TESTI MAGISTERO EPISCOPALE

Mons. CAMILLO RUINI

 

 

 

Prolusione di apertura al Consiglio Permanente della CEI (22-25 gennaio 2007)
Pubblichiamo di seguito il testo della prolusione tenuta a Roma questo lunedì dal Cardinale Camillo Ruini in occasione dell’apertura dei lavori del Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).

Venerati e cari Confratelli,

ci incontriamo mentre è forte in noi il lieto ricordo delle intense giornate che abbiamo vissuto a Verona e di esse vogliamo anzitutto ringraziare il Signore. Ci ritroviamo, all’inizio del nuovo anno, per riflettere insieme su quella esperienza e mettere a punto le indicazioni che ne sono emerse, in vista dell’evangelizzazione e del bene complessivo della nostra amata Nazione. Ci guidano la certezza della nostra comunione e soprattutto la fiducia nella presenza e nell’opera del Signore: a Lui rivolgiamo la nostra umile preghiera, perché illumini con il suo Santo Spirito noi stessi e i lavori di questi giorni e sostenga sempre il cammino delle nostre Chiese.

1. Il nostro primo pensiero si indirizza al Santo Padre. Lo ringraziamo anzitutto per la giornata che ha trascorso con noi a Verona, per l’Eucaristia celebrata allo Stadio “Bentegodi”, per il discorso del mattino, con il quale egli ci ha offerto la piattaforma fondamentale per la vita e la testimonianza delle nostre Chiese nei prossimi anni. A Verona, come in tante altre occasioni, è emerso tutto l’affetto che unisce il popolo italiano al Papa. Dal 28 novembre al 1° dicembre Benedetto XVI è stato in Turchia per un viaggio di grandi e molteplici significati che, come ha detto egli stesso tracciandone il bilancio nell’udienza generale del 6 dicembre, “si presentava non facile sotto diversi aspetti”. L’esito però è stato estremamente positivo, sotto ogni profilo: i rapporti con il popolo turco e con quello Stato, ma anche tra il cristianesimo e la religione musulmana; i rapporti ecumenici e segnatamente quelli con il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I; il sostegno e l’incoraggiamento per la comunità cattolica che vive in Turchia. Ci uniamo al Papa nel ringraziare il Signore ma desideriamo anche esprimere la nostra commossa gratitudine a Benedetto XVI per lo spirito di fede e l’autentica umiltà, il coraggio e lo slancio apostolico con i quali ha portato a termine questa missione.

 

Il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace è incentrato quest’anno su “La persona umana, cuore della pace” e fa leva sul rispetto della “grammatica” scritta nel cuore dell’uomo dal suo Creatore: “Il riconoscimento e il rispetto della legge naturale pertanto costituiscono anche oggi la grande base per il dialogo tra i credenti delle diverse religioni e tra i credenti e gli stessi non credenti. È questo … un fondamentale presupposto per un’autentica pace” (n. 3). Questo decisivo criterio si concretizza nel rispetto di due diritti essenziali, oggi purtroppo largamente e in diverse maniere contrastati: il diritto alla vita, che “è un dono di cui il soggetto non ha la completa disponibilità”, e il diritto alla libertà religiosa, che “pone l’essere umano in rapporto con un Principio trascendente che lo sottrae all’arbitrio dell’uomo” (n. 4). Nella medesima prospettiva è di primaria importanza per la costruzione della pace “il riconoscimento dell’essenziale uguaglianza tra le persone umane” (n. 6): esso, come il Papa ha ribadito nel discorso dell’8 gennaio al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, spinge ad affrontare seriamente lo scandalo della fame, sempre più inaccettabile in un mondo “che dispone dei beni, delle conoscenze e dei mezzi per porvi fine”, cambiando i nostri modi di vita e correggendo “i modelli di crescita che sembrano incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente e uno sviluppo umano integrale per oggi e soprattutto per domani”.

L’uguaglianza tra le persone richiede inoltre, e non meno, di por fine allo sfruttamento delle donne e alle tante mancanze di rispetto per la loro dignità, superando le “visioni antropologiche persistenti in alcune culture, che riservano alla donna una collocazione ancora fortemente sottomessa all’arbitrio dell’uomo” (n. 7). In realtà “l’ecologia della pace” richiede che si tengano maggiormente presenti le connessioni esistenti tra ecologia naturale ed ecologia umana e sociale (cfr n. 8). È certamente comprensibile infatti che le visioni dell’uomo varino nelle diverse culture, ma non è lecito coltivare concezioni antropologiche, e tanto meno idee o piuttosto “ideologie” riguardo a Dio, che rechino in se stesse il germe della contrapposizione e della violenza (cfr n. 10). Oggi però ostacola il dialogo autentico e quindi la pace anche “l’indifferenza per ciò che costituisce la vera natura dell’uomo”, ossia una visione “debole” e relativistica della persona, che nega l’esistenza di una specifica natura umana e apre lo spazio per qualsiasi sua interpretazione. Una tale visione infatti indebolisce fatalmente e rende relativi e sempre negoziabili anche i diritti dell’uomo, lasciando la persona stessa indifesa e quindi facile preda della violenza e dell’oppressione (cfr nn. 11-12). È pertanto di importanza determinante che le Nazioni Unite non perdano di vista il fondamento naturale dei diritti dell’uomo, solennemente affermati nella Dichiarazione Universale del 1948, e non si adeguino ad una loro interpretazione soltanto positivistica, come se essi si fondassero semplicemente sulle decisioni dell’Assemblea che li ha approvati (n. 13).

Con il Messaggio per la Giornata della Pace Benedetto XVI ci aiuta dunque a superare quella falsa e pericolosa divisione, o addirittura contrapposizione, tra due parti dell’etica che egli stesso ha denunciato nel discorso ai Vescovi svizzeri del 9 novembre 2006: la parte cioè riguardante i grandi temi della pace, della non violenza, della giustizia per tutti a cominciare dai più poveri e del rispetto del creato, e la parte che si riferisce ai temi non meno essenziali della vita umana, della famiglia e del matrimonio. Se continuasse a mettere radici, una tale separazione non potrebbe che ostacolare il cammino verso un umanesimo pieno e condiviso.

 

Il 21 novembre la Sala Stampa della Santa Sede ha annunciato che sarà tra breve pubblicata la prima parte di un libro, dedicato a “Gesù di Nazareth”, al quale il Papa sta lavorando dall’estate 2003 e continua a riservare “tutti i momenti liberi”, come ha scritto egli stesso in uno degli estratti già anticipati della prefazione. Con questo lavoro, che attendiamo con gioia un po’ impaziente, Benedetto XVI intende superare quella separazione tra il “Cristo della fede” e il reale “Gesù storico” che l’esegesi basata sul metodo storico-critico sembra aver reso sempre più profonda, con la conseguenza di allontanare da noi “la figura stessa di Gesù”, provocando una situazione “drammatica” per la fede, perché “rende incerto il suo autentico punto di riferimento”. Perciò il Cardinale Ratzinger e ora Benedetto XVI si è dedicato a mostrare che il Gesù dei Vangeli e della fede della Chiesa è in realtà il vero “Gesù storico”, impiegando a tale scopo il metodo storico-critico, di cui riconosce volentieri i molteplici risultati positivi, ma andando anche al di là di esso, per porsi in una prospettiva più ampia, che consenta un’interpretazione della Scrittura propriamente teologica, e che pertanto richiede la fede senza rinunciare per questo alla serietà storica. Si tratta cioè di applicare alla critica storica, come analogamente alle scienze empiriche, quel grande progetto di “allargare gli spazi della razionalità” che Benedetto XVI ci ha proposto a Verona ed ha sostenuto e motivato anche in molte altre occasioni. Penso di interpretare il vostro comune sentire, cari Confratelli, rivolgendo ai nostri amici teologi ed esegeti un forte e affettuoso invito, perché facciano proprio questo progetto e contribuiscano a realizzarlo con il loro ingegno e la loro competenza, specialmente riguardo a quel cuore della nostra fede che è il Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Il prossimo Sinodo dei Vescovi, che avrà luogo nell’ottobre 2008 sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, costituirà a sua volta una felice opportunità per approfondire la consapevolezza del legame che unisce tra loro la Scrittura e la Chiesa.

 

Stiamo vivendo la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che quest’anno si richiama all’esclamazione della folla dopo la guarigione miracolosa operata da Gesù: “Fa sentire i sordi e fa parlare i muti” (Mc 7,31-37). Gli incontri ecumenici di Benedetto XVI con l’Arcivescovo di Canterbury Dott. Rowen Williams il 23 novembre, con il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I e con il Patriarca della Chiesa Armena Apostolica Mesrob II durante il viaggio in Turchia, oltre che con l’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia Christodoulos a metà dicembre, e le importanti Dichiarazioni Comuni che sono scaturite da alcuni di questi incontri, mostrano come il cammino verso la piena unità dei cristiani – pur “lungo e non facile”, come ha detto il Papa all’udienza generale del 17 gennaio – non smetta di progredire. La preghiera e l’ecumenismo spirituale sono la forma in cui l’intero popolo di Dio può meglio contribuire al raggiungimento di questo affascinante obiettivo. Lo stesso 17 gennaio abbiamo celebrato la Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, dedicata quest’anno alla grande parola biblica “Non avrai altre divinità al mio cospetto” (Es 20,3): “Anche l’amicizia ebraico-cristiana, per crescere ed essere fruttuosa, deve fondarsi sulla preghiera”, come il Papa ha affermato nella medesima occasione.

Vorrei poi esprimere tutta la nostra vicinanza fraterna ai Vescovi e alla Chiesa di Polonia, in questo tempo di dura e per tanti aspetti ingiusta prova. Non dimentichiamo ciò che l’eroica fede del clero e del popolo polacco ha rappresentato per il bene della Chiesa universale, oltre che per la liberazione dell’Europa dal totalitarismo comunista, e alimentiamo nella preghiera la certezza che nel presente e nel futuro la Chiesa polacca continuerà e confermerà, attraverso l’attuale prova, la sua straordinaria testimonianza cristiana.

 

2. Argomento centrale di questa sessione del Consiglio Permanente sarà la riflessione sul Convegno di Verona, in vista dell’elaborazione di una Nota pastorale che ne riassuma e rilanci i risultati. Siamo tutti consapevoli che questo IV Convegno ecclesiale nazionale è un grande dono di cui, con l’aiuto del Signore, dobbiamo non disperdere i frutti e favorire la duratura efficacia. A tale scopo, ancor più che la nostra Nota pastorale, potrà servire un lavoro continuativo e capillare, per vari aspetti analogo a quello che ha preparato il Convegno, da svolgere nelle Diocesi, nelle parrocchie e nell’intera rete delle realtà ecclesiali, e da innervare con alcuni eventi di rilievo nazionale che ne diffondano la conoscenza e favoriscano il coinvolgimento delle più varie energie e presenze sociali e culturali.

 

Il messaggio che proviene da Verona ha al suo centro il discorso del Santo Padre, che ci ha indicato con nitida profondità “quel che appare davvero importante per la presenza cristiana in Italia”, e che può felicemente riassumersi nel “grande sì che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza”. In questo messaggio possiamo anzitutto individuare alcune strutture portanti e dimensioni fondamentali, che fanno riferimento al tema stesso del Convegno: “Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”. Tra queste in primo luogo la fede in Cristo risorto e nella forza di trasformazione dell’uomo e dell’intera realtà che ne scaturisce, così che “Io, ma non più io” diventa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel battesimo. Di qui l’indole escatologica e missionaria di tutta la vita e la testimonianza ecclesiale, incentrata sulla comunione con il Crocifisso Risorto e protesa a renderlo presente con la sua forza di salvezza in tutti gli spazi del mondo, infondendo nel mondo stesso quel fermento di fiducia, di gioia e di rinnovamento che è la speranza teologale.

 

La preparazione e lo svolgimento del Convegno, con la loro articolazione in cinque ambiti di esercizio della testimonianza, ciascuno dei quali assai rilevante nell’esperienza umana e tutti insieme confluenti nell’unità della persona e della sua coscienza, hanno rappresentato una novità assai significativa e ricca di potenzialità per la metodologia e l’impostazione complessiva della nostra pastorale. Questa, per l’attuale contesto sociale e culturale, e più profondamente per corrispondere meglio all’indole stessa dell’esperienza cristiana, deve essere infatti caratterizzata da una primaria attenzione alla persona e alla sua concreta situazione di vita, con i rapporti, gli affetti, gli interessi, le attese, le difficoltà e le preoccupazioni che la formano e la plasmano. Si tratta ora di accompagnare e sostenere, con gradualità ma anche con convinzione, l’affermarsi e il diffondersi a livello capillare di una tale impostazione della pastorale, che sta già trovando da molte parti un’accoglienza favorevole.

 

L’intenso lavoro svolto a Verona in quei cinque ambiti, unitamente agli interventi in assemblea plenaria, offre una vera messe di considerazioni, suggerimenti e proposte che potranno essere opportunamente raccolti intorno a quegli obiettivi fondamentali che emergono con chiarezza specialmente dal discorso del Santo Padre. Tra questi anzitutto il primato di Dio nella vita e nella pastorale della Chiesa, con l’assunzione della santità quale misura alta ma non rinunciabile del nostro essere cristiani; la comunione e il senso di appartenenza ecclesiale, con gli spazi di corresponsabilità che ne derivano e che riguardano a pieno titolo anche i laici; l’educazione e la formazione missionaria del cristiano, affinché fin dalla fanciullezza sia progressivamente reso consapevole della propria fede, proteso a testimoniarla nella concretezza della vita e capace di decisioni impegnative e anche definitive; la missione, come proposta umile, argomentata e coraggiosa della verità, della bellezza e della “vivibilità” del cristianesimo, attraverso quella “forte unità” a cui ci ha invitato il Papa “tra una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti”, da realizzare “nelle condizioni proprie del nostro tempo”; la sollecitudine per il bene dell’uomo e delle comunità in cui egli vive, senza confondere la Chiesa con la politica e senza abdicare alla missione affidata alla Chiesa ed ai laici cristiani.

 

Cari Confratelli, in questo tempo del “dopo Verona” è particolarmente importante mantenere vivo quel senso di una responsabilità e di un’impresa comune che ha animato e caratterizzato il Convegno e la sua preparazione: è questo, forse, l’atteggiamento e lo stimolo di cui più abbiamo bisogno per adempiere a quei compiti, certamente assai impegnativi, che a Verona ci sono apparsi come le richieste dello Spirito alle nostre Chiese. La preghiera, che è stata la prima e fondamentale dimensione del Convegno, è anche la principale risorsa in cui ora confidiamo, perché sostenga tutto il nostro cammino. Permettetemi di integrare quello che ho cercato di dire sul Convegno e sul “dopo Convegno” con un rimando allo straordinario discorso del Santo Padre alla Curia Romana dello scorso 22 dicembre. Riferendosi al suo viaggio in Germania, il cui “grande tema … era Dio”, Benedetto XVI ha parlato del sacerdote, come “uomo di Dio” (1Tim 6,11), il cui compito centrale è portare gli uomini a Dio, ciò che egli può fare “soltanto se egli stesso viene da Dio, se vive con e da Dio”. Perciò il Papa ha richiamato il versetto “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” (Sal 16,5), per sottolineare la “centralità di Dio”, come unico fondamento e senso dell’esistenza del sacerdote, anche e specialmente nel nostro attuale mondo “funzionalistico”, come pure per individuare in questa “teocentricità dell’esistenza sacerdotale” il vero fondamento del celibato ecclesiastico. A Verona non si è trattato specificamente della missione del sacerdote, mentre lo abbiamo fatto ampiamente nella nostra Assemblea del maggio scorso: queste parole del Papa, che vanno al cuore dell’esistenza sacerdotale, ci aiutano a collegare il Convegno con la nostra precedente Assemblea a quel livello di profondità teologale che è l’unico decisivo e perciò adeguato alle sfide radicali del nostro tempo.

 

Nei mesi trascorsi dalla precedente sessione del Consiglio Permanente il Signore ha chiamato a sé due Confratelli ai quali eravamo particolarmente legati: prima, a fine settembre, un giovane Vescovo, Mons. Cataldo Naro, che era membro del nostro Consiglio, poi, il 10 dicembre, il Cardinale Salvatore Pappalardo, che è stato a lungo Vicepresidente della nostra Conferenza. Li sentiamo presenti tra noi, nel mistero dell’amore di Dio, preghiamo per loro e per la terra di Sicilia di cui entrambi erano figli e che hanno tanto amato, e confidiamo nella loro intercessione.

 

3. Assai variegati e segnati da molteplici fatti e circostanze sono stati in questi mesi il cammino e la situazione dell’Italia. Sul versante economico e sociale si sta sviluppando e consolidando la ripresa, di cui già si avevano avuti da qualche tempo i primi segnali. Con la ripresa, ulteriori e significativi risultati positivi si registrano sul fronte dell’occupazione, sebbene purtroppo la percentuale dei senza lavoro sia ancora tripla nel Mezzogiorno rispetto al Settentrione. Si è inoltre verificato un forte incremento del gettito fiscale con un conseguente miglioramento dei conti dello Stato, anche se sembra ulteriormente cresciuto il nostro altissimo debito pubblico. I rapporti tra le forze politiche rimangono però altamente conflittuali, sia tra maggioranza e opposizione sia all’interno dei due schieramenti, come ha ripetutamente segnalato il Capo dello Stato. La legge finanziaria in particolare, che pur dovrebbe contribuire non poco al risanamento del debito, ha avuto un percorso eccezionalmente tribolato ed una conclusione che, per la sua forma e modalità, ha preoccupato lo stesso Presidente della Repubblica, oltre ad aver sollevato le pubbliche proteste di numerose e diverse categorie di cittadini.

 

Sul versante della famiglia la legge finanziaria ha introdotto varie agevolazioni per i nuclei familiari numerosi e a basso reddito, o che hanno a carico familiari disabili, mentre diventano più pesanti gli oneri per altri nuclei familiari: la complessità delle normative rende comunque difficile una previsione sicura degli effetti complessivi e i progressi in alcuni campi rimangono lontani dal configurare quel sostegno organico alla famiglia come tale che si potrebbe ottenere, ad esempio, attraverso l’adozione del “quoziente familiare”. D’altra parte le indagini dell’ISTAT hanno di nuovo rilevato come buona parte delle famiglie italiane, soprattutto nel Meridione, si trovi in condizioni di ristrettezza o anche di reale povertà.

 

Alla luce di questi vari elementi sembra fondata l’esigenza, da non pochi avvertita e condivisa, di uscire dalle contrapposizioni fini a se stesse, senza confondere per questo i ruoli propri del Governo e dell’opposizione, per cercare anzitutto lo sviluppo complessivo e solidale dell’Italia. Non mancano certo gli ambiti in cui un tale sforzo comune può esplicarsi. Essi non si limitano ai delicati terreni della riforma della legge elettorale o anche di alcuni aspetti dell’ordinamento costituzionale. Si estendono infatti a quei problemi che sono maggiormente avvertiti dalle persone e dalle famiglie come, oltre al lavoro e al potere di acquisto, la casa, la sanità, il sistema pensionistico e quello fiscale, l’assistenza ai bambini più piccoli e agli anziani, la sicurezza dei cittadini. E comprendono parimenti l’attenzione a settori chiave per lo sviluppo del Paese come l’istruzione, la ricerca e l’innovazione, e ancor prima l’impegno per arrestare il declino demografico della nostra popolazione.

 

Nell’Angelus di domenica 14 gennaio, in cui si è celebrata la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, il Papa ha richiamato i contenuti del suo Messaggio di quest’anno, dedicato alla famiglia migrante, sottolineando la grande vastità e la crescente diversificazione del fenomeno della mobilità umana. In particolare ha insistito sulla necessità di “tutelare i migranti e le loro famiglie mediante l’ausilio di presidi legislativi, giuridici e amministrativi specifici, ed anche attraverso una rete di servizi, di punti di ascolto e di strutture di assistenza sociale e pastorale”, favorendo l’emigrazione regolare e i ricongiungimenti familiari, nella prospettiva della centralità della persona umana. Il Papa ha aggiunto che “Soltanto il rispetto della dignità umana di tutti i migranti, da un lato, e il riconoscimento da parte dei migranti stessi dei valori della società che li ospita, dall’altro, rendono possibile la giusta integrazione delle famiglie nei sistemi sociali, economici e politici dei Paesi d’accoglienza”: così le migrazioni saranno viste “non … soltanto come un problema, ma anche e soprattutto come una grande risorsa per il cammino dell’umanità”. Queste parole di Benedetto XVI sono rivolte evidentemente al mondo intero, ma appaiono assai utili e opportune anche nella concreta situazione dell’Italia, che sta cercando, non senza fatica, il giusto approccio al fenomeno del rapido incremento degli immigrati, destinato ad influire grandemente sul nostro futuro.

 

Abbiamo vissuto settimane di forte apprensione per le tragiche imprese della camorra a Napoli e desideriamo esprimere a quella città e a quella Chiesa la nostra affettuosa vicinanza, accompagnate dalla preghiera e dalla forte richiesta che l’impegno per por fine a questa aberrante realtà sia costante e sappia andare alle radici. Le cronache recenti hanno inoltre troppo spesso evidenziato altre efferate iniziative criminali, che esplodono in maniere impreviste e inattese e sembrano inconcepibili, ma in realtà fanno venire alla luce l’abisso che può nascondersi nel cuore dell’uomo: al di là dei necessari interventi della giustizia umana, chiediamo perdono a Dio per quel “regno del peccato” (cfr Rom 6,12-14) da cui solo la croce di Cristo ci può davvero liberare.

 

4. Il 20 novembre il Presidente Napolitano ha reso visita al Santo Padre: dai discorsi pronunciati in quella occasione, ma anche da altri interventi del Capo dello Stato, è emersa una sostanziale sintonia su varie e importanti tematiche, nel rispetto della diversità dei rispettivi ruoli e della sana laicità dello Stato. Nello stesso spirito la nostra Conferenza, tramite il suo Segretario Generale, in un’audizione parlamentare ha espresso il proprio parere favorevole a una legge sulla libertà religiosa, che non contrasta in alcun modo con gli Accordi concordatari e che va articolata tenendo conto delle questioni postesi in questi anni a seguito della forte affluenza di immigrati di altre religioni.

 

Le nuove problematiche etiche e antropologiche, specialmente a proposito della vita umana e della famiglia, che stanno sempre più emergendo, toccano d’altronde alla radice il senso e i valori della nostra esistenza, e proprio su queste materie assistiamo a ripetute e spesso aspre denunce di una pretesa indebita ingerenza della Chiesa. Al riguardo una spiegazione convincente e chiarificatrice l’ha data a più riprese il Santo Padre. Così, rivolgendosi al Presidente della Repubblica, ha affermato che la Chiesa e in particolare i fedeli laici, nel dare il loro apporto su questi temi, “lo fanno nel contesto e secondo le regole della convivenza democratica, per il bene di tutta la società e in nome di valori che ogni persona di retto sentire può condividere”. Poco dopo, il 9 dicembre, ricevendo l’Unione Giuristi Cattolici, ha precisato che “non è segno di sana laicità il rifiuto alla comunità cristiana, e a coloro che legittimamente la rappresentano, del diritto di pronunziarsi sui problemi morali che oggi interpellano la coscienza di tutti gli esseri umani … Non si tratta, infatti, di indebita ingerenza della Chiesa nell’attività legislativa, propria ed esclusiva dello Stato, ma dell’affermazione e della difesa dei grandi valori che danno senso alla vita della persona e ne salvaguardano la dignità. Questi valori, prima di essere cristiani, sono umani, tali perciò da non lasciare indifferente e silenziosa la Chiesa, la quale ha il dovere di proclamare con fermezza la verità sull’uomo e sul suo destino”.

 

Attualmente l’attenzione è puntata sulle proposte di riconoscimento giuridico delle unioni di fatto, con varie proposte di legge di cui il Senato ha iniziato l’esame e che purtroppo tendono quasi tutte a riconoscere e tutelare tali unioni, sia eterosessuali sia omosessuali, in termini sostanzialmente analoghi a quanto è previsto per la famiglia fondata sul matrimonio, mentre il Governo stesso sembra impegnato ad assumere in questa materia una propria iniziativa. Una pressione nel medesimo senso è inoltre esercitata dai provvedimenti adottati o in discussione in alcune Regioni e Comuni, al di là della dubbia efficacia giuridica di talune di queste iniziative. Al riguardo abbiamo già ripetutamente espresso la nostra posizione, in piena sintonia con quella della Santa Sede. Personalmente mi permetto di richiamare ciò che ho cercato di dire, in termini approfonditi e motivati, già nella prolusione alla sessione del nostro Consiglio Permanente del 18 settembre 2005. La Nota dottrinale della Congregazione per la Dottrina della Fede “circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita pubblica”, datata 24 novembre 2002, riassume efficacemente la nostra comune posizione affermando che alla famiglia fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso “non possono essere equiparate in alcun modo altre forme di convivenza, né queste possono ricevere in quanto tali riconoscimento legale” (n. 4). Da ultimo il Santo Padre ha riconfermato la medesima valutazione nel discorso dell’11 gennaio ai rappresentanti delle Amministrazioni locali di Roma e del Lazio.

 

Se guardiamo alla situazione dell’Italia, queste posizioni trovano un riscontro quanto mai concreto e persuasivo. Da noi infatti la famiglia svolge un grandissimo ruolo sociale e dà un contributo particolarmente elevato all’educazione dei figli. Al contempo siamo da molti anni alle prese con una gravissima crisi della natalità, che minaccia il futuro del nostro Paese. Preoccupazioni comuni e primarie dei responsabili della cosa pubblica dovrebbero essere quindi il sostegno della famiglia legittima fondata sul matrimonio, in accordo con il dettato costituzionale, e la rimozione di tutti quegli ostacoli di ordine pratico (a proposito dell’alloggio, del lavoro giovanile e della sua stabilità, delle strutture di accoglienza per i bambini più piccoli …), o anche giuridico e fiscale, che dissuadono le giovani coppie dal contrarre matrimonio e dal generare dei figli, senza per questo forzare in alcun modo la libertà delle scelte personali di ciascuno. Le informazioni fornite in questi giorni dall’ISTAT sul persistente desiderio di maternità delle donne italiane e sui problemi che ostacolano la sua realizzazione, e d’altra parte i risultati conseguiti in Francia dalle politiche a favore della natalità, mostrano come questa sfida non sia affatto perduta in partenza. Vi è qui anche tutto lo spazio per una spontanea e benefica collaborazione tra lo Stato e la Chiesa.

 

Esaminando sempre in concreto la realtà delle unioni di fatto, quelle tra persone di sesso diverso sono certamente in aumento, sebbene restino a livelli assai più contenuti che in altri Paesi, ma la grande maggioranza di loro vive nella previsione di un futuro possibile matrimonio, oppure preferisce restare in una posizione di anonimato e di assenza di vincoli. Le assai meno numerose coppie omosessuali in buona parte vogliono a loro volta rimanere un fatto esclusivamente privato e riservato; altre invece sembrano costituire il principale motore della pressione per il riconoscimento legale delle unioni di fatto, con cui intenderebbero aprire, se possibile, anche la strada per il matrimonio. Nel pieno e doveroso rispetto per la dignità e i diritti di ogni persona, va però osservato che una simile rivendicazione contrasta con fondamentali dati antropologici e in particolare con la non esistenza del bene della generazione dei figli, che è la ragione specifica del riconoscimento sociale del matrimonio.

 

La legislazione e la giurisprudenza attuali già assicurano la protezione di non pochi diritti delle persone dei conviventi, e pienamente dei diritti dei figli. Per ulteriori aspetti che potessero aver bisogno di una protezione giuridica esiste anzitutto la strada del diritto comune, assai ampia e adattabile alle diverse situazioni, e ad eventuali lacune o difficoltà si potrebbe porre rimedio attraverso modifiche del codice civile, rimanendo comunque nell’ambito dei diritti e dei doveri della persona. Non vi è quindi motivo di creare un modello legislativamente precostituito, che inevitabilmente configurerebbe qualcosa di simile a un matrimonio, dove ai diritti non corrisponderebbero uguali doveri: sarebbe questa la strada sicura per rendere più difficile la formazione di famiglie autentiche, con gravissimo danno delle persone, a cominciare dai figli, e della società italiana. Del resto, il recentissimo Rapporto pubblicato in Inghilterra sulle conseguenze del crollo della famiglia per lo stato della Nazione conferma, sulla base di un’esperienza che in quel Paese è ormai pluridecennale, quanto siano negativi i risultati di quelle politiche nelle quali alcuni pensano di poter trovare un modello per la società italiana.

 

Esprimono il senso genuino dell’atteggiamento e della sollecitudine della Chiesa alcune considerazioni del Santo Padre, contenute nel discorso del 22 dicembre alla Curia Romana. Riferendosi al suo viaggio in Spagna per la Giornata Mondiale delle famiglie, egli ha detto: “il problema dell’Europa, che apparentemente quasi non vuole più avere figli, mi è penetrato nell’animo. Per l’estraneo, quest’Europa sembra essere stanca, anzi sembra volersi congedare dalla storia”. Poi il Papa ha individuato le motivazioni profonde di tale comportamento non solo nella ritrosia a donare ai figli il proprio tempo, e alla fine a se stessi, ma anche nella perdita di orientamento, per cui non sappiamo più quale via indicare, quali norme di vita trasmettere, e ancora più radicalmente nell’insicurezza circa il futuro, anzi circa il fatto stesso che sia “cosa buona essere uomo”. Perciò una risposta convincente può consistere soltanto nel ritrovamento di un senso e di una speranza che siano più forti delle nuvole che oscurano il futuro: a questo livello è chiaramente la Chiesa stessa la prima ad essere chiamata in causa. Nella stessa chiave il Papa non tace la sua preoccupazione per le leggi sulle coppie di fatto, che relativizzano il matrimonio e rendono ancor più difficile per i giovani del nostro tempo la decisione per un legame definitivo. Il riconoscimento legale delle unioni omosessuali toglie poi “ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona umana”, con un deprezzamento della corporeità in conseguenza del quale l’uomo, “volendo emanciparsi dal suo corpo … finisce per distruggere se stesso”. Perciò, “Se ci si dice che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in questi affari, allora noi possiamo solo rispondere: forse che l’uomo non ci interessa? I credenti, in virtù della grande cultura della loro fede, non hanno forse il diritto di pronunciarsi su tutto questo? Non è piuttosto il loro – il nostro – dovere alzare la voce per difendere l’uomo, quella creatura che, proprio nell’unità inseparabile di corpo e anima, è immagine di Dio?”

 

Un’altra questione assai delicata sotto il profilo umano ed etico, di cui il Parlamento ha iniziato l’esame, è quella delle “dichiarazioni anticipate di trattamento”. Un punto essenziale, sul quale sembra esservi un ampio consenso, è il rifiuto dell’eutanasia, quali che siano i motivi e i mezzi, le azioni o le omissioni, addotti e impiegati al fine di ottenerla. Al tempo stesso è legittimo rifiutare l’accanimento terapeutico, cioè il ricorso a procedure mediche straordinarie che risultino troppo onerose o pericolose per il paziente e sproporzionate rispetto ai risultati attesi. La rinuncia all’accanimento terapeutico non può giungere però al punto di legittimare forme più o meno mascherate di eutanasia e in particolare quell’“abbandono terapeutico” che priva il paziente del necessario sostegno vitale attraverso l’alimentazione e l’idratazione, come si è espresso nel 2003 il Comitato Nazionale per la Bioetica.

 

La volontà del malato, attuale o anticipata o espressa attraverso un suo fiduciario scelto liberamente, e quella dei suoi familiari, non possono pertanto avere per oggetto la decisione di togliere la vita al malato stesso. Va inoltre salvaguardato il rapporto, personale e in concreto sommamente importante, tra il medico, il paziente e i suoi familiari, come anche il rispetto della coscienza del medico chiamato a dare applicazione alla volontà del malato, e più in generale della deontologia medica. In questa materia tanto delicata appare dunque una norma di saggezza non pretendere che tutto possa essere previsto e regolato per legge. Sono altrettanto importanti e doverose le terapie che attenuano la sofferenza e una vicinanza affettuosa e costante ai parenti e alle loro famiglie.

 

Una vicenda umana dolorosa, che ha coinvolto a lungo la nostra gente, è stata quella di Piergiorgio Welby. Essa mi ha chiamato in causa anche personalmente, quando è giunta la richiesta del funerale religioso dopo la sua morte. La sofferta decisione di non concederlo nasce dal fatto che il defunto, fino alla fine, ha perseverato lucidamente e consapevolmente nella volontà di porre termine alla propria vita: in quelle condizioni una decisione diversa sarebbe stata infatti per la Chiesa impossibile e contraddittoria, perché avrebbe legittimato un atteggiamento contrario alla legge di Dio. Nel prendere una tale decisione non è mancata la consapevolezza di arrecare purtroppo dolore e turbamento ai familiari e a tante altre persone, anche credenti, mosse da sentimenti di umana pietà e solidarietà verso chi soffre, sebbene forse meno consapevoli del valore di ogni vita umana, di cui nemmeno la persona del malato può disporre. Soprattutto ci ha confortato la fiducia che il Dio ricco di misericordia non solo è l’unico a conoscere fino in fondo il cuore di ogni uomo, ma è anche Colui che in questo cuore agisce direttamente e dal di dentro, e può cambiarlo e convertirlo anche nell’istante della morte.

 

Una notizia positiva, cari Confratelli, è stata quella che la Corte Costituzionale ha respinto il ricorso contro la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, riguardo alla norma che vieta la diagnosi preimpianto. I risultati di questi primi anni di applicazione di tale legge, unitamente ai continui progressi della ricerca scientifica, confermano del resto che essa, pur con i suoi limiti etici, rende per vari aspetti un positivo servizio.

 

5. Se allarghiamo lo sguardo all’Europa e al mondo, si segnala anzitutto l’ingresso, con l’inizio del nuovo anno, di due altre Nazioni, la Romania e la Bulgaria, nell’Unione Europea. Diventa pertanto sempre più necessario dotare l’Unione di regole più idonee ad assicurare l’effettiva e armonica convergenza di un grande numero di Paesi tra loro spesso assai diversi per storia e cultura oltre che per il livello di sviluppo economico, rispettando al contempo queste loro diversità.

 

Il Medio Oriente continua ad essere afflitto da sanguinosi conflitti e da fortissime tensioni. In Terra Santa infatti, oltre al contrasto, spesso armato, tra Israele e i palestinesi, questi ultimi sono travagliati da lotte interne difficili da superare: la pacificazione della Terra Santa, con il riconoscimento reciproco dei due popoli e dei due Stati, rimane però elemento decisivo per restituire un minimo di tranquillità e sicurezza a tutta l’area mediorientale. Anche in Libano, dopo l’assassinio del Ministro Pierre Gemayel, la situazione interna è ridiventata assai tesa e il Governo è stato sottoposto a fortissime pressioni, alle quali non sono certo estranei gli interessi e le ambizioni di altri Stati. Ma il Paese in cui si sta consumando la peggiore tragedia è l’Iraq, con molte migliaia di vittime, soprattutto civili, per la lotta tra opposte fazioni. L’esecuzione di Saddam Hussein e poi di due tra i suoi più stretti collaboratori, oltre alla riprovazione morale che non può non accompagnare la pena di morte, sembra avere ulteriormente aggravato questa situazione. L’aumento della presenza militare non potrà essere la chiave di una soluzione duratura, per la quale un nuovo e più ampio approccio politico appare davvero indispensabile.

 

Rimangono aperte inoltre le gravi questioni dei programmi nucleari dell’Iran e delle inaccettabili minacce contro l’esistenza stessa dello Stato di Israele. Anche in Afghanistan le attività di guerriglia non sembrano attenuarsi e due nostri soldati, gli alpini Giorgio Langella e Vincenzo Cardella, sono stati uccisi, mentre un altro militare italiano, Massimo Vitagliano, è morto in un incidente in Iraq: li accompagnano il nostro affetto, la nostra gratitudine e la nostra preghiera. In questa situazione il Santo Padre ha sentito il bisogno di rivolgere nell’imminenza del Natale uno speciale Messaggio ai cattolici del Medio Oriente, in cui esprime loro tutta la sua vicinanza e la sua solidarietà nella sofferenza, nei rischi e nelle molteplici difficoltà che devono affrontare, li conforta a non lasciare quelle terre, in cui è nato il Salvatore ed ha avuto la sua prima espansione la fede cristiana, e rende pubblica la sua speranza di potersi recare pellegrino in Terra Santa. A nostra volta siamo vicini a questi nostri fratelli con la preghiera e la solidarietà, che vogliamo esprimere in particolare recandoci anche noi pellegrini in quei luoghi.

 

In Africa la Somalia è stata teatro di un aspro conflitto, con molte vittime ed ulteriori emergenze per una popolazione stremata. La sua rapida conclusione militare non garantisce purtroppo, almeno per ora, una prospettiva di pacificazione e di ricostruzione. La terribile crisi del Darfur sembra aprirsi negli ultimi tempi a qualche speranza di soluzione, anche se l’esperienza di questi anni induce purtroppo alla massima cautela. Nella Nigeria, funestata dall’esplosione di un oleodotto che ha provocato centinaia di vittime, due italiani sono da lungo tempo tenuti in ostaggio, mentre un terzo, in precarie condizioni di salute, è stato rilasciato negli ultimi giorni. Non sono pochi però, come ha detto il Papa nel discorso al Corpo Diplomatico, i segnali positivi che giungono da questo Continente tanto martoriato: essi riguardano i processi di riconciliazione nazionale in atto in molti Paesi e lo sforzo di ripristino del funzionamento delle istituzioni, a livello non solo nazionale ma anche regionale e continentale. Per l’Africa deve crescere la sollecitudine, pur già grande, della Chiesa italiana, e anche una genuina solidarietà del nostro Paese.

 

Ha suscitato gravi preoccupazioni l’esperimento nucleare compiuto dalla Corea del Nord, oltre a tutto in stridente contrasto con l’estrema miseria che affligge il suo popolo. Ma è motivo di turbamento e suscita pesanti interrogativi anche un fatto come l’assassinio a Mosca della giornalista Anna Politovskaia, nota nel mondo per le sue inchieste sulle violazioni dei diritti umani. Solidarietà concreta dobbiamo inoltre esprimere al popolo filippino, duramente provato a fine novembre da un tifone che ha provocato un grandissimo numero di morti ed enormi distruzioni.

 

Termino ricordando tutti quei nostri fratelli, almeno 24 nel corso del 2006, tra i quali gli italiani Don Andrea Santoro, Don Bruno Baldacci e Suor Leonella Sgorbati, che hanno versato il loro sangue in terra di missione. Il loro sacrificio sia seme di nuovi cristiani e valga ad indurre a comportamenti più aperti e più umani quelle forze, quei gruppi e purtroppo anche quei Governi che propendono ad atteggiamenti di intolleranza e talvolta di vera persecuzione. Cari Confratelli, vi ringrazio di avermi ascoltato e di quanto vorrete osservare e proporre. Affidiamo con fiducia queste nostre giornate alla materna intercessione di Maria Santissima, a quella del suo sposo Giuseppe e dei Santi e delle Sante venerati nelle nostre Chiese.

 Camillo Card. Ruini, Presidente

 

 


 

Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo

Intervento conclusivo del cardinale Camillo Ruini, presidente della conferenza episcopale italiana, al IV Convegno Ecclesiale Nazionale, Verona, 16-20 ottobre 2006

 1. Venerati e cari Confratelli nell’episcopato, fratelli e sorelle nel Signore, giunge ormai a termine questo IV Convegno nazionale delle Chiese che sono in Italia, dopo intense giornate di preghiera, di ascolto e di dialogo. Siamo dunque, forse, un poco affaticati, ma siamo soprattutto pieni di quella gioia del cuore che è frutto dello Spirito Santo (cfr Sir 50,23; Gal 5,22) e alla quale il Papa Benedetto sempre ci richiama.

Questi sono stati, infatti, giorni felici, nei quali abbiamo sentito e gustato la bellezza e la fecondità del trovarci insieme, come fratelli, nel nome del Signore (cfr Mt 18,20). Il mio primo compito, quindi, è dare voce alla nostra comune gratitudine. Vogliamo anzitutto rinnovare il nostro grazie a Dio, Padre, Figlio e Spirito. Da Lui proviene tutto ciò che di buono e positivo abbiamo vissuto qui a Verona e nel lungo cammino di preparazione, da Lui imploriamo la forza e la grazia perché i germogli che sono stati piantati possano giungere a maturazione: in concreto perché si mantenga e si approfondisca la nostra comunione e aumentino in noi la consapevolezza e l’audacia di essere, ogni giorno, suoi testimoni.

Un pensiero di speciale gratitudine lo inviamo al Santo Padre: per la sua presenza tra noi che ci ha permesso di esprimergli anche visibilmente il bene che gli vogliamo; per il discorso che ci ha rivolto e che costituisce la piattaforma fondamentale per la vita e la testimonianza delle nostre Chiese nei prossimi anni, avendoci indicato con la profondità e la chiarezza che gli sono proprie “quel che appare davvero importante per la presenza cristiana in Italia”; per la S. Messa che abbiamo celebrato con lui e con tutta la Chiesa di Verona, oltre che con tante persone e gruppi venuti da ogni parte. In questa Messa Benedetto XVI ha sentito l’abbraccio del nostro popolo, mentre noi, guidati dalla sua parola, siamo andati alla radice della nostra gioia e della nostra comunione.

Ma vogliamo anche ringraziarci l’un l’altro per quel che insieme, tra noi e con il Signore, abbiamo potuto vivere e costruire: questa reciproca gratitudine, amicizia e stima è anche la premessa del cammino che dopo Verona dobbiamo proseguire insieme. Speciale riconoscenza esprimiamo al Cardinale Dionigi Tettamanzi, ai vari relatori e a tutti coloro che hanno lavorato alla preparazione del Convegno. Nel dire questo avvertiamo però che il raggio della nostra gratitudine non si restringe ad alcuni tra noi, ma piuttosto si allarga ben al di là del numero di coloro che sono qui riuniti. Una nota saliente dell’attuale Convegno è infatti la quantità e qualità della partecipazione che lo ha preceduto e lo ha fatto lievitare, specialmente a partire dalla pubblicazione, nel luglio dello scorso anno, della Traccia di riflessione: straordinario è stato il coinvolgimento delle Chiese locali – non solo di quelle che hanno ospitato e curato gli eventi legati ai cinque ambiti del Convegno –, intensa la partecipazione spirituale, serio e condiviso l’approfondimento delle problematiche, particolarmente sentita la ricerca dei segni di speranza presenti oggi nella società e nella Chiesa, così come la valorizzazione di quelle figure di cristiani del Novecento che costituiscono per l’Italia di oggi modelli convincenti di testimonianza evangelica: tutto ciò in un clima di fiducia e di spontanea comunione.

Un vivissimo grazie lo diciamo ai Vescovi venuti a testimoniarci la fraterna vicinanza di tutta la Chiesa cattolica che vive in Europa ed anche negli altri continenti. Ringraziamo inoltre di cuore i delegati fraterni delle altre Chiese e Comunità cristiane, e parimenti i rappresentanti della Comunità ebraica, di quella islamica e di altre religioni.

Uno speciale e ingente debito di gratitudine abbiamo verso Mons. Flavio Roberto Carraro e tutta la Chiesa di Verona: l’affetto con cui ci hanno accolto e la premura di cui ci hanno circondato sono stati un contributo prezioso alla buona riuscita del Convegno e per ciascuno di noi un incoraggiamento e un motivo di gioia.

Vorrei poi ricordare con voi un nostro fratello, l’Arcivescovo di Monreale Mons. Cataldo Naro, che abbiamo molto amato ed ammirato e che ha collaborato con straordinaria partecipazione, intelligenza e apertura di cuore, in qualità di Vicepresidente del Comitato preparatorio, all’ideazione e alla progressiva realizzazione del Convegno. Per molti di noi egli è stato un amico personale, per tutti un esempio e un testimone di amore alla Chiesa e di una cultura compenetrata dal Vangelo. Lo sentiamo vivo e presente in mezzo a noi, nel mistero del Dio che si è fatto nostro fratello, per il quale Mons. Cataldo ha speso la sua vita.

Questo mio intervento è stato indicato, nel programma del Convegno, come “discorso conclusivo”: un titolo giustificato solo dal fatto che è l’ultimo della serie, ma non da quello che potrò dire. In realtà le conclusioni sono state in buona misura già proposte nelle ottime relazioni che abbiamo appena ascoltato sui lavori dei cinque ambiti e saranno ulteriormente formulate nel documento che, come è d’uso, l’Assemblea della CEI dovrebbe approvare qualche mese dopo il Convegno. Soprattutto, la vera conclusione, o meglio il frutto e lo sviluppo concreto dei lavori di queste giornate e di tutto il cammino preparatorio, consisterà in quello che, come Chiesa italiana, sapremo vivere e testimoniare nei prossimi anni, cercando in primo luogo di essere docili alla guida del Signore. Il mio intervento si pone dunque semplicemente come un contributo alla riflessione comune, affinché le grandi indicazioni offerteci dal Santo Padre e tutto il lavoro svolto prima e durante il Convegno trovino sbocchi concreti nella vita e nella testimonianza della Chiesa italiana. Spero di rimediare così, in qualche misura, all’impegno troppo scarso con cui ho partecipato al cammino preparatorio, per il quale si è speso invece con eccezionale competenza, disponibilità e amore il nostro carissimo Mons. Giuseppe Betori, che non ha potuto essere fisicamente con noi in queste giornate ma è ormai pronto a riprendere il suo lavoro di Segretario della C.E.I. e a contribuire come egli sa fare agli sviluppi che tutti attendiamo dal Convegno: a lui vanno il nostro affetto e la nostra gratitudine, nel vincolo di fraternità che ci unisce nel Signore.

 

2. Cari fratelli e sorelle, questo incontro di Verona deve aiutare le nostre comunità a testimoniare Gesù risorto entro un contesto sociale e culturale, nazionale ed internazionale, che cambia molto rapidamente, mentre si rinnova anche la realtà ecclesiale. Proprio la coscienza di questi cambiamenti, dei problemi che essi pongono alla pastorale quotidiana e della necessità di non subirli passivamente, ma piuttosto di saperli interpretare alla luce del Vangelo, per poter interagire con essi e orientare in senso positivo il loro corso, è forse il principale motivo per il quale molte attese si concentrano sul nostro Convegno.

Nei quasi undici anni che ci separano dall’incontro di Palermo abbiamo ricevuto anzitutto alcuni grandi doni, come l’Anno Santo del 2000, un’esperienza di fede, di preghiera, di partecipazione ecclesiale i cui frutti, nell’economia di salvezza, non si sono certo esauriti. Poi abbiamo vissuto gli ultimi anni del Pontificato di Giovanni Paolo II, la sua straordinaria testimonianza di abbandono in Dio e di dedizione totale alla causa del Vangelo, di cui proprio nei giorni della sua morte è divenuta manifesta al mondo la grandissima efficacia, capace di far riscoprire il senso cristiano – e autenticamente umano – del vivere, del soffrire e del morire, e al contempo l’unità profonda della famiglia umana. Con il nuovo Papa Benedetto XVI abbiamo sperimentato come, nell’avvicendarsi delle persone, possa essere piena la continuità nella guida della Chiesa e nel legame di amore che unisce il popolo di Dio al Successore di Pietro. Ma godiamo anche della luce di intelligenza e di verità con cui Papa Benedetto propone il mistero della fede e illumina le realtà e le sfide che tutti viviamo: ieri di questa luce abbiamo usufruito qui in modo speciale. Ci fa bene, cari fratelli e sorelle, rammentarci di questi e di altri grandi doni del Signore, che non rimangono esterni a noi ma fanno parte della nostra vita, anche per non rinchiuderci nel breve raggio del nostro lavoro quotidiano e per non cedere a quella miopia spirituale che fa male alla speranza.

Quando celebravamo il Convegno di Palermo prevaleva ancora, sebbene già in parte offuscata, quell’atmosfera di sollievo e di fiducia, a livello di scenari europei e mondiali, che era nata dalla caduta della cortina di ferro e dalla fine della lunga stagione della “guerra fredda”. Oggi non è più così, per delle cause profonde e di lungo periodo che hanno nella tragica data dell’11 settembre 2001 un’espressione emblematica ma assai parziale. La sfida rappresentata dal terrorismo internazionale, per quanto ardua e minacciosa, è infatti soltanto un aspetto di una problematica molto più ampia, che si riconduce al risveglio religioso, sociale e politico dell’Islam e alla volontà di essere di nuovo protagoniste sulla scena mondiale che accomuna almeno in qualche misura le popolazioni islamiche, pur con tutte le differenze e le tensioni che esistono tra di esse. Questo grande processo ci tocca da vicino, a nostra volta, sotto il profilo religioso e non soltanto sociale, economico e politico, anche perché, nel quadro generale dei grandi fenomeni migratori, è forte la presenza islamica in Europa e ormai anche in Italia. Lo stesso risveglio dell’Islam, d’altronde, si accompagna ad altri importanti sviluppi che sono in corso e che vedono protagoniste altre grandi nazioni e civiltà, come la Cina e l’India, configurando ormai uno scenario mondiale assai diverso da quello che faceva perno unicamente sull’Occidente. Nello stesso tempo rimangono in tutta la loro drammatica gravità le situazioni di povertà estrema e mancato sviluppo di numerosi Paesi e aree geografiche, specialmente ma certo non esclusivamente in Africa. In questo contesto di grandi trasformazioni sta assumendo dimensioni nuove e diventa sempre più vitale e irrinunciabile il compito della costruzione della pace, mentre persistono e si aggravano tante forme di guerra e minacce di guerra. Tutto ciò, di nuovo, ci interpella anche e specificamente in quanto credenti in Cristo: la Chiesa italiana, pertanto, non può non essere attenta e partecipe verso queste tematiche, decisive per gli anni che ci attendono.

Un’altra novità di grande spessore e implicazioni che ha guadagnato molto spazio nell’ultimo decennio è quella che viene indicata come “questione antropologica”: nei lavori del nostro Convegno essa è stata, giustamente, assai presente. Negli interrogativi intorno all’uomo, infatti, nelle domande su chi egli realmente sia, sui suoi rapporti con il mondo e con la natura, ma anche nelle questioni che riguardano l’evolversi dei suoi comportamenti personali e sociali e le nuove e rapidamente crescenti possibilità di intervento sulla sua stessa realtà che le scienze e le tecnologie stanno aprendo, la fede cristiana e la conoscenza dell’uomo che essa ha in Cristo (cfr Gaudium et spes, 22) vengono messe inevitabilmente a confronto con le prospettive e i punti di vista, talora assai divergenti, che riguardo all’uomo stesso hanno oggi largo corso e cercano di imporsi. Questo confronto, che si svolge in tutto l’Occidente ed anzi si estende sempre più a livello planetario, coinvolge profondamente anche l’Italia ed appare chiaramente destinato a proseguire e ad intensificarsi negli anni che ci attendono. Esso si sviluppa, contestualmente, a molteplici livelli: sul piano culturale e morale, su quello della ricerca scientifica e delle sue applicazioni terapeutiche, su quello del vissuto delle persone e delle famiglie come su quello delle scelte politiche e legislative. Dobbiamo dunque continuare a sostenere questo confronto, che è stato già di grande stimolo per il nostro “progetto culturale”, essendo anzitutto consapevoli che la luce della fede ci fa comprendere in profondità non un modello di uomo ideale e utopico, ma l’uomo reale, concreto e storico, che di per sé la stessa ragione può conoscere, e che, come ha detto Benedetto XVI il 30 maggio 2005 aggiungendo a braccio queste parole al suo discorso all’Assemblea della C.E.I., “non lavoriamo per l’interesse cattolico ma sempre per l’uomo creatura di Dio”.

Un ulteriore elemento di novità, meno evidente ed appariscente ma che si riferisce alla vita stessa della Chiesa e dei cattolici in Italia, mi sembra possa individuarsi in una crescita che ha avuto luogo in questi anni, sotto vari aspetti, tra loro certamente connessi. Si sono rafforzati cioè i sentimenti e gli atteggiamenti di comunione tra le diverse componenti ecclesiali, e in particolare tra le aggregazioni laicali, mentre si è fatto nettamente sentire, anche nel corso del nostro Convegno, il desiderio di una comunione ancora più concreta e profonda. A un tale positivo sviluppo ha certamente contribuito l’approfondirsi e il diffondersi della consapevolezza circa la necessità e l’urgenza, e al contempo le molte innegabili difficoltà, di una effettiva opera di rievangelizzazione del nostro popolo: ciò ha suscitato nuove energie ed ha fatto sentire più forte il bisogno di lavorare insieme, per una missione che è comune a noi tutti (cfr Apostolicam actuositatem, 2). È cresciuto inoltre, in maniera visibile, il ruolo della Chiesa e dei cattolici in alcuni aspetti qualificanti della vita dell’Italia: in particolare nel porre all’attenzione di tutti il significato e le implicazioni della nuova questione antropologica. In questo contesto si sono formate, o hanno intensificato la loro presenza, realtà come “Scienza & Vita”, il Forum delle Famiglie, “RetInOpera”, con una forte unità tra i cattolici e una assai significativa convergenza con esponenti della cultura “laica”. Si è potuto interpretare così, come è apparso specialmente in occasione del referendum sulla procreazione assistita, il sentire profondo di gran parte del nostro popolo. Ho ricordato questi aspetti di crescita non per nascondere le difficoltà che persistono, e sotto qualche profilo si aggravano, nella presenza cristiana in Italia, ma per mostrare come i giudizi e gli atteggiamenti improntati alla stanchezza e al pessimismo, che esistono anche all’interno della Chiesa e possono essere umanamente assai comprensibili, si rivelino unilaterali già sul piano dei fatti e dell’esperienza.

 

3. Proprio alla luce delle novità intercorse nell’ultimo decennio appare assai felice la scelta di concentrare l’attenzione del 4º Convegno della Chiesa italiana sulla testimonianza di Gesù risorto, speranza del mondo. Nell’articolazione di questo titolo è facile ravvisare la duplice attenzione, ormai tradizionale in questi nostri Convegni, alla missione evangelizzatrice della Chiesa e al suo determinante influsso positivo sulla vita della società. Questa duplice attenzione, però, non degenera in una dicotomia, ma si mantiene all’interno dell’unità dell’esperienza credente: è la testimonianza stessa di Gesù risorto, infatti, a costituire la speranza del mondo. Ancor più significativo è il fatto di essere andati, facendo perno sulla risurrezione di Cristo, al “centro della predicazione e della testimonianza cristiana, dall’inizio e fino alla fine dei tempi”, come ci ha detto ieri il Papa, che ha anche fatto risaltare in tutta la sua forza il motivo di questa centralità. Uno sguardo d’insieme all’evoluzione del mondo in cui viviamo, delle sue direttrici culturali e dei suoi comportamenti, fa vedere infatti come i problemi che emergono tocchino le fondamenta stesse della nostra fede, e anche di una civiltà che voglia essere umanistica. Le possibilità di darvi risposta dipendono pertanto, in primo luogo, dall’autenticità e profondità del nostro rapporto con Dio. Soltanto così si formano quei testimoni di Cristo che l’allora Cardinale Ratzinger ha chiesto a Subiaco il 1º aprile 2005, con parole che è bene riascoltare in questo Convegno: “Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto le porte dell’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini”.

Grande attenzione e cura sono state dedicate pertanto, già nella preparazione del Convegno, a ciò che nelle nostre comunità può meglio disporci a quell’evento gratuito per il quale gli uomini e le donne di ogni età e condizione sono “toccati da Dio”, e questo è anche il primo obiettivo a cui puntare per il dopo-Convegno. Si tratta “di riproporre a tutti con convinzione” quella “misura alta della vita cristiana ordinaria” che è la santità, come ci ha chiesto Giovanni Paolo II al termine del Grande Giubileo (Novo millennio ineunte, 31). Paola Bignardi, nel suo intervento di martedì, definendo la santità “unica misura secondo cui vale la pena essere cristiani”, ha rimarcato come a questa richiesta non ci siano per noi alternative praticabili. Infatti il cammino verso la santità non è altro, in ultima analisi, che il lasciar crescere in noi quell’incontro con la Persona di Cristo “che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”, secondo le parole della Deus caritas est riprese ieri dal Papa nel suo discorso: così, nonostante tutte le nostre miserie e debolezze, possiamo essere riplasmati e trasformati dallo Spirito che abita in noi.

In concreto, nella preparazione e nello svolgimento del nostro Convegno, sono ritornate con insistenza le richieste di dare spazio alla gratuità, alla contemplazione, alla lode e alla gratitudine della risposta credente al dono che Dio sempre di nuovo fa di se stesso a noi. Nella sostanza è lo stesso invito che ci ha fatto ieri il Papa, quando ci ha detto che “prima di ogni nostra attività e di ogni nostro programma … deve esserci l’adorazione, che ci rende davvero liberi e ci dà i criteri per il nostro agire”. Abbiamo a che fare qui con quello che è il vero “fondamentale” del nostro essere di cristiani. Esso, certamente in forme congruenti alle diverse vocazioni e situazioni di vita, riguarda ugualmente tutti noi, sacerdoti, religiosi e laici (cfr Lumen gentium, 40-41), che abbiamo “per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo” (Lumen gentium, 9). Il mistero cristiano, vissuto nella pienezza delle sue dimensioni di amore gratuito e sovrabbondante, di sequela di Cristo crocifisso e risorto e così di partecipazione alla vita stessa di Dio, è infatti l’unica realtà che possiamo davvero proporre come quel grande “sì” a cui si è riferito anche ieri Benedetto XVI, che salva e che apre al futuro, anche all’interno della storia. È questo il motivo di fondo per il quale il Santo Padre insiste sul posto fondamentale della liturgia nella vita della Chiesa, come anche sull’opportunità di non pianificare troppo e di non lasciar prevalere gli aspetti organizzativi e tanto meno burocratici: con tutte queste indicazioni il nostro Convegno si è mostrato in spontanea e sentita sintonia. Da questa assemblea sale dunque un’umile preghiera, che implica anche un sincero proposito, affinché il primato di Dio sia il più possibile “visibile” e “palpabile” nell’esistenza concreta e quotidiana delle nostre persone e delle nostre comunità.

 

4. Cari fratelli e sorelle, ciascuno di noi constata ogni giorno quanti siano gli ostacoli che l’ambiente sociale e culturale in cui viviamo frappone al cammino verso la santità. Tutto ciò rende ancor più necessaria e importante l’opera formativa che le nostre comunità sono chiamate a compiere e che si rivolge, senza dualismi, alla persona concreta dell’uomo e del cristiano, con l’intero complesso delle sue esperienze, situazioni e rapporti. Queste giornate di lavoro e le relazioni che abbiamo appena ascoltato hanno già approfondito i molteplici aspetti di un tale impegno formativo, mentre Benedetto XVI ha sottolineato che l’educazione della persona è “questione fondamentale e decisiva”, per la quale è necessario “risvegliare il coraggio delle decisioni definitive”. Per parte mia vorrei solo confermare che il nostro Convegno, con la sua articolazione in cinque ambiti di esercizio della testimonianza, ognuno dei quali assai rilevante nell’esperienza umana e tutti insieme confluenti nell’unità della persona e della sua coscienza, ci ha offerto un’impostazione della vita e della pastorale della Chiesa particolarmente favorevole al lavoro educativo e formativo. Si tratta di un notevole passo in avanti rispetto all’impostazione prevalente ancora al Convegno di Palermo, che a sua volta puntava sull’unità della pastorale ma era meno in grado di ricondurla all’unità della persona perché si concentrava solo sul legame, pur giusto e prezioso, tra i tre compiti o uffici della Chiesa: l’annunzio e l’insegnamento della parola di Dio, la preghiera e la liturgia, la testimonianza della carità.

Non è necessario aggiungere che l’opera formativa, sebbene oggi debba essere rivolta a tutti, mantiene un orientamento e una rilevanza speciale per i bambini e i ragazzi, gli adolescenti e i giovani: sono proprio le nuove generazioni, del resto, le più esposte a un duplice rischio: quello di crescere in un contesto sociale e culturale nel quale la tradizione cristiana sembra svanire e dissolversi – perfino in rapporto al suo centro che è Gesù Cristo – rimanendo viva e rilevante soltanto all’interno degli ambienti ecclesiali, e quello di pagare le conseguenze di un generale impoverimento dei fattori educativi nella nostra società. Anche di questi problemi e delle possibilità di rispondervi il nostro Convegno si è occupato approfonditamente. In particolare l’iniziazione cristiana si presenta oggi alle nostre Chiese come una sfida cruciale e come un grande cantiere aperto, dove c’è bisogno di dedizione e passione formativa ed evangelizzatrice, di sicura fedeltà e al contempo del coraggio di affrontare creativamente le difficoltà odierne. Di un’analoga passione educativa c’è forte necessità nelle scuole e specificamente nelle scuole cattoliche. È giusto ricordare qui che la Chiesa italiana nel prossimo triennio realizzerà un progetto denominato “Agorà dei giovani”, il cui primo e assai importante appuntamento sarà l’incontro dei giovani italiani a Loreto l’1 e il 2 settembre 2007, al quale abbiamo invitato il Santo Padre.

Un aspetto sul quale occorre insistere è quello dell’orientamento e della qualificazione missionaria che la formazione dei cristiani deve avere, ad ogni livello. Non si tratta di aggiungere un elemento dall’esterno, ma di aiutare a maturare la consapevolezza di ciò che alla nostra fede è pienamente intrinseco. Come ha detto il Papa al Convegno della Diocesi di Roma il 5 giugno scorso, “Nella misura in cui ci nutriamo di Cristo e siamo innamorati di Lui, avvertiamo anche lo stimolo a portare altri verso di Lui: la gioia della fede infatti non possiamo tenerla per noi, dobbiamo trasmetterla”.

 

5. Questa tensione missionaria rappresenta anche il principale criterio intorno al quale configurare e rinnovare progressivamente la vita delle nostre comunità. Dal nostro Convegno emerge chiara l’esigenza di superare le tentazioni dell’autoreferenzialità e del ripiegamento su di sé, che pure non mancano, come anche di non puntare su un’organizzazione sempre più complessa, per imboccare invece con maggiore risolutezza la strada dell’attenzione alle persone e alle famiglie, dedicando tempo e spazio all’ascolto e alle relazioni interpersonali, con particolare cura per la confessione sacramentale e la direzione spirituale. In un contesto nuovo e diverso, avremo così il ricupero di una dimensione qualificante della nostra tradizione pastorale.

Per essere pienamente missionaria, questa attenzione alle persone e alle famiglie deve assumere però un preciso orientamento dinamico: non basta cioè “attendere” la gente, ma occorre “andare” a loro e soprattutto “entrare” nella loro vita concreta e quotidiana, comprese le case in cui abitano, i luoghi in cui lavorano, i linguaggi che adoperano, l’atmosfera culturale che respirano. È questo il senso e il nocciolo di quella “conversione pastorale” di cui sentiamo così diffusa l’esigenza: essa riguarda certamente le parrocchie, ma anche, in modo differenziato, le comunità di vita consacrata, le aggregazioni laicali, le strutture delle nostre Diocesi, la formazione del clero nei seminari e nelle università, la Conferenza Episcopale e gli altri organismi nazionali e regionali.

Proprio qui si inserisce la proposta, o meglio il bisogno, della “pastorale integrata”. Dobbiamo precisare i suoi contorni e darle man mano maggiore concretezza, ma sono già chiari il suo obiettivo e la sua direzione di marcia: essa trova infatti nella comunione ecclesiale la sua radice e nella missione, da svolgere nell’attuale società complessa, la sua finalità e la sua concreta ragion d’essere. Punta quindi a mettere in rete tutte le molteplici risorse umane, spirituali, pastorali, culturali, professionali non solo delle parrocchie ma di ciascuna realtà ecclesiale e persona credente, al fine della testimonianza e della comunicazione della fede in questa Italia che sta cambiando sotto i nostri occhi.

Fin da quando si è incominciato a progettare il presente Convegno è apparso centrale, proprio nella prospettiva della missione, il tema dei cristiani laici e molto è maturato in proposito sia in queste giornate sia nel lavoro preparatorio, nella linea del Concilio Vaticano II e dell’Esortazione Apostolica Christifideles laici. È chiaro a tutti noi che il presupposto di una piena e feconda presenza e testimonianza laicale è costituito dalla comunione ecclesiale e specificamente da quella spiritualità di comunione che è stata invocata da Giovanni Paolo II con queste parole appassionate: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo” (Novo millennio ineunte, 43). In particolare è indispensabile una comunione forte e sincera tra sacerdoti e laici, con quell’amicizia, quella stima, quella capacità di collaborazione e di ascolto reciproco attraverso cui la comunione prende corpo. Anzitutto noi Vescovi e presbiteri, proprio per la peculiare missione e responsabilità che ci è affidata nella Chiesa, siamo chiamati a farci carico di questa comunione concreta, prendendo sul serio la parola di Gesù, ripresa nella Lumen gentium (n. 18), che ci dice che siamo a servizio dei nostri fratelli. Ciò non significa che si debba abdicare al nostro compito specifico e all’esercizio dell’autorità che ne fa parte. Implica e richiede però che questo compito e questa autorità siano protesi a far crescere la maturità della fede, la coscienza missionaria e la partecipazione ecclesiale dei laici, trovando in ciò una fonte di gioia personale e non certo di preoccupazione o di rammarico, e promuovendo la realizzazione di quegli spazi e momenti di corresponsabilità in cui tutto ciò possa concretamente svilupparsi. Analogo spirito e comportamento è evidentemente richiesto nei cristiani laici: tutti infatti dobbiamo essere consapevoli che tra sacerdoti e laici esiste un legame profondo, per cui in un’ottica autenticamente cristiana possiamo solo crescere insieme, o invece decadere insieme.

La testimonianza missionaria dei laici, che in Italia ha alle spalle una storia lunga e grande, le cui forme moderne sono iniziate già ben prima del Vaticano II, e che poi ha ricevuto dal Concilio nuova fecondità e nuovo impulso, ha oggi davanti a sé degli spazi aperti che appaiono assai ampi, promettenti e al tempo stesso esigenti. Questa testimonianza è chiamata infatti ad esplicarsi sotto due profili, connessi ma distinti. Uno di essi è quello dell’animazione cristiana delle realtà sociali, che i laici devono compiere con autonoma iniziativa e responsabilità e al contempo nella fedeltà all’insegnamento della Chiesa, specialmente per quanto riguarda le fondamentali tematiche etiche ed antropologiche. L’altro è quello della diretta proposta e testimonianza del Vangelo di Gesù Cristo, non solo negli ambienti ecclesiali ma anche e non meno nei molteplici spazi della vita quotidiana: in quello scambio continuo, cioè, che ha luogo all’interno delle famiglie come nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei locali pubblici e in tante altre occasioni. Sono i laici pertanto ad avere le più frequenti e per così dire “naturali” opportunità di svolgere una specie di apostolato o diaconia delle coscienze, esplicitando la propria fede e traducendo in comportamenti effettivi e visibili la propria coscienza cristianamente formata. Così essi possono aiutare ogni uomo e ogni donna con cui hanno a che fare a riscoprire lo sguardo della fede e a mantenere desta a propria volta la coscienza, lasciandosi interrogare da essa e possibilmente ascoltandola in concreto. Soltanto per questa via può realizzarsi la saldatura tra la fede e la vita e può assumere concretezza quella “seconda fase” del progetto culturale che è stata motivatamente proposta dal Cardinale Tettamanzi. Questa forma di testimonianza missionaria appare dunque decisiva per il futuro del cristianesimo e in particolare per mantenere viva la caratteristica “popolare” del cattolicesimo italiano, senza ridurlo a un “cristianesimo minimo”, come ha giustamente chiesto Don Franco Giulio Brambilla: tale forma di testimonianza dovrebbe pertanto crescere e moltiplicarsi. Potrà farlo però soltanto sulla base di una formazione cristiana realmente profonda, nutrita di preghiera e motivata e attrezzata anche culturalmente. Di fronte a una tale prospettiva diviene ancora più evidente la necessità di comunione e di un impegno sempre più sinergico tra i laici cristiani e tra le loro diverse forme di aggregazione, mentre si rivelano davvero privi di fondamento gli atteggiamenti concorrenziali e i timori reciproci.

 

6. Cari fratelli e sorelle, nel nostro comune impegno di evangelizzazione e testimonianza dobbiamo essere chiaramente consapevoli di una questione che la Chiesa ha affrontato fin dall’inizio e che specialmente oggi non è in alcun modo aggirabile: quella della verità del cristianesimo. Nell’attuale contesto culturale essa implica un confronto con posizioni che mettono in dubbio non solo la verità cristiana ma la possibilità stessa che l’uomo raggiunga una qualsiasi verità non puramente soggettiva, funzionale e provvisoria: tanto meno egli potrebbe farlo in ambito religioso e in ambito etico. Così la fede cristiana è messa in questione nel suo stesso nucleo sorgivo e contenuto centrale, nel riconoscimento di Dio e del suo rivelarsi a noi in Gesù Cristo: in particolare non sarebbe più seriamente proponibile quello che è il cuore del presente Convegno, la testimonianza di Gesù risorto. Tutto ciò si riferisce in primo luogo al confronto intellettuale e al dibattito pubblico, ma ha certamente un’eco e un influsso nella coscienza e nei convincimenti delle persone, in specie dei giovani che si stanno formando. Bisogna aggiungere però che gli atteggiamenti di chiusura o anche di contestazione esplicita della plausibilità della fede in Dio, e in particolare del cristianesimo, coesistono e confliggono con uno sviluppo ben diverso, quello della crescita dell’importanza della religione, che si sta verificando a largo raggio e in particolare anche in Italia, dove si qualifica in buona misura come riaffermazione del valore dell’identità cristiana e cattolica. Non si tratta comunque e soltanto di un fenomeno che si esprimerebbe prevalentemente a livello pubblico, come difesa di un’identità che si sente minacciata da altre presenze. Esso ha a che fare, più profondamente, con la questione del significato della nostra vita, dei suoi scopi e della direzione da imprimerle: questione che nel contesto di una forma di razionalità soltanto sperimentale e calcolatrice non trova spazio legittimo e tanto meno risposta. Una tale questione è però insopprimibile, perché tocca l’intimo della persona, quel “cuore” che solo Dio può davvero conoscere (cfr 1Re 8,39; At 1,24; 15,8).

Il risultato di un simile contrasto alla fine non è positivo né per la razionalità scientifica, che rischia di essere percepita come una minaccia piuttosto che come un grande progresso e una straordinaria risorsa, né per il senso religioso che, quando appare tagliato fuori dalla razionalità, rimane in una condizione precaria e può essere preda di derive fantasiose o fanatiche.

È dunque davvero provvidenziale l’insistenza con cui Benedetto XVI stimola e invita ad “allargare gli spazi della nostra razionalità”, come ha fatto anche ieri al nostro Convegno e più ampiamente nel grande discorso all’Università di Regensburg, dove ha messo in luce il legame costitutivo tra la fede cristiana e la ragione autentica. A questa opera la Chiesa e i cattolici italiani devono dedicarsi con fiducia e creatività: anch’essa fa parte della “seconda fase” del progetto culturale e ne costituisce una dimensione caratterizzante. Va compiuta nella linea del sì all’uomo, alla sua ragione e alla sua libertà, che il Papa ieri ci ha riproposto con forza, attraverso un confronto libero e a tutto campo. Abbraccia dunque le molteplici articolazioni del pensiero e dell’arte, il linguaggio dell’intelligenza e della vita, ogni fase dell’esistenza della persona e il contesto familiare e sociale in cui essa vive. È affidata alla responsabilità dei Vescovi e al lavoro dei teologi, ma chiama ugualmente in causa la nostra pastorale, la catechesi e la predicazione, l’insegnamento della religione e la scuola cattolica, così come la ricerca filosofica, storica e scientifica e il corrispondente impegno didattico nelle scuole e nelle università, e ancora lo spazio tanto ampio e pervasivo della comunicazione mediatica. Di più, la sollecitudine specifica per la questione della verità è parte essenziale di quella missionarietà a cui, come ho già sottolineato, i cristiani laici sono chiamati nei molteplici spazi della vita quotidiana, familiare e professionale.

La forma e modalità in cui la verità cristiana va proposta ci riconduce al tema del nostro Convegno: è infatti, necessariamente, quella della testimonianza. Ciò non soltanto perché l’uomo del nostro tempo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri (cfr Evangelii nuntiandi, 41), ma per un motivo intrinseco alla verità cristiana stessa. Essa infatti apre al mistero di Dio che liberamente si dona a noi e mette in gioco, insieme con la nostra ragione, tutta la nostra vita e la nostra salvezza. Non si impone quindi con evidenza cogente ma passa attraverso l’esercizio della nostra libertà. La coerenza della vita, pertanto, è richiesta a ciascuno di noi se vogliamo aiutare davvero i nostri fratelli a compiere quel passo che porta a fidarsi di Gesù Cristo.

Questo legame tra verità e libertà è oggi quanto mai attuale e importante anche sul piano pubblico, sia nei confronti di coloro che, in Italia e in genere in Occidente, vedono nella rivendicazione di verità del cristianesimo una minaccia per la libertà delle coscienze e dei comportamenti, sia in relazione al dialogo inter-religioso, da condurre nel cordiale rispetto reciproco e al contempo senza rinunciare a proporre con sincerità e chiarezza i contenuti della propria fede e le motivazioni che li sostengono. Il Concilio Vaticano II, ponendo a fondamento della libertà religiosa non una concezione relativistica della verità ma la dignità stessa della persona umana, ha messo a punto il quadro entro il quale i timori di un conflitto tra verità e libertà potrebbero e dovrebbero essere superati da tutti (cfr Dignitatis humanae, 1-3).

 

7. La tensione escatologica del cristianesimo, fortemente evidenziata nel titolo stesso del nostro convegno dal riferimento alla risurrezione e alla speranza, coinvolge d’altronde l’indole stessa della verità cristiana, che è sempre più grande di noi, va accolta e testimoniata nell’umiltà e ci orienta verso il futuro di Dio. Per la medesima ragione la verità cristiana ha carattere “inclusivo”, tende ad unire e non a dividere, è fattore di pace e non di inimicizia. Come disse Giovanni Paolo II al Convegno di Loreto (n. 5), “nella sua essenza profonda essa è, infatti, manifestazione dell’amore, e solo nella concreta testimonianza dell’amore può trovare la sua piena credibilità”. Sento il bisogno di ricordare qui due nostri fratelli, Don Andrea Santoro e Suor Leonella Sgorbati, che di un tale legame tra verità di Cristo e amore del prossimo hanno dato quest’anno la testimonianza del sangue.

Proprio riguardo alla concezione dell’amore si è sviluppata negli ultimi secoli, come ha scritto Benedetto XVI nella Deus caritas est (n. 3), una critica sempre più radicale al cristianesimo, che il Papa così riassume: “la Chiesa con i suoi comandamenti e i suoi divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita?” Già Nietzsche riteneva decisivo, per superare e sconfiggere definitivamente il cristianesimo, attaccarlo non tanto sul piano della sua verità quanto su quello del valore della morale cristiana, mostrando che essa costituirebbe un crimine capitale contro la vita, perché avrebbe introdotto nel mondo il sentimento e la coscienza del peccato, autentica malattia dell’anima.

Un simile attacco sembra davvero in corso, anche se in maniera per lo più inconsapevole, come appare da quel processo di “alleggerimento” che tende a rendere fragili e precari sia la solidarietà sociale sia i legami affettivi. Tra i suoi fattori ci sono certamente l’affermarsi di un erotismo sempre più pervasivo e diffuso, così come la ricerca del successo individuale ad ogni costo, sulla base di una concezione della vita dove il valore prevalente sembra essere la soddisfazione del desiderio, che diventa anche la misura e il criterio della nostra personale libertà.

Anche sotto questo profilo siamo dunque chiamati a rendere ragione della nostra speranza (cfr 1Pt 3,15), con tutta quell’ampiezza di impegno e di servizio che ci ha illustrato il Papa nel suo discorso. Si tratta infatti della vita concreta delle persone e delle famiglie e del sostegno che esse nella comunità ecclesiale trovano o non trovano. Si tratta in particolare del modo in cui è concepito, proposto e vissuto il matrimonio, come del tipo di educazione che offriamo alle nuove generazioni. Al riguardo deve crescere la nostra fiducia e il nostro coraggio nell’affrontare la grande questione dell’amore umano, che è decisiva per tutti e specialmente per gli adolescenti e i giovani: è illusorio dunque pensare di poter formare cristianamente sia i giovani sia le coppie e le famiglie senza cercare di aiutarli a comprendere e sperimentare che il messaggio di Gesù Cristo non soffoca l’amore umano, ma lo risana, lo libera e lo fortifica.

Una testimonianza che si muove su un piano in apparenza molto diverso, ma in realtà profondamente connesso, è quella della sollecitudine cristiana verso i più poveri e i sofferenti: attraverso di essa si esprimono infatti quella generosità e quella capacità di attenzione verso gli altri che sono il segno dell’amore autentico. Perciò l’esercizio della carità è, anche per i giovani, un tirocinio prezioso che irrobustisce la persona e la rende più libera e più idonea a un duraturo dono di sé. Specialmente quando si tratta del dolore e della sofferenza, da affrontare nella propria carne o da cercare di alleviare nelle persone del nostro prossimo, ci è data la possibilità di entrare nella logica della croce e di comprendere più da vicino la radicalità e la forza dell’amore che Dio ha per noi in Gesù Cristo, come ci ha detto Benedetto XVI con parole particolarmente penetranti. Dobbiamo dunque ringraziare il Signore per l’ininterrotta testimonianza di carità della Chiesa italiana verso i poveri di ogni specie che sono tra noi, verso gli ammalati, verso le tante popolazioni del mondo che soffrono la fame e la sete, sono vittime della violenza degli uomini o di catastrofi naturali e di terribili epidemie. Rinnoviamo qui, insieme, la preghiera e l’impegno perché questa testimonianza continui e si rafforzi, nella certezza che per questa via il volto della Chiesa può riflettere la luce di Cristo (cfr Lumen gentium, 1).

 

8. La sollecitudine per il bene dell’Italia ci ha spinto a prendere in esame, anche in questo Convegno, le problematiche sociali, economiche e politiche, nel quadro della chiara indicazione che il Santo Padre ha ribadito anche ieri nel suo discorso, secondo la quale “La Chiesa … non è e non intende essere un agente politico”, ma nello stesso “ha un interesse profondo per il bene della comunità politica”.

Negli anni che ci separano dal Convegno di Palermo la novità politicamente forse più rilevante è stata l’affermarsi del “bipolarismo”, con l’alternanza tra le maggioranze di governo, mentre sul piano economico si segnala il passaggio dalla lira all’euro e il grande incremento della presenza di immigrati influisce a molteplici livelli. Il nostro Paese attraversa comunque una stagione non facile, che ha visto tendenzialmente ridursi il suo tasso di sviluppo e il suo peso nell’economia internazionale. Il dato più grave e preoccupante è chiaramente il declino demografico, che persiste ormai da troppi anni senza dare finora segnali di una consistente inversione di tendenza: le sue conseguenze su tutta la vita dell’Italia saranno purtroppo sempre più pesanti e condizionanti. Come ci ha detto Savino Pezzotta, la bassa natalità è il segno più evidente del venir meno di uno slancio vitale e progettuale nei confronti del futuro. Un altro nodo ancora largamente non risolto è la cosiddetta “questione meridionale”, che in realtà è questione di tutta l’Italia e merita pertanto un impegno comune e solidale. Anche su di noi, naturalmente, hanno influito non poco quei grandi rivolgimenti che ho ricordato all’inizio, come l’affermarsi di nuovi grandi attori sulla scena mondiale e l’emergere della questione antropologica. Nel cammino di sviluppo dell’Unione Europea la nota saliente è stata il suo forte allargamento, specialmente nei confronti dei Paesi ex-comunisti, che ha posto rimedio a una grande ingiustizia storica. Per questo e per altri e più radicati motivi l’Unione Europea sta conoscendo a sua volta non lievi difficoltà e si scontra con problemi non risolti: ha dunque bisogno di riscoprire le sue più profonde ragioni d’essere, per poter trovare più convinto sostegno nei popoli che ne fanno parte.

Nel corso di questi anni la Chiesa italiana si è mantenuta costantemente fedele alle indicazioni emerse, con l’esplicito sostegno di Giovanni Paolo II, dal Convegno di Palermo: esse si sono rivelate positive e feconde sia per la vita della Chiesa sia per il suo contributo al bene dell’Italia e corrispondono certamente all’insegnamento di Benedetto XVI. Abbiamo dunque tutti i motivi per proseguire su questa via, non coinvolgendoci in scelte di partito o di schieramento politico e operando invece perché i fondamentali principi richiamati dalla dottrina sociale della Chiesa e conformi all’autentica realtà dell’uomo innervino e sostengano la vita della nostra società.

All’interno di questa linea costante l’ultimo decennio ha visto crescere delle attenzioni specifiche, specialmente in rapporto all’aggravarsi della situazione internazionale, con l’esplosione del terrorismo di matrice islamica e di guerre funeste, e soprattutto con l’impatto che sta avendo anche da noi la questione antropologica. Pertanto, in stretta sintonia con l’insegnamento dei Pontefici, abbiamo messo l’accento sulla cultura della pace, fondata sui quattro pilastri della verità, della giustizia, dell’amore e della libertà, come afferma la Pacem in terris (nn. 18-19; 47-67). Abbiamo inoltre concentrato il nostro impegno sulle tematiche antropologiche ed etiche, in particolare sulla tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale, e sulla difesa e promozione della famiglia fondata sul matrimonio, contrastando quindi le tendenze ad introdurre nell’ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla. Con lo stesso spirito abbiamo incoraggiato l’impegno pubblico nell’educazione e nella scuola e insistito con pazienza e tenacia, anche se finora con risultati modesti, per la parità effettiva delle scuole libere.

Occorre ora dare seguito anche a queste attenzioni specifiche, probabilmente destinate a farsi ancora più necessarie nei prossimi anni, mantenendoci naturalmente sempre aperti a cogliere le problematiche nuove che avessero a manifestarsi. In questa sede, piuttosto che soffermarmi ancora una volta sui singoli argomenti, preferisco aggiungere qualche parola su un interrogativo di fondo della nostra società e sull’animo e l’atteggiamento con cui la comunità cristiana cerca di svolgere il proprio compito, muovendosi nella chiara consapevolezza della distinzione e della differenza tra la missione della Chiesa come tale e le autonome responsabilità propriamente politiche dei fedeli laici. L’interrogativo a cui mi riferisco riguarda la tendenza a porre in maniera unilaterale l’accento sui diritti individuali e sulle libertà del singolo, piuttosto che sul valore dei rapporti che uniscono le persone tra loro e che hanno un ruolo essenziale non solo per il bene della società, ma anche per la formazione e la piena realizzazione delle persone stesse. A questa tendenza, fortemente presente nella cultura pubblica e anche, sebbene in misura minore e in forme diverse, nel vissuto della gente, e attualmente protesa a cambiare la legislazione esistente, per parte nostra non intendiamo opporre un rifiuto altrettanto unilaterale: siamo infatti ben consapevoli che la libertà della persona è un grandissimo valore, che va riconosciuto nella misura più ampia possibile anche nella società e nelle sue leggi, limitandola solo quando e in quanto è necessario, come insegna il Concilio Vaticano II (Dignitatis humanae, 7). Riteniamo importante e urgente però, non per qualche interesse cattolico ma per il futuro del nostro popolo, far crescere a tutti i livelli una rinnovata consapevolezza della realtà intrinsecamente relazionale del nostro essere e quindi del valore decisivo dei rapporti che ci uniscono gli uni gli altri. Il senso del nostro impegno di cattolici italiani va dunque, prima che a fermare quei cambiamenti che appaiono negativi per il Paese, a mantenere viva e possibilmente a potenziare quella riserva di energie morali di cui l’Italia ha bisogno, se vuole crescere socialmente, culturalmente ed anche economicamente, e se intende superare il rischio di quella “scomposizione dell’umano” da cui ci ha messo in guardia il Prof. Lorenzo Ornaghi.

È questo il contesto concreto nel quale si colloca la chiara affermazione, da parte di Papa Benedetto, di quella laicità “sana” e “positiva” in virtù della quale le realtà temporali si reggono secondo norme loro proprie e lo Stato è certamente indipendente dall’autorità ecclesiastica, ma non prescinde da quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo e da quel “senso religioso” in cui si esprime la nostra costitutiva apertura alla Trascendenza. Questo concetto di laicità ci rallegriamo di veder condiviso in maniera crescente anche tra coloro che non hanno in comune con noi la fede cristiana, o almeno non la praticano. Accettiamo parimenti con animo sereno le critiche e talvolta le ostilità che il nostro impegno pubblico porta con sé, sapendo che fanno parte della libera dialettica di un Paese democratico e che molto più preoccupante delle critiche sarebbe quell’indifferenza che è sinonimo di irrilevanza e che sarebbe il segno di una nostra mancata presenza.

 

9. Cari fratelli e sorelle, tutto l’insieme delle richieste e dei compiti, a prima vista assai diversificati, che questo Convegno ha fatto passare davanti a noi, si riconduce alla missione della Chiesa, che in realtà è una sola, e deve trovare pertanto il soggetto che se ne fa carico nella medesima Chiesa, intesa però nella pienezza delle sue dimensioni: come popolo di Dio che vive nella storia, con le sue molteplici articolazioni e componenti, e come mistero e sacramento, presenza salvifica di Dio Padre, corpo di Cristo e tempio dello Spirito, con una ordinazione intrinseca alla salvezza di tutti gli uomini (cfr Lumen gentium, capp. I e II). Perciò, se saremo veramente Chiesa nella realtà della nostra preghiera e della nostra vita, non saremo mai soli, come ci ha detto ieri il Papa, e non porteremo da soli il peso dei nostri compiti.

Per il modo in cui interpretare storicamente il nostro essere Chiesa negli anni che ci attendono, Benedetto XVI ci ha dato dei grandi ammaestramenti, specialmente nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre scorso, invitandoci a proseguire e sviluppare l’attuazione del Concilio Vaticano II sulla base dell’”ermeneutica della riforma”, cioè del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa e dei principi del suo insegnamento, continuità che ammette forme di discontinuità in rapporto al variare delle situazioni storiche e ai problemi nuovi che via via emergono. Il Papa stesso ha aggiunto che il Concilio ha tracciato, sia pure solo a larghe linee, la direzione essenziale del dialogo attuale tra fede e ragione e che adesso “questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento”: a un tale compito affascinante anche il nostro Convegno confida di aver dato un contributo, per quanto modesto.

La parola “discernimento” ci richiama ad un obiettivo che ci eravamo dati nel Convegno di Palermo, anche con l’impulso di Giovanni Paolo II, specialmente in rapporto al discernimento comunitario che consenta ai fratelli nella fede, collocati in formazioni politiche diverse, di dialogare e di aiutarsi reciprocamente ad operare in maniera coerente con i comuni valori a cui aderiscono. È diffusa l’impressione che questo obiettivo sia stato mancato in larga misura nel decennio scorso, anche se una valutazione più attenta potrebbe suggerire che esso ha avuto pure delle realizzazioni non piccole, principalmente, ma non esclusivamente, in occasione della legge sulla procreazione assistita e del successivo referendum. Per fare meglio in futuro può essere utile tener accuratamente presente la differenza tra il discernimento rivolto direttamente all’azione politica o invece all’elaborazione culturale e alla formazione delle coscienze: di quest’ultimo infatti, piuttosto che dell’altro, la comunità cristiana come tale può essere la sede propria e più conveniente, mentre partecipando da protagonisti a un tale discernimento culturale e formativo i cristiani impegnati in politica potranno aiutare le nostre comunità a diventare più consapevoli della realtà concreta in cui vivono e al contempo ricevere da esse quel nutrimento di cui hanno bisogno e diritto.

La premessa decisiva per una buona riuscita del discernimento comunitario, da realizzarsi in ambito pastorale non meno che riguardo ai problemi sociali e politici, come assai più largamente per una più piena testimonianza cristiana a tutti i livelli, è in ogni caso la crescita e l’approfondimento di quel senso di appartenenza ecclesiale che purtroppo fatica a penetrare l’intero corpo del popolo di Dio e talvolta anche in sue membra qualificate sembra scarso. Benedetto XVI, mettendo davanti a noi “la vera essenza della Chiesa”, come la incontriamo, pura e non deformata, nella Vergine Maria, ci ha indicato ieri la strada giusta per maturare in noi il significato e il motivo autentico della nostra appartenenza, che non ignora, non nasconde e non giustifica le tante carenze, miserie e anche sporcizie di noi stessi e delle nostre comunità, ma sa bene perché non deve arrestare soltanto lì il proprio sguardo e perché esse non devono attenuare la sincerità e profondità della nostra appartenenza.

Cari fratelli e sorelle, su questa nota ecclesiale vorrei terminare il mio troppo lungo discorso, intimamente convinto che l’amore alla Chiesa fa alla fine tutt’uno con l’amore a Cristo, pur senza dimenticare mai che tra la Chiesa e Cristo vige non un’identità ma una “non debole analogia” (cfr Lumen gentium, 8). Questo amore indiviso, dunque, dobbiamo far rifiorire in noi. Ci affidiamo per questo all’intercessione di Maria, Madre della Chiesa, del suo sposo Giuseppe, che della Chiesa è universale patrono, e di San Zeno patrono della Chiesa di Verona, a cui rinnoviamo il nostro grazie. Il Signore Gesù benedica la nostra umile fatica di questi giorni e faccia germinare da essa qualche frutto dello Spirito, così che possiamo essere davvero testimoni della sua risurrezione, per quella speranza di cui tutti abbiamo bisogno.

 

 

 


 

Prolusione alla 56a Assemblea Generale CEI  (Roma, 15 maggio 2006)

«Non possiamo tacere sui principi»

Le parole del cardinale Ruini all'assemblea della Cei: «Sempre più gente capisce che i valori vanno difesi»

Ecco il testo integrale della prolusione pronunciata dal cardinale Camillo Ruini in apertura dei lavori dell'Assemblea generale della Cei.

Venerati e cari confratelli,

siamo lieti di ritrovarci ancora una volta insieme per la nostra consueta assemblea di maggio, potendo così sperimentare e rafforzare i vincoli della nostra comunione e condividere la sollecitudine pastorale per le nostre Chiese, per il patrimonio di fede e di cultura cristiana del popolo italiano e per il cammino della nostra amata nazione. Invochiamo su di noi e sui lavori che ci attendono la luce e la grazia dello Spirito Santo, che sempre guida e fortifica i passi della Chiesa. Nel medesimo Spirito esprimiamo al Dio ricco di misericordia tutta la gratitudine del nostro cuore per l'opera di salvezza che compie sempre di nuovo, ricavando il bene anche dalle nostre debolezze e dai nostri peccati.

Grande affresco del magistero di Benedetto XVI

1. Il nostro pensiero devoto e affettuoso va anzitutto al Santo Padre, che avremo la gioia di incontrare e ascoltare giovedì e che ha da poco portato a termine il primo anno del suo pontificato. In questo tempo ancora breve egli ha già potuto ampiamente manifestarsi come quel «pastore mite e fermo» che ha chiesto al Signore di essere nell'udienza generale di mercoledì 19 aprile. Con la chiarezza e la profondità della sua parola, la gentilezza d'animo e l'attenzione alle persone, il modo raccolto di presiedere le celebrazioni, lo stesso costante richiamo al suo amato predecessore, Papa Benedetto è già entrato nel cuore delle persone e delle moltitudini, compresi in gran numero coloro che non condividono o non praticano la nostra fede. Ha indicato con mano sapiente il cammino della Chiesa, incoraggiandoci a gustare la gioia di essere cristiani. Ha offerto alla grande famiglia umana motivi di unità e di fiducia, resi solidi dal richiamo a ciò che è davvero essenziale.

Del magistero di Benedetto XVI ricordiamo in primo luogo l'enciclic a sull'amore cristiano, che in realtà è una vivida sintesi dei contenuti centrali della fede, formulata in aperto dialogo con alcune domande fortemente presenti nell'animo umano e nella cultura del nostro tempo, e quindi capace di toccarci nel profondo e di stimolarci a «vivere l'amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo» (Deus caritas est, 39). Ma tutto l'insegnamento del Santo Padre, dalle omelie ai discorsi alle catechesi, converge a formare un grande affresco unitario nel quale la forza e la coerenza del pensiero si sposa con la passione per Gesù Cristo presente nella sua Chiesa e con l'impegno a rendere ragione della speranza che è in noi (cfr 1Pt 3,15). Così, ad esempio, nelle grandi catechesi incentrate sul mistero eucaristico rivolte ai giovani riuniti a Colonia per la Giornata mondiale della gioventù, o anche, in queste ultime settimane, in quelle dedicate al significato autentico della Tradizione ecclesiale. E parimenti nella linea di interpretazione del Concilio Vaticano II proposta nel discorso del 22 dicembre alla Curia Romana e nelle indicazioni che il Papa ne ha ricavato per i compiti attuali della Chiesa, in rapporto alle grandi questioni del nostro tempo, con la necessità di «allargare gli spazi della razionalità», al di là dei limiti di una ragione soltanto scientifica e funzionale, di non separare la nostra libertà dalla verità iscritta nella nostra natura, di costruire su queste basi la giustizia e la pace tra gli uomini e tra i popoli.

L'affetto per il nuovo Papa, la comunione profonda con lui e la condivisione gioiosa del suo magistero fanno tutt'uno con il sentimento di straordinaria gratitudine che ci lega al suo grande predecessore, il servo di Dio Giovanni Paolo II, della cui morte abbiamo celebrato il primo anniversario lo scorso 2 aprile, con il Rosario recitato da una folla commossa in piazza San Pietro, e il giorno dopo con la Santa Messa presieduta da Benedetto XVI. Quella di Giovanni Paolo II è infatti anche oggi u na presenza assolutamente viva e vivificante, un patrimonio di grazia per la Chiesa e per l'umanità, e in maniera speciale per il nuovo Papa. Lo sguardo della fede discerne negli eventi che si sono susseguiti prima e dopo il passaggio di pontificato la mano provvidente del Signore che ama, protegge e guida la sua Chiesa, ma anche la spontanea percezione popolare ha colto in tutto ciò un segno di benedizione. Siamo lieti di aver potuto raccogliere in un volume, che viene offerto oggi a ciascuno di noi, i discorsi e messaggi rivolti da Giovanni Paolo II ai vescovi italiani a partire dal 1992, completando così quanto già pubblicato in volumi precedenti.

Nel Concistoro del 24 marzo il Santo Padre ha creato quindici nuovi cardinali, tra i quali il nostro confratello Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, con il quale ci felicitiamo, come anche con i cardinali Agostino Vallini, prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e in precedenza a lungo membro della nostra conferenza, e Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, arciprete della Basilica di San Paolo e già nunzio apostolico in Italia.

(Il cardinale saluta quindi i rappresentanti di tredici episcopati europei; ricorda i vescovi defunti negli ultimi dodici mesi; saluta i confratelli che hanno lasciato la guida delle loro diocesi e i nuovi vescovi).

Vita e attività della Conferenza episcopale

2. Cari confratelli, dopo la mia conferma - fino a che non sia disposto altrimenti - a presidente della nostra Conferenza, conferma per la quale rinnovo al Santo Padre i sensi della mia filiale gratitudine e confido nella vostra bontà, pazienza e indulgenza, il medesimo Santo Padre ha confermato, lo scorso 6 aprile, monsignor Giuseppe Betori come nostro segretario generale per il prossimo quinquennio, accogliendo la proposta della Presidenza della Cei, pienamente condivisa dal Consiglio episcopale permanente. Per questa conferma sento il bisogno di esprimere al Papa il più vivo ringraziamento, nella certezza di interpre tare il sentire comune di tutti voi. Il ringraziamento si estende di cuore allo stesso monsignor Betori, per la dedizione tanto intelligente, premurosa e infaticabile con cui promuove le molteplici attività della Cei, ha cura dei vincoli di fraternità e comunione che ci uniscono, affronta i problemi assai diversificati che quotidianamente si presentano: verso di lui abbiamo tutti, ma io a titolo speciale, un grande debito di gratitudine.

Tra i testi pubblicati nell'ultimo anno dalla nostra conferenza si segnala anzitutto la Traccia di riflessione in preparazione al Convegno ecclesiale di Verona, «Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo». Il cardinale Dionigi Tettamanzi, presidente del Comitato preparatorio, ci illustrerà il cammino che le nostre Chiese stanno compiendo in vista del convegno e il programma del suo svolgimento. Ci rallegriamo per la ricchezza e fecondità delle iniziative che hanno avuto luogo nei mesi scorsi e che prossimamente si completeranno in diverse città d'Italia, disegnando un percorso di avvicinamento che consenta non solo di approfondire le problematiche dei vari ambiti di vita in cui si sviluppa la testimonianza cristiana, ma anche di mobilitare le energie delle nostre Chiese, con speciale attenzione al laicato, e di interloquire con la nostra gente. Dal convegno, che sarà allietato e arricchito di significato dalla presenza del Santo Padre, attendiamo infatti un'ulteriore maturazione e un rafforzamento di quell'impegno missionario a tutto campo a cui la Chiesa è chiamata oggi in Italia. Il cammino che porta al convegno sia dunque sostenuto dalla nostra preghiera unanime e perseverante.

Vanno ricordate inoltre le Indicazioni della Presidenza della Cei circa i matrimoni tra cattolici e musulmani in Italia e l'Istruzione in materia amministrativa, con la quale è stata rivista e aggiornata quella precedente del 1992. Sulla base del lavoro compiuto nell'assemblea di novembre ad Assisi, sarà presto pubblicata la Nota Predicate il Vangel o e curate i malati, che offre criteri di discernimento e indicazioni pastorali in rapporto ai cambiamenti in atto nel mondo della sanità.

Tra le numerose iniziative promosse dalla nostra Conferenza, facciamo memoria almeno del convegno sul catecumenato in Italia, svoltosi all'inizio di febbraio a Roma, dell'incontro ecumenico di fine gennaio, avvenuto anch'esso a Roma quale prima tappa del cammino di preparazione della III Assemblea ecumenica europea che si terrà a Sibiu, in Romania, nel settembre 2007, nonché del VII Forum del Progetto culturale, tenutosi il 2 e 3 dicembre sul tema «Cattolicesimo italiano e futuro del Paese».

Monsignor Giuseppe Anfossi ci informerà sul lavoro già iniziato in preparazione alla Giornata mondiale della gioventù del 2008 a Sydney e in particolare su alcune proposte riguardanti la pastorale giovanile in Italia.

Fondamento cristologico Ministero sacerdotale

3. Cari confratelli, dopo che nell'assemblea del novembre scorso ad Assisi abbiamo riflettuto sulla formazione al ministero presbiterale e pertanto sui seminari, ci apprestiamo ora ad allargare la nostra attenzione alle condizioni concrete della vita e del ministero dei sacerdoti, in quella prospettiva missionaria che costituisce l'orientamento di fondo della nostra pastorale. Prima di ogni considerazione specifica, vorrei sottolineare l'atteggiamento di solidarietà, affetto, ascolto e gratitudine con il quale, come vescovi, siamo e dobbiamo essere vicini ai nostri sacerdoti, la cui dedizione personale e quotidiana fatica ha per la vita e la missione della Chiesa un rilievo decisivo.

Monsignor Luciano Monari presenterà ampiamente le problematiche che poi affronteremo nei gruppi di studio, mentre monsignor Italo Castellani illustrerà la Ratio studiorum che deve integrare gli Orientamenti e norme per i seminari già da noi approvati, in vista della recognitio della Santa Sede. Per parte mia vorrei concentrare l'attenzione sul fondamento cristologico del sacerdozio ministeriale sia di noi vescovi che dei presbiteri, pur nella diversità di grado: soltanto la consapevolezza di questo legame costitutivo con Gesù Cristo e con la missione che egli ha ricevuto, nello Spirito Santo, da Dio Padre conferisce infatti significato, solidità e slancio alla nostra esistenza di sacerdoti, soltanto essa ci consente di assaporare davvero la gioia di essere sacerdoti.

Come Benedetto XVI ha scritto nella Deus caritas est (n. 22), «La vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti - un realismo inaudito». Egli, in maniera totale ed esclusiva, è l'inviato del Padre, tanto che non ha nulla di proprio, se non ciò che ha ricevuto dal Padre, da se stesso non può far nulla, se non ciò che vede fare dal Padre, non dice nulla se non ciò che ha udito dal Padre (cfr Gv 5,19.30; 7,16; 8,26).

Ai Dodici, che egli stesso ha scelto e ha costituito perché stessero con lui e andassero nel suo nome (cfr Mc 3,13-15), Gesù affida questa missione che ha ricevuto dal Padre, dicendo loro già durante la sua vita terrena: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (Mt 10,40), e finalmente comunicando loro il suo Spirito dopo la risurrezione, con le impegnative parole «Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi» (Gv 20,19-23) e con l'assicurazione che egli rimane sempre con loro (cfr Mt 28,18-20).

Gli Atti degli Apostoli e le Lettere del Nuovo Testamento ci mostrano in atto questo ministero della nuova Alleanza (cfr 2Cor 3,6), che è ministero della Parola (cfr Lc 1,2) e inseparabilmente amministrazione dei misteri di Dio (cfr 1Cor 4,1), ministero della riconciliazione con Dio in Gesù Cristo (cfr 2Cor 5,18-20); testimoniano inoltre come questo ministero - fatto salvo ciò che è proprio ed esclusivo del compito fondante dei Dodici - venga trasmesso alle generazioni successive. Oltre ai testi ben noti sull'imposizione delle mani (cfr 1Tim 4,14; 5,22; 2Tim 1,6), è em blematico da questo punto di vista il discorso di addio di Paolo agli anziani («presbiteri») della Chiesa di Efeso convocati a Mileto: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistato con il suo sangue» (At 20,28), così come l'esortazione di Pietro agli anziani (presbiteri), quale «anziano come loro (co-presbitero), testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,1-4).

L'indole radicalmente cristologica del ministero della nuova Alleanza richiede da ciascuno di noi che abbiamo ricevuto questo grande dono anzitutto la consapevolezza che non si tratta di qualcosa che ci appartiene in proprio, ma soltanto di un dono. L'espropriazione di noi stessi e il non far conto su noi stessi, per consegnarci e affidarci integralmente, con Cristo e come Cristo, al Padre, è pertanto la forma fondamentale dell'esistenza del sacerdote. La parola di Gesù «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,4), che corrisponde profondamente all'altra «Il Figlio da sé non può fare nulla» (Gv 5,19), assume dunque una pertinenza e rilevanza speciale per noi sacerdoti: in effetti con le nostre forze umane non potremmo compiere nulla di ciò che è più specifico del nostro ministero, non potremmo dire: «Questo è il mio corpo», «Ti sono rimessi i tuoi peccati», «Ricevi lo Spirito Santo». Anche nel servizio della Parola, come ha detto il Papa il 13 maggio 2005 ai sacerdoti di Roma, «siamo mandati non ad annunciare noi stessi o nostre opinioni personali, ma il mistero di Cristo e, in lui, la misura del vero umanesimo». Vengono qui in piena luce il senso e il motivo per i quali il sacerdozio ministeriale può essere conferito solo mediante un sacramento: la parola «sacramento» sta infatti ad indicare ciò che non fa capo a noi stessi, ad una nostra abilità o iniziativa, o a qualche gruppo o comunità umana, ma prende origine e vigore unicamente dal Mistero di salvezza che ci precede, ci compenetra e ci rende nuovi.

Dinamica evangelica Sacerdozio apostolico

In quanto ministri della nuova Alleanza siamo dunque, come il Signore Gesù a cui siamo stati configurati, totalmente relazionati al Padre che ci ha mandato e ai fratelli in umanità ai quali siamo mandati. Le condizioni storiche nelle quali oggi ci troviamo ad operare, anche in un Paese come l'Italia di antichissima e assai radicata tradizione cristiana, rendono urgente sottolineare e sviluppare in concreto l'indole missionaria del sacerdozio della nuova Alleanza, ma in realtà questa indole è per esso costitutiva, fin dalla sua origine in Gesù Cristo e nei «Dodici»: perciò esso a buon diritto è chiamato «sacerdozio apostolico», non solo in quanto viene a noi attraverso gli Apostoli ma anche nel senso proprio della parola greca «apostolo», che significa «inviato», «mandato». Le circostanze attuali ci aiutano dunque, e quasi ci costringono, a vivere effettivamente la nostra autentica vocazione. Avendo in Cristo la sua origine e la sua configurazione essenziale, il nostro sacerdozio è per sua natura ecclesiale, è necessariamente riferito al corpo di Cristo, che è inseparabilmente corpo eucaristico e corpo ecclesiale. Nell'Eucaristia che celebriamo siamo introdotti nell'amore di Cristo e pertanto nell'amore alla Chiesa. Il senso di appartenenza alla comunità cristiana, nella pienezza delle sue dimensioni, compresa chiaramente quella istituzionale, è dunque iscritto nel nostro essere di sacerdoti, così come quella «forma comunitaria» per la quale il ministero ordinato, pur coinvolgendo quanto c'è di più intimo nella persona, può essere esercitato solo come «un'opera collettiva» (cfr Pastores d abo vobis, 17).

Analogamente, l'obbedienza di Cristo al Padre (cfr Mc 14,26; Fil 2,8; Ebr 5,8) è il paradigma dell'obbedienza che accomuna noi vescovi e i nostri sacerdoti nei confronti di Cristo e della Chiesa: è questo lo spazio entro il quale trova la sua genuina motivazione e il suo significato quella concreta disponibilità all'obbedienza che come vescovi dobbiamo chiedere ai sacerdoti.

Nella medesima prospettiva di configurazione a lui, al suo modo di essere e di agire, si colloca la richiesta di totale distacco e di disponibilità ad affrontare la persecuzione che Gesù rivolge ai suoi discepoli quando, ancora nel tempo della sua vita terrena, li manda alle città e ai villaggi di Israele (cfr Mt 10,7-20; Mc 6,7-11; Lc 9,1-5; 10, 3-12).

Alla radice di ciascuno di questi atteggiamenti sta ancora una volta quella grande legge dell'amore per la quale sant'Agostino ha chiamato il nostro ministero amoris officium (In Iohannis Evangelium Tractatus 123,5). È ciò che il Signore Gesù ha espresso dicendo di se stesso: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore» (Gv 10,11). Quando identifichiamo nella carità pastorale la spiritualità propria e l'anima del sacerdozio ministeriale dobbiamo sempre risalire a questa radice cristologica, alla sua forza dirompente che supera ogni confine. La carità pastorale è chiamata pertanto ad abbracciare ogni essere umano, perché per tutti ha dato la sua vita il Buon Pastore, a conoscere con sguardo d'amore ciascuna persona a noi affidata, a donarsi e a spendersi quotidianamente per condurre tutti nell'unico gregge del Signore. Anche oggi abbiamo esempi di sacerdoti che hanno sacrificato la propria vita come il Buon Pastore: ricordiamo qui soltanto don Pino Puglisi e don Andrea Santoro.

Cari confratelli, prendendo in esame le circostanze in cui viene esercitato, nell'Italia di oggi, il ministero presbiterale, dovremo senz'altro evitare di nascondere o sminuire con un falso spiritualismo o moralismo le difficoltà e i problemi che rendono in tanti casi duro e faticoso il cammino dei nostri sacerdoti e che hanno bisogno di essere concretamente affrontati. Non si può rinunciare però ad inquadrare sia le difficoltà sia gli aspetti confortanti e positivi dentro al dinamismo cristologico e missionario che caratterizza il ministero della nuova Alleanza: se non lo facessimo finiremmo con l'indicare soluzion i peggiori dei problemi.

Ad esempio, sia i rapporti tra vescovi e presbiteri sia quelli tra presbiteri e laici vanno tenacemente indirizzati verso quella logica del servizio escatologico che è propria del Signore Gesù (cfr Mc 10,45), quindi della comunione e della missione che, pur con le tante differenze di ruoli e di compiti, alla fine tutti ci unisce (cfr Apostolicam actuositatem, 2). In particolare, il riconoscimento dell'indole costitutiva del sacerdozio ministeriale per l'esistenza e la missione della Chiesa non si pone affatto in concorrenza o in alternativa con la valorizzazione concreta del sacerdozio comune dei fedeli: al contrario, il sacerdozio ministeriale è essenzialmente rivolto a rendere e a mantenere l'intero popolo di Dio consapevole del suo carattere sacerdotale, così che esso renda gloria a Dio con tutta la propria vita (cfr Rom 12,1; 1Pt 2,9-10).

Anche gli aspetti che toccano più da vicino l'esistenza quotidiana e il lavoro pastorale di gran parte dei sacerdoti, come la solitudine, l'età avanzata, il moltiplicarsi stesso delle incombenze pastorali, o gli ostacoli che si incontrano nel ministero e il minor apprezzamento per la propria fatica, o anche la pressione che esercitano, sia pur in maniera non intenzionale, una società, una cultura e degli stili di vita in cui è assai largo lo spazio per l'individualismo, il consumismo, l'ostentazione di una sessualità fine a se stessa, vanno inquadrati e affrontati a partire dalla radice cristologica del nostro ministero. Diventa possibile allora resistere, da una parte, alle tentazioni dell'imborghesimento, dell'ambizione personale e di comportamenti individualistici, o anche pesantemente infedeli agli impegni liberamente assunti con il sacerdozio; non rinchiudersi, d'altra parte, in atteggiamenti di pessimismo unilaterale o di lamento sterile ed esagerato.

La parola e l'esempio del Signore, l'esperienza dei santi e l'insegnamento costante della Chiesa ci ammoniscono d'altronde che soltanto un'assid ua e intensa vita di preghiera può metterci in condizione di conformarci realmente e in maniera duratura al dono straordinariamente grande, ma proprio per questo superiore alle forze umane, che abbiamo ricevuto con il nostro sacerdozio. La preghiera rimane pertanto la prima e più importante caratteristica della nostra esistenza quotidiana: anzitutto da essa, oltre che dalla nostra gioia di essere sacerdoti, dobbiamo attenderci le nuove vocazioni che assicurino la continuità del nostro ministero.

Situazione post-elettorale del nostro Paese

4. Passando ad esaminare la situazione dell'Italia, le recenti elezioni politiche hanno prodotto, insieme ad un risultato di massimo equilibrio nel voto popolare, l'avvicendamento della maggioranza di governo. Sono seguite le designazioni delle più alte cariche istituzionali: auguriamo in particolare al nuovo Capo dello Stato di poter essere, come il suo predecessore, punto di riferimento e fattore di unità sicuro e comunemente apprezzato, nel solco - come ha scritto il Papa nel suo telegramma augurale - «degli autentici valori umani e cristiani che costituiscono il mirabile patrimonio del popolo italiano».

È ora imminente la formazione del nuovo Governo, che ha davanti a sé compiti molto impegnativi e in uno dei due rami del Parlamento può contare su una maggioranza assai ristretta. In questa situazione diventa ancor più importante e indispensabile, per il superiore interesse del Paese, che entrambi gli schieramenti politici, ciascuno nel proprio ruolo e tenendo conto della misura del consenso ricevuto, non si arrestino nelle contrapposizioni, ma cerchino piuttosto di dar vita a una dialettica costruttiva e davvero reciprocamente rispettosa. Lo richiedono i problemi che l'Italia non può non affrontare e ancor prima la qualità stessa della nostra vita civile e la compattezza del tessuto sociale. In questo spirito dovrebbe svolgersi anche il confronto in ordine all'ormai molto prossimo referendum popolare confermativo della r iforma della seconda parte della Carta costituzionale.

L'economia italiana dà finalmente segni di ripresa, nel contesto della fase di espansione che prosegue a livello mondiale e sembra affermarsi anche in Europa. Questi segni non possono però far dimenticare i nostri punti di debolezza e le difficoltà di lungo periodo. Rimanendo sul piano più direttamente socio-economico, le capacità produttive e la cosiddetta competitività del «sistema Italia», e quindi l'incremento dell'occupazione, devono fare i conti, oltre che con il condizionamento che eserciterà per molto tempo la situazione complessiva della finanza pubblica, con alcuni ben noti problemi, come quelli delle risorse energetiche - per le quali purtroppo l'Italia si trova in condizioni di massima dipendenza -, delle infrastrutture, del degrado di vaste aree territoriali, che ci è stato ancora una volta tristemente ricordato dalla frana che ha distrutto una famiglia ad Ischia il 30 aprile. Riguardo a questi problemi deve maturare seriamente e diffondersi con rapidità nelle nostre popolazioni una consapevolezza che finora sembra mancare, insieme ad un'operosa assunzione di responsabilità da parte delle autorità politiche e amministrative.

Altre problematiche, ancora più decisive per lo sviluppo e il futuro del Paese, hanno a che fare in maniera più profonda e specifica con l'indole e la qualità della persona umana, che oggi non è soltanto il primo valore ma anche, come insegna l'enciclica Centesimus Annus (n. 32), «la principale risorsa dell'uomo» e «il fattore decisivo» dello sviluppo e della stessa produzione di beni. Assume pertanto importanza centrale l'educazione, che comprende l'istruzione intellettuale e la preparazione tecnica e operativa ma non si limita a queste, riguardando l'integralità della formazione della persona. In questo campo il nostro Paese è chiamato a intensificare il proprio impegno, che chiama in causa non solo le pubbliche autorità, la scuola e le altre «agenzie educative», ma anzitut to le famiglie e l'intera società civile: qui la comunità cristiana ha a sua volta una propria missione che cerca di svolgere in varie forme, chiedendo per il suo adempimento condizioni di parità effettiva.

Sempre in rapporto al futuro di un popolo, la premessa indispensabile è evidentemente la continuità delle generazioni, l'accoglienza e la nascita di nuove vite. Specialmente sotto questo profilo il nostro Paese appare a rischio, un rischio che sta maturando e aggravandosi ormai da vari decenni e che, a motivo delle dinamiche dei processi demografici, non può certo essere scongiurato da piccoli segnali in senso contrario, come sono i lievi incrementi del tasso di natalità registrati in Italia negli ultimi anni, che pure vanno accolti con gioia. È questa dunque la nostra effettiva priorità nazionale sulla quale occorre concentrare - al di là delle divisioni politiche ed ideologiche - uno sforzo comune, ciascuno secondo le responsabilità che gli sono proprie, da quelle delle giovani coppie e del loro più ampio contesto familiare a quelle delle pubbliche istituzioni, degli operatori economici, degli uomini di cultura e dell'informazione, dell'intera società civile, e naturalmente della Chiesa e della sua pastorale.

In questo contesto storico e sociale si colloca il nostro impegno a favore della vita umana, dal primo istante del suo concepimento fino al suo termine naturale, e della famiglia legittima fondata sul matrimonio: per conseguenza il rifiuto dell'aborto, «delitto abominevole» (Gaudium et spes, 51) la cui gravità si va purtroppo oscurando nella coscienza di molti ma che rimane un atto intrinsecamente illecito che nessuna circostanza, finalità o legge umana potrà mai giustificare (cfr enciclica Evangelium vitae, nn. 58-62), come anche dell'eutanasia e dell'utilizzo degli embrioni umani; e parimenti l'opposizione ai tentativi di dare un improprio e non necessario riconoscimento giuridico a forme di unione che sono radicalmente diverse dalla famiglia, oscuran o il suo ruolo sociale e contribuiscono a destabilizzarla.

Cari confratelli, sappiamo bene che questo nostro impegno è spesso mal tollerato e visto come indebita intromissione nella libera coscienza delle persone e nelle autonome leggi dello Stato. Ma non per questo possiamo tacere, o sfumare le nostre posizioni. È infatti nostra comune e profonda convinzione, confermata dall'insegnamento chiaro e costante della Chiesa e sostenuta dall'esperienza umana e in particolare dalla grande tradizione di civiltà della nostra nazione, che abbiamo a che fare qui con quelli che il Papa ha denominato «principi non negoziabili» (discorso del 30 marzo 2006 ai rappresentanti del Partito popolare europeo). Essi sono tali anzitutto per la loro intrinseca valenza etica, che non è però qualcosa di astratto e aprioristico: si lega invece sia a quel grande bene sociale che è la nascita e l'educazione dei figli sia alla genuina e duratura felicità delle persone. Del resto, non dobbiamo vedere soltanto il peso negativo delle contestazioni all'insegnamento sociale e morale della Chiesa: esse infatti ci offrono l'occasione di fare, per così dire, una grande e pubblica catechesi, paziente e rispettosa ma chiara, e hanno già involontariamente favorito il crescere, in strati sempre più ampi del popolo italiano, di una più precisa coscienza di alcuni valori essenziali e della necessità di sostenerli e difenderli, in vista del bene comune.

Le mode editoriali e cinematografiche, oggi in particolare quella riguardante il cosiddetto Codice da Vinci, mostrano a loro volta la necessità e offrono l'occasione di un'opera capillare di catechesi, e prima ancora di informazione storica, che, usufruendo anche delle attuali tecniche e metodologie di comunicazione, aiuti la gente a distinguere con chiarezza i dati certi delle origini e dello sviluppo storico del cristianesimo dalle fantasie e dalle falsificazioni, che hanno primariamente uno scopo commerciale ma costituiscono anche una radicale e del tutto infondata contestazione del cuore stesso della nostra fede, a cominciare dalla croce del Signore. Certamente, già il Nuovo Testamento conosce la tendenza ad andare dietro alle favole, piuttosto che dare ascolto alla testimonianza della verità (cfr 2Tim 4,3-4; 2Pt 1,16), ma è difficile sottrarsi alla sensazione che il grande successo di lavori come Il Codice da Vinci abbia a che fare con quell'odio, o quel venir meno dell'amore per se stessa che, come osservava l'allora cardinale Ratzinger (Senza radici, ed. Mondadori, pp. 70-71), si è insinuato nella nostra civiltà. Anche in questo caso, però, non è il caso di cedere al pessimismo: alla fine il fascino della verità è più forte di quello dell'illusione, e di verità la nostra gente oggi ha una grande sete.

Un'attenzione peculiare, all'inizio della nuova legislatura, è giusto infine richiamare sullo sviluppo del Meridione: anche qui occorrono una consapevolezza e uno sforzo ampiamente condivisi, perché proprio nel Meridione si ritrova buona parte delle possibilità di un futuro più dinamico del nostro Paese. Ciò che è avvenuto nell'ultimo periodo a Locri, con la gravissima serie di attentati e gesti intimidatori, per i quali va tutta la nostra solidarietà al confratello Giancarlo Maria Bregantini e alla sua Chiesa, ma anche con il grande segnale di coraggio e di speranza dato da migliaia di persone, soprattutto giovani, indica che le radici del male sono profonde e tuttavia, anche nei contesti più difficili, è possibile e doveroso un cammino nuovo.

Nuovo sangue e preoccupazioni sullo scenario internazionale

5. Allargando lo sguardo al quadro internazionale, sono molti purtroppo e tendono ad aggravarsi i motivi di preoccupazione. A fine marzo hanno avuto luogo le elezioni politiche nello Stato di Israele, ma non è stata ancora trovata la strada per uscire da quelle difficoltà che sono sorte dopo le elezioni del 25 gennaio per il Parlamento palestinese.

In Iraq e in Afghanistan, nonostante i significativi passi c ompiuti per realizzare legittimi assetti istituzionali, la situazione concreta si è ulteriormente complicata e aggravata e le forze italiane hanno dovuto pagare un nuovo e pesante contributo di sangue, con l'uccisione a Nassiriya, il 27 aprile, dei militari Nicola Ciardelli, Carlo De Trizio e Franco Lattanzio, oltre che di un soldato rumeno, mentre in seguito è deceduto uno dei feriti, il maresciallo Enrico Frassinito. Pochi giorni dopo, il 5 maggio, sono stati uccisi a Kabul i due alpini Manuel Fiorito e Luca Polsinelli e altri quattro sono stati feriti. È grande il nostro dolore e intensa la nostra preghiera per questi uomini probi e coraggiosi, caduti nell'adempimento del loro dovere, e per i loro familiari. Monsignor Angelo Bagnasco, ordinario militare, nell'omelia della Messa per i morti di Nassiriya, ha interpretato i sentimenti profondi del popolo italiano con queste parole: «Quando la consapevolezza della fatica e dei rischi è congiunta e sostenuta dalla nobiltà delle motivazioni, … allora emerge e si staglia l'eroismo, quello che è lontano dalla retorica perché vero, che non cerca esibizioni e applausi perché umile, che si sostanzia della buona coscienza di fronte a sé, agli uomini e a Dio, sorgente e garante di ogni valore».

È cresciuta nell'ultimo periodo la tensione per i programmi nucleari dell'Iran: questa nuova emergenza internazionale conferma la fondatezza dei richiami del Papa, che nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace (n. 13) ha denunciato come «del tutto fallace» la prospettiva di garantire la sicurezza dei singoli Paesi attraverso il possesso delle armi nucleari ed ha esortato tutti i Governi che già ne dispongono o intendono procurarsele a invertire congiuntamente la rotta, orientandosi verso un progressivo e concordato disarmo nucleare.

Il terrorismo internazionale, di matrice soprattutto islamica, continua a colpire secondo una strategia globale e nello stesso tempo assai articolata nei suoi attori e nelle sue manifestazioni, d a ultimo con il triplice attentato del 24 aprile in Egitto. Per poter venire a capo di questa orribile minaccia e di questa sfida, che si prospetta purtroppo di lungo periodo, occorre saper congiungere alla chiarezza della condanna morale e alla determinazione nella resistenza e nel contrasto le superiori risorse dell'amore e del perdono.

L'uccisione del sacerdote romano don Andrea Santoro, avvenuta domenica 5 febbraio a Trabzon - l'antica Trebisonda - nella Turchia orientale, mentre stava pregando nella chiesa a lui affidata, ha profondamente commosso il popolo italiano e destato forte impressione anche al di là dei nostri confini. Essa ci ha resi più attenti a ciò che malauguratamente avviene in varie parti del mondo, dove non di rado dei cristiani pagano con la vita, oltre che con molteplici vessazioni, il prezzo della loro fede, o la Chiesa è comunque impedita di esercitare liberamente la propria missione - in questi ultimi tempi il nostro pensiero va in particolare alla situazione in Cina -; né possiamo dimenticare coloro ai quali è proibito, perfino con la minaccia della morte, di farsi cristiani. In presenza di tutto ciò rendiamo umilmente grazie al Signore per la testimonianza che anche oggi i suoi discepoli rendono al suo nome e nello stesso tempo siamo chiamati ad offrire ai nostri fratelli perseguitati la solidarietà più forte e più concreta, che deve superare ogni prudenza politica e ogni frontiera. Sono qui in dovere di una precisa assunzione di responsabilità anche gli Stati e gli organismi internazionali che pongono a proprio fondamento il riconoscimento dei diritti umani.

L'Africa continua ad essere terra di grandissime sofferenze. Ricordiamo in particolare le vittime dell'esplosione di un oleodotto in Nigeria, avvenuta solo tre giorni or sono. Molto maggiore è il numero di coloro che perdono quotidianamente la vita per la mancanza d'acqua e di cibo, per le malattie contagiose e per le guerre fratricide: basti pensare alle situazioni del Darfur e del «Corno d'Africa». Anche qui sono interpellate in maniera stringente la nostra coscienza di cristiani e la solidarietà internazionale.

In un contesto di questo genere, si avverte fortemente il bisogno di una maggiore presenza dell'Europa, e in particolare dell'Unione europea, sulla scena mondiale. Finora però, sia riguardo all'approvazione del Trattato costituzionale sia in ordine alla realizzazione di una comune politica estera e di difesa, l'Unione europea non è riuscita a superare la posizione di stallo che si è venuta a creare: questi sono dunque gli ambiti su cui concentrare gli sforzi e far prevalere lo spirito unitario. Viceversa, specialmente da parte del Parlamento europeo, si insiste in pronunciamenti che non rispettano il criterio della sussidiarietà, la cultura e le tradizioni proprie dei diversi Paesi membri, e contrastano gravemente con fondamentali verità antropologiche. È questo, ad esempio, il caso della risoluzione del 18 gennaio riguardante l'omofobia in Europa, che respinge giustamente gli atteggiamenti di discriminazione, disprezzo e violenza verso le persone con tendenze omosessuali, ma sollecita anche un'equiparazione dei diritti delle coppie omosessuali con quelli delle famiglie legittime, chiedendo ai Paesi membri - sia pure in maniera non vincolante - una revisione delle rispettive legislazioni nazionali. Le Conferenze episcopali polacca e spagnola si sono già espresse con forza contro tale risoluzione e anche noi, che l'avevamo già deplorata in occasione del Consiglio permanente di fine gennaio, uniamo con fermezza la nostra voce alle loro. In simili atteggiamenti delle istituzioni europee è possibile ravvisare l'onda lunga dei processi di secolarizzazione, ma anche la mancata percezione di un clima diverso che si sta facendo strada nelle popolazioni europee, con la riscoperta della propria identità religiosa, morale e culturale e dei suoi valori e contenuti essenziali.

Cari confratelli, come ci ricorda spesso il Papa, la preghiera è la condizione prima e più importante dell'efficacia del nostro impegno pastorale. Affidiamo dunque alla Vergine Maria, alla quale è profondamente legata la grazia del ministero sacerdotale, i lavori di questa assemblea, e con lei invochiamo il suo sposo Giuseppe e tutti i santi e le sante patroni delle nostre Chiese.

Vi ringrazio di avermi ascoltato e di quanto vorrete osservare e proporre.

 

 


 

Il Cardinal Ruini su “Deus caritas est”, don Andrea Santoro, cattolici e politica

Prolusione alla Riunione del Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana (Roma, 20-22 marzo 2006)

Venerati e cari Confratelli,

questa sessione del Consiglio Permanente ha luogo nel mezzo del cammino quaresimale e nel giorno in cui celebriamo la festa solenne di San Giuseppe, sposo della Vergine Maria, custode del nostro Redentore e patrono della Chiesa universale: in un tempo, dunque, nel quale siamo particolarmente chiamati alla preghiera, all’approfondimento della fede, alla conversione e al rinnovamento del cuore e della vita. Chiediamo al Signore di trascorrere in stretta unione con Lui queste giornate di lavoro, di riflessione e di reciproca comunione, lasciandoci guidare in tutto dal suo Santo Spirito per adempiere con fedeltà e con frutto il nostro comune servizio al popolo di Dio che è in Italia.

1. Il nostro primo pensiero, reverente e affettuoso, si rivolge come sempre al Santo Padre. Il 14 febbraio egli ha voluto confermarmi, fino a che non sia disposto altrimenti, Presidente della nostra Conferenza: nell’esprimergli la mia profonda e filiale gratitudine, desidero dire anche a voi, cari Confratelli, che mi accingo a percorrere questo ultimo tratto di un già molto lungo cammino confidando come sempre nella vostra bontà, nel vincolo fraterno che ci unisce, nella vostra pazienza e indulgenza verso i miei tanti limiti e peccati.

A Papa Benedetto siamo tutti debitori di un grande dono: l’Enciclica Deus caritas est. Il suo linguaggio è immediato e avvincente, così che si presta a una rapida lettura; per comprendere in profondità e fare davvero propria la ricchezza del suo messaggio occorre però una meditazione attenta e prolungata. Suo argomento specifico è l’amore cristiano, ma in essa “i temi ‘Dio’, ‘Cristo’ e ‘Amore’ sono fusi insieme come guide centrali della fede cristiana”: così il Papa stesso, nell’Udienza del 23 gennaio al Pontificio Consiglio Cor unum, ha indicato il vero respiro di questa Enciclica. La sua forza e la sua attrattiva consistono anzitutto nel prendere sul serio alcune grandi domande, e alcune sfide, che nascono dal sentire comune e dalla cultura in cui viviamo.

Già nelle prime pagine, infatti, è individuata l’accusa che il cristianesimo e la Chiesa, con i loro comandamenti e divieti, avrebbero avvelenato e reso amara la gioia dell’amore, ossia la cosa più bella della vita (cfr n. 3), e tutto lo sviluppo dell’Enciclica mostra quanto questa accusa sia fallace, anzi capovolga la realtà delle cose. Poi (cfr n. 16) vengono poste le due “domande molto concrete per la vita cristiana” alle quali il Papa ha inteso rispondere con la sua Enciclica, come egli stesso ha scritto ai lettori di Famiglia Cristiana: “è veramente possibile amare Dio pur non vedendolo? E: l’amore si può comandare?”. Proprio l’analisi dell’amore, nella sua realtà differenziata e complessa ma finalmente unitaria di eros e di agape, messa a confronto con l’immagine biblica di Dio e dell’uomo, e specialmente con “la vera novità del Nuovo Testamento”, che consiste “nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti – un realismo inaudito” (n. 12), permette di vedere come il cristianesimo non costituisca un mondo a sé, disarticolato dalle fondamentali relazioni vitali dell’esistenza umana e parallelo o contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno umano che è l’amore, ma al contrario accetti tutto l’uomo, intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla e per dischiuderle nuove dimensioni (cfr nn. 7-8).

Lo spessore teologico della Deus caritas est risalta particolarmente dal modo in cui vengono enucleate la novità sconvolgente, rispetto ad ogni attesa umana e ricerca razionale, del volto del Dio cristiano – quel Dio che nella morte in croce del proprio Figlio si volge “contro se stesso” per amore dell’uomo (n. 12) – e al contempo la continuità profonda tra la fede cristiana in Dio e la ricerca sviluppata dalla ragione e dal mondo delle religioni (cfr nn. 9-10). È questo un tema assai caro al teologo Joseph Ratzinger e da lui magistralmente affrontato già nella prolusione tenuta il 24 giugno 1959, all’inizio del suo insegnamento all’università di Bonn, che aveva il titolo “Il Dio della fede e il Dio dei filosofi”.

Ugualmente forte è l’approfondimento antropologico, specialmente in rapporto al tema nevralgico del rapporto uomo-donna, dell’amore e del matrimonio (cfr n. 11). In realtà in questa Enciclica trova felice attuazione quella forma di teologia radicalmente cristologica e cristocentrica, e proprio così anche radicalmente teologica e antropologica, che Joseph Ratzinger, nel Commento ai testi del Vaticano II edito nel 1968 dal Lexicon für Teologie und Kirche, aveva individuato come una preziosa indicazione del n. 22 della Gaudium et spes.

Così questa prima Enciclica del nuovo Pontefice manifesta anche un profondo legame con il Magistero del suo Predecessore, in particolare con quell’Enciclica Dives in misericordia attraverso la quale Giovanni Paolo II, congiungendo teocentrismo ed antropocentrismo, ci aveva introdotto nel mistero dell’amore che Dio Padre ha per noi in Gesù Cristo, nella forza salvifica, nell’attualità e nelle esigenze concrete del Vangelo della Divina Misericordia; ma anche con i sei cicli delle Catechesi sull’amore umano che hanno straordinariamente rinnovato, attualizzato e irrobustito il nostro approccio a questa fondamentale realtà della vita e alle sue molteplici implicazioni.

La seconda parte della Deus caritas est ha un carattere più direttamente pratico, riguardando l’esercizio ecclesiale del comandamento dell’amore per il prossimo, ma è “profondamente connessa” alla prima, come Benedetto XVI afferma nell’Introduzione. Lo svolgimento di questa seconda parte si regge su due precise affermazioni, poste al suo inizio: la prima è che la carità della Chiesa è manifestazione dell’amore trinitario, del Dio che in Cristo ci ama senza misura e con la forza del suo Spirito ci trasforma e ci rende a nostra volta capaci di amare (cfr n. 19); la seconda è che, per conseguenza, l’esercizio dell’amore del prossimo è compito essenziale della Chiesa, in concreto di ogni singolo fedele ma anche dell’intera comunità ecclesiale, a tutti i suoi livelli, così come lo sono l’annuncio della Parola e l’amministrazione dei Sacramenti. L’amore ha bisogno pertanto anche di un’organizzazione, quale presupposto di un servizio comunitario ordinato, come risulta da tutta la storia della Chiesa (cfr nn. 20-24).

Alla luce di questi principi diventa chiaro che “il vero soggetto delle varie Organizzazioni cattoliche che svolgono un servizio di carità è la Chiesa stessa – e ciò a tutti i livelli, iniziando dalle parrocchie, attraverso le Chiese particolari, fino alla Chiesa universale” (n. 32). I Vescovi sono quindi i primi responsabili dell’esercizio della carità nelle loro Diocesi: con loro, e con la Chiesa, devono lavorare tutti gli operatori delle Organizzazioni caritative cattoliche (cfr nn. 32-33). Sono richiamati così i criteri di una testimonianza della carità realmente ecclesiale.

Anche nella seconda parte dell’Enciclica il Papa si confronta con un’obiezione sviluppata fin dall’Ottocento contro l’attività caritativa della Chiesa, che negli ultimi decenni si è fatta strada, in qualche misura, anche all’interno delle realtà ecclesiali: l’obiezione cioè che i poveri avrebbero bisogno di giustizia e non di opere di carità, che acquieterebbero le coscienze e ostacolerebbero così l’instaurazione della giustizia (cfr n. 26). La risposta a questa obiezione si articola attraverso l’approfondimento dei rapporti tra giustizia e carità, Chiesa e politica: sono queste le pagine dell’Enciclica intorno alle quali si è maggiormente concentrato il pubblico dibattito.

In realtà Benedetto XVI precisa con grande nettezza sia il legame essenziale che unisce la politica alla giustizia sia la distinzione tra Stato e Chiesa, che appartiene alla struttura fondamentale del cristianesimo, e al contempo la loro reciproca relazione, proprio alla luce del fatto che la giustizia, “scopo e … misura intrinseca di ogni politica”, è di natura etica. Pertanto “la formazione di strutture giuste non è immediatamente compito della Chiesa, ma appartiene alla sfera della politica, cioè all’ambito della ragione autonoma”, che la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani. In questo campo la Chiesa ha però un compito “mediato”, essendo chiamata a contribuire alla purificazione della ragione – in particolare attraverso la sua dottrina sociale, argomentata “a partire da ciò che è conforme alla struttura di ogni essere umano” – e al risveglio delle forze morali, indispensabili per realizzare e mantenere in vita strutture giuste. Il compito immediato di operare per un giusto ordine sociale è invece proprio dei fedeli laici, agendo sotto propria responsabilità e cooperando con gli altri cittadini (cfr nn. 28-29).

Ugualmente netta, nelle medesime pagine dell’Enciclica, è l’affermazione che nessun ordinamento statale giusto potrà mai rendere superfluo il servizio dell’amore: pensare il contrario sottintende una concezione materialistica “che umilia l’uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano”, con il risultato di sacrificare l’uomo vivo e concreto al moloch di un ipotetico futuro. Lo Stato quindi non deve tentare, vanamente, di provvedere a tutto, ma riconoscere e sostenere, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative delle diverse forze sociali, che uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive e l’azione caritativa è un suo opus proprium, nel quale essa “agisce come soggetto direttamente responsabile, facendo quello che corrisponde alla sua natura” (n. 29).

Benedetto XVI insiste perciò sul “profilo specifico” dell’attività caritativa della Chiesa: essa deve rispondere alle necessità concrete degli uomini, con competenza e soprattutto con umanità; deve essere indipendente da partiti e ideologie; deve essere gratuita, non fatta a scopo di proselitismo, ma non può “lasciare Dio e Cristo da parte”: l’amore nella sua purezza e gratuità è infatti la migliore testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare, la migliore difesa di Dio e dell’uomo (cfr n. 31). La carità si nutre di umiltà e di fiducia, non pretende la soluzione universale di ogni problema ma non per questo cede alla rassegnazione: si affida infatti anzitutto alla preghiera, attingendo così da Cristo forza sempre nuova. Di fronte alla sofferenza “incomprensibile, e apparentemente ingiustificabile, presente nel mondo” non dubita della potenza e della bontà di Dio; rimane invece salda nella certezza che Dio è Padre e ci ama (cfr nn. 34-35). L’inno alla carità della prima Lettera ai Corinzi (c. 13) è dunque la Magna Carta dell’intero servizio ecclesiale: l’azione pratica resta infatti insufficiente se in essa non si rende percepibile l’intima partecipazione al bisogno e alla sofferenza dell’altro, il mio essere presente nel dono come persona (cfr n. 34). Con questa Enciclica il Papa ci invita a “vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo” (n. 39), nella certezza che l’amore è possibile, come attesta la catena ininterrotta dei Santi che lo hanno praticato, e come mostra soprattutto Maria che sotto la croce del Figlio è diventata per sempre nostra comune Madre (cfr nn. 40-42).

La Deus caritas est ha già avuto, in Italia e nel mondo, un grandissimo numero di lettori. Essa offre loro, nella prospettiva dell’amore, una presentazione sintetica, ma profondamente motivata, della fede in Cristo, dove il Dio creatore, che è Intelligenza e Amore, diventa nel Figlio uno di noi, ci ama, ci perdona, ci introduce per sempre nella sua eterna comunione di vita. E così ci indica la strada di un’esistenza, personale e sociale, pubblica e privata, vissuta nella libertà secondo la regola della verità e dell’amore e ci dona la forza per percorrere davvero questa strada. Da questa Enciclica saremo dunque assai aiutati in tutto il nostro compito di Pastori e di evangelizzatori; in particolare ne potranno ricavare grande giovamento la testimonianza e l’azione caritativa delle comunità ecclesiali, ma anche la pastorale della famiglia e la vita concreta delle famiglie cristiane, che vi troveranno il senso pieno ed autentico dell’amore che le tiene insieme. Siamo dunque chiamati, a tutti i livelli, ad attuare con fedeltà e generosità il suo messaggio sia nei grandi orientamenti pastorali, sociali e culturali sia nella pratica quotidiana della nostra vita.

2. Nella seconda parte di questa settimana avrà luogo il Concistoro nel quale, dopo una giornata di riflessione e di preghiera sui problemi che interessano maggiormente la Chiesa e il mondo, il Santo Padre creerà quindici nuovi Cardinali. Porgiamo a ciascuno di loro le nostre più vive felicitazioni e in particolare ci rallegriamo con il nostro Confratello Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, ed anche con Mons. Agostino Vallini, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e già a lungo membro della nostra Conferenza, e con Mons. Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, Arciprete della Basilica di S. Paolo e già Nunzio Apostolico in Italia. Non possiamo inoltre non rivolgere un saluto e un augurio speciale all’Arcivescovo di Cracovia, Mons. Stanislao Dziwisz, durante tutto il Pontificato Segretario particolare del nostro amatissimo Giovanni Paolo II.

La Domenica delle Palme celebreremo nelle nostre Diocesi la XXI Giornata Mondiale della Gioventù: il Messaggio che il Papa ha rivolto ai giovani ha come titolo le parole del Salmo 119 “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” e contiene un caldo invito ad amare la Parola di Dio, ad ascoltarla, meditarla e metterla in pratica nella comunità viva della Chiesa. Continueremo così il nostro dialogo con i giovani, sull’onda del grande appuntamento dello scorso anno a Colonia e in vista di quello del luglio 2008 a Sydney, verso il quale il Papa ci invita ad intraprendere un pellegrinaggio ideale, riflettendo insieme sul tema “Lo Spirito Santo e la missione”. Come ha tante volte affermato Giovanni Paolo II, e dopo di lui Benedetto XVI, i giovani sono “la speranza della Chiesa”, le nuove energie della missione e dell’evangelizzazione, ma proprio per essere realmente tali hanno bisogno e diritto, nell’attuale difficile contesto di cultura e di comportamenti sociali, di essere aiutati a crescere e a maturare nella fede e nella sequela del Signore.

Cari Confratelli, in questa sessione del Consiglio Permanente dedicheremo speciale attenzione al Convegno ecclesiale di Verona, che ormai è vicino. Il cammino che ci conduce verso di esso si fa via via più denso di appuntamenti e di iniziative: in particolare quelle svoltesi a Terni dal 9 febbraio al 5 marzo, dedicate a “L’Amore che si fa Storia”, coinvolgendo sposi, fidanzati e anche coppie di anziani, hanno saputo lanciare un messaggio forte sul valore degli affetti nella formazione e nella crescita delle persone, e quindi sull’importanza dei rapporti tra le generazioni. Attendiamo ora l’imminente appuntamento di Novara, riguardante l’ambito delicato e variegato della fragilità umana, nel quale la riflessione comune si svilupperà intorno all’esperienza del limite nella vita dell’uomo, segnata dalla sofferenza, dal dolore e dalla morte, e tuttavia invincibilmente aperta a quella speranza che si fonda nella risurrezione del Signore. Prosegue intanto nelle Diocesi l’approfondimento dei contenuti della Traccia di riflessione preparatoria al Convegno: questo impegno capillare di confronto e di ricerca è la premessa necessaria per la fecondità delle giornate di Verona. Il 15 febbraio è terminata l’esistenza terrena di Don Divo Barsotti, un credente e un sacerdote che ha attuato fino in fondo, nella propria vita, quell’impegno che ha espresso con le brevi parole “Cerco Dio solo”. Siamo grati al Signore per avercelo dato e per il richiamo che ha costantemente rappresentato, per ogni cristiano e in particolare per noi sacerdoti, ad essere a nostra volta, sempre e in concreto, uomini di Dio, che soltanto così possono essere di vero aiuto ai fratelli.

3. Domenica 5 febbraio la Diocesi di Roma è stata duramente colpita da un evento criminoso, che ha scosso l’Italia e ha destato profonda impressione anche al di là dei nostri confini: l’uccisione di un sacerdote romano, Don Andrea Santoro, mentre stava pregando nella chiesa a lui affidata di Trabzon – l’antica Trebisonda –, nella Turchia orientale, dove si era recato da alcuni anni come fidei donum, con l’intento di rendere presente Cristo in quelle terre, che sono state luogo di crescita e di irradiazione della nostra fede, e di favorire uno scambio di doni, anzitutto spirituali, tra l’Oriente e Roma, rispettando i limiti imposti dalle leggi locali. Don Andrea era convinto infatti che una presenza di preghiera e di testimonianza di vita sarebbe stata segno efficace di Gesù Cristo e fermento di amore e di riconciliazione. Era consapevole di suscitare anche delle ostilità e di correre dei rischi, ma era sostenuto da un grande coraggio cristiano, quel tipico coraggio di cui, attraverso i secoli, tanti martiri hanno dato prova e che ha la sua radice nell’unione con Cristo, dal quale nemmeno la morte ci può separare (cfr Rom 8,31-38). Le parole pronunciate dalla sua anziana madre: “La mamma di Don Andrea perdona con tutto il cuore la persona che si è armata per uccidere il figlio e prova una grande pena per lui essendo anche lui un figlio dell’unico Dio che è Amore”, sono la corona di questo sacrificio.

Tra le tante lettere che ho ricevuto dopo la morte di Don Santoro molte – soprattutto di semplici fedeli – mi segnalavano i nomi di numerosi altri credenti, sacerdoti, religiose uccisi per la loro fede e il loro servizio di amore, chiedendo che non siano dimenticati: giunge dunque ben a proposito la Giornata di preghiera e di digiuno per i missionari martiri, che celebreremo venerdì. La stessa uccisione di Don Santoro è avvenuta, quali che siano le sue concrete motivazioni, nel contesto di quella ondata di violenze che ha preso spunto dalle vignette offensive nei confronti dell’Islam pubblicate a fine settembre su un quotidiano danese, causando in numerosi Paesi molte vittime e distruzioni e coinvolgendo anche i rapporti tra l’Italia e la Libia.

A questo riguardo Benedetto XVI, ricevendo il 20 febbraio l’Ambasciatore del Marocco, ha detto parole di verità, di giustizia e di pace alle quali ci associamo con intima convinzione e che è bene rileggere per intero: “la Chiesa cattolica resta convinta che, per favorire la pace e la comprensione tra i popoli e tra gli uomini, sia necessario e urgente che le religioni e i loro simboli siano rispettati, e che i credenti non siano oggetto di provocazioni che feriscono la loro condotta e i loro sentimenti religiosi. Tuttavia l’intolleranza e la violenza non possono mai giustificarsi come risposta alle offese, poiché esse non sono risposte compatibili con i principi sacri della religione: per questo non si può che deplorare le azioni di quanti approfittano deliberatamente dell’offesa causata ai sentimenti religiosi per fomentare atti violenti, tanto più che ciò avviene a fini estranei alla religione.

Per i credenti come per tutti gli uomini di buona volontà, l’unica via che può condurre alla pace e alla fratellanza è quella del rispetto delle altrui convinzioni e pratiche religiose, affinché, in maniera reciproca in tutte le società, sia realmente assicurato a ciascuno l’esercizio della religione liberamente scelta”. Occorre procedere per questa strada, con grande senso di responsabilità e ancor prima con sincera coerenza al comandamento supremo dell’amore, e al contempo senza lasciarsi condizionare dalla paura e senza mascherare l’aperta testimonianza della nostra fede. In realtà proprio nella misura in cui l’Italia, come altre nazioni che condividono la grande eredità della fede cristiana, saprà alimentarsi a questa sorgente di vita e di cultura, avrà maggiori e più autentiche energie morali per affrontare in maniera costruttiva le difficoltà e i pericoli che si sono addensati negli ultimi anni sulla scena internazionale.

Le notizie che giungono dalle aree più a rischio mostrano quanto sia necessario e urgente l’impegno per la pace. In Iraq, specialmente dopo l’attentato che ha devastato la moschea sciita di Samarra, è sembrato forte il pericolo di una guerra civile e ancora molto si fatica per trovare una forma di equilibrio, coesistenza e collaborazione tra le diverse componenti della popolazione, mentre continua la tragica serie delle uccisioni e delle stragi. In Terra Santa l’esito delle elezioni del 25 gennaio per il Parlamento palestinese ha aperto ulteriori incognite sul percorso, già tanto accidentato, che deve condurre alla rinuncia alla lotta armata, al riconoscimento reciproco e alla coesistenza pacifica tra lo Stato d’Israele e il Popolo palestinese, dotato di proprie istituzioni democratiche e sovrane. Gli atti di forza, a cui si è fatto ricorso anche la scorsa settimana, non potranno certo facilitare questo cammino.

È cresciuta la tensione per i programmi nucleari dell’Iran, che saranno discussi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: questa nuova emergenza internazionale conferma la fondatezza dei richiami del Papa, che nel recente Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace (n. 13) denunciava come “del tutto fallace” la prospettiva di garantire la sicurezza dei singoli Paesi attraverso il possesso delle armi nucleari ed esortava tutti i governi che già le hanno o intendono procurarsele a invertire congiuntamente la rotta, orientandosi verso un progressivo e concordato disarmo nucleare.

Un Paese nel quale diventano sempre più forti i contrasti tra musulmani e cristiani, con esiti spesso violenti e luttuosi, è purtroppo la Nigeria, per la tendenza ad imporre la legge islamica in alcuni Stati di quella popolosa nazione ma spesso anche per ragioni che non hanno a che vedere con la religione. Le violenze sono frequenti pure nelle Filippine, per non dire della difficile situazione dei cristiani in vari Paesi a dominanza musulmana, o anche retti da sistemi politici avversi alla religione: sono gravi e urgenti dunque i motivi per cercare di costruire, o ripristinare, forme di convivenza civile e di collaborazione, nel rispetto reciproco e nel riconoscimento sincero della libertà di religione. Le stesse nazioni occidentali sono chiamate a prestare più grande e concreta attenzione a queste problematiche, nelle quali sono in gioco fondamentali diritti umani.

La solidarietà internazionale è urgentemente sollecitata dalla catastrofe umanitaria, provocata dalla siccità e ormai dall’esaurimento delle scorte di cibo, che sta consumandosi nelle aree orientali dell’Africa. È triste constatare quanto poco rilievo simili immani tragedie riescano ad avere nella comunicazione sociale e nella coscienza collettiva: occorre dunque raddoppiare il nostro impegno, come Chiesa e come cattolici italiani, non solo per l’aiuto diretto a quelle popolazioni ma anche attraverso una vasta opera di educazione e sensibilizzazione, attingendo forza e speranza nella preghiera

4. In quest’ultimo periodo il confronto politico, nel nostro Paese, è comprensibilmente monopolizzato dall’ormai imminente appuntamento elettorale, con toni accesi e molteplici terreni di polemica. Nella sessione di gennaio di questo Consiglio Permanente abbiamo già precisato il nostro atteggiamento, che è quello di non coinvolgerci, come Chiesa e quindi come clero e come organismi ecclesiali, in alcuna scelta di schieramento politico o di partito, e allo stesso tempo di riproporre agli elettori e ai futuri eletti quei contenuti irrinunciabili, fondati sul primato e sulla centralità della persona umana, da articolare nel concreto dei rapporti sociali, e sul perseguimento del bene comune prima di pur legittimi interessi particolari, che costituiscono parte essenziale della dottrina sociale della Chiesa, ma non sono “norme peculiari della morale cattolica”, bensì “verità elementari che riguardano la nostra comune umanità” (cfr il discorso del Santo Padre ai pubblici amministratori di Roma e del Lazio, 12 gennaio 2006).

Nella situazione attuale meritano inoltre speciale attenzione alcune fondamentali tematiche antropologiche ed etiche, come quelle del rispetto della vita umana dal concepimento al suo termine naturale e del sostegno concreto alla famiglia legittima fondata sul matrimonio, in particolare nei suoi compiti di generazione ed educazione dei figli, evitando invece di introdurre normative che ne comprometterebbero gravemente il valore e la funzione e non corrispondono ad effettive esigenze sociali. Una più completa e approfondita esposizione e motivazione di questi criteri di orientamento, da porre soprattutto in rapporto con i programmi delle diverse forze politiche, è contenuta nella Nota dottrinale della Congregazione per la Dottrina della Fede del 24 novembre 2002 “circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica”, in particolare al n. 4: assumendola come riferimento concreto delle proprie scelte sarà possibile evitare la “diaspora culturale dei cattolici” e una loro “facile adesione a forze politiche e sociali che si oppongano, o non prestino sufficiente attenzione, ai principi della dottrina sociale della Chiesa” (cfr il discorso di Giovanni Paolo II al Convegno ecclesiale di Palermo, 23 novembre 1995).

Segnali senza dubbio preoccupanti giungono da vari Consigli regionali, dove sono state presentate, e in qualche caso approvate, proposte riguardanti le unioni di fatto che equiparano in larga misura i loro diritti a quelli delle famiglie legittime: alcune di queste proposte puntano inoltre ad essere trasferite al Parlamento nazionale, per diventare legge dell’intero Paese. Tra le leggi approvate nell’ultimo scorcio della legislatura, quella sull’affido condiviso dei figli minori in caso di separazione o divorzio dei genitori ha raccolto un ampio consenso parlamentare. Assai più controversa e discussa è stata l’approvazione delle nuove norme sul contrasto delle tossicodipendenze, che pure riguardano una gravissima piaga sociale. La legge sul processo penale, che era stata rinviata alle Camere dal Presidente della Repubblica, è stata approvata in via definitiva con modifiche che accolgono alcuni rilievi del Capo dello Stato.

Le condizioni della nostra economia permangono purtroppo difficili, come mostrano la mancanza di crescita nel corso del 2005 e l’incremento del debito pubblico, anche se una certa ripresa è prevista per il 2006. Serve dunque un impegno forte e condiviso, senza il quale sarebbe arduo attenuare gli squilibri che affliggono da gran tempo il nostro Paese, penalizzando soprattutto il Meridione, in particolare sul versante cruciale dell’occupazione. Il grandissimo numero di lavoratori extracomunitari che hanno fatto richiesta di regolarizzazione, ben al di là della quota prevista per quest’anno, conferma d’altronde quanto sia complesso e difficoltoso un approccio al problema dell’immigrazione che rispetti le esigenze di accoglienza solidale e di reale e ordinata integrazione, oltre a riproporre alcuni interrogativi sulle condizioni effettive del cosiddetto mercato del lavoro.

Assai significativa è la sentenza con la quale il Consiglio di Stato, il 15 febbraio, ha respinto un ricorso che chiedeva la rimozione del Crocifisso dalle aule scolastiche, con una motivazione che supera la fallace antinomia tra la portata religiosa di questo simbolo e la sua capacità di esprimere il fondamento dei valori civili propri della nostra nazione. Si è sviluppato nelle ultime settimane un vivace dibattito su un eventuale insegnamento della religione islamica nelle scuole pubbliche, dibattito che si è esteso anche all’insegnamento della religione cattolica. Fatta l’ovvia premessa che la competenza della nostra Chiesa riguarda i rapporti con lo Stato italiano in merito all’insegnamento del cattolicesimo e non di altre religioni, sembra utile aggiungere qualche precisazione. In primo luogo vale per tutti il diritto alla libertà religiosa e in linea di principio non appare impossibile l’insegnamento della religione islamica. Occorre però che ricorrano alcune fondamentali condizioni, che valgono nei confronti di ogni insegnamento nelle scuole pubbliche italiane: in particolare che non vi sia contrasto nei contenuti rispetto alla nostra Costituzione, ad esempio riguardo ai diritti civili, a cominciare dalla libertà religiosa, alla parità tra uomo e donna e al matrimonio. In concreto, manca finora un soggetto rappresentativo dell’Islam che sia abilitato a stabilire con lo Stato italiano un accordo in merito; bisognerebbe inoltre assicurarsi che l’insegnamento della religione islamica non dia luogo di fatto a un indottrinamento socialmente pericoloso.

Non regge, in ogni caso, il paragone con l’insegnamento della religione cattolica, dato che esso, come afferma l’art. 9 dell’Accordo di revisione del Concordato, ha tra le sue motivazioni il fatto “che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”. Le proposte di sopprimere tale insegnamento, sostituendolo eventualmente con un insegnamento di storia delle religioni, che sono state nuovamente avanzate in questa occasione, sulla base del più accentuato pluralismo di presenze religiose che nasce dall’immigrazione, e anche di un presunto, ma inesistente, declino della vitalità del cattolicesimo in Italia, non tengono conto del dato di fatto che il 91% degli alunni frequenta liberamente le lezioni di religione cattolica, oltre che della domanda di conservare e irrobustire le nostre radici, che è presente con forza nel popolo italiano.

Vorrei far mie, infine, le parole pronunciate dal Santo Padre venerdì 17 marzo, rivolgendosi al Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, a proposito della “urgente necessità di sostenere e supportare il matrimonio e la vita familiare” da parte delle comunicazioni sociali e dell’industria dell’intrattenimento, presentando, specialmente ai giovani, “modelli edificanti di vita e di amore”, e non invece “espressioni d’amore false o infondate, che ridicolizzano la dignità della persona umana … e minano gli interessi della famiglia”. Sono parole, queste, che interpretano un’ansia diffusa tra gli uomini e le donne di buona volontà, al di là delle differenti convinzioni religiose.

Cari Confratelli, proseguiamo il nostro itinerario quaresimale avendo davanti a noi la luce della risurrezione del nostro unico Salvatore e affidiamo queste giornate all’intercessione della Vergine Maria, del suo sposo Giuseppe e dei Santi e delle Sante venerati nelle nostre Chiese. Grazie del vostro ascolto e di quanto vorrete osservare e proporre. Camillo Card. Ruini, Presidente.

 

 


 

Tra la gente al servizio della verità: Prolusione del Card. Ruini al Consiglio della CEI

Un dialogo davvero aperto ha bisogno della chiarezza «Con il passare dei mesi dall'elezione del Papa diventano sempre più forti e coinvolgenti il suo magistero di verità e il suo invito a seguire Cristo nella via dell'autentico amore» «La situazione che il Concilio ha dovuto affrontare è paragonabile all'entrata in relazione della fede biblica con la cultura greca o della cristianità medievale con il pensiero aristotelico»

Pubblichiamo il testo integrale della prolusione con cui ieri il cardinale Camillo Ruini ha aperto i lavori del Consiglio permanente della Cei. I sottotitoli sono redazionali.

Venerati e cari confratelli,

ci incontriamo mentre è ancora vivo in noi il ricordo di quella positiva esperienza di comunione che è stata l'Assemblea generale di Assisi. Nel medesimo clima di preghiera, di amicizia e di fraternità affronteremo i temi del nostro ordine del giorno, confidando sempre nel Signore che ci illumina e fortifica con il suo Santo Spirito. Infatti, sebbene siano molti i motivi di preoccupazione, sono ben più grandi e profonde le ragioni per le quali dobbiamo rendere grazie, ogni giorno, alla provvidenza misericordiosa di Dio che custodisce i passi della Chiesa e non abbandona la famiglia umana.

Affetto crescente per il Papa

1. Il nostro saluto, deferente, affettuoso e grato, va anzitutto al Santo Padre. Con il passare dei mesi diventano sempre più forti e coinvolgenti il suo magistero di verità e il suo invito a seguire Cristo nella via dell'autentico amore, e parallelamente crescono e si approfondiscono l'affetto e la gratitudine verso di lui, in ogni categoria di persone.

In attesa della sua imminente prima enciclica - il cui senso e scopo egli stesso mercoledì scorso ha chiaramente indicato - vorrei soffermarmi, tra i suoi numerosi interventi di grande significato, sul discorso del 22 dicembre alla Curia Romana, per gli auguri natalizi. Benedetto XVI ha fatto memoria in primo luogo del suo predecessore Giovanni Paolo II, e in particolare della straordinaria lezione che egli ci ha lasciato, con la parola e con la vita, riguardo alla misericordia di Dio, che pone un limite alla potenza del male, ed al senso radicalmente nuovo, di amore e di salvezza, che la passione di Cristo dona alla sofferenza umana. Poi, ricordando la Giornata mondiale della gioventù a Colonia e il Sinodo dei vescovi sull'Eucaristia, ha sottolineato come l'adorazione eucaristica sia «la pi ù coerente conseguenza dello stesso mistero eucaristico», perché soltanto nell'adorazione può maturare un'accoglienza personale, profonda e vera del Figlio di Dio che si unisce a noi.

La parte più ampia di questo discorso del Papa è dedicata al Concilio Vaticano II, nel 40° anniversario della sua conclusione. Benedetto XVI si interroga sulla recezione del Concilio, che è stata difficile in vaste parti della Chiesa, e individua l'origine di tali difficoltà nel contrasto di due ermeneutiche. Una di esse, che si potrebbe chiamare «ermeneutica della discontinuità e della rottura», ritiene che il vero spirito, la novità e l'intenzione profonda del Concilio sarebbero espressi, più che dai testi conciliari, frutto di compromessi, dagli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: ne derivano da una parte il rischio di una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare e dall'altra un'indeterminatezza riguardo al concreto insegnamento del Concilio, che lascia spazio ad ogni estrosità. Così però viene fraintesa la natura stessa di un Concilio: esso non è una specie di Costituente, che può sostituire una costituzione con un'altra. La costituzione essenziale della Chiesa viene invece dal Signore e dai vescovi deve essere fedelmente custodita.

All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'«ermeneutica della riforma», del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, come hanno chiaramente insegnato gli stessi Papi del Concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI. Dove, nella recezione del Vaticano II, questa ermeneutica è stata seguita, «è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi»: oggi, 40 anni dopo il Concilio, possiamo rilevare che il positivo è più grande di quanto potesse apparire nell'agitazione degli anni intorno al 1968 e che il seme buono cresce: perciò cresce anche la nostra profonda gratitudine per l'opera svolta dal Vaticano II.

Grande disputa sull'uomo

Questa diagnosi estremamente puntuale di Benedetto XVI sull'interpretazione e la recezione del grande Concilio non ha dunque soltanto un interesse storico, ma è ricca di indicazioni quanto mai significative per il cammino presente e futuro della Chiesa. Rifacendosi a Paolo VI, Benedetto XVI le sviluppa in riferimento alla «grande disputa sull'uomo, che contraddistingue il tempo moderno», e al connesso rapporto tra Chiesa ed età moderna. La rottura consumatasi con un liberalismo radicale ed anche con le scienze naturali che pretendevano di abbracciare tutta la realtà e di rendere superflua l'«ipotesi Dio», oltre che con una certa forma di scienza storica che reclamava per sé la parola ultima ed esclusiva sull'interpretazione della Bibbia, sembrava irreparabile, e la Chiesa, specialmente al tempo di Pio IX, formulò «aspre e radicali condanne di tale spirito dell'età moderna». Intanto, però, la stessa età moderna aveva conosciuto degli sviluppi, con la rivoluzione americana, che aveva offerto un modello di Stato diverso e più aperto verso le religioni, e con le scienze naturali che diventavano più consapevoli dei propri limiti e lasciavano nuovamente aperta la porta alla domanda su Dio, mentre da parte cattolica la dottrina sociale diventava un modello importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista, e uomini di Stato cattolici dimostravano in concreto «che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo».

Benedetto XVI individua pertanto «tre cerchi di domande», che «nel loro insieme formano un unico problema» e che attendevano una risposta: definire in modo nuovo il rapporto sia tra fede e scienze moderne, tanto naturali che storiche, sia tra Chiesa e Stato moderno, sia tra fede cristiana e religioni del mondo, in particolare tra la Chiesa e la fede di Israele.

La riforma nella continuità

Il Concilio ha affrontato tutti questi ambiti e in ciascuno di essi è emersa una forma di discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le distinzioni tra le concrete situazioni ed esigenze storiche, non risultava abbandonata la continuità dei principi. Così il Papa mostra quale sia, in concreto, la natura della vera «riforma» operata dal Vaticano II - e dell'«ermeneutica della riforma» - che consiste «in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi»: le decisioni della Chiesa riguardanti posizioni contingenti e mutevoli dovevano infatti a loro volta essere necessariamente esse stesse contingenti. Il caso sul quale Benedetto XVI si sofferma maggiormente è quello della libertà di religione, dove il Concilio, «riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa», in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso e con la Chiesa dei martiri. Una Chiesa missionaria, che sa di essere tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve necessariamente impegnarsi per la libertà della fede: essa vuole trasmettere il dono della verità, che esiste per tutti, e al contempo assicura i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò le loro identità e le loro molteplici culture, ma far crescere invece l'unità e la pace tra gli uomini e tra i popoli.
Il Papa aggiunge una precisazione di grandissima importanza: chi si era aspettato che il «sì» fondamentale detto dal Concilio all'età moderna, la sua «apertura verso il mondo» - espressione del resto assai imprecisa -, facessero dileguare ogni tensione, aveva sottovalutato le tensioni interiori e le contraddizioni della stessa età moderna, oltre che quella pericolosa fragilità della natura umana che minaccia il cammino dell'uomo in ogni periodo della storia. Tali pericoli non sono scomparsi con le nuove possibilità e il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, ma assumono invece nuove dimensioni. Anche nel nostro tempo la Chiesa resta pertanto un «segno di contraddizione». Non poteva essere intenz ione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo: era invece suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, «per presentare a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza».

Icona per la Chiesa italiana

Il passo compiuto dal Vaticano II verso l'età moderna appartiene dunque, conclude il Papa, al problema del rapporto tra fede e ragione, che si presenta in forme sempre nuove: in concreto, la situazione che il Concilio ha dovuto affrontare è paragonabile all'entrata in relazione della fede biblica con la cultura greca, nei primi secoli del cristianesimo, o della cristianità medievale con il pensiero aristotelico, nel XIII secolo. Il Concilio ha tracciato, sia pure solo a larghe linee, la direzione essenziale del dialogo attuale tra fede e ragione: adesso «questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento».

Così, cari confratelli, Benedetto XVI indica, con lucidità e senso critico pari alla fiducia e alla speranza teologale, il quadro e l'obiettivo entro e verso i quali anche la Chiesa italiana, per parte sua, è chiamata a procedere. Per farlo in maniera autentica e feconda è essenziale anzitutto coltivare in noi, con la grazia del Signore, quell'immagine di Chiesa che il Papa stesso ha richiamato nell'omelia della Messa dell'Immacolata, l'8 dicembre, proprio nel giorno anniversario della chiusura del Concilio. «In Maria - ha detto Benedetto XVI - incontriamo l'essenza della Chiesa in modo non deformato. Da lei dobbiamo imparare a diventare noi stessi "anime ecclesiali", così si esprimevano i Padri, per poter anche noi, secondo la parola di San Paolo, presentarci "immacolati" al cospetto del Signore, così come Egli ci ha voluto fin dal principio (Col 1,21; Ef 1,4)».

Il cammino che ci attende in questi mesi, verso il Convegno ecclesiale di Verona, e che ha già avuto un prologo assai incoraggiante nell'incontro del 24-27 novembre a Palermo intitolato «Ricorda, racconta, cammina», riceve ulteriore luce e impulso dalle grandi prospettive indicate dal Santo Padre. A sua volta, il VII Forum del Progetto culturale, svoltosi a Roma il 2 e 3 dicembre sul tema «Cattolicesimo italiano e futuro del Paese», si è ampiamente avvalso del magistero di Benedetto XVI. Specialmente in rapporto alle nuove generazioni, che dovranno verosimilmente far fruttificare il messaggio cristiano in un tempo caratterizzato da mutamenti ancora più profondi e accelerati, appare davvero indispensabile che la grande e genuina eredità del Vaticano II indichi la direzione di marcia per l'incontro continuamente rinnovato di Cristo con l'uomo, la sua cultura e la società in cui vive.

Martedì scorso abbiamo celebrato la Giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, dedicata quest'anno al tema «Ascolta, Israele! La prima delle Dieci Parole: Io sono il Signore, tuo Dio». Il giorno prima Benedetto XVI aveva detto al Rabbino capo di Roma: «A voi è vicina la Chiesa cattolica e vi è amica». Ora è in corso la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani, che ha per tema «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,18-20): nel pomeriggio di mercoledì avremo la gioia di unirci al Santo Padre che presiederà la celebrazione dei vespri nella Basilica di San Paolo, a conclusione della Settimana. Confidiamo fortemente nell'ecumenismo della preghiera, come via massimamente efficace per giungere alla piena e visibile unità dei cristiani.

Rapporto inscindibile tra verità e pace

2. Il primo messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale della Pace si intitola «Nella verità, la pace», e anche il suo discorso del 9 gennaio al Corpo diplomatico fa perno sul rapporto tra verità e pace. Nel messaggio, dopo aver confermato «la ferma volontà della Santa Sed e di continuare a servire la causa della pace», il Papa esprime la convinzione fondamentale che «dove e quando l'uomo si lascia illuminare dallo splendore della verità, intraprende quasi naturalmente il cammino della pace», richiamandosi alla parola del Concilio «verità della pace» (Gaudium et spes, 77). In concreto, non ci può essere verità della pace «quando viene a mancare l'adesione all'ordine trascendente delle cose, come pure il rispetto di quella "grammatica" del dialogo che è la legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo», quando sono ostacolati e impediti lo sviluppo integrale della persona e la tutela dei suoi diritti fondamentali e tanti popoli sono costretti a subire ingiustizie e disuguaglianze intollerabili. La menzogna dunque, che è l'opposto della verità, impedisce la realizzazione della pace, come hanno mostrato nel secolo scorso sistemi ideologici e politici che «hanno mistificato in modo programmatico la verità» e hanno prodotto enormi rovine, mentre anche oggi le «menzogne del nostro tempo … fanno da cornice a minacciosi scenari di morte in non poche regioni del mondo».

La verità della pace ci chiede di ricuperare la consapevolezza che «tutti gli uomini appartengono ad un’unica e medesima famiglia» e sono accomunati da uno stesso destino, in ultima istanza trascendente: perciò le differenze storiche e culturali vanno valorizzate senza contrapposizioni, coltivando relazioni feconde e sincere e percorrendo le strade del perdono e della riconciliazione. Anzi, la verità della pace deve valere anche nella tragica situazione della guerra e chiede che siano puntualmente osservate le norme del diritto internazionale umanitario: sono pertanto degni di gratitudine i tanti militari impegnati in delicate operazioni di composizione dei conflitti e ripristino di condizioni di pace.

Sia nel messaggio per la Giornata della pace sia nel discorso al Corpo diplomatico il Papa ha dedicato speciale attenzione e parole molto severe e preoccupate al «terrorismo organizzato, che si estende ormai a livello planetario». Esso nega in modo drammatico la verità della pace e tiene il mondo in stato di ansia e di insicurezza, rendendo più acuto quel «pericolo di uno scontro di civiltà» che «non a torto si è ravvisato» nell’odierno contesto mondiale. Tra le sue cause numerose e complesse, oltre a quelle di carattere politico e sociale, non ultime e più profonde sono quelle culturali e ideologiche, «commiste ad aberranti concezioni religiose». In concreto, si tratta del nichilismo e del fanatismo religioso, o «fondamentalismo fanatico»: entrambi si rapportano in modo errato alla verità, negandone l’esistenza oppure pretendendo di imporla con la forza. Pur differenti per la loro origine e per i contesti culturali in cui si iscrivono, essi sono accomunati dal disprezzo per l’uomo e per la sua vita e, in ultima analisi, per Dio stesso, di cui il nichilismo nega l’esistenza e la provvidente presenza nella storia, mentre il fondamentalismo ne sfigura il volto amorevole e misericordioso, sostituendo a Lui idoli fatti a propria immagine. Nessuna circostanza vale perta nto a giustificare l’attività criminosa del terrorismo, «che copre di infamia chi la compie, e che è tanto più deprecabile quando si fa scudo di una religione, abbassando così la pura verità di Dio alla misura della propria cecità e perversione morale».

Il messaggio per la Giornata della pace registra d’altronde con gioia alcuni segnali promettenti, come il calo numerico dei conflitti armati, senza dimenticare però le guerre che continuano a devastare vaste zone della terra. Denuncia inoltre la fallace prospettiva di quei governi che contano sulle armi nucleari per garantire la sicurezza dei loro Paesi, così come l’aumento delle spese militari e del sempre prospero commercio delle armi. Auspica pertanto con forza che «la comunità internazionale sappia ritrovare il coraggio e la saggezza di rilanciare in maniera convinta e congiunta il disarmo», ponendo realmente in atto il diritto di tutti alla pace. Ne trarranno vantaggio anzitutto i Paesi poveri, «che reclamano giustamente, dopo tante promesse, l’attuazione concreta del diritto allo sviluppo». Di fatto, meno della metà delle immense somme globalmente destinate agli armamenti sarebbe più che sufficiente per togliere stabilmente dall’indigenza lo sterminato esercito dei poveri. In questa linea la Chiesa cattolica conferma la propria fiducia nell’Onu e al contempo ne auspica un rinnovamento istituzionale ed operativo, che la metta in grado di rispondere alle esigenze di un’epoca segnata dalla globalizzazione.

Verità su Dio condizione previa

Nel discorso al Corpo diplomatico Benedetto XVI enuclea inoltre il rapporto tra verità e pace «in alcuni semplici enunciati», che poi sviluppa e applica concretamente a varie situazioni del mondo. Il primo di essi è che «l’impegno per la verità è l’anima della giustizia»: qui si colloca anche il rifiuto del terrorismo. Il secondo afferma che «l’impegno per la verità dà fondamento e vigore al diritto di libertà»: al riguardo il Papa sottolinea che la verità, ogni verità, «può essere raggiunta solo nella libertà» e che ciò vale in maniera eminente «per le verità in cui è in giuoco l’uomo stesso in quanto tale, le verità dello spirito: quelle che riguardano il bene ed il male, le grandi mete e prospettive di vita, il rapporto con Dio». Insiste pertanto sulla libertà di religione, che deve valere sotto tutte le latitudini e che invece è gravemente violata anche in Stati che vantano tradizioni culturali plurisecolari. Nell’Angelus di domenica 4 dicembre il Papa aveva detto che in vari Paesi questa libertà, «pur riconosciuta sulla carta, viene ostacolata nei fatti dal potere politico, oppure, in maniera più subdola, dal predominio culturale dell’agnosticismo e del relativismo».

Il terzo enunciato è che «l’impegno per la verità apre la via al perdono e alla riconciliazione»: qui Benedetto XVI non solo ricorda e ripete la «parola luminosa» del suo predecessore «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono», ma affronta l’obiezione, diffusa nella nostra cultura, secondo la quale le convinzioni diverse sulla verità danno luogo a tensioni, ad incomprensioni, a dispute, «tanto più forti quanto più profonde sono le convinzioni stesse», e storicamente hanno dato luogo addirittura a guerre di religione. Il Papa riconosce che ciò è vero, ma precisa che «è sempre avvenuto per una serie di cause concomitanti, poco o nulla aventi a che fare con la verità e la religione, e sempre comunque perché ci si volle avvalere di mezzi in realtà non conciliabili con il puro impegno per la verità né con il rispetto della libertà richiesta dalla verità». In specie la Chiesa cattolica, «in quanto anche da parte di suoi membri e di sue istituzioni sono stati compiuti gravi errori in passato», condanna tali errori e non ha esitato a chiedere perdono, come esige l’impegno per la verità. L’ultimo enunciato, «quasi una logica conclusione» dell’intera riflessione, afferma che «l’impegno per la pace apre a nuove speranze», perché l’uomo è capace di verità.

Nella parte finale del messaggio per la Giornata mondiale della pace Benedetto XVI chiede ai cattolici di intensificare, in ogni parte del mondo, l’annuncio e la testimonianza del «Vangelo della pace», proclamando che il riconoscimento della piena verità di Dio «è condizione previa e indispensabile per il consolidamento della verità della pace», e sollecita ogni comunità a impegnarsi in una capillare opera di educazione alla vera pace, che è anzitutto dono di Dio da implorare incessantemente. L’insieme degli insegnamenti contenuti nel Messaggio stesso e nel discorso al Corpo Diplomatico costituisce, in ordine a una tale educazione, un contributo che unisce la profondità dottrinale con la risposta pertinente alle sfide attuali della storia, nella luce perenne della verità cristiana in cui si rivela il Dio che è amore.

Per medicare le ferite del mondo

3. Cari confratelli, un rapido sguardo alla situazione internazionale mette anzitutto davanti a noi una fase tanto importante quanto delicata dei tentativi di giungere a una pacifica convivenza in Terra Santa. La grave malattia che ha colpito il primo ministro Sharon non sembra far venir meno la spinta verso un tale traguardo in Israele. Sono ora imminenti le elezioni politiche palestinesi: al di là dei loro esiti numerici, è essenziale che tutte le maggiori forze rappresentative di quelle popolazioni, e naturalmente gli stessi israeliani, entrino davvero nella prospettiva ribadita dal Papa nel discorso al Corpo diplomatico, che cioè lo Stato d’Israele possa sussistere pacificamente in conformità alle norme del diritto internazionale e nel contempo il popolo palestinese possa sviluppare serenamente le proprie istituzioni democratiche, per un avvenire libero e prospero.

In Iraq le elezioni legislative del 15 dicembre hanno registrato un’alta partecipazione al voto, anche da parte dei Sunniti: per conseguenza, la composizione del nuovo Parlamento risulta assai più equilibrata. Prosegue dunque il faticoso cammino ver so la costruzione di autonomi assetti democratici, ma continuano anche gli attentati terroristici, spesso estremamente sanguinosi. La realizzazione di veri accordi tra tutte le componenti della popolazione sembra la premessa indispensabile per isolare i fanatici del terrorismo e far compiere un passo decisivo al processo di pacificazione. In questo contesto il nostro Governo ha annunciato che tutto il contingente italiano rientrerà in Patria entro la fine del 2006.

Sono aumentate, a livello internazionale, la tensione e le preoccupazioni dopo la decisione delle autorità iraniane di togliere i sigilli agli impianti in cui si intende riavviare le attività di ricerca nucleare. Ciò conferma la necessità e l’urgenza di invertire la direzione di marcia, sostituendo all’attuale tendenza alla proliferazione un progressivo e concordato disarmo nucleare.

In Africa, mentre si deve purtroppo registrare una nuova impennata delle violenze nel Darfur, che coinvolgono anche un enorme numero di bambini, senza una reazione adeguata della comunità internazionale, nei Paesi del «Corno d’Africa» la siccità sta provocando una catastrofe umanitaria che richiede con urgenza massicci aiuti alimentari, ai quali anche la nostra Conferenza, costantemente solidale con quelle popolazioni, non mancherà di contribuire.

L’Unione europea cerca la strada per dare nuovo slancio al proprio cammino e in particolare alla propria presenza sulla scena internazionale, di cui si avverte una grande necessità. Il compromesso raggiunto a dicembre sul bilancio comunitario nel vertice dei capi di Stato e di Governo è stato rimesso in discussione nei giorni scorsi dal Parlamento europeo, ma sembrano molte, fortunatamente, le probabilità che si giunga presto a un accordo definitivo. Continua intanto, purtroppo, la tendenza del medesimo Parlamento, profondamente errata e gravida di conseguenze negative, a non rispettare il criterio della sussidiarietà e ad approvare risoluzioni che, sebbene non vincolanti per i singoli Paesi, costituiscono una spinta e una specie di pressione morale ad allontanarsi dai cardini stessi della nostra civiltà: così il 18 gennaio è stata approvata una risoluzione che respinge giustamente gli atteggiamenti di discriminazione, disprezzo e violenza contro le persone omosessuali, ma sollecita anche una equiparazione dei diritti delle coppie omosessuali con quelli delle vere e legittime famiglie. Conforta il fatto che gran parte degli europarlamentari italiani si è opposta a tale risoluzione.

Clima conflittuale nel nostro Paese

4. Nel nostro Paese continua purtroppo ad innalzarsi il livello della conflittualità, in un clima politico sempre più condizionato dall’approssimarsi delle elezioni, che si svolgeranno sulla base della nuova legge elettorale, definitivamente approvata il 14 dicembre.

Tra le altre leggi recentemente varate dal Parlamento alcune riguardano l’amministrazione della giustizia, come quella in materia di attenuanti generiche, recidiva, usura e prescrizione, approvata definitivamente il 29 novembre. Quella riguardante il processo penale, approvata il 12 gennaio, è stata invece rinviata alle Camere dal Presidente della Repubblica. Un problema tanto importante quanto di difficile soluzione che rimane davanti a noi è quello, da tutti riconosciuto, di migliorare ed accelerare il funzionamento complessivo dell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Un altro e connesso problema strutturale riguarda le condizioni dei detenuti e il sovraffollamento delle carceri: è nuovamente fallito il tentativo di alleggerirlo, certo in maniera soltanto provvisoria, attraverso qualche misura di abbreviazione dei tempi di detenzione.

Un tema intorno al quale si concentrano, ormai da molti mesi, l’attenzione e le polemiche ha a che fare con le normative che riguardano le attività imprenditoriali e finanziarie, e soprattutto con le questioni del controllo di alcuni istituti di credito. In questo contesto hanno avuto luogo le dimissioni del Go vernatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e l’approvazione della nuova legge sul risparmio, che modifica anche le procedure di nomina, le attribuzioni e la durata in carica del Governatore. Pochi giorni dopo a tale incarico è stato chiamato Mario Draghi. Rimangono aperte le vicende giudiziarie di alcuni esponenti del mondo bancario e di quello cooperativo, sulle quali si è innestato un aspro dibattito politico. È forte l’auspicio che, in questo come in altri campi, i comportamenti censurabili, o comunque gravemente discutibili, trovino un freno e un limite nella coscienza delle persone prima ancora che nelle norme giuridiche e amministrative, e che il confronto politico ricuperi, anche nel periodo elettorale, l’indispensabile serenità, concentrandosi, più che sulle polemiche reciproche, sui problemi che il Paese ha davanti a sé.

Tra questi rimane prioritario lo sviluppo del Mezzogiorno, attraverso una migliore valorizzazione delle sue specifiche potenzialità, che favorisca anzitutto l’incremento dell’occupazione, e un contrasto alla criminalità organizzata che incida più efficacemente anche sulle sue radici sociali e culturali. Obiettivi urgenti che dovrebbero essere concretamente condivisi sono quelli della cura del territorio, del potenziamento e della modernizzazione delle principali infrastrutture e della riduzione della grave dipendenza energetica del nostro Paese. Purtroppo molti episodi, anche recenti e assai noti, mostrano come sia difficile muoversi in queste direzioni, per la scarsa efficienza di alcuni servizi pubblici essenziali e per la tenace difesa di interessi corporativi, oltre che per resistenze diffuse tra la popolazione. Sarebbe però sbagliato sottovalutare la volontà di ripresa, l’impegno quotidiano nel lavoro, la creatività e la consapevolezza crescente della necessità di innovare, che pure sono largamente presenti tra gli italiani.

Ancora più determinanti, sul medio e sul lungo periodo, sono i grandi temi della famiglia, della natalità e dell’educazione: soprattutto su di essi l’Italia ha bisogno di un forte e durevole impegno, sul versante culturale e morale come su quello delle politiche sociali, per sostenere la famiglia stessa, nucleo fondamentale della società, così che siano più largamente accolte la responsabilità ma anche la gioia di essere genitori, e per offrire alle nuove generazioni concreti e convincenti modelli di vita.

Criteri per prossime elezioni

In vista del prossimo appuntamento elettorale confermiamo in primo luogo quella linea di non coinvolgerci, come Chiesa e quindi come clero e come organismi ecclesiali, in alcuna scelta di schieramento politico o di partito, linea che non è frutto di indifferenza o di disimpegno, ma di rispetto della legittima autonomia della politica e ancor prima della genuina natura e missione della Chiesa (cfr Gaudium et spes, 76). Nell’attuale situazione italiana anche con questo atteggiamento intendiamo inoltre contribuire a quel rasserenamento del clima e a quella concordia sui valori e gli interessi fondamentali della nazione di cui si avverte acutamente il bisogno.

Nello stesso tempo è nostro dovere riproporre, con rispetto e chiarezza, agli elettori e ai futuri eletti quei contenuti irrinunciabili, fondati sul primato e sulla centralità della persona umana, da articolare nel concreto dei rapporti sociali, e sul perseguimento del bene comune prima che di pur legittimi interessi particolari, che appartengono al patrimonio della dottrina sociale della Chiesa ma, come ha detto il Papa nel discorso del 12 gennaio agli amministratori della regione Lazio, del Comune e della Provincia di Roma, non sono «norme peculiari della morale cattolica», bensì «verità elementari che riguardano la nostra comune umanità».

Essi non si limitano certo ad alcune tematiche peculiari ma riguardano ogni ambito essenziale dell’esistenza umana: anche in questa occasione ho cercato di concretizzarne alcuni in rapporto alle esigenze attuali del nostro Paese. Il rilievo cr escente che vanno assumendo determinate problematiche antropologiche ed etiche anche in sede politica e legislativa, con la tendenza diffusa in molti Paesi e ben presente anche in Italia, come mostrano svariati segnali, ad introdurre normative che, mentre non rispondono ad effettive esigenze sociali, comprometterebbero gravemente il valore e le funzioni della famiglia legittima fondata sul matrimonio e il rispetto che si deve alla vita umana dal concepimento al suo termine naturale, richiede però un supplemento di attenzione a questi temi nelle scelte degli elettori e poi nell’esercizio delle loro responsabilità da parte dei futuri parlamentari. Richiamando a questa speciale attenzione la Chiesa adempie alla sua vocazione di essere «il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana» (Gaudium et spes, 76).

Cari confratelli, nell’anno da poco terminato ha continuato ad allungarsi l’elenco dei testimoni di Cristo che hanno pagato con la vita l’adempimento della loro missione e non sono mancati, intensificandosi anzi in alcuni Paesi, le violenze e gli atteggiamenti persecutori nei confronti dei cristiani, ed anche di aderenti ad altre religioni. Tutto ciò ci sprona ad essere degni, nella nostra vita e nel servizio pastorale, dell’esempio che riceviamo da questi fratelli e al contempo a rivendicare con coraggio e franchezza, in unione con il Papa, sotto tutte le latitudini il diritto fondamentale della libertà religiosa.

Vi ringrazio del vostro ascolto e di quanto vorrete osservare e proporre. Affidiamo queste giornate di lavoro comune all’intercessione della Vergine Maria, del suo sposo Giuseppe e dei santi e delle sante patroni delle diocesi italiane.

 

 


  

 Inaugurazione dell’Università Europea di Roma (10 gennaio 2006)

Testo completo dell’intervento del Cardinale Camillo Ruini

«Desidero compiacermi con il Magnifico Rettore e con tutti i Responsabili di questa nuova Università, già articolata in tre Corsi di laurea, che inizia il suo cammino nella Città eterna. La Chiesa cattolica, e in particolare la Chiesa presente in Italia, guarda con grande attenzione ed interesse al mondo della cultura e della ricerca, come anche all’impegno nella formazione delle persone. Perciò il sorgere di una nuova struttura universitaria, che si richiama ai grandi principi della fede e della cultura d’ispirazione cristiana, è per noi un evento positivo e incoraggiante.

Sappiamo tutti che nell’odierno contesto culturale sono all’opera forti correnti che spingono nel senso della secolarizzazione, e anche della scristianizzazione, e che pertanto una ricerca e un insegnamento che si richiamino all’eredità cristiana, per inverarla e attualizzarla nel presente e nel futuro, devono affrontare una sfida non facile. Possiamo confidare però non soltanto nel grande patrimonio di verità e di bellezza che ci viene dal nostro passato ma anche nella luce dello Spirito Santo, che guida i passi della Chiesa, e nelle energie positive che il medesimo Spirito suscita sempre di nuovo, per rispondere ai compiti che man mano si profilano. 

La mia presenza qui oggi vuol essere un segno della vicinanza della Chiesa di Roma e delle altre Chiese d’Italia: a loro nome esprimo l’augurio che la giovane pianta di questa Università, appena germogliata, possa crescere rapidamente e diventare un albero robusto e ricco di frutti di bene. Sono certo che essa si inserirà con forte spirito di comunione nella pastorale universitaria della Diocesi di Roma: contribuirà a questo fine anche la presenza e l’opera del Cappellano, già opportunamente nominato.

E’ stato ricordato che l’Università Europea di Roma ha una vocazione internazionale, che proviene anzitutto dal suo Ente promotore, la Congregazione dei Legionari di Cristo, che ha dato vita a una rete di Università in molte parti del mondo. La vocazione internazionale è naturale per il cattolicesimo, anche e specificamente in ambito universitario: la fede cristiana infatti è capace di incarnarsi nelle più diverse culture, per comunicare loro la propria linfa di verità e valorizzare quanto di vero, di buono e di bello in esse è contenuto. Così è accaduto finora nella storia e così deve accadere anche oggi.

Di fronte a quel distacco dal cristianesimo che si è purtroppo verificato in molti ambienti culturali europei, vorrei ripetere qui le parole assai impegnative, ma anche cariche di speranza, pronunciate a Subiaco dall’allora Cardinale Ratzinger pochi giorni prima della sua elezione al Pontificato: “Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta all’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini”. Il mio fervido auspicio è che questa nuova Università contribuisca a formare un tale genere di uomini.

La dimensione internazionale è molto importante anche in rapporto all’attuale configurazione dell’Europa, al cui itinerario di unificazione stanno partecipando le istituzioni universitarie, secondo il ben noto “processo di Bologna”. Il compito di costruire una casa comune per le nuove generazioni esige responsabilità, collaborazione, coscienza dei valori da trasmettere: queste caratteristiche confidiamo possano essere fortemente presenti nella nuova Università che oggi inauguriamo.

Vorrei infine rivolgere un saluto particolare ai giovani che iniziano il loro cammino di studenti presso l’Università Europea di Roma. Cari giovani, questa è una fase particolarmente importante della vostra vita, una fase decisiva per la vostra maturazione. Dalla preparazione che acquisirete in questi anni dipende in buona misura il vostro futuro e anche quello di tante altre persone, a voi legate o che ora nemmeno conoscete. Siete chiamati pertanto ad investire nel modo migliore il tempo che avete a disposizione; a stabilire con i vostri docenti e formatori un dialogo personale, aperto e fiducioso; a consolidare i valori cristiani nella vostra vita, conoscendoli più profondamente e mettendoli in pratica; a contribuire lealmente alla creazione di una comunità accademica contrassegnata dall’amicizia e da rapporti sinceri, che possano durare e accompagnarvi nel cammino della vita; ad accrescere giorno per giorno la vostra maturità personale e capacità di giudizio critico. In futuro dovrete probabilmente svolgere ruoli significativi nella società italiana ed europea e vi sarà preziosa la preparazione acquisita negli anni degli studi universitari.

Sono certo che il Magnifico Rettore e tutti i Docenti e collaboratori profonderanno il massimo impegno per sostenere il vostro cammino e per corrispondere alla fiducia che voi e le vostre famiglie riponete oggi in questa giovane Università».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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