TESTI MAGISTERO EPISCOPALE

Mons. ANGELO BAGNASCO

 

 

Prolusione al Consiglio permanente della CEI,  Roma 21-24 gennaio 2008

 

Venerati e Cari Confratelli,

all’inizio del nostro Consiglio Permanente vogliamo rinnovare al Santo Padre Benedetto XVI la nostra incondizionata e cordiale condivisione, insieme all’ammirazione per il suo diuturno servizio pontificale a bene della Chiesa tutta. Il suo alto Magistero e l’esempio della sua dedizione serena, mite e forte per annunciare la verità di Cristo – nella cui luce si riscopre il volto autentico dell’uomo e si salvaguarda lo specifico della persona e della società – sono di sprone per tutti noi e per le nostre Comunità. Vicinanza e ammirazione, anzi amore vero verso il Papa, ci sono genuinamente testimoniati dal popolo delle nostre Chiese.

1. Questa comunione affettiva ed effettiva la rinnoviamo a pochi giorni da un grave episodio di intolleranza che ha indotto il Santo Padre a soprassedere rispetto alla visita da tempo programmata alla Sapienza. Università che da oltre settecento anni vive in quella Roma dove Vescovo è il Papa. Il clima di ostilità, creato da una minoranza assolutamente esigua di docenti e studenti, ha infine suggerito questa amara soluzione, essendo venuti meno – come ha scritto il Cardinale Tarcisio Bertone al Rettore – “i presupposti per un’accoglienza dignitosa e tranquilla”. Una rinuncia quindi che, se si è fatta necessariamente carico dei suggerimenti dell’Autorità italiana, nasce essa stessa da un atto di amore del Papa per la sua città. Tutt’altro, dunque, che un tirarsi indietro, come qualcuno ha pur detto, ma una scelta magnanime per non alimentare neppure indirettamente tensioni create da altri e che la Chiesa certo non ama, pur dovendole spesso suo malgrado subire.

Grande è stata la sorpresa e ancor più grande la tristezza dinanzi a quanto accaduto, in particolare per quella considerazione che da sempre la Chiesa nutre nei confronti dell’istituzione universitaria – basterebbe pensare a come e dove sono nate le Università – e che il discorso del Santo Padre preparato per l’occasione è stata riproposta con argomentazioni assolutamente pregnanti e originali. La risposta che Benedetto XVI ha dato alla domanda sulla “vera, intima origine dell’Università”, la risposta – dicevo – è da iscriversi idealmente sul frontespizio di ogni ateneo: soddisfare “la brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuole sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole la verità”. È con questa vocazione squisitamente propria dell’università che deve in ultima istanza confrontarsi anche chi si è sottratto all’incontro col Papa. Di qui il rammarico – non solo nostro, ma generale – nel dover constatare che il “luogo” privilegiato dello studio e del confronto tra intelligenze libere – qual è l’Università, che per questo diventa scuola di vita – si sia precluso di fatto ad una presenza di universale autorevolezza e ad un apporto accademico altissimo, cui ambiscono Università di tutto il mondo. Questi d’altra parte sono gli esiti del settarismo illiberale, antagonista per partito preso, che assumendo per pretesto la nota e ormai ben indagata vicenda di Galileo, hanno superficialmente manipolato la posizione a suo tempo espressa da Joseph Ratzinger, facendone una bandiera impropria per imporre la loro chiassosa volontà.

Come cittadini e come Vescovi d’Italia non possiamo non essere preoccupati. Seppur ci conforta che l’assenza forzata all’incontro è presto diventata una presenza assai più dilatata del previsto. L’importante discorso non solo è stato letto alla Sapienza, ma è stato anche pubblicato su numerosi giornali, guadagnando allo stesso un ascolto incomparabile. La straordinaria folla di fedeli e di cittadini che ieri, domenica, sono convenuti su invito del Cardinale Vicario in Piazza San Pietro per la recita dell’Angelus, è la testimonianza fedele dei sentimenti forti che albergano nel popolo italiano. Il che ci induce, nonostante tutto, a guardare avanti e ad avere fiducia. Fiducia nel buon senso che da sempre connota la nostra gente, e che è congenitamente estraneo all’intolleranza. Fiducia nel buon senso comune. Fiducia nella forza della ragione aperta alla verità. Fiducia nella tradizione culturale del nostro Paese, che ha sempre considerato il dialogo tra fede e ragione la sorgente viva e vitale di progresso e di civiltà.

2. Cari Confratelli, allargando ora lo sguardo, possiamo dire che veniamo da mesi intensi di attività, ma anche, grazie a Dio, di riflessioni e acquisizioni spirituali importanti che, in particolare, ci sono state offerte con ritmo incalzante dal Santo Padre. Alla luce del recente Natale le nostre comunità sono state sospinte a chiedersi: “Abbiamo tempo e spazio per Dio? Può Egli entrare nella nostra vita? Trova uno spazio in noi, o abbiamo occupato tutti gli spazi del nostro pensiero, del nostro agire, della nostra vita per noi stessi?” (Omelia della Messa di Mezzanotte, 25 dicembre 2007).

A questo proposito, come Vescovi ci sentiamo interpellati in maniera tutta speciale. Al pari degli Apostoli, e in quanto loro successori, infatti “siamo stati chiamati innanzitutto per stare con Cristo, per conoscerlo più profondamente ed essere partecipi del suo mistero d’amore e della sua relazione piena di confidenza con il Padre” (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla Riunione dei Vescovi di recente nomina, 22 settembre 2007). E poiché è questo il nostro fondamentale “programma apostolico”, va da sé che in esso rientra la preghiera che nutre il nostro legame con Pietro, e quella per Pietro stesso. È, dunque, con questa ispirazione che diamo avvio ai lavori della sessione invernale del Consiglio Permanente, svolgendo anzitutto un esercizio di discernimento collegiale sulla situazione presente.

3. Per l’inizio del tempo di Avvento, Benedetto XVI ha offerto alla Chiesa universale la sua seconda enciclica: “Spe salvi”, che ha suscitato una vasta eco all’interno della comunità cristiana ma anche nell’opinione pubblica generale. Il che, se da una parte dice qualcosa dell’arsura in cui vivono gli uomini d’oggi, dall’altra ci conforta sul fatto che proposte forti sotto il profilo dei contenuti si possono proficuamente fare anche in una temperie rarefatta come l’attuale. Con uno stile felicemente personale, il Papa elabora una proposta sorprendente che va al cuore e alla mente dei fedeli e dei Pastori. Attraverso una tessitura testimoniale, egli conduce un serrato ragionamento in cui storia, filosofia e teologia si intrecciano per decodificare il desiderio di vita buona e felice che c’è nel cuore dell’uomo e di ogni epoca.

Mostrando come, ad un certo punto del cammino dell’umanità, le due grandi idee-forza, la ragione e la libertà, si sono come sganciate da Dio, per diventare autonome e contribuire all’edificazione di un «regno dell’uomo» praticamente contrapposto al Regno di Dio, il Papa evidenzia il diffondersi di una mentalità materialista, che ha fatalmente illuso e deluso. Se per l’uomo moderno la novità sta nella correlazione, anzi nella sinergia, tra scienza e prassi, e l’attesa viene riposta nella successione stupefacente delle scoperte che hanno contrassegnato gli ultimi secoli, ecco che prende piede l’”ideologia del progresso”, ossia una “visione programmatica” per la quale la restaurazione del paradiso perduto non si attende più dalla fede, ma appunto dallo sviluppo scientifico. “Non è – precisa il Papa – che la fede, con ciò, venga semplicemente negata; essa viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose semplicemente private e ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo” (n. 17). In altre parole, ciò che “ha determinato il cammino dei tempi moderni” è anche ciò che ha influenzato “l’attuale crisi della fede che, nel concreto, è soprattutto crisi della speranza cristiana” (ib.).

Questo spiega molto bene perché Benedetto XVI non esiti, dinanzi agli effetti di questa congiuntura, ad invocare un atto di revisione profonda. E mentre nel famoso discorso di Ratisbona (12 settembre 2006) aveva avanzato l’esigenza di una seria autocritica da parte della modernità, nell’enciclica odierna va oltre, e sostiene che “nell’autocritica dell’età moderna confluisca l’autocritica del cristianesimo moderno, che deve imparare di nuovo a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici” (n. 22). In altre parole, emerge da qui una grande chance offerta ai cultori della modernità di andare al fondo delle contraddizioni in cui si dimena la cultura odierna e individuare le aporie che sono la causa della grande suggestione che illude ma non convince. Nello stesso tempo, al cristianesimo d’oggi intimidito di fronte ai successi della scienza, e per questo spesso ripiegato solamente in ambito educativo e caritativo (cfr. n. 25), s’impone una ri-centratura sul suo essenziale, per far scaturire da qui una nuova capacità propositiva che eviti al mondo la “fine perversa” descritta già da Kant. Per questo, asserisce il Papa, “la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione” (n. 23).

Naturalmente nessun commento e nessuna sintesi sostituiscono la lettura del testo dell’enciclica che noi, per la nostra parte, desideriamo porre nelle mani dei fedeli perché ne facciano una lettura personale e comunitaria, che può ravvivare i cammini di catechesi ed essere riferimento per la predicazione speciale dei tempi forti, come ad esempio della prossima Quaresima. Per la riconsiderazione che il Papa fa dei Novissimi, l’enciclica si pone come una concreta risorsa di rinnovamento della nostra pastorale: dal battesimo alla cura delle realtà ultime. Ci affidiamo in particolare ai nostri amati Sacerdoti, perché vogliano vedere in questo testo una autorevole interpretazione della crisi che ai vari livelli investe l’umanità di oggi, per cogliere le possibilità di un dialogo rinnovato che non sia fine a se stesso.

4. Non credo di sbagliare se dico che è l’Italia, in particolare, ad avere oggi bisogno della speranza. Questo Paese, che profondamente amiamo, si presenta sempre più sfilacciato, frammentato al punto da apparire ridotto addirittura “a coriandoli”, avvertono gli esperti. Proprio la recente analisi contenuta nel Rapporto Censis 2007 avverte che “un’inerzia di fondo … è la cifra più profonda della nostra attuale società”. In essa “si propende a pensare che la colpa di tutto … sia da ricondurre a una complessa e comune incapacità di costruire uno sviluppo partecipato” (pag. XVII). Sembra davvero che, bloccato lo slancio e la crescita anche economica, ci sia in giro piuttosto paura del futuro e un senso di fatalistico declino. Sembra circolare una sfiducia diffusa e pericolosa. Anche da osservatori stranieri arrivano i segnali di una medesima lettura, forse ancora più apocalittica e magari anche non disinteressata. Ma a me pare, che non sia tanto a questi osservatori che dobbiamo essere preoccupati di rispondere verbalmente, quanto che una risposta, quella vera, la dobbiamo dare a noi stessi, e alla ineludibile responsabilità verso il nostro futuro. Diagnosi più circoscritte circa i punti della crisi pubblica che ci affligge peraltro non mancano e il Presidente della Repubblica, nell’incontro prenatalizio con i dirigenti della politica, non ha mancato di farvi riferimento. A noi Vescovi interessa, se possibile, guardare più in profondità, alla crisi interiore che è in parte causa e radice della stessa crisi pubblica, seppur non ci sfuggono le tante, innumerevoli testimonianze di bene che prendono forma sul territorio, e neppure ci sfuggono una diffusa riservatezza e capacità di sopportazione che rappresentano esse stesse, se si vuole, un indizio di possibile ripresa e capacità di futuro.

Però, pensando ai nostri fratelli, non possiamo non dire loro con le parole dell’enciclica che, seppur avessimo tante piccole o anche grandi speranze “che ci mantengono in cammino”, ma non conoscessimo Dio, saremmo pur sempre privi della grande speranza, quella che “deve superare tutto il resto” (n. 31). Saremmo senza quella resistenza, quella lucidità di giudizio, quella carità profonda che fanno sperimentare la vita, e la vita in abbondanza (cfr. n. 27). Ecco da dove nasce l’offerta della Chiesa al nostro Paese. La Chiesa non vuole e non cerca il potere, come pure viene scritto in questa stagione su taluni giornali. Con la sua testimonianza pubblica e grazie alla capillarità della sua presenza vicina alla gente, la Chiesa vuole aiutare il Paese a riprendere il cammino, a recuperare fiducia nelle proprie possibilità, a riguadagnare un orizzonte comune. A fronte di tanti sforzi che pure vengono condotti, e che hanno bisogno di più energia per affermarsi, c’è davvero bisogno di una speranza più grande delle altre, che possa dare la direzione al cammino futuro.

5. Lo dicevamo nella recente Nota pubblicata all’indomani del Convegno ecclesiale di Verona (cfr. n. 20). Nel pronunciare il suo sì a Dio, la nostra Chiesa dice sì anche all’uomo concreto, dice sì a questa società con le sue dinamiche complesse e a volte contraddittorie, dice sì alla cultura magmatica eppure vitale in cui è a sua volta inserita. La Chiesa non ha paura di amare. E questo fa: si realizza cioè come la Chiesa del sì, anche quando si vede costretta a dire − senza arroganze e con parresìa − dei leali no. E ogni volta li dice per pronunciare un sì più grande alla vita, alla persona intera, alla giustizia, alla pace, all’amore, alla coscienza, al progresso, al creato; per confermare il sì all’Italia, al suo futuro e alla sua vocazione in seno all’Europa e nel concerto dei popoli.

5.1. La Chiesa, ad esempio, dice sì alla famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Per questo si oppone alla regolamentazione per legge delle coppie di fatto, o all’introduzione di registri che surrogano lo stato civile. Non la muove il moralismo, o peggio il desiderio di infliggere pesi inutili o di frapporre ostacoli gratuiti. Al contrario, abbiamo a cuore davvero il futuro e il benessere di tutti. Conferendo diritti e privilegi alle persone conviventi, apparentemente non si tolgono diritti e privilegi ai coniugi, ma si sottrae di fatto ai diritti e ai privilegi dei coniugi il motivo che è alla loro radice, ossia l’istituto matrimoniale che nessuno – a questo punto − può avere l’interesse a rendere inutile o pleonastico, o a offuscare con iniziative, quali il divorzio breve, che avrebbero la forza di incidere sulla mentalità e il costume, inducendo atteggiamenti di deresponsabilizzazione. Un importante uomo di cultura, il prof. Aldo Schiavone, in un articolo del 24 dicembre, tra l’altro scriveva: “Quel che chiamiamo famiglia è infatti una costruzione sociale che non ha al suo interno nulla di prestabilito in eterno. Tutto in essa è solo storia …”. Individuando in un simile assunto la tipologia di tante affermazioni, talora anche strampalate, ci permettiamo con rispetto di obiettare radicalmente a questa posizione: certamente le forme culturali hanno il loro peso nell’espressività dell’uomo e persino nella definizione che l’uomo riesce a dare di sé, ma non arrivano al punto di manomettere la figura umana tipica e distintiva. La struttura della famiglia non è paragonabile ad un’invenzione stagionale, e questo almeno per due motivi. Il primo, è relativo alla indubitabile complementarietà tra i due sessi; il secondo, riguarda il bisogno che i figli hanno, e per lunghi anni, di entrambe le figure genitoriali, quanto meno per il loro equilibrio psichico e affettivo. Il nostro Paese ha bisogno della struttura che è garantita dalle famiglie vere per continuare a dare a se stesso un impianto di solidità e di slancio in avanti. È una problematica questa che, per la verità, non investe solo l’Italia, anzi per certi versi la investe meno di altri Paesi. Il che spiega, ad esempio, perché c’è stato nell’ottobre scorso, a Fatima, un incontro dei Presidenti delle Conferenze episcopali d’Europa che hanno messo a fuoco la loro convergente preoccupazione sul futuro della famiglia, svanendo la quale si metterebbe peraltro a repentaglio il futuro dell’Europa stessa. Di qui il riproporsi significativo, al di là dei confini nazionali, di iniziative come il nostro Family Day che per nessuno voleva essere e per nessuno è stato una minaccia, ma piuttosto l’indicazione di una via da percorrere.

5.2. La Chiesa, mentre fermamente si oppone alle discriminazioni sociali poste in essere a motivo dell’orientamento sessuale, dice anche la propria contrarietà all’equiparazione tra tendenze sessuali e differenze di sesso, razza ed età. C’è un gradino qualitativo che distanzia le prime dalle seconde, e non è interesse di alcuno misconoscere la realtà che appartiene alla struttura dell’essere umano in quanto tale. Come non scorgere nelle teorie che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona, quasi che queste siano una mera convenzione pseudo-culturale, un’accentuazione oggettivamente autolesionistica, un deprezzamento alla fin fine della stessa corporeità che si vorrebbe unilateralmente esaltare? Facile obiettare che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in queste questioni: diciamo anche noi, con Benedetto XVI (nel Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2006), forse che la persona non ci deve interessare? Come facciamo a non curarci del destino e della felicità di coloro al cui servizio siamo mandati?

5.3. È ancora per dire sì alla dignità della persona che la Chiesa denuncia la logica relativistica che domina nei consessi internazionali, per la quale l’“unica garanzia di una umana convivenza pacifica tra i popoli, (è) il negare la cittadinanza alla verità sull’uomo e sulla sua dignità nonché alla possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale” : sono parole di Benedetto XVI, pronunciate alle Organizzazioni non governative cattoliche che erano andate a visitarlo il 1° dicembre scorso. Difficile non vedere annidata proprio qui una delle contraddizioni più vistose della politica internazionale: da una parte si dà la giusta priorità, in faccia a qualunque regime politico, al rispetto dei diritti umani fondamentali dell’uomo, dall’altra spregiudicatamente si nega questo o quel diritto in funzione di campagne mirate, e adottate per interessi materiali o imposte per pressioni ideologiche. Quanto all’Unione Europea, non possiamo non apprezzare i risultati del recente vertice di Lisbona nel quale è stato solennemente firmato il nuovo Trattato europeo, che ha come parte integrante la Carta dei diritti dei cittadini. Mentre si attendono le necessarie ratifiche da parte dei singoli Stati, non possiamo non auspicare che di questi documenti vengano date interpretazioni non forzate e non strumentali nella logica di un’esasperazione dei diritti esclusivamente individuali. Resta peraltro attuale l’esigenza, più volte avanzata in passato, di garantire il rispetto delle specifiche identità culturali e delle tradizioni dei Paesi membri, nella piena valorizzazione del principio di sussidiarietà e dei limiti di competenza dell’Unione europea.

C’è da dire che nel Messaggio che Benedetto XVI ha pubblicato in occasione della recente giornata per la Pace del 1° gennaio 2008, incentrato su “Famiglia umana, comunità di pace”, oltre che essere indicate la reale interdipendenza e le profonde connessioni che legano il nucleo primario della società agli effettivi destini del mondo, è individuato anche il vincolo necessario tra la norma giuridica e la legge naturale. Dove la prima, “la norma giuridica che regola i rapporti delle persone tra loro, disciplinando i comportamenti esterni e prevedendo anche sanzioni per i trasgressori, ha come criterio la norma morale, basata sulla natura delle cose”. Il Papa non tace sulla ragione dei troppi arbitrii che si registrano nelle relazioni tra gruppi umani e tra gli stati, osservando che, “sì, le norme esistono, ma per far sì che siano davvero operanti bisogna risalire alla norma morale naturale come base della norma giuridica, altrimenti questa resta in balìa di fragili e provvisori consensi” (n. 12). E subito dopo aggiunge. “La crescita della cultura giuridica nel mondo dipende, tra l’altro, dall’impegno di sostanziare sempre le norme internazionali di contenuto profondamente umano” (n. 13).

6. Una vasta eco ha avuto nel mese di dicembre la moratoria contro la pena di morte votata nell’assemblea dell’Onu da 104 Paesi. Ai quali è vivamente auspicabile che altri Paesi via via si aggiungano, come sta già accadendo, a condividere un fondamentale approdo di civiltà giuridica e di consapevolezza delle insopprimibili ragioni di ogni vita umana. Com’è noto, per raggiungere questo risultato, molto ha lavorato l’Italia, che infatti è stata riconosciuta come la vera artefice dell’importante pronunciamento. Ci piace qui rilevare come questo obiettivo, al nostro interno, sia stato perseguito sia dalla società civile che dai responsabili politici, in una fruttuosa complementarietà che ha procurato all’iniziativa diplomatica il più vasto consenso popolare.

Era in qualche modo inevitabile che, votata la moratoria contro la pena di morte comminata dagli Stati come sanzione ai delitti più gravi, si ponesse l’attenzione ad un’altra gravissima situazione di sofferenza del nostro tempo qual è, con l’aborto, l’uccisione di esseri innocenti e assolutamente indifesi. È vero che concettualmente non c’è perfetta identità tra le due situazioni, ma solo una stringente analogia, che tuttavia non fa certo derivare la condanna dell’aborto da quella della pena di morte, giacché il delitto di aborto è, come avverte il Concilio Vaticano II (GS n. 51), abominevole di per sé, ed è un’ingiustizia totale. Come non valutare benefica la discussione che, nel nostro Paese, si è aperta nel corso delle ultime settimane, e come non essere grati a chi per primo, da parte laica, ha dato evidenza pubblica alla contraddizione tra la moratoria che c’è e quella che fatichiamo tanto a riconoscere?

Il fatto che, a trent’anni dall’approvazione della legge 194 che rende giuridicamente lecito l’aborto, la coscienza pubblica non abbia “naturalizzato” ciò che naturale non è, è un risultato importante, di cui dobbiamo dare atto a chi − per esempio il Movimento per la vita − mai si è rassegnato. E fin dal primo momento ha cercato di promuovere un’iniziativa amica delle donne che le aiuti nella decisione, talora faticosa, di accettazione dell’esistenza diversa da sé che ormai è accesa in grembo. La Giornata della Vita, che con lungimiranza la nostra Conferenza Episcopale promuove da oltre venticinque anni – è imminente la 30a −, ha certamente contribuito – grazie anche all’apporto dei nostri media − a quell’allerta culturale per la quale la vita umana non può mai, in alcun caso, in alcuna situazione, per alcun motivo, essere disprezzata o negletta. Ha invitato a considerare vita la vita, sempre, fin dall’inizio, e non solo per gli adulti gagliardi ed efficienti.
Da parte della Chiesa non esiste alcuna “intenzionalità bellica”: dobbiamo continuare a dire che la vita è dono, e che non è nella disponibilità di alcuno manometterla o soffocarla. E dobbiamo ad un tempo ricordare che l’amore umano è sempre associato a una responsabilità che si esprime anche quando lo si intende come gioco distratto e leggero. Quella della vita è una grande causa, la causa che ci definisce e ci qualifica, alla quale noi Vescovi vorremmo che, prima o poi, si associassero davvero tutti.

Chiediamo, almeno come cittadini di questo Paese, che si verifichi ciò che la Legge – intitolata alla “tutela della maternità” − ha prodotto e ciò che invece non si è attivato di quanto prevede, soprattutto in termini di prevenzione e di aiuto alle donne, e dunque alle famiglie. Inoltre, come si può, solo per questa legge, deliberatamente ignorare il portato delle nuove conoscenze e i progressi della scienza e della medicina e non tener conto che oltre le 22 settimane di gestazione c’è già qualche possibilità di sopravvivenza? Per questo occorre razionalmente non escludere almeno l’aggiornamento di qualche punto della legge, pur continuando noi Vescovi a dire che non ci può mai essere alcuna legge giusta che “regoli” l’aborto. Ci permettiamo anche di suggerire che i fondi previsti dalla legge 194, all’art. 3, magari accresciuti da apporti delle Regioni, siano dati in dotazione trasparente ai consultori e ai centri – comunque si chiamino – di aiuto alla vita, giacché l’esperienza insegna che già pochi mezzi forniti per un primo intervento sono talora sufficienti per dare ascolto alle donne, aiutarle a riconoscere la propria forza, a non sentirsi così sole in una comunità che non può continuare a considerare la maternità un lusso privato e l’aborto una forma di risposta sociale. Ovvio che una simile provvista non esonera la politica della famiglia a dare finalmente risposte adeguate. Tuttavia, è sempre possibile lavorare insieme perché forme concrete di solidarietà trovino spazio, e anche nel campo della maternità non prevalga definitivamente la solitudine, l’estraneità sociale, il disinteresse.

7. Grande impressione ha suscitato a ridosso delle feste natalizie il rogo che nell’acciaieria torinese della ThyssenKrupp ha procurato la morte – immediata o successiva − di ben sette operai, alcuni dei quali ancora giovani. Il confratello Arcivescovo di Torino, Cardinale Severino Poletto, ha pronunciato nelle omelie delle quattro Messe esequiali parole doverosamente severe, alle quali noi cordialmente ci associamo. Davvero il posto di lavoro non può essere messo in ballottaggio con la vita e il vero progresso non può tollerare condizioni di lavoro tanto rischiose da compromettere ogni anno la salute e la vita di un elevatissimo numero di cittadini. Sono drammi che le nostre comunità parrocchiali conoscono uno ad uno, e a cui i nostri sacerdoti sono vicini. E bisogna dire che anche il cordoglio politico non è mancato e non manca. Ciò a cui forse non si è ancora pervenuti è una sufficiente e corale determinazione a non consentire più eccezioni nei sistemi di messa in sicurezza, nei controlli serrati e inesorabili, nelle politiche delle aziende piccole e grandi. Le organizzazioni imprenditoriali e le singole aziende devono fare un passo avanti in quell’autodisciplina rigorosa e metodica che nel rispetto coscienzioso delle leggi potrà dare risultati importanti. Dal canto suo, la politica non può più limitarsi alle parole o ai provvedimenti che nascono evasivi. Bisogna che ciascuno, per la sua parte di responsabilità, senta che la popolazione è stanca di promesse e misura qui, più che in altri campi, l’affidabilità e credibilità del sistema Paese.

Affidabilità e credibilità sono vistosamente in gioco anche nella vicenda delle immondizie che da troppo tempo sta affliggendo Napoli e la Campania senza che l’opinione pubblica locale e nazionale riesca a capire come stiano effettivamente le cose: fino a dove c’entra la malavita organizzata e le complicità di cui essa gode, e dove comincia la mala-politica, la latitanza amministrativa, il palleggiamento delle responsabilità, l’ignavia delle istituzioni. Il confratello Arcivescovo di Napoli, Cardinale Crescenzo Sepe, insieme ai Vescovi della Campania, hanno preso posizione ferma, e noi non possiamo che essere solidali con loro.

Altro versante problematico, nel quale la Chiesa sa di dover dire il suo sì agli italiani, è quello della moralità sociale e della legalità pubblica che sono dimensioni proprie della cittadinanza rispetto ai vincoli collettivi. Situazioni specificatamente delicate si presentano – com’è noto − in alcuni territori del Paese, quelli più interessati dalla malavita organizzata, dalla ‘ndrangheta e dalla mafia, fenomeni che da tempo tendono peraltro a ramificarsi all’esterno, in regioni un tempi immuni e anche – come s’è visto l’estate scorsa − all’estero. Non possiamo, a questo riguardo, non apprezzare ciò che sta avvenendo per iniziativa delle associazioni di volontariato, chiamate Addiopizzo o in altro modo, e anche di importanti associazioni di categoria, grazie alle quali è in atto – secondo un comunicato della Conferenza episcopale siciliana – “un’efficace ribellione della società civile” nei confronti di schiavitù antiche e nuove abusivamente imposte dal racket e dall’usura. Un analogo appello accorato era prima venuto dai confratelli della Calabria, a loro volta impegnati a sostenere le forze buone del riscatto e della rinascita che anche lì sono presenti. A questi Vescovi e alle loro Chiese va la solidarietà convinta della nostra Conferenza, insieme all’impegno per una accorta vigilanza in ogni regione d’Italia.

8. Nel 60° anniversario della Carta Costituzionale che, specialmente nella sua prima parte, è così antropologicamente significativa – e dunque vera nel senso di non superata – e in un momento della vita sociale così delicato e con varie sfide aperte, non possiamo come Vescovi non rivolgerci all’intera classe politica per esprimerle la nostra considerazione e il nostro incoraggiamento.

Nessuno si stupisca se in questo quadro diciamo una parola ai politici di ispirazione cristiana, a coloro che tali sono e così si sono presentati al corpo elettorale, al quale devono rispondere. Vogliamo ricordare la parola rivolta da Benedetto XVI all’Internazionale Democratica di Centro e Democratico-cristiana, il 21 settembre 2007. “La dottrina sociale della Chiesa offre, al riguardo, elementi di riflessione per promuovere la sicurezza e la giustizia, sia a livello nazionale che internazionale, a partire dalla ragione, dal diritto naturale ed anche dal Vangelo, a partire cioè da quanto è conforme alla natura di ogni essere umano e la trascende”. Ebbene, si trova qui il motivo per cui, sui temi moralmente più impegnativi, assecondare nelle decisioni una logica meramente politica, ossequiente cioè le strategie o le convenienze dei singoli partiti, è chiaramente inadeguato. Lo è per una coscienza schiettamente morale, ma lo è ad un tempo per una coscienza anche religiosamente motivata. È vero che il Magistero cattolico prevede il voto positivo a provvedimenti, anche su materie critiche, volti “a limitare i danni di una legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica” (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 73), ma questo non è il caso invocabile allorché un provvedimento legislativo è ancora tutto da allestire o viene presentato al Parlamento. In un simile contesto, quando cioè si tratta di avviare proposte legislative che vanno in senso contrario all’antropologia razionale cristiana, i cattolici non possono in coscienza concorrervi. Non c’è chi non veda infatti che una cosa è operare perché un male si riduca, altra cosa è acconsentire, in partenza, che leggi intrinsecamente inique vengano iscritte in un ordinamento. E non si tratta, qui, di un’imposizione esterna, ma di una scelta da operare liberamente in una coscienza “già convenientemente formata” (GS n. 43). Rispetto alla quale non possono esistere vincoli esterni di mandato, in quanto la coscienza è ambito interno, anzi intrinseco, alla persona, e dunque obiettivamente non sindacabile. Il voto di coscienza, in realtà, è una risorsa a esclusivo servizio della politica buona, e dunque – all’occorrenza – può e deve diventare una scelta trasversale rispetto agli schieramenti, e invocabile in ogni legislatura.

Nessuno pensi che dietro a queste parole ci sia un disegno egemonico che si vuol perseguire. Vale infatti quello che il nostro Papa diceva nella occasione sopra ricordata: “La Chiesa sa che non è suo compito far essa stessa valere politicamente questa sua dottrina: del resto suo obiettivo è servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale” (Ib.). Ed è esattamente questo, non altro, ciò che preme alla nostra Conferenza.

Ci auguriamo intensamente che, mettendo sempre meglio a fuoco i compiti propri a ciascuno, possa crescere nel nostro Paese una interpretazione più ricca e sempre meno unidirezionale della laicità. Segnali nuovi peraltro, anche solo in Europa, non mancano. Possiamo aspettarci un rapido contagio delle idee nuove che stanno emergendo alla luce anche di condizioni ideali e culturali sempre più problematiche. Studiosi di fama internazionale hanno nei mesi scorsi ripetuto che c’è un posto, nella democrazia, per le religioni, come crogiuolo di senso e di felice appartenenza ad una storia e ad una tradizione. Il che dà identità e serena sicurezza. Non c’è scritto da nessuna parte che un vivace pluralismo culturale debba coincidere con un secolarismo aggressivo e intollerante, come è accaduto nei giorni scorsi. Dire, come pure qualcuno ha detto, che la Chiesa Cattolica ha un’irresistibile vocazione al fondamentalismo significa fare della gratuita polemica, senza la disponibilità a mettere sul tavolo argomenti costruttivi e utili ad un confronto magari vivace, ma non caricaturale.

9. Sul fronte sociale, le testimonianze che direttamente raccogliamo nei nostri contatti con la gente ci avvertono che nell’anno appena trascorso si sono aggravate le condizioni economiche di molte famiglie. Avevamo già posto in evidenza – nella nostra assemblea del maggio scorso − il fenomeno dell’accresciuto ricorso ai centri di ascolto Caritas e all’aiuto dei “pacchi viveri” da parte di anziani soli e soprattutto di famiglie con figli. Le segnalazioni delle strutture sono proseguite e l’ultimo rapporto della Caritas italiana e della Fondazione Zancan sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia ha fornito una fotografia assai precisa, e per molti versi preoccupante, dello stato di bisogno nel quale sono caduti molti nuclei familiari. “Avere tre figli da crescere comporta un rischio di povertà pari al 27,8%, valore che nel Sud sale al 42,7%”, si legge nel rapporto pubblicato nell’ottobre scorso. “E il passaggio da tre a quattro componenti, espone 4 famiglie su 10 alla possibilità di essere povere, mentre 5 o più componenti aumentano il rischio di povertà del 135%”. Insomma, ogni nuovo figlio, oltre che una speranza di vita, rappresenta purtroppo un rischio in più di impoverimento. “Di fatto – sottolineava in conclusione la stessa Caritas – l’Italia incoraggia le famiglie a non fare figli”.

Rispetto a questo contesto, l’azione di governo attraverso la legge finanziaria ha dato risposte assai parziali come il bonus – pure importante − per gli incapienti. A fronte di misure positive volte alla generalità dei contribuenti, quali gli sconti per i proprietari di abitazione e per gli affittuari a basso reddito, è urgente una strategia incisiva d’intervento strutturale volta al sostegno della famiglia nei suoi compiti di allevamento e cura dei figli. Solo all’ultimo è stata introdotta una detrazione aggiuntiva, rivolta esclusivamente ai nuclei con 4 o più figli a carico. Segnale di attenzione alle famiglie numerose che va colto, ma certo limitato quanto a consistenza e platea di beneficiari. Le cifre relative alla povertà sopra evidenziate, invece, segnalano come sia necessario porre mano con urgenza – anche in riferimento alla continua, allarmante crescita dei prezzi − a una politica di rinforzo degli stipendi più bassi e delle pensioni minime, e in questo contesto esprimere un sostegno alle famiglie non limitato ai soli redditi, ma mirata ai carichi familiari.

Il comparto sicurezza è uno di quelli che hanno procurato negli ultimi mesi tensioni e preoccupazioni. Se si vuole realmente incidere, bisogna dare certezza al diritto e mettere anche economicamente le forze dell’ordine nella condizione di agire.

10. A livello ecclesiale non ci è certo sfuggita una singolare convergenza di sollecitazioni. Da una parte la “Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione”, emessa dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, dall’altra il lungo passaggio che il Santo Padre ha dedicato sempre all’evangelizzazione nel Discorso alla Curia Romana del 21 dicembre 2007; infine l’intervento all’Angelus di domenica 23 dicembre. Diceva in quella occasione il Papa: “Nulla è più bello, urgente ed importante che ridonare gratuitamente agli uomini quanto gratuitamente abbiamo ricevuto da Dio. Nulla ci può esimere o sollevare da questo oneroso ed affascinante impegno”. Per una Chiesa tradizionalmente molto impegnata sul fronte della missione, com’è quella radicata in Italia, riconoscersi in questo rinnovato imperativo evangelizzatore non è certo difficile. Ma è utile ricordarlo per ciò che esso significa sia nei termini di quell’auto-evangelizzazione che non è mai veramente compiuta, sia nei riguardi degli immigrati che arrivano sul suolo italiano, sia nell’impegno “ad gentes”, attraverso l’opera di missionari e missionarie.

Diceva il Santo Padre nel citato Discorso alla Curia Romana del 21 dicembre 2007 che “diventare discepoli di Cristo è dunque un cammino di educazione verso il nostro vero essere, verso il giusto essere uomini”: è la ragione per cui noi stiamo guardando con crescente interesse e vera fiducia al compito educativo, non perché esso risulti facile quando non si è più sicuri delle norme da trasmettere e non si sa più quale sia il giusto uso della libertà, ma proprio perché è particolarmente arduo.

Nella vita delle nostre comunità sono arrivati, all’inizio dell’Avvento, i tre volumi del nuovo Lezionario, domenicale e festivo, per l’intero ciclo triennale. Un fatto significativo che corona una lunga attesa e un intenso lavoro. Come è già stato doverosamente comunicato agli Uffici Liturgici diocesani, c’è rammarico per la decina di errori sfuggiti ad una revisione dei testi ritenuta affidabile, e sui quali naturalmente si interverrà al più presto.

Nel Messaggio che Benedetto XVI ha inviato alla 45a Settimana Sociale dei cattolici italiani (Pistoia, 23 settembre 2007), chiedeva che gli stessi cattolici “sappiano cogliere con consapevolezza la grande opportunità che offrono queste sfide e reagiscano non con un rinunciatario ripiegamento su se stessi, ma – al contrario – con un rinnovato dinamismo, aprendosi con fiducia a nuovi rapporti e non trascurando nessuna delle energie capaci di contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia”. È questa consegna che mi induce oggi a rinnovare tutta la mia considerazione per il “Progetto culturale cristianamente ispirato” che, lanciato dal Cardinale Camillo Ruini nel 1994, ha avuto un primo varo nel Convegno ecclesiale di Palermo del 1995, e il definitivo avvio nel biennio 1996-98. Esso ha aiutato nell’ultimo decennio la Chiesa che è in Italia a individuare una “nuova svolta antropologica come il passaggio obbligato nel rapporto fede-cultura-società”, diventando “un punto di riferimento” per altre Conferenze e “un fattore dinamico di paragone e di confronto, talora dialettico, con tutti i soggetti pubblici che agiscono nella società civile italiana e non solo” (Patriarca Angelo Scola, Intervento all’Università Cattolica, 5 novembre 2007). Sono intimamente convinto che questo Progetto abbia prodotto molto di più di quanto esteriormente talora non appaia, in termini di una maggior consapevolezza ai diversi livelli: quello della pastorale ordinaria, giacché è attraverso tutta la sua attività che la Chiesa vuol fare anzitutto cultura; quindi mediante la presenza e l’azione dei cristiani nel mondo, i quali incidono nella misura in cui la fede diventa per loro vita vissuta; infine attraverso la valorizzazione della dimensione intellettuale e l’esercizio delle attitudini proprie di chi fa vocazionalmente cultura. In particolare, il Progetto è stato una felice occasione per far emergere competenze e professionalità, porle in rete, e convocarle a convergente riflessione su temi nevralgici. È il momento, a me pare, per dare un ulteriore sviluppo al Progetto, rafforzando un poco la struttura centrale e suggerendo a questa di promuovere periodicamente dei momenti pubblici di elaborazione e di proposta ad alto livello, dando la priorità − se questo sarà condiviso − ai temi della coscienza nel suo nesso con la libertà e la responsabilità.

Cari Confratelli, il tempo intercorso dall’ultima nostra riunione e i fatti in esso accaduti, mi hanno indotto ad una riflessione più articolata del consueto. Per questo mi scuso, appellandomi alla vostra indulgenza. L’entità dei problemi che attendono la nostra valutazione ci sollecita anzitutto ad appellarci a quella preghiera che “si appoggia” sulla preghiera di Cristo (cfr. Gv 17,20). Ci corrobora il pensiero del nostro popolo, a cui il Santo Padre nella Festa del 1° novembre ha indicato la “schiera innumerevole di Santi e Sante che sono nati ed hanno vissuto in questa terra”, per incoraggiarci “a seguire sempre i loro esempi, conservando i valori evangelici per tenere alto il profilo morale della convivenza civile” (Saluto all’Angelus).

Interceda per noi la Vergine Maria, la Grande Madre di Dio.

Roma, 21-24 gennaio 2008

X Angelo Bagnasco

Presidente

 

 


 

Prolusione alla riunione del Consiglio permanente della CEI, Roma 17-19 settembre 2007

 

Venerati e cari Confratelli,

 ci ritroviamo dopo la pausa estiva, all’indomani dell’incontro dei nostri giovani col Santo Padre a Loreto, e alla vigilia quasi della Settimana sociale del centenario, che si svolgerà tra Pistoia e Pisa a metà del mese di ottobre. A unirci sono i vincoli della fede e di una comunione intessuta di fraternità ed amicizia, protesi come siamo alla condivisione della medesima sollecitudine pastorale, per la crescita della fede del nostro popolo.

Invochiamo la sapienza del Signore e la grazia dello Spirito, perché i nostri pensieri e il nostro lavoro siano conformi a ciò che Dio si attende da noi.

 

1.         E il primo pensiero va proprio al recentissimo incontro dei giovani italiani ed europei con Benedetto XVI nella vallata di Montorso, in quel di Loreto. Com’è noto, un analogo convegno, ma naturalmente in un diverso contesto, si era già svolto nel settembre 1995 per invito allora del Servo di Dio Giovanni Paolo II. A dodici anni di distanza, e con una nuova popolazione giovanile, l’incontro si è ora ripetuto come appuntamento intermedio che vuol tenere accesa la fiaccola tra la Giornata mondiale della Gioventù di Colonia e la prossima, programmata a Sidney per l’estate 2008.

Ebbene, non ci poteva essere, per noi e per le nostre comunità, un inizio d’anno più entusiasmante e più carico di promesse di quello vissuto a Loreto. Per il numero dei partecipanti e per la qualità della presenze, l’incontro ha realmente superato ogni attesa. A conferma del fatto che i giovani sanno essere i migliori interpreti della sorpresa che è Dio nelle nostre vite. Quando poi i giovani si uniscono al Papa, sembra quasi che le loro potenzialità vengano come esaltate.

Davvero, possiamo dire anche noi con Benedetto XVI, “quale stupendo spettacolo di fede” è stato − nei suoi diversi momenti − questo appuntamento, per il quale non cesseremo di ringraziare il Signore e la Madre santa. Ritrovarsi a Loreto non ci si sbaglia: quel luogo ha legato a sé una ispirazione speciale. Ma un ringraziamento grande, pieno di ammirazione, lo dobbiamo al Papa stesso, per i doni che ci ha fatto, con la sua presenza e la sua parola. Il dialogo che egli ha intessuto con i giovani, la sua capacità di ascolto, la prontezza e la spontaneità delle sue parole,l’interpretazione che ha dato della loro vita, la comunicazione dello sguardo e dei gesti, sono stati tutti elementi che hanno creato una immediata e straordinaria intesa.

 

2.         Molti di noi, e moltissimi dei nostri Sacerdoti, hanno accompagnato i loro giovani a Loreto, e dunque hanno vissuto di persona quella esperienza, nei suoi aspetti fondamentali. A partire dall’ospitalità che è stata offerta, in avvicinamento a Loreto, dalle 32 diocesi della Romagna, dell’Umbria, dell’Abruzzo e delle Marche, le quali hanno mirabilmente messo a disposizione ciò che di meglio – per fede, storia e arte – potevano porgere ai giovani pellegrini. Ma sono stati proprio gli interventi del Papa a segnare in profondità l’evento, sia nel dialogo intrecciato con i giovani durante la veglia del sabato sia soprattutto nelle parole dell’omelia domenicale. Da subito ha puntato a personalizzare la proposta: “Sì, c’è speranza anche oggi – ha detto nella prima risposta – ciascuno di voi è importante, perché ognuno è conosciuto e voluto da Dio e per ognuno Dio ha un suo progetto”. E quando questo progetto si realizza, non esistono periferie, perché “dove c’è Cristo c’è tutto il centro”. Come non esistono ostacoli insormontabili: “Non abbiate timore – diceva nel discorso della veglia – Cristo può colmare le aspirazioni più intime del vostro cuore… Ciascuno di voi, se resta unito a Cristo, può compiere grandi cose… Niente è impossibile per chi si fida di Dio e si affida a Lui”. E siccome “Dio cerca cuori giovani, cerca giovani dal cuore grande”, ecco che il Papa, attualizzando nella Messa le letture della liturgia, indicava la via del coraggio umile, dell’andare controcorrente: “non ascoltate le voci interessate e suadenti che oggi da molte parti propagandano modelli di vita improntati all’arroganza e alla violenza, alla prepotenza e al successo ad ogni costo, all’apparire e all’avere, a scapito dell’essere”.

Contenuti importanti, anzi decisivi direi, quelli che il Santo Padre ha indicato, e che la nostra Pastorale giovanile non mancherà ora di riproporre in modo adeguato, facendone i capisaldi di una catechesi argomentata. è importante infatti che i giovani siano aiutati a interiorizzare la proposta del Papa, e questo sarà anche il modo per interiorizzare l’esperienza stessa di Loreto.

Su tutto, c’è un messaggio che ricaviamo per noi e per tutti i sacerdoti della nostra Chiesa: che dobbiamo osare, e osare sempre, nel lavoro del Vangelo.

 

3.         La premura del Papa per l’Italia apparirà ancora una volta domenica prossima, nella visita che ha in programma alla diocesi suburbicaria di Velletri, e fra un mese nel viaggio apostolico che lo porterà a Napoli, dove andrà a rinforzare il desiderio di rinascita che quella gente esprime in una tribolata realtà sociale ed economica.

Ancora vivissima è l’eco del pellegrinaggio che il Santo Padre ha compiuto dal 7 al 9 settembre in Austria. L’occasione prossima era data dall’850° anniversario del Santuario di Mariazell, il più importante del Paese e molto frequentato anche dai fedeli di nazioni vicine. Ma il viaggio si è rivelato come un appuntamento ideale con l’intera Europa, di cui l’Austria è come un ponte che unisce l’Est all’Ovest. In ogni sua tappa, questo viaggio ha tenuto presente il contesto dell’Europa, i problemi e la vocazione del nostro continente. E in ogni suo discorso Benedetto XVI ha dimostrato di saper parlare all’uomo del nostro tempo, con parole forti e di grande fascino.

Nel corso degli ultimi mesi peraltro sono venuti dalla Sede Apostolica interventi importanti sotto il profilo ecclesiologico e pastorale, e che bene esprimono la sollecitudine di Benedetto XVI. è un’azione che trova nei Vescovi italiani una ricezione speciale. Gli siamo vicini con la nostra pronta e incondizionata collaborazione sempre, e in modo particolare quando emergono nell’opinione pubblica voci critiche e discordanti. A ben guardare, sono episodi che in nessuna stagione hanno risparmiato i romani Pontefici. è singolare peraltro quella ricorrente pretesa – mossa da “cattedre” discutibilissime – di misurare la fedeltà altrui, Papa compreso, facendola coincidere ovviamente con i propri stilemi e le proprie evoluzioni.  

 

L’iniziativa su cui si è maggiormente concentrata negli ultimi mesi l’attenzione anche intraecclesiale è il “Motu proprio” Summorum Pontificum, relativo all’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, ed entrato ufficialmente in vigore dal 14 settembre scorso. L’obiettivo di questo pronunciamento è chiaramente tutto spirituale e pastorale. Infatti, da una parte “fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa” – come scrive il Papa nella preziosa lettera di accompagnamento del “Motu proprio” –; dall’altra parte è necessario “fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente”.

In questo orizzonte egli chiede di includere come espressione “straordinaria” nella lex orandi della Chiesa il Messale Romano promulgato da San Pio V e aggiornato dal beato Giovanni XXIII nel 1962, posto che la via “ordinaria” resta il Messale Romano varato da Paolo VI nel 1970. E insiste nel precisare che non ci saranno due riti, ma “un uso duplice dell’unico e medesimo rito”, che tutti vogliamo sia sempre più al centro della dinamica ecclesiale, occasione di una piena “riconciliazione” e di un’unità viva nella Chiesa stessa.

 

4.         Quella che il Papa ci sprona ad adottare, oltre le spinte culturali cui si è fatalmente soggetti, è dunque una chiave di lettura inclusiva, non oppositiva. Nella storia della liturgia, come nella vita della Chiesa, c’è “crescita e progresso, ma nessuna rottura”, come già egli ebbe modo di affermare nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005. In quella sede infatti, commemorando il 40° anniversario del Concilio Vaticano II, ha indicato valida non “l’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, bensì quella della “riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”. In altre parole, è la sollecitudine per l’unità della Chiesa “nello spazio e nel tempo” la leva che muove Benedetto XVI, una tensione che fondamentalmente tocca al Successore di Pietro.

Ma questa passione per l’unità deve muovere ogni cristiano e ogni pastore dinanzi alle prospettive che si aprono con il “Motu proprio”. Non dunque ricerca di un proprio lusso estetico, slegato dalla comunità, e magari in opposizione ad altri, ma volontà di includersi sempre di più nel Mistero della Chiesa che prega e celebra, senza escludere alcuno e senza preclusione ostativa verso altre forme liturgiche o nei confronti del Concilio Vaticano II. Solo così si eviterà che un provvedimento volto ad unire e ad infervorare maggiormente la comunità cristiana sia invece usato per ferirla e dividerla.

Vorrei tuttavia aggiungere che sono ragionevolmente ottimista sulla migliore valorizzazione del “Motu proprio” nella vita delle nostre parrocchie. E confido che talune preoccupazioni pessimiste, da subito emerse, si riveleranno presto infondate. Il senso di equilibrio che da sempre caratterizza il nostro clero e dunque la nostra pastorale farà trovare, grazie all’azione moderatrice dei Vescovi, i modi giusti per far germinare il virgulto nuovo dalla pianta viva della liturgia ecclesiale, e anzi, in ultima istanza, per rilanciare e incrementare questa nel suo insieme.

 

5.         Ma c’è un altro intervento di Benedetto XVI che vorrei qui richiamare, il discorso che egli ha fatto in apertura del convegno pastorale della Diocesi di Roma – l’11 giugno scorso – sul tema dell’educazione. In quella sede veniva affrontato in modo esplicito, ossia come “educazione alla fede, alla sequela e alla testimonianza”. E infatti con questa scansione il Papa l’ha effettivamente affrontato, non mancando tuttavia di segnalare come “oggi, in realtà, ogni opera di educazione sembra diventare sempre più ardua e precaria. Si parla perciò – spiegava – di una grande emergenza educativa, della crescente difficoltà che si incontra nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento”. Una disamina che non lascia margini ad illusioni, considerata la società in cui viviamo, afflitta da uno strano “odio di sé”, e considerata la cultura odierna che fa del “relativismo il proprio credo”, precludendosi in tal modo la possibilità di distinguere la verità e quindi di poterla perseguire.

Come non leggere qui in filigrana le tante vicende di cronaca che hanno assediato la nostra estate, suscitando sgomento e sempre ulteriore allerta? Come non intravedere qui l’atteggiamento di resa che contrassegna tanta prassi sociale, in cui a prevalere sono il divismo, il divertimento spinto ad oltranza, i passatempi solo apparentemente innocui, il disimpegno nichilista e abbrutente la persona, giovane o adulta non importa, ché, tanto, verso il peggio le differenze si annullano?

Su questo tema ingente dell’educazione, possibile anche in una cultura che produce facilmente banalità e omologazione, immagino che come Conferenza episcopale dovremo tornare, alla luce delle piste lanciate dal Papa, con una riflessione articolata che coinvolga magari i diversi soggetti pastorali, e che si stagli all’orizzonte con propositi di un impegno all’altezza delle sfide.

 

6.         Giova tuttavia ricordare che durante il Convegno ecclesiale di Verona – del quale, ad un anno di distanza, vogliamo fare grata memoria – furono già dette cose significative e preziose in ordine all’educare. Non a caso, nella recentissima Nota pastorale che raccoglie i frutti del Convegno, è rifluita buona parte di quelle acquisizioni. Una delle quali mi preme richiamare, non perché sia inedita ma perché è basilare. Mi riferisco all’esigenza ormai da tutti riconosciuta di raccogliere e coltivare sempre meglio l’unità della persona: essa è continuamente insidiata dalla frantumazione e dallo smarrimento, dovuto non tanto alla necessaria articolazione  delle esperienze quanto piuttosto alla mancanza di criteri di interpretazione e di sintesi. Il clima di materialismo in cui viviamo tende a sfilacciare le persone e a frantumare i loro punti di vista, in una estenuazione che vorrebbe rendere patetico qualunque richiamo alla coerenza.

Ma il vuoto non si regge in piedi e la vita concreta non si divide a settori o momenti tra loro incomunicabili. Di qui la preziosità dell’indicazione a cui si è giunti a Verona, che peraltro registra consapevolezze già presenti nel nostro laicato più impegnato. Così, quando al numero 12 della Nota si ripercorrono i cinque ambiti sui quali si erano modulati i lavori del Convegno, si vuole dire proprio questo: è la persona, nelle sue dimensioni costitutive, ad essere il soggetto-interlocutore diretto della nostra attenzione pastorale. Dunque, nessun astrattismo si dovrebbe rintracciare nelle nostre iniziative, ma una proposta concreta, che abbraccia la vita, e che porta tutta l’esistenza all’incontro risanatore e liberante di Cristo.

Ed è qui la ragione, a me pare, che sfugge a tanti osservatori “laici”, per la quale anche nell’ambito politico il cattolico cerca una corrispondenza plausibile tra ideali e programmi. Diceva il Papa, nel citato discorso alla diocesi di Roma: “La consapevolezza di essere chiamati a diventare testimoni di Cristo non è pertanto qualcosa che si aggiunge dopo, una conseguenza in qualche modo esterna alla formazione cristiana…”. Questo, mi sia consentita l’osservazione, è esattamente il punto: in nessun ambito, neppure in politica, si possono tralasciare – per opportunismo, o convenzione, o altri motivi – le esigenze etiche intrinseche alla fede. E ciò non in disprezzo, ma per amore della politica e della sottile arte che essa esige.

 

7.         La vicenda di padre Giancarlo Bossi, il missionario rapito nelle Filippine e infine – grazie a Dio – rilasciato (e presente a Loreto con una testimonianza di grande efficacia), come le vite di passione di tutti i nostri missionari, non fanno che renderci consapevoli che questo, anche questo nostro tempo, è tempo di serietà nella fede fino anche al martirio. Il sangue dei martiri non può essere tradito: essi accettano la persecuzione e la morte sempre e solo per amore di Gesù, della Chiesa, e degli uomini che servono in nome di Cristo.

Fin dalle origini, la testimonianza è elemento costitutivo della fede cristiana. I moltissimi fratelli e sorelle che in duemila anni hanno dato e continuano oggi a dare la vita in molte parti del mondo, ci ricordano che non possiamo puntare al ribasso nella vita cristiana, stemperando le esigenze alte del Vangelo e percorrendo la strada dei compromessi dottrinali o morali.

In un simile contesto, amiamo ricordare la testimonianza che offrono i nostri confratelli Vescovi nelle zone più tribolate dalle malversazioni e dai delitti di mafia, camorra e ‘ndrangheta: sappiano che siamo loro vicini e solidali, che li sosteniamo con la preghiera, ammirati della loro dedizione al Vangelo e dell’attaccamento al popolo loro affidato. In tale prospettiva, potrebbe essere opportuno, da parte della nostra Conferenza, riprendere e aggiornare la riflessione che a suo tempo rifluì nel documento dell’Episcopato italiano – “Sviluppo nella solidarietà. Chiesa Italiana e Mezzogiorno” – del 1989.

 

8.         Partecipando – col cuore di Vescovi – alla vita del nostro Paese, e osservando le dinamiche singolari che talora si sviluppano, o certi modelli che si diffondono e fenomeni che improvvisamente prendono piede, c’è un interrogativo che sorge e che formulerei così: esiste una modalità, compatibile con la democrazia, grazie alla quale nutrire un ethos collettivo partecipato e ad un tempo capace di resistere e sopravanzare rispetto alle dissipazioni del costume?

Non è una domanda oziosa. Come non lo è quest’altra: lo Stato, inteso come comunità politica strutturata, ha solo il compito di registrare e in qualche modo regolamentare le spinte comportamentali che emergono dal corpo sociale, o deve anche promuovere un’idea di bene comune da perseguire e dunque trasmettere alle generazioni di domani, in un progetto di società aperta e insieme capace di futuro? So bene che sullo sfondo di simili interrogativi qualcuno potrebbe paventare i fantasmi di uno Stato etico, che in realtà però nessuno vuole, e che noi meno di tutti potremmo accettare. E tuttavia, la preoccupazione di non aprire la strada a queste derive non può essere un alibi che impedisce di affrontare questioni che sono e saranno sempre più decisive.

 

9.         Mi limito qui ad osservare che c’è un legame che unisce il cittadino allo Stato e che questo legame è in concreto condizionato dalla capacità effettiva dello Stato stesso di farsi promotore e garante del bene comune. Si può, d’altro canto, osservare che vi sono situazioni e comportamenti socialmente deplorevoli, anzi criminali, che non riescono a trovare soluzione: pensiamo, ad esempio, al dramma recente e crescente degli incendi boschivi provocati dall’uomo che in questa ultima estate hanno messo in ginocchio intere zone del Paese. Alla luce di simili fatti, ma anche di altre tendenze comportamentali, sembra che diventi sempre più friabile il vincolo sociale e si prosciughi quel tipo di solidarietà su cui una comunità strutturata deve fare affidamento, se vuole essere un paese-non-spaesato.

Ebbene, a me pare illusorio sperare in un improvviso quanto miracolistico rinsavimento morale, se al punto in cui ci troviamo non avviene una ricentratura profonda, da parte dei singoli soggetti e degli organismi sociali, sul senso e sulla ragione dello stare insieme come comunità di destini e di intenti. E se, grazie anche al contributo della religione e alla considerazione ad essa riservata, non acquisteranno una evidenza nuova e una credibilità proporzionata i valori essenziali per una convivenza.

Sono tuttavia convinto che la realtà del nostro popolo non sia assolutamente rappresentata, né tanto meno definita, dai fenomeni peggiori a cui tanta enfasi viene data nella pubblica opinione, rischiando di creare tendenza, quasi si trattasse di nuove scuole di pensiero e di vita. La componente sana della società è ampiamente maggioritaria: nel silenzio dignitoso e in spirito di sacrificio, con ancoraggio alla fede cristiana o per ispirazione a quell’umanesimo non astratto né generico che nel Vangelo trova radici sempre fresche, essa vive i propri doveri, vive la realtà della famiglia e le varie relazioni, vive la sfida irripetibile della propria esistenza terrena con serietà, onestà e dedizione.

 

10.       Dinanzi ai grandi interrogativi cui si è fatto cenno, finiscono per acquistare un valore nuovo le stesse occasioni che il nostro mondo cattolico è solito darsi per “studiare” il tempo presente e utilmente confrontarsi con le istanze che provengono da altri filoni di pensiero o da diverse impostazioni culturali. Dico questo pensando concretamente alla prossima Settimana sociale, in calendario dal 18 al 21 ottobre e che si svolgerà a Pistoia e Pisa. Città scelte non a caso, perché lì prese vita un secolo fa quel movimento delle Settimane sociali che si rivelerà assai significativo nei decenni successivi, quale “luogo” dal quale si contribuì al formarsi di un ethos che corrispondesse ai compiti di uno Stato moderno, partecipato e solidale.

Il tema che è stato individuato dal competente Comitato scientifico e organizzatore è quanto mai cruciale: “Il bene comune oggi”, con un sottotitolo che precisa “un impegno che viene da lontano” ma che sa osare uno sguardo adeguato sul domani, come è ben spiegato nel documento predisposto in vista appunto dell’incontro, e come è stato fruttuosamente lumeggiato nei tre seminari preparatori svoltisi nei mesi scorsi.

Inutile dire l’attesa che nutriamo verso questo appuntamento, nel quale verrà opportunamente messa a fuoco quell’idea di bene comune che è stato uno dei cavalli di battaglia più qualificanti il nostro cattolicesimo sociale, e che nella dottrina del Concilio Vaticano II, come nel magistero più recente dei Papi, ha trovato una trattazione così illuminante da imporsi come ossatura di ogni successivo sviluppo.

 

11.       Attenta com’è alla persona umana, nella sua dimensione sociale e trascendente, la Chiesa non può disinteressarsi dell’esperienza fondamentale del lavoro e dunque anche della Formazione professionale. La giusta attenzione alla formazione permanente e alla riqualificazione lavorativa a favore degli adulti non deve far dimenticare – come sembra accadere in varie Regioni – l’attività di formazione al lavoro da destinare ai giovani: se così si facesse, si finirebbe col far aumentare, anche sotto questo aspetto, le differenze tra il Nord e il Sud del Paese, e si disperderebbe un patrimonio educativo che è stato garantito per decenni da vari enti, anche d’ispirazione cristiana. Il sistema della Formazione professionale – rivelatosi fino ad oggi strumento valido per una crescita basilare dei giovani e per il loro inserimento socio-lavorativo, oltre che preziosa opportunità di prevenzione dal disagio sociale e dalla dispersione scolastica – deve trovare oggi, attraverso un adeguato raccordo tra provvedimenti nazionali e regionali, una nuova definizione che gli faccia superare disomogeneità e frantumazione e lo rilanci in tutto il territorio.

Un altro problema particolarmente acuto, cui come Pastori veniamo continuamente interessati, è quello della casa. Mi riferisco in particolare al dramma di coloro – pensionati o famiglie con un solo reddito – che sono raggiunti da provvedimenti di sfratto e non trovano altre opportunità. Ma pensiamo anche ai giovani fidanzati che vorrebbero sposarsi e nei loro progetti sono annichiliti per il problema dell’abitazione che non si trova oppure è inavvicinabile per le loro risorse. Ci sono inoltre situazioni di promiscuità, dove famiglie diverse sono costrette a vivere in uno stesso appartamento, magari fatiscente, e per ciò stesso non in grado di garantire un vicendevole rispetto.

Su questo fronte, la collettività ai vari livelli deve darsi uno slancio, e approntare quelle soluzioni di edilizia popolare che per vaste zone e in una serie di città appaiono veramente urgenti. Anche agli istituti bancari e di credito vorrei far presente questa emergenza perché, tenendo conto delle condizioni internazionali e secondo le loro possibilità e competenze, vogliano maggiormente contribuire con senso di equità ad una concreata soluzione del problema.

 

12.       Cari Confratelli, mentre ringraziamo il Signore Gesù per il grande bene presente nelle nostre Chiese, non ci nascondiamo le difficoltà e neppure le contraddizioni che il nostro tempo presenta: la storia insegna che ogni epoca porta con sé le sue proprie sfide sul piano religioso, culturale, e socio-politico. Ma porta anche le sue opportunità. Si tratta di luci e ombre che abbiamo evidenziato già negli Orientamenti pastorali per il decennio e più recentemente nella citata Nota pastorale che vuol dar seguito al Convegno ecclesiale di Verona. Come uomini di fede, sappiamo che la storia ha la sua teologia, e dunque è sempre storia di salvezza in quanto procede verso il suo fine, che non è la notte del nulla, ma la luce di Dio. Sappiamo che il Signore Gesù sa trarre il bene per le vie misteriose della sua Pasqua. Sappiamo altresì che ogni epoca non è mai solamente “tempo” (cronos), ma è sempre anche “grazia” (kairòs). Guardiamo dunque a quest’ora con lo sguardo e il cuore di Cristo buon Pastore. è questo sguardo teologale che, insieme ai nostri carissimi Sacerdoti, vogliamo che cresca nelle nostre comunità. Per questo, di fronte a ostacoli e – talora – incomprensioni, non ci abbandoniamo a recriminazioni sterili, e neppure ci affidiamo soltanto a pur opportune metodiche pastorali; ma ci sentiamo chiamati, come inguaribili Pastori, a spremere dal nostro cuore un supplemento d’amore verso tutti.

Amore che si sostanzia della fede nella Croce gloriosa di Cristo e in un più grande sacrificio di noi stessi. Sospinti da questo amore evangelico, non possiamo tacere: a tutti, sempre e dovunque, annunciamo la lieta verità di Dio che è Padre e la lieta verità dell’uomo che risplende in Gesù di Nazareth. Da duemila anni rimbalza da cuore a cuore, da generazione a generazione, la gioiosa notizia del Vangelo che è luce amica di tutti.

Sappiamo che le parole di Cristo rispondono agli interrogativi ultimi della ragione, ma anche sostengono e stimolano la ragione stessa nella ricerca delle verità più profonde sull’uomo e sul creato. Sollecitandola altresì a non accontentarsi di risposte solo immediate e di superficie.

Come non ricordare qui i nostri carissimi Sacerdoti? A loro, che ogni giorno spendono se stessi per il servizio e il bene della gente, sorretti dall’amore di Cristo che colma e rallegra ogni fatica e ogni solitudine, rinnoviamo il nostro affetto di Pastori e la gratitudine della Chiesa.

 

13.       Il valore intangibile della persona e della vita umana, vita che deve essere accolta e accudita fin dal sorgere, ed amorevolmente accompagnata fino al suo naturale tramonto; la famiglia fondata sul matrimonio, cellula fondante e inarrivabile di ogni società; la libertà dei genitori nell’educare i figli; il sereno senso del limite che accompagna la parabola dell’umana esistenza; il codice morale che si radica nell’essere profondo e universale dell’uomo e si esplicita e perfeziona in Gesù; la libertà che – lungi dall’essere mero arbitrio – è impegnativa adesione al bene e alla verità: vedo qui i capisaldi della storia e della tradizione del nostro popolo. Essi costituiscono l’ethos di fondo che – nonostante incoerenze e nuove sfide – dà corpo a quel senso di reciproco riconoscimento e di comune appartenenza che ci fa sentire “società”, “casa” aperta e accogliente verso tutti coloro che vogliono rispettosamente entrare. Sovviene quel che diceva il teorico marxista Roger Garaudy, nel suo studio intitolato “Il marxismo e la morale” (1948): “Il cristianesimo ha creato una nuova dimensione dell’uomo: quella della persona umana. Tale nozione era così estranea al razionalismo classico che i Padri greci non erano capaci di trovare nella filosofia greca le categorie e le parole per esprimere questa nuova realtà. Il pensiero ellenico non era in grado di concepire che l’infinito e l’universale potessero esprimersi in una persona”.

Come la storia dimostra, la vera civiltà non nasce da una buona organizzazione, ma da un’anima buona, cioè da quell’insieme di ideali spirituali, alti e nobili, che riguardano non tanto il funzionamento di un’esistenza, ma il senso dell’esistere. Riaffiora un’affermazione del poeta latino Giovenale: “Considera sommo crimine… perdere per la vita le ragioni del vivere”. è vero, ci sono valori ai quali vale la pena dedicare la vita: barattarli, questi valori, significherebbe annichilire le sorgenti della vita stessa. Là dove essa perderebbe il suo significato. E ciò vale per i singoli come per la società: anche un Paese e la sua civiltà hanno contenuti culturali e valori spirituali che giustificano l’impegno di una vita. Quando questi non esistono più o sono irreparabilmente aggrediti, allora vengono meno le fondamenta stesse e le energie vitali che sostengono ogni autentica comunità.

Solo su simili premesse, che vanno continuamente custodite e alimentate, un Paese vive e prospera. Ed ecco perché ogni attentato alla vita, alla famiglia, alla libertà educativa, alla giustizia e alla pace… troverà sempre una parola rispettosa e chiara da parte della Chiesa. Mi si permetta, al riguardo, un rapido ma accorato riferimento allo scenario internazionale. Ossia, alla vicenda che, nelle ultime settimane, ha visto protagonista Amnesty International, a proposito della clamorosa inclusione, tra i diritti umani riconosciuti, della scelta di aborto, magari anche solo nei casi di violenza compiuta sulla donna. Sono derive che ci rendono ulteriormente avvertiti del pericoloso sgretolamento a cui sono sottoposte le consapevolezze umane anche più evidenti, e della necessità quindi di una presenza qualificata a contrastare simili esiti.

 

Cari Confratelli, l’Italia merita un amore più grande! L’incanto della sua natura, la ricchezza della sua storia, la fecondità delle sue radici cristiane, la fioritura delle sue tradizioni, quella diffusa sensibilità che è nell’animo della sua gente insieme ad una intelligenza creativa, meritano un maggior apprezzamento da parte di tutti e un rinnovato senso di appartenenza e di amore al Paese. Meritano una responsabilità più grande!

Come Pastori, e insieme alle nostre comunità, continueremo ad annunciare Cristo, riscatto e speranza dell’uomo. Lo annunceremo con tutta la fede e la passione di cui siamo capaci; lo annunceremo quali che siano le conseguenze sul piano umano, persuasi che annunciare Cristo è servire l’uomo e che il Vangelo è sempre fonte di umanità vera per tutti.

 

Affidiamo noi stessi, le nostre Chiese, il nostro amato Paese alla Vergine Maria, da ogni parte invocata dal nostro popolo con le espressioni più belle della filiale devozione.

 X Angelo Bagnasco

Presidente

 

 


 

 

Prima prolusione di S. Ecc. Mons. Angelo Bagnasco da Presidente della CEI (21 marzo 2007)

 

Venerati e cari Confratelli!

1. Muovo oggi, insieme a Voi, i primi passi nel nuovo incarico che il Santo Padre ha voluto inaspettatamente affidarmi: una responsabilità grande che condivido con questo Consiglio Permanente, nel quale faccio oggi – per così dire − il mio secondo ingresso, chiedendo a Voi la benevolenza di accogliermi con la preghiera e l’amicizia. Come ho già avuto modo di dire il 7 marzo, «quando il Papa chiama, si risponde», anche se il carico che viene affidato appare, ad uno sguardo umano, sproporzionato rispetto alle personali risorse. Il di più che manca so di doverlo chiedere al Signore, e di poterlo chiedere anche a voi, per un’opera che è effettivamente comune. Mi sento interpellato, per questo servizio che oggi inizia, ad una fraternità episcopale che non avrà riserve, e sarà totalmente volta a facilitare la comunione tra noi e l’intesa indispensabile al lavoro che attende questo Consiglio. In questo contesto, rinnovo la mia profonda riconoscenza per gli innumerevoli segni di vicinanza e d’augurio che i Confratelli mi hanno inviato, commosso e grato anche a tantissimi sacerdoti e laici che da ogni parte mi hanno espresso fraternità e assicurato preghiera.

 

2. Il tempo liturgico che stiamo vivendo mirabilmente ci aiuta a sintonizzarci sulle esigenze di quella perenne conversione che a noi Vescovi è richiesta più e prima ancora che agli altri nostri fratelli. “Con più partecipazione – è l’invito del Pontefice, nel suo messaggio per la Quaresima – volgiamo pertanto il nostro sguardo, in questo tempo di penitenza e di preghiera, a Cristo crocifisso che, morendo sul Calvario, ci ha rivelato pienamente l’amore di Dio”. Qui è l’esperienza fontale della nostra fede, questo è ciò che anzitutto noi vogliamo annunciare ai fratelli.

 

3. Il Papa e la CEI. La mia nomina da parte del Santo Padre, se per un verso sollecita il sentimento della mia vivissima, intima gratitudine per il gesto di totale benevolenza che egli ha avuto per me, per l’altro verso non può non segnalare il particolare legame che unisce la nostra Conferenza con il Successore di Pietro, Vescovo di Roma e Primate d’Italia. Lo Statuto della CEI registra in termini giuridici – parlando di “speciale sintonia” (Preambolo, n. 3) − una realtà che è assai profonda, e sentita anche dal nostro popolo: quella appunto di un attaccamento singolare che unisce le nostre Chiese al Papa. La Provvidenza ha disposto che fossimo i testimoni ravvicinati, e dunque in qualche modo privilegiati, della missione pontificale; che avessimo da godere di una premura assidua e di un magistero particolarmente sollecito proprio nei nostri confronti. È questo forse che spiega l’accorrere inesausto della nostra gente alla sede di Pietro, un affetto così esplicito che non mancò a suo tempo di colpire Giovanni Paolo II (cfr. per tutti gli altri, Discorso all’episcopato italiano del 13 maggio 1993) come oggi colpisce Benedetto XVI. Ed egli non manca di annotarlo (cfr. le parole pronunciate durante l’Udienza generale del 1 giugno 2005). Mentre eleviamo a Dio il ringraziamento più fervido per la genuinità che resiste nel nostro popolo, ci sentiamo impegnati a mantenere vivo e a sviluppare sempre di più il senso della fede che, nonostante difficoltà e fatiche, porta a quel Gesù storico che chiamò a sé gli apostoli per inviarli poi a tutte le genti (cfr. Mt 28,19; Mc 16,15-16; Gv 20,21). E chiamò Pietro per farlo pescatore di uomini (cfr. Lc 5,10; Mc 1,16-17).

Sappiamo peraltro che non c’è dono ricevuto che non obblighi ad un impegno commisurato. Questa caratteristica “petrina”, che sempre connota la fede cattolica e che dà una vivacità speciale alla fede della nostra gente, ci impegna ad una testimonianza missionaria davvero plenaria, a cominciare dalla vita quotidiana delle nostre parrocchie.

 

4. Sono in pieno svolgimento le visite ad limina dei Vescovi italiani. Noi stessi e le nostre Conferenze episcopali regionali o siamo già venuti a Roma o stiamo per recarci. Alla conclusione, com’è noto, e proprio in occasione dell’Assemblea generale di maggio, il Santo Padre suggellerà il nostro pellegrinaggio con un discorso che abbraccerà l’insieme delle situazioni da noi Vescovi presentate e ci donerà gli indirizzi attesi. Intanto, possiamo confidarci la consolazione che sono gli incontri personali col Santo Padre, il suo ascolto e la sua premura per ciascun Vescovo e ciascuna Chiesa. La delicatezza che egli offre ai suoi interlocutori è per noi una vera scuola. Le parole che egli pronuncia ai gruppi regionali di Vescovi presenti alle udienze del mercoledì sono un condensato di sapienza che illumina i nostri passi. Il Papa ci è particolarmente vicino, e noi siamo con lui una sola voce e un solo cuore.

 

5. La CEI, struttura di servizio. Mi pare importante soffermarmi, anche solo brevemente, sulla Conferenza episcopale italiana quale essa è, “segno autentico e autorevole di comunione delle Chiese particolari che sono in Italia” (Statuto, Preambolo, n. 3). Noi non ci discosteremo da ciò che lo Statuto dice e richiede. Per quanto mi riguarda sono (anch’io, come il cardinale Ruini) intimamente convinto che il Presidente, il Segretario generale e l’organizzazione centrale della CEI operano tanto più utilmente ed efficacemente quanto più si attengono alla definizione che di questi ruoli è stata data nello Statuto stesso, senza mai eccedere o abbondare rispetto a quella “struttura di servizio” che è stata preziosamente delineata. Il tutto nella logica e nello spirito della comunione e nella precisa consapevolezza della responsabilità inalienabile e dell’autorità propria di ciascun Vescovo per la Chiesa che gli è affidata.

 

6. Per quanto riguarda l’articolata struttura dei nostri organismi centrali – ai quali esprimo la mia personale gratitudine e stima - oggi possiamo dire che la fase dello sviluppo può ritenersi sostanzialmente compiuta: quella organizzativa, incentrata sulle esigenze eminentemente pastorali oltre che sugli adempimenti previsti dagli Accordi di revisione del Concordato, e l’altra più connessa alla necessità di una presenza pubblica della Chiesa, la quale non può non avere una sua adeguata dimensione nazionale, ruolo che in via principale, anche se certamente non esclusiva, può essere esercitato più efficacemente dal Corpo episcopale. Ebbene, il rispetto rigoroso della funzione dei Vescovi nelle proprie Diocesi, l’esercizio effettivo della responsabilità collegiale nelle scelte che afferiscono al cammino della Conferenza nazionale, la sua articolazione interna e la valorizzazione delle nostre Conferenze episcopali regionali, sono principi e orientamenti che richiedono anche in questa stagione una costante attenzione e una concreta volontà.

 

7. Desidero annotare come tra i temi più insistentemente raccomandati dalla Santa Sede alle Conferenze episcopali ci sia quello dei rapporti con l’autorità civile. Non è un caso che il motu proprio di Giovanni Paolo II Apostolos suos (21 maggio 1998), nel rilevare che se “è difficile circoscrivere entro un elenco esauriente” i temi che richiedono la cooperazione attraverso le Conferenze episcopali, non si esime tuttavia dal menzionare una serie precisa di questi temi: “la promozione e la tutela della fede e dei costumi, la traduzione dei libri liturgici, la promozione e la formazione delle vocazioni sacerdotali, la messa a punto dei sussidi per la catechesi, la promozione e la tutela delle università cattoliche e di altre istituzioni educative, l’impegno ecumenico, i rapporti con le autorità civili, la difesa della vita umana, della pace, dei diritti umani, anche perché vengano tutelati dalla legislazione civile, la promozione della giustizia sociale, l’uso dei mezzi di comunicazione sociale” (n. 15).

È interessante osservare che, suggerendo anche “di evitare la burocratizzazione degli uffici e delle commissioni” (n. 18), il documento pontificio raccomanda alle Conferenze episcopali non piccole attenzioni pastorali. Tutte indicazioni preziose, che sono criteri per continuare con fiducia e decisione a camminare nel segno della pastoralità, della flessibilità e dell’essenzialità.

 

8. In questo contesto desidero doverosamente considerare − insieme a Voi − il lavoro compiuto dai singoli Presidenti che si sono succeduti nell’ancor breve arco di vita della nostra Conferenza: dal cardinale Giuseppe Siri, al cardinale Giovanni Urbani, al cardinale Antonio Poma, al cardinale Anastasio Alberto Ballestrero, al cardinale Ugo Poletti, fino all’ultimo e qui presente cardinale Camillo Ruini, Vicario di Sua Santità per la diocesi di Roma. Se da una parte possiamo scorgere il filo di una consolante continuità che lega dall’interno l’opera di questi benemeriti Pastori, dall’altra non possiamo non rilevare il balzo che, anche per oggettive condizioni storiche, la nostra Conferenza ha compiuto durante la presidenza del cardinale Ruini. A lui va il grazie forte, caloroso e convinto di tutti noi. In particolare, so di dovergli una gratitudine speciale per quanto ha dato a me come ad ogni altro confratello Vescovo durante i sedici anni della sua presidenza, per l’attenzione che da lui abbiamo sempre ricevuto, insieme alla sollecitudine a darci con intelligenza d’amore al nostro popolo. Impossibile contenere in poche parole il carico di lavoro e di iniziative che la CEI ha sviluppato negli ultimi tre lustri; non ci mancheranno le occasioni in cui dovremo farlo proprio per dare continuità all’opera svolta. Fin d’ora però chiediamo all’amato cardinale Ruini di non farci mancare tutto il suo aiuto e tutto il suo consiglio, e di voler tra l’altro continuare a svolgere − con la competenza che gli è propria − quell’opera di animazione culturale che è stato un capitolo non irrilevante di tutta la sua vita sacerdotale e di cui il “Progetto culturale” della CEI è una espressione profetica quanto mai qualificata.

Ci è di conferma e di stimolo quanto il Santo Padre ha dichiarato ai partecipanti al Congresso promosso dalla Commissione degli Episcopati della Comunità Europea lo scorso 24 marzo: “Siate presenti in modo attivo nel dibattito pubblico a livello europeo, consapevoli che esso ormai fa parte integrante di quello nazionale, ed affiancate a tale impegno un’efficace azione culturale”.

All’inizio del mio servizio, conto sull’apporto di tutti e di ciascuno, consapevole dei miei limiti, ma certo della fraterna e responsabile collaborazione di questo autorevole e rappresentativo Consiglio Permanente, e serenamente conscio che tutto è e resta continuamente perfettibile.

A S.E. Mons. Giuseppe Betori rivolgo il ringraziamento di tutti e mio personale: ben conosciamo la sua competente e generosa dedizione a servizio della nostra Conferenza in qualità di Segretario Generale.

 

9. Un’intenzione profonda ci guida. Nel recente Convegno ecclesiale di Verona, rispetto al quale noi sentiamo di avere una responsabilità fondamentale nel farne conoscere lo spirito e i contenuti, è stato evidenziato con forza il valore della speranza cristiana e della dimensione spirituale. Benedetto XVI ha parlato della speranza cristiana con grande speranza! Cioè con quel senso di fiducia profonda e d’amore, di simpatia e di cordialità che le folle sentono fluire dalla sua persona e dalle sue parole, anche quando queste ricordano la misura alta e impegnativa del Vangelo. In lui vi è lo sguardo della Chiesa verso il mondo, si riflette lo stesso sguardo di Gesù Salvatore. In Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, morto e risorto per amore dell’umanità, rinnoviamo la nostra fede di Vescovi, Successori degli Apostoli. In Cristo è il senso della nostra vita, il centro della storia e del cosmo. È questa la lieta notizia, la speranza che sentiamo ardere in noi e che vogliamo annunciare agli uomini d’oggi; è questo il messaggio che da duemila anni attraversa i secoli e risuona per tutta la terra per offrirsi, rispettoso e appassionato, ad ogni cuore. Il Santo Padre ci invita a tenere fermo lo sguardo sul volto di Gesù, ricordando che “la sua risurrezione è stata come un’esplosione di luce, un’esplosione d’amore che scioglie le catene del peccato e della morte”. Sta qui la nostra gioia e la nostra speranza. Al di fuori di questo tutto si scolora, perde di significato, diventa senza prospettiva: come per Pietro sulle acque tempestose del mare nel cuore della notte, tutto diventa solo difficoltà e tenebra.

Il forte discorso del Papa riprende e rilancia il cuore della sua prima Enciclica: infatti “la cifra di questo mistero (la Pasqua di morte e risurrezione) è l’amore e soltanto la logica dell’amore”. Anche l’Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis, che Benedetto XVI ha appena donato alla Chiesa universale, riprende e sviluppa il tema dell’Amore che è Dio, che si è rivelato e offerto in Gesù di Nazaret, e che permane nel sacramento dell’altare. Come afferma il Concilio Vaticano II “nella Santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo nostra pasqua e Pane vivo” (Presbiterorum Ordinis, n. 5). E il Papa ricorda non solo che “grazie all’Eucaristia la Chiesa rinasce sempre di nuovo” (Sacramentum Caritatis, n. 6), ma anche che “ogni grande riforma è legata, in qualche modo, alla riscoperta della fede nella presenza eucaristica del Signore in mezzo al suo popolo” (ibid.).

La ricchezza dottrinale, spirituale e pastorale dell’Esortazione ci indica la strada di una spiritualità e di una pastorale eucaristiche, cioè fortemente centrate sulla divina Eucaristia che ne è fonte e culmine, nonché sostegno sempre vivo: “prima di ogni attività e di ogni nostro programma – diceva ancora il Papa a Verona − deve esserci l’adorazione che ci rende davvero liberi e ci dà i criteri per il nostro agire”.

 

10. Nell’intervento conclusivo del Convegno di Verona, il cardinale Camillo Ruini ha ripreso l’esortazione del Santo Padre a proposito dell’adorazione: “Abbiamo a che fare qui con quello che è il vero ‘fondamentale’ del nostro essere cristiani. (…) Il mistero cristiano, vissuto nella pienezza delle sue dimensioni di amore gratuito e sovrabbondante, (…) è infatti l’unica realtà che possiamo davvero proporre come quel grande ‘sì’ a cui si è riferito anche ieri Benedetto XVI, che salva e che apre al futuro, anche all’interno della storia. (…) Da questa assemblea sale dunque un’umile preghiera, che implica anche un sincero proposito, affinché il primato di Dio sia il più possibile ‘visibile’ e ‘palpabile’ nell’esistenza concreta e quotidiana delle nostre persone e delle nostre comunità”. Cari Confratelli, è questa la missione della Chiesa, lo scopo del suo esserci e il suo unico desiderio: l’annuncio della speranza che è Cristo. Egli, infatti, “rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (Gaudium et Spes, n. 22). Per questo la fede è gioia e la vita cristiana, proprio perché alta ed esigente, è gioia. Generare le persone alla vera gioia, esprime in modo eminente la maternità della Chiesa.

 

11. La Chiesa è “madre” perché genera gli uomini alla vita della grazia, all’amicizia con Dio attraverso la Parola e i Sacramenti, segni efficaci dell’amore e della misericordia salvifica di Cristo: è madre perché vive accanto alla gente grazie alla dedizione ammirevole dei Sacerdoti, nostri primi e carissimi collaboratori. Essi conoscono e condividono la vita quotidiana e concreta del popolo: gioie e dolori, successi e sconfitte, esperienze di letizia e situazioni di dramma. Per la loro capacità di ascolto e di comprensione, di illuminazione delle coscienze nella fedeltà al Vangelo e al Magistero della Chiesa, di vicinanza e di sostegno diretto, noi Vescovi rinnoviamo la nostra ammirata gratitudine e la stima più affettuosa, insieme al nostro più cordiale incoraggiamento.

Proprio perché “madre”, la Chiesa è anche “maestra”, cioè offre la verità su Dio e sull’uomo. Dice cose che hanno a che fare con la vita. Non si generano gli spiriti se non nell’amore e nella verità; non si formano le coscienze se non nella luce del Vangelo e della Tradizione viva della Chiesa. Solo la luce risplende e illumina. La Chiesa non ha come fine se stessa, ma il bene della persona nell’orizzonte dell’eternità e del tempo. Nel segno del Crocifisso Risorto, essa è alleata dell’uomo.

Il Magistero della Chiesa, pertanto, è servizio all’uomo che vive i vari e complessi ambiti dell’esistenza. Questo irrinunciabile servizio viene offerto a tutti i cattolici con grande fiducia nella forza della grazia. Ma poiché ha a cuore l’umanità intera, la Chiesa a tutti si rivolge cosciente del dono ricevuto per il bene di tutti, riconoscendo cioè di essere “esperta in umanità”, come disse Paolo VI davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite (il 4 ottobre 1965). Tale esperienza non è presunzione, ma deriva – oltre che dalla rivelazione del suo Signore e Maestro – anche dal credere alla forza della ragione come capacità del vero, da duemila anni di storia, nonché dall’incontro con la ricchezza di innumerevoli culture. È questo crogiuolo che ha dato origine a quella civiltà umanistica che, nonostante incoerenze ed errori, l’Italia e l’Europa conoscono, e che costituisce il fondo dell’ethos del nostro popolo.

Vogliamo unirci alla voce del Santo Padre e di molti altri, che in occasione del cinquantesimo anniversario dei Trattati di Roma si è levata a ricordare le “radici cristiane” dell’Europa e ad auspicarne fermamente il pubblico riconoscimento.

Nella affascinante e non facile missione di annunciare la gioia cristiana con il contagio della testimonianza, con l’ascolto, in comunione con la Chiesa, con la rispettosa chiarezza dell’annuncio di Cristo e del suo pensiero (cfr. Gaudium et Spes, n. 43) nei vari ambiti di vita e della società, grande e indispensabile è il compito dei laici. Sempre maggiore e formata dovrà essere la loro presenza, secondo quell’indole propria che l’ultimo Concilio ha bene espresso (cfr. Lumen Gentium, n. 31).

Come possiamo, venerati Confratelli, proseguire in questa straordinaria avventura di comunicare la gioia del Vangelo e la piena dignità di ogni uomo, i valori che lo costituiscono, il mistero della vita umana, la bellezza dell’amore e della famiglia, la dura ma decisiva scuola della libertà, la responsabilità educativa, fino all’urgenza della giustizia sociale, della pace, di un ambiente più rispettato e accogliente?

 

12. Emergente il tema della famiglia. È proprio l’intenzione spirituale e pastorale che ci porta ad evidenziare oggi il tema della famiglia. E a farlo con la serenità e la chiarezza che sono indispensabili. Ci preme segnalare anzitutto che la nostra attenzione verso questo fronte decisivo dell’esperienza umana non è in alcun modo sbilanciata né tanto meno unilaterale. Il mio arrivare ora alla guida della CEI mi induce a testimoniare la preoccupazione per nulla politica, ma eminentemente pastorale che ha mosso ieri e muove oggi i Vescovi su questo tema fondamentale per l’individuo, per la società e il suo futuro.

La famiglia ha bisogno oggi di tutta la premura che la Chiesa − con la sua esperienza e la sua libertà − vi può riversare. Diremo anche noi con Benedetto XVI: “Se ci si dice che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in questi affari, allora noi possiamo solo rispondere: forse che l’uomo non c’interessa? I credenti, in virtù della grande cultura della loro fede, non hanno forse il diritto di pronunciarsi in tutto questo? Non è piuttosto il loro – il nostro – dovere alzare la voce per difendere l’uomo, quella creatura che, proprio nell’unità inseparabile di corpo e anima, è immagine di Dio?” (Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2006).

 

13. Noi da sempre annunciamo e serviamo il disegno che il Redentore ha sulla famiglia cristiana e la dinamica sacramentale che vi è connessa, e dunque anzitutto il matrimonio elevato alla dignità di sacramento. È una sensibilità, questa, che il Concilio Vaticano II ha reso particolarmente acuta, tanto da stimolare il nostro episcopato a operare a più riprese delle messe a punto dottrinali e pastorali sul tema dell’evangelizzazione del matrimonio. Nelle settimane scorse, S.E. Mons. Giuseppe Anfossi ha scritto su “Avvenire” (4 marzo 2007) un articolo dalla tesi eloquente: forse che davvero – si chiedeva − abbiamo bisogno di dimostrare quanto si è fatto, e si sta facendo, nelle nostre Diocesi, a favore della famiglia cristianamente intesa? Quante energie sono state impiegate, e quante persone, tra le migliori, si sono mosse nello sforzo di rinnovare l’impegno cristiano in ambito familiare, puntando a rinnovare la cultura stessa della famiglia in Italia? Sappiamo bene che, anche per effetto di una qualificazione della proposta cristiana, il numero dei matrimoni celebrati con rito religioso va contraendosi. I nostri parroci concordano con noi nel voler fare le cose in modo sensato, ma questo rileva la serietà complessiva con cui la comunità cristiana si approccia alla famiglia, riconoscendo anzitutto al matrimonio cristiano il suo primato di grazia e di responsabilità.

 

14. Sappiamo tuttavia che il matrimonio sacramentale si iscrive nel disegno primigenio del Creatore: “maschio e femmina li creò” (Gn 1,27), disegno che noi siamo parimenti impegnati ad annunciare e servire. È come la scoperta di una spinta vivificante che l’umanità già dall’origine porta dentro la struttura dell’essere e che la anima nella realizzazione fondamentale dell’esistenza umana e nella sua proiezione verso il futuro. “La legge iscritta nella nostra natura – ha detto il Papa ad un recente congresso internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense (il 12 febbraio 2007) – è la vera garanzia offerta a ciascuno per poter vivere libero e rispettato nella propria dignità”. Il che – continuava − “ha applicazioni molto concrete se si fa riferimento a quell’«intima comunità di vita e d’amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie» (Gaudium et Spes, n. 48). Il Concilio Vaticano II ha, al riguardo, opportunamente ribadito che l’istituto del matrimonio «ha stabilità per ordinamento divino», e perciò «questo vincolo sacro, in vista del bene sia dei coniugi e della prole che della società, non dipende dall’arbitrio umano» (ibid.). Nessuna legge fatta dagli uomini – concludeva il Papa – può perciò sovvertire la norma scritta dal Creatore senza che la società venga drammaticamente ferita in ciò che costituisce il suo stesso fondamento basilare”.

 

15. C’è, venerati Confratelli, una prova più convincente circa il nostro dovere di parlare del matrimonio come invalicabile bene dato agli uomini per la loro felicità e per il loro futuro? Come può l’insistente parlare del Papa e dei Vescovi a questo riguardo essere interpretato come un sopruso, o come un’invadenza di campo, o come un gesto indelicato se non spropositato? O addirittura come una ricerca di potere temporale? Se la Chiesa cercasse il potere, basterebbe imboccare la via facile dell’accondiscendenza. È del tutto evidente che quando Benedetto XVI ricorda l’”unicità irripetibile” della famiglia (cfr. Angelus del 4 febbraio 2007), lo fa perché, nonostante la crisi profonda che essa attraversa e le molteplici sfide che essa deve affrontare, tutti si sappia adeguatamente “difenderla”, “aiutarla”, “tutelarla” e “valorizzarla” per il bene concreto, attuale e futuro, dell’umanità. È come se il Papa si facesse vicino a ciascuno, e quasi in un colloquio di amicizia, gli dicesse un segreto prezioso, o la cosa più importante di tutte. Per cui merita essere solleciti affinché le famiglie più esposte non cedano “sotto le pressioni di lobbies capaci di incidere negativamente sui processi legislativi”, come lo stesso Pontefice ha segnalato, ricevendo in udienza i Rappresentanti Pontifici in America Latina (il 17 febbraio 2007).

 

16. In questa cornice si colloca ciò che è stato detto, dall’interno della comunità ecclesiale, nel corso delle ultime settimane, in riferimento al disegno di legge in materia di “Diritti e doveri delle persone unite in stabili convivenze”. Personalmente posso solo dire che apprezzo quanto da parte cattolica è stato fatto, impegnandomi ad assumerlo e a svilupparlo. Desidero per un verso rilevare la convergente, accorata preoccupazione espressa dai Vescovi su questo disegno legislativo inaccettabile sul piano dei principi, ma anche pericoloso sul piano sociale ed educativo. Per altro verso, registro la preoccupazione che lo stesso provvedimento ha suscitato in seno al nostro laicato, nelle parrocchie come nelle aggregazioni. Mai come su questo fronte così esposto, loro intercettano ciò che il Concilio Vaticano II dice sia a proposito del matrimonio e della famiglia (cfr. Gaudium et Spes, nn. 47-52), sia del dovere della partecipazione per una vita civile più equilibrata e saggia (cfr. Gaudium et Spes, nn. 73-76), consci che la famiglia è un bene della società nel suo insieme, non solo dei cristiani.

 

17. è noto che proprio dall’interno delle aggregazioni laicali è scaturita l’idea di una manifestazione pubblica per il prossimo 12 maggio, che dia ragione della speranza che è in noi su questo nevralgico bene della vita sociale, quale è la famiglia nata dal matrimonio tra un uomo e una donna e aperta alla generazione e dunque al domani. Si tratterà, dunque, di una “festa della famiglia” come è successo anche in altri Paesi. Come Vescovi non possiamo che apprezzare e incoraggiare questo dinamismo volto al bene comune. Nello stesso tempo, è stata prospettata – com’è pure noto – l’utilità che i Vescovi dicano in questo frangente una parola meditata e impegnativa. Nell’attuale sessione del Consiglio Permanente metteremo a punto una “Nota pastorale” che, ponendosi sulla stessa linea di ciò che è stato fatto in passato in altre cruciali evenienze, possa essere di serena, autorevole illuminazione sulle circostanze odierne. Torna illuminante la parola di Benedetto XVI al già citato, recente Congresso: “Appare sempre più indispensabile che l’Europa si guardi da quell’atteggiamento pragmatico, oggi largamente diffuso, che giustifica sistematicamente il compromesso sui valori umani essenziali, come se fosse l’inevitabile accettazione di un presunto male minore” (Roma, 24 marzo 2007).

 

Cari Confratelli, anche su questo delicato compito a cui siamo tenuti come Pastori, chiedo il contributo della vostra sensibilità e saggezza.

 

Agli operatori della comunicazione sociale esprimo la mia personale gratitudine e l’apprezzamento per il loro lavoro, chiedendo l’aiuto perché l’opinione pubblica possa essere sempre correttamente informata sul magistero della Chiesa nella sostanziale integralità dei suoi singoli interventi. In questa prospettiva, mi auguro che si voglia dare la giusta rilevanza al comunicato finale di questo Consiglio, in quanto resoconto di un qualificato incontro collegiale della nostra Conferenza.

Sabato scorso, 24 marzo, abbiamo celebrato la xv Giornata di preghiera e di digiuno per i missionari martirizzati in particolare nell’ultimo anno. Sono ben 24, tre dei quali italiani: don Andrea Santoro, mons. Bruno Baldacci, sr. Leonella Sgorbati. Il Signore Gesù ci faccia degni di questi servitori, e dia a tutta la Chiesa di vivere alla loro scuola l’imprescindibile vocazione missionaria.

Con questo spirito, venerati Confratelli, accogliete il mio grazie più fraterno anche per la vostra attenzione di oggi. Insieme a Voi, affido a Maria Santissima, Madre della Chiesa, il nostro servizio, le comunità cristiane e il nostro amato Paese.

X Angelo Bagnasco, Presidente

 

 

 

 

 

 

 

 

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