al declino, era il sintomo di una vecchia cultura aristocratica (e Platone con lui); è anche possibile che Socrate non fosse nemmeno greco: sappiamo infatti che era brutto, e, secondo Nietzsche, la bruttezza era un sintomo di corruzione tipico dei mezzosangue; brutto di viso, brutto nell’anima, secondo l’adagio antico.

Così il migliore degli uomini, condannato a morte a causa della Ragione, avrebbe avuto in sé il germe della decadenza spirituale. Ed ecco l’interrogativo che sorge da questo culto della Ragione. Socrate sostiene che sia impossibile che io faccia di mia spontanea volontà qualcosa che so essere cattivo; se faccio il male, ciò è il risultato della mia ignoranza; se so che cosa è buono, faccio il bene. Questo pensiero ci può sembrare assolutamente improbabile, perché siamo piuttosto inclini a ritenere che spesso facciamo il male poiché siamo dominati dalle passioni (odio, amore, invidia, cupidigia, desiderio, superbia, brama di potere) e sappiamo che cosa è bene e che cosa è male, ma, come si suol dire, non riusciamo a contrastare i nostri impulsi.

Consideriamo, dunque, assolutamente veritiero il detto di Ovidio, spesso citato: «Vedo e approvo le cose migliori, ma seguo quelle peggiori»; allo stesso modo, approviamo la conclusione dell’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani, laddove dice che, in quanto uomo di carne, venduto come schiavo del peccato, non compie il bene che vuole, bensì il male che non vuole, ben sapendo, tuttavia, che cosa gli ordina la legge divina. Ciò pare conforme al buon senso, ma fermiamoci un attimo a riflettere se forse Socrate non abbia ragione, almeno un po’, quando afferma che il male che compiamo è causato dalla nostra ignoranza; la nostra manchevole Ragione non riesce a distinguere il male dal bene; ma chiediamoci anche se, in tal caso, non ne conseguirebbe che siamo innocenti, qualunque cosa facciamo. (Leszek Kolakowski, avvenire, 7 marzo 2010)

 

 


 

 

Come santa Caterina rimodellò se stessa

 

Ecco un ampio stralcio della conferenza che si terrà il 10 marzo a Roma, presso il Centro internazionale di studi cateriniani, nell'ambito di un ciclo di incontri dedicati al tema "La donna negli scritti cateriniani: dagli stereotipi del tempo all'infaticabile cura della vita":

Dopo esserne stato il confessore (1374-1380), Raimondo da Capua diventa il biografo di santa Caterina. Nominato maestro generale dell'ordine dei predicatori nello stesso anno della morte della Senese, si dedica alla stesura della Legenda maior tra il 1385 e il 1395. L'opera ha una gestazione lunga, ma nonostante i molti impegni e i viaggi continui Raimondo vi attende con grande impegno. La Legenda maior è un testo prolisso e letterariamente complesso che si sostiene su un difficile equilibrio tra l'esigenza della veridicità storica e della interpretazione teologica e sapienziale dell'esperienza viva della Senese. È questo secondo registro della scrittura che qui ci interessa.

L'opera di Raimondo da Capua può essere letta infatti come il racconto esemplare della trasformazione di un corpo naturale in un corpo cristico, un rituale di passaggio. La sua struttura è cristallina. Come ogni rito transizionale lo sviluppo della narrazione è infatti contraddistinto da tre fasi:  l'iniziazione, caratterizzata da pratiche di autonegazione e procedure di separazione e autoesclusione, necessarie affinché il corpo di Caterina sperimenti lo stato della "morte mistica". La fase liminale, il vero e proprio passaggio, in cui, operata la frantumazione, la creatura partecipa di una condizione ambigua, è ormai priva di attributi ed è dunque suscettibile di essere completamente rimodellata. Infine la trasfigurazione del corpo, che, ormai trasformato, può mettere in atto la pienezza della sua fecondità soprannaturale.

All'inizio del racconto, la figlia del tintore Benincasa è una bambina ben nutrita dal latte della madre e molto amata, anzi è la prediletta, e tutti l'ammirano per la sua pietà, la saggezza, la precocità nel linguaggio. Ma a sei anni ha una visione di Cristo che la sfida: "Che fai? Non vieni?". Caterina accetta la seduzione e si perde. La situazione iniziale si capovolge. Rinuncia progressivamente al cibo fino a diventare incapace di mangiare regolarmente, si priva del sonno, indossa il cilicio, con la catena si dissangua di flagellazioni. Il corpo, da grande e forte che era, si riduce, si rimpicciolisce, si contrae. Infine si blocca, in una immobilità simbolica che non è né vita né morte.

Anche lo spazio è contrassegnato da un progressivo ritirarsi. Si rinchiude in casa, poi non esce più dalla sua stanza, infine si mura dentro la cella interiore per negarsi anche alla parola:  diventa muta. Fra lei e l'Assoluto, a questo punto, l'ultimo ostacolo è la famiglia. Sostituisce alla parentela carnale le figure divine. Si taglia i capelli, a sancire l'irrevocabilità del patto.

Caterina a questo punto è diventata una creatura liminale: non ha nulla, non è nulla. Non ha status, proprietà, rango, e dunque nemmeno diritti. Anche la scelta di entrare tra le mantellate rimane culturalmente equivoca. Fisicamente presente, si rende strutturalmente invisibile. Condizione paradossale e ambigua, fonte di scandalo, tanto che la vergogna viene anche materialmente confinata e sottratta alla vista.

Ma in positivo il processo di frantumazione e dissolvimento contiene in sé l'apertura a tutte le possibilità, al cambiamento dell'essere, a una trasformazione ontologica radicale. Al culmine del lavoro di sottrazione, come uno scultore, Caterina ottiene infatti un corpo che non è più regolato dall'ordine biologico, ma che funziona secondo le disposizioni dell'Assoluto. Ne esce completamente trasformata e rimodellata, perché Cristo le impone un'altra natura. Dopo le nozze mistiche le fa indossare una veste sanguigna, le dona un cuore nuovo e la corona di spine. Si nutre di un altro cibo, quello eucaristico, e del sangue che sgorga dal costato del Crocefisso. Si identifica completamente in lui, ne assume le connotazioni fisiche, stigmate, piaghe.

I sensi della percezione spirituale vengono amplificati: vede e sente con l'olfatto il peccato e le virtù delle anime. Assimila la potenza straordinaria e salvifica del corpo glorioso: lievitazione, forza sovrumana, invulnerabilità al fuoco, immobilità, dono di compiere miracoli. Il movimento non è più un chiudersi e un ritrarsi, ma un aprirsi e un andare fuori. Il corpo, sino a ora trattenuto, controllato, contratto, si dilata, esce fuori sé, nell'estasi, e si diffonde all'esterno, nel mondo. Caterina lascia la cella, poi la casa, infine Siena, e diventa feconda, madre di anime.

Chiudendo il corpo al cibo, non accumulando, prendendo su di sé l'abiezione fisica e spirituale degli altri, Caterina ha restituito il corpo al sacro e ha ristabilito la circolazione simbolica, permettendo agli altri di nutrirsi, consentendo la redistribuzione dei beni materiali e spirituali. Acquisisce infine, per investitura divina, anche il privilegio della parola. Al termine del suo lavoro, Caterina è diventata la madre di tutti.

Tra il 1411 e il 1416 alla curia vescovile di Venezia, non ancora patriarcato, affluiscono ventitré deposizioni giurate, solennemente autenticate per mano di pubblico notaio. Tranne due laici, sono tutti appartenenti al clero regolare, quindici i domenicani. Sono padri e insieme figli della madre, formati alla sua "divina scuola". A distanza di trent'anni dalla morte riaffiorano i ricordi, il calore del pane e delle focacce che lei impastava e cuoceva, il profumo delle coroncine di fiori che intrecciava e regalava ai suoi figlioli, una nota di colore che rompe la fitta coltre del dolorismo. Caterina digiunava e nutriva, soffriva e serviva, soprattutto prendeva su di sé i peccati di tutti. I gesti familiari della vita ordinaria si incrociano con i miracoli strepitosi: le moltiplicazioni del pane, quelle del vino. La memoria dei figli, ormai orfani, prende il posto della presenza di cui sono stati privati.

Ma sullo sfondo si profila anche l'urgenza di una frontiera per spazi da circoscrivere con rigore. Si è alla vigilia del concilio di Costanza, quello che rimetterà in causa i doni di Brigida, veracissima prophetissa, e i maestri di Parigi, Gerson in testa, pongono sul tappeto la questione della discretio spirituum. Al centro delle deposizioni si intravede la necessità di definire la funzione e le modalità di trasmissione del carisma.

I discepoli si sentono chiamati a rafforzare il processo di idealizzazione di Caterina, necessario a giustificare il loro lavoro al servizio della collettività. In gioco c'è infatti anche la questione della riforma dell'ordine. Essa rinvia a due fondatori: la santa madre Caterina e il beato padre Raimondo. Sono loro i genitori del discorso riformato. Ma la madre prevale sul padre, in nome di una struttura che assegna alla donna la trasmissione dei mysteria Dei per scientiam infusam. Femminilità della rivelazione divina e della sua abitazione nel mondo. È attraverso la madre che la parola arriva e si fa corpo e discorso.

La Legenda maior diventa così il racconto di fondazione dell'osservanza domenicana, è il mythos delle origini. A farsene carico, con una consapevolezza precisa, è soprattutto frate Tommaso da Siena, il Caffarini. La deposizione al processo dell'autore del Libellus ha l'andamento di un sermone. Sulla scorta di Bartolomeo da Pisa sviluppa il tema della perfetta conformità di Caterina, alter Franciscus, a Cristo.

Ma il punto centrale nell'argomentazione di Tommaso è nella proposta di soluzione del rapporto tra esercizio del carisma e sacerdozio ordinato, sia nei termini del munus docendi che sul piano sacramentale. Per tagliare alla radice ogni potenziale tensione ed equivoca interpretazione, Caffarini sottolinea che l'opera di materna direzione svolta da Caterina mirava in realtà a rafforzare e potenziare i ruoli direttivi dei padri, risolvendosi in una forma di apostolato privilegiato nei confronti dei sacerdoti. Un modello esemplare di questa situazione gli viene fornito dalla coppia spirituale Giacomo da Vitry/Maria di Oignies. Era stata la madre a "generare" Giacomo, indicando all'intellettuale prigioniero della sua passione per i libri la via della santa predicazione, era stata lei a sostenerlo per i suoi meriti e le sue preghiere nel lavoro apostolico. Ancora prima del riconoscimento ufficiale della santità di Caterina, il processo Castellano offre una delucidazione intellettuale: l'opera di direzione spirituale, entro alcuni parametri, è consentita alle donne e considerata di grandissima utilità, anzi incoraggiata. Canonizzando la leggenda di Raimondo da Capua e garantendo la conservazione e la trasmissione degli scritti di Caterina, il processo conferisce una singolare patente di fondazione alle esperienze di vita consacrata femminile ponendo le premesse alla fioritura delle sante vive e delle terziarie domenicane che tra Quattrocento e Cinquecento si riconosceranno nel profetico modello cateriniano.

Vorrei adesso fare un passo indietro per cercare di riflettere su come Caterina stessa abbia interiorizzato il proprio ruolo direttivo e materno. A questo proposito vorrei solo accennare a un tema al quale non mi sembra sia stata accordata nella storiografia una attenzione sufficiente. La tradizione accosta immediatamente Brigida di Svezia e Caterina da Siena, le due grandi madri della Chiesa e del Papato trecentesco. Le evidenti analogie non devono però farci perdere di vista alcune sostanziali differenze del loro linguaggio spirituale e le diverse modalità con cui esse hanno interpretato la propria funzione carismatica.

In contrasto con Brigida, Caterina è ben attenta a non avanzare per sé una apostolicità di tipo profetico, né a proporsi quale strumento e canale della continua rivelazione di Dio, come fa invece la Svedese, che nell'evento rivelatorio si autoidentifica con la Madre di Dio. Caterina mette in guardia dal paradigma di un profetismo inteso come conoscenza di eventi futuri ed è molto cauta nei confronti di forme di gnosi estatica e visionaria. Non parla mai di segreti divini che non sono tramandati dalla Scrittura e, a differenza di Brigida, è assai prudente anche nella utilizzazione degli apocrifi. Rimane tomista nell'invito costante a mantenere ben lucido e chiaro l'occhio dell'intelletto. L'aristocratica Brigida non esita con piglio regale a somministrare irrevocabili condanne su ecclesiastici e dottori che sovente nelle sue visioni le appaiono sprofondati negli abissi infernali. Caterina è severa, anche dura nell'opera di correzione, ma mantiene sempre intatta la reverenza e la devozione affettuosa nei confronti dei sacerdoti, ministri del dolce sacramento.

E tuttavia, in Caterina, non meno che in Brigida è forte la coscienza di adempiere a un preciso mandato divino e, come una madre, "sente" di portare i suoi figli, letteralmente, con il corpo e con l'anima.

Nella Legenda maior si parla in maniera molto diffusa del rapporto tormentato di Caterina con la madre. È un motivo - lo noto qui per inciso - che si introduce nelle agiografie delle sante mistiche della fine del medioevo. Nella tradizione antica, il paradigma offerto dalla coppia Monica/Agostino suggerisce l'idea di una trasmissione dei valori cristiani per via matrilineare. La nuova agiografia sembra invece organizzarsi su una frattura che capovolge gli assunti culturali. Nella legenda maior, in particolare, il tema del conflitto trova uno sviluppo del tutto inedito, tanto che la madre assurge quasi al ruolo di maestra in negativo nel processo di formazione della figlia.

Caterina indirizza alla "madre sconsolata" quattro lettere del suo immenso epistolario, poche forse, se misurate all'angoscia di Lapa Benincasa. La figlia lontana conosce bene la sua sofferenza, la sua "fadiga" di comprendere: "Tutto questo v'addiviene perché voi amate più quella parte che io ho tratto da voi, che quella ch'io ho tratta da Dio, cioè la carne vostra, della quale mi vestiste". Supplica allora la madre di deporre "ogni disordinata tenerezza", l'"amore sensitivo", e di lasciarla andare, per diventare finalmente "madre non solamente del corpo, ma dell'anima mia". Le chiede di seguire l'esempio della Vergine che "dona sé e figlioli, e tutte le cose sue, e la vita per onore di Dio", e di non avere paura di restare come lei "sola, ospita e peregrina". Il dolore solitario della madre di Dio ai piedi della croce è un momento forte della spiritualità di Caterina, che nel segno domenicano ha una devozione profonda nei confronti della Vergine.

Tuttavia la sua esperienza mistica di maternità trova la sua prima ragione nella cristologia. Nella visione di Caterina, pienamente compresa nel quadro teologico della scolastica, Cristo è innanzitutto il redentore, in quanto solo il suo essere Dio rende possibile la salvezza per l'uomo, è il suo sacrificio di espiazione a cancellare il peccato, è il suo sangue a ricomprare l'umanità pagandone il riscatto. È dunque insieme un atto di giustizia e un atto d'amore. Ma nell'incarnazione si realizza compiutamente anche il mistero dell'unione umano-divina: "l'uomo è fatto Dio e Dio si è fatto uomo per l'unione della natura divina e della natura umana in Cristo", scrive nel Dialogo. Per questo l'immagine fondamentale di Cristo negli scritti di Caterina è quella del corpo di Dio che muore affinché gli uomini possano nutrirsi e vivere: "A noi, carissima madre, conviene fare come fa il fanciullo, el quale, volendo prendere il latte, prende la mammella della madre e mettesela in bocca, unde col mezzo della carne trae a sé il latte; e così doviamo fare noi, se vogliamo notricare l'anima nostra: dovianci attaccare al petto di Cristo crocifisso, in cui è la madre della carità".

La teologia della maternità di Dio aveva radici profonde nel pensiero medievale. La serie era stata aperta nel XII secolo da Ildegarde di Bingen, che aveva visto nell'incarnazione quasi una seconda creazione, e in Cristo il padre e la madre insieme dell'umanità nuova. Cristo quindi, nuovo Adamo, ha un tratto comune anche con Eva, in quanto la sua nascita non ex semine, sed caro ex carne presenta delle analogie con quella della progenitrice:  non avendo avuto un padre umano, la carne di Cristo è tratta da sua madre. Per questo nel Liber divinorum operum Ildegarde era giunta ad affermare esplicitamente che "l'uomo veramente significa la divinità del Figlio di Dio, e la donna la sua umanità". Se il Padre è il segno della potenza del divino, nell'incarnazione, vissuta nel segno dell'accettazione dell'umana debolezza, si fa presente e visibile il mistero del suo amore e della sua misericordia.

Ma Ildegarde rimane ancora all'interno della tradizione monastica. Quando viene trasferito sul piano dell'esperienza, questo dato teologico dà forma al nuovo linguaggio della mistica femminile, dove l'intimità totale con la persona di Cristo viene ricercata nella partecipazione alla sua sofferenza. È questo anche il grande problema di Caterina: la possibilità del ripetersi dell'evento dell'incarnazione in ogni uomo, come una realtà storicamente tangibile come lo è nella carne eucaristica. Non è più, per via di contemplazione, l'oltrepassamento da questo mondo finito e diveniente per raggiungere l'Essere eterno e immutabile, perché quello che la sua vita e la sua scrittura testimoniano è il tentativo di lasciare sempre aperta la possibilità che l'Essere avvenga.

In altri termini potremmo dire che è un modo di porsi, nei confronti dell'Essere, in relazione materna, di generarlo, di farlo venire alla luce. L'attenzione si sposta da un conoscere, o un contemplare, a un fare. È questo quello che Caterina intende quando parla di "partorire un figliolo dell'Amore". Non è una novità: espressioni simili si ritrovano in Hadewijch che sente "amor che cresce nel suo grembo", in Gertrude di Helfta, che la notte di Natale si sente incinta del divino Bambino, ma anche in Angela da Foligno cui il mondo intero appare come gravido di Dio, vivente nell'attesa. Decine e decine di visioni di sante donne ce le mostrano intente nell'accudimento del Figlio divino:  lo nutrono, lo fasciano, lo cullano.

Ma Caterina va oltre: la singolarità della sua esperienza è quella di aver portato alle sue conseguenze estreme l'intuizione mistica del completo coinvolgimento di Dio nella storia e di aver trasferito il tema della maternità dal momento personale privato spirituale a quello pubblico. (Alessandra Bartolomei Romagnoli, ©L'Osservatore Romano, 9 marzo 2010)

 

 


 

 

Le sorti dell’uomo tra il primato della Liturgia e il suo crollo

 

Non è infrequente che oggi si percepisca una certa emarginazione delle questioni attinenti alla liturgia, come argomenti di non urgente pertinenza nel quadro pastorale. Si dice che altri sono i problemi emergenti ed improrogabili. In questo modo, la liturgia finisce per non essere praticamente mai dibattuta nei programmi pastorali.

Inoltre, si nota un certo dilettantismo e una qualche superficialità nel parlare di argomenti liturgici, quasi come se fosse una cosa di debole contenuto e per lo più ridotta a ‘formalità’. Così, si apre la strada ad un’impostazione ‘pastorale’ prevalentemente sociologica e la parrocchia tende a diventare una ‘azienda’, priva della sua dimensione sacramentale e del suo carattere soprannaturale .

Introducendo questo studio, si è ben definito il significato del termine ‘liturgia’ a cui in tutta la trattazione si è inteso far riferimento. E in particolare si è affermato che per ‘liturgia’ si doveva intendere quell’adorazione lieta e quell’obbediente sottomissione che la creatura deve al Creatore, atteggiamento così profondo da essere previo ad ogni specificazione rituale storica propria delle varie espressioni religiose.

Tuttavia, questo sguardo che coglie la natura religiosa profonda dell’essere umano in quanto tale, non deve avvallare una impostazione spiritualistica del problema, divaricando dalla ritualità concreta che si esprime nelle forme storiche e che è connaturale ad ogni manifestazione dello spirito religioso dei popoli e delle culture. Tale prospettiva potrebbe sostenere e giustificare uno spiritualismo irreale, senza l’ancoraggio al rito che lo traduce e lo esprime in forma corporea. Per questa via si arriverebbe a giustificare una vita religiosa senza pratica rituale.

Le sorti dell’uomo e del mondo tra il primato della Liturgia e il suo crollo: così Enrico Finotti, presbitero dell’Arcidiocesi di Trento e parroco in Rovereto, presso la Parrocchia di Santa Maria del Carmine, ricostruisce l’interessante percorso compiuto dalla liturgia a partire dall’origine del vocabolo, per poi delineare le cause del suo crollo, laddove quest’ultimo vocabolo è chiaramente da non intendersi immediatamente la caduta di un particolare sistema di riti e di ordinamenti tradizionali, quanto piuttosto ciò che essi contengono ed esprimono, ossia quella dimensione spirituale, che costituisce la loro ‘anima’ e che li giustifica dall’interno, come manifestazioni visibili della libera scelta dell’uomo, che vuole adorare Dio e obbedire alla sua parola, riconoscendolo Creatore, Signore e Padre.

Quando questa ‘liturgia interiore’ viene meno, da subiti i riti diventano vuoti e la loro celebrazione solo formale. Ma, in seguito, gradualmente, si corrompono anche nella loro forma materiale e le parole e i gesti che li costituiscono, non essendo più interiormente alimentati e dottrinalmente controllati, assumono inevitabilmente, anche nella loro espressione rituale, gli errori, le incertezze e i compromessi, propri di quell’idolatria, che ha preso il posto della religione vera e che, ormai, guida le facoltà spirituali dell’uomo depravato.

Vi è, quindi, una Liturgia di contrasto, che è parodia della vera Liturgia e che si pone al servizio del culto blasfemo dell’angelo delle tenebre, che si oppone a Dio. Nel crollo della Liturgia, allora, si verifica normalmente una sorta di sostituzione: la Liturgia si corrompe e cede il posto all’idolatria ; in questo modo, l’autore rivela una notevole capacità interpretativa ed analitica degli inquietanti fenomeni del nostro tempo, dei quali indaga le cause e definisce gli ambiti, muovendosi con disinvoltura in ambiti concettuali complessi e dimostrando altresi di saper leggere a fondo i segni dei tempi.

La sapienza cristiana, abbellita e canonizzata dai modelli della classicità, che Finotti dimostra di conoscere a menadito, è quanto emerge con nitida chiarezza nel punto in cui si parla, nel libro in oggetto, di crollo della Liturgia con Antioco Epifane e di Ellenismo, mentre in precedenza si era parlato della Liturgia del Tempio con Davide e Salomone, ma anche di Crollo della Liturgia e di Esilio Babilonese, mentre il nesso inscindibile tra ritorno degli esiliati e ripresa delle celebrazioni cultuali è l’oggetto precipuo di riflessione del par. IX , cui segue appunto l’approfondimento sull’Ellenismo. Seguono dunque, caratterizzati da uno stile assai incisivo ed efficace, i paragrafi dedicati alla Purificazione del Tempio ed alla sua dedicazione ad opera dei Maccabei, fino ad arrivare all’analisi, dettagliata ed approfondita, delle motivazioni che hanno causato e determinato il Crollo dello spirito della liturgia. La risposta a questa situazione d’incertezza e di sottile confusione tra le regole cultuali viene però prontamente fornita dalla luminosità diffusa del Mistero Pasquale di Cristo nella pienezza del tempo.

E come non parlare della redenzione? O della santificazione? Così, l’autore prosegue nella dimostrazione di come una coerente ed efficace prassi liturgica non possa che essere un intenso riflesso di un procedimento di conversione in atto, per rendere efficace e trasparente il quale si ha bisogno soltanto della Verità, condizione indispensabile in cui è importante venirsi a trovare prima ancora di accostarsi alla ricerca stessa di ciò che è Verità.

In questo senso, ad esempio, risultano più chiari e più significativi i contributi offerti alla causa della Liturgia da Colonne della Liturgia stessa, quali possono essere ritenuti Benedetto e Gregorio Magno, mentre la via maestra del percorso da compiere per arrivare a Dio è quella dell’Adorazione, vissuta, concepita ed illustrata come un consapevole ritorno alla pratica di una Liturgia autentica e vissuta, concreta espressione di un approccio adulto e consapevole alla dimensione della fede vissuta e messa in pratica.

Dodici capitoli, dunque, seguiti da una dossologia finale, e da una serie di riflessioni conclusive, il tutto inserito in una più ampia cornice descrittiva ed esperienziale, contribuiscono a rendere oltremodo vincente questo ultimo lavoro di Enrico Finotti, le cui abilità di scrittore consapevole e maturo erano peraltro già emerse con estrema chiarezza nelle sue precedenti pubblicazioni, tra le quali sarà bene ricordare almeno il seguente: L’anno liturgico. Mistero, grazia e celebrazione – Sussidio per la catechesi e la celebrazione dell’Anno Liturgico (Trento 2001). Un libro, quello qui recensito, che si presenta dunque come un valido strumento didattico per teologi in formazione. (Alessandro Cesareo, Zenit, 9 marzo 2010)

 

 


 

 

L'arte è sempre un dono

 

Nel suo esistere, l'uomo vive in due coordinate fondamentali:  lo spazio e il tempo, due realtà che non si costruiscono, ma che gli sono date. In altre parole, l'uomo è legato allo spazio e al tempo in tutte le sue azioni, e lo è anche nella preghiera che rivolge a Dio. Quando si invoca Dio, la preghiera ha bisogno, per così dire, di essere incarnata e di conseguenza anche il culto cristiano richiede un luogo, dove si può realizzare come rito sacro.

Tale luogo non è il corrispettivo del tempio pagano nella Grecia antica, dove la cella era considerata l'abitazione della divinità. Come dice san Paolo agli Ateniesi che "Dio non abita in templi costruiti dall'uomo" (Atti degli Apostoli, 17, 24). C'è un rapporto stretto fra il luogo del culto cristiano e la tenda del convegno, ovvero il Tempio di Gerusalemme, che è concepito come luogo dove il Dio trascendente si rende presente nella sua gloria (si veda, ad esempio Esodo, 25, 22 e 40, 34). Comunque, già Salomone, dopo avere costruito il Tempio di Gerusalemme, esclama: "Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!" (1 Re, 8, 27).

Nell'Antico Testamento si osserva un movimento verso una spiritualizzazione del culto, che si riflette anche nel canto dei serafini nel libro del profeta Isaia: "Tutta la terra è piena della sua gloria" (Isaia, 6, 3; cfr. Geremia, 23, 24; Salmi, 139, 1-18; Sapienza, 1, 7) - un passo che è stato incluso nel Sanctus della liturgia eucaristica. Pertanto, tutta la terra è piena della presenza di Dio e da Lui affidata agli uomini (cfr. Vincenzo Gatti, Liturgia e arte. I luoghi della celebrazione, Bologna, EDB, 2001, ristampa 2005, pp. 49-50 e 67-68).

Nel Vangelo secondo Giovanni, Gesù durante il suo incontro con la donna di Samaria dichiara che "è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori" (Giovanni, 4, 23). Bisogna tenere conto che ci sono vari livelli di significato: nel contesto storico, il culto cristiano è contrapposto al culto dei Samaritani e degli Ebrei, perché esso è "in spirito", cioè non è limitato a un singolo santuario, come il monte Garizim per i samaritani e il tempio di Gerusalemme per gli Ebrei.

Questo non significa che, alla luce del Vangelo, non ci dovrebbero essere riti e cerimonie, nessun culto pubblico o nessuno edificio sacro. Una tal conclusione sarebbe sbagliata, fosse soltanto perché quasi duemila anni di tradizione cristiana parlano in senso contrario. Gesù non ha detto alla donna samaritana che non ci dovrebbero essere luoghi ed edifici per il culto nella Nuova Alleanza; allo stesso modo, nella profezia sulla distruzione del Tempio, non afferma che non ci debba essere più alcuna casa costruita in onore di Dio, ma piuttosto che ci debbano essere molte case.

John Henry Newman, il grande teologo inglese convertito, ha espresso questa verità in un'omelia: "La gloria del Vangelo non è l'abolizione dei riti, ma la loro diffusione; non la loro assenza, ma la loro presenza viva ed efficace per la grazia di Cristo". (Parochial and Plain Sermons, San Francisco, Ignatius Press, 1997, vi, 19: "The Gospel Palaces", p. 1355).

Nel suo libro fondamentale sullo spirito della Liturgia, l'allora cardinale Joseph Ratzinger, metteva in relazione "il nuovo universalismo" del culto "in spirito e verità" della Nuova Alleanza, che non è legato a un luogo esclusivo, e la profezia di Gesù sulla distruzione del tempio:  "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" (Matteo, 26, 61). Riprendendo la precisazione dell'evangelista Giovanni:  "Egli parlava del tempio del suo corpo" (Giovanni, 2, 21), Ratzinger prendeva le parole di Gesù come "una profezia della croce; la fine della sua vita terrena sarà al tempo stesso la fine del tempio:  è questo ciò che egli lascia intendere". Allo stesso tempo, è anche una profezia della sua Risurrezione, con la quale "comincerà il nuovo tempio: il corpo vivente di Gesù Cristo, che allora sarà al cospetto di Dio e che sarà il luogo di ogni culto. In questo corpo egli abbraccia tutti gli uomini; non è la tenda eretta da mani d'uomo, è il luogo della vera adorazione di Dio, che dissolve le tenebre e le sostituisce con la realtà". Questa profezia quindi diventa eucaristica, perché "vi si annuncia il mistero del corpo di Cristo, sacrificato e proprio per questo vivente, che si comunica a noi e conduce in tal modo al legame reale con il Dio vivente" (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001, pp. 39-40).

Cristo stesso, il suo corpo vivo, risorto e glorificato, è il nuovo tempio dove Dio dimora e dove si svolge il suo culto "in spirito e verità". Il vero tempio in cui Dio abita è il corpo che la Vergine Maria, per opera dello Spirito Santo, offriva al Verbo di Dio, Gesù Cristo. Come scrive san Paolo ai Colossesi: "È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza" (2, 9-10). Poi, per partecipazione, in forza del Battesimo, anche il corpo del cristiano diventa tempio di Dio.

Christus totus, per usare una frase cara a sant'Agostino, il Cristo intero è il vero luogo di culto cristiano, cioè Cristo in quanto capo e noi in quanto membra del suo corpo mistico. I fedeli che si riuniscono in uno stesso luogo per il culto divino costituiscono le "pietre vive", messe insieme "per la costruzione di un edificio spirituale" (1 Pietro, 2, 4-5). Infatti, è significativo che la parola che prima indicava l'azione del riunirsi dei cristiani, cioè ecclesia, è passata a indicare anche il luogo stesso in cui la riunione si realizza.

Perciò, possiamo dire che la liturgia stessa, la solenne celebrazione del mistero pasquale della passione, morte e risurrezione del Signore, è costitutiva del tempio cristiano, inteso come luogo della presenza divina. In questo senso Benedetto XVI scrive nella sua Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007): "Lo scopo dell'architettura sacra è di offrire alla Chiesa che celebra i misteri della fede, in particolare l'Eucaristia, lo spazio più adatto all'adeguato svolgimento della sua azione liturgica. Infatti, la natura del tempio cristiano è definita dall'azione liturgica stessa" (n. 41).

Va riletta anche l'apposita sezione del Catechismo della Chiesa cattolica. Questo documento autorevole del magistero insiste che le chiese (come edifici) "non sono luoghi di riunione", ma "dimora di Dio con gli uomini riconciliati e uniti in Cristo" (n. 1180). Questo passo ricorda inoltre il fatto che la liturgia eucaristica è per gli "iniziati" e per questo motivo in molte tradizioni cristiane, soprattutto in Oriente, si conclude "la liturgia della Parola" con il congedo dei catecumeni, dei penitenti e delle altre persone che non possono essere ammessi alla parte più sacra della celebrazione liturgica.

Ancora più specifico è il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 2005. In risposta alla domanda "Che cosa sono gli edifici sacri?" (n. 245), il Compendio dice: "Essi sono le case di Dio, simbolo della Chiesa che vive in quel luogo, nonché della dimora celeste. Sono luoghi di preghiera, nei quali la Chiesa celebra soprattutto l'Eucaristia e adora Cristo realmente presente nel tabernacolo".

L'architettura e l'arte non compiono una funzione puramente decorativa, sono piuttosto parti integranti del culto. Il punto di partenza per costruire le chiese deve essere uno teologico e liturgico, e da questo risulta una grande responsabilità sia dei progettisti sia dei committenti. Oggi si sente l'esigenza urgente di una formazione adeguata che va al di là di una visione solo "normativa" della progettazione. Nel suo libro sopra citato Ratzinger ha dato voce al desiderio di un'arte "rinnovata nella fede", ma ha ricordato anche che l'arte - come la liturgia - "non può essere prodotta, così come si commissionano, si producono delle apparecchiature tecniche. Essa è sempre un dono". Le epoche di grande creatività artistica nella storia della Chiesa sono state contrassegnate da "una fede capace di vedere". Se giungiamo di nuovo a questa, "anche l'arte trova la sua giusta espressione". (Uwe Michael Lang, ©L'Osservatore Romano, 10 marzo 2010)

 

 


 

 

Il sacerdote nei Riti di Comunione della Santa Messa

 

 

Padre Paul Gunter, professore presso il Pontificio Istituto Liturgico e Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, ci offre in questo articolo una panoramica sui Riti di Comunione della Santa Messa (forma ordinaria e straordinaria), concentrando l'attenzione sul sacerdote celebrante. Dalla sua esposizione, emerge il significato liturgico e spirituale di questi riti, che dispongono sacerdote e fedeli a ricevere il Corpo e Sangue di Cristo con le dovute disposizioni dell'animo, in modo che la Comunione eucaristica rechi frutti di conversione e di santità nelle loro vite (don Mauro Gagliardi):

Il sacerdote che si prepara ai riti di Comunione nella Messa è predisposto dalla Preghiera Eucaristica, che egli ha appena completato, a riconoscere che «nel racconto dell'istituzione, l'efficacia delle parole e dell'azione di Cristo, e la potenza dello Spirito Santo, rendono sacramentalmente presenti sotto le specie del pane e del vino il suo Corpo e il suo Sangue, il suo sacrificio offerto sulla croce una volta per tutte»[1]. D'altro canto, quando giunge il momento in cui il sacerdote e i fedeli ricevono la Santa Eucaristia, ossia quando si preparano a mangiare il Corpo del Signore e a bere il suo Sangue, bisogna ricordarsi del discorso di Gesù a Cafarnao, che rappresenta la ricezione della Santa Eucaristia sia come una venuta che come un incontro[2].

Per quanto riguarda il tema della venuta, il Vangelo di san Giovanni dice: «Il pane di Dio è colui che scende dal cielo e dà la vita al mondo»[3]. Circa l'incontro, l'Eucaristia viene addirittura concepita come espressione della relazione interna alla Santissima Trinità, testimoniata nella relazione filiale di Gesù con il suo Padre celeste. Gesù la spiega con le parole: «Non che alcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita»[4]. «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me»[5]. Di conseguenza, la preparazione personale e pubblica a ricevere la Santa Eucaristia, che i Riti di Comunione favoriscono in modo così intenso, sia nella forma ordinaria che in quella straordinaria della Messa, non preparano il sacerdote e i fedeli a ricevere una cosa, bensì una Persona. Come riassume Romano Guardini: «Non esso, bensì Egli, la Persona suprema lodata in tutta l'eternità»[6].

La forma ordinaria del Rito Romano

Nella forma ordinaria (o Messa di Paolo VI), all'inizio dei Riti di Comunione, guidati dal sacerdote, il popolo sta in piedi. A livello simbolico, l'immagine del sacerdote che sta al centro dell'altare, circondato dall'assemblea in piedi, rappresenta un'anticipazione della Chiesa che starà con Cristo in cielo alla fine dei tempi. Il sacerdote introduce il Pater noster utilizzando una delle formule previste, prima che si reciti o si canti insieme la preghiera del Signore. Le parole che Gesù ci ha insegnato perché pregassimo con fiducia, e che noi usiamo prima di accostarci alla Santa Eucaristia, sono state commentate da numerosi autori. Ad esempio, alcuni testi presi dal commento di san Cipriano di Cartagine sulla preghiera del Signore sono stati inseriti nell'Ufficio delle Letture della Liturgia delle Ore, all'undicesima settimana del Tempo Ordinario, per educarci ad un maggior apprezzamento del significato di tali parole[7]. I testi di san Cipriano ricordano al sacerdote che ogni recita del Pater noster è un atto ecclesiale, che porta conseguenze nella vita degli altri. San Cipriano ha scritto:

«Prima di tutto, il Maestro della pace e dell'unità non volle che pregassimo per conto nostro ed in privato, in maniera tale che ognuno pregasse solo per sé. Perciò non diciamo "Padre mio che sei nei cieli", oppure "Dammi oggi il mio pane" [...]. La nostra preghiera è pubblica e per tutti e, quando preghiamo, lo facciamo non per una persona soltanto, ma per tutte, perché noi tutti siamo uno»[8].

La preghiera Libera nos continua a diffondere dolcemente le risonanze del Pater Noster e descrive l'umana indegnità e il bisogno di liberazione dal male con cui ci accostiamo all'Eucaristia. Il sacerdote, che prega in favore di ciascuno, riconosce, da un lato, le vicende che incidono sulla nostra pace, in vite macchiate da peccati e angustie; e, dall'altra, la gioiosa speranza che arreca la venuta del Signore. Il popolo completa la preghiera con una dossologia, che esprime l'aspettativa che il Signore compirà la sua promessa di essere glorificato in noi. La preghiera Domine Iesu Christe si concentra sui nostri peccati ed angustie e riposa sulla fede della Chiesa che attende la pace e l'unità del regno, come compimento della volontà di Dio. Dopo, il sacerdote stende le mani e scambia il saluto con l'assemblea: Pax Domini sit semper vobiscum. Si risponde: Et cum spiritu tuo.

L'effettivo scambiarsi la pace non rappresenta una componente obbligatoria della liturgia: il diacono o il sacerdote possono, se è opportuno, invitare i presenti a scambiarsi il segno della pace. Le discussioni a riguardo del momento più appropriato per scambiarsi la pace all'interno della liturgia restano distinte da quelle che riguardano il modo di scambiarsela. Il Messale mantiene le dovute distinzioni ecclesiologiche. Certamente, lo scambio della pace non è un momento nel quale da un'attitudine formale si passa ad una più informale, bensì un momento in cui i rapporti umani, che sono parte intrinseca dell'ordine delle cose, si rivelano nelle giuste proporzioni. «Si tratta di un rito di scambio, non di un saluto alla buona»[9]. San Tommaso d'Aquino ha espresso questa relazione tra i rapporti umani e il buon ordine nel suo bell'inno al Santissimo Sacramento dal titolo Pange Lingua, cantato il Giovedì Santo e nel giorno del Corpus Domini nella liturgia romana[10]. La terza strofa recita: «Nella notte della Cena, / sedendo a mensa con i suoi fratelli, / dopo aver osservato pienamente le prescrizioni della legge...»[11].

Il sacerdote scambia la pace con il diacono o con il ministro assistente. Non è previsto che egli lasci il presbiterio per salutare i fedeli nella navata. Costoro si scambiano la pace solo con coloro che sono più vicini. La rubrica distingue questi due gesti (del celebrante, cioè, e dei fedeli), il che impedisce che vi sia un fraintendimento ecclesiologico, che potrebbe scaturire da una visione puramente orizzontale.

La frazione del pane, che segue, possiede un aspetto pratico ed uno simbolico. Dal punto di vista rituale, in molti casi il celebrante spezza l'Ostia grande, che egli consuma in prima persona. D'altro canto, questo rito permette che si usi anche un'Ostia più grande rispetto al solito, che sia fatta in pezzi da distribuire ai fedeli. Una particola di essa viene inserita nel calice mentre il sacerdote dice in segreto: «Il Corpo e il Sangue di Cristo, uniti in questo calice, siano per noi cibo di vita eterna».

L'Agnus Dei che accompagna questa azione domanda perdono e si rivolge a Gesù che è l'Agnello pasquale, il cui corpo sacrificato ha versato il sangue per la remissione dei peccati. L'immagine di Gesù come Agnello è rappresentata in modo straordinario da una pala d'altare della Cattedrale di san Bavone a Gand, nella quale si vede un agnello ritto in piedi sull'altare, che versa il suo sangue in un calice[12]. L'Agnus Dei si richiama al Libro dell'Apocalisse, che proclama la dignità dell'Agnello che è stato immolato[13] e la benedizione di coloro che sono invitati al banchetto di nozze dell'Agnello[14]. L'antichità dell'Agnus Dei nel Rito Romano è tale che molti studiosi ritengono che sia stato Papa Sergio I (687-701) ad introdurlo nella Messa. La terza invocazione dell'Agnus Dei domanda la pace perché la Santissima Eucaristia è Sacramento di Pace, in quanto è il mezzo attraverso cui tutti coloro che lo ricevono sono stretti in un vincolo di unità e di pace[15].

Il sacerdote prega in segreto una preghiera preparatoria personale alla Santa Comunione, tra le due che sono proposte nel Messale. Nella prima, egli chiede di essere liberato dalle sue iniquità e da ogni altro male, attraverso il Corpo e Sangue di Cristo, e domanda la grazia di rimanere nei comandamenti del Signore sicché nulla possa mai separarlo da lui. Nella seconda, il sacerdote prega che la sua ricezione del Corpo e Sangue di Cristo non porti su di lui un giudizio di condanna, ma al contrario rappresenti una difesa e una cura per l'anima e per il corpo. La Comunione del sacerdote, che sempre precede quella dei fedeli, si fa sotto le due specie, per completare l'azione liturgica della Messa. Egli prega che il Corpo e Sangue di Cristo lo conducano alla vita eterna. Invece, alla purificazione dei vasi sacri, egli prega in favore di coloro che hanno comunicato (incluso, quindi, se stesso), affinché ciò che hanno ricevuto con le labbra sia ricevuto da un cuore puro, e anche affinché da semplice dono fatto nel tempo, la Comunione eucaristica diventi un rimedio che dura per la vita eterna. L'insieme di queste parole ed azioni rivela che qui è stato celebrato un grande mistero: la Celebrazione eucaristica è un kairos - tempo favorevole del Signore - che ha intercettato il chronos, ossia il tempo che è semplice successione di eventi che si svolgono attorno a noi. Perciò qui, dinanzi a Dio, il silenzio rappresenta in fondo l'unica risposta personale appropriata che proviene dalla parte più intima del nostro essere per esprimere fede, riverenza e comunione d'amore con Colui che abbiamo ricevuto.

Questo momento di silenzio dovrebbe essere salvaguardato con attenzione. Dovrebbe durare dei minuti e non dei secondi, per fornire uno spazio di preghiera chiaramente definito. Nella preghiera dopo la Comunione, che pure prevede una pausa di silenzio dopo l'Oremus, soprattutto se essa non è stata osservata in precedenza, il sacerdote guida il ringraziamento della Chiesa e prega perché il dono della Comunione, che è stato distribuito, possa portare frutto in noi. L'Amen con il quale i fedeli rispondono a questa preghiera conclude i Riti di Comunione, che erano iniziati con l'invito del sacerdote a pregare il Pater Noster.

La forma straordinaria

Il sacerdote nei Riti di Comunione della forma straordinaria (o Messa di san Pio V) compie gesti più complessi, che indicano l'identità e la funzione sacerdotali, in preparazione alla Santa Comunione. Seguendo lo stesso ordine usato per esporre i riti della forma ordinaria, consideriamo ora quella straordinaria, cominciando dall'introduzione al Pater Noster fino alla conclusione della preghiera dopo la Comunione. Si notano certamente delle differenze tra le due forme che compongono il Rito Romano. Siccome il Messale Tridentino prevede celebrazioni con distinti gradi di solennità, in questi casi i ministri assistenti svolgono delle azioni che invece sono operate dallo stesso sacerdote quando celebra la Messa Bassa (non solenne). Il sacerdote recita il Pater Noster da solo e il ministro assistente risponde: sed libera nos a malo. Il Libera quaesumus include le intercessioni di tutti i santi, e oltre a menzionare la Vergine Maria e i santi Pietro e Paolo, include anche sant'Andrea, probabilmente come segno di particolare devozione verso l'apostolo.

Quando il sacerdote prega per ottenere la pace ai nostri giorni[16], fa il segno di croce su se stesso con la patena e la bacia sull'orlo superiore, prima di sottoporla all'Ostia, in modo da preparare lo svolgimento della frazione del pane. Nella sua spiegazione delle preghiere e cerimonie della Santa Messa, Guéranger offre un commento che descrive lo scopo della formula Haec Commixtio, che si dice al momento di inserire la particola dell'Ostia nel calice - commento che al tempo stesso rivela la tendenza di questo autore verso l'allegorismo:

«Il sacerdote poi lascia cadere la particola che aveva nella mano all'interno del calice, mescolando così il Corpo e il Sangue del Signore, dicendo allo stesso tempo: Haec commixtio et consecratio Corporis et Sanguinis Domini nostri Iesu Christi fiat accipientibus nobis in vitam aeternam. Amen. Qual è il significato di questo rito? Che cosa è significato nella mescolanza della Particola con il Sangue che è nel calice? Questo rito non è dei più antichi, sebbene abbia circa mille anni. Suo fine è di mostrare che, al momento della risurrezione di Nostro Signore, il suo Sangue fu unito di nuovo al suo Corpo, scorrendo nelle sue vene come prima. Non sarebbe stato sufficiente che si fosse riunita al suo Corpo soltanto la sua Anima; doveva avvenire lo stesso per il suo Sangue, in modo che il Signore fosse integro e completo. Il nostro Salvatore, perciò, nella risurrezione riprese il suo Sangue che era stato in precedenza versato sul Calvario, nel Pretorio e nell'Orto degli ulivi»[17].

Dopo l'Agnus Dei, ci sono tre preghiere che il sacerdote dice prima della Santa Comunione, con gli occhi fissi sulla sacra Ostia e il cui contenuto si ritrova largamente nei Riti di Comunione della forma ordinaria. Dopo, tenendo l'Ostia egli dice la formula Domine, non sum dignus per tre volte e simultaneamente si batte il petto. Quando purifica la patena nel calice prima di consumare il prezioso Sangue, egli cita il Salmo 115: «Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore», e vi aggiunge: «Lodando invocherò il Signore e sarò salvato dai miei nemici»[18]. Durante la purificazione del calice, dopo il Quod ore sumpsimus, il sacerdote prega che non rimanga in lui alcuna macchia dei suoi misfatti e che il Corpo e Sangue di Cristo che ha ricevuto trasformino il suo intero essere.

Si vede che l'enfasi riposta sul carattere sacedotale e sulle azioni liturgiche del sacerdote nei Riti di Comunione sono estremamente incoraggianti. Mentre non nascondono la consapevolezza che il sacerdote possiede della propria indegnità, sottolineano tuttavia la sua dignità unica e gli ricordano di come egli debba lottare per diventare puro e santo come Cristo. Perciò questi riti invitano - e invitano in modo immediato - il sacerdote che compie il sacrificio ad entrare in una più stretta unione con Gesù Cristo, Sommo Sacerdote e Vittima. Inoltre invitano i fedeli a riconoscere con gioia il ministero del sacerdozio, il cui mistero è essenziale per l'Eucaristia, quale «Fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa»[19]. In questi aspetti distinti dello stesso invito, la Chiesa intravede le meraviglie dell'amore di Dio, che ha umiliato se stesso per condividere la nostra umanità; amore che rinnova il suo invito ogni volta che la sua alleanza di amore si fa presente sull'altare, quando Cristo trascina la nostra esistenza umana sempre più profondamente nella sua vita risorta. Come testimonia l'autore dell'Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me»[20]. (Paul Gunter, O.S.B., Zenit, 10 marzo 2010. Traduzione dall'inglese di don Mauro Gagliardi)

 

NOTE

[1] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1353.

[2] Gv 6.

[3] Gv 6,33.

[4] Gv 6,46-48.

[5] Gv 6,57.

[6] R. GUARDINI, Meditations Before Mass, tr. ingl. E. CASTENDYK, Sophia Institute, Manchester (NH) 1993 (rist.), 174.

[7] Cipriano di Cartagine, De Oratione dominica, 4-30, PL 3A, 91-113.

[8] Cipriano di Cartagine, De Oratione dominica, 8.

[9] J. DRISCOLL, What happens at Mass, Gracewing, Leominster 2005, 123.

[10] Durante la solenne traslazione del Santissimo Sacramento del Giovedì Santo e come Inno ai Vespri del Corpus Domini.

[11] «In supremae nocte caenae recumbens cum fratribus, observata lege plene...».

[12] J. VAN EYCK, Adorazione dell'Agnello, particolare della pala d'altare, 1432, Cattedrale di San Bavone, Gand, Belgio.

[13] Ap 5,11-12.

[14] Ap 19,7.9. Il sacerdote introduce il Domine, non sum dignus, formula basata su Mt 8,8 e Lc 7,6-7 cui, nel Messale di Paolo VI, è stata aggiunta l'immagine della festa dell'Agnello.

[15] «O segno di unità, o vincolo di carità»: Agostino di Ippona, In Joannis evangelium tractatus, 26, 13: PL 35, 1613; cf. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 47.

[16] «Da propitius pacem in diebus nostris».

[17] P. Guéranger, Explanation of the Prayers and Ceremonies of Holy Mass, tr. ingl. L. Shepherd, Stanbrook Abbey, Worcestershire 1885, 61.

[18] «Laudans invocabo Dominum et ab inimicis meis salvus ero».

[19] Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 3.

[20] Ap 3,19-20.

 

 


 

7 Marzo 2010

 

Giovanni, il contemplativo dell’amore

 

Pubblichiamo di seguito il Messaggio per la Quaresima di quest'anno di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto: «In quest’Anno Sacerdotale, indetto da Papa Benedetto XVI nel centocinquantesimo anniversario della nascita al cielo del Santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney (1786-1859), dedico alla figura dell’Apostolo Giovanni, che la tradizione identifica col “discepolo che Gesù amava”, il messaggio per la Quaresima, tempo forte di preghiera e di riflessione, di conversione e di carità operosa. Vorrei così offrire un piccolo aiuto alla conoscenza e all’imitazione del discepolo dell’amore, modello non solo per tutti i sacerdoti e i consacrati, ma anche per ogni battezzato che voglia prendere sul serio la chiamata alla sequela di Gesù nel sacerdozio battesimale. Che la grazia del Signore renda sempre più luminoso, vero e fecondo il nostro cammino comune nell’imitazione e nella testimonianza di Cristo! Che il Signore doni alla nostra Chiesa numerosi e santi sacerdoti e tanti giovani desiderosi di diventarlo sull’esempio del discepolo amato…

1. Il discepolo dell’amore L’Autore del quarto Vangelo resta avvolto da una grande discrezione: gli ultimi versetti del capitolo 21 lo identificano con il “discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: ‘Signore, chi è che ti tradisce?’” (v. 20). Di lui Pietro chiede a Gesù: “Signore, e lui?”. E Gesù gli risponde: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?” (vv. 21-22). Con questo Gesù non vuol dire che quel discepolo non sarebbe morto (v. 23), ma che è per eccellenza il discepolo dell’attesa, proteso all’incontro con l’Amato andato a prepararci un posto nel seno del Padre. Questo discepolo è evidentemente uno dei tre più intimi del Signore, che sono Pietro, Giacomo e Giovanni. Non è Pietro, in quanto si accompagna a lui (come nella visita al sepolcro al mattino del giorno dopo il sabato: Giovanni 20,2-10); non è Giacomo, fatto uccidere di spada da Erode molto presto, come ci dice At 12,2 (intorno al 44). Dunque, è Giovanni. Già questo essere avvolto dalla discrezione ce ne fa intravedere le caratteristiche: è il contemplativo dell’amore, il discepolo tradizionalmente indicato come il più giovane, perché presenta i tratti dell’audacia e della tenerezza che proprio i giovani sono capaci di avere (è l’unico che resta ai piedi della Croce, l’amato per eccellenza) e vede l’invisibile, perché guarda con gli occhi dell’amore. Così lo percepisce la tradizione cristiana, come testimonia ad esempio Clemente di Alessandria (210): “Vedendo che gli altri avevano riferito solo i fatti materiali, Giovanni, l’ultimo di tutti, incoraggiato dai suoi amici e divinamente ispirato dallo Spirito santo, scrisse il vangelo spirituale”. Dal cuore dell’Amato scaturisce la buona novella dell’amore…

2. Alcuni tratti storici Giovanni è figlio di Zebedeo e proviene dall’ambiente della Galilea. Insieme a Giacomo, suo fratello, era socio di una piccola azienda di pesca, di cui facevano parte altri due fratelli, Simone e Andrea. Probabilmente, Giovanni aveva seguito inizialmente il Battista, e potrebbe essere quello dei due discepoli non nominato (l’altro è Andrea, che subito dopo va a chiamare suo fratello Simone), che erano accanto a Giovanni quando questi indicò in Gesù che passava l’Agnello di Dio (Giovanni 1,35), e che seguirono Gesù. La discrezione con cui si presenta non impedisce che traspaiano i momenti salienti della sua storia di fede e d’amore al Cristo: la vocazione (Giovanni 1,35-39); la presenza accanto al Maestro nell’Ultima Cena (13,23); la domanda sul traditore (13,25s); il dialogo con Gesù accanto alla Madre ai piedi della Croce (19,26s); la visita con Pietro al sepolcro la mattina di Pasqua (20,2-10). A lui anziano è attribuita l’Apocalisse, nella quale sono innegabili gli influssi della sua attitudine simbolica e contemplativa. Del suo cammino di fede ripercorriamo sette tratti, che parlano specialmente alla vita spesa nella sequela di Gesù e su cui vorrei invitare tutti a verificarsi …

3. La vocazione Giovanni è un vero cercatore di Dio: è andato dal Battista, ma quando il Battista indica Gesù come l’Agnello di Dio, non esita a lasciarlo per andare da Gesù. La domanda: “Maestro, dove abiti?”, dice il desiderio di restare con lui (cf. 1,35-39). Giovanni ha capito che seguire Gesù è trovare la dimora vera della propria vita. La risposta di Gesù è un invito a fidarsi, a credere senza vedere: “Venite e vedrete”. Prima si va, poi si vede! I due fanno così: per Giovanni è talmente grande l’impressione di quell’incontro, che segnerà per sempre la sua vita, che ne ricorda l’ora precisa con un’accuratezza cronachistica: “Erano circa le quattro del pomeriggio”. La vocazione è l’incontro con Qualcuno, non con qualcosa, un incontro che avviene nel tempo e nello spazio, in un’ora decisiva e in un contesto che ci restano scritti nel cuore. È così che matura la decisione di seguire Gesù per stare con Lui e vivere di Lui...

4. L’intimità con Gesù Nel cosiddetto “libro dell’addio” (i capitoli 13-17 del Quarto Vangelo), nel momento drammatico in cui si consuma il tradimento di Giuda, ora dell’amore supremo (“li amò sino alla fine”: 13,1) e di supremo dolore (è giunta “l’ora”), Giovanni è colui che sta vicino a Gesù più di ogni altro. Egli dimostra con la sua vita che fede e amore sono inseparabili, come lo sono amore e dolore, vicinanza all’Amato e partecipazione al suo soffrire. I segni dell’amore sono chiari: è il discepolo amato (v. 23), figura d’ogni discepolo dell’amore, che sta nel seno di Gesù (v. 23), come il Figlio sta e si muove nel seno del Padre ((cf. 1,18). È alla domanda di Giovanni che Gesù rivela la sua conoscenza del traditore, che continua però ad essere amato da Lui, come dimostra l’offerta del boccone (v. 26: gesto di predilezione e di riguardo), che seguirà Giuda anche nella notte, senza lasciarlo (v. 30: l’amore non abbandona l’amato infedele). La confidenza mostra l’intimità di Giovanni con Gesù: la fede è un essere così innamorati di Dio, da entrare nella relazione più profonda con Lui, dove ci si dice tutto, in una trasparenza totale di dolore e amore.

5. Il destinatario del testamento del Signore Il dialogo con Gesù ai piedi della Croce (19,26s) rivela il tesoro che il Maestro affida al discepolo. È l’ora in cui tutto viene a compiersi. In quest’ora suprema e definitiva, Giovanni è con la Madre di Gesù ai piedi della Croce. È il testamento del Profeta abbandonato, che si rivolge alla “donna”, figura d’Israele e della Chiesa e Madre sua, ed al discepolo dell’amore, figura d’ogni discepolo, stabilendo fra loro un rapporto così profondo, che il discepolo prende la donna nel cuore del suo cuore. Gesù lascia in testamento all’amato un triplice tesoro: Israele, la Chiesa, la Madre. Il discepolo dell’amore amerà la “santa radice” Israele come l’ha amata Gesù, amerà la Chiesa come il frutto della passione di Gesù, amerà la Madre come sua. Gesù lascia il discepolo in una rete di rapporti d’amore, che al tempo stesso gli affida: la fede è accogliere patti di pace, legami di unità, e viverli nella fedeltà dei giorni, in obbedienza al Signore crocifisso. La sequela dell’Amato si compie nella Chiesa dell’Amore...

6. Il testimone della resurrezione Andando con Pietro al sepolcro la mattina di Pasqua (20,1-8), Giovanni corre per andare a vedere Gesù: è mosso dalla sete di chi ama. Arriva per primo e aspetta: è il rispetto dell’amore, che sa far posto all’altro. Vede e crede: sarà il testimone oculare, colui che ha visto e può perciò contagiare l’amore che apre gli occhi della fede e fa riconoscere il Signore. Dichiarerà in maniera toccante all’inizio della prima lettera: “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena” (1 Giovanni 1,1-4). Chi ha conosciuto e visto e toccato l’Amato, non può tenerselo per sé: ne diventa il testimone innamorato e irradiante. La fede vive nell’amore diffusivo di sé. La testimonianza scaturisce dalla sovrabbondanza del cuore toccato dal Maestro e ardente di amore…

7. Il discepolo dell’attesa Il misterioso dialogo fra Gesù e Pietro riguardo al discepolo amato (Giovanni 21,20-24) ne mette in luce un tratto peculiare: Giovanni è colui che attende il ritorno di Gesù. Il discepolo dell’amore è proteso nella speranza verso la gioia dell’incontro faccia a faccia. Il ricordo dell’Amato non è in lui nostalgia o rimpianto, ma tenerezza, speranza, vigilanza, attesa. L’amore non vive di passato, ma schiude al futuro e lo tira nel presente per il suo stesso ardore. Chi è innamorato di Dio è anche inseparabilmente testimone di speranza, perché sa che il futuro sta nelle mani dell’Amato, fedele per sempre. Proprio così è e resta un cercatore di Dio (come ricorda la Lettera ai cercatori di Dio dei Vescovi Italiani, che consiglio a tutti, credenti e non credenti, per aprirsi alle sorprese del Vivente!).

8. Il contemplativo dell’amore Giovanni è ormai vecchio: vive raccolto in Dio. Si presenta come fratello e compagno nella tribolazione a causa del suo amore fedele a Gesù. Vive la gioia dell’incontro liturgico nel giorno del Signore. È allora che è rapito in estasi, in Spirito (Apocalisse 1,9-19). Vede la voce: come solo il contemplativo sa fare, sa “vedere” attraverso le parole della rivelazione, ha l’intelligenza del simbolo, il gusto delle cose di Dio. E la rivelazione che vede è il grande messaggio di richiamo, di consolazione e di speranza per le “sette Chiese”, simbolo di tutta la Chiesa in ogni tempo e in ogni luogo (come dice il numero sette), che sono provate dalla persecuzione esterna e dalla prova interna della fede legata a quello che appare a molti il ritardo della venuta del Signore. Il discepolo dell’amore, carico di vita e di esperienza di fede, sa orientare gli occhi suoi e altrui all’Agnello immolato in piedi, al Cristo morto e risorto, mostrando come la prova presente è nient’altro che un lavare le proprie vesti nel sangue dell’Agnello per entrare con Lui nella sua gloria. La fede del discepolo dell’amore introduce alla speranza dell’amore vittorioso, della gioia senza tramonto della Gerusalemme celeste: “Colui che attesta queste cose dice: ‘Sì, verrò presto!’ Amen. Vieni, Signore Gesù” (22,20).

9. Il settimo sigillo: la settima caratteristica del discepolo amato è avvolta nel silenzio di Dio. È quanto l’iniziativa sorprendente del Signore prepara dall’eterno per ognuno di noi ed a cui dobbiamo aprirci nella docilità del cuore e nella perseveranza della fede orante ed amorosa. Possiamo aiutarci a farlo rispondendo alle domande che Giovanni pone alla vita di ognuno di noi. Sono le domande a cui vorrei chiedervi di dare risposta nella preghiera, nella penitenza e nei gesti dell’amore di questa Quaresima, offrendo in modo speciale tutto a Dio per la santificazione dei sacerdoti e per le vocazioni sacerdotali: sono pronto a rispondere all’invito di Gesù: “Vieni e vedi” o voglio vedere prima di aff